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Lettera Apostolica Totum amoris est del Santo Padre Francesco nel IV centenario della morte di San Francesco di Sales, 28.12.2022


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Testo in lingua italiana

LETTERA APOSTOLICA

TOTUM AMORIS EST

DEL SANTO PADRE

FRANCESCO

NEL IV CENTENARIO DELLA MORTE

DI SAN FRANCESCO DI SALES

«Tutto appartiene all’amore».[1] In queste sue parole possiamo raccogliere l’eredità spirituale lasciata da San Francesco di Sales, che morì quattro secoli fa, il 28 dicembre 1622, a Lione. Aveva poco più di cinquant’anni ed era vescovo e principe “esule” di Ginevra da un ventennio. A Lione era giunto in seguito alla sua ultima incombenza diplomatica. Il duca di Savoia gli aveva chiesto di accompagnare ad Avignone il Cardinale Maurizio di Savoia. Insieme avrebbero reso omaggio al giovane re Luigi XIII, di ritorno verso Parigi, risalendo la valle del Rodano, a seguito di una vittoriosa campagna militare nel sud della Francia. Stanco e malandato di salute, Francesco si era messo in viaggio per puro spirito di servizio. «Se non fosse grandemente utile al loro servizio che io faccia questo viaggio, avrei certamente molte buone e solide ragioni per esimermene; però, se si tratta del loro servizio, vivo o morto, non mi tirerò indietro, ma andrò o mi farò trascinare».[2]Era questo il suo temperamento. Giunto, infine, a Lione, prese alloggio presso il monastero delle Visitandine, nella casa del giardiniere, per non recare troppo disturbo e insieme essere più libero di incontrare chiunque lo desiderasse.

Ormai da tempo assai poco impressionato dalle «instabili grandezze della corte»,[3]aveva consumato anche i suoi ultimi giorni svolgendo il ministero di pastore in un susseguirsi di appuntamenti: confessioni, conversazioni, conferenze, prediche, e le ultime, immancabili lettere di amicizia spirituale. La ragione profonda di questo stile di vita pieno di Dio gli si era fatta sempre più chiara nel tempo, ed egli l’aveva formulata con semplicità ed esattezza nel suo celebreTrattato dell’amore di Dio: «Se l’uomo pensa con un po’ di attenzione alla divinità, immediatamente sente una qual dolce emozione al cuore, il che prova che Dio è il Dio del cuore umano».[4]È la sintesi del suo pensiero. L’esperienza di Dio è un’evidenza del cuore umano. Essa non è una costruzione mentale, piuttosto è un riconoscimento pieno di stupore e di gratitudine, conseguente alla manifestazione di Dio. È nel cuore e attraverso il cuore che si compie quel sottile e intenso processo unitario in virtù del quale l’uomo riconosce Dio e, insieme, sé stesso, la propria origine e profondità, il proprio compimento, nella chiamata all’amore. Egli scopre che la fede non è un moto cieco, ma anzitutto un atteggiamento del cuore. Tramite essa l’uomo si affida a una verità che appare alla coscienza come una “dolce emozione”, capace di suscitare un corrispondente e irrinunciabile ben-volere per ogni realtà creata, come lui amava dire.

In questa luce si comprende come per San Francesco di Sales non ci fosse posto migliore per trovare Dio e aiutare a cercarlo che nel cuore di ogni donna e uomo del suo tempo. Lo aveva imparato osservando con fine attenzione sé stesso, fin nella sua prima giovinezza, e scrutando il cuore umano.

Col senso intimo di una quotidianità abitata da Dio, aveva lasciato nell’ultimo incontro di quei giorni di Lione, alle sue Visitandine, l’espressione con la quale in seguito avrebbe voluto fosse sigillata in loro la sua memoria: «Ho riassunto tutto in queste due parole quando vi ho detto di non rifiutare nulla, né desiderare nulla; non ho altro da dirvi».[5]Non era, tuttavia, un esercizio di puro volontarismo, «una volontà senza umiltà»,[6]quella sottile tentazione del cammino verso la santità che la confonde con la giustificazione mediante le proprie forze, con l’adorazione della volontà umana e della propria capacità, «che si traduce in un autocompiacimento egocentrico ed elitario privo del vero amore».[7]Tanto meno si trattava di un puro quietismo, un abbandono passivo senza affetti a una dottrina senza carne e senza storia.[8]Piuttosto, nasceva dalla contemplazione della vita stessa del Figlio incarnato. Era il 26 dicembre, e il Santo parlava alle Suore nel vivo del mistero del Natale: «Vedete Gesù Bambino nella greppia? Riceve tutte le ingiurie del tempo, il freddo e tutto quello che il Padre permette che gli accada. Non rifiuta le piccole consolazioni che sua madre gli dà, e non è scritto che tenda mai le sue mani per avere il seno di sua Madre, ma lasciò tutto alla cura e alla preveggenza di lei; così non dobbiamo desiderare nulla né rifiutare nulla, sopportando tutto ciò che Dio ci invierà, il freddo e le ingiurie del tempo».[9]Commuove la sua attenzione nel riconoscere come indispensabile la cura di ciò che è umano. Alla scuola dell’incarnazione aveva, dunque, imparato a leggere la storia e ad abitarla con fiducia.

Il criterio dell’amore

Attraverso l’esperienza aveva riconosciuto il desiderio come la radice di ogni vera vita spirituale e, al tempo stesso, quale luogo della sua contraffazione. Per questo, raccogliendo a piene mani dalla tradizione spirituale che lo aveva preceduto, aveva compreso l’importanza di mettere costantemente il desiderio alla prova, mediante un continuo esercizio di discernimento. Il criterio ultimo per la sua valutazione lo aveva ritrovato nell’amore. Sempre in quell’ultimo trattenimento a Lione, nella festa di S. Stefano, due giorni prima della sua morte aveva detto: «È l’amore che dà perfezione alle nostre opere. Vi dico ben di più. Ecco una persona che soffre il martirio per Dio con un’oncia di amore; ella merita molto, dato che non si potrebbe donare di più la propria vita; ma un’altra persona che non soffrirà che una graffiatura con due once d’amore avrà un merito molto maggiore, perché sono la carità e l’amore che danno valore alle nostre opere».[10]

Con sorprendente concretezza aveva continuato, illustrando il difficile rapporto tra contemplazione e azione: «Sapete o dovreste sapere che la contemplazione è in sé migliore dell’azione e della vita attiva; ma se nella vita attiva si trova maggiore unione [con Dio], allora essa è migliore. Se una sorella che è in cucina e tiene la padella sul fuoco ha maggior amore e carità di un’altra, il fuoco materiale non la frenerà, ma l’aiuterà a essere più gradita a Dio. Accade abbastanza sovente che si sia uniti a Dio nell’azione come nella solitudine; alla fine, torno sempre alla questione del dove si trovi maggior amore».[11]Ecco la domanda vera che supera di slancio ogni inutile rigidità o ripiegamento su sé stessi: chiedersi in ogni momento, in ogni scelta, in ogni circostanza della vita dove si trova il maggiore amore. Non a caso San Francesco di Sales è stato chiamato da San Giovanni Paolo II «Dottore dell’amore divino»,[12]non solo per averne scritto un poderosoTrattato, ma soprattutto perché ne è stato testimone. D’altra parte, i suoi scritti non si possono considerare come una teoria composta a tavolino, lontano dalle preoccupazioni dell’uomo comune. Il suo insegnamento, infatti, è nato da un attento ascolto dell’esperienza. Egli non ha fatto che trasformare in dottrina ciò che viveva e leggeva con acutezza, illuminata dallo Spirito, nella sua singolare e innovativa azione pastorale. Una sintesi di questo modo di procedere la si ritrova nellaPrefazioneallo stessoTrattato dell’amore di Dio: «Nella santa Chiesa tutto appartiene all’amore, vive nell’amore, si fa per amore e viene dall’amore».[13]

Gli anni della prima formazione: l’avventura del conoscersi in Dio

Era nato il 21 agosto 1567, nel castello di Sales, vicino a Thorens, da François de Nouvelles, signore di Boisy, e da Françoise de Sionnaz. «Vissuto a cavallo tra due secoli, il Cinquecento e il Seicento, raccolse in sé il meglio degli insegnamenti e delle conquiste culturali del secolo che finiva, riconciliando l’eredità dell’umanesimo con la spinta verso l’assoluto propria delle correnti mistiche».[14]

Dopo la formazione culturale iniziale, prima nel collegio di La Roche-sur-Foron e poi in quello di Annecy, giunse a Parigi, al collegio gesuitico Clermont, di recente fondazione. Nella capitale del Regno di Francia, devastata dalle guerre di religione, sperimentò a breve distanza due consecutive crisi interiori, che segneranno indelebilmente la sua vita. Quella ardente preghiera fatta nella chiesa di Saint-Étienne-des-Grès, davanti alla Madonna Nera di Parigi, gli accenderà nel cuore, in mezzo all’oscurità, una fiamma che resterà viva in lui per sempre, quale chiave di lettura della propria e altrui esperienza. «Qualsiasi cosa accada, Signore, tu che tieni tutto nelle tue mani e le cui vie sono tutte giustizia e verità, […] io ti amerò, Signore […], ti amerò qui, o mio Dio, e spererò sempre nella tua misericordia, e sempre ripeterò la tua lode. […] O Signore Gesù, tu sarai sempre la mia speranza e la mia salvezza nella terra dei viventi».[15]

Così aveva annotato nel suo quaderno, ritrovando la pace. E questa esperienza, con le sue inquietudini e i suoi interrogativi, rimarrà per lui sempre illuminante e gli darà una singolare via di accesso al mistero del rapporto di Dio con l’uomo. Lo aiuterà ad ascoltare la vita degli altri e a riconoscere, con fine discernimento, l’atteggiamento interiore che unisce il pensiero al sentire, la ragione agli affetti, e che chiama per nome il “Dio del cuore umano”. Per questa via Francesco non ha corso il pericolo di attribuire un valore teorico alla propria esperienza personale, assolutizzandola, ma ha imparato qualcosa di straordinario, frutto della grazia: leggere in Dio il proprio e altrui vissuto.

Malgrado egli non abbia mai preteso di elaborare un vero e proprio sistema teologico, la sua riflessione sulla vita spirituale ha avuto una eminente dignità teologica. Emergono in lui i tratti essenziali del fare teologia, per la qualenon bisogna mai dimenticare due dimensioni costitutive. La prima è propriolavita spirituale, perché è nella preghiera umile e perseverante, nell’apertura allo Spirito Santo, che si può cercare di intendere ed esprimere il Verbo di Dio; teologi si diventa nel crogiolo della preghiera. La seconda dimensione èlavita ecclesiale: sentire nella Chiesa e con la Chiesa. Anche la teologia ha risentito della cultura individualistica, ma il teologo cristiano elabora il suo pensiero immerso nella comunità, spezzando in essa il pane della Parola.[16]La riflessione di Francesco di Sales, a margine delle dispute di scuola della sua epoca e pur con rispetto verso di esse, nasce precisamente da questi due tratti costitutivi.

La scoperta di un mondo nuovo

Terminati gli studi umanistici, proseguì con quelli di diritto all’Università di Padova. Rientratoad Annecy, aveva ormai deciso l’orientamento della sua vita, nonostante le resistenze paterne. Ordinato sacerdote il 18 dicembre 1593, nei primi giorni di settembre dell’anno seguente, su invito del vescovo, Mons. Claude de Granier, fu chiamato alla difficile missione nello Chablais, territorio appartenente alla diocesi di Annecy, di confessione calvinista, nuovamente passato, nell’intricato dedalo di guerre e trattati di pace, sotto il controllo del ducato di Savoia. Furono anni intensi e drammatici. Qui scoprì, insieme a qualche rigida intransigenza che in seguito gli darà da pensare, le proprie doti di mediatore e uomo di dialogo. Si mostrò, inoltre, inventore di originali e audaci prassi pastorali, come i famosi “fogli volanti”, appesi ovunque e fatti scivolare persino sotto le porte delle case.

Nel 1602 fece ritorno a Parigi, impegnato a svolgere una delicata missione diplomatica, per conto dello stesso Granier e su precisa indicazione della Sede Apostolica, in seguito all’ennesimo mutamento del quadro politico-religioso del territorio della diocesi di Ginevra. Nonostante la buona disposizione d’intenti da parte del re di Francia, la missione fu fallimentare. Lui stesso scrisse a Papa Clemente VIII: «Dopo nove mesi interi, sono stato costretto a tornare sui miei passi senza aver concluso quasi nulla».[17]Eppure quella missione si rivelò per lui e per la Chiesa di una ricchezza inattesa sotto il profilo umano, culturale e religioso. Nel tempo libero concesso dai negoziati diplomatici, Francesco predicò alla presenza del re e della corte di Francia, intrecciò relazioni importanti e, soprattutto, si immerse totalmente nella prodigiosa primavera spirituale e culturale della moderna capitale del Regno.

Lì tutto era cambiato e stava cambiando. Lui stesso si lasciò toccare e interrogare dai grandi problemi insorgenti del mondo e dal modo nuovo di osservarli, dalla sorprendente domanda di spiritualità che era nata, come dalle inedite questioni che essa poneva. In breve, si accorse di un vero “passaggio d’epoca”, cui occorreva rispondere attraverso linguaggi antichi e nuovi. Non era certo la prima volta che incontrava dei cristiani ferventi, ma si trattava di qualcosa di diverso. Non era la Parigi sconvolta dalle guerre di religione, che aveva visto nei suoi anni di formazione, e neppure la lotta aspra sostenuta nei territori dello Chablais. Era una realtà inattesa: una folla «di santi, di veri santi, numerosi e dappertutto».[18]C’erano uomini e donne di cultura, professori della Sorbona, rappresentanti delle istituzioni, principi e principesse e servi e serve, religiosi e religiose. Un mondo variamente assetato di Dio.

Incontrare quelle persone e riconoscere le loro domande fu una delle circostanze provvidenziali più importanti della sua vita. Giorni apparentemente inutili e fallimentari si trasformarono, in tal modo, in una scuola incomparabile, al fine di leggere, senza mai blandirli, gli umori del tempo. In lui, l’abile e infaticabile controversista si andava trasformando, per grazia, in un fine interprete del tempo e straordinario direttore d’anime. La sua azione pastorale, le grandi opere (Introduzionealla vita devotaeTrattato dell’amore di Dio), le migliaia di lettere di amicizia spirituale che ne verranno, inviate dentro e fuori le mura dei conventi e dei monasteri a religiosi e monache, a uomini e donne di corte come alla gente comune, l’incontro con Giovanna Francesca di Chantal e la stessa fondazione dellaVisitazionenel 1610, risulterebbero incomprensibili senza questa svolta interiore. Vangelo e cultura trovavano allora una sintesi feconda, da cui derivava l’intuizione di un metodo vero e proprio, giunto a maturazione e pronto per un raccolto durevole e promettente.

In una delle primissime lettere di direzione e amicizia spirituale, inviata a una delle comunità visitate a Parigi, Francesco di Sales parla, pur con umiltà, di un “suo metodo”, che si differenzia da altri, in vista di una vera riforma. Un metodo che rinuncia all’asprezza e conta pienamente sulla dignità e capacità di un’anima devota, nonostante le sue debolezze: «Mi viene il dubbio che si possa opporre alla vostra riforma anche un altro impedimento: forse coloro che ve l’hanno imposta, hanno curato la piaga con troppa durezza. […] Io lodo il loro metodo, sebbene non sia quello che soglio usare, specialmente nei riguardi di spiriti nobili e ben educati come i vostri. Credo che sia meglio limitarsi a mostrar loro il male e mettere il bisturi nelle loro mani, perché pratichino essi stessi l’incisione necessaria. Ma non tralasciate per questo la riforma di cui avete bisogno».[19]Traspare in queste parole quello sguardo che ha reso celebre l’ottimismo salesiano e che ha lasciato la sua impronta durevole nella storia della spiritualità, per fioriture successive, come nel caso di don Bosco due secoli dopo.

Rientrato ad Annecy, fu ordinato vescovo l’8 dicembre dello stesso anno 1602. L’influsso del suo ministero episcopale sull’Europa dell’epoca e dei secoli successivi appare immenso. «È apostolo, predicatore, scrittore, uomo d’azione e di preghiera; impegnato a realizzare gli ideali del Concilio di Trento; coinvolto nella controversia e nel dialogo con i protestanti, sperimentando sempre più, al di là del necessario confronto teologico, l’efficacia della relazione personale e della carità; incaricato di missioni diplomatiche a livello europeo, e di compiti sociali di mediazione e di riconciliazione».[20]Soprattutto è interprete del cambiamento d’epoca e guida delle anime in un tempo che, in modo nuovo, ha sete di Dio.

La carità fa tutto per i suoi figli

Tra il 1620 e il ‘21, dunque ormai sul limitare della sua vita, Francesco indirizzava a un sacerdote della sua Diocesi parole capaci di illuminare la sua visione dell’epoca. Lo incoraggiava ad assecondare il suo desiderio di dedicarsi alla scrittura di testi originali, capaci di intercettare i nuovi interrogativi, intuendone la necessità. «Vi devo dire che la conoscenza che vado acquisendo ogni giorno degli umori del mondo mi porta ad augurarmi appassionatamente che la divina Bontà ispiri qualcuno dei suoi servi a scrivere secondo il gusto di questo povero mondo».[21]La ragione di questo incoraggiamento la trovava nella propria visione del tempo: «Il mondo sta divenendo così delicato, che fra poco non si oserà più toccarlo, se non con guanti di velluto, né medicare le sue piaghe, se non con impiastri di cipolla; ma che importa, se gli uomini vengono guariti e, in definitiva, vengono salvati? La nostra regina, la carità, fa tutto per i suoi figli».[22]Non è un tratto scontato, tanto meno una resa finale di fronte a una sconfitta. Era, piuttosto, l’intuizione di un cambiamento in atto e dell’esigenza, tutta evangelica, di capire come poterlo abitare.

La medesima consapevolezza, del resto, l’aveva maturata ed espressa introducendo ilTrattato dell’amore di Dio, nellaPrefazione: «Ho tenuto presente la mentalità delle persone di questo secolo e non potevo fare diversamente; è molto importante tener conto del tempo in cui si scrive».[23]Chiedendo, poi, la benevolenza del lettore affermava: «Se trovi che lo stile è un po’ diverso da quello usato nellaFilotea, ed entrambi molto distanti da quello dellaDifesa della croce, tieni presente che in diciannove anni si imparano e si dimenticano molte cose; che il linguaggio della guerra è diverso da quello della pace e che ai giovani principianti si parla in un modo, ai vecchi compagni in un altro».[24]Ma, di fronte a questo cambiamento, da dove iniziare? Non lontano dalla stessa storia di Dio con l’uomo. Di qui l’intento ultimo del suoTrattato: «In realtà mi sono proposto soltanto di rappresentare con semplicità e genuinità, senza artifici e, a maggior ragione, senza fronzoli, la storia della nascita, della crescita, della decadenza, delle operazioni, delle proprietà, dei vantaggi e delle eccelse qualità dell’amore divino».[25]

Le domande di un passaggio d’epoca

Nella ricorrenza del quarto centenario della sua morte, mi sono interrogato sull’eredità di San Francesco di Sales per la nostra epoca, e ho trovato illuminanti la sua duttilità e la sua capacità di visione. Un po’ per dono di Dio, un po’ per indole personale, e anche per la sua tenace coltivazione del vissuto, egli aveva avuto la nitida percezione del cambiamento dei tempi. Lui stesso non avrebbe mai immaginato di riconoscervi una tale opportunità per l’annuncio del Vangelo. La Parola che aveva amato fin dalla sua giovinezza era capace di farsi largo, aprendo nuovi e imprevedibili orizzonti, in un mondo in rapida transizione.

È quanto ci attende come compito essenziale anche per questo nostro passaggio d’epoca: una Chiesa non autoreferenziale, libera da ogni mondanità ma capace di abitare il mondo, di condividere la vita della gente, di camminareinsieme, di ascoltare e accogliere.[26]È quello che Francesco di Sales ha compiuto, leggendo, con l’aiuto della grazia, la sua epoca. Perciò egli ci invita a uscire da una preoccupazione eccessiva per noi stessi, per le strutture, per l’immagine sociale e a chiederci piuttosto quali sono i bisogni concreti e le attese spirituali del nostro popolo.[27]È importante, dunque, anche per l’oggi, rileggere alcune sue scelte cruciali, per abitare il cambiamento con saggezza evangelica.

La brezza e le ali

La prima di tali scelte è stata quella di rileggere e riproporre a ciascuno, nella sua specifica condizione, la felice relazione tra Dio e l’essere umano. In fondo, la ragione ultima e lo scopo concreto delTrattatoè proprio quello di illustrare ai contemporanei il fascino dell’amore di Dio. «Quali sono – egli si chiede – le corde abituali per mezzo delle quali la divina Provvidenza è solita attirare i nostri cuori al suo amore?».[28]Prendendo suggestivamente avvio dal testo di Osea 11,4,[29]definisce tali mezzi ordinari come «legami di umanità o di carità e amicizia».«È fuor di dubbio – scrive –, che non siamo attirati verso Dio con catene di ferro, come tori e bufali, ma mediante inviti, attrattive deliziose, e sante ispirazioni, che poi sono ilegami di Adamo e dell’umanità; ossia adatti e convenienti al cuore umano, per il quale la libertà è naturale».[30]È tramite questi legami che Dio ha tratto il suo popolo dalla schiavitù, insegnandogli a camminare, tenendolo per mano, come fa un papà o una mamma col proprio bimbo. Nessuna imposizione esterna, dunque, nessuna forza dispotica e arbitraria, nessuna violenza. Piuttosto, la forma persuasiva di un invito che lascia intatta la libertà dell’uomo. «La grazia – prosegue pensando certamente a tante storie di vita incontrate – ha forza, non per costringere, ma per attirare il cuore; possiede una santa violenza, non per violare, ma per rendere amorosa la nostra libertà; agisce con forza, ma tanto soavemente che la nostra volontà non rimane schiacciata sotto un’azione così potente; ci spinge, ma non soffoca la nostra libertà: per cui ci è possibile, di fronte a tutta la sua potenza, consentire o resistere ai suoi movimenti, a nostro piacimento».[31]

Poco prima aveva abbozzato tale rapporto nel curioso esempio dell’“apodo”: «Ci sono certi uccelli, Teotimo, che Aristotele chiama “apodi”, perché hanno gambe talmente corte e piedi così deboli, che non se ne possono servire, proprio come se non li avessero; e se, per caso, si appoggiano a terra, ci rimangono, senza poter riprendere il volo da soli, perché, non avendo l’uso delle gambe, né quello dei piedi, non hanno modo di spingersi e lanciarsi in aria; per cui rimangono accovacciati per terra e vi muoiono, a meno che il vento, sostituendosi alla loro incapacità, con folate sul terreno li prenda e li sollevi, come fa con molte altre cose. In tal caso se, servendosi delle ali, assecondano lo slancio e la prima spinta che dà loro il vento, lo stesso vento continua a venire in loro aiuto spingendoli sempre più in alto per aiutarli e riprendere il volo».[32]Così è l’uomo: fatto da Dio per volare e dispiegare tutte le sue potenzialità nella chiamata all’amore, rischia di diventare incapace di spiccare il volo quando cade a terra e non acconsente a riaprire le ali alla brezza dello Spirito.

Ecco, dunque, la “forma” attraverso la quale la grazia di Dio si destina agli uomini: quella dei preziosi e umanissimi legami di Adamo. La forza di Dio non smette di essere assolutamente capace di restituire il volo e, tuttavia, la sua dolcezza fa in modo che la libertà del consenso ad esso non sia violata o inutile. Spetta all’uomo alzarsi o non alzarsi. Benché la grazia lo abbia toccato al risveglio, senza di lui, essa non vuole che l’uomo si alzi senza il suo consenso. Così egli trae la sua riflessione conclusiva: «Teotimo, le ispirazioni ci prevengono e si fanno sentire prima che ce ne rendiamo conto, ma dopo che le abbiamo avvertite, spetta a noi acconsentirvi assecondando e seguendo i loro impulsi, o dissentire e respingerle: si fanno sentire in noi senza di noi, ma non si fanno acconsentire senza di noi».[33]Pertanto, nella relazione con Dio, si tratta sempre di un’esperienza di gratuità, che attesta la profondità dell’amore del Padre.

Tuttavia, questa grazia non rende mai l’uomo passivo. Essa porta a comprendere che si è radicalmente preceduti dall’amore di Dio, e che il suo primo dono consiste proprio nel riceversi dal suo stesso amore. Ciascuno, però, ha il dovere di cooperare al proprio compimento, dispiegando con fiducia le proprie ali alla brezza di Dio. Qui vediamo un aspetto importante della nostra vocazione umana: «Il compito che Dio affida ad Adamo e a Eva nel racconto della Genesi è di essere fecondi. All’umanità è stato dato l’incarico di cambiare, costruire e dominare la creazione, un compito positivo che significa creare da essa e con essa. Quindi il futuro non dipende da un meccanismo invisibile di cui gli esseri umani sono spettatori passivi. No, siamo protagonisti, siamo – forzando la parola –cocreatori».[34]È quanto Francesco di Sales ha ben compreso e ha cercato di trasmettere nel suo ministero di guida spirituale.

La vera devozione

Una seconda grande scelta cruciale è stata quella di aver messo a tema la questione della devozione. Anche in questo caso, come ai nostri giorni, il nuovo passaggio d’epoca aveva sollevato, in merito, non pochi interrogativi. In particolare, due aspetti chiedono di essere compresi anche oggi e rilanciati. Il primo riguarda l’idea stessa di devozione, il secondo, il suo carattere universale e popolare. Indicare, anzitutto, cosa si intenda per devozione, è la prima attenzione che troviamo all’inizio diFilotea: «Ènecessario, prima di tutto, che tu sappia che cos’è la virtù della devozione. Di vera ce n’è una sola, ma di false e vane ce ne sono tante; e se non sai distinguere la vera, puoi cadere in errore e perdere tempo correndo dietro a qualche devozione assurda e superstiziosa».[35]

Gustosa e sempre attuale è la descrizione di Francesco di Sales della falsa devozione, in cui non ci è difficile ritrovarci, non senza una efficace punta di sano umorismo: «Chi si consacra al digiuno, penserà di essere devoto perché non mangia, mentre ha il cuore pieno di rancore; e mentre non se la sente di bagnare la lingua nel vino e neppure nell’acqua, per amore della sobrietà, non avrà alcuno scrupolo nel tuffarla nel sangue del prossimo con la maldicenza e la calunnia. Un altro penserà di essere devoto perché biascica tutto il giorno una filza interminabile di preghiere; e non darà peso alle parole cattive, arroganti e ingiuriose che la sua lingua rifilerà, per il resto della giornata, a domestici e vicini. Qualche altro metterà mano volentieri al portafoglio per fare l’elemosina ai poveri, ma non riuscirà a cavare un briciolo di dolcezza dal cuore per perdonare i nemici; ci sarà poi l’altro che perdonerà i nemici, ma di pagare i debiti non gli passerà neanche per la testa; ci vorrà il tribunale».[36]Sono evidentemente vizi e fatiche di sempre, anche di oggi, per cui il Santo conclude: «Tutta questa brava gente, dall’opinione comune è considerata devota, ma non lo è per niente».[37]

La novità e la verità della devozione, invece, si trovano altrove, in una radice profondamente legata alla vita divina in noi. In tal modo «la vera e viva devozione[…]esige l’amore di Dio, anzi non è altro che un vero amore di Dio; non un amore genericamente inteso».[38]Nella sua fervente immaginazione essa non è che, «a dirla in breve, una sorta di agilità e vivacità spirituale per mezzo della quale la carità agisce in noi o, se vogliamo, noi agiamo per mezzo suo, con prontezza e affetto».[39]Per questo essa non si pone accanto alla carità, ma è una sua manifestazione e, insieme, conduce ad essa. È come una fiamma rispetto al fuoco: ne ravviva l’intensità, senza mutarne la qualità. «In conclusione, si può dire che la carità e la devozione differiscono tra loro come il fuoco dalla fiamma; la carità è un fuoco spirituale, che quando brucia con una forte fiamma si chiama devozione: la devozione aggiunge al fuoco della carità solo la fiamma che rende la carità pronta, attiva e diligente, non soltanto nell’osservanza dei Comandamenti di Dio, ma anche nell’esercizio dei consigli e delle ispirazioni del cielo».[40]Una devozione così intesa non ha nulla di astratto. È, piuttosto, uno stile di vita, un modo di essere nel concreto dell’esistenza quotidiana. Essa raccoglie e interpreta le piccole cose di ogni giorno, il cibo e il vestito, il lavoro e lo svago, l’amore e la generazione, l’attenzione agli obblighi professionali; in sintesi, illumina la vocazione di ognuno.

Si intuisce qui la radice popolare della devozione, affermata fin dalle prime battute diFilotea: «Quasi tutti quelli che hanno trattato della devozione si sono interessati di istruire persone separate dal mondo o, perlomeno,hanno insegnato un tipo di devozione che porta a questo isolamento. Io intendo offrire i miei insegnamenti a quelli che vivono nelle città, in famiglia, a corte, e che, in forza del loro stato, sono costretti, dalle convenienze sociali, a vivere in mezzo agli altri».[41]È per questo che si sbaglia di molto chi pensa di relegare la devozione a qualche ambito protetto e riservato. Piuttosto, essa è di tutti e per tutti, ovunque siamo, e ciascuno la può praticare secondo la propria vocazione. Come scriveva San Paolo VI nel quarto centenario della nascita di Francesco di Sales, «la santità non è prerogativa dell’uno o dell'altro ceto; ma a tutti i cristiani è rivolto il pressante invito: “Amico, sali più in alto” (Lc14,10); tutti sono vincolati dall’obbligo di salire il monte di Dio, anche se non tutti per la stessa via. “La devozione dev’essere esercitata in modo diverso dal gentiluomo, dall’artigiano, dal cameriere, dal principe, dalla vedova, dalla giovane, dalla sposa. Ancor più, la pratica della devozione deve essere adattata alle forze, agli affari e ai doveri di ognuno”».[42]Attraversare la città secolare, custodendo l’interiorità, coniugare il desiderio di perfezione con ogni stato di vita, ritrovando un centro che non si separa dal mondo, ma insegna ad abitarlo, ad apprezzarlo, imparando anche a prendere le giuste distanze da esso: questo era il suo intento, e continua a essere una lezione preziosa per ogni donna e uomo del nostro tempo.

È questo il tema conciliare della vocazione universale alla santità: «Muniti di salutari mezzi di una tale abbondanza e di una tale grandezza, tutti i fedeli di ogni stato e condizione sono chiamati dal Signore, ognuno per la sua via, a una santità la cui perfezione è quella stessa del Padre celeste».[43]“Ognuno per la sua via”. «Dunque, non è il caso di scoraggiarsi quando si contemplano modelli di santità che appaiono irraggiungibili».[44]La madre Chiesa ce li propone non perché cerchiamo di copiarli, ma perché ci spronino a camminare sullavia unica e specifica che il Signore ha pensato per noi. «Quello che conta è che ciascun credente discerna la propria strada e faccia emergere il meglio di sé, quanto di così personale Dio ha posto in lui (cfr1 Cor12,7)».[45]

L’estasi della vita

Tutto questo ha condotto il santo Vescovo a considerare la vita cristiana nella sua interezza come«l’estasi dell’azione e della vita».[46]Essa, però, non va confusa con una facile fuga o una ritirata intimistica, tanto meno con un’obbedienza triste e grigia. Sappiamo che questo pericolo è sempre presente nella vita di fede. Infatti «ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza Pasqua. […] Capisco le persone che inclinano alla tristezza per le gravi difficoltà che devono patire, però poco alla volta bisogna permettere che la gioia della fede cominci a destarsi, come una segreta ma ferma fiducia, anche in mezzo alle peggiori angustie».[47]

Permettere alla gioia di destarsi è proprio quanto Francesco di Sales esprime nel descrivere l’“estasi dell’azione e della vita”. Grazie ad essa «non viviamo soltanto una vita civile, onesta e cristiana, ma una vita sovrumana, spirituale, devota ed estatica, ossia una vita che in ogni caso è fuori e al di sopra della nostra condizione naturale».[48]Ci troviamo qui nelle pagine centrali e più luminose delTrattato. L’estasi è l’eccesso felice della vita cristiana, lanciata oltre la mediocrità della mera osservanza: «Non rubare, non mentire, non commettere lussuria, pregare Dio, non giurare invano, amare e onorare il padre, non uccidere, è vivere secondo la ragione naturale dell’uomo; ma abbandonare tutti i nostri beni, amare la povertà, chiamarla e ritenerla una deliziosa padrona, considerare gli obbrobri, il disprezzo, le abiezioni, le persecuzioni, i martiri come felicità e beatitudini, mantenersi nei limiti di un’assoluta castità, e infine vivere nel mondo e in questa vita mortale contro tutte le opinioni e le massime del mondo e contro la corrente del fiume di questa vita, con abituale rassegnazione, rinuncia e abnegazione di noi stessi, non è vivere secondo la natura umana, ma al di sopra di essa; non è vivere in noi, ma fuori di noi e al di sopra di noi: e siccome nessuno può uscire in questo modo al di sopra di se stesso se non l’attira l’eterno Padre, ne consegue che tale modo di vivere deve essere un rapimento continuo e un’estasi perpetua d’azione e di operazione».[49]

È una vita che ha ritrovato le sorgenti della gioia, contro ogni suo inaridimento, contro la tentazione di ripiegarsi su di sé. In effetti, «il grande rischio del mondo attuale, con la sua molteplice e opprimente offerta di consumo, è una tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata. Quando la vita interiore si chiude nei propri interessi non vi è più spazio per gli altri, non entrano più i poveri, non si ascolta più la voce di Dio, non si gode più della dolce gioia del suo amore, non palpita l’entusiasmo di fare il bene. Anche i credenti corrono questo rischio, certo e permanente. Molti vi cadono e si trasformano in persone risentite, scontente, senza vita».[50]

Alla descrizione dell’“estasi dell’azione e della vita” San Francesco aggiunge, infine, due precisazioni importanti, anche per il nostro tempo. La prima riguarda un criterio efficace per il discernimento della verità di questo stesso stile di vita. La seconda, circa la sua sorgente profonda. Quanto al criterio di discernimento, egli afferma che, se da un lato tale estasi comporta un vero e proprio uscire da sé stessi, dall’altro questo non significa un abbandono della vita. È importante non dimenticarlo mai, per evitare pericolose deviazioni. In altre parole, chi presume di elevarsi verso Dio, ma non vive la carità per il prossimo, inganna sé stesso e gli altri.

Ritroviamo qui lo stesso criterio che egli applicava alla qualità della vera devozione. «Quando si incontra una persona che nell’orazione ha dei rapimenti per mezzo dei quali esce e sale al di sopra di se stessa fino a Dio, e tuttavia non ha estasi della vita, ossia non conduce una vita elevata e congiunta a Dio, […] soprattutto per mezzo di una continua carità, credimi, Teotimo, tutti i suoi rapimenti sono molto dubbi e pericolosi». Molto efficace è la sua conclusione: «Essere sopra di se stessi nell’orazione e al di sotto di se stessi nella vita e nell’azione, essere angelici nella meditazione e animali nella conversazione […] è un vero segno che tali rapimenti e tali estasi non sono che divertimenti e inganni dello spirito maligno».[51]È, in sostanza, quanto già Paolo ricordava ai Corinti nell’inno alla carità:«Se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe» (1 Cor13, 2-3).

Per San Francesco di Sales, dunque, la vita cristiana non è mai senza estasi e, tuttavia, l’estasi non è autentica senza la vita. Infatti, la vita senza l’estasi rischia di ridursi a un’obbedienza opaca, a un Vangelo che ha dimenticato la sua gioia. D’altro lato, l’estasi senza la vita si espone facilmente all’illusione e all’inganno del Maligno. Le grandi polarità della vita cristiana non si possono risolvere l’una nell’altra. Semmai l’una mantiene l’altra nella sua autenticità. In tal modo, la verità non è senza giustizia, il compiacimento senza responsabilità, la spontaneità senza legge; e viceversa.

Quanto invece alla sorgente profonda di questa estasi, egli la lega sapientemente all’amore manifestato dal Figlio incarnato. Se, da un lato, è vero che «l’amore è il primo atto e il principio della nostra vita devota o spirituale, per mezzo della quale viviamo, sentiamo, ci commuoviamo» e, dall’altro, che «la vita spirituale è tale quali sono i nostri movimenti affettivi», è chiaro che «un cuore che non ha affetto non ha amore», come pure che «un cuore che ha amore non è senza movimento affettivo».[52]Ma la sorgente di questo amore che attrae il cuore è la vita di Gesù Cristo:«Niente fa pressione sul cuore dell’uomo quanto l’amore», e il culmine di tale pressione è che «Gesù Cristo è morto per noi, ci ha dato la vita con la sua morte. Noi viviamo soltanto perché egli è morto ed è morto per noi, a nostro vantaggio e in noi».[53]

Commuove questa indicazione che manifesta, oltre a una visione illuminata e non scontata del rapporto tra Dio e l’uomo, lo stretto legame affettivo che legava il santo Vescovo al Signore Gesù. La verità dell’estasi della vita e dell’azione non è generica, ma è quella che appare secondo la forma della carità di Cristo, che culmina sulla croce. Questo amore non annulla l’esistenza, ma la fa brillare di una qualità straordinaria.

È per questo che, con un’immagine bellissima, San Francesco di Sales descrive il Calvario come «il monte degli innamorati».[54]Lì, e solo lì, si comprende che «non è possibile avere la vita senza l’amore, né l’amore senza la morte del Redentore: ma fuori di là, tutto è o morte eterna o amore eterno, e tutta la sapienza cristiana consiste nel saper scegliere bene».[55]Così egli può chiudere il suoTrattatorinviando alla conclusione di un discorso di Sant’Agostino sulla carità: «Che cosa vi è di più fedele della carità? Fedele non all’effimero ma all’eterno. Essa sopporta tutto nella presente vita, per la ragione che tutto crede sulla futura vita: sopporta tutte le cose che qui ci sono date da sopportare, perché spera tutto quello che le viene promesso là. Giustamente non ha mai fine. Perciò praticate la carità e portate, meditandola santamente, frutti di giustizia. E se troverete voi, a sua lode, altre cose che io non vi abbia detto ora, lo si veda nel vostro modo di vivere».[56]

È questo ciò che traspare dalla vita del santo Vescovo di Annecy, e che è consegnato, ancora una volta, a ciascuno di noi. La ricorrenza del quarto centenario della sua nascita al cielo ci aiuti a farne devota memoria; eper sua intercessione il Signore effonda abbondanti i doni dello Spirito sul cammino del santo Popolo fedele di Dio.

Roma, San Giovanni in Laterano, 28 dicembre 2022.

FRANCESCO

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[1]S. Francesco di Sales,Traité de l’amour de Dieu, Préface: ed.Ravier – Devos, Paris 1969, 336.

[2]Id,Lett. 2103:A Monsieur Sylvestre de Saluces de la Mente, Abbé d’Hautecombe(3 nov. 1622), inŒuvres de Saint François de Sales, XXVI, Annecy 1932, 490-491.

[3]Id.,Lett. 1961:À une dame(19 dic. 1622), inŒuvres de Saint François de Sales, XX (Lettres, X:1621-1622), Annecy 1918, 395.

[4]Id.,Traité de l’amour de Dieu, I, 15: ed.Ravier – Devos, Paris 1969, 395.

[5]Id.,Entretiens spirituels, Dernier entretien [21]: ed.Ravier – Devos, Paris 1969, 1319.

[6]Esort. ap.Gaudete et exsultate(19 marzo 2018), 49:AAS110 (2018), 1124.

[7]Ibid., 57:AAS110 (2018), 1127.

[8]Cfribid., 37-39:AAS110 (2018), 1121-1122.

[9]S. Francesco di Sales,Entretiens spirituels, Dernier entretien [21]: ed.Ravier – Devos, Paris 1969, 1319.

[10]Ibid., 1308.

[11]Ibid.

[12]Lettera a Mons. Yves Boivineau, Vescovo di Annecy, in occasione del 400° anniversario dell’ordinazione episcopale di san Francesco di Sales, 23 novembre 2002, 3:Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XXV/2 (2002), 767.

[13]S. Francesco di Sales,Traité de l’amour de Dieu, Préface: ed.Ravier – Devos, Paris 1969, 336.

[14]Benedetto XVI,Catechesi, 2 marzo 2011:Insegnamenti, VII/1 (2011), 270.

[15]S. Francesco di Sales,Fragments d’écrits intimes, 3:Acte d’abandon heroïque, inŒuvres de Saint François de Sales, XXII (Opuscules, I), Annecy 1925, 41.

[16]CfrDiscorso allaCommissione Teologica Internazionale(29 nov. 2019):L’Osservatore Romano, 30 novembre 2019, p. 8.

[17]S. Francesco di Sales,Lett. 165:À Sa Sainteté Clément VIII(fine ottobre 1602), inŒuvres de Saint François de Sales, XII (Lettres, II:1599-1604), Annecy 1902, 128.

[18]H. Bremond,L’humanisme dévôt: 1580-1660, inHistoire littéraire du sentiment religieux en France: depuis la fin des guerres de religion jusqu’à nos jours, I, Jérôme Millon, Grenoble 2006, 131.

[19]S. Francesco di Sales,Lett. 168Aux religieuses du monastère des «Filles-Dieu»(22 novembre 1602), inŒuvres de Saint François de Sales, XII (Lettres, II:1599-1604), Annecy 1902,105.

[20]Benedetto XVI,Catechesi, 2 marzo 2011:Insegnamenti, VII/1 (2011), 272.

[21]S. Francesco di Sales,Lett. 1869:À M. Pierre Jay(1620 o 1621), inŒuvres de Saint François de Sales, XX (Lettres, X:1621-1622), Annecy 1918, 219.

[22]Ibid.

[23]Id.,Traité de l’amour de Dieu, Préface: ed.Ravier – Devos, Paris 1969, 339.

[24]Ibid., 347.

[25]Ibid., 338-339.

[26]CfrDiscorso ai vescovi, sacerdoti, religiosi, seminaristi e catechisti, Bratislava, 13 settembre 2021:L’Osservatore Romano, 13 settembre 2021, pp. 11-12.

[27]Cfribid.

[28]S. Francesco di Sales,Traité de l’amour de Dieu, II, 12: ed.Ravier – Devos, Paris 1969, 444.

[29]«Io li traevo con legami di bontà [Vulg:in funiculis Adam], con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare».

[30]S. Francesco di Sales,Traité de l’amour de Dieu, II, 12: ed.Ravier – Devos, Paris 1969, 444.

[31]Ibid., II, 12: 444-445.

[32]Ibid., II, 9: 434.

[33]Ibid., II, 12: 446.

[34]Ritorniamo a sognare. La strada per un futuro migliore, Conversazione con Austen Ivereigh, Piemme, Milano 2020, 8.

[35]S. Francesco di Sales,Introduction à la vie dévote, I, 1: ed.Ravier – Devos, Paris 1969, 31.

[36]Ibid.: 31-32.

[37]Ibid.: 32.

[38]Ibid.

[39]Ibid.

[40]Ibid.: 33.

[41]Ibid., Préface:ed.Ravier – Devos, Paris 1969, 23.

[42]Epist. Ap.Sabaudiae gemma, nel IV centenario della nascita di san Francesco di Sales, dottore della Chiesa (29 gennaio 1967):AAS59 (1967), 119.

[43]Conc. Ecum. Vat. II,Cost. dogm.Lumen gentium, 11.

[44]Esort. ap.Gaudete et exsultate, 11:AAS110 (2018), 1114.

[45]Ibid.

[46]S. Francesco di Sales,Traité de l’amour de Dieu, VII, 6: ed.Ravier – Devos, Paris 1969, 682.

[47]Esort. ap.Evangelii gaudium(24 novembre 2013),6:AAS105 (2013), 1021-1022.

[48]S. Francesco di Sales,Traité de l’amour de Dieu, VII, 6: ed.Ravier – Devos, Paris 1969, 682-683.

[49]Ibid.: 683.

[50]Esort. ap.Evangelii gaudium,2:AAS105 (2013), 1019-1020.

[51]S. Francesco di Sales,Traité de l’amour de Dieu, VII, 7: ed.Ravier – Devos, Paris 1969, 685.

[52]Ibid.: 684.

[53]Ibid., VII, 8: 687.688.

[54]Ibid., XII, 13: 971.

[55]Ibid.

[56]Discorsi, 350, 3:PL39, 1535.

[02021-IT.01] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua latina


SUMMUS PONTIFEX

FRANCISCUS

LITTERAE APOSTOLICAE

TOTUM AMORIS EST

IV CENTESIMA OCCURRENTE MEMORIA

AB OBITU SANCTI FRANCISCI DE SALES

«Totum amoris est»:[1] his verbis hereditatem spiritualem a sancto Francisco de Sales relictam colligere possumus, qui quattuor abhinc saecula, die XXVIII Decembris anni MDCXXII, Lugduni obiebat. Paulo plus quam quinquaginta annos natus, episcopus et princeps “exsul” Genevensis erat iam a viginti annorum spatio. Lugdunum venerat post ultimum legati mandatum. Sabaudiae dux ab eo petierat, ut Avenionem comitaretur Cardinalem Mauritium de Sabaudia, quocum iuvenem regem Aloisium XIII salutaturus esset Parisios redeuntem et Rhodani vallem subeuntem post secundam in meridiana Gallia militiam. Laboribus ac valetudine fractus, Franciscus mero officii studio impulsus iter inierat. «Nisi eorum officiis admodum prodesset iter hoc me facere, multae profecto mihi essent bonae ac firmae causae quare eo eximam; cum autem de eorum officiis agatur, vivus aut mortuus haud recedam, sed ibo vel sinam ut trahar».[2] Haec indoles erat eius. Cum demum Lugdunum pervenerit, in hortulani domo apud monasterium Visitandinarum devertit, ut nemini afferret molestiam ac simul cuique ei occurrere cuperet solutius vacaret.

Iamdudum «volubilibus aulae magnificentiis»[3] minime motus, in ministerio pastorali exercendo etiam ultimos dies suos per longam condictorum vicissitudinem consumpserat: confessionum scilicet, conversationum, conferentiarum, sermonum et ultimarum assiduarum epistolarum amicitiae spiritualis. Alta huius conversationis Deo enutrita clarior in dies ei facta erat ratio, quam simplicitate subtilitateque in celebri Tractatu amoris divini expesserat: «Quam primum homo attentius paulo cogitat de divinitate, sentit dulcem quandam cordis motionem, quae est argumento Deum esse Deum cordis humani».[4] Summa haec est cogitationis eius. Humani cordis perspicuitas est conversatio cum Deo. Informatio mentis nos est, sed potius recognitio stupore ac grato animo referta, quae manifestationem Dei sequitur. In corde et per cor subtilis ac flagrans concordia partium perficitur, cuius gratia homo Deum simulque se ipsum agnoscit, originem et altitudinem suam, consummationem sui in vocatione ad amorem. Fidem non caecum motum reperit, sed in primis cordis habitum. Per eam homo veritati committitur, quae conscientiae tamquam “suavis animi motus” videtur, congruentem ac sacrosanctam suscitans  bene-volentiam in universa creata, sicut ipse dicere diligebat.

In eo intellegitur Sancto Francisco de Sales nullum locum ad inveniendum Deum et ad eum quaerendum meliorem esse quam in corde uniuscuiusque mulieris et viri temporis sui. Quod didicerat iam inde a prima iuventute se ipsum perscrutans et cor humanum inquirens.

Intima cotidianitatis conscientia a Deo incultae, in extremo illorum dierum Lugduni occursu Visitandinis suis vocem reliquerat, qua memoriam suam apud easdem deinde sigillari voluit: «His duabus vocibus omnia dixi vobis: nihil recusandum, nihil cupiendum; nihil aliud mihi superest vobis dicendum».[5] Exercitium tamen non erat meri voluntatis dominatus, «voluntas sine humilitate»,[6] subtilis quaedam in itinere ad sanctitatem temptatio, qua voluntas cum iustificatione per proprias vires confunditur, cum adoratione humanae voluntatis ac propriae facultatis, «quae in sui ipsius pervenit oblectationem egocentricam et selectivam, vero amore carentem».[7] Eo minus de mero quietis dominatu agebatur, de affectuum experti obsequio doctrinae sine carne et sine historia.[8] Immo, ex eadem vitae contemplatione Filii carnis facti nascebatur. Dies erat XXVI mensis Decembris et Sanctus cum Sororibus colloquebatur in summo Nativitatis mysterii tempore: «Videtisne parvum Iesum in praesepio? Patitur omnes iniurias temporis, frigus et omne, quod illi Pater concedit evenire. Parvas Matris consolationes non recusat; nullibi scriptum invenitur quod umquam manus extenderit, ut Matris sugeret mammillas, sed illius curae et providentiae id committebat; […] sic nihil nos oportet desiderare nec recusare, omnia sufferentes, quae Deus nobis miserit, frigus et iniurias temporis».[9] Animum tangit studium eius cuiusque humani curae necessitatem agnoscendi. Incarnatione magistra, historiam ergo didicit intellegere et fidenter habitare.

Norma amoris

Omnis spiritualis conversationis radicem expertus erat desiderium una et locum eiusdem corruptionis. Proinde, e praeterita spirituali traditione plenis manibus hauriens, vim intellegerat iugi discretionis exercitio desiderii assidue pertemptandi. Rationem ultimam existimationis in amore invenit. Item in extrema illa Collocutione Lugduni in festo sancti Stephani habita, biduo ante mortem suam dixerat: «Opera nostra perficit amor. Et quaedam amplius dicam vobis. Si quis pro Deo martyrium patitur unam habens unciam caritatis, multum meretur, cum vita eius haud magis offerri posset; at si alius lacerationem modo patitur duas habens uncias caritatis, multo magis merebitur, cum caritas et dilectio amplificent opera nostra».[10]

Mirabili perspicuitate perrexerat, arduam enarrans necessitudinem conteplationis cum actione: «Scitis seu esset vobis sciendum contemplationem ipsam actione et vita actuosa esse meliorem; si autem in vita actuosa maiorem invenimus coniunctionem [cum Deo], ea melior est. Si soror culinaria patellam super igne tenens maiore dilectione et caritate quam alia flagrat, flamma corporea eam non compescet, sed adiuvabit, ut magis Deo placeat. Saepicule fit, ut in actuositate Deo coniungimur sicut in solitudine; tandem semper huc redeo, ubi maior habetur caritas».[11] Ecce vera quaestio omnem inanem severitatem vel secessum in seipsum impetu superans: omni tempore, in omni optione, in omnibus vitae adiunctis quaerere amor maior ubi sit. Haud temere sanctus Franciscus de Sales a Sancto Ioanne Paulo II «Doctor amoris divini»[12] nuncupatus est, non modo cum de eo magnum Tractatum scripserit, sed potissimum eius fuerit testis. Porro scripta eius spectari nequeunt cogitationis instar in scriptorio concepta, procul curis vulgi. Praecepta eius enim e diligenti experientiae auditione orta sunt. Qui mere in singulari novaque sua actione pastorali ea, quae vivebat et sagacitate Spiritu collustrata legebat in doctrinam flexit. Cuius agendi rationis compendium invenitur in praefatione eiusdem Tractatus amoris divini: «Totum amoris est, totum in amore vivit, totum fit propter amorem et totum ex amore venit in sancta Ecclesia».[13]

Primaevae formationis anni: eventus se in Deo cognoscendi

Die XXI mensis Augusti anno MDLXVII natus est, in castello Salesii, prope oppidum vulgo Thorens nuncupatum, ex Francisco de Nouvelles, comite de Boisy, et Francisca de Sionnaz. «Inter duo saecula vixit, decimum sextum scilicet et decimum septimum, in se optima institutionis et humani cultus inventorum saeculi illius exeuntis collegit, hereditatem studiorum humanitatis cum impulsu componens, qui mysticarum rationum est, ad Absolutum».[14]

Receptis culturalis institutionis rudimentis, primum in Collegio de La Roche sur Foron, deinde in illo Anneciensi, Lutetiam Parisiorum pervenit ad Collegium “Clermont” Societatis Iesu nuperrime fundatum. In capite Regni Galliae, religionis bellis vastato, brevi interiecto temporis spatio bis magno in interiore discrimine versatus est, quod in perpetuum eius vitam signavit. Ardens precatio illa in ecclesia S. Stephani de Gressibus facta coram effigie Dominae Nigrae Lutetiae Parisiorum in corde eius flammam incendit, quae, in mediis quidem tenebris, sempiterna in eo supererit uti clavis quaedam ad eius alteriusque experientiae vitae intellegendam. «Quidquid accidit, Domine, qui omnia in manibus fers tuis et cuius viae omnes iustitia sunt et veritas [...], ego diligam te, Domine [...], hic te diligam, Deus mi, et de misericordia tua semper sperabo ac tuam iugiter cantabo laudem. [...] Domine Iesu, spes mea et salus mea in aeternum eris in terra viventium».[15]

Sic in libello suo pacem reperiens adnotaverat. Experientia haec, sollicitudinibus quaestionibusque praedita suis, ei in perpetuum tamquam lumen supererit singularem quemdam praebens aditum ad necessitudinis Dei cum homine mysterium. Eum vero adiuvabit in narratione de alterius vita audienda atque, arguto adhibito iudicio, in interiore habitu agnoscendo, qui rationem cum perceptione iungit, intellectum cum affectibus et «Deum humani cordis» nominatim appellat. Per hanc viam Franciscus in discrimine speculativi ponderis rei personali tribuendi summam rationem eidem reddens versatus non est, sed aliquid extraordinarium didicit, gratiae fructum: in Deo scilicet vitam suam alteriusque intellegere.

Quamquam ipse numquam veram rationem theologicam exstruere conatus est, cogitatio tamen eius de vita spirituali eminentem dignitatem theologicam habuit. In eo lineamenta praecipua theologiae efficiendae eminent, cuius duarum rationum constitutivarum numquam licet oblivisci. Prima prorsus vita spiritualis est, quia in humili ac perseveranti precatione, in animo Spiritui Sancto patenti, Verbum Dei enixe intellegi et exprimi potest; theologi enim fiunt in catino orationis. Altera ratio vita ecclesialis est: sentire in Ecclesia et cum Ecclesia. Etiam theologia cultura singulorum menti innisa affecta est, sed theologus christianus quidem cogitationem suam mersus in communitate excolit, in qua Verbi frangit panem.[16] Meditatio Francisci Salesii, in margine disputationum scholasticae eius aetatis earumque tamen observantia, ex hisce sane duobus praecipuis fundamentis oritur.

Novi mundi inventio

Studiis ad artes liberales pertinentibus peractis, illa in iure apud Universitatem Studiorum Patavinam perrexit. Annecium regressus, iam cursum vitae suae, patre licet resistente, decreverat. Die XVIII mensis Decembris anno MDXCIII presbyteratu auctus, ineunte mense Septembri subsequentis anni, Episcopi Claudii de Granier arcessitu, ad arduam missionem in ducatu Caballico vocatus est, Calvinistae confessionis, cuius territorium, ad dioecesim Anneciensem pertinens, varias inter bellorum pacisque foederum ambages sub dicionem ducatus Sabaudiae denuo transierat. Vehementes fuerunt et asperi anni. Hoc in loco una cum quadam acerba severitate, quae ei deinde aliquid cogitandum praebuit, mediatoris suas dialogique fautoris cognovit dotes. Singularem insuper et audacem pastoralis actionis inceptorum excogitatorem se exhibuit, ex quibus celebres fuerunt «cartulae volitantes», ubique affixae vel etiam sub limina domuum elabentes.

Anno MDCII Lutetiam Parisiorum repetiit ad ancipitem legationem obeundam, pro episcopo de Granier et ad nutum Apostolicae Sedis, propter recentissimam rei politicae et religiosae immutationem intra fines dioecesis Genevensis. Quamvis Regi Franciae bonae essent animi intentiones, missio tamen male cessit. Franciscus ipse ad Papam Clementem VIII scripsit: «Novem post integros menses, meipsum retrahere coactus sum, fere nihilo confecto».[17] Atqui missio illa ei atque Ecclesiae exstitit ops quaedam inopinata, quoad humanitatem, culturam et religionem spectat. A pacis conciliandae legationibus vacans, Franciscus coram rege regiaque aula Galliae sacris orationibus ac magni momenti necessitudinibus nectendis dedit operam ac praecipue sese omnino immersit in mirabilem florem spiritualem et culturalem modernae Regni capitis.

Omnia illuc mutaverant et adhuc mutabant. Ipse haud parvis quaestionibus per orbem exorientibus novoque modo eas intuendi, necnon necopinata spirituali postulatione nuperrime nata sicut et novis exinde consecutis argumentis se attigi sivit ac rogari. Breviter, verum «aetatis mutamentum» animadvertit, cui sive antiquis sive novis verbis respondere oportebat. Non tunc primum sane ferventes christianos conveniebat, sed de diversa quadam re agebatur: neque de Lutetia Parisiorum religionis bellis vehementer perturbata, quam olim annis suae formationis viderat, neque de acerba dimicatione in territoriis provinciae Caballicae exsudata. Res erat inexspectata: «concursus sanctorum, verorum sanctorum, innumerorum et ubique adstantium».[18] Viri aderant et mulieres eximiae doctrinae, Universitatis Studiorum Sorbonensis professores, institutorum procuratores, nobiles viri mulieresque, servi et servae, monachi et monales. Universitas erat multiformi ratione sitiens Deum.

Eos convenire eorumque noscere quaestiones profecto una e summis vitae eius eventibus fuit a divina Providentia comparatis. Dies, quae prima specie inutiles atque infelices videbantur, facti sunt sic singularis quaedam schola ad intellegendam, non autem blandiendam, indolem illius temporis. In animo suo aptus assiduusque controversiarum disputator pedetemptim transformabatur gratia in callidum temporum explanatorem necnon egregium animarum moderatorem. Eius pastoralis navitas, clara opera, videlicet Introductio ad vitam devotam et Tractatus amoris divini, milia epistularum de amicitia spirituali, quae intra et extra conventorum monasteriorumque muros religiosis et monalibus, viris mulieribusque aulicis atque simplici vulgo miserat, occursus Ioannae Franciscae de Chantal ipsaque monasterii Visitationis fundatio anno MDCX, sine hac interiore conversione omni intellectu carerent. Tunc Evangelium et cultura fecundam quandam summam inveniebant, ex qua intellectus rationis omnino manabat, quae ad maturitatem perducta prompta erat ad diuturnam et uberem messem praebendam.

In quadam ex primis epistulis de animi moderatione et amicitia spirituali, quam ad aliquam communitatem misit Lutetiae Parisiorum visitatam, Franciscus de Sales, etsi humiliter, de quadam “methodo sua” ad veram reformationem loquitur ab aliis distincta. Quae methodus asperitati recusat et dignitate atque ingenio animi devoti omnino confidit, infirmitatibus neglectis: «Mihi dubium est, quin vestrae reformae etiam aliud impedimentum opponere possit: fortasse hi, qui eam vobis imposuerunt, plagam nimia duritia curaverunt. […] Ego eorum rationi laudem tribuo, quamvis ea quae soleo uti non sit, in primis erga nobiliores spiritu et bene moratos, ut vestri. Censeo meliorem se continere esse ad praebendum iis malum et scalpella in manibus eorum dare, ut ipsi illam neccessariam incisionem exercitent. Sed vero propterea non neglegite hanc reformam, qua indigetis».[19]  His ex verbis contuitus perlucet ille, qui celebrem reddidit felicis rerum exitus fiduciam, qua Societas Salesiana imbuitur, necnon diuturno suo vestigio historiam signavit spiritualitatis ad futuros flores enutriendos, sicuti sanctum Ioannem Bosco duobus post saeculis.

Annecium regressus, die VIII mensis Decembris eiusdemque anni MDCII episcopus creatus est. Episcopali ministerii eius pondus in Europam illius aetatis itidemque saeculorum insequentium summum nempe apparet. «Apostolus quidem, praeco, scriptor, homo ad agendum et orandum promptus; Concilii Tridentini propositis efficiendis optime vacans; in controversia et dialogo cum reformatae Ecclesiae sectatoribus versatus, magis in dies momentum personalis necessitudinis et caritatis praeter necessariam theologicam disceptationem experiens; legationibus in Europa praepositus necnon operibus socialibus intercessionis et reconciliationis».[20]  Mutati aevi interpres potissime animarumque moderator est in adiunctis temporis nova quadam ratione Deum sitientibus.

Omnia pro filiis suis agit caritas

Inter annos MDCXX et MDCXXI, nempe vita sua iam occidente, Franciscus ad quemdam Dioecesis suae presbyterum verba apta ad suum de aetate consilium illustrandum mittebat. Eum hortabatur, ut desiderio indulgeret textibus pro ingenio suo scribendis se dedere, qui recentiores flagitationes interciperent, earum intellegentes necessitatem. «Mihi dicendum est vobis mundanarum affectionum notitiam, quae cotidie ipse acquiro, me movere, ut studiosissime exoptem divinam Benignitatem mentes nonnullorum famulorum suorum concitare ad scribendum iuxta iudicium huius miseri orbis».[21] Huius cohortationis rationem in sua ipsa de tempore sententia inveniebat: «Ita gracilis prorsus fit orbis, ut nemo propediem amplius audeat tangere eum, nisi mollibus indutus digitabulis, nec eius ulcera mederi, nisi caepae usurpatis emplastris; at quid refert an homines sanentur ac denique serventur? Regina nostra, quae caritas est, omnia pro filiis suis agit».[22] Habitus nihil admodum usitatus est, eo minus coram quadam clade extrema deditio. Perceptio potius erat cuiusdam currentis vicissitudinis ac necessitatis, funditus evangelicae, intellegendi quomodo in ea quisque collocari posset.

Eandem conscientiam alioquin in animo volverat atque ab initio Tractatus amoris divini, in Praefatione ad lectorem, ostenderat: «Perpendi conditionem […] ingeniorum huius saeculi, uti perpendere debui; plurimum enim interest considerare, quo tempore scribatur».[23] Lectoris insuper benevolentiam poscens, affirmabat: «Quodsi deprehenderis stylum nonnihil diversum esse ab eo, quo Philothaeam scribens usus sum et utrumque autem permagno discrimine differre ab eo, quem adhibui in Defensione Sanctae Crucis, sciendum est, quod undeviginti annorum spatio multa discuntur, et multa oblivioni traduntur; quod et sermo in militia alius sit, alius in pace; insuper quod alius modus sit loquendi tironibus, alius sociis veteranis».[24] Hac coram mutatione, tamen, unde erit inchoandum? Haud procul a rebus ipsis a Deo gestis cum homine. Hinc extremum eius Tractatus propositum: «Ego certe solum cogitavi simpliciter et ingenue, sine arte et multo magis sine fuco repraesentare historiam originis, progressuum, imminutionum, operationum, proprietatum, commodorum, utilitatum et excellentiarum Amoris divini».[25]

De aetatis transitus quaestionibus

Quarta centesima eius obitus occurrente memoria, de sancti Francisci de Sales hereditate pro nostra aetate quaesiti sumus eiusque ingenii facilitatem ac prospiciendi intellectum collustrantes duximus. Qua ex Dei dono, qua ex natura sua, qua etiam ex constanti suae vitae cultu, temporum mutationem perspicue perceperat. Numquam ipse cogitatione finxerat se tantam Evangelii nuntiandi occasionem agniturum esse. Verbum, quod inde ab adulescentia sua amaverat, viam sibi aperire valebat, novos atque improvisos caelos pandens in orbe celeriter transeunte.

Quod praecipuum pensum nos exspectat etiam in hoc aetatis nostrae transitu: Ecclesia esse non modo se ipsam referens, ab omni vanitate soluta, sed quae mundum habitare valeat, cum hominibus vitam communicare, simul ambulare, audire et excipere.[26] Hoc Franciscus de Sales egit, aetatem suam, gratia auxiliante, legens. Quam ob rem ipse nos a nimia sollicitudine invitat egredi nostrum, structurarum, imaginis socialis ac quaerere potius quaenam populi nostri reapse sint necessitates et spirituales exspectationes.[27] Interest, igitur, etiam in hunc diem, ut praecipuas eiusdem optiones recenseamus ad transitum evangelica sapientia habitandum.

Aura et alae

Prima harum optionum fuit unicuique iuxta condicionem eius felicem inter Deum et hominem revolvere ac rursus proponere necessitudinem. Extrema, denique, Tractatus ratio et finis certus sane est Dei amoris hominibus illius aevi explanare suavitatem. «Quaenam sunt – quaerit ille – funes, quibus divina Providentia ad amorem suum corda nostra trahere solet!».[28] A verbis Oseae 11, 4, mirum in modum incipiens,[29] haec ordinaria instrumenta describit uti «vincula humanitatis vel caritatis et amicitiae». «Dubio procul […] – scribit – non trahimur vinculis ferreis, uti trahuntur tauri et bubali, sed per modum deliciarum et delectationum sanctarumque inspirationum, quae […] sunt funiculi Adam et humanitatis, id est, proportionati et convenientes cordi humano, cui libertas innata est, nos allicit».[30] Haec per vincula Deus traxit populum suum a servitute, eum ambulare docens, manu regens, sicuti pater vel mater cum puero suo faciunt. Nullum adest ergo iussum externum, nulla tyrannica vis et ex arbitrio iniuncta, nulla violentia. Potius ad persuadendum apta adest invitationis cuiusdam forma, quae libertatem humanam servat illabefactam. «Gratia – pergit de nonnullis vitae memoriis, quibus inciderat, profecto recordans –  pollet quidem insigni fortitudine, sed non ad vi cogendos, sed ad suaviter alliciendos animos; eidem gratiae inest sancta quaedam violentia, non ad nostram libertatem violenter agendam, sed ad efficiendam eam castam nostri amatricem. Agit […] fortiter, sed simul ita suaviter, ut voluntas nostra sub adeo potenti actione minime succumbat; nos quidem premit, sed non opprimit nostrum arbitrium. Itaque, quibuscumque tandem adhibitis ab ea conatibus, possumus illius motibus consentire vel resistere, prout nobis libuerit».[31]

Paulo ante, eandem necessitudinem adumbraverat mirum per exemplum illius “sine pedibus”: «Sunt certae quaedam aves, Theotime, quas Aristoteles nuncupat “apodes”, eo quod crura habeant admodum brevia et pedes ita omnis roboris expertes, ut iis non magis sint usui, quam si iis prorsus carerent. Ea si semel descendant ad terram, ita ei manent affixae, ut nunquam amplius ex se possint volatum resumere: quia […] nullum neque crurum neque pedum habent usum; unde nequeunt ullo modo se ipsas propulsare et in aërem vibrare proindeque, ubi decidunt, ibi manent, imo et moriuntur, nisi propitium suae impotentiae aliquem nanciscantur ventum, qui, iacens flatum suum super faciem terrae, eas attollat et elevet, uti plures alias res consuevit attollere. Tunc enim, si, impendentes alarum suarum remigia, cum vento concurrente se attollant cooperando virtuti et primo impetui, idem ventus continuans suum succursum adversus eas attollet altius atque altius earum volatum».[32] Talis est homo: qui a Deo creatus, ut volet omnesque suas virtutes in vocationem ad amorem pandat, non idoneus ad evolandum fieri periclitatur, cum ad terram descendat auraeque Spiritus alas rursus aperire minime adsentiatur.

En, igitur, “forma”, per quam hominibus Dei gratia destinatur: illa subtilium admodumque humanorum Adae funiculorum. Numquam desinit Dei virtus plane prompta fieri volatum restituere atque tamen dulcedo eius ita efficit, ne libertas ei assentiendi violetur vel irritetur. Hominis est exsurgere necne. Licet gratia eum expergiscentem tetigisset sine eo, ipsa non vult hominem exsurgere sine adsensu suo. Ita ille in conclusione ducit consilium suum: «Theotime, inspirationes nos praeveniunt et, antequam animadvertimus, sui in nobis imprimunt sensum; postquam autem eas percepimus, nostri est iis obsecundare et adhaerere aut, ab iis dissentiendo, illas ipsas propulsare: efficiunt quidem, ut eas in nobis sine nobis sentiamus, sed efficere nequeunt, ut eis sine nobis assentiamur».[33] Ideo, quoad cum Deo conversationem, semper de experimento gratis dato agitur, quod Patris amoris altitudinem confirmat.

Attamen, nunquam gratia haec hominem inertem efficit. Ea ad intellegendum ducit nos Dei amore radicitus antecedi atque primum eius donum constare ex quo quod ab eiusdem amore recipiatur. Quisque autem sui exitui cooperari debet, alas suas fidenter Dei aurae pandens. Praecipuum hic inspicimus vocationis nostrae humanae: «Officium est, quod Deus mandat Adae et Evae in Genesis narratione, ut fecundi sint. Humano generi mandatum de rebus creatis permutandis, extruendis atque moderandis datum est, officium videlicet positivum, quod sibi vult ex ipsis et cum ipsis creare. Minime, ergo, pendet posterum tempus ex machinatione, quae cerni non potest, cuius humani inertes spectatores evadunt. Minime quidem! Qui primas partes agunt sumus, cocreatores – ut verbum cogam – sumus».[34] Hoc est quantum Franciscus de Sales bene intellexit et in suo spiritus moderatoris munere tradere conatus est.

 

Devotio vera

Altera enim summa optio illa fuit de devotione disputanda. Hoc etiam in casu, sicuti his nostris diebus, novus aetatis transitus suscitaverat, de hac re, haud paucas percontationes. Duo praesertim et hodie percipi reponique quaerunt quaestiones. Prior ad ipsam devotionis notionem pertinet, altera ad eiusdem universalem et popularem naturam. In primis monstrare quid pro devotione intellegatur praecipua cura est, quam in initio Philotheae invenimus: «ante omnia noveris oportet quidnam sit virtus devotionis. Nam, una tantum vera devotio est, sed plures falsae et vanae; hinc, nisi noveris vera discernere, falli et errare posses tempus amittens, aliquam ineptam et superstitiosam consectans devotionem».[35]

Iucunda semperque rata Francisci de Sales est descriptio falsae devotionis, in qua haud difficile reperimur, et haud sine quodam sano argutoque lepore: «Qui ieiunio addictus est, se devotum reputabit, cum modo ieiunet, licet intus cor eius odio iaceat refertum; dumque minime audeat linguam vino ac ne aqua quidem sobrietatis causa intingere, illam sanguini proximorum palam immergere, iis detrahendo et calumniando, non verebitur. Alius se devotum existimabit, qui plurimas quotidie preces et orationes decurrat, etsi exinde lingua illius in verba morosa, querula, arrogantia et iniuriosa in domesticos et vicinos suos tota esse effundat. Alius libenter admodum eleemosynas in egenos et inopes e crumena educit, benignitatem tamen et amorem ex corde suo elicere ac depromere nequit, quo inimicis ignoscat. Erit et alius, qui quidem inimicis suis haud difficulter iniurias omnes dimittet, sed ut creditoribus suis satisfaciat, et cum iis rationes ineat, quam aegerrime in animum suum inducet, et nonnisi violenter ac iudice compellente».[36] Quae cum sint nempe vitia luctaminaque perpetua, etiam hodierna, Sanctus ergo concludit: «Omnes hi vulgo devoti habentur, revera tamen devoti non sunt».[37]

Novitas ac devotionis veritas alibi autem inveniuntur, in quadam radice penitus ad vitam divinam in nobis adstricta. Hoc in modo «vera vivaque devotio amorem Dei praesupponit, nec quid aliud est, quam versus quidam Dei amor; non tamen qualiscumque et talis qualis amor».[38] Quae in fervida eius cogitatione nec quidquam aliud est praeter, «ne multa dicamus, quandam agilitatem et vivacitatem spiritualem, cuius adminiculo caritas suas in nobis actiones, aut potius nos per illam, prompte affectuoseque exsequitur et operatur».[39] Ea, ergo, caritati non assistit, sed eiusdem est ostensio, quae pariter ad illam adducit. Sicuti flamma est prae igne: excitat enim vehementiam eius sine qualitatis variatione. «Itaque caritas et devotio non plus inter se differunt, quam ignis et flamma; quod caritas, cum spiritualis quidam ignis sit, quando vehementer inflammata et accensa est, dicatur devotio; adeo, ut devotio ad caritatis ignem aliud non addat, praeter flammam, quo caritatem et alacrem, et promptam et diligentem, non modo ad divina mandata observanda, verum etiam ad consilia et inspirationes coelestes exercendas reddat».[40] Devotio sic percepta nihil reconditi habet. Conversatio vitae potius est, mos quidam agendi in certis cotidianae exsistentiae adiunctis. Quae parva dierum, sicut alimentum et vestitum, negotium atque otium, amorem ac procreationem diligentiamque erga officia ad artem exercendam pertinentia colligit atque interpretatur; breviter, vocationem uniuscuiusque illuminat.

Devotionis popularis radix hic animadvertitur, iam inde ab initio Philotheae confirmata: «Quotquot de devotione scripserunt, omnes pene sunt circa instructionem eorum, qui a mundi commercio prorsus erant sequestrati, versati, aut saltem eam devotionis formam tradiderant, quae ad totalem hanc solitudinem viam sterneret. Meum vero propositum et scopus est, instruere et edocere eos, qui mediis in urbibus, familiis et in aula conversantur, quique ob vitae suae statum et conditionem, commune quoddam vitae genus, quoad exteriora, vovere tenentur».[41] Hac de causa valde aberrat qui cogitet devotionem relegare alicui tuto ac seposito spatio. Ea potius omnium est ac pro omnibus, ubicumque simus, et unusquisque secundum vocationem suam eam usurpare potest. Sicuti sanctus Paulus VI scribebat occasione quarti elapsi saeculi ab ortu Francisci de Sales, «sanctimonia non unius vel alius coetus praerogativa est, sed omnibus christiano nomine decoratis praeceptiva admovetur invitatio: “Amice, ascende superius” (Lc 14, 10); omnes lege tenentur scandendi montem Domini, non uno eodemque tamen itinere. “Devotio dissimili modo colenda est ab homine nobili, ab operario, a famulo cubiculario, a principe, a vidua, a nubili, ab uxore. Quin etiam accommodanda est devotionis res et usus uniuscuiusque viribus, negotiis, officiis”».   [42]       Civitatem saeculi percurrere docet hominem interiorem tuendo, desiderium perfectionis coniungere omni vitae rationi medium locum reperiendo a mundo non diremptum, quem praecipit autem incolere, aestimare, discendo etiam recta intervalla ab eodem instituere: hoc fuit eius consilium, quod omnis viri mulierisque temporis nostri pretiosum perseverat esse documentum.

Id est Concilii Vaticani II propositum universalis vocationis ad sanctitatem: «Tot ac tantis salutaribus mediis muniti, christifideles omnes, cuiusvis conditionis ac status, ad perfectionem sanctitatis qua Pater ipse perfectus est, sua quisque via, a Domino vocantur».[43] “In via quisque sua”. «Ergo non est animo concidendum, cum sanctitatis exempla contemplamur quae attingere videmur non posse». Mater Ecclesia haec nobis proponit exempla, non quae eadem conemur iterare, sed ut concitent nos ad unam ac praecipuam viam calcandam, quam Dominus pro nobis censuit. «Tanti est unumquemque credentem suam viam reperire et meliora ex se trahere, proprium quiddam quod posuit in eo Dominus (cfr 1 Cor 12, 7)».[45]

 

Vitae exstasis

Haec omnia sanctum Episcopum adduxerunt, ut vitae christianae integritatem intellegeret veluti operis ac vitae exstasim.[46] Ea autem minime confundenda est cum facili fuga vel cum intimo quodam recessu, neque adeo tristi ac pallenti cum oboedientia. Hoc periculum in vita fidei scimus semper adesse. Nam, «sunt christiani, qui more quodam Quadragesimae sine Paschate uti videantur. […] Eos comprehendimus qui ad tristitiam graves ob difficultates, quibus laborant, inclinant, sed gradatim permittere oportet, ut laetitia fidei expergiscere incipiat, veluti secreta quaedam, sed firma fiducia, etiam in mediis pessimis angustiis».[47]

Concedere laetitiam expergisci est quod Franciscus de Sales exprimit, cum “operis ac vitae exstasim” describit. Eius gratia «non vivimus solum vitam civilem, honestam et christianam, sed vitam super humanas facultates, spiritualem, devotam et exstaticam, id est vitam utique extra et supra nostram condicionem naturalem».[48] Hic in mediis et splendidissimis Tractatus paginis sumus. Exstasis felix intemperantia est vitae christianae, ultra merae observantiae mediocritatem iactae: «Non furari, non mentiri, luxuriam non moliri, Deum orare, frustra non iurare, patrem diligere et honorare, non occidere, hoc est secundum rationem naturalem hominis vivere; sed omnia nostra bona relinquere, paupertatem amare, eam nuncupare et habere Dominam suavem, existimare opprobria, despectum, humiliationes, persecutiones, martyria pro felicitate et beatitudine, se intra terminos summae castitatis continere et tandem in mundo et in hac vita mortali vivere contra omnes opiniones et praecepta mundi contraque cursum fluvii huius vitae iugi mansuetudine rerumque recusatione ac nostri contemptione; hoc vivere non est secundum humanam naturam, sed super eam; vivere non est in nobis, sed extra et supra nos; et cum nemo possit hoc modo supra se ipsum exire, nisi Pater aeternus eum trahat, ideo sequitur ut hoc vitae genus esse debeat continuus raptus et perpetua actionis et operationis exstasis».[49]

De vita agitur, quae fontes laetitiae repperit contra unamquamque suam exsiccationem, contra temptationem in se recedendi. Nam, «magnum mundi hodierni discrimen, ex multiplici gravique eius bonorum consumendorum suppeditatione, tristitia quaedam est in singuli animo reclusa, quae e commodo et avido corde, ex aegra inanium delectamentorum inquisitione, necnon e segregata conscientia manat. Ubi interioris hominis vita in propriis lucris clauditur, ibi spatium pro aliis iam non exstat, pauperes iam non ingrediuntur, vox Dei iam non auditur, dulcis laetitia amoris eius iam non delectat, ardor benefaciendi non palpitat. Etiam christifideles hoc certo ac firmiter periclitantur. Plurimi huc cadunt ac seipsos in indignabundos, aegros ac torpentes convertunt».[50]

Descriptioni “actionis ac vitae exstasis” sanctus Franciscus tandem duas animadversiones adicit, quae etiam tempore nostro admodum praecellunt. Prior ad efficacem rationem huiusmodi vitae conversationis veritatis discernendae, altera autem ad eiusdem altam fontem spectat. Quod ad discernendi rationem attinet, affirmat ille quod, quamvis talis exstasis verum exitum e se postulet, id tamen derelictio vitae sibi non vult. Quod numquam obliviscatur oportet ad periculosas depravationes vitandas. Ut aliis utamur verbis, qui nimis confidit ad Deum se attollere, sed caritate erga proximum non vivit, seipsum fallit et alios.

Eandem hic redinvenimus rationem, quam ipse ad verae pietatis proprietatem referebat. «Quando in oculos incurrit quispiam, qui in oratione raptus habet, quorum causa egreditur extra se et ascendit supra se ipsum in Deo, ac nihilominus vitae suae exstasim non habet seu vitam non agit sublimem et Deo coniunctam, […] praecipue ex continua caritate, crede mihi, Theotime, raptus eius admodum suspecti sunt et periculosi». Quod efficacius concludit: «Transcendere se in oratione et subesse sibi in vita et operatione, angelici esse in meditatione, bruti autem in sermocinatione […] verum signum est huiusmodi raptus et exstases aliud non esse, nisi delectamenta et deceptiones spiritus maligni».[51] Quorum denique Paulus Corinthios iam in hymno de caritate commonefaciebat: «Si habuero omnem fidem, ita ut montes transferam, caritatem autem non habuero, nihil sim. Et si distribuero in cibos omnes facultates meas et si tradidero corpus meum, ut glorier, caritatem autem non habuero, nihil mihi prodest» (1 Cor 13, 2-3).

Ad mentem s. Francisci de Sales, igitur, vita christiana numquam exstasi caret, at verumtamen exstasis sincera sine vita non substat. Vita sine exstasi enim in oboedientiam opacam dilabi potest, in Evangelium laetitiae suae oblitum. Ceterum, exstasis sine vita ludibrio et fraudi Maligni facile exponitur. Christianae vitae magni vertices non possunt in alterutrum evanescere. Alter potius alterius sustentat veritatem. Veritati sic non deest iustitia, obsequio officium, liberae voluntati lex et vicissim.

Quod autem ad altum huius exstasis pertinet fontem, sapienter ille amori a Filio incarnato patefacto eum iungit. Siquidem «amor primus actus est et principium vitae nostrae devotae vel spiritualis, per quod vivimus, sentimus, movemur» atque «vita nostra spiritalis talis est, quales sunt motus nostri affectivi», tunc patet «cor affectionem non habens carere amore», necnon «cor habens amorem affectivo motu minime carere».[52] Fontem attamen huius, qui cor attrahit, amoris vita est Iesu Christi: «Nihil ita cor hominis urget sicut amor» et huius urgentiae culmen est quod «Iesus Christus mortuus est pro nobis, nobis morte sua praestans vitam. Nos iam nullo alio vivimus titulo, quam quod ille mortuus est et mortuus est pro nobis, pro bono nostro et in nobis».[53]

Animum haec denuntiatio movet ostendens, praeter illuminatam atque inusitatam necessitudinis inter Deum et hominem speciem, artum vinculum affectivum, quod sanctum Episcopum Domino Iesu adstringebat. Exstasis vitae et actionis veritas vaga non est, sed apparet secundum formam Christi caritatis, quae ad culmen suum pervenit supra crucem. Amor hic existentiam non abolet, sed magnitudine extraordinaria eam irradiat.

Quamobrem sanctus Franciscus de Sales Calvarium effingit ex pulcherrima «montis amantium» comparatione.[54] Hic, et hic solummodo, intellegitur quod «non potest haberi vita sine amore neque amor sine morte Redemptoris, sed hinc foras quidquid est aut mors aeterna est aut aeternus ardor et omnis sapientia christiana locata est in dilectu bonorum».[55] Hoc in modo Tractatum suum perficere potest, conclusionem proferens sermonis cuiusdam sancti Augustini de caritate: «Quid illa fidelius, non vanitati sed aeternitati? Nam ideo tolerat omnia in praesenti vita, quia credit omnia de futura vita; et suffert omnia quae hic immittuntur, quia sperat omnia quae ibi promittuntur: merito nunquam cadit. Ergo sectamini caritatem, et eam sancte cogitantes afferte fructus iustitiae. Et quidquid uberius, quam ego dicere potui, vos inveneritis in eius laudibus, appareat in vestris moribus».[56]

Haec e vita sancti Episcopi Anneciensis perlucent et unicuique nostrum denuo traduntur. Eventus IV centesimae memoriae a natali eius adiuvet nos, ut, eiusdem intercessione, in itinere sancti populi Dei fidelis dona Spiritus Dominus largiatur benignus.

 

Datum Romae, Laterani, die XXVIII mensis Decembris, anno MMXXII, Pontificatus Nostri X.

 

FRANCISCUS

 

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[1] S. Franciscus de Sales, Tractatus amoris divini, Praefatio: ed. Ravier – Devos, Parisiis 1969, 336.

[2] Id., Ep. 2103: Ad dominum Silvestrum de Salutiis de Mentha, abbatem Altacumbensem (3 Novembris 1622): Opera omnia, XXVI (Opuscula, V), Annecii 1932, 490-491.

[3] Id., Ep. 1961: Ad dominam quandam (19 Decembris 1622): Opera omnia, XX (Epistulae, X: 1621-1622), Annecii 1918, 395.

[4] Id., Tractatus amoris divini, I, 15: ed. Ravier – Devos, Parisiis 1969, 395.

[5] Id., Collocutiones spirituales, Collocutio ultima [XXI]: ed. Ravier – Devos, Parisiis 1969, 1319.

[6] Adhort. Ap. Gaudete et exsultate (19 Martii 2018), 49: AAS 110 (2018), 1124.

[7] Ibid., 57: AAS 110 (2018), 1127.

[8] Cfr ibid., 37-39: AAS 110 (2018), 1121-1122.

[9] S. Franciscus de Sales, Collocutiones spirituales, Collocutio ultima [XXI]: ed. Ravier – Devos, Parisiis 1969, 1319.

[10] Ibid.: 1308.

[11] Ibid.

[12] Cfr Epistula ad Rev. Dom. Ivonem Boiniveau, episcopum Anneciensem, IV occurrente centesima memoria ordinationis episcopalis s. Francisci de Sales (23 Novembris 2002), 3: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XXV/2 (2002), 767.

[13] S. Franciscus de Sales, Tractatus amoris divini, Praefatio: ed. Ravier – Devos, Parisiis 1969, 336.

[14] Benedictus XVI, Catechesis (2 Martii 2011): Insegnamenti, VII/1 (2011), 270.

[15] S. Franciscus de Sales, Fragm. intima, 3: Actus fiduciae heroicae in Deum, in Opera omnia, XXII (Opuscula, I), Annecii 1925, 41.

[16] Cfr Allocutio ad Commissionem Theologicam Internationalem (29 Novembris 2019): L’Osservatore Romano, 30 Novembris 2019, p. 8.

[17] S. Franciscus de Sales, Ep. 165: Ad Summum Pontificem Clementem VIII (ex. mense Octobri 1602): Opera omnia, XII (Epistolae, II: 1599-1604), Annecii 1902, 128.

[18] H. Bremond, L’humanisme dévot : 1580-1660, in Histoire littéraire du sentiment religieux en France: depuis la fin des guerres de religion jusqu’à nos jours, I, Jérôme Millon, Gratianopoli 2006, 131.

[19] S. Franciscus de Sales, Ep. 168: Ad religiosas monasterii «Filiarum Dei» (22 Novembris 1602): Opera omnia, XII (Epistolae, II: 1599-1604), Annecii 1902, 105.

[20] Benedictus XVI, Catechesis, diei 2 Martii 2011: Insegnamenti, VII/1 (2011), 272.

[21] S. Franciscus de Sales, Ep. 1869: Ad Dominum Petrum Jay (a. 1620 vel 1621): Opera omnia, XX (Epistolae, X: 1621-1622), Annecii 1918, 219.      

[22] Ibid.

[23] Id. Tractatus amoris divini, Praefatio: ed. Ravier – Devos, Parisiis 1969, 339.

[24] Ibid., 347.

[25] Ibid., 338-339.

[26] Franciscus, Allocutio ad episcopos, presbyteros, religiosos, alumnos seminarii et catechistas, Bratislaviae (13 Septembris 2021): L’Osservatore Romano, 13 Septembris 2021, pp. 11-12

[27] Ibid.

[28] S. Franciscus de Sales, Tractatus amoris divini, II, 12: ed. Ravier – Devos, Parisiis 1969, 444.

[29] «In funiculis humanitatis trahebam eos, in vinculis caritatis; et fui eis, quasi qui elevant infantem ad maxillas suas, et declinavi ad eum, ut vesceretur».

[30] S. Franciscus de Sales, Tractatus amoris divini, II, 12: ed. Ravier – Devos, Parisiis 1969, 444.

[31] Ibid., II, 12: 444-445.

[32] Ibid., II, 9: 434.

[33] Ibid., II, 12: 446.

[34] Francesco, Ritorniamo a sognare. La strada per un futuro migliore. Colloquium cum Augustino Ivereigh, Piemme, Mediolani 2020, 8.

[35] S. Franciscus de Sales, Introductio ad vitam devotam, I, 1: ed. Ravier – Devos, Paris 1969, 31.

[36] Ibid.: 31-32.

[37] Ibid.: 32.

[38] Ibid..

[39] Ibid.

[40] Ibid., 33.

[41] Ibid., Praefatio: ed. Ravier – Devos, Parisiis 1969, 23.

[42] Epist. Ap. Sabaudiae gemma, quarto exeunte saeculo ab ortu s. Francisci de Sales, Ecclesiae doctoris (22 Ianuarii 1967): AAS 59 (1967), 119.

[43] Sacrosanctum Oecumenicum Concilium Vaticanum II, Const. dogm. Lumen gentium, 11: AAS 57 (1965), 61.

[44] Adhort. Ap. Gaudete et exsultate (19 Martii 2018), 11 : AAS 110 (2018), 1114.

[45] Ibid.

[46] S. Francesco di Sales, Tractatus amoris divini, VII, 6: ed. Ravier – Devos, Parisiis 1969, 682.

[47] Adhort. Ap. Evangelii gaudium (24 Novembris 2013), 6: AAS 105 (2013), 1021-1022.

[48] S. Franciscus de Sales, Tractatus amoris divini, VII, 6: ed. Ravier – Devos, Parisiis 1969, 682-683.

[49] Ibid.: 683.

[50] Adhort. Ap. Evangelii gaudium (24 Novembris 2013), 2: AAS 105 (2013), 1019-1020.

[51] S. Franciscus de Sales, Tractatus amoris divini, VII, 7: ed. Ravier – Devos, Paris 1969, 685.

[52] Ibid.: 684.     

[53] Ibid., VII, 8: 687.688.

[54] Ibid., XII, 13: 971.

[55] Ibid.            

[56] Sermo 350, 3: PL 39, 1535.

[02021-LA.01] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

LETTRE APOSTOLIQUE

TOTUM AMORIS EST

DU SAINT-PÈRE

FRANÇOIS

POUR LE 4èmeCENTENAIRE DE LA MORT

DE SAINTFRANÇOIS DE SALES

«Tout est à l’amour».[1]Dans ses paroles nous pouvons recueillir l’héritage spirituel laissé par saint François de Sales qui est mort à Lyon le 28 décembre 1622. Prince-évêque «en exil» de Genève depuis une vingtaine d’années, il avait un peu plus de cinquante ans. Il était arrivé à Lyon après sa dernière mission diplomatique, le Duc de Savoie lui ayant demandé d’accompagner le Cardinal Maurice de Savoie en Avignon. Ensemble, ils avaient rendu hommage au jeune Roi Louis XIII, sur son chemin de retour vers Paris par la vallée du Rhône après une campagne militaire victorieuse dans le Sud de la France. Fatigué et en mauvaise santé, François s’était mis en route par pur esprit de service. «S’il n’était pas très utile à leur service que je fasse ce voyage, j’aurais certainement beaucoup de bonnes et solides raisons pour m’en dispenser; mais s’il s’agit de leur service, mort ou vivant, je ne me retirerai pas, mais j’irai ou je me ferai traîner».[2]C’était son tempérament. À Lyon, il logea au monastère des Visitandines, dans la maison du jardinier afin de ne pas trop déranger et pour être en même temps plus libre de rencontrer ceux qui le désiraient.

Désormais peu impressionné par les «faibles grandeurs de la cour»[3], il avait passé ses derniers jours à exercer son ministère de pasteur dans une succession de rendez-vous: confessions, conversations, conférences, prédications ainsi que les incontournables ultimes lettres d’amitié spirituelle. La raison profonde de ce style de vie remplie de Dieu lui était devenue de plus en plus claire au fil du temps, et il l’avait formulée de manière simple et précise dans son célèbreTraité de l’amour de Dieu: «Sitôt que l’homme pense un peu attentivement à la Divinité, il sent une certaine douce émotion du cœur,qui témoigne que Dieu est Dieu du cœur humain».[4]Voilà la synthèse de sa pensée. L’expérience de Dieu est une évidence pour le cœur humain. Il ne s’agit pas d’une construction mentale mais d’une reconnaissance, pleine d’émerveillement et de gratitude, qui fait suite à la manifestation de Dieu. C’est dans le cœur et par le cœur que s’accomplit ce processus d’unification subtil et intense en vertu duquel l’homme reconnaît Dieu et, en même temps, se reconnaît lui-même, reconnaît son origine, sa profondeur et son accomplissement dans l’appel à l’amour. Il découvre que la foi n’est pas un mouvement aveugle, mais avant tout une attitude du cœur. Par elle, l’homme s’en remet à une vérité qui apparaît à sa conscience comme une “douce émotion”, capable de susciter en retour un bon vouloir auquel nul ne saurait renoncer pour toute réalité créée, comme il aimait à le dire.

A cette lumière, on comprend que, pour saint François de Sales, il n’y avait pas de meilleur lieu pour trouver Dieu, et pour aider à le chercher, que le cœur de chaque homme et de chaque femme de son temps. Il l’avait appris en s’observant lui-même attentivement dès son plus jeune âge, et en scrutant le cœur humain.

Lors de sa dernière rencontre de ces jours-là, à Lyon avec ses Visitandines, dans le climat intime d’un quotidien habité par Dieu, il leur avait laissé cette expression par laquelle il aurait voulu que sa mémoire soit plus tard fixée en elles: «J’ai tout résumé dans ces deux mots quand je vous ai dit de ne rien refuser ni désirer; je n’ai plus rien à vous dire».[5]Il ne s’agissait cependant pas d’un exercice de pur volontarisme, «une volonté sans humilité»,[6]de cette tentation subtile sur le chemin de la sainteté qui confond celle-ci avec la justification par ses propres forces, avec l’adoration de la volonté humaine et de sa propre capacité, «qui aboutit à une autosatisfaction égocentrique et élitiste dépourvue de véritable amour».[7]Il ne s’agissait pas non plus d’un pur quiétisme, d’un abandon passif et sans affects à une doctrine sans chair et sans histoire.[8]Cette formule naissait plutôt de la contemplation de la vie même du Fils incarné. Le 26 décembre le Saint s’adressait ainsi aux Sœurs au cœur du mystère de Noël: «Voyez-vous l’Enfant Jésus dans la crèche? Il reçoit tous les ravages du temps, le froid et tout ce que le Père permet qu’il lui arrive. Il ne refuse pas les petites consolations que sa mère lui donne, et il n’est pas écrit qu’il tende jamais les mains pour avoir le sein de sa Mère, mais il laisse tout à ses soins et à sa prévoyance; ainsi nous ne devons rien désirer ni refuser, supportant tout ce que Dieu nous envoie, le froid et les ravages du temps».[9]Son attention à reconnaître comme indispensable le soin de tout ce qui est humain est émouvante. À l’école de l’Incarnation, il avait appris à lire l’histoire et à l’habiter avec confiance.

Le critère de l’amour

Par expérience, il avait reconnu que le désir est la racine de toute vraie vie spirituelle et, en même temps, le lieu de sa contrefaçon. C’est pourquoi, en recueillant largement la tradition spirituelle qui l’avait précédé, il avait compris l’importance de mettre constamment le désir à l’épreuve par un continuel exercice de discernement. Il avait retrouvé dans l’amour le critère ultime de son évaluation. Toujours lors de son dernier séjour à Lyon, en la fête de saint Étienne, deux jours avant sa mort, il avait déclaré: «C’est l’amour qui donne la perfection à nos œuvres. Je vous dis bien plus:voilà une personne qui souffre le martyre pour Dieu avec une once d’amour, elle mérite beaucoup, on ne saurait donner davantage que sa vie; mais une autre personne qui ne souffrira qu’une chiquenaude avec deux onces d’amour aura beaucoup plus de mérite, parce que c’est la charité et l’amour qui donne le prix à nos œuvres».[10]

De manière concrète et surprenante, il avait poursuivi en illustrant la relation difficile entre contemplation et action: «Vous savez ou devriez savoir que la contemplation est en soi meilleure que l’action et la vie active; mais si dans la vie active on trouve une plus grande union [avec Dieu], alors elle est meilleure. Si une sœur, qui est dans la cuisine et maintient la casserole sur le feu, a plus d’amour et de charité qu’une autre, le feu matériel ne la retiendra pas, mais l’aidera à être plus agréable à Dieu. Il arrive assez souvent que l’on soit uni à Dieu dans l’action comme dans la solitude; en fin de compte, j’en reviens toujours à la question de savoir où l’on trouve le plus d’amour».[11]C’est la vraie question qui surpase toute rigidité inutile ou repli sur soi: se demander à chaque instant, pour chaque choix, dans chaque circonstance de la vie, où se trouve le plus grand amour. Ce n’est pas un hasard si saint François de Sales a été appelé par saint Jean-Paul II «le Docteur de l’amour divin»,[12]non seulement parce qu’il en a écrit un puissantTraité, mais surtout parce qu’il en a été témoin. Par ailleurs, ses écrits ne peuvent pas être considérés comme une théorie rédigée sur le papier, loin des préoccupations de l’homme ordinaire, car son enseignement est né d’une observation attentive de l’expérience. Il n’a fait que transformer en doctrine ce qu’il vivait et déchiffrait avec acuité, éclairé par l’Esprit, dans son action pastorale singulière et novatrice. Une synthèse de sa manière de procéder se retrouve dans la préface de ce mêmeTraité sur l’amour de Dieu: «Tout est à l’amour, pour l’amour et d’amour en la sainte Église».[13]

Les années de formation initiale: l’aventure de la connaissance de soi en Dieu

Il est né le 21 août 1567, au château de Sales, près de Thorens, de François de Nouvelles, seigneur de Boissy, et de Françoise de Sionnaz. «Ayant vécu à cheval entre deux siècles, le XVIeet le XVIIe, il rassemblait en lui le meilleur des enseignements et des conquêtes culturelles du siècle qui s’achevait, réconciliant l’héritage de l’humanisme et la tension vers l’absolu propre aux courants mystiques».[14]

Après sa formation culturelle initiale, au collège de La Roche-sur-Foron pour commencer puis à Annecy, il vint à Paris, au tout nouveau collège jésuite de Clermont. Dans la capitale du Royaume de France, dévastée par les guerres de religion, il vécut deux crises intérieures consécutives qui marqueront sa vie de manière indélébile. Cette prière ardente faite dans l’église Saint-Etienne-des-Grès, devant la Vierge noire de Paris, allumera dans son cœur, au milieu des ténèbres, une flamme qui restera vivante en lui pour toujours, comme une clé de compréhension de ses propres expériences et de celles des autres. «Quoi qu’il advienne, Seigneur, toi qui détiens tout entre tes mains, et dont les voies sont justice et vérité […] je t’aimerai Seigneur […] j’aimerai ici, ô mon Dieu, et j’espérerai toujours en ta miséricorde, et je répéterai toujours tes louanges […] O Seigneur Jésus, tu seras toujours mon espérance et mon salut dans la terre des vivants».[15]

C’est ainsi qu’il le nota dans son carnet, en retrouvant la paix. Et cette expérience, avec ses inquiétudes et ses questions, restera toujours éclairante pour lui et lui donnera une façon unique d’accéder au mystère de la relation entre Dieu et l’homme. Elle l’aidera à écouter la vie des autres et à reconnaître, avec un fin discernement, l’attitude intérieure qui unit la pensée au sentiment, la raison à l’affection, et qu’il dénommera le“Dieu du cœur humain”. De cette manière, François n’a pas couru le risque de faire de son expérience personnelle une valeur théorique, en l’absolutisant, mais il a appris une chose extraordinaire, fruit de la grâce: lire en Dieu sa propre expérience et celle des autres.

Bien qu’il n’ait jamais prétendu élaborer un véritable système théologique, sa réflexion sur la vie spirituelle a une éminente valeur théologique. Apparaissent chez lui les caractéristiques essentielles de l’exercice de la théologie dont deux dimensions constitutives ne doivent jamais être oubliées. La première est la vie spirituelle, précisément, car c’est dans la prière humble et persévérante, dans l’ouverture à l’Esprit Saint que l’on peut chercher à comprendre et à exprimer le Verbe de Dieu. On devient théologien dans le creuset de la prière. La deuxième dimension est la vie ecclésiale: sentir dans l’Église et avec l’Église. La théologie a souffert également de la culture individualiste, mais le théologien chrétien élabore sa pensée en étant immergé dans la communauté, en y rompant le pain de la Parole.[16]La réflexion de François de Sales, en marge des disputes d’écoles de son temps, tout en les respectant, découle précisément de ces deux traits constitutifs.

La découverte d’un monde nouveau

Une fois terminées ses humanités, il poursuivit des études de droit à l’Université de Padoue. Rentré à Annecy, il décida de l’orientation de sa vie, malgré les résistances paternelles. Ordonné prêtre le 18 décembre 1593, il fut, dans les premiers jours de septembre de l’année suivante, appelé par l’évêque, Mgr Claude de Granier, à la difficile mission du Chablais. C’était un territoire du diocèse d’Annecy, de confession calviniste, qui, dans le dédale complexe des guerres et des traités de paix, était de nouveau passé sous le contrôle du duché de Savoie. Ce furent des années intenses et dramatiques. Il y découvrit ses talents de médiateur et d’homme de dialogue, mais aussi certaines intransigeances rigides qui lui donneront plus tard matière à réflexion. Il se montra aussi l’inventeur de pratiques pastorales originales et audacieuses, comme les fameuses “feuilles volantes”, placardées un peu partout et même glissées sous les portes des maisons.

En 1602, il retourna à Paris pour une délicate mission diplomatique au nom du même Mgr de Granier et selon les indications précises du Siège apostolique, à la suite d’une énième évolution du cadre politique et religieux du diocèse de Genève. Malgré les bonnes dispositions du Roi de France, la mission échoua. Il écrivit lui-même au Pape Clément VIII: «Après neuf mois entiers, j’ai été contraint de m’en retourner sans avoir presque rien fait».[17]Pourtant, cette mission se révéla être pour lui et pour l’Église d’une richesse inattendue sur le plan humain, culturel et religieux. Pendant le temps libre accordé par les négociations diplomatiques, François prêcha en présence du Roi et de la cour de France, noua d’importantes relations et, surtout, s’immergea totalement dans le prodigieux printemps spirituel et culturel de la moderne capitale du royaume.

Là, tout avait changé ou était en train de changer. Lui-même se laissa toucher et interroger par les grands problèmes du monde et la nouvelle façon de les considérer, par la surprenante demande de spiritualité qui était née et les questions inédites qu’elle posait. En bref, il prit conscience d’un véritable “changement d’époque” auquel il convenait de répondre par des formes anciennes et nouvelles de langage. Ce n’était certes pas la première fois qu’il rencontrait des chrétiens fervents, mais il s’agissait de quelque chose de différent. Ce n’était plus le Paris ravagé par les guerres de religion qu’il avait vu dans ses années de formation, ni la lutte acharnée soutenue dans les territoires du Chablais. C’était une réalité inattendue: une foule «de saints, de vrais saints, nombreux et partout».[18]C’étaient des hommes et des femmes de culture, des professeurs de Sorbonne, des représentants des institutions, des princes et princesses, des serviteurs et des servantes, des religieux et religieuses. Un monde si diversement assoiffé de Dieu.

Rencontrer ces personnes et connaître leurs questions fut l’une des circonstances providentielles les plus importantes de sa vie. Des jours apparemment inutiles et creux se transformèrent ainsi en une école incomparable, pour lire, sans jamais les édulcorer, les humeurs de son temps. En lui, l’habile et inlassable polémiste se transformait, par grâce, en un fin interprète de son époque et un extraordinaire directeur d’âmes. Son action pastorale, ses grandes œuvres (l’Introduction à la vie dévote et le Traité de l’amour de Dieu), les milliers de lettres d’amitié spirituelle qui seront envoyées, à l’intérieur comme à l’extérieur des murs des couvents et des monastères, aux religieux et aux moniales, aux hommes et aux femmes de la cour comme aux gens ordinaires, la rencontre avec Jeanne Françoise de Chantal et la fondation même de la Visitation en 1610, seraient incompréhensibles sans ce retournement intérieur. L’Évangile et la culture formaient alors une féconde synthèse d’où découlait l’intuition d’une méthode juste et originale, arrivée à maturité et prête à porter un fruit durable et plein de promesses.

Dans l’une des toutes premières lettres de direction et d’amitié spirituelle, envoyée à l’une des communautés visitées à Paris, François de Sales parle, bien qu’en toute humilité, de“sa méthode”qui se différencie des autres, en vue d’une vraie réforme. Une méthode qui renonce à la sévérité et qui compte pleinement sur la dignité et la capacité d’une âme pieuse, malgré ses faiblesses: «Je me doute encore qu’il y ait un autre empêchement à votre réformation: c’est qu’à l’aventure, ceux qui vous l’ont proposée ont manié la plaie un peu âprement […] Je loue leur méthode, bien que ce ne soit pas la mienne, surtout à l’endroit des esprits nobles et bien éduqués comme sont les vôtres; je crois qu’il est mieux de leur montrer simplement le mal, et leur mettre le fer en main afin qu’ils fassent eux-mêmes l’incision. Néanmoins, ne vous laissez pas pour cela de vous réformer».[19]Dans ces phrases transparaît ce regard qui a rendu célèbre l’optimisme salésien et qui a laissé son empreinte durable dans l’histoire de la spiritualité permettant des floraisons successives, comme dans le cas de don Bosco deux siècles plus tard.

Rentré à Annecy, il fut ordonné évêque le 8 décembre de la même année 1602. L’influence de son ministère épiscopal sur l’Europe de l’époque et des siècles suivants apparaît immense. «C’est un apôtre, un prédicateur, un homme d’action et de prière; engagé dans la réalisation des idéaux du Concile de Trente; participant à la controverse et au dialogue avec les protestants, faisant toujours plus l’expérience, au-delà de la confrontation théologique nécessaire, de l’importance de la relation personnelle et de la charité; chargé de missions diplomatiques au niveau européen, et de fonctions sociales de médiation et de réconciliation».[20]Il est surtout un interprète privilégié d’un changement d’époque et le guide des âmes en un temps qui, d’une manière nouvelle, a soif de Dieu.

La charité fait tout pour ses enfants

Entre 1620 et 1621, François, désormais proche de la fin de sa vie, adressait à un prêtre de son diocèse des mots qui éclairent sa vision de l’époque. Il l’encourageait à suivre son désir de se consacrer à la rédaction de textes originaux, capables de prendre en compte les nouvelles interrogations, en ayant conscience de leur nécessité. «Je dois vous dire que la connaissance que je prends tous les jours des humeurs du monde me fait souhaiter passionnément que la divine Bonté inspire quelques-uns de ses serviteurs d’écrire au goût de ce pauvre monde».[21]La raison de cet encouragement, il la trouvait dans sa vision du temps: «Le monde devient si délicat, que désormais on ne l’osera toucher qu’avec des gants musqués, ni panser ses plaies qu’avec des emplâtres de civette; mais qu’importe, pourvu que les hommes soient guéris et qu’en fin ils soient sauvés? Notre reine, la charité, fait tout pour ses enfants».[22]Ce n’était pas gagné d’avance, encore moins une reddition définitive face à la défaite. C’était plutôt l’intuition d’un changement en acte et de l’exigence, toute évangélique, de comprendre comment pouvoir l’habiter.

Il avait d’ailleurs mûri la même conscience et l’avait exprimée dans la Préface duTraité de l’amour de Dieu: «J’ai eu en considération la condition des esprits de ce siècle, et je le devais: il importe beaucoup de regarder en quel âge on écrit».[23]En demandant ensuite la bienveillance du lecteur, il affirmait: «Si tu trouves le style un […] peu différent de celui dont j’ai usé écrivant à Philothée, et tous deux grandement divers de celui que j’ai employé en laDéfense de la Croix, sache qu’en dix-neuf ans, on apprend et désapprend beaucoup de choses; que le langage de la guerre est autre que celui de la paix, et que l’on parle d’une façon aux jeunes apprentis, et d’une autre sorte aux vieux compagnons».[24]Mais, face à ce changement, par où commencer? Par l’histoire même de Dieu avec l’homme. D’où le dernier objectif de sonTraité: «Certes, j’ai seulement pensé à représenter simplement et naïvement, sans art et encore plus sans fard, l’histoire de la naissance, du progrès, de la décadence des opérations, propriétés, avantages et excellences de l’amour divin».[25]

Les questions d’un passage d’époque

À l’occasion du quatrième centenaire de sa mort, je me suis interrogé sur l’héritage de saint François de Sales pour notre époque, et j’ai trouvé éclairantes sa souplesse et sa capacité de vision. Par un don de Dieu d’une part, par sa nature personnelle d’autre part, et aussi par sa solide expérience, il avait eu la nette perception d’un changement d’époque. Lui-même n’aurait jamais imaginé y reconnaître une telle opportunité pour l’annonce de l’Évangile. La Parole qu’il avait aimée depuis sa jeunesse était capable de faire son chemin, ouvrant des horizons nouveaux et imprévisibles, dans un monde en transition rapide.

C’est ce qui nous attend aussi comme tâche essentielle pour le changement d’époque que nous vivons: une Église non autoréférentielle, libre de toute mondanité mais capable d’habiter le monde, de partager la vie des personnes, de marcher ensemble, d’écouter et d’accueillir.[26]C’est ce que François de Sales a accompli en déchiffrant son époque, avec l’aide de la grâce. C’est pourquoi il nous invite à sortir d’une préoccupation excessive de nous-mêmes, des structures, de l’image que nous donnons dans la société et à nous demander plutôt quels sont les besoins concrets et les attentes spirituelles de notre peuple.[27]Il est donc important, aujourd’hui encore, de relire certains de ses choix cruciaux, pour habiter le changement avec une sagesse évangélique.

La brise et les ailes

Le premier de ces choix a été de relire et de proposer de nouveau, à chacun dans sa condition particulière, la relation heureuse entre Dieu et l’être humain. Au fond, la raison ultime et le but concret duTraitéest précisément de montrer aux contemporains l’attraction de l’amour de Dieu. «Quels sont – se demande-t-il – les cordages ordinaires par lesquels la divine Providence a accoutumé de tirer nos cœurs à son amour?».[28]Prenant de manière suggestive comme point de départ le texte d’Osée 11, 4,[29]il définit ces moyens ordinaires comme des «liens d’humanité ou de charité et d’amitié». «Sans doute – écrit-il – [que] nous ne sommes pas tirés à Dieu par des liens de fer, comme les taureaux et les buffles, mais par manière d’allèchements, d’attraits délicieux et de saintes inspirations, qui sont en somme lesliens d’Adam et d’humanité; c’est-à-dire proportionnés et convenables au cœur humain, auquel la liberté est naturelle».[30]C’est par ces liens que Dieu a tiré son peuple de l’esclavage, en lui apprenant à marcher, en le tenant par la main, comme le fait un papa ou une maman avec son enfant. Aucune imposition extérieure, donc, aucune force despotique et arbitraire, aucune violence. Plutôt, la forme persuasive d’une invitation qui laisse intacte la liberté de l’homme. «La grâce – poursuit-il en pensant certainement à tant d’histoires de vie rencontrées – a des forces, non pour forcer, mais pour allécher le cœur; elle a une sainte violence, non pour violer, mais pour rendre amoureuse notre liberté; elle agit fortement, mais si suavement que notre volonté ne demeure point accablée sous une si puissante action; elle nous presse, mais elle n’oppresse pas notre franchise: si bien que nous pouvons, emmi ses forces, consentir ou résister à ses mouvements selon qu’il nous plaît».[31]

Peu avant, il avait illustré cette relation avec l’exemple curieux de l’«apode»: «Il y a certains oiseaux, Théotime, qu’Aristote nomme “apodes”, parce qu’ayant les jambes extrêmement courtes, et les pieds sans force, ils ne s’en servent non plus que s’ils n’en avaient point: que si une fois ils prennent terre, ils y demeurent pris, sans que jamais d’eux-mêmes ils puissent reprendre le vol, d’autant que n’ayant nul usage des jambes ni des pieds, ils n’ont pas non plus le moyen de se pousser et relancer en l’air; et partant, ils demeurent là croupissants et y meurent, sinon que quelque vent propice à leur impuissance, jetant ses bouffées sur la face de la terre, les vienne saisir et enlever, comme il fait plusieurs autres choses; car alors, si employant leurs ailes ils correspondent à cet élan et premier essor que le vent leur donne, le même vent continue aussi son secours envers eux, les poussant de plus en plus au vol».[32]L’homme est ainsi: fait par Dieu pour voler et déployer toutes ses potentialités dans l’appel à l’amour, il risque de devenir incapable de décoller quand il tombe à terre et n’accepte pas de rouvrir les ailes au souffle de l’Esprit.

Voilà donc la «forme» par laquelle la grâce de Dieu se donne aux hommes: celle des liens précieux et si humains d’Adam. La force de Dieu ne cesse jamais d’être absolument capable de faire prendre son envol et, néanmoins, sa douceur fait en sorte que la liberté d’y consentir n’est ni violée ni inutile. Il revient à l’homme de se lever ou de ne pas se lever. Bien que la grâce l’ait touché au réveil, sans lui, elle ne veut pas que l’homme se lève sans y consentir. Ainsi tire-t-il sa réflexion finale: «Théotime, les inspirations nous préviennent, et avant que nous y ayons pensé elles se font sentir, mais après que nous les ayons senties, c’est à nous d’y consentir pour les seconder et suivre leurs attraits, ou de le dissentir et les repousser: elles se font sentir à nous, sans nous, mais elles ne nous font pas consentir sans nous».[33]Par conséquent, dans la relation avec Dieu, il s’agit toujours d’une expérience de gratuité qui témoigne de la profondeur de l’amour du Père.

Cependant, cette grâce ne rend jamais l’homme passif. Elle nous fait comprendre que nous sommes radicalement précédés par l’amour de Dieu, et que son premier don consiste précisément à se recevoir de son amour. Chacun, cependant, a le devoir de coopérer à sa propre réalisation, en déployant avec confiance ses ailes au souffle de Dieu. Nous voyons ici un aspect important de notre vocation humaine: «Le devoir que Dieu confie à Adam et Eve dans le récit de la Genèse est d’être féconds. L’humanité s’est vue confier la tâche de changer, de construire et de dominer la création, une tâche positive qui consiste à créer à partir d’elle et avec elle. L’avenir ne dépend donc pas d’un mécanisme invisible dont les êtres humains sont des spectateurs passifs. Non, nous sommes des protagonistes, nous sommes – en forçant le mot –co-créateurs».[34]C’est ce que François de Sales a bien compris et a essayé de transmettre dans son ministère de guide spirituel.

La vraie dévotion

Un deuxième grand choix crucial a été celui d’aborder la question de la dévotion. Comme de nos jours, là encore, la nouvelle époque avait soulevé un bon nombre d’interrogations. En particulier, deux aspects demandent à être, aujourd’hui encore, compris et relancés. Le premier concerne l’idée même de dévotion, le second, son caractère universel et populaire. Indiquer ce que l’on entend par dévotion, c’est le premier point qui est abordé au début dePhilothée: «Il faut avant toutes choses que vous sachiez ce qu’est la vertu de dévotion; car, d’autant qu’il n’y en a qu’une vraie, et qu’il y en a une grande quantité de fausses et vaines, si vous ne connaissiez quelle est la vraie, vous pourriez vous tromper et vous amuser à suivre quelque dévotion impertinente et superstitieuse».[35]

La description de la fausse dévotion par François de Sales est savoureuse et toujours actuelle et il n’est pas difficile pour nous de nous y retrouver, non sans une touche efficace de sain humour: «Celui qui est adonné au jeûne se tiendra pour bien dévot pourvu qu’il jeûne, quoi que son cœur soit plein de rancune; et n’osant point tremper sa langue dans le vin ni même dans l’eau, par sobriété, ne se feindra point de la plonger dedans le sang du prochain par la médisance et calomnie. Un autre s’estimera dévot parce qu’il dit une grande multitude d’oraisons tous les jours, quoi qu’après cela sa langue se fonde toute en paroles fâcheuses, arrogantes et injurieuses parmi ses domestiques et voisins. L’autre tire fort volontiers l’aumône de sa bourse pour la donner aux pauvres, mais il ne peut tirer la douceur de son cœur pour pardonner à ses ennemis; l’autre pardonnera à ses ennemis, mais de tenir raison à ses créanciers, jamais qu’à vive force de justice».[36]Ce sont des vices et des efforts de tous les temps, même d’aujourd’hui, pour lesquels le Saint conclut: «Tous ces gens-là sont vulgairement tenus pour dévots, et ne le sont pourtant nullement».[37]

La nouveauté et la vérité de la dévotion se trouvent ailleurs, profondément enracinées dans la vie divine en nous. De cette manière «la vraie et vivante dévotion […] présuppose l’amour de Dieu, ainsi elle n’est autre chose qu’un vrai amour de Dieu, mais non pas toutefois un amour tel quel».[38]Dans son imagination fervente, elle n’est «autre chose qu’une agilité et vivacité spirituelle par le moyen de laquelle la charité fait ses actions en nous, ou nous par elle, promptement et affectionnément».[39]Ainsi, elle n’est pas placée à côté de la charité, mais en est une manifestation et, en même temps, y conduit. C’est comme une flamme par rapport au feu: elle ravive son intensité, sans en changer la qualité. «Enfin, la charité et la dévotion ne sont non plus différentes l’une de l’autre que la flamme l’est du feu, d’autant que la charité étant un feu spirituel, quand elle est fort enflammée elle s’appelle dévotion: si que la dévotion n’ajoute rien au feu de la charité, sinon la flamme qui rend la charité prompte, active et diligente, non seulement à l’observation des commandements de Dieu, mais à l’exercice des conseils et inspirations célestes».[40]Une dévotion ainsi comprise n’a rien d’abstrait. Elle est plutôt un style de vie, une façon d’être dans le concret de l’existence quotidienne. Elle rassemble et donne un sens aux petites choses de tous les jours, la nourriture et les vêtements, le travail et les loisirs, l’amour et la fécondité, l’attention aux obligations professionnelles. Bref, elle éclaire la vocation de chacun.

On devine ici la racine populaire de la dévotion, affirmée dès les premières paroles dePhilothée: «Ceux qui ont traité de la dévotion ont presque tous regardé l’instruction des personnes fort retirées du commerce du monde, ou au moins ont enseigné une sorte de dévotion qui conduit à cette entière retraite. Mon intention est d’instruire ceux qui vivent en villes, en ménages, dans la cour, et qui par leur condition sont obligés de faire une vie commune».[41]C’est pourquoi celui qui pense reléguer la dévotion à quelque domaine protégé et réservé se trompe lourdement. Au contraire, elle appartient à tous et est pour tous, où que nous soyons, et chacun peut la pratiquer selon sa vocation. Comme l’écrivait saint Paul VI à l’occasion du quatrième centenaire de la naissance de François de Sales, «la sainteté n’est pas l’apanage de l’une ou de l’autre classe; mais l’invitation pressante est adressée à tous les chrétiens: “Mon ami, monte plus haut” (Lc14, 10); tous sont liés par l’obligation de gravir la montagne de Dieu, même si tous ne suivent pas le même chemin. “La dévotion doit être exercée différemment par le gentilhomme, l’artisan, le servant, le prince, la veuve, la jeune femme, la mariée. Plus encore, la pratique de la dévotion doit être adaptée aux forces, aux affaires et aux devoirs de chacun”».[42]Traverser la cité terrestre en préservant l’intériorité, allier le désir de perfection à chaque état de vie, en retrouvant un centre qui ne se sépare pas du monde mais apprend à l’habiter, à l’apprécier, en apprenant aussi à prendre ses distances. Telle était son intention, et cela continue d’être une leçon précieuse pour chaque homme et chaque femme de notre temps.

C’est le thème conciliaire de la vocation universelle à la sainteté: «Pourvus de moyens salutaires d’une telle abondance et d’une telle grandeur, tous ceux qui croient au Christ, quels que soient leur condition et leur état de vie, sont appelés par Dieu, chacun dans sa route, à une sainteté dont la perfection est celle même du Père».[43]“Chacun dans sa route”. «Il ne faut donc pas se décourager quand on contemple des modèles de sainteté qui semblent inaccessibles».[44]La Mère Église nous les propose non pas pour que nous cherchions à les imiter, mais pour qu’ils nous poussent à marcher sur le chemin unique et spécifique que le Seigneur a pensé pour nous. «Ce qui compte, c’est que chaque croyant discerne son chemin et fasse ressortir le meilleur de lui-même, ce que Dieu a placé en lui de manière si personnelle (cf. 1Co12, 7)».[45]

L’extase de la vie

Tout cela a conduit le saint évêque à considérer la vie chrétienne dans son ensemble comme «l’extase de l’œuvre et de la vie».[46]Celle-ci ne doit cependant pas être confondue avec une fuite facile ou un retrait dans l’intimité, et encore moins avec une obéissance triste et grise. Nous savons que ce danger est toujours présent dans la vie de foi. En effet, «il y a des chrétiens qui semblent avoir un air de Carême sans Pâques. [...] Je comprends les personnes qui deviennent tristes à cause des graves difficultés qu’elles doivent supporter, cependant peu à peu, il faut permettre à la joie de la foi de commencer à s’éveiller, comme une confiance secrète mais ferme, même au milieu des pires soucis».[47]

Permettre à la joie de s’éveiller est précisément ce que François de Sales exprime en décrivant «l’extase de l’œuvre et de la vie». Grâce à elle, «nous vivons non seulement une vie civile, honnête et chrétienne, mais une vie surhumaine, spirituelle, dévote et extatique, c’est-à-dire une vie qui est de toute façon en dehors et au-dessus de notre condition naturelle».[48]Nous nous trouvons ici dans les pages centrales et les plus lumineuses duTraité. L’extase est l’heureuse surabondance de la vie chrétienne, élevée bien au-dessus de la médiocrité de la simple observance: «Ne point dérober, ne point mentir, ne point commettre de luxure, prier Dieu, ne point jurer en vain, aimer et honorer son père, ne point tuer, c’est vivre selon la raison naturelle de l’homme.Mais quitter tous nos biens, aimer la pauvreté, l’appeler et tenir en qualité de très délicieuse maîtresse; tenir les opprobres, mépris, abjections, persécutions, martyres, pour des félicités et béatitudes; se contenir dans les termes d’une absolue chasteté, et enfin vivre parmi le monde et en cette vie mortelle contre toutes les opinions et maximes du monde, et contre le courant du fleuve de cette vie par des ordinaires résignations, renoncements et abnégations de nous-mêmes, ce n’est pas vivre humainement, mais surhumainement; ce n’est pas vivre en nous, mais hors de nous et au-dessus de nous. Et parce que nul ne peut sortir en cette façon au-dessus de soi-même, si le Père éternel ne le tire, partant cette sorte de vie doit être un ravissement continuel etune extase perpétuelle d’action et d’opération».[49]

C’est une vie qui a retrouvé les sources de la joie, contre toute aridité, contre la tentation du repli sur soi. En effet, «le grand risque du monde d’aujourd’hui, avec son offre de consommation multiple et écrasante, est une tristesse individualiste qui vient du cœur bien installé et avare, de la recherche malade de plaisirs superficiels, de la conscience isolée. Quand la vie intérieure se ferme sur ses propres intérêts, il n’y a plus de place pour les autres, les pauvres n’entrent plus, on n’écoute plus la voix de Dieu, on ne jouit plus de la douce joie de son amour, l’enthousiasme de faire le bien ne palpite plus. Même les croyants courent ce risque, certain et permanent. Beaucoup y succombent et se transforment en personnes vexées, mécontentes, sans vie».[50]

À la description de «l’extase de l’œuvre et de la vie», saint François ajoute, enfin, deux précisions importantes, également pour notre temps. La première concerne un critère efficace pour discerner la vérité de ce mode de vie. La seconde concerne la source profonde de celui-ci. En ce qui concerne le critère de discernement, il précise que, si cette extase implique une véritable sortie de soi, elle ne signifie pas pour autant un abandon de la vie. Il est important de ne jamais l’oublier, pour éviter de dangereuses déviations. En d’autres termes, celui qui prétend s’élever vers Dieu, mais ne vit pas la charité envers son prochain, se trompe lui-même et trompe les autres.

Nous retrouvons ici le même critère qu’il appliquait à la qualité de la vraie dévotion. «Quand on voit une personne qui en l’oraison a des ravissements par lesquels elle sort et monte au-dessus de soi-même en Dieu, et néanmoins n’a point d’extase en sa vie, c’est-à-dire ne fait point une vie relevée et attachée à Dieu, [...] surtout par une continuelle charité, croyez, Théotime, que tous ses ravissements sont grandement douteux et périlleux». Sa conclusion est très efficace: «Être au-dessus de soi-même en l’oraison et au-dessous de soi en la vie et opération, être angélique en la méditation et bestial en la conversation […] est une vraie marque que tels ravissements et telles extases ne sont que des amusements et des tromperies du malin esprit».[51]C’est, en substance, ce que Paul rappelait déjà aux Corinthiens dans l’hymne à la charité: «J’aurais beau avoir toute la foi jusqu’à transporter les montagnes, s’il me manque l’amour, je ne suis rien. J’aurais beau distribuer toute ma fortune aux affamés, j’aurais beau me faire brûler vif, s’il me manque l’amour, cela ne me sert à rien» (1Co13, 2-3).

Pour saint François de Sales, donc, la vie chrétienne n’est jamais sans extase et, cependant, l’extase n’est pas authentique sans la vie. En effet, la vie sans extase risque d’être réduite à une obéissance opaque, à un Évangile qui a oublié sa joie. Par contre, l’extase sans la vie s’expose facilement à l’illusion et à la tromperie du malin. Les grandes polarités de la vie chrétienne ne peuvent être résolues l’une dans l’autre. Au contraire, l’une maintient l’autre dans son authenticité. Ainsi, la vérité ne va pas sans la justice, la complaisance sans la responsabilité, la spontanéité sans la loi, et vice versa.

Quant à la source profonde de cette extase, il la relie judicieusement à l’amour manifesté par le Fils incarné. S’il est vrai, d’une part, que «l’amour est le premier acte et principe de notre vie dévote ou spirituelle, par lequel nous vivons, sentons et nous émouvons» et, d’autre part, que «notre vie spirituelle est telle que sont nos mouvements affectifs», il est clair qu’ «un cœur qui n’a point de mouvement et d’affection, n’a point d’amour», de même qu’ «un cœur qui a de l’amour n’est point sans mouvement affectif».[52]Mais la source de cet amour qui attire le cœur est la vie de Jésus-Christ: «Rien ne presse tant le cœur de l’homme que l’amour», et le point culminant de cette pression est le fait que «Jésus-Christ est mort pour nous, il nous a donné la vie par sa mort; nous ne vivons que parce qu’il est mort, il est mort pour nous, à nous et en nous».[53]

Cette indication est émouvante, parce qu’elle révèle non seulement une vision éclairée et non évidente du rapport entre Dieu et l’homme, mais aussi le lien affectif étroit qui liait le saint évêque au Seigneur Jésus. La vérité de l’extase de la vie et de l’action n’est pas n’importe laquelle, mais c’est celle qui apparaît sous la forme de la charité du Christ, qui culmine sur la croix. Cet amour n’annule pas l’existence, mais la fait briller d’une qualité extraordinaire.

C’est pour cette raison que saint François de Sales utilise une très belle image pour décrire le Calvaire comme «le mont des amants».[54]Là, et seulement là, on comprend qu’ «on ne peut avoir la vie sans l’amour, ni l’amour sans la mort du Rédempteur. Mais hors de là, tout est ou mort éternelle ou amour éternel, et toute la sagesse chrétienne consiste à bien choisir».[55]Ainsi, il peut clore sonTraitéen renvoyant à la conclusion d’un discours de saint Augustin sur la charité: «Qu’y a-t-il de plus fidèle que la charité? Fidèle non pas à l’éphémère mais à l’éternel. Elle supporte tout dans la vie présente, pour la raison qu’elle croit tout sur la vie future: elle supporte tout ce qui nous est donné à supporter ici, parce qu’elle espère tout ce qui lui est promis là-bas. A juste titre, elle n’a jamais de fin. Pratiquez donc la charité et portez, en la méditant saintement, les fruits de la justice. Et si vous trouvez d’autres choses à sa louange que je ne vous ai pas dites maintenant, que cela se voie dans votre manière de vivre».[56]

Voilà ce qui ressort de la vie du saint évêque d’Annecy, et qui est livré, une fois encore, à chacun de nous. Que le quatrième Centenaire de sa naissance au Ciel nous aide à en faire une mémoire pieuse et que, par son intercession, le Seigneur déverse les dons de l’Esprit en abondance sur le chemin du peuple fidèle de Dieu.

Rome, Saint-Jean-du-Latran, 28 décembre 2022

FRANÇOIS

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[1]S.François de Sales,Traité de l’Amour de Dieu, inŒuvres, éd. André Ravier, Gallimard, Paris 1969, p. 336.

[2]Id.,Lettre 2103:À Monsieur Sylvestre de Saluces de la Mente, Abbé d’Hautecombe(3 nov. 1622), inŒuvres de Saint François de Sales, Tome XXVI, Annecy 1918, pp. 490-491.

[3]Id.,LettreDCCCXXVIII:À une Dame(19 déc. 1622), inŒuvres Complètes de Saint François de Sales, Évêque et Prince de Genève, Tome III, Paris 1861, p. 659.

[4]Id.,Traité de l’Amour de Dieu, inŒuvres, éd. André Ravier, Gallimard, Paris 1969, p. 395.

[5]Id.,Entretiens spirituels, Dernier entretien [21], in Œuvres, éd. André Ravier, Gallimard, Paris 1969, p. 1319.

[6]Exhort. ap.Gaudete et exsultate(19 mars 2018), n. 49:AAS110 (2018), p. 1124.

[7]Ibid., n. 57:AAS110 (2018), p. 1127.

[8]Cf.Ibid., nn. 37-39:AAS110 (2018), p. 1121-1122.

[9]S.François de Sales,Entretiens spirituels, Dernier entretien [21], inŒuvres, éd. André Ravier, Gallimard, Paris 1969, p. 1319.

[10]Ibid., p. 1308.

[11]Ibid.

[12]Lettre à l’Évêque d’Annecy (France) à l’occasion du 4ème Centenaire de l’Ordination épiscopale de saint François de Sales(23 novembre 2002), n. 3:Enseignements de Jean-Paul II, XXV/2 (2022), p. 767.

[13]S.François de Sales,Traité de l’Amour de Dieu, inŒuvres, éd. André Ravier, Gallimard, Paris 1969, p. 336.

[14]BenoîtXVI,Catéchèse, 2 mars 2011:Enseignements, VII/1 (2011), p. 270.

[15]S.François de Sales,Fragments d’écrits intimes, 3: Acte d’abandon héroïque,inŒuvres de saint François de Sales, tome XXII (Opuscules, I), Annecy 1925, p. 41.

[16]Cf.Discours à la Commission Théologique Internationale, 29 novembre 2019:L’Osservatore Romano, 30 novembre 2019, p. 8.

[17]S.François de Sales,Lettre 165:À Sa Sainteté Clément VIII(fin octobre 1602), inŒuvres de saint François de Sales, Tome XII (Lettres, II: 1599-1604), Annecy 1902, p. 128.

[18]H.Bremond,L’humanisme dévot: 1580-1660, inHistoire littéraire du sentiment religieux en France: depuis la fin des guerres de religion jusqu’à nos jours, Tome I, Jérôme Millon, Grenoble, 2006, p. 131.

[19]S.François de Sales,Lettre168Aux religieuses du monastère des «Filles-Dieu»(22 novembre 1602), inŒuvres de Saint François de Sales, Tome XII (Lettres, II:1599-1604), Annecy 1902, 105.

[20]BenoîtXVI,Catéchèse, 2 mars 2011: Enseignements, VII/1 (2011), p. 272.

[21]S.François de Sales,Lettre 1869:À Monsieur Pierre Jay,(1620 ou 1621), inŒuvres de saint François de Sales,Tome XX (Lettres, X: 1621-1622), Annecy 1918, p. 219.

[22]Ibid.

[23]Id.,Traité de l’Amour de Dieu, inŒuvres, éd. André Ravier, Gallimard, Paris 1969, p. 339.

[24]Ibid., p. 347

[25]Ibid., pp. 338-339.

[26]Cf.Discours aux évêques, prêtres, religieux et religieuses, séminaristes et catéchistes, Bratislava, 13 septembre 2021:L’Osservatore Romano, 13 septembre 2021, pp. 11-12.

[27]Cf.Ibid.

[28]S.François de Sales,Traité de l’Amour de Dieu, inŒuvres, éd. André Ravier, Gallimard, Paris 1969, p. 444.

[29]«Je les menais avec des attaches humaines [Vulg:in funiculis Adam], avec des liens d’amour; j’étais pour eux comme ceux qui soulèvent un nourrisson tout contre leur joue, je m’inclinais vers lui et le faisais manger».

[30]S.François de Sales,Traité de l’Amour de Dieu, inŒuvres, éd. André Ravier, Gallimard, Paris 1969, p. 444.

[31]Ibid., pp. 444-445.

[32]Ibid., p. 434.

[33]Ibid., p. 446.

[34]Ritorniamo a sognare. La strada per un futuro migliore, Conversazione con Austen Ivereigh, Piemme, Milano 2020, p. 8.

[35]S.François de Sales,Philothée. Introduction à la vie dévote, inŒuvres, éd. André Ravier, Gallimard, Paris 1969, p. 31.

[36]Ibid., pp. 31-32.

[37]Ibid., p.32.

[38]Ibid.

[39]Ibid.

[40]Ibid., p. 33.

[41]Ibid., p 23.

[42]Lett. ap.Sabaudiae gemmaà l’occasion duquatrième centenaire de la naissance de saint François de Sales Docteur de l’Eglise(29 janvier 1967):AAS59 (1967), p. 119.

[43]Conc. Œcum.Vat.II, Const. dogm.Lumen gentium, n. 11.

[44]Exhort. ap.Gaudete et exsultate, n. 11:AAS110 (2018), p. 1114.

[45]Ibid.

[46]S.François de Sales,Traité de l’Amour de Dieu, inŒuvres, éd. André Ravier, Gallimard, Paris 1969, p.682.

[47]Exhort. ap.Evangelii gaudium(24 novembre 2013), n. 6:AAS105 (2013), pp. 1021-1022.

[48]S.François de Sales,Traité de l’Amour de Dieu, inŒuvres, éd. André Ravier, Gallimard, Paris 1969,pp. 682-683.

[49]Ibid., p. 683.

[50]Exhort. ap.Evangelii gaudium, n. 2:AAS105 (2013), pp. 1019-1020.

[51]S.François de Sales,Traité de l’Amour de Dieu, inŒuvres, éd. André Ravier, Gallimard, Paris 1969, p. 685.

[52]Ibid., p. 684.

[53]Ibid., pp. 687-688.

[54]Ibid., p. 971.

[55]Ibid.

[56]Discours, 350, 3: PL 39, p. 1535.

[02021-FR.01] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

 

APOSTOLIC LETTER

TOTUM AMORIS EST

OF THE HOLY FATHER

FRANCIS

ON THE FOURTH CENTENARY OF THE DEATH

OF SAINT FRANCIS DE SALES

“EVERYTHING PERTAINS TO LOVE”.[1] These words summarize the spiritual legacy left to us by Saint Francis de Sales, who died four centuries ago, on 28 December 1622, in Lyon. Slightly more than fifty years of age, he had been the “exiled” Bishop and Prince of Geneva for some two decades, and had come to Lyon on what was to be his last diplomatic mission. The Duke of Savoy had asked him to accompany Cardinal Maurice of Savoy to Avignon, where they were to pay homage to the young King Louis XIII, then returning to Paris through the Rhône valley following a victorious military campaign in the south of France. Exhausted and in poor health, Francis had undertaken the journey in a pure spirit of service. “Were it not most helpful to them for me to make this trip, I would surely have many good reasons to excuse myself. Yet if I can be of help, alive or dead, I will not refuse, but go or let myself be dragged there”.[2] That was his temperament. Upon his arrival in Lyon, he stayed at the monastery of the Visitation Sisters, in the gardener’s lodge, so as not to be a burden and to be free to meet with anyone who so desired.

Long disenchanted by the “fleeting glories of the court”,[3]he spent those final days exercising his pastoral ministry amid a flurry of appointments: confessions, conversations, conferences, sermons, and, of course, letters of spiritual friendship. The deepest reason for such a way of life, completely centred on God, had become clearer to him over time. He explained it with simplicity and precision in his celebratedTreatise on the Love of God: “At the very thought of God, one immediately feels a certain delightful emotion of the heart, which testifies that God is God of the human heart”.[4] These words are a perfect synthesis of his thought. An experience of God is intrinsic to the human heart. Far from a mental construct, it is a recognition, filled with awe and gratitude, of God’s self-manifestation. In the heart and through the heart, there comes about a subtle, intense and unifying process in which we come to know God and, at the same time, ourselves, our own origins and depths, and our fulfilment in the call to love. We discover that faith is no blind emotion, but primarily an attitude of the heart, whereby we entrust ourselves to a truth that appeals to our consciousness as a “sweet emotion” and awakens in response, as he was wont to say, an enduring benevolence towards all of creation.

In this light, we can understand why Saint Francis de Sales felt that there was no better place to find God, and to help others to find him, than in the hearts of the women and men of his time. He had learned this, from his earliest years, by developing a keen insight both into himself and into the human heart.

Francis’ profound sense of God’s presence amid the events of daily life was evident in those last days in Lyon. He shared with his Visitation Sisters how he wished to be remembered by them: “I said everything in just two words, when I told you to refuse nothing and to desire nothing; I have nothing more to say to you”.[5] This was no mere voluntarism, “a will lacking humility”,[6]the subtle temptation along the path to holiness that confuses it with self-justification, the worship of the human will and its powers, and results in “a self-centred and elitist complacency, bereft of true love”.[7] Still less was it a matter of pure quietism, a passive and emotionless abandonment to a doctrine stripped of the flesh and history.[8] Instead, it was the fruit of his contemplation of the life of the incarnate Son. On 26 December, the saint spoke to the Sisters from the heart of the Christmas mystery: “Do you see the baby Jesus in the crib? He accepts all the discomforts of that season, the bitter cold and everything that the Father lets happen to him. He does not refuse the small consolations that his Mother gives him; we are not told that he ever reached out for his Mother’s breast, but left everything to her care and concern. So too, we ourselves should neither desire nor refuse anything, but accept all that God sends us, the bitter cold and the discomforts of the season”.[9] We are struck by how Francis recognized the importance of concern for the human dimension. At the school of the incarnation, he had learned to interpret history and to approach life with confidence and trust.

The criterion of love

By experience, Francis had come to realize that desire is at the root of all true spiritual life, but also the cause of its debasement. Drawing abundantly from the spiritual tradition that had preceded him, he recognized the importance of constantly testing desire through the exercise of discernment. He found the ultimate criterion for this assessment in love. In that final conference in Lyon, on the feast of Saint Stephen, two days before his death, he had said: “It is love that grants perfection to our works. I will tell you much more. Take a person who suffers martyrdom for God with an ounce of love; that person merits much, since he could give nothing greater than his own life. Yet another person who has only suffered a scratch with two ounces of love will have much more merit, because it is charity and love that give value to our works”.[10]

With remarkable realism, Francis went on to speak of the complex relationship between contemplation and action: “You know, or you should know, that contemplation is in itself better than activity and the active life; nonetheless, if one finds greater union [with God] in the active life, then that is better. If a Sister in the kitchen holding a pan over the fire has greater love and charity than another Sister, that material fire will not hold her back but instead help her to become more pleasing to God. It frequently happens that people are united to God as much in activity as in solitude; in the end, it always comes back to the question of where the greatest love is to be found”.[11] This, then, is the truly important thing, more important than any kind of useless rigidity or self-absorption: to keep asking at every moment, in every decision, in every situation in life, where the greatest love is to be found. Not by chance, Saint John Paul II would call Francis de Sales the “Doctor of Divine Love”,[12]not simply because he had written a weighty Treatise on that subject, but first and foremost because he was an outstanding witness to that love. His writings were no theory concocted behind a desk, far from the concerns of ordinary people. His teachings were the fruit of a great sensitivity to experience. He merely translated into doctrine what, enlightened by the Spirit, he had experienced and learned in the course of his remarkably innovative pastoral activity. We find it summed up in the Preface to theTreatise on the Love of God: “In Holy Church, everything pertains to love, lives in love, is done for love and comes from love”.[13]

Early education: the adventure of coming to know oneself in God

Francis was born on 21 August 1567 in the Castle of Sales, near Thorens, the son of François de Nouvelles, Lord of Boisy, and Françoise de Sionnaz. “His life spanned two centuries, the sixteenth and the seventeenth, and he embodied the best of the teachings and cultural achievements of the century then drawing to a close, reconciling the inheritance of humanism with the striving for the Absolute proper to the currents of mysticism”.[14]

After his early education, first in the College of La Roche-sur-Foron and then in that of Annecy, Francis went to Paris, to the recently founded Jesuit College of Clermont. In the capital of the Kingdom of France, devastated by the wars of religion, he experienced two consecutive interior crises that would have a lasting mark on his life. A fervent prayer offered in the Church of Saint-Étienne-des-Grès, before the Black Madonna of Paris, would kindle, amid the darkness of his heart, a fire that would continue to burn within him and provide the key to understanding his own experience and that of others. “Whatever may happen, Lord, you who hold everything in your hands and whose ways are all justice and truth, … I will love you, Lord, … I will love you here, O my God; I will hope always in your mercy and ever repeat your praise… O Lord Jesus, you will always be my hope and my salvation in the land of the living”.[15]

Attaining peace, Francis recorded those words in his journal. The experience of this crisis, with its anxiety and uncertainties, would remain illuminating for him, and provide him with a singular approach to the mystery of God’s relationship with humanity. It helped him gain insight into the lives of others and to recognize, with a refined spirit of discernment, the interior attitude that unites thought and feeling, reason and affections, which he called the “God of the human heart”. As a result, Francis was never in danger of attributing theoretical importance to his own personal experience and absolutizing it. Rather, he learned something remarkable, the fruit of grace: the ability to discern, in God, his own lived experience and that of others.

Although he never claimed to develop a theological system as such, his reflection on the spiritual life proved to be of outstanding theological importance, for it embodied two essential dimensions of any genuine theology. The first isthe spiritual lifeitself, for it is in humble and persevering prayer, in openness to the Holy Spirit, that we attempt to understand and communicate the word of God; theologians emerge from the crucible of prayer. The second isthe life of the Church,the ability to think in the Church and with the Church. Theology itself has felt the effects of our individualist culture, yet Christian theologians are called to carry out their work immersed in the life of the community, breaking within it the bread of the word.[16] The thought of Francis de Sales, albeit on the margins of the scholarly disputes of his age and respectful of them, was characterized by these two essential dimensions.

The discovery of a new world

After completing his course in the humanities, Francis took up studies in law at the University of Padua. On his return to Annecy, he had already decided upon the direction of his life, despite resistance on the part of his father. Ordained a priest on 18 December 1593, in early September of the following year, at the request of Bishop Claude de Granier, he was called to carry out a difficult mission in Le Chablais, a territory belonging to the Diocese of Annecy. Though Calvinist, Le Chablais, through an intricate web of wars and peace treaties, had passed once more under the control of the Duchy of Savoy. These were intense and exciting years, when Francis discovered his gifts as a mediator and a man of dialogue, as well as a certain intransigence that he would later acknowledge. He also devised several bold and original pastoral practices, like the famousaffichesposted everywhere and even slipped under house doors.

In 1602, Francis returned to Paris, charged with pursuing a sensitive diplomatic mission on behalf of Bishop de Granier at the specific direction of the Apostolic See, following yet another change in the political and religious landscape of the territory of the Diocese of Geneva. Despite the good intentions of the King of France, the mission was a failure. To Pope Clement VIII he wrote, “After nine whole months, I have been forced to retrace my steps, having accomplished almost nothing”.[17] Yet that mission proved unexpectedly enriching for him and for the Church from the human, cultural and religious standpoint. In whatever free time his diplomatic negotiations allowed, Francis preached in the presence of the King of France and his court. He formed important friendships and, above all, immersed himself completely in the extraordinary spiritual and cultural blossoming of the modern capital of the Kingdom.

There everything was in constant ferment. Francis was impressed and intrigued by the great issues emerging in the world, by the novel ways in which they were being approached, by the new and remarkable interest in spirituality and the unprecedented questions it raised. In a word, he sensed an authentic “epochal shift” that demanded a response couched in language both old and new. This was certainly not the first time that he had encountered individual fervent Christians, but now things were different. Paris was no longer the city devastated by the wars of religion that he had known in the years of his education, or by the bitter conflicts that he had seen in the Chablais. Instead, he encountered something unexpected: a flood “of saints, true saints, in great numbers and in all places”.[18] There were men and women of culture, professors of the Sorbonne, civil authorities, princes and princesses, servants and maids, men and women religious. A whole world athirst for God in a variety of ways.

Encountering those people and their questions was among the most significant and providential events of his life. Days that had seemed useless and unfruitful thus became an incomparable school for interpreting the spirit of the age, without pandering to it. Francis, the skilful and untiring controversialist, was being transformed by grace into an insightful observer of his times and an extraordinary director of souls. His pastoral activity, his great works – theIntroduction to the Devout Lifeand theTreatise on the Love of God– and the thousands of letters on spiritual friendship he wrote to convents and monasteries, to religious and nuns, and to courtiers and ordinary folk, to say nothing of his encounter with Jane Frances de Chantal and the foundation of the Order of the Visitation in 1610: none of these would be conceivable apart from that interior turning point. Gospel and culture thus found in him a fruitful synthesis, which led to the development of a method that, once it had taken shape, was to reap an abundant and enduring harvest.

In one of his very first letters on spiritual direction and friendship, sent to a religious community he had visited in Paris, Francis spoke quite modestly of “his method”, which differed from others and aimed at genuine reform. It was a method that renounced all harshness and respected completely the dignity and gifts of a devout soul, whatever its frailties. He wrote: “I wonder whether another difficulty can also be raised concerning your reform: perhaps those who imposed it on you have treated the wound too harshly… I appreciate their method, although it is not what I am in the habit of using, especially with regard to noble and cultivated spirits like yours. I believe it is better simply to indicate the disease and put the scalpel in their hands, so that they themselves can make the necessary incision. Yet do not for this reason neglect the reform that you need”.[19] These words display that insight that was to make Salesian optimism famous and leave a lasting mark on the history of spirituality through its later flowering, as, for example, in the case of Saint John Bosco some two centuries later.

Upon his return to Annecy, Francis was ordained a bishop on 8 December of that same year 1602. The influence of his episcopal ministry on the Europe of his day and for centuries afterwards was immense. “He was an apostle, preacher, writer, a man of action and of prayer, devoted to realizing the ideals of the Council of Trent. Engaged in controversies and dialogue with the Protestants, he came to realize increasingly, along with the need for theological discussion, the effectiveness of personal relationships and charity. He was charged with diplomatic missions in Europe and with tasks of mediation and reconciliation in society”.[20] Above all else, Francis was an interpreter of epochal changes and a spiritual guide in an age of renewed thirst for God.

Charity does everything for her children

Between 1620 and 1621, as he neared the end of his life, Francis wrote to one of his priests a letter that sheds light on his view of the times in which he lived. He encouraged his correspondent’s desire to compose new works to respond to new questions, and showed that he recognized the need for such works. “I must tell you that as I become more aware each day of the humours of the world, I desire ever more passionately that God in his goodness should inspire one of his servants to write in a way suited to the tastes of this poor world”.[21] He gave as his reason his own view of the age: “The world is becoming so delicate that, in a little while, no one will dare any longer to touch it except with velvet gloves, or tend its wounds except with perfumed bandages; yet what does it matter, if only men and women are healed and finally saved? Charity, our queen, does everything for her children”.[22] This was no pious platitude or an expression of resignation in the face of defeat. Rather, it was a realization that the world was changing and the mark of a completely evangelical sense of the need to respond to those changes.

Francis had early come to that realization and he expressed it in his Preface to theTreatise on the Love of God: “I have taken into consideration the thinking of people of this age, nor could I do otherwise: it is very important to keep in mind the times in which one writes”.[23] Then, begging the reader’s indulgence, he went on: “If you find the style a little different from that which I used in theIntroduction, and both of them different from the style of theDefence of the Cross, you should know that much is learned and forgotten in nineteen years. The language of warfare differs from that of peace, and we speak in one way to young apprentices and in another to older confreres”.[24] Yet in response to changing times, where should one begin, if not from the history of God’s dealings with humanity? This was the ultimate intent of the Treatise: “My intention is but to represent, with simplicity and straightforwardly, without artifice and certainly without false colours, the history of the birth, progress, decline, operations, properties, advantages and sublime qualities of divine love”.[25]

The demands of an epochal shift

On this anniversary of the fourth centenary of his death, I have given much thought to the legacy of Saint Francis de Sales for our time. I find that his flexibility and his far-sighted vision have much to say to us. Partly by God’s gift and partly thanks to his own character, but also by his steady cultivation of lived experience, Francis perceived clearly that the times were changing. On his own, he might never have imagined that those changes represented so great an opportunity for the preaching of the Gospel. The word of God that he had loved from his youth now opened up before him new and unexpected horizons in a rapidly changing world.

That same task awaits us in this, our own age of epochal change. We are challenged to be a Church that is outward-looking and free of all worldliness, even as we live in this world, share people’s lives and journey with them in attentive listening and acceptance.[26] That is what Francis de Sales did when he discerned the events of his times with the help of God’s grace. Today he bids us set aside undue concern for ourselves, for our structures and for what society thinks about us, and consider instead the real spiritual needs and expectations of our people.[27] In our own time too, it is helpful to revisit some of the crucial decisions he made, so that we for our part can respond to today’s changes with the wisdom born of the Gospel.

Wind and wings

The first of those decisions was to reinterpret and propose anew to each man and woman, in his or her specific condition, the beauty of our relationship with God. The ultimate reason and practical purpose of hisTreatisewas to illustrate to his contemporaries the attractiveness of the love of God. “What”, he asks, “are the ‘cords’ that God’s providence uses to draw our hearts to his love?”[28] Echoing the words of the prophet Hosea (11:4),[29]he defines those ordinary means as “cords of humanity, charity and friendship”. “Clearly”, he writes, “we are not drawn to God by chains of iron, like bulls or oxen, but by invitations, enticements and holy inspirations; these are thecords of Adam and of human kindness, rightly befitting the human heart, which is naturally free”.[30] By those same cords, God brought his people forth from slavery, taught them to walk and held them by the hand, like fathers and mothers with their children. His was not the way of external imposition, despotic and arbitrary power, or violence, but that of a persuasiveness that respects our human freedom. “The power of grace” – Francis continues, surely thinking of the many life stories he had encountered – “does not constrain the heart, but attracts it. Grace possesses a holy violence, not to violate our liberty but to guide it to love. Grace acts strongly, yet in such a pleasing way that our will is not overwhelmed by so powerful a force; while pressing us, it does not oppress our liberty. Consequently, we are able, before all its might, to consent to or resist its promptings at our pleasure”.[31]

Earlier, Francis had spoken of this relationship using a curious example drawn from ornithology: “There are certain birds, Theotimos, that Aristotle calls ‘apodans’, because they have such short and weak legs as to be of no use to them; it is as if they did not even have them. Should they fall to the ground, they remain there, unable to take flight because, without the use of legs or feet, they cannot rise and take wing. Consequently, they remain on the ground and die there, unless a gust of wind, compensating for their inability, lifts them up, as it often does with other things. If, in that case, they flap their wings in response to the thrust of the wind, the wind itself will continue to help them by thrusting them ever higher, in order to help them to fly higher and higher”.[32] The same holds true for us: we were created by God to fly, to spread our wings in response to the call to love, but once we fall to earth, unless we choose to open those wings to the wind of the Spirit, we risk never again being able to fly.

This, then, is how God’s grace comes to us: by “cords of Adam”, bonds of humanity and love. God’s power can always lift us up to take flight, yet hisdouceur, his loving kindness, is such that he respects our freedom. It is up to us either to take flight or to remain on the ground. Even as he bestows his grace, God would not have us rise without our consent. Francis can thus conclude: “God’s inspirations, Theotimos, anticipate us and make themselves felt before we are even aware of them, but once we become aware of them, it is up to us either to consent and follow their lead, or to refuse and reject them. They make themselves felt by us without us; yet without us they do not bring about our consent”.[33] In our relationship with God we always experience a gratuitousness that testifies to the depth of the Father’s love for us.

At the same time, this grace never makes us passive. It leads us to realize that God’s love radically precedes us, and that his first gift consists precisely in our acceptance of that love. Each person therefore is responsible for cooperating with his or her own fulfilment, with spreading his or her wings with confident trust before the gust of God’s wind. Here we see an important aspect of our human vocation. “In the Genesis account, God commands Adam and Eve to be fruitful. Humankind has a mandate to change, to build, to master creation in the positive sense of creating from it and with it. So what is to come doesn’t depend on some unseen mechanism, a future in which humanity is a passive spectator. No: we are protagonists, we are – if I can stretch the word –co-creators”.[34]That is what Francis de Sales recognized and sought to pass on through his ministry of spiritual guidance.

True devotion

A second great crucial decision of Francis was to approach the issue of devotion. Here too, as in our own day, the dawning of a new age had raised a number of questions. Two aspects of the issue need to be understood and re-appropriated today. The first regards the very idea of devotion, the second its universal and popular character. At the beginning of theIntroduction to the Devout Life, Francis clarifies the meaning of devotion: “It is necessary, first of all, to know in what the virtue of devotion consists. There is only one true devotion, and many false and vain ones. Unless you can distinguish true devotion, you can fall into error and waste your time running after some useless and superstitious devotion”.[35]

Francis’ description of false devotion is delightful and ever timely. Everyone can relate to it, since he salts it with good humour. “Someone attached to fasting will consider himself devout because he doesn’t eat, even though his heart is filled with bitterness; and while, out of love for sobriety, he will not let a drop of wine, or even water, touch his tongue, he will not scruple to drench it in the blood of his neighbour through gossip and slander. Another will consider himself devout because all day long he mumbles a string of prayers, yet remains heedless of the evil, arrogant and hurtful words that his tongue hurls at his servants and neighbours. Yet another will readily open his purse to give alms to the poor, but cannot wring an ounce of mercy from his heart in order to forgive his enemies. Another still will pardon his enemies, yet never even think of paying his debts; it will take a lawsuit to make him do so”.[36] All these, of course, are perennial vices and struggles, and they lead the saint to conclude that “all these fine people, commonly considered devout, most surely are not”.[37]

The origin of true devotion is to be found elsewhere; its deepest roots are in God’s life dwelling within our hearts. “True and lively devotion presupposes the love of God; indeed, it is none other than a genuine, and not generic, love of God”.[38] In Francis’ lively language, devotion is “a sort of spiritual alertness and energy whereby charity acts within us or, we act by means of it, with promptness and affection”.[39] For this reason, devotion does not exist alongside charity, but is one of its manifestations, while at the same time leading back to it. Devotion is like a flame with regard to fire: it increases the intensity of charity without altering its quality. “In the end, charity and devotion can be said to differ from one another as fire from a flame. Charity is a spiritual fire that, when fanned into flame, is called devotion. Devotion thus adds nothing to the fire of charity but the flame that makes charity prompt, active and diligent, not only in the observance of God’s commandments but also in the exercise of his divine counsels and inspirations”.[40] Understood in this way, devotion is far from something abstract. Rather, it becomes a style of life, a way of living immersed in our concrete daily existence. It embraces and discovers meaning in the little things: food and dress, work and relaxation, love and parenthood, conscientiousness in the fulfilment of our duties. In a word, it sheds light on the vocation of each individual.

Here we begin to see the popular dimension of devotion, which is present from the very first words of theIntroduction to the Devout Life: “Almost all those who have treated of devotion have sought to instruct persons living apart from the world, or at least they have taught a kind of devotion that leads to such isolation. I intend to offer my teachings to those who live in cities, in families, at court and who, by virtue of their state in life, are obliged to live in the midst of others”.[41] Those who think that devotion is restricted to some quiet and secluded setting are greatly mistaken. Devotion is meant for everyone, in every situation, and each of us can practise it in accordance with our own vocation. As Saint Paul VI wrote on the fourth centenary of the birth of Francis de Sales, “Holiness is not the prerogative of any one group, but an urgent summons addressed to every Christian: ‘Friend, come up higher’ (Lk14:10). All of us are called to ascend the mountain of God, albeit not each by the same path. ‘Devotion must be practiced differently by the gentleman, the craftsman, the chamberlain, the prince, the widow, the young woman, the wife. Moreover, the practice of devotion must be adapted to the abilities, affairs and duties of each’”.[42] To live in the midst of the secular city while nurturing the interior life, to combine the desire for perfection with every state of life, and to discover an interior peace that does not separate us from the world but teaches us how to live in it and to appreciate it, but also to maintain a proper detachment from it. That was the aim of Francis de Sales, and it remains a valuable lesson for men and women in our own time.

This was also the teaching of the Second Vatican Council on the universal vocation to holiness: “Strengthened by so many and such great means of salvation, all the faithful, whatever their condition or state, are called by the Lord – each in his or her own way – to that perfect holiness by which the Father himself is perfect”.[43] Each in his or her own way... “We should not grow discouraged before examples of holiness that appear unattainable”.[44] Mother Church proposes them to us not to copy them, but so that we can be spurred on in our pursuit of the specific path that the Lord has chosen for each of us. “The most important thing is that each believer discern his or her own path, that they bring out the very best of themselves, the most personal gifts that God has placed in their hearts (cf.1 Cor12:7)”.[45]

The ecstasy of life

Saint Francis thus came to view the entirety of the Christian life as “the ecstasy of work and life”.[46]For him, Christianity was not to be confused with a facile escapism or self-absorption, much less a dull and dreary obedience. We know that this danger can always be present in the life of faith. Indeed, “there are Christians whose lives seem like Lent without Easter”, and while we can understand the grief of people who have to endure great suffering, “slowly but surely we all have to let the joy of faith begin to revive as a quiet yet firm trust, even amid the greatest distress”.[47]

Allowing joy to blossom in our hearts is what Francis de Sales means by “the ecstasy of work and life”. In this way, “we live not only a civil, honest and Christian life, but a superhuman, spiritual, devout and ecstatic life, a life that in any case is beyond and above our natural condition”.[48]Here we arrive at the central, luminous pages of the Treatise, where that “ecstasy” is presented as the joyous exuberance of a Christian life that transcends the mediocrity of mere conformity. “Not to steal, lie, or swear in vain; to love and honour one’s father; not to kill: this is to live in accord with natural reason. But to forsake all our goods, to love poverty, to call her and consider her a most delightful mistress, to consider reproach, persecution and martyrdom as happiness and blessing, to preserve absolute chastity, to live in the world contrary to all the wisdom of the world and against the tide of this life by habitual resignation, renunciation and acts of self-abnegation: this is not to live in ourselves, but above and beyond ourselves. And because no one can go out of and above himself in this manner unless the eternal Father draw him, it follows that this kind of life is a perpetual rapture and a continual ecstasy of action and operation”.[49]

A life, in other words, that rediscovers the wellsprings of joy and avoids the temptation of self-centredness. For “the great danger in today’s world, pervaded as it is by consumerism, is the desolation and anguish born of a complacent yet covetous heart, the feverish pursuit of frivolous pleasures, and a blunted conscience. Whenever our interior life becomes caught up in its own interests and concerns, there is no longer room for others, no place for the poor. God’s voice is no longer heard, the quiet joy of his love is no longer felt, and the desire to do good fades. This is a very real danger for believers too. Many fall prey to it, and end up resentful, angry and listless”. [50]

To his description of “the ecstasy of work and life”, Saint Francis adds two important clarifications that remain valid for us today. The first offers a practical criterion for discerning the authenticity of this style of life, while the second concerns its deepest source. As the criterion of discernment, he states that while, on the one hand, this ecstasy entails genuine self-renunciation, on the other it does not mean fleeing from life. We should constantly remind ourselves of this, lest we risk straying from the right path. In a word, those who think they are rising to God, yet fail to love their neighbour, are deceiving both themselves and others.

Here we find the same criterion that Francis used to measure true devotion. “If you see a person who in prayer has raptures that exalt him above himself to God, and yet has no ecstasy of life, that is, he does not lead a life elevated and joined to God, above all by means of constant charity, believe me, Theotimus, all his raptures are exceedingly dubious and dangerous”. His conclusion is incisive: “Being above ourselves in prayer, but beneath ourselves in life and action, being angelic in meditation, but brutish in conversation, is a true sign that such raptures and ecstasies are nothing other than diversions and deceits of the evil spirit”.[51]In essence, this is what Paul already pointed out to the Corinthians in his “hymn to charity”: “If I have prophetic powers, and understand all mysteries and all knowledge, and if I have all faith, so as to remove mountains, but have not love, I am nothing. If I give away all I have, and if I deliver my body to be burned, but do not have love, I gain nothing” (1 Cor13:2-3).

For Saint Francis de Sales, then, while the Christian life is never without ecstasy, ecstasy is inauthentic apart from a truly Christian life. Indeed, life without ecstasy risks being reduced to blind obedience, a Gospel bereft of joy. On the other hand, ecstasy without life easily falls prey to the illusions and deceptions of the Evil one. The great polarities of the Christian life cannot be resolved and eliminated. If anything, each preserves the authenticity of the other. Truth, then, does not exist without justice, pleasure without responsibility, spontaneity without law, and vice versa.

As for the deepest source of this ecstasy, Saint Francis astutely traces it to the love made manifest by the incarnate Son. If indeed “love is the first act and principle of our devout or spiritual life, through which we live, feel, and are moved” and “the spiritual life is such as our affective movements are”, then it becomes clear that “a heart without affection has no love”, and that “a heart that has love is not without affection”.[52] The source of this love that attracts the heart is the life of Jesus Christ. “Nothing sways the human heart as much as love”, and this is most evident in the fact that “Jesus Christ died for us; he gave us life through his death. We live only because he died, and died for us, as ours and in us”.[53]

These words are profoundly moving; they reveal not only a clear and insightful understanding of the relationship between God and humanity, but also the deep bond of affection between Francis de Sales and the Lord Jesus. The ecstasy of life and action is no abstract reality, but shines forth in the charity of Christ that culminates on the cross. That love, far from mortifying our existence, makes it radiate with extraordinary brightness.

For this reason, Saint Francis de Sales could eloquently describe Calvary as “the mountain of lovers”.[54]For there and there alone, do we come to realize that “it is not possible to have life without love, or love without the death of the Redeemer. Except there, everything is either eternal death or eternal love, and the whole of Christian wisdom consists in knowing how to choose well between them”.[55]Francis could thus conclude his Treatise by appealing to a sermon of Saint Augustine on charity: “What is more steadfast than charity, not in requiting injuries, but in taking no account of them? Concerned not with passing things, but with eternity? Since it has an unshakable trust in the promises of the future life, charity can tolerate all things in this present life. It can endure whatever it must here below, because it hopes in the promises of the world to come. Truly, charity never fails. Cultivate it then, and thinking holy thoughts, bring forth fruits of justice. And if you should discover anything else in praise of charity beyond what I have said here, let it become evident in your life”.[56]

All this was supremely evident in the life of the saintly Bishop of Annecy, and now, once more, it is entrusted to each of us. May the celebration of the fourth centenary of his death help us to venerate Saint Francis de Sales with devotion, and through his intercession may the Lord bestow the abundant gifts of the Spirit upon the journey of his holy and faithful People.

Rome, Saint John Lateran, 28 December 2022

FRANCIS

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[1]SAINT FRANCIS DE SALES,Traité de l’amour de Dieu, Preface: ed. RAVIER-DEVOS, Paris, 1969, 336.

[2]ID., Lett.2103:À Monsieur Sylvestre de Saluces de la Mente, Abbé d’Hautecombe(3 November 1622), inŒuvres de Saint François de Sales, XXVI, Annecy, 1932, 490-491.

[3]ID., Lett. 1961:À une Dame(19 December 1622), inŒuvres de Saint François de Sales, XX (Lettres,X:1621-1622), Annecy, 1918, 395.

[4]ID.,Traité de l’amour de Dieu, I, 15: ed. RAVIER-DEVOS, Paris, 1969, 395.

[5]ID.,Entretiens spirituels, Dernier entretien [21]: ed. RAVIER-DEVOS, Paris, 1969, 1319.

[6]Apostolic ExhortationGaudete et Exsultate(19 March 2018), 49:AAS110 (2018), 1124.

[7]Ibid., 57: AAS 110 (2018), 1127.

[8]Cf. ibid., Nos. 37-39:AAS110 (2018), 1121-1122.

[9]SAINT FRANCIS DE SALES,Entretiens spirituels, Dernier entretien [21]: ed. RAVIER-DEVOS, Paris, 1969, 1319.

[10]Ibid., 1308.

[11]Ibid.

[12]Letter to the Right Reverend Yves Boivineau, Bishop of Annecy, on the Fourth Centenary of the Episcopal Ordination of Saint Francis de Sales, 23 November 2002, 3:Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XXV/2 (2002), 767.

[13]SAINT FRANCIS DE SALES,Traité de l’amour de Dieu, Préface, ed.RAVIER-DEVOS, Paris, 1969, 336.

[14]BENEDICT XVI,Catechesis, 2 March 2011:InsegnamentiVII/1 (2011), 270.

[15]SAINT FRANCIS DE SALES,Fragments d’écrits intimes, 3:Acte d’abandon heroïque, inŒuvres de Saint François de Sales, XXII (Opuscules, I), Annecy, 1925, 41.

[16]Cf.Address to the International Theological Commission(29 November 2019):L’Osservatore Romano, 30 November 2019, p. 8.

[17]SAINT FRANCIS DE SALES, Lett. 165:À Sa Sainteté Clément VIII(end of October, 1602), inŒuvres de Saint François de Sales, XII (Lettres, II:1599-1604), Annecy, 1902, 128.

[18]H. BREMOND,L’humanisme dévôt: 1580-1660, inHistoire littéraire du sentiment religieux en France: depuis la fin des guerres de religion jusqu’à nos jours, I, Jérôme Millon, Grenoble, 2006, 131.

[19]SAINT FRANCIS DE SALES, Lett. 168:Aux religieuses du monastère des ‹‹Filles-Dieu››(22 November 1602), inŒuvres de Saint François de Sales, XII (Lettres, II:1599-1604), Annecy, 1902, 105.

[20]BENEDICT XVI,Catechesis, 2 March 2011:Insegnamenti, VII/1 (2011), 272.

[21]SAINT FRANCIS DE SALES, Lett. 1869:À M. Pierre Jay(1620 or 1621), inŒuvres de Saint François de Sales, XX (Lettres, X:1621-1622) Annecy, 1918, 219.

[22]Ibid.

[23]ID.,Traité de l’amour de Dieu, Préface: ed. RAVIER-DEVOS, Paris, 1969, 339.

[24]Ibid., 347.

[25]Ibid., 338-339.

[26]Cf.Address to Bishops, Priests, Religious, Seminarians and Catechists, Bratislava, 13 September 2021,L’Osservatore Romano, 13 September 2021, pp. 11-12.

[27]Cf. ibid.

[28]SAINT FRANCIS DE SALES,Traité de l’amour de Dieu, II, 12: ed. RAVIER-DEVOS, Paris, 1969, 444.

[29]“I led them with cords of human kindness [Vulgate:in funiculis Adam], with bands of love; I was to them like those who lift infants to their cheeks. I bent down to them and fed them”.

[30]SAINT FRANCIS DE SALES,Traité de l’amour de Dieu, II, 12: ed.RAVIER-DEVOS, Paris, 1969, 444.

[31]Ibid., II, 12: 444-445.

[32]Ibid., II, 9: 434.

[33]Ibid., II, 12: 446.

[34]Let Us Dream. The Path to a Better Future.In conversation with Austen Ivereigh, New York, 2020, 4.

[35]SAINT FRANCIS DE SALES,Introduction à la vie dévote, I, 1: ed.RAVIER-DEVOS, Paris, 1969, 31.

[36]Ibid.: 31-32.

[37]Ibid.: 32.

[38]Ibid.

[39]Ibid.

[40]Ibid.: 33.

[41]Ibid., Preface: ed. RAVIER-DEVOS, Paris, 1969, 23.

[42]Apostolic EpistleSabaudiae Gemmaon the Fourth Centenary of the Birth of Saint Francis de Sales, Doctor of the Church (29 January 1967):AAS59 (1967), 119.

[43]SECOND VATICAN ECUMENICAL COUNCIL, Dogmatic Constitution on the ChurchLumen Gentium, 11.

[44]Apostolic ExhortationGaudete et Exsultate, 11:AAS110 (2018), 1114.

[45]Ibid.

[46]SAINT FRANCIS DE SALES,Traité de l’amour de Dieu, VII, 6: ed. RAVIER-DEVOS, Paris, 1969, 682.

[47]Apostolic ExhortationEvangelii Gaudium(24 November 2013),6:AAS105 (2013), 1021-1022

[48]SAINT FRANCIS DE SALES,Traité de l’amour de Dieu, VII, 6: ed. RAVIER-DEVOS, Paris, 1969, 682-683.

[49]Ibid.: 683.

[50]Apostolic ExhortationEvangelii Gaudium,2:AAS105 (2013), 1019-1020.

[51]SAINT FRANCIS DE SALES,Traité de l’amour de Dieu, VII, 7: ed. RAVIER-DEVOS, Paris, 1969, 685.

[52]Ibid.: 684.

[53]Ibid., VII, 8: 687, 688.

[54]Ibid., XII, 13: 971.

[55]Ibid.

[56]Sermons, 350, 3: PL 39, 1535.

[02021-EN.01] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

APOSTOLISCHES SCHREIBEN

TOTUM AMORIS EST

DES HEILIGEN VATERS

FRANZISKUS

ANLÄSSLICH DES 400. TODESTAGES

DES HEILIGEN FRANZ VON SALES

»Alles gehört der Liebe«.[1]In diesen seinen Worten können wir das geistliche Erbe des heiligen Franz von Sales zusammenfassen, der vor vierhundert Jahren, am 28. Dezember 1622, in Lyon verstarb. Er war etwas über fünfzig Jahre alt und seit zwanzig Jahren Bischof und „verbannter“ Fürst von Genf. Er war im Anschluss an seinen letzten diplomatischen Auftrag nach Lyon gekommen. Der Herzog von Savoyen hatte ihn gebeten, Kardinal Moritz von Savoyen nach Avignon zu begleiten. Gemeinsam sollten sie dem jungen König Ludwig XIII. die Ehre erweisen, der sich nach einem siegreichen Feldzug in Südfrankreich auf dem Rückweg nach Paris über das Rhonetal befand. Der müde und gesundheitlich angeschlagene Franz hatte seine Reise lediglich aus einem Geist des Dienens angetreten. »Wenn es zu Ihrem Dienst nicht sehr nützlich wäre, dass ich diese Reise unternehme, hätte ich sicherlich viele gute und handfeste Gründe, darauf zu verzichten; aber wenn es Ihnen zu Diensten ist, werde ich mich, tot oder lebendig, nicht verweigern, sondern ich werde selber gehen oder mich tragen lassen«.[2]Dies war sein Temperament. Als er schließlich in Lyon ankam, nahm er im Kloster der Visitantinnen im Gärtnerhaus Quartier, um nicht zu viel Unruhe zu stiften und zugleich, um freier zu sein, jeden zu treffen, der es wünschte.

Schon seit geraumer Zeit beeindruckten ihn die »schwächlichen Größen des Hoflebens«[3]nicht mehr und so verbrachte er auch seine letzten Tage damit, sein Hirtenamt in einer Abfolge von Terminen auszuüben: Beichten, Gespräche, Vorträge, Predigten und die letzten, nie ausbleibenden Briefe geistlicher Freundschaft. Der tiefe Grund für diesen ganz von Gott erfüllten Lebensstil war ihm im Laufe der Zeit immer klarer geworden, und er hatte ihn in seiner berühmtenAbhandlung über die Gottesliebeeinfach und präzise formuliert: »Sobald der Mensch ein wenig aufmerksam an Gott denkt, fühlt sein Herz eine gewisse beglückende Erregung, was beweist, dass Gott der Gott des menschlichen Herzens ist«.[4]Dies ist die Synthese seines Denkens. Die Gotteserfahrung ist eine Erkenntnis des menschlichen Herzens. Es handelt sich nicht um ein Gedankenkonstrukt, sondern um ein Erkennen voller Staunen und Dankbarkeit, das aus der Offenbarung Gottes resultiert. Im Herzen und durch das Herz findet jener feine und intensive Prozess statt, durch den der Mensch Gott und zugleich sich selbst erkennt, den eigenen Ursprung und die eigene Tiefe, die eigene Erfüllung im Ruf zur Liebe. Er entdeckt, dass der Glaube keine blinde Bewegung ist, sondern in erster Linie eine Haltung des Herzens. Durch ihn vertraut sich der Mensch einer Wahrheit an, die seinem Gewissen wie eine „sanfte Gemütsbewegung“ erscheint, die in der Lage ist, ein entsprechendes und unabdingbares „Wohl-Wollen“ für jede geschaffene Wirklichkeit zu wecken, wie er gern sagte.

So betrachtet versteht man, dass es für den heiligen Franz von Sales keinen besseren Ort gab, um Gott zu finden und anderen bei der Suche nach ihm zu helfen, als im Herzen einer jeder Frau und eines jeden Mannes seiner Zeit. Er hatte dies gelernt, indem er sich selbst von frühester Jugend an mit großer Aufmerksamkeit beobachtete und das menschliche Herz ergründete.

Mit dem innigen Gefühl eines von Gott durchdrungenen Alltags hatte er bei der letzten Begegnung in jenen Tagen in Lyon seinen Visitantinnen den Satz hinterlassen, mit dem er in ihnen die Erinnerung an ihn künftig zu besiegeln wünschte: »Mit den beiden Worten: Nichts verlangen – nichts abschlagen, habe ich euch alles gesagt«.[5]Damit ist jedoch nicht eine Übung des reinen Voluntarismus gemeint, »ein Wille ohne Demut«,[6]jene subtile Versuchung auf dem Weg zur Heiligkeit, die diese mit der Rechtfertigung aus eigenen Kräften verwechselt, mit der Überhöhung des menschlichen Willens und des eigenen Könnens, »das […] sich in eine egozentrische und elitäre Selbstgefälligkeit, ohne wahre Liebe«[7]übersetzt. Ebenso wenig handelte es sich dabei um einen reinen Quietismus, ein passives unbeteiligtes Befolgen einer Lehre ohne Fleisch und ohne Geschichte.[8]Dieser oben genannte Satz kam vielmehr aus der Betrachtung des Lebens des menschgewordenen Sohnes Gottes. Es war am 26. Dezember und der Heilige sprach zu den Schwestern, die gerade das Weihnachtsgeheimnis begingen: »Schaut auf das Jesulein in der Krippe. Es erträgt Ungemach und Kälte und alles, was der himmlische Vater zulässt. Es weist aber auch die kleinen Erleichterungen, die seine Mutter ihm verschafft, nicht ab. Haben wir je gelesen, dass es seine Händchen nach der Mutterbrust verlangend ausgestreckt? Alles hat es der Sorge und Fürsorge seiner Mutter überlassen. Auch wir sollen nichts verlangen – nichts abschlagen, sondern alles, was Gott schickt, annehmen, Ungemach und Kälte«.[9]Es bewegt, wie bedacht er darauf ist, die Sorge um das Menschliche als unerlässlich anzuerkennen. In der Schule der Menschwerdung hatte er also gelernt, die Geschichte zu verstehen und sich vertrauensvoll auf sie einzulassen.

Das Kriterium der Liebe

Durch die Erfahrung hatte er die Sehnsucht als die Wurzel eines jeden wahren geistlichen Lebens und zugleich als den Ort seiner Verfälschung erkannt. Aus diesem Grund hatte er, der stark aus der geistlichen Tradition schöpfte, die ihm vorausgegangen war, verstanden, wie wichtig es ist, das Verlangen in einer ständigen Unterscheidungsübung unaufhörlich zu prüfen. Das entscheidende Kriterium für seine Bewertung hatte er in der Liebe gefunden. Bei eben jenem letzten Besuch in Lyon, am Stephanstag, zwei Tage vor seinem Tod, sagte er: »Wie ich schon vorhin sagte, nicht die Größe der Arbeit ist es, die Gottes Wohlgefallen erregt, sondern die Liebe, mit der wir sie ausführen […] Ich gehe noch einen Schritt weiter: Ein Mensch erduldet mit einer Unze Liebe den Martertod für Gott. Gewiss, ein großes Verdienst, denn niemand kann mehr geben als sein Leben. Ein anderer Mensch erträgt einen Nasenstüber mit zwei Unzen Liebe. Er hat viel mehr Verdienst, denn die Liebe gibt den Dingen ihren Wert«.[10]

Überraschend konkret beschreibt er im weiteren Verlauf das schwierige Verhältnis zwischen Kontemplation und Aktion: »Ihr wisst, dass das beschauliche Leben wertvoller ist als das tätige Leben. Ist aber im tätigen Leben eine innigere Vereinigung mit Gott vorhanden, dann ist es kostbarer als das beschauliche. Eine Küchenschwester steht bei den Kochtöpfen am offenen Feuer; sie liebt Gott inniger und tiefer als eine andere, die sich der Beschauung hingibt. Das materielle Feuer schadet nicht ihrer Liebe, ja es hilft ihr im Gegenteil, Gott noch wohlgefälliger zu sein. Es ist gar nicht so selten, dass man bei einer Arbeit mit Gott ebenso vereint ist wie in der Einsamkeit. Ich kann nur immer wieder das eine sagen: Wo mehr Liebe, da mehr Vollkommenheit«.[11]Das ist die eigentliche Frage, die jede nutzlose Starre oder Selbstbezogenheit schwungvoll überwindet: sich in jedem Moment, bei jeder Entscheidung, in jeder Lebenslage zu fragen, wo sich die größere Liebe findet. Es ist kein Zufall, dass der heilige Franz von Sales von Johannes Paul II. »Lehrer der göttlichen Liebe«[12]genannt worden ist, nicht nur, weil er eine großeAbhandlungdarüber geschrieben hat, sondern vor allem, weil er ihr Zeuge gewesen ist. Andererseits können auch seine Schriften nicht als eine am grünen Tisch verfasste Theorie betrachtet werden, weit entfernt von den Sorgen der einfachen Menschen. Seine Lehre ist vielmehr aus einem aufmerksamen Hören auf die Erfahrung hervorgegangen. Er hat lediglich das in eine Lehre umgewandelt, was er mit Scharfsinn und vom Geist erleuchtet in seinem einzigartigen und innovativen pastoralen Wirken gelebt und verstanden hat. Eine Synthese dieser Vorgehensweise findet sich imVorwortderselbenAbhandlung über die Gottesliebe: »Alles gehört der Liebe, alles liegt in der Liebe, alles ist für die Liebe, alles ist aus Liebe in der heiligen Kirche«.[13]

Die Jahre der ersten Prägung: das Abenteuer, sich in Gott zu erkennen

Franz wurde am 21. August 1567 im Schloss von Sales in der Nähe von Thorens als Sohn von François de Nouvelles, des Herren von Boisy, und Françoise de Sionnaz geboren. »Sein Leben spielte sich im Übergang zwischen zwei Jahrhunderten ab, dem 16. und dem 17., er nahm das Beste der Lehren und kulturellen Errungenschaften des ausgehenden Jahrhunderts in sich auf und versöhnte das humanistische Erbe mit dem Streben nach dem Absoluten, das den mystischen Strömungen zu eigen war«.[14]

Nach der anfänglichen kulturellen Bildung, zunächst am Kolleg von La Roche-sur-Foron und dann an jenem von Annecy, kam er nach Paris an das neu gegründete Jesuitenkolleg Clermont. In der Hauptstadt des durch die Religionskriege verwüsteten Königreichs Frankreich erlebte er ganz aus der Nähe das Drama zweier aufeinander folgender tiefer innerer Krisen, die sein Leben unauslöschlich prägen sollten. Jenes inbrünstige Gebet in der Kirche St. Étienne-des-Grès vor der Schwarzen Madonna von Paris entzündete in seinem Herzen inmitten der Dunkelheit eine Flamme, die für immer in ihm lebendig bleiben sollte als Schlüssel für das Verständnis seiner eigenen Erfahrung und der anderer.»Was auch kommen mag, Herr, in dessen Hand alles gelegt ist und dessen Wege alle Gerechtigkeit und Wahrheit sind, […] ich will dich wenigstens in diesem Leben lieben […] ich werde immer auf deine Barmherzigkeit hoffen und werde stets dein Lob vermehren. […] Herr Jesus, du wirst immer meine Hoffnung und mein Heil im Land der Lebenden sein«.[15]

So hatte er es in seinem Heft aufgezeichnet und wieder zur Ruhe gefunden. Diese Erfahrung wird mit ihren Beunruhigungen und Fragen für ihn immer erleuchtend bleiben und ihm einen einzigartigen Zugang zum Geheimnis der Beziehung Gottes zum Menschen eröffnen. Dies wird ihm helfen, dem Leben der anderen zuzuhören und mit feinem Unterscheidungssinn die innere Haltung zu erkennen, die das Denken mit dem Fühlen verbindet und die Vernunft mit den Affekten und die den „Gott des menschlichen Herzens“ beim Namen nennt. Auf diese Weise lief Franz nicht Gefahr, seiner persönlichen Erfahrung einen theoretischen Wert beizumessen und sie zu verabsolutieren; aber etwas Außergewöhnliches, eine Frucht der Gnade wurde ihm zuteil: Er hatte gelernt, in Gott seine eigenen Erfahrungen und die der anderen zu verstehen.

Obwohl er nie den Anspruch erhob, ein echtes theologisches System zu entwickeln, war seine Reflexion über das geistliche Leben unbestreitbar von herausragendem theologischen Wert. Bei ihm treten die wesentlichen Züge des Theologietreibens hervor, bei demzwei Dimensionen nie vergessen werden dürfen. Die erste istdas geistliche Leben,denn nur im demütigen und beständigen Gebet, in der Offenheit für den Heiligen Geist, kann man das Wort Gottes verstehen und zum Ausdruck bringen. Theologe wird man im Schmelztiegel des Gebets! Die zweite Dimension istdas kirchliche Leben:in der Kirche und mit der Kirche fühlen. Auch die Theologie hat unter der individualistischen Kultur gelitten, aber der christliche Theologe erarbeitet seine Gedanken, indem er in die Gemeinschaft eingebettet ist und in ihr das Brot des Wortes bricht.[16]Das Denken des Franz von Sales geht aus genau diesen beiden konstitutiven Zügen hervor, am Rand der Kontoversen damaliger theologischer Schulen, aber mit großem Respekt vor ihnen.

Die Entdeckung einer neuen Welt

Nach Abschluss seiner humanistischen Studien widmete er sich der Rechtswissenschaft an der Universität Padua. Bei seiner Rückkehr nachAnnecy hatte er trotz des Widerstands seines Vaters bereits seine grundsätzliche Lebensentscheidung getroffen. Am 18. Dezember 1593 wurde er zum Priester geweiht, und Anfang September des darauffolgenden Jahres wurde er auf Einladung des Bischofs Claude de Granier zu einer schwierigen Mission im Chablais berufen, einem zur Diözese Annecy gehörenden Gebiet calvinistischen Bekenntnisses, das im Wirrwarr von Kriegen und Friedensverträgen erneut unter die Kontrolle des Herzogtums Savoyen geraten war. Es waren dichte und dramatische Jahre. Hier entdeckte er neben mancher starren Unnachgiebigkeit, die ihm später zu denken geben sollte, seine Gaben als Vermittler und Mann des Dialogs. Er erwies sich auch als Erfinder neuer und gewagter pastoraler Methoden, wie die berühmten „Flugblätter“, die überall aufgehängt und sogar unter den Haustüren hindurchgeschoben wurden.

Im Jahr 1602 kehrte er nach Paris zurück, um im Auftrag von Granier und auf genaue Anweisung des Apostolischen Stuhls eine heikle diplomatische Mission zu erfüllen, nachdem sich die politisch-religiösen Verhältnisse im Gebiet des Bistums Genf zum wiederholten Mal geändert hatten. Trotz der guten Absichten des Königs von Frankreich scheiterte die Mission. Er selbst schrieb an Papst Clemens VIII.:»So war ich gezwungen, nach vollen neun Monaten zurückzukehren, und habe kaum etwas erreicht«.[17]Dennoch erwies sich diese Mission für ihn und für die Kirche als ein unerwarteter Reichtum in menschlicher, kultureller und religiöser Hinsicht. In der freien Zeit, die die diplomatischen Verhandlungen zuließen, predigte Franz in Gegenwart des Königs und des französischen Hofes, knüpfte wichtige Beziehungen und tauchte vor allem ganz und gar in den geistlichen und kulturellen Aufschwung der modernen Hauptstadt des Königreichs ein.

Dort hatte sich alles verändert und war dabei, sich weiter zu verändern. Er selbst ließ sich berühren und hinterfragen von den großen Problemen, die in der Welt auftauchten, von der neuen Art, sie zu betrachten, und von der überraschenden spirituellen Suche, die entstanden war, sowie von den noch nie dagewesenen Fragen, die sich daraus ergaben. Kurzum, er erkannte diesen wirklichen „Epochenübergang“, auf den man notwendigerweise in alter und neuer Sprache antworten musste. Es war sicher nicht das erste Mal, dass er glühenden Christen begegnete, aber es ging hier um etwas anderes. Das war nicht das von den Religionskriegen verwüstete Paris, das er während seiner Ausbildungsjahre gesehen hatte, und auch nicht der erbitterte, in den Gebieten des Chablais geführte Kampf. Es war eine unerwartete Wirklichkeit: Eine Menge »von Heiligen, von wahren Heiligen, zahlreich und überall«.[18]Da gab es Menschen von Kultur, Sorbonne-Professoren, Vertreter der Institutionen, Prinzen und Prinzessinnen, Diener und Dienerinnen, Ordensmänner und Ordensfrauen. Eine auf vielfältige Weise nach Gott dürstende Welt.

Diesen Personen zu begegnen und ihre Fragen zu erkennen, war eine der bedeutendsten Fügungen seines Lebens. Scheinbar nutzlose und erfolglose Tage wurden auf diese Weise zu einer unvergleichlichen Schule, um die Stimmungen der Zeit verstehen zu lernen, ohne sich ihnen anzubiedern. Der geschickte und unermüdliche Streiter verwandelte sich durch die Gnade in einen feinsinnigen Interpreten der Zeit und außergewöhnlichen Seelenführer. Sein pastorales Wirken, seine großen Werke (dieAnleitung zum geistlichen Lebenund dieAbhandlung über die Gottesliebe), die Tausende von Briefen geistlicher Freundschaft, die daraus hervorgehen sollten und innerhalb wie außerhalb von Klostermauern an Mönche und Nonnen, an Hofherren und -damen sowie an einfache Menschen geschickt wurden, die Begegnung mit Johanna Franziska von Chantal und selbst die Gründung desOrdens von der Heimsuchung Mariensim Jahr 1610 würden ohne diese innere Wende unverständlich bleiben. Evangelium und Kultur gingen also eine fruchtbare Verbindung ein, aus der die Eingebung einer wirklichen Methode hervorging, die zur Reife gelangt war und eine nachhaltige und reiche Ernte versprach.

In einem der allerersten Briefe der geistlichen Begleitung und Freundschaft, den er an eine der Gemeinschaften schickte, die er in Paris besucht hatte, spricht Franz von Sales, wenn auch mit tiefer Demut, von „seiner Methode“, die sich von anderen unterscheidet, im Hinblick auf eine echte Reform. Es ist eine Methode, die auf Härte verzichtet und ganz und gar auf die Würde und die Fähigkeit einer frommen Seele baut, trotz ihrer Schwächen:»Ich frage mich, ob es nicht noch ein anderes Hindernis für Eure Reform gibt. Vielleicht haben jene, die diese Reform vorgeschlagen haben, die Wunde zu rauh aufgerissen. […] Ich lobe ihre Methode, wenn sie auch nicht die meine ist, vor allem nicht bei Seelen mit guter Verfassung, wie Ihr es seid. Ich glaube, dass es besser ist, Euch einfach das Übel zu zeigen und Euch dann das glühende Eisen in die Hand zu drücken, damit Ihr selbst das Übel ausbrennt. Jedenfalls soll Euch das nicht von einer Reform abhalten«.[19]In diesen Worten scheint jene Sichtweise durch, die den salesianischen Optimismus berühmt gemacht und in der Geschichte der Spiritualität ihren nachhaltigen Abdruck hinterlassen hat, um dann immer wieder zur Blüte zu gelangen, wie zweihundert Jahre später im Fall von Don Bosco.

Wieder zurück in Annecy wurde er am 8. Dezember desselben Jahres 1602 zum Bischof geweiht. Der Einfluss seines bischöflichen Dienstes auf das damalige Europa und die folgenden Jahrhunderte scheint immens gewesen zu sein. »Er ist Apostel, Prediger, Schriftsteller, Mann der Tat und des Gebets; darum bemüht, die Ideale des Konzils von Trient umzusetzen; beteiligt an der Auseinandersetzung und am Dialog mit den Protestanten, wobei er jenseits der notwendigen theologischen Diskussion immer mehr die Wirkkraft der persönlichen Beziehung und der Liebe erfährt. Er war auch mit diplomatischen Missionen auf europäischer Ebene sowie mit sozialen Aufgaben zur Vermittlung und zur Versöhnung betraut«.[20]Vor allem ist er ein Interpret des Epochenwechsels und Seelenführer in einer Zeit, die auf neue Art nach Gott dürstet.

Die Liebe tut alles für ihre Kinder

Um 1620/1621, also bereits gegen Ende seines Lebens, richtete Franz an einen Priester seiner Diözese Worte, die seine Sicht auf die damalige Zeit erhellen können. Er ermutigte ihn, seinem Wunsch zu folgen und sich der Abfassung neuartiger Texte zu widmen, welche in der Lage waren, die neuen Fragen aufzugreifen und deren Notwendigkeit zu erkennen. »Aber, mein Gott, ich muss Ihnen sagen, die Erkenntnis der Launen der Welt lässt mich leidenschaftlich wünschen, die göttliche Güte möge irgendeinen ihrer Diener anregen, nach dem Geschmack dieser armseligen Welt zu schreiben«.[21]Der Grund für diese Ermutigung lag in seiner eigenen Sicht auf die Zeit: »Die Welt ist so empfindlich, dass man sie künftig nur mit parfümierten Handschuhen anzufassen wagen darf, ihre Wunden nur mit Zibethpflaster verbinden. Was aber wichtig ist: Warum sollen die Menschen geheilt und wozu sollen sie gerettet werden? Unsere Königin, die Liebe, tut alles für ihre Kinder«.[22]Diese Einstellung ist nicht selbstverständlich und auch keine endgültige Kapitulation angesichts einer Niederlage. Es war vielmehr die Einsicht eines sich vollziehenden Wandels und der ganz evangeliumsgemäßen Notwendigkeit, zu verstehen, wie man ihn gestalten kann.

Im Übrigen hatte er dasselbe Bewusstsein zur Reife und zum Ausdruck gebracht, als er imVorwortderAbhandlung über die Gottesliebeeinführend schrieb: »Natürlich berücksichtigte ich die Geistesverfassung unserer Zeit. Ich musste es tun; es ist sehr wichtig zu wissen, in welcher Zeit man schreibt«.[23]Um das Wohlwollen des Lesers bittend beteuerte er dann: »Findest du den Stil dieser Schrift verschieden von dem der „Philothea“ und fällt es dir auf, dass beide Schriften abweichen von der Art, in der die „Verteidigung der Kreuzesfahne“ abgefasst ist, so bedenke, dass man in 19 Jahren vieles lernt und verlernt, dass die Sprache des Krieges anders ist als die des Friedens und dass man anders mit Anfängern als mit alten Gefährten spricht«.[24]Doch wo soll man angesichts dieses Wandels anfangen? Nicht weit entfernt von eben der Geschichte Gottes mit den Menschen. Daraus ergibt sich die eigentliche Absicht seinerAbhandlung:»Ich habe nur daran gedacht, einfach und schlicht, ungekünstelt und ungeschminkt die Geschichte der Entstehung, des Fortschritts und Verfalls der göttlichen Liebe, ihrer Werke, Eigenschaften, Vorzüge und Erhabenheit zu beschreiben«.[25]

Die Fragen eines Epochenübergangs

Anlässlich seines vierhundertsten Todestages habe ich mir Gedanken über Franz von Sales’ Vermächtnis für unsere Zeit gemacht und dabei seine Flexibilität und seine Fähigkeit, Visionen zu entwickeln, als erhellend empfunden. Teilweise als Geschenk Gottes, teilweise als Ergebnis seiner persönlichen Natur und auch als Ergebnis seiner beständigen Achtsamkeit für das Erlebte, hatte er den Wandel der Zeiten klar wahrgenommen. Er selbst hätte nie gedacht, darin eine solche Gelegenheit zum Verkünden des Evangeliums erkennen zu können. Das Wort Gottes, das er von Jugend an geliebt hatte, war in der Lage, sich seinen Weg zu bahnen und neue, unvorstellbare Horizonte in einer Welt zu eröffnen, die sich in einem raschen Wandel befand.

Das ist es, was uns als wesentliche Aufgabe auch in diesem unserem Epochenübergang erwartet:eine nicht selbstbezogene Kirche, frei von jeder Verweltlichung, aber in der Lage, sich in der Welt zurechtzufinden, das Leben der Menschen zu teilen, gemeinsam unterwegs zu sein, zuzuhören und aufzunehmen.[26]Das hat Franz von Sales getan, indem er mit Hilfe der Gnade seine Zeit verstand. So lädt er uns ein, Abstand zu nehmen von einer übermäßigen Sorge um uns selbst, um die Strukturen, um das gesellschaftliche Erscheinungsbild und uns vielmehr zu fragen, welches die konkreten Bedürfnisse und die geistlichen Erwartungen unseres Volkes sind.[27]Daher ist es auch heute wichtig, einige seiner grundlegenden Entscheidungen erneut zu bedenken, um den Wandel mit der Weisheit des Evangeliums zu durchdringen.

Die Brise und die Flügel

Die erste dieser Entscheidungen bestand darin, die glückliche Beziehung zwischen Gott und dem Menschen erneut zu betrachten und einem jeden in seiner besonderen Situation noch einmal anzutragen. Letztlich ist der eigentliche Grund und das konkrete Anliegen seinerAbhandlungja gerade, seinen Zeitgenossen die Faszination der Gottesliebe zu verdeutlichen. »Welches sind nun die Bande, womit die göttliche Vorsehung unsere Herzen gewöhnlich an sich zieht?«.[28]Ausgehend von der Bibelstelle Hosea 11,4[29]definiert er diese gewöhnlichen Mittel als »menschliche Bande« und »Fesseln der Liebe und Freundschaft«. »Gewiss, […] Gott zieht uns nicht mit eisernen Fesseln an sich wie Stiere oder Büffel, sondern er wirbt um uns, er lockt uns liebevoll an sich durch zarte und heilige Einsprechungen. Das sindBande Adams und der Menschlichkeit,sie entsprechen der Beschaffenheit des menschlichen Herzens, das von Natur aus frei ist«.[30]Durch diese Bande hat Gott sein Volk aus der Sklaverei befreit, indem er es lehrte, zu gehen, und indem er es an der Hand hielt, wie es ein Vater oder eine Mutter mit dem eigenen Kind tut. Kein äußerer Zwang also, keine despotische und willkürliche Macht, keine Gewalt. Vielmehr die überzeugende Form einer Einladung, die die Freiheit des Menschen nicht anrührt. »Die Gnade«, fährt er fort und denkt dabei sicher an zahllose Lebensgeschichten, denen er begegnet ist, »besitzt Kräfte, nicht um von unseren Herzen etwas zu erzwingen, sondern um sie liebevoll anzulocken. Ihr wohnt heilige Gewalt inne, uns nicht zu vergewaltigen, sondern unsere Freiheit zu einer liebenden zu gestalten. Sie wirkt kraftvoll, aber zugleich so mild, dass unser Wille unter ihrer so machtvollen Tätigkeit nicht erdrückt wird. Sie drängt uns, unterdrückt aber nicht unser freies Handeln, so dass wir, bei all ihrem kraftvollen Wirken, ihren Regungen zustimmen oder widerstehen können, wie es uns gefällt«.[31]

Zuvor hatte er diese Beziehung mithilfe des kuriosen Beispiels des „Apodus“ beschrieben: »Aristoteles spricht (Hist. an. 1,1) von gewissen Vögeln, er nennt sie „Apoden“ oder „Fußlose“, deren Beine so kurz und deren Füße so schwach sind, dass sie sich ihrer nicht bedienen können; es ist, wie wenn sie überhaupt keine hätten. Sinken diese Vögel einmal zur Erde herab, so bleiben sie dort wie gefangen liegen und sind nicht imstande, sich zum Flug zu erheben. Da sie Beine und Füße nicht gebrauchen können, vermögen sie sich nicht in die Luft zu erheben. Sie kauern am Boden und gehen zugrunde, falls nicht ein günstiger Wind ihrem Unvermögen zu Hilfe kommt, sie erfasst und in die Luft hinaufwirbelt, wie er es auch sonst noch mit anderem macht. Wenn sie dann dem Antrieb und dem Schwung, den ihnen der Wind gibt, entsprechen und ihre Flügel gebrauchen, dann hilft ihnen der Wind noch weiter und treibt sie immer mehr zum Flug voran«.[32]So ist der Mensch: Von Gott zum Fliegen und zur Entfaltung seines vollen Potentials in der Berufung zur Liebe geschaffen, läuft er Gefahr, unfähig zu werden zum Flug anzuheben, wenn er zu Boden fällt und nicht bereit ist, seine Flügel wieder für die Brise des Geistes zu öffnen.

Hier ist also die „Form“, in der die Gnade Gottes sich an die Menschen richtet: Es ist jene der kostbaren und sehr menschlichen Bande Adams. Gottes Macht ist immer und uneingeschränkt dazu in der Lage, den Menschen wieder in den Flug zurückzuversetzen und doch sorgt seine Sanftmutdafür, dass die freie Zustimmung dazu nicht eingeschränkt oder nutzlos ist. Es ist am Menschen, sich zu erheben oder sich nicht zu erheben. Obwohl die Gnade ihn ohne sein Zutun bei seinem Erwachen berührt hat, will sie doch nicht, dass der Mensch sich ohne seine eigene Einwilligung erhebt. So kommt er zu seiner abschließenden Überlegung: »Theotimus, die Gnadenanregungen kommen uns zuvor und machen sich bemerkbar, ehe wir noch an sie denken können; haben wir jedoch einmal ihre Gegenwart gefühlt, so steht es bei uns, ihnen beizustimmen, mitzuwirken und ihnen zu folgen oder ihnen die Zustimmung zu verweigern und sie abzuweisen. Ohne unser Zutun machen sie sich uns fühlbar, aber unsere Einwilligung bewirken sie nicht ohne unser Zutun«.[33]Deshalb handelt es sich bei der Beziehung zu Gott immer um eine Erfahrung des Beschenktwerdens, die die Tiefe der Liebe des Vaters bezeugt.

Diese Gnade macht den Menschen jedoch niemals passiv. Sie führt zum Verständnis, dass die Liebe Gottes radikal allem vorausgeht und dass sein erstes Geschenk darin besteht, dass man sich aus eben seiner Liebe empfängt. Jeder Mensch hat jedoch die Pflicht, an der eigenen Verwirklichung mitzuwirken, indem er seine Flügel vertrauensvoll für die Brise Gottes öffnet. Hier sehen wir einen wichtigen Aspekt unserer menschlichen Berufung: »Im Schöpfungsbericht der Genesis befiehlt Gott Adam und Eva, fruchtbar zu sein. Die Menschheit hat den Auftrag, die Schöpfung zu verwandeln, aufzubauen und sich untertan zu machen in dem positiven Sinn, aus ihr und mit ihr zu erschaffen. Was kommen wird, hängt nicht von einem unsichtbaren Mechanismus ab, einer Zukunft, in der die Menschheit ein passiver Beobachter wäre. Nein, wir sind Akteure, wir sind – wenn ich das Wort etwas dehnen darf –Mit-Schöpfer«.[34]Dies ist, was Franz von Sales gut verstanden und in seinem Dienst als Seelenführer weiterzugeben versucht hat.

Wahre Frömmigkeit

Eine zweite wichtige Entscheidung war jene, die Frömmigkeit thematisiert zu haben. Auch in diesem Fall hatte der Epochenwechsel, wie in unseren Tagen, nicht wenige Fragen zu diesem Thema aufgeworfen. Insbesondere zwei Aspekte sollten auch heute verstanden und neu verbreitet werden. Der erste betrifft die Idee der Frömmigkeit selbst, der zweite ihre universale und populäre Wesensart. So geht es auch am Anfang derPhilotheaan erster Stelle darum, anzugeben, was mit Frömmigkeit gemeint ist: »Deshalb musst du zunächst wissen, was die Tugend der Frömmigkeit ist. Es gibt nur eine wahre Frömmigkeit, an falschen und irrigen Spielarten dagegen eine ganze Reihe. Wenn du die echte nicht kennst, kannst du dich leicht verirren und einer unbrauchbaren, abergläubischen nachlaufen«.[35]

Die Beschreibung der falschen Frömmigkeit durch Franz von Sales ist köstlich und bleibt immer aktuell. Unschwer können wir uns in dieser Beschreibung wiederfinden, die eine probate Spitze gesunden Humors enthält: »Wer gern fastet, hält sich für fromm, weil er fastet, obgleich sein Herz voll Rachsucht ist. Vor lauter Mäßigkeit wagt er nicht, seine Zunge mit Wein, ja nicht einmal mit Wasser zu benetzen, aber er schrickt nicht davor zurück, sie in das Blut seiner Mitmenschen zu tauchen durch Verleumdung und üble Nachrede. – Ein anderer hält sich für fromm, weil er täglich eine Menge Gebete heruntersagt, obwohl er nachher seiner Zunge alle Freiheit lässt für Schimpfworte, böse und beleidigende Reden gegen Hausgenossen und Nachbarn. – Der eine entnimmt seiner Geldbörse gern Almosen für die Armen, aber er kann aus seinem Herzen nicht die Liebe hervorbringen, seinen Feinden zu verzeihen. – Der andere verzeiht wohl seinen Feinden, seine Gläubiger befriedigt er aber nur, wenn ihn das Gericht dazu zwingt«.[36]Dies sind offensichtlich Laster und Schwierigkeiten aller Zeiten, auch der heutigen, und der Heilige schließt: »Gewöhnlich hält man alle diese Menschen für fromm, sie sind es aber keineswegs«.[37]

Die Neuheit und die Wahrheit der Frömmigkeit sind hingegen anderswo zu finden, nämlich in einer tief mit dem göttlichen Leben in uns verbundenen Wurzel. Auf diese Weise setzt »die wahre und lebendige Frömmigkeit […] die Gottesliebe voraus; ja sie ist nichts anderes als wahre Gottesliebe. Freilich nicht irgendeine Liebe zu Gott«.[38]In seiner glühenden Vorstellung ist Frömmigkeit »mit einem Wort: […] nichts anderes als Gewandtheit und Lebendigkeit im geistlichen Leben. Sie lässt die Liebe in uns oder uns in der Liebe tätig werden mit rascher Bereitschaft und Freude«.[39]Deshalb steht sie nicht neben der Liebe, sondern ist eine Ausprägung von ihr und zugleich führt sie zu ihr. Sie ist wie eine Flamme im Verhältnis zum Feuer: Sie belebt seine Intensität, ohne seine Beschaffenheit zu verändern. »So unterscheidet sich die Frömmigkeit von der Gottesliebe nicht anders, als die Flamme vom Feuer. Wenn das geistliche Feuer der Liebe hohe Flammen schlägt, dann heißt es Frömmigkeit. Die Frömmigkeit fügt zum Feuer der Liebe nur die lodernde Flamme froher Bereitschaft hinzu, Entschlossenheit und Sorgfalt nicht nur in der Beobachtung der göttlichen Gebote, sondern auch der himmlischen Ratschläge und Einsprechungen«.[40]Eine so verstandene Frömmigkeit hat nichts Abstraktes. Sie ist vielmehr ein Lebensstil, eine Art und Weise, das konkrete tägliche Leben zu leben. Sie nimmt die kleinen Dinge des Alltags auf und deutet sie, Essen und Kleidung, Arbeit und Freizeit, Liebe und Elternschaft, das Achten auf berufliche Pflichten; kurzum, sie erleuchtet die Berufung eines jeden.

Hier erkennt man die Verwurzelung der Frömmigkeit im Volk, wovon gleich die ersten Zeilen derPhilotheasprechen: »Die vor mir über die Frömmigkeit schrieben, hatten fast ausnahmslos Leser im Auge, die ein Leben fern von weltlichen Geschäften führten, oder solche, die sie zur Weltflucht bewegen wollten. Ich dagegen will gerade jenen helfen, die in der Stadt, im Haushalt oder bei Hof leben und durch ihren Stand notwendigerweise oft mit anderen zusammenkommen«.[41]Aus diesem Grund irrt sich gewaltig, wer die Frömmigkeit in irgendeinen geschützten und reservierten Bereich verbannen möchte. Vielmehr ist sie etwas, das allen gehört und für alle da ist, wo immer wir sind, und jeder kann sie entsprechend seiner eigenen Berufung ausüben. Wie der heilige Paul VI. anlässlich des vierhundertsten Geburtstages des heiligen Franz von Sales schrieb, »ist die Heiligkeit nicht das Vorrecht der einen oder anderen Klasse, sondern an alle Christen ergeht die dringende Aufforderung: „Mein Freund, rück weiter hinauf“ (Lk14,10); alle sind gehalten, den Berg Gottes zu besteigen, wenn auch nicht alle auf demselben Weg. „Der Herr, der Handwerker, der Kellner, der Fürst, die Witwe, die junge Frau, die Braut müssen ihre Frömmigkeit anders praktizieren. Mehr noch, die Ausübung der Frömmigkeit muss an die Stärken, die Tätigkeiten und die Pflichten jedes Einzelnen angepasst werden“«.[42]Die säkulare Stadt zu durchqueren und dabei die Innerlichkeit zu bewahren, den Wunsch nach Vollkommenheit mit jeder Lebenslage zu verbinden und eine Mitte wiederzuentdecken, die sich nicht von der Welt abgrenzt, sondern lehrt, sie zu bewohnen, sie zu schätzen, aber auch zu lernen, den richtigen Abstand von ihr zu nehmen: Das war seine Absicht, und es ist nach wie vor eine wertvolle Lehre für jede Frau und jeden Mann unserer Zeit.

Das ist das Konzilsthema der allgemeinen Berufung zur Heiligkeit: »Mit so reichen Mitteln zum Heile ausgerüstet, sind alle Christgläubigen in allen Verhältnissen und in jedem Stand je auf ihrem Wege vom Herrn berufen zu der Vollkommenheit in Heiligkeit, in der der Vater selbst vollkommen ist«.[43]„Je auf ihrem Wege“. »Es geht also nicht darum, den Mut zu verlieren, wenn man Modelle der Heiligkeit betrachtet, die einem unerreichbar erscheinen«.[44]Die Mutter Kirche stellt sie uns vor Augen, nicht damit wir versuchen, sie zu kopieren, sondern damit sie uns ermutigen, den einzigartigen und besonderen Weg zu gehen, den der Herr für uns vorgesehen hat. »Worauf es ankommt, ist, dass jeder Gläubige seinen eigenen Weg erkennt und sein Bestes zum Vorschein bringt, das, was Gott so persönlich in ihn hineingelegt hat (vgl.1 Kor12,7)«.[45]

Die Ekstase des Lebens

All dies veranlasste den heiligen Bischof, das christliche Leben in seiner Gesamtheit als»Ekstase der Tat und des Lebens«[46]zu betrachten. Es geht dabei nicht um eine einfache Flucht oder einen Rückzug in die Innerlichkeit, geschweige denn um einen traurigen und grauen Gehorsam. Wir wissen, dass diese Gefahr immer im Glaubensleben besteht. Denn »es gibt Christen, deren Lebensart wie eine Fastenzeit ohne Ostern erscheint. [...] Ich verstehe die Menschen, die wegen der schweren Nöte, unter denen sie zu leiden haben, zur Traurigkeit neigen, doch nach und nach muss man zulassen, dass die Glaubensfreude zu erwachen beginnt, wie eine geheime, aber feste Zuversicht, auch mitten in den schlimmsten Ängsten«.[47]

Die Freude erwachen zu lassen, genau darum geht es Franz von Sales in seiner Beschreibung der„Ekstase der Tat und des Lebens“. Dank ihr leben wir »dann nicht nur ein gesittetes, rechtschaffenes und christliches Leben, sondern ein übernatürliches, geistliches, Gott hingegebenes und ekstatisches, d. h. ein Leben, das in jeder Hinsicht außerhalb und über unserer naturhaften Beschaffenheit steht«.[48]Hier befinden wir uns auf den zentralen und leuchtendsten Seiten seinerAbhandlung. Die Ekstase ist das glückliche Übermaß des christlichen Lebens, das über das Mittelmaß des reinen Befolgens hinausgeht: »Nicht stehlen, nicht lügen, keine Unkeuschheit treiben, zu Gott beten, nicht sinnlos schwören, seinen Vater lieben und ehren, nicht töten, – das heißt entsprechend der natürlichen Vernunft leben. Aber all sein Hab und Gut aufgeben, die Armut lieben, sie die ganz holde Herrin nennen und sich ihr gegenüber auch so verhalten, Schmach und Schimpf, Verachtung, Verfolgung und Martyrium als Seligkeit und Glück ansehen, vollkommene Keuschheit bewahren, – und schließlich inmitten der Welt und in diesem sterblichen Dasein ein Leben ständigen Verzichtes, ständiger Entsagung und Selbstverleugnung führen, gegen alle Meinungen und Behauptungen der Welt und gegen den Strom schwimmen, – das heißt nicht mehr menschlich, sondern übermenschlich leben, das ist nicht in uns leben, sondern außer uns und über uns. Da aber niemand so über sich selbst hinausgehen kann, wenn ihn nicht der ewige Vater zieht (Joh6,44), so muss diese Art zu leben eine ständige Entrückung, eine fortwährende Ekstase der Tat und des Wirkens sein«.[49]

Es ist ein Leben, das die Quellen der Freude wiederentdeckt hat, gegen all sein Vertrocknen, gegen die Versuchung der Selbstbezogenheit. In der Tat, »die große Gefahr der Welt von heute mit ihrem vielfältigen und erdrückenden Konsumangebot ist eine individualistische Traurigkeit, die aus einem bequemen, begehrlichen Herzen hervorgeht, aus der krankhaften Suche nach oberflächlichen Vergnügungen, aus einer abgeschotteten Geisteshaltung. Wenn das innere Leben sich in den eigenen Interessen verschließt, gibt es keinen Raum mehr für die anderen, finden die Armen keinen Einlass mehr, hört man nicht mehr die Stimme Gottes, genießt man nicht mehr die innige Freude über seine Liebe, regt sich nicht die Begeisterung, das Gute zu tun. Auch die Gläubigen laufen nachweislich und fortwährend diese Gefahr. Viele erliegen ihr und werden zu gereizten, unzufriedenen, empfindungslosen Menschen«.[50]

Zu dieser Beschreibung der „Ekstase der Tat und des Lebens“ fügt Franz schließlich zwei auch für unsere Zeit wichtige Klarstellungen hinzu. Die erste betrifft ein wirksames Kriterium, das hilft, die Wahrheit eben dieses Lebensstils zu erkennen. Die zweite betrifft deren tiefe Quelle. Hinsichtlich des Kriteriums für die Unterscheidung stellt er fest, dass die Ekstase zwar einerseits ein wirkliches Aus-sich-selbst-Hinausgehen mit sich bringt, andererseits aber kein Aufgeben des Lebens bedeutet. Es ist wichtig, dies nie zu vergessen, um gefährliche Abwege zu vermeiden. Mit anderen Worten: Wer meint, sich Gott zu nähern, aber nicht die Nächstenliebe lebt, täuscht sich und die anderen.

Wir finden hier dasselbe Kriterium, das er auf die Qualität der wahren Frömmigkeit angewandt hatte. »Sieht man also einen Menschen, der im Gebet entrückt ist, so dass er über sich hinaustritt und sich zu Gott erhebt, aber kein ekstatisches, d. h. Gott hingegebenes, höheres Leben führt, […] besonders [durch] dauernde Liebe, – glaube mir, Theotimus, dann sind diese Entrückungen sehr zweifelhaft und gefährlich«. Sehr deutlich fällt seine Schlussfolgerung aus: »Was mag es denn einer Seele nützen, in Gott durch das Gebet entrückt zu sein, wenn sie in ihrem Verhalten und Leben von irdischen, niedrigen und naturhaften Affekten mitgerissen wird? Über sich im Gebet und unter sich im Leben und Wirken, engelhaft in der Betrachtung und tierhaft im Verhalten sein […]. Das ist mit einem Wort ein sicheres Zeichen, dass solche Entrückungen und Ekstasen nur Blendwerk und Irreführung des bösen Feindes sind«.[51]Das ist im Wesentlichen das, woran schon Paulus die Korinther im Hohelied der Liebe erinnerte: »Wenn ich alle Glaubenskraft besäße und Berge damit versetzen könnte, hätte aber die Liebe nicht, wäre ich nichts. Und wenn ich meine ganze Habe verschenkte und wenn ich meinen Leib opferte, um mich zu rühmen, hätte aber die Liebe nicht, nützte es mir nichts« (1 Kor13,2-3).

Für Franz von Sales ist das christliche Leben daher nie ohne Ekstase, und dennoch ist die Ekstase ohne Leben nicht echt. Ein Leben ohne Ekstase läuft nämlich Gefahr, sich auf einen matten Gehorsam zu reduzieren, auf ein Evangelium, das seine Freude vergessen hat. Auf der anderen Seite setzt sich eine Ekstase ohne Leben leicht der Illusion und Täuschung des Bösen aus. Die großen Gegensätze des christlichen Lebens lassen sich nicht ineinander auflösen. Wenn überhaupt, erhält der eine den anderen in seiner Echtheit. So gibt es Wahrheit nicht ohne Gerechtigkeit, Wohlgefallen nicht ohne Verantwortung, Spontaneität nicht ohne Gesetz, und umgekehrt.

Was hingegen den tiefen Ursprung dieser Ekstase betrifft, so verbindet Franz von Sales sie weise mit der Liebe, die der menschgewordene Sohn offenbart hat. Einerseits ist »die Liebe die erste Wirklichkeit und der Urgrund unseres frommen und geistlichen Lebens. Durch sie leben, empfinden und erregen wir uns«und andererseits ist »unser geistliches Leben […] so, wie unsere Affektregungen sind«, da beides stimmt, ist klar, dass »ein Herz ohne Regung und ohne Affekte […] keine Liebe« hat, wie auch, dass »es kein liebendes Herz, das ohne Affektregungen wäre«, gibt.[52]Aber die Quelle dieser Liebe, die das Herz anzieht, ist das Leben Jesu Christi.»Nichts drängt das Herz des Menschen mehr als die Liebe« und der Höhepunkt dieses Drängens ist, dass »Jesus Christus […] für uns gestorben [ist]. Er hat uns durch seinen Tod das Leben geschenkt. Wir leben nur, weil er gestorben ist. Er ist für uns, unseretwegen und in uns gestorben«.[53]

Dieser Hinweis ist bewegend und er zeigt neben einer erleuchteten und nicht selbstverständlichen Sicht der Beziehung zwischen Gott und Mensch auch das enge emotionale Band, das den heiligen Bischof mit Jesus verband. Die Wahrheit der Ekstase des Lebens und des Tuns ist keine allgemeine, sondern jene, die sich in der Form der Liebe Jesu zeigt, die am Kreuz ihren Höhepunkt erreicht. Diese Liebe hebt die Existenz nicht auf, sondern lässt sie in einer außergewöhnlichen Weise erstrahlen.

Aus diesem Grund beschreibt der heilige Franz von Sales den Kalvarienberg schließlich mit einem sehr schönen Bild als den »Berg der Liebenden«.[54]Dort und nur dort wird verständlich, dass »man das Leben nicht ohne die Liebe und nicht die Liebe ohne den Tod des Erlösers haben [kann]. Im Übrigen ist alles entweder ewiger Tod oder ewige Liebe und die ganze christliche Weisheit besteht darin, gut zwischen diesen beiden zu wählen«.[55]So kann er seineAbhandlungmit einem Verweis auf den Schluss einer Rede des heiligen Augustinus über die Liebe beschließen:»Was ist treuer als die Liebe? Nicht dem Vergänglichen, sondern dem Ewigen treu. Sie erträgt alles im gegenwärtigen Leben, weil sie alles über das zukünftige Leben glaubt: Sie erträgt alles, was uns hier zum Ertragen gegeben ist, weil sie auf alles hofft, was ihr dort verheißen ist. Sie hat zu Recht nie ein Ende. Praktiziert deshalb die Liebe und tragt Früchte der Gerechtigkeit, indem ihr auf heilige Weise mit ihr umgeht. Und wenn ihr, zu ihrem Lob, noch andere Dinge findet, die ich euch jetzt nicht gesagt habe, dann soll man es an eurem Lebenswandel erkennen«.[56]

Das ist es, was durch das Leben des heiligen Bischofs von Annecy aufscheint und – nochmals – einem jeden von uns als Erbe übergeben ist. Der vierhundertste Jahrestag seiner Geburt in den Himmel helfe uns dessen treu zu gedenken. Auf seine Fürsprache gieße der Herr die Gaben des Heiligen Geistes reichlich auf dem Weg des heiligen und gläubigen Gottesvolkes aus.

Rom, Sankt Johannes im Lateran, am 28. Dezember 2022.

FRANZISKUS

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[1]Franz von Sales,Abhandlung über die Gottesliebe,Vorwort, inDeutsche Ausgabe der Werke des heiligen Franz von Sales (DASal),Band III, Eichstätt 2004, 36.

[2]Ders.,A Monsieur Sylvestre de Saluces de la Mente, Abbé d'Hautecombe(3. November 1622), inŒuvres de Saint François de Sales,XXVI, Annecy 1932, 490-491.

[3]Ders.,An eine Dame(19. Dezember 1622), inDASalVI, 362.

[4]Ders.,Abhandlung über die Gottesliebe,I, 15,inDASalIII, 87.

[5]Ders.,23. Gespräch - Letzte Unterredung unseres seligen Vaters über verschiedene Fragen der Schwestern von Lyon, zwei Tage vor seinem seligen Tode, am Fest des heiligen Stephanus 1622,inDASalII, 329.

[6]Apostolisches SchreibenGaudete et exsultate(19. März 2018), 49:AAS110 (2018), 1124.

[7]Ebd.,57:AAS110 (2018), 1127.

[8]Vgl.ebd., 37-39:AAS110 (2018), 1121-1122.

[9]Franz von Sales,23. Gespräch - Letzte Unterredung unseres seligen Vaters über verschiedene Fragen der Schwestern von Lyon, zwei Tage vor seinem seligen Tode, am Fest des heiligen Stephanus 1622,inDASalII, 329.

[10]Ebd., 319.

[11]Ebd.

[12]Schreiben an Yves Boivineau, Bischof von Annecy, anlässlich des 400. Jahrestages der Bischofsweihe des heiligen Franz von Sales,23. November 2002, 3:Insegnamenti di Giovanni Paolo II,XXV/2 (2002), 767.

[13]Franz von Sales,Abhandlung über die Gottesliebe,Vorwort,inDASal III, 36.

[14]Benedikt XVI.,Generalaudienz,2. März 2011:InsegnamentiVII/1 (2011), 270.

[15]Franz von Sales,Akt der heroischen Hingabe,inDASalXI, 328–329.

[16]Vgl. Franziskus,Ansprache an die Mitglieder der Internationalen Theologischen Kommission(29. November 2019):L’Osservatore Romano,30. November 2019, 8.

[17]Franz von Sales,Brief an Papst Clemens VIII. von Ende Oktober 1602,inDASalVIII, 77.

[18]H. Bremond,L’humanisme dévot,inHistoire littéraire du sentiment religieux en France depuis la fin des guerres de religion jusqu’à nos jours,Grenoble 2006, 131.

[19]Franz von Sales,Brief an die Ordensfrauen “Filles Dieu” vom 22. November 1602,inDASalVII, 188.

[20]Benedikt XVI.,Generalaudienz,2. März 2011:Insegnamenti,VII/1 (2011), 272.

[21]Franz von Sales,An M. Pierre Jay aus den Jahren 1621 oder 1622,inDASalVIII, 336.

[22]Ebd., 337.

[23]Ders.,Abhandlung über die Gottesliebe,Vorwort,inDASalIII, 39.

[24]Ebd., 46.

[25]Ebd., 38.

[26]Vgl. Begegnung mit Bischöfen, Priestern, Ordensleuten, Seminaristen und Katecheten,Bratislava, 13. September 2021:L’Osservatore Romano,13. September 2021, 11-12.

[27]Vgl.ebd.

[28]Franz von Sales, Abhandlung über die Gottesliebe,II, 12, inDASalIII, 129.

[29]Mit menschlichen Fesseln [Vulg:in funiculis Adam] zog ich sie, / mit Banden der Liebe. Ich war da für sie wie die, / die den Säugling an ihre Wangen heben. / Ich neigte mich ihm zu und gab ihm zu essen.

[30]Franz von Sales, Abhandlung über die Gottesliebe,II, 12, inDASalIII, 129.

[31]Ebd., 130.

[32]Ebd., II, 9, 121.

[33]Ebd., II, 12, 132.

[34]Franziskus,Wage zu träumen! Mit Zuversicht aus der Krise,München 2020, 11.

[35]Franz von Sales,Anleitung zum geistlichen Leben,I, 1, inDASalI, 33.

[36]Ebd.

[37]Ebd.

[38]Ebd., 34.

[39]Ebd.

[40]Ebd., 35.

[41]Ebd., Vorwort, 25.

[42]Apostolisches SchreibenSabaudiae gemmazum vierhundertsten Geburtstag des heiligen Kirchenlehrers Franz von Sales (29. Januar 1967):AAS59 (1967), 119.

[43]Zweites Vatikanisches Konzil, Dogmatische KonstitutionLumen gentium,11.

[44]Apostolisches SchreibenGaudete et exsultate,11:AAS110 (2018), 1114.

[45]Ebd.

[46]Franz von Sales, Abhandlung über die Gottesliebe,VII, 6, inDASalIV, 50.

[47]Apostolisches SchreibenEvangelii gaudium(24. November 2013), 6:AAS105 (2013), 1021-1022.

[48]Franz von Sales, Abhandlung über die Gottesliebe,VII, 6, inDASalIV, 50.

[49]Ebd., 50-51.

[50]Apostolisches SchreibenEvangelii gaudium,2:AAS105 (2013), 1019-1020.

[51]Franz von Sales,Abhandlung über die Gottesliebe,VII, 7, inDASalIV, 53.

[52]Ebd., 52.

[53]Ebd., VII, 8, 55f.

[54]Ebd.,XII, 13, 316.

[55]Ebd.

[56]Sermones350, 3:PL39, 1535.

[02021-DE.01] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

CARTA APOSTÓLICA

TOTUM AMORIS EST

DEL SANTO PADRE

FRANCISCO

EN EL IV CENTENARIO DE LA MUERTE

DE SAN FRANCISCO DE SALES

«Todo pertenece al amor».[1]En estas palabras podemos recoger la herencia espiritual legada por san Francisco de Sales, que murió hace cuatro siglos, el 28 de diciembre de 1622, en Lyon. Tenía poco más de cincuenta años y, durante los últimos veinte años, había sido obispo y príncipe “exiliado” de Ginebra. Había llegado a Lyon después de su última misión diplomática. El duque de Saboya le había pedido que acompañara al cardenal Mauricio de Saboya a Aviñón. Juntos habrían rendido homenaje al joven rey Luis XIII, que regresaba a París, subiendo el valle del Ródano, luego de una victoriosa campaña militar en el sur de Francia. Cansado y con la salud deteriorada, Francisco se había puesto en camino por puro espíritu de servicio. «Si no fuera tan útil a su servicio que yo haga este viaje, tendría, ciertamente, muy buenas y sólidas razones para eximirme de él; pero, si se trata de su servicio, vivo o muerto, no me echaré atrás, sino que iré o me haré arrastrar».[2]Este era su carácter. Finalmente, cuando llegó a Lyon se alojó en el monasterio de las Visitandinas, en la casa del jardinero, para no causar demasiadas molestias y, al mismo tiempo, ser más libre para encontrarse con quien lo necesitara.

Poco impresionado desde hacía bastante tiempo por «las débiles grandezas de la corte»,[3]también había consumado sus últimos días llevando adelante el ministerio de pastor en una sucesión de compromisos: confesiones, coloquios, conferencias, predicaciones y las últimas, infaltables, cartas de amistad espiritual. La razón profunda de este estilo de vida lleno de Dios se le había hecho cada vez más nítida a lo largo del tiempo, y él la había formulado con sencillez y precisión en su célebreTratado del amor de Dios: «Tan pronto como el hombre fija con alguna atención su pensamiento en la consideración de la divinidad, siente cierta dulce emoción en su corazón, que muestra que Dios es Dios del corazón humano».[4]Es la síntesis de su pensamiento. La experiencia de Dios es una evidencia del corazón humano. Esta no es una construcción mental, más bien es un reconocimiento lleno de asombro y de gratitud, que resulta de la manifestación de Dios. En el corazón y por medio del corazón es donde se realiza ese sutil e intenso proceso unitario en virtud del cual el hombre reconoce a Dios y, al mismo tiempo, a sí mismo, su propio origen y profundidad, su propia realización en la llamada al amor. Descubre que la fe no es un movimiento ciego, sino sobre todo una disposición del corazón. A través de ella el hombre confía en una verdad que se presenta a la conciencia como una “dulce emoción”, capaz de suscitar un correspondiente e irrenunciable bien-querer por cada realidad creada, como a él le gustaba decir.

A esta luz se comprende cómo para san Francisco de Sales no hay mejor lugar donde encontrar a Dios y ayudar a buscarlo que en el corazón de cada mujer y hombre de su tiempo. Lo había aprendido desde su temprana juventud, observándose a sí mismo con fina atención y escrutando el corazón humano.

En el último encuentro de esos días en Lyon, y con el sentido íntimo de una cotidianidad habitada por Dios, había dejado a sus Visitandinas la expresión con la que posteriormente había querido que fuera sellada su memoria: «He resumido todo en estas dos palabras, cuando os he dicho: nada pedir, nada rehusar. No tengo más que deciros».[5]Sin embargo, no se trataba de un ejercicio de mero voluntarismo, «una voluntad sin humildad»,[6]aquella sutil tentación del camino hacia la santidad, que la confunde con la justificación por medio de las propias fuerzas, con la adoración de la voluntad humana y de la propia capacidad, «que se traduce en una autocomplacencia egocéntrica y elitista privada del verdadero amor».[7]Mucho menos se trataba de un mero quietismo, de un abandono pasivo y sin afectos en una doctrina sin carne y sin historia.[8]Nacía más bien de la contemplación de la misma vida del Hijo encarnado. Era el 26 de diciembre, y el santo hablaba a las hermanas en el corazón del misterio de la Navidad: «¿Veis al Niño Jesús en el pesebre? Acepta todas las inclemencias del tiempo, el frío y todo lo que su Padre permite le suceda. No está escrito que haya extendido alguna vez sus manos a los pechos de su Madre, se abandonaba totalmente a su cuidado y previsión, sin rehusar los pequeños alivios que ella le daba. Del mismo modo nosotros no debemos desear ni rehusar nada, sino aceptar igualmente todo lo que la Providencia de Dios permita que nos suceda, el frío y las inclemencias del tiempo».[9]Es conmovedora su atención en reconocer el cuidado de lo que es humano como indispensable. En la escuela de la encarnación había aprendido a leer la historia y a habitarla con confianza.

El criterio del amor

Por medio de la experiencia había reconocido el deseo como la raíz de toda vida espiritual verdadera y, al mismo tiempo, como lugar de su falsificación. Por eso, recogiendo a manos llenas de la tradición espiritual que lo había precedido, había comprendido la importancia de poner constantemente a prueba el deseo, mediante un continuo ejercicio de discernimiento. El criterio último para su evaluación lo había redescubierto en el amor. En esa última estadía en Lyon, en la fiesta de san Esteban, dos días antes de su muerte, había dicho: «El amor es lo que da valor a nuestras obras. Os digo más aún: una persona que sufre el martirio por Dios con una onza de amor, merece mucho, pues la vida es lo más que se puede dar; pero si hay otra persona que sólo sufre un golpe con dos onzas de amor tendrá mucho más mérito, porque la caridad y el amor son los que dan el valor a nuestras obras».[10]

Con sorprendente concreción había continuado ilustrando la difícil relación entre contemplación y acción: «Sabéis o debéis saber que la contemplación es mejor que la acción y la vida activa; pero si en esta hay más unión [con Dios], entonces es mejor que aquella. Si una hermana que está en la cocina manejando la sartén junto al fuego tiene más amor y caridad que otra, el fuego material no le quitará el mérito, al contrario, le ayudará y será más grata a Dios. Con bastante frecuencia se está tan unido a Dios en la acción como en la soledad. En fin, vuelvo siempre a la cuestión, donde se encuentre más amor».[11]Esta es la verdadera pregunta que disipa instantáneamente toda rigidez inútil o todo repliegue sobre sí mismo: interrogarse en todo momento, en toda decisión, en toda circunstancia de la vida dónde reside el mayor amor. No es casualidad que san Francisco de Sales haya sido llamado por san Juan Pablo II «doctor del amor divino»,[12]no fue sólo porque escribió un magníficoTratadosobre este tema, sino sobre todo porque fue testigo de ese amor. Por otra parte, sus escritos no se pueden considerar como una teoría redactada en un escritorio, lejos de las preocupaciones del hombre común. Su enseñanza, en efecto, nació de una escucha atenta de la experiencia. Él no hizo más que transformar en doctrina lo que vivía y leía en su singular e innovadora acción pastoral, gracias a una agudeza iluminada por el Espíritu. Una síntesis de este modo de proceder se encuentra en elPrólogodel mismoTratado del amor de Dios: «Todo en la Iglesia es para el amor, en el amor, por el amor y del amor».[13]

Los años de la primera formación: la aventura de conocerse en Dios

Nació el 21 de agosto de 1567, en el castillo de Sales, cerca de Thorens, de Francisco de Nouvelles, señor de Boisy, y de Francisca de Sionnaz. «Vivió a caballo entre dos siglos, el XVI y el XVII, recogió en sí lo mejor de las enseñanzas y de las conquistas culturales del siglo que terminaba, reconciliando la herencia del humanismo con la tendencia hacia lo absoluto propia de las corrientes místicas».[14]

Después de la formación cultural inicial, primero en el colegio de La Roche-sur-Foron y después en el de Annecy, llegó a París, al colegio jesuita Clermont, que había sido fundado recientemente. En la capital del Reino de Francia, devastada por las guerras de religión, experimentó en poco tiempo dos crisis interiores consecutivas, que marcaron su vida de modo indeleble. Esa ardiente oración hecha en la Iglesia de Saint-Étienne-des-Grès, frente a la Virgen Negra de París, en medio de la oscuridad, le encenderá en el corazón una llama que permanecerá viva en él para siempre, como clave de lectura de su propia experiencia y de la de otros. «Señor, tú que tienes todo en tus manos y cuyos caminos son justicia y verdad, cualquier cosa que suceda, […] yo te amaré, Señor […], te amaré aquí, oh Dios mío, y siempre esperaré en tu misericordia, y siempre cantaré tus alabanzas. […] Oh, Señor Jesús, tú siempre serás mi esperanza y mi salvación en la tierra de los vivientes».[15]

Eso había escrito en su cuaderno, recuperando la paz. Y esta experiencia, con sus inquietudes y sus interrogantes, para él siempre será iluminadora y le dará un singular camino de acceso al misterio de la relación de Dios con el hombre. Le ayudará a escuchar la vida de los demás y a reconocer, con fino discernimiento, la actitud interior que une el pensamiento al sentimiento, la razón a los afectos, y que de ese modo es capaz de llamar por nombre al “Dios del corazón humano”. Por este camino Francisco no corrió el peligro de atribuir un valor teórico a la propia experiencia personal, absolutizándola, sino que aprendió algo extraordinario, fruto de la gracia: a leer en Dios lo vivido por él y por los demás.

Aunque nunca haya pretendido elaborar un sistema teológico propiamente dicho, su reflexión sobre la vida espiritual tuvo una notable dignidad teológica. Aparecen en él los rasgos esenciales del quehacer teológico, para el cual es necesario no olvidar dos dimensiones constitutivas. La primera es precisamentela vida espiritual, porque es en la oración humilde y perseverante, en la apertura al Espíritu Santo, que se puede tratar de comprender y de expresar al Verbo de Dios. Los teólogos se fraguan en el crisol de la oración. La segunda dimensión esla vida eclesial: sentir en la Iglesia y con la Iglesia. También la teología se ha visto afectada por la cultura individualista, pero el teólogo cristiano elabora su pensamiento inmerso en la comunidad, partiendo en ella el pan de la Palabra.[16]La reflexión de Francisco de Sales, al margen de las disputas entre las escuelas de su época, y aun respetándolas, nace precisamente de estos dos rasgos constitutivos.

El descubrimiento de un mundo nuevo

Cuando finalizó los estudios humanísticos, continuó con los de derecho en la Universidad de Padua. Al regresar a Annecy ya había decidido la orientación de su vida, no obstante las resistencias de sus padres. Fue ordenado sacerdote el 18 de diciembre de 1593. En los primeros días de septiembre del año siguiente, por invitación del obispo, Mons. Claude de Granier, fue llamado a la difícil misión en el Chablais, territorio perteneciente a la diócesis de Annecy, de confesión calvinista, que, en el intrincado laberinto de guerras y tratados de paz, había pasado nuevamente a estar bajo el control del ducado de Saboya. Fueron años intensos y dramáticos. Aquí descubrió, junto con alguna rígida intransigencia que luego le hará reflexionar, sus aptitudes de mediador y hombre de diálogo. Además, se descubrió inventor de originales y audaces praxis pastorales, como las famosas “hojas volantes”, que se colgaban en todas partes e incluso se deslizaban debajo de las puertas de las casas.

En 1602 regresó a París, ocupado en llevar adelante una delicada misión diplomática, en nombre del mismo Granier y con instrucciones precisas de la Sede Apostólica, después de la enésima modificación del cuadro político-religioso del territorio de la diócesis de Ginebra. A pesar de la buena disposición por parte del rey de Francia, la misión fracasó. Él mismo escribió al Papa Clemente VIII: «Después de nueve meses, me vi obligado a dar marcha atrás sin haber concluido casi nada».[17]Sin embargo, aquella misión se reveló para él y para la Iglesia de una riqueza inesperada bajo el perfil humano, cultural y religioso. En el tiempo libre que los negociados diplomáticos le concedían, Francisco predicó ante la presencia del rey y de la corte de Francia, estableció relaciones importantes y, sobre todo, se sumergió totalmente en la prodigiosa primavera espiritual y cultural de la moderna capital del Reino.

Allí todo había cambiado y estaba cambiando. Él mismo se dejó tocar e interrogar tanto por los grandes problemas que se presentaban en el mundo y el nuevo modo de observarlos, como por la sorprendente demanda de espiritualidad que había nacido y las cuestiones inéditas que esta planteaba. En pocas palabras, percibió un verdadero “cambio de época”, al que era necesario responder con lenguajes antiguos y nuevos. Ciertamente, no era la primera vez que encontraba cristianos fervorosos, pero se trataba de algo distinto. No era la París devastada por las guerras de religión, que había visto en sus años de formación, ni la lucha encarnizada librada en los territorios del Chablais. Era una realidad inesperada: una multitud «de santos, de verdaderos santos, numerosos y que estaban en todas partes».[18]Eran hombres y mujeres de cultura, profesores de la Sorbona, representantes de las instituciones, príncipes y princesas, siervos y siervas, religiosos y religiosas. Un mundo que estaba sediento de Dios.

Conocer a esas personas y tomar conciencia de sus interrogantes fue una de las circunstancias providenciales más importantes de su vida. Así, días aparentemente inútiles e infructuosos se transformaron en una escuela incomparable para leer los estados de ánimo de esa época, sin nunca elogiarlos. En él, el hábil e infatigable controversista se estaba transformando, por la gracia, en un fino intérprete del tiempo y extraordinario director de almas. Su acción pastoral, las grandes obras (Introduccióna la vida devotayTratado del amor de Dios), la infinidad de cartas de amistad espiritual que fueron enviadas, dentro y fuera de los muros de los conventos y los monasterios, a religiosos y religiosas, a hombres y mujeres de la corte y a la gente común, el encuentro con Juana Francisca de Chantal y la misma fundación de laVisitaciónen 1610 resultarían incomprensibles sin este cambio interior. Evangelio y cultura encontraban de ese modo una síntesis fecunda, de la que derivaba la intuición de un método auténtico, maduro y listo para una cosecha duradera y prometedora.

En una de las primeras cartas de dirección y amistad espiritual que Francisco de Sales envió a una de las comunidades que visitó en París, mencionaba, con humildad, un “método suyo”, que se diferenciaba de los demás, con vistas a una verdadera reforma. Un método que renunciaba a la severidad y confiaba plenamente en la dignidad y capacidad de un alma devota, no obstante sus debilidades: «Me viene la duda de que a vuestra reforma también se pueda oponer otro impedimento: tal vez aquellos que os la han impuesto han curado la llaga con demasiada dureza. […] Yo alabo su método, aunque no sea el que suelo usar, especialmente con respecto a espíritus nobles y bien educados como los vuestros. Creo que sea mejor limitarse a mostrarles el mal y a poner el bisturí en sus manos para que ellos mismos practiquen la incisión necesaria. Pero no descuidéis por ello la reforma que necesitáis».[19]En estas palabras se trasluce esa mirada que ha hecho célebre el optimismo salesiano, que ha dejado su huella permanente en la historia de la espiritualidad y que ha florecido sucesivamente, como en el caso de don Bosco dos siglos después.

Cuando regresó a Annecy, fue ordenado obispo el 8 de diciembre del mismo año 1602. El influjo de su ministerio episcopal en la Europa de esa época y de los siglos posteriores resulta inmenso. «Fue apóstol, predicador, escritor, hombre de acción y de oración; comprometido en hacer realidad los ideales del concilio de Trento; implicado en la controversia y en el diálogo con los protestantes, experimentando cada vez más la eficacia de la relación personal y de la caridad, más allá del necesario enfrentamiento teológico; encargado de misiones diplomáticas a nivel europeo, y de tareas sociales de mediación y reconciliación».[20]Sobre todo, fue intérprete del cambio de época y guía de las almas en un tiempo que tenía sed de Dios de un modo nuevo.

La caridad hace todo por sus hijos

Entre 1620 y 1621, es decir, ya al final de su vida, Francisco dirigió a un sacerdote de su diócesis unas palabras capaces de iluminar su visión de la época. Lo animaba a secundar su deseo de dedicarse a la escritura de textos originales, que lograran interceptar los nuevos interrogantes, intuyendo en ellos las necesidades. «Os debo decir que el conocimiento que voy adquiriendo cada día de los estados de ánimo del mundo me lleva a desear apasionadamente que la divina Bondad inspire a alguno de sus siervos a escribir según el gusto de este pobre mundo».[21]La razón de este estímulo la encontraba en la propia visión del tiempo: «El mundo se está volviendo tan delicado, que dentro de poco nadie se atreverá más a tocarlo, sino con guantes de seda, ni a medicar sus llagas, sino con cataplasmas de cebolla; pero, ¿qué importa, si los hombres son curados y, en definitiva, salvados? Nuestra reina, la caridad, hace todo por sus hijos».[22]No era algo que se daba por sentado, ni mucho menos una rendición final frente a una derrota. Se trataba, más bien, de la intuición de un cambio que estaba en curso y de la exigencia, totalmente evangélica, de comprender cómo poder habitarlo.

La misma conciencia, además, la había madurado y expresado en elPrólogo, al introducir elTratado del amor de Dios: «He tenido en cuenta la condición de las almas en estos tiempos, y además debía tenerla, porque importa mucho mirar la condición de los tiempos en que se escribe».[23]Rogando, asimismo, la benevolencia del lector, afirmaba: «Y si encontrares el estilo un poco diferente del que he usado escribiendo aFilotea, y ambos muy diversos del que empleé en laDefensa de la cruz, debes saber que en diecinueve años se aprenden y se olvidan muchas cosas; que el lenguaje de la guerra no es igual que el de la paz, y que de una manera se habla a los muchachos principiantes y de otra a los viejos compañeros».[24]Pero, frente a este cambio, ¿por dónde comenzar? No lejos de la misma historia de Dios con el hombre. De aquí el objetivo final de suTratado: «Mi pensamiento ha sido tan sólo exponer sencilla y llanamente, sin artificios ni aderezos de estilo, la historia del nacimiento, progreso, decadencia, operaciones, propiedades, beneficios y excelencias del amor divino».[25]

Las preguntas de un cambio de época

En la memoria del cuarto centenario de la muerte de san Francisco de Sales, me he preguntado sobre su legado para nuestra época, y he encontrado iluminadoras su flexibilidad y su capacidad de visión. Un poco por don de Dios, un poco por índole personal, y también por la profundización constante de sus vivencias, había tenido la nítida percepción del cambio de los tiempos. Ni él mismo hubiera llegado a imaginar que en esto reconocería una gran oportunidad para el anuncio del Evangelio. La Palabra que había amado desde su juventud era capaz de hacerse camino abriendo horizontes nuevos e impredecibles en un mundo en rápida transición.

Es lo que también nos espera como tarea esencial para este cambio de época: una Iglesia no autorreferencial, libre de toda mundanidad pero capaz de habitar el mundo, de compartir la vida de la gente, de caminar juntos, de escuchar y de acoger.[26]Es lo que realizó Francisco de Sales leyendo su época con ayuda de la gracia. Por eso, él nos invita a salir de la preocupación excesiva por nosotros mismos, por las estructuras, por la imagen social, y a preguntarnos más bien cuáles son las necesidades concretas y las esperanzas espirituales de nuestro pueblo.[27]Por tanto, releer algunas de sus decisiones cruciales es importante también hoy, para vivir el cambio con sabiduría evangélica.

La brisa y las alas

La primera de dichas decisiones fue la de releer y volver a proponer a cada uno, en su condición específica, la feliz relación entre Dios y el ser humano. En definitiva, la razón última y el objetivo concreto delTratadoera precisamente ilustrar a los contemporáneos el encanto del amor de Dios. «¿Cuáles son —se preguntaba— los lazos habituales por los cuales la Providencia divina acostumbra atraer nuestros corazones a su amor?».[28]Partiendo sugestivamente del texto de Oseas 11,4,[29]definía tales medios ordinarios como «lazos de humanidad, o de caridad y amistad».«No cabe duda —escribía— de que Dios no nos atrae con cadenas de hierro, como a los toros y a los búfalos, sino mediante invitaciones, dulces encantos y santas inspiraciones, que son loslazos de Adán y de la humanidad, es decir, los propios y convenientes al corazón humano, que naturalmente está dotado de libertad».[30]Es a través de estos lazos que Dios ha sacado a su pueblo de la esclavitud, enseñándole a caminar, llevándolo de la mano, como hace un papá o una mamá con el propio hijo. Por consiguiente, ninguna imposición externa, ninguna fuerza despótica y arbitraria, ninguna violencia. Más bien, la forma persuasiva de una invitación que deja intacta la libertad del hombre. «La gracia —proseguía, pensando ciertamente en tantas historias de vida que había conocido— tiene fuerza, no para obligar, sino para atraer el corazón; ejerce una santa violencia, no para vulnerar, sino para enamorar nuestra libertad; obra fuertemente, mas con suavidad tan admirable, que nuestra voluntad no queda agobiada bajo tan poderosa acción; nos presiona, pero no sofoca nuestra libertad. Así, pues, en medio de toda su fuerza, podemos consentir o resistir a sus impulsos, según nos place».[31]

Poco antes había bosquejado dicha relación utilizando el curioso ejemplo del “ápodo”: «Hay cierta clase de pájaros, oh Teótimo, a los cuales Aristóteles llama “ápodos”, esto es, sin pies, porque, teniendo las piernas extremadamente cortas y los pies sin fuerza, no les sirven más que si realmente no los tuvieran. Por donde sucede que, si una vez caen a tierra, permanecen como clavados en ella, sin que puedan nunca por sí mismos recobrar el vuelo, porque, no pudiéndose valer de sus piernas ni de sus pies, no tienen medio ninguno para tomar impulso y lanzarse de nuevo al aire. Así, quedan allí inmóviles y hasta llegan a morir, si el viento propicio a su impotencia, soplando fuertemente sobre la faz de la tierra, no viene a arrebatarlos y levantarlos, como hace con otras cosas; porque entonces, si empleando ellos sus alas, corresponden a este impulso y primer vuelo que el viento les da, el mismo viento continúa ayudándoles, impeliéndoles cada vez más a volar».[32]Así es el hombre: hecho por Dios para volar y desplegar todas sus potencialidades en la llamada al amor, corre el riesgo de volverse incapaz de levantar el vuelo cuando cae a tierra y no acepta volver a abrir las alas a la brisa del Espíritu.

Esta es, pues, la “forma” a través de la cual la gracia de Dios se concede a los hombres: la de los preciosos y muy humanos vínculos de Adán. La fuerza de Dios no deja de ser absolutamente capaz de restablecer el vuelo y, sin embargo, su dulzura hace que la libertad de consentimiento no sea violada o inútil. Corresponde al hombre levantarse o no levantarse. Aunque la gracia lo haya tocado para despertarlo, sin él, esta no quiere que el hombre se levante sin su consentimiento. De esa manera obtiene su reflexión conclusiva: «Las inspiraciones, oh Teótimo, nos previenen, y antes de que hayamos pensado en ellas, experimentamos su presencia, mas después de haberlas sentido, a nosotros toca consentir, secundándolas y siguiendo sus impulsos, o disentir y rechazarlas: ellas se hacen sentir en nosotros y sin nosotros, pero no obtienen el consentimiento sin nosotros».[33]Por lo tanto, la relación con Dios se trata siempre de una experiencia de gratuidad que manifiesta la profundidad del amor del Padre.

Ahora bien, esta gracia nunca hace al hombre pasivo, sino que lleva a comprender que estamos precedidos radicalmente por el amor de Dios, y que su primer don consiste precisamente en haber recibido su mismo amor. Pero cada uno tiene el deber de cooperar en su propia realización, desplegando con confianza las propias alas a la brisa de Dios. Aquí vemos un aspecto importante de nuestra vocación humana: «El mandato de Dios a Adán y Eva en el relato del Génesis es ser fecundos. La humanidad ha recibido el mandato de cambiar, construir y dominar la creación en el sentido positivo de crear desde y con ella. Entonces, el futuro no depende de un mecanismo invisible en el que los humanos son espectadores pasivos. No, somos protagonistas, somos —forzando la palabra—cocreadores».[34]Francisco de Sales lo comprendió bien y trató de transmitirlo en su ministerio de guía espiritual.

La verdadera devoción

Una segunda y gran decisión crucial fue la de haberse centrado en la cuestión de la devoción. También en este caso, el nuevo cambio de época había formulado no pocos interrogantes, tal como ocurre en nuestros días. Dos aspectos en particular requieren que sean comprendidos y revitalizados también hoy. El primero se refiere a la idea misma de devoción, el segundo, a su carácter universal y popular. Indicar, ante todo, qué se entiende por devoción es la primera consideración que encontramos al comienzo deFilotea: «Es necesario que conozcas, desde el principio, en qué consiste la virtud de la devoción, pues son numerosas las devociones falsas e inútiles y sólo hay una verdadera, que, si no la conoces, podrías sufrir engaño determinándote a seguir alguna devoción inconveniente y supersticiosa».[35]

La descripción de Francisco de Sales acerca de la falsa devoción, en la que no nos es difícil reconocernos, es amena y siempre actual, sin dejar fuera una pizca eficaz de sano sentido del humor: «El que se siente inclinado a ayunar se considerará muy devoto si no come, aunque su corazón esté lleno de rencor; y mientras por sobriedad no se atreve a mojar su lengua, no digo en vino, pero ni siquiera en agua, no temerá teñirla en la sangre del prójimo mediante maledicencias y calumnias. Otro se creerá devoto porque reza diariamente un sinnúmero de oraciones, aunque después su lengua se desate de continuo en palabras insolentes, arrogantes e injuriosas contra sus familiares y vecinos. Algún otro abrirá su bolsa de buena gana para distribuir limosnas entre los pobres, pero no es capaz de sacar dulzura de su corazón perdonando a sus enemigos. Aquel perdonará a sus enemigos, pero no saldará sus deudas si no es apremiado por la justicia».[36]Evidentemente, son los vicios y las dificultades de siempre, también de hoy, por lo que el santo concluye: «Todos estos son tenidos vulgarmente por devotos; nombre que de ninguna manera merecen».[37]

En cambio, la novedad y la verdad de la devoción se encuentran en otro lado, en una raíz profundamente unida a la vida divina en nosotros. De ese modo «la devoción viva y verdadera […] presupone el amor de Dios; mejor dicho, no es otra cosa que el verdadero amor de Dios, y no un amor cualquiera».[38]En su ferviente imaginación la devoción no es más que, «en resumen, una agilidad o viveza espiritual por cuyo medio la caridad actúa en nosotros y nosotros actuamos en ella con prontitud y alegría».[39]Por eso no se coloca junto a la caridad, sino que es una de sus manifestaciones y, al mismo tiempo, conduce a ella. Es como una llama con respecto al fuego: reaviva su intensidad, sin cambiar su naturaleza. «En conclusión, se puede decir que entre la caridad y la devoción no existe mayor diferencia que entre la llama y el fuego; siendo la caridad fuego espiritual, cuando está bien inflamada, se llama devoción; así que la devoción nada añade al fuego de la caridad fuera de la llama que la hace pronta, activa, diligente, no sólo en la observancia de los mandamientos, sino también en el ejercicio de los consejos e inspiraciones celestiales».[40]Una devoción así entendida no tiene nada de abstracto. Es, más bien, un estilo de vida, un modo de ser en lo concreto de la existencia cotidiana. Esta recoge e interpreta las pequeñas cosas de cada día, la comida y el vestido, el trabajo y el descanso, el amor y la descendencia, la atención a las obligaciones profesionales; en síntesis, ilumina la vocación de cada uno.

Aquí se intuye la raíz popular de la devoción, afirmada desde las primeras líneas deFilotea: «Casi todos los que hasta ahora han tratado de la devoción, se han dirigido a los que viven alejados de este mundo o, por lo menos, han trazado caminos que empujan a un absoluto retiro. Mi intención es instruir a los que viven en las ciudades, con sus familias, en la corte y, por su condición, están obligados, por las conveniencias sociales, a vivir en medio de los demás».[41]Es por ello que está muy equivocado quien piensa en relegar la devoción a algún ámbito protegido o reservado. Esta es, más bien, de todos y para todos, dondequiera que estemos, y cada uno la puede practicar según la propia vocación. Como escribía san Pablo VI en el cuarto centenario del nacimiento de Francisco de Sales, «la santidad no es prerrogativa de una clase o de otra; sino que a todos los cristianos se les dirige esta invitación apremiante: “¡Amigo, siéntate en un lugar más destacado!” (Lc14,10); todos están vinculados por el deber de subir al monte de Dios, aunque no todos por el mismo camino. “La devoción se ha de ejercitar de diversas maneras, según que se trate de una persona noble o de un obrero, de un criado o de un príncipe, de una viuda o de una joven soltera, o bien de una mujer casada. Más aún: la devoción se ha de practicar de un modo acomodado a las fuerzas, negocios y ocupaciones particulares de cada uno”».[42]Recorrer la ciudad secular manteniendo la interioridad y conjugar el deseo de perfección con cada estado de vida, volviendo a encontrar un centro que no se separa del mundo, sino que enseña a habitarlo, a apreciarlo, aprendiendo también a tomar de él una justa distancia; ese era el propósito del santo, y sigue siendo una valiosa lección para cada mujer y hombre de nuestro tiempo.

Este es el tema conciliar de la vocación universal a la santidad: «Todos los fieles, de cualquier condición y estado, fortalecidos con tantos y tan poderosos medios de salvación, son llamados por el Señor, cada uno por su camino, a la perfección de aquella santidad con la que es perfecto el mismo Padre celestial».[43]“Cada uno por su camino”. «Entonces, no se trata de desalentarse cuando uno contempla modelos de santidad que le parecen inalcanzables».[44]La madre Iglesia no nos los propone para que intentemos copiarlos, sino para que nos alienten a caminar por la senda única y particular que el Señor ha pensado para nosotros. «Lo que interesa es que cada creyente discierna su propio camino y saque a la luz lo mejor de sí, aquello tan personal que Dios ha puesto en él (cf.1 Co12,7)».[45]

El éxtasis de la vida

Todo ello condujo al santo obispo a considerar la vida cristiana en su totalidad como«el éxtasis de la obra y de la vida».[46]Pero no hay que confundirla con una fuga fácil o una retirada intimista, mucho menos con una obediencia triste y gris. Sabemos que este peligro siempre está presente en la vida de fe. En efecto, «hay cristianos cuya opción parece ser la de una Cuaresma sin Pascua. […] Comprendo a las personas que tienden a la tristeza por las graves dificultades que tienen que sufrir, pero poco a poco hay que permitir que la alegría de la fe comience a despertarse, como una secreta pero firme confianza, aun en medio de las peores angustias».[47]

Permitir que se despierte la alegría es precisamente lo que expresa Francisco de Sales al describir “el éxtasis de la obra y de la vida”. Gracias a ella «no sólo llevamos una vida civil, honesta y cristiana, sino también una vida sobrehumana, espiritual, devota y extática, es decir, una vida, bajo todos los conceptos, fuera y por encima de nuestra condición natural».[48]Nos encontramos aquí en las páginas centrales y más luminosas delTratado. El éxtasis es el desbordamiento feliz de la vida cristiana, lanzada más allá de la mediocridad de la mera observancia:«No robar, no mentir, no cometer actos lujuriosos, orar a Dios, no jurar en vano, amar y honrar a los padres, no matar; todo esto es vivir según la razón natural del hombre. Mas dejar todos nuestros bienes, amar la pobreza, buscarla y estimarla como la más deliciosa señora, tener los oprobios, desprecios, humillaciones, persecuciones y martirios por felicidad y dicha, contenerse en los términos de una absoluta castidad, y, en fin, vivir en medio del mundo y en esta vida mortal en oposición a todas las opiniones y máximas mundanas y contra la corriente del río de esta vida, con habitual resignación, renuncias y abnegaciones de nosotros mismos, todo esto no es vivir humana, sino sobrehumanamente; no es vivir en nosotros, sino fuera de nosotros y sobre nosotros. Y porque nadie puede salir de este modo sobre sí mismo si el Padre Eterno no le atrae, por eso este género de vida debe ser un rapto continuo y un éxtasis perpetuo de acción y de operación».[49]

Es una vida que, ante toda aridez y frente a la tentación de replegarse sobre sí, ha encontrado nuevamente la fuente de la alegría. En efecto, «el gran riesgo del mundo actual, con su múltiple y abrumadora oferta de consumo, es una tristeza individualista que brota del corazón cómodo y avaro, de la búsqueda enfermiza de placeres superficiales, de la conciencia aislada. Cuando la vida interior se clausura en los propios intereses, ya no hay espacio para los demás, ya no entran los pobres, ya no se escucha la voz de Dios, ya no se goza la dulce alegría de su amor, ya no palpita el entusiasmo por hacer el bien. Los creyentes también corren ese riesgo, cierto y permanente. Muchos caen en él y se convierten en seres resentidos, quejosos, sin vida».[50]

A la descripción del “éxtasis de la obra y de la vida”, san Francisco añade dos observaciones importantes, válidas también para nuestro tiempo. La primera se refiere a un criterio eficaz para el discernimiento de la verdad de ese mismo estilo de vida y la segunda a su origen profundo. En cuanto al criterio de discernimiento, él afirma que, si por un lado dicho éxtasis comporta un auténtico salir de sí mismo, por otro lado, no significa un abandono de la vida. Es importante no olvidarlo nunca, para evitar peligrosas desviaciones. En otras palabras, quien presume de elevarse hacia Dios, pero no vive la caridad para con el prójimo, se engaña a sí mismo y a los demás.

Volvemos a encontrar aquí el mismo criterio que él aplicaba a la calidad de la verdadera devoción. «Cuando se ve a una persona que en la oración tiene raptos por los cuales sale y sube encima de sí misma hasta Dios, y, sin embargo, no tiene éxtasis en su vida, esto es, no lleva una vida elevada y unida a Dios, […] sobre todo, por medio de una continua caridad, creedme que todos estos raptos son grandemente dudosos y peligrosos». Su conclusión es muy eficaz: «Estar sobre sí mismo en la oración y bajo sí mismo en las obras y en la vida, ser angélico en la meditación y bestial en la conversación […] es una señal cierta de que tales raptos y tales éxtasis no son más que ardides y engaños del espíritu maligno».[51]Se trata, en definitiva, de lo que ya recordaba Pablo a los corintios en el himno a la caridad:«Aunque tuviera toda la fe, una fe capaz de trasladar montañas, si no tengo amor, no soy nada. Aunque repartiera todos mis bienes para alimentar a los pobres y entregara mi cuerpo a las llamas, si no tengo amor, no me sirve para nada» (1 Co13,2-3).

Por tanto, para san Francisco de Sales la vida cristiana nunca está exenta de éxtasis y, sin embargo, el éxtasis no es auténtico sin la vida. En efecto, la vida sin éxtasis corre el riesgo de reducirse a una obediencia opaca, a un Evangelio que ha olvidado su alegría. Por otra parte, el éxtasis sin la vida se expone fácilmente a la ilusión y al engaño del Maligno. Las grandes polaridades de la vida cristiana no se pueden resolver la una en la otra. En todo caso, una mantiene a la otra en su autenticidad. De ese modo, la verdad no es tal sin justicia; la satisfacción, sin responsabilidad; la espontaneidad, sin ley; y viceversa.

Por otra parte, en cuanto al origen profundo de este éxtasis, él lo vincula sabiamente al amor manifestado por el Hijo encarnado. Si, por un lado, es verdad que «el amor es el primer acto y el principio de nuestra vida devota o espiritual por el cual vivimos, sentimos y nos movemos» y, por otro lado, que «nuestra vida espiritual consiste toda en nuestros movimientos afectivos», está claro que «un corazón que no tiene afecto, no tiene amor», como también que «un corazón que tiene amor, no puede estar sin movimiento afectivo».[52]Pero el origen de este amor que atrae el corazón es la vida de Jesucristo:«Nada urge y aprieta tanto al corazón del hombre como el amor», y el culmen de dicha urgencia es que «Jesucristo murió por nosotros, nos ha dado la vida con su muerte. Nosotros sólo vivimos porque Él murió; murió por nosotros, para nosotros y en nosotros».[53]

Es conmovedora esta indicación que, más allá de una visión iluminada y no evidente de la relación entre Dios y el hombre, manifiesta el estrecho vínculo afectivo que unía al santo obispo con el Señor Jesús. La verdad del éxtasis de la vida y de la acción no es genérica, sino que se manifiesta según la forma de la caridad de Cristo, que culmina en la cruz. Este amor no anula la existencia, sino que la hace brillar de una manera extraordinaria.

Es por ello que, con una imagen muy hermosa, san Francisco de Sales describía el Calvario como «el monte de los amantes».[54]Allí, y sólo allí, se comprende que «no se puede tener la vida sin el amor, ni el amor sin la muerte del Redentor; mas, fuera de allí, todo es o muerte eterna o amor eterno, y toda la sabiduría cristiana consiste en elegir bien».[55]De esta manera puede cerrar suTratadoremitiendo a la conclusión de un discurso de san Agustín sobre la caridad: «¿Qué hay más fiel que el amor, no al servicio de la vanidad, sino de la eternidad? En efecto, tolera todo en la vida presente, porque cree todo lo referente a la vida futura, y sufre todo lo que aquí le sobreviene, porque espera todo lo que allí se le promete; con razón nunca desfallece. Así, pues, perseguid el amor y, pensando devotamente en él, aportad frutos de justicia. Y cualquier alabanza que vosotros hayáis encontrado más exuberante de lo que yo haya podido decir, muéstrese en vuestras costumbres».[56]

Esto es lo que nos deja ver la vida del santo obispo de Annecy, y que se nos entrega nuevamente a cada uno. Que la celebración del cuarto centenario de su nacimiento al cielo nos ayude a hacer de ello devota memoria; y que, por su intercesión, el Señor infunda con abundancia los dones del Espíritu en el camino del santo Pueblo fiel de Dios.

Roma, San Juan de Letrán, 28 de diciembre de 2022.

FRANCISCO

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[1]S. Francisco de Sales,Traité de l’amour de Dieu,Préface, ed.Ravier – Devos, París 1969, 336.

[2]Íd.,Lett. 2103:A Monsieur Sylvestre de Saluces de la Mente, Abbé d'Hautecombe(3 noviembre 1622), enŒuvres de Saint François de Sales, XXVI, Annecy 1932, 490-491.

[3]Íd.,Lett. 1961:À une dame(19 diciembre 1622), enŒuvres de Saint François de Sales, XX (Lettres, X:1621-1622), Annecy 1918, 395.

[4]Íd.,Traité de l’amour de Dieu, I, 15, ed.Ravier – Devos, París 1969, 395.

[5]Íd.,Entretiens spirituels,Dernier entretien[21], ed.Ravier – Devos, París 1969, 1319.

[6]Exhort. ap.Gaudete et exsultate(19 marzo 2018), 49:AAS110 (2018), 1124.

[7]Ibíd., 57:AAS110 (2018), 1127.

[8]Cf.ibíd., 37-39:AAS110 (2018), 1121-1122.

[9]S. Francisco de Sales,Entretiens spirituels,Dernier entretien[21], ed.Ravier – Devos, París 1969, 1319.

[10]Ibíd., 1308.

[11]Ibíd.

[12]Carta a Mons. Yves Boivineau, Obispo de Annecy,con ocasión del IV centenario de la consagración episcopal de san Francisco de Sales(23 noviembre 2002), 3:L’Osservatore Romano,ed. semanal en lengua española (20 diciembre 2002), p. 10.

[13]S.Francisco de Sales,Traité de l’amour de Dieu,Préface, ed.Ravier – Devos, París 1969, 336.

[14]Benedicto XVI,Catequesis(2 marzo 2011):L’Osservatore Romano,ed. semanal en lengua española (6 marzo 2011), p. 11.

[15]S.Francisco de Sales,Fragments d’écrits intimes, 3:Acte d’abandon héroïque, enŒuvres de Saint François de Sales, XXII (Opuscules, I), Annecy 1925, 41.

[16]Cf.Discurso a la Comisión Teológica Internacional(29 noviembre 2019):L’Osservatore Romano(30 noviembre 2019), p. 8.

[17]S. Francisco de Sales,Lett. 165:À Sa Sainteté Clément VIII(fines de octubre de 1602), enŒuvres de Saint François de Sales, XII (Lettres, II:1599-1604), Annecy 1902, 128.

[18]H. Bremond,L’humanisme dévôt: 1580-1660, enHistoire littéraire du sentiment religieux en France: depuis la fin des guerres de religion jusqu’à nos jours, I, Jérôme Millon, Grenoble 2006, 131.

[19]S. Francisco de Sales,Lett. 168:Aux religieuses du monastère des «Filles-Dieu»(22 noviembre 1602), enŒuvres de Saint François de Sales, XII (Lettres, II:1599-1604), Annecy 1902,105.

[20]Benedicto XVI,Catequesis(2 marzo 2011):L’Osservatore Romano, ed. semanal en lengua española (6 marzo 2011), p. 12.

[21]S. Francisco de Sales,Lett. 1869:À M. Pierre Jay(1620 o 1621), enŒuvres de Saint François de Sales, XX (Lettres, X:1621-1622), Annecy 1918, 219.

[22]Ibíd.

[23]Íd.,Traité de l’amour de Dieu,Préface, ed.Ravier – Devos, París 1969, 339.

[24]Ibíd., 347.

[25]Ibíd., 338-339.

[26]Cf.Discurso a los obispos, sacerdotes, religiosos, seminaristas y catequistas, Bratislava (13 septiembre 2021):L’Osservatore Romano(13 septiembre 2021), pp. 11-12.

[27]Cf.ibíd.

[28]S. Francisco de Sales,Traité de l’amour de Dieu, II, 12, ed.Ravier – Devos, París 1969, 444.

[29]«Con afecto humano [Vulg:in funiculis Adam], con lazos de amor los atraía. Fui para ellos como quien alza a un niño hasta sus mejillas y se inclina hacia él para darle de comer».

[30]S. Francisco de Sales,Traité de l’amour de Dieu, II, 12, ed.Ravier – Devos, París 1969, 444.

[31]Ibíd., II, 12, 444-445.

[32]Ibíd., II, 9, 434.

[33]Ibíd., II, 12, 446.

[34]Soñemos juntos. El camino a un futuro mejor,Conversaciones con Austen Ivereigh, Simon & Schuster, Nueva York 2020, 4.

[35]S.Francisco de Sales,Introduction à la vie dévote, I, 1, ed.Ravier – Devos, París 1969, 31.

[36]Ibíd.,31-32.

[37]Ibíd., 32.

[38]Ibíd.

[39]Ibíd.

[40]Ibíd., 33.

[41]Ibíd.,Préface, ed.Ravier – Devos, París 1969, 23.

[42]Epíst. ap.Sabaudiae gemma,en el IV centenario del nacimiento de san Francisco de Sales, doctor de la Iglesia(29 enero 1967):AAS59 (1967), 119.

[43]Conc. Ecum. Vat. II,Const. dogm.Lumen gentium, 11.

[44]Exhort. ap.Gaudete et exsultate, 11:AAS110 (2018), 1114.

[45]Ibíd.

[46]S. Francisco de Sales,Traité de l’amour de Dieu, VII, 6, ed.Ravier – Devos, París 1969, 682.

[47]Exhort. ap.Evangelii gaudium(24 noviembre 2013),6:AAS105 (2013), 1021-1022.

[48]S. Francisco de Sales,Traité de l’amour de Dieu, VII, 6, ed.Ravier – Devos, París 1969, 682-683.

[49]Ibíd., 683.

[50]Exhort. ap.Evangelii gaudium,2:AAS105 (2013), 1019-1020.

[51]S. Francisco de Sales,Traité de l’amour de Dieu, VII, 7, ed.Ravier – Devos, París 1969, 685.

[52]Ibíd., 684.

[53]Ibíd., VII, 8,687.688.

[54]Ibíd., XII, 13, 971.

[55]Ibíd.

[56]Discursos, 350, 3:PL39, 1535.

[02021-ES.01] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

CARTA APOSTÓLICA

TOTUM AMORIS EST

DO SANTO PADRE

FRANCISCO

NO IV CENTENÁRIO DA MORTE

DE SÃO FRANCISCO DE SALES

«TOTUM AMORIS EST – tudo pertence ao amor»:[1]nestas palavras, podemos recolher o legado espiritual deixado por São Francisco de Sales, que morreu há quatro séculos, em 28 de dezembro de 1622, em Lyon. Tinha pouco mais de cinquenta anos, e era bispo e príncipe «exilado» de Genebra desde há vinte anos. Chegara a Lião na sequência da sua última incumbência diplomática. O duque de Saboia pedira-lhe que acompanhasse a Avinhão o Cardeal Maurício de Saboia. Juntos, prestariam homenagem ao jovem rei Luís XIII, que regressava a Paris, subindo o vale do Ródano, depois duma vitoriosa campanha militar no sul da França. Cansado e com a saúde debilitada, Francisco partira por puro espírito de serviço. «Se não fosse de grande utilidade ao seu serviço que eu fizesse esta viagem, teria certamente muito boas e sólidas razões para me eximir; mas tratando-se do seu serviço, vivo ou morto não me recusarei; irei a pé ou de rasto».[2]Assim era o seu temperamento. Chegado finalmente a Lião, hospedou-se no mosteiro das Visitandinas, na casa do jardineiro, para não causar demasiado incómodo e, ao mesmo tempo, estar mais livre para encontrar quem o desejasse.

Desde há muito tempo que pouco o impressionavam as «instáveis grandezas da corte»,[3]pelo que gastou também os seus últimos dias exercendo o ministério de pastor numa sucessão de compromissos: confissões, diálogos, conferências, sermões e as últimas irrecusáveis cartas de amizade espiritual. A razão profunda deste estilo de vida cheio de Deus foi-se-lhe tornando cada vez mais clara com o passar do tempo e assim a formulara, com simplicidade e precisão, no célebreTratado do Amor de Deus: «Se o homem pensa com um pouco de atenção na divindade, imediatamente sente uma doce emoção no seu coração, o que prova que Deus é o Deus do coração humano».[4]É a síntese do seu pensamento. A experiência de Deus é uma evidência do coração humano. Não se trata duma construção mental, mas dum reconhecimento repleto de maravilha e gratidão em consequência da manifestação de Deus. No coração e através do coração é que se realiza aquele subtil e intenso processo unitário em virtude do qual o homem reconhece a Deus e conjuntamente a si mesmo, a sua origem e profundidade, a sua realização na vocação ao amor. Descobre que a fé não é um movimento cego, mas primariamente uma atitude do coração. Através dela, o homem confia-se a uma verdade que se apresenta à consciência como uma «doce emoção», capaz de suscitar, correlativa e irrenunciavelmente, o bem-querer a cada realidade criada, como ele gostava de dizer.

À luz disto, compreende-se como para São Francisco de Sales não houvesse melhor lugar para encontrar Deus e ajudar a procurá-Lo do que no coração de cada mulher e homem do seu tempo. Aprendera-o observando-se cuidadosamente a si mesmo, desde a mais tenra juventude, e examinando o coração humano.

Com o sentido íntimo duma quotidianidade habitada por Deus, deixara às suas Visitandinas, no último encontro daqueles dias em Lião, a frase com que gostaria de ser lembrado por elas em seguida: «Resumi tudo nestas duas palavras, quando vos disse para não recusar nada, nem desejar nada; não tenho mais nada para vos dizer».[5]Não se tratava, porém, dum exercício de puro voluntarismo, «uma vontade sem humildade»,[6]aquela subtil tentação do caminho para a santidade que a confunde com a justificação através das próprias forças, com a adoração da vontade humana e da própria capacidade, «que se traduz numa autocomplacência egocêntrica e elitista, desprovida do verdadeiro amor»;[7]e menos ainda um exercício de puro quietismo, abandono passivo, frio, a uma doutrina sem carne nem história.[8]Mas nascia da contemplação da própria vida do Filho encarnado. Era o dia 26 de dezembro e o Santo falava às Irmãs no coração do mistério do Natal: «Vedes o Menino Jesus na manjedoura? Recebe todas as agruras do tempo, o frio e tudo aquilo que o Pai permite que Lhe aconteça. Não recusa as pequenas consolações que sua Mãe Lhe dá, mas também não está escrito que estendesse as mãozinhas para ter o peito da Mãe; deixara tudo ao cuidado e previsão d’Ela. De igual modo não devemos desejar nada nem recusar nada, suportando tudo aquilo que Deus nos enviar, o frio e as agruras do tempo».[9]É comovente a sua solicitude em reconhecer como indispensável o cuidado do que é humano. Concluindo, foi na escola da Encarnação que aprendera a ler a história e situar-se nela com confiança.

O critério do amor

Através da experiência, reconhecera o desejo como a raiz de toda a verdadeira vida espiritual e, ao mesmo tempo, como o lugar da sua adulteração. Por isso, bebendo com ambas as mãos da tradição espiritual que o precedera, compreendeu a importância de pôr o desejo constantemente à prova, através dum exercício contínuo de discernimento. O critério último para a sua avaliação, encontrara-o no amor. Ainda naquela última recreação em Lião, na festa de Santo Estêvão, dois dias antes de sua morte, dissera: «É o amor que dá perfeição às nossas obras. Mais vos digo… Pensai numa pessoa que sofre o martírio por Deus apenas com uma onça de amor; tem certamente grande merecimento, já que não há dom maior do que o da própria vida; mas outra pessoa que sofra apenas um arranhão com duas onças de amor, terá um merecimento muito maior, porque a caridade e o amor é que dão valor às nossas obras».[10]

E, com surpreendente concretização, continuou ilustrando a difícil relação entre contemplação e ação: «Sabeis ou deveríeis saber que a contemplação em si mesma é melhor do que a ação e a vida ativa; mas, se na vida ativa se encontrar maior união [com Deus], então esta é melhor. Se uma irmã, que está na cozinha a olhar pelas panelas ao lume, tiver maior amor e caridade do que outra, não será o lume material a detê-la, antes pelo contrário ajudá-la-á a ser mais agradável a Deus. Sucede com bastante frequência estar unido a Deus na ação como se está na solidão; no fim, volto sempre à questão de ver onde se encontre maior amor».[11]O impulso que supera verdadeiramente qualquer rigidez inútil ou fechamento em si mesmo é perguntar-se em cada momento, em cada opção, em cada circunstância da vida onde se encontra o amor maior.Não foi por acaso que São João Paulo II chamara São Francisco de Sales o «Doutor do amor divino»,[12]mas por ter escrito um ponderosoTratadosobre o mesmo e sobretudo porque foi testemunha dele. Aliás os seus escritos não se podem considerar como uma teoria elaborada no escritório, longe das preocupações do homem comum. Com efeito, a sua doutrina nasceu duma escuta atenta da experiência; limitou-se a transformar em doutrina aquilo que vivia e lia, com perspicácia iluminada pelo Espírito, na sua singular e inovadora ação pastoral. Encontra-se uma síntese deste modo de proceder noPrefáciodo próprioTratado do Amor de Deus: «Na santa Igreja, tudo pertence ao amor, vive no amor, faz-se por amor e vem do amor».[13]

Os anos da primeira formação: a aventura de se conhecer em Deus

Nasceu em 21 de agosto de 1567, no castelo de Sales, perto de Thorens, filho de Francisco de Nouvelles, senhor de Boisy, e de Francisca de Sionnaz. «Viveu entre dois séculos, XVI-XVII, e reuniu em si o melhor dos ensinamentos e das conquistas culturais do século que terminava, reconciliando a herança do humanismo com o impulso rumo ao absoluto, próprio das correntes místicas».[14]

Depois da sua formação cultural inicial, primeiro no colégio de La Roche-sur-Foron e depois no de Annecy, chegou ao recém-fundado colégio jesuíta Clermont em Paris. Na capital do reino de França, devastada pelas guerras de religião, teve a breve distância duas crises interiores consecutivas, que marcarão indelevelmente a sua vida. Aquela fervorosa oração feita na Igreja de Saint-Étienne-des-Grés, diante da Virgem Morena de Paris, acender-lhe-á no coração, no meio da escuridão, uma chama que permanecerá viva nele para sempre como chave de leitura da experiência própria e alheia. «Suceda o que suceder, Vós, Senhor, tendes tudo nas vossas mãos e todos os vossos caminhos são justiça e verdade, (...) eu Vos amarei, Senhor (...), amar-Vos-ei aqui, ó meu Deus, e sempre esperarei na vossa misericórdia e incessantemente repetirei o vosso louvor. (…) Ó Senhor Jesus, Vós sereis sempre a minha esperança e a minha salvação na terra dos vivos».[15]

Assim redigira no seu caderno, reencontrando a paz. E esta experiência, com as suas ansiedades e interrogações, permanecerá sempre iluminadora para ele e proporcionar-lhe-á uma singular via de acesso ao mistério da relação de Deus com o homem. Ajudá-lo-á a auscultar a vida dos outros e a reconhecer, com sagaz discernimento, a atitude interior que une o pensamento ao sentir, a razão aos afetos e que designa pelo nome o «Deus do coração humano». Seguindo por este caminho, Francisco não correu o perigo de atribuir um valor teórico à sua experiência pessoal, absolutizando-a, mas aprendeu algo de extraordinário, fruto da graça: ler em Deus a vivência própria e alheia.

Embora nunca tenha pretendido elaborar um verdadeiro e próprio sistema teológico, a sua reflexão sobre a vida espiritual teve uma eminente dignidade teológica. Sobressaem nele os traços essenciais de fazer teologia, no âmbito da qual não se deve jamais esquecer duas dimensões constitutivas. A primeira é precisamentea vida espiritual, porque é na oração humilde e perseverante, na abertura ao Espírito Santo, que se pode procurar compreender e exprimir o Verbo de Deus; é no crisol da oração que se torna teólogo. A segunda dimensão éa vida eclesial: sentir na Igreja e com a Igreja. A própria teologia se ressentiu com a cultura individualista, mas o teólogo cristão elabora o seu pensamento imerso na comunidade, partindo nela o pão da Palavra.[16]A reflexão de Francisco de Sales, à margem das disputas escolares do seu tempo e todavia no respeito por elas, surge justamente destes dois traços constitutivos.

A descoberta dum mundo novo

Terminados os estudos humanistas, avançou para os de direito na Universidade de Pádua. De volta a Annecy, tinha já decidido o rumo da sua vida, não obstante as resistências paternas. Foi ordenado sacerdote em 18 de dezembro de 1593; nos primeiros dias de setembro do ano seguinte, a convite do bispo D. Claude de Granier, foi chamado para ir trabalhar na difícil missão do Chablais, território pertencente à diocese de Annecy, de confissão calvinista, que, no intrincado labirinto de guerras e tratados de paz, passara de novo sob o controle do ducado de Saboia. Foram anos intensos e dramáticos. Lá descobriu, a par de qualquer rígida intransigência que mais tarde lhe fará pensar, os seus dotes de mediador e homem de diálogo. Além disso revelou-se inventor de práticas pastorais originais e ousadas, como os famosos «panfletos», afixados por todo o lado e até metidos por baixo da porta das casas.

Em 1602, volta a Paris no desempenho duma delicada missão diplomática, por conta do próprio Granier e sob concreta indicação da Sé Apostólica, na sequência de mais uma mudança no quadro político-religioso do território da diocese de Genebra. Apesar das boas intenções do rei de França, a missão não teve sucesso. Ele mesmo escreveu ao Papa Clemente VIII: «Depois de nove meses inteiros, fui forçado a regressar sem ter concluído quase nada».[17]Contudo aquela missão revelou-se, para ele e para a Igreja, duma inesperada riqueza do ponto de vista humano, cultural e religioso. No tempo deixado livre pelas negociações diplomáticas, Francisco pregou na presença do rei e da corte de França, teceu relações importantes e sobretudo mergulhou totalmente na prodigiosa primavera espiritual e cultural da moderna capital do reino.

Lá tudo havia mudado e estava a mudar. Ele próprio se deixara tocar e interpelar pelos grandes problemas que surgiam no mundo e pela nova forma de os observar, pelo surpreendente pedido de espiritualidade que nascera, bem como pelas questões inéditas que a mesma colocava. Em suma, deu-se conta duma verdadeira «mudança de época», à qual era preciso responder através de linguagens antigas e novas. Não era certamente a primeira vez que se deparava com cristãos fervorosos, mas tratava-se de algo diferente. Não era a cidade de Paris transtornada pelas guerras de religião, que vira nos seus anos de formação, nem a áspera luta travada nos territórios do Chablais. Era uma realidade inesperada: uma multidão «de santos, de verdadeiros santos, numerosos e por toda a parte».[18]Havia homens e mulheres de cultura, professores da Sorbonne, representantes das instituições, príncipes e princesas, servos e servas, religiosos e religiosas. Um variegado mundo sedento de Deus.

Encontrar aquelas pessoas e individuar as suas interrogações foi uma das circunstâncias providenciais mais importantes da sua vida. Assim, dias aparentemente inúteis e malsucedidos transformaram-se numa escola incomparável para ler os humores da época, sem nunca os adular. Nele, o controversista hábil e incansável ia-se transformando, pela graça, num sagaz intérprete do tempo e extraordinário diretor de almas. A sua ação pastoral, as grandes obras (Introdução à Vida DevotaeTratado do Amor de Deus), os milhares de cartas de amizade espiritual que serão enviadas, dentro e fora dos muros de conventos e mosteiros, a religiosos e religiosas, a homens e mulheres da corte, mas também a pessoas comuns, o encontro com Joana Francisca de Chantal e a própria fundação daVisitaçãoem 1610 ficariam incompreensíveis sem esta viragem interior. Evangelho e cultura encontravam, então, uma síntese fecunda da qual derivava a intuição dum verdadeiro método que atingiu a maturação e estava pronto para uma colheita duradoura e promissora.

Numa das primeiras cartas de direção e amizade espiritual, enviada a uma das comunidades visitadas em Paris, Francisco de Sales fala – embora com humildade – de um «seu método», que se diferencia de outros, visando uma verdadeira reforma. Um método que renuncia à dureza e se apoia plenamente na dignidade e capacidade duma alma devota, não obstante as suas fraquezas: «Fica-me a dúvida de que se possa opor à vossa reforma ainda outro impedimento: talvez aqueles que vo-la impuseram, trataram a chaga com demasiada dureza. (…) Louvo o método deles, embora não seja o que costumo usar, especialmente com espíritos nobres e bem educados como os vossos. Acho que seja melhor limitar-se a mostrar-lhes o mal e colocar o bisturi nas suas mãos, para que façam eles mesmos a incisão necessária. Mas não descuideis, por isso, a reforma de que precisais».[19]Transparecem nestas palavras aquele olhar que tornou célebre o otimismo salesiano e que deixou a sua marca duradoura na história da espiritualidade, para sucessivos florescimentos, como no caso de São João Bosco dois séculos depois.

Retornado a Annecy, foi ordenado bispo em 8 de dezembro daquele ano 1602. A influência do seu ministério episcopal, na Europa dessa época e dos séculos sucessivos, é imensa. «É apóstolo, pregador, escritor, homem de ação e oração; comprometido na realização dos ideais do Concílio de Trento; empenhado na controvérsia e no diálogo com os protestantes, experimentando cada vez mais, para além do necessário confronto teológico, a eficácia da relação pessoal e da caridade; encarregado de missões diplomáticas a nível europeu e de tarefas sociais de mediação e de reconciliação».[20]Sobretudo é intérprete da mudança de época e guia das almas num tempo em que, duma maneira nova, têm sede de Deus.

A caridade faz tudo pelos seus filhos

Nos anos 1620 ou 1621, isto é, já no limiar de saída da sua vida, Francisco dirigia, a um sacerdote da sua diocese, palavras que podem ilustrar a sua visão da época. Encorajava-o a concretizar o seu desejo de se dedicar a escrever textos originais, capazes de intercetar os novos interrogativos, intuindo a sua necessidade. «Devo dizer-vos que o conhecimento, que vou adquirindo dia a dia dos humores do mundo, me leva a desejar apaixonadamente que a Bondade divina inspire algum dos seus servos a escrever segundo o gosto deste pobre mundo».[21]A razão deste encorajamento provinha da sua visão do tempo: «o mundo está a tornar-se tão delicado que, em breve, já não se ousará tocá-lo senão com luvas de veludo, nem medicar as suas chagas senão com cataplasmas de cebola; mas que importa, desde que os homens sejam curados e, em última análise, salvos? A nossa rainha, a caridade, faz tudo pelos seus filhos».[22]Não se tratava de um dado óbvio e muito menos de uma rendição final face a uma derrota. Era antes a intuição duma mudança em ato e da exigência, inteiramente evangélica, de compreender como se poderia viver nela.

Aliás, a mesma consciência aparecia já amadurecida e expressa noPrefáciodoTratado do Amor de Deus: «Tive presente a mentalidade das pessoas deste século, e não podia proceder diversamente; é muito importante ter em conta o tempo em que se escreve».[23]E, apelando-se à benevolência do leitor, afirmava: «Se sentes que o estilo é um pouco diferente do usado emFiloteu, e ambos muito distantes do daDefesa da Cruz, recorda-te que, em dezanove anos, se aprende e esquece muitas coisas, que a linguagem da guerra é diversa da paz e que, aos jovens principiantes, fala-se duma forma e, aos antigos companheiros, doutra».[24]Mas, perante esta mudança, por onde começar? Não se afastando da mesma história de Deus com o homem. Daí a intenção última do seuTratado: «Na realidade, propus-me apenas representar, com simplicidade e genuinidade, sem artifícios e, com maior força de razão, sem adornos, a história do nascimento, crescimento, decadência, operações, propriedades, vantagens e sublimes qualidades do amor divino».[25]

As interpelações duma mudança de época

Na passagem do quarto centenário da sua morte, interroguei-me sobre o legado de São Francisco de Sales para a nossa época e achei iluminadoras a sua flexibilidade e capacidade de visão. Em parte, por dom de Deus, em parte, pela índole pessoal mas também pela tenacidade com que se debruçava sobre vida diária concreta, teve a nítida perceção da mudança dos tempos. Ele mesmo confessa nunca ter imaginado reconhecer nisso uma oportunidade para o anúncio do Evangelho. A Palavra, que tinha amado desde a sua juventude, era capaz de abrir caminho, desvendando novos e imprevisíveis horizontes, num mundo em rápida transição.

Tal é a tarefa essencial que nos espera também nesta nossa mudança de época: uma Igreja não autorreferencial, liberta de toda a mundanidade mas capaz de habitar no seio do mundo, partilhar a vida das pessoas, caminhar juntos, escutar e acolher.[26]Foi o que Francisco de Sales pôs em prática, interpretando a sua época com a ajuda da graça. Por isso convida-nos a sair da preocupação excessiva connosco, com as estruturas, a imagem social, perguntando-nos antes quais sejam as necessidades concretas e as expetativas espirituais de nosso povo.[27]Assim, é importante nos dias de hoje reler algumas das suas opções cruciais, para habitar por dentro a mudança com sabedoria evangélica.

A brisa e as asas

A primeira de tais opções foi reler e repropor a cada um, na sua condição específica, a relação feliz entre Deus e o ser humano. No fundo, a razão última e o objetivo concreto doTratadoé precisamente ilustrar aos contemporâneos o fascínio do amor de Deus. «Quais são – pergunta-se ele – as cordas habituais com que a Providência divina costuma atrair os nossos corações ao seu amor?»[28]Partindo sugestivamente do texto de Oseias 11, 4,[29]define esses meios ordinários como «laços de humanidade ou de caridade e amizade». Escreve: «Sem dúvida, não somos atraídos para Deus com correntes de ferro, como touros e búfalos, mas por meio de convites, deliciosas atrações e santas inspirações, que constituem aliás oslaços de Adão e da humanidade, isto é, adaptados e convenientes ao coração humano, para o qual é natural a liberdade».[30]Foi através destes laços que Deus tirou o seu povo da escravidão, ensinando-o a andar, segurando-o pela mão, como faz um pai ou a mãe com o seu menino. Por conseguinte, nenhuma imposição externa, nenhuma força despótica e arbitrária, nenhuma violência; mas antes a forma persuasiva dum convite que deixa intacta a liberdade do homem. E continua, pensando certamente em tantas histórias de vida que encontrara: «a graça tem força, não para forçar, mas para atrair o coração; possui uma santa violência, não para violar, mas para tornar amorosa a nossa liberdade; age com força, mas tão suavemente que a nossa vontade não fica esmagada sob uma ação poderosa desse género; impele-nos, mas não sufoca a nossa liberdade, pelo que, em presença da sua força, é possível – como quisermos – consentir ou resistir às suas moções».[31]

A mesma relação, esboçara-a pouco antes no curioso exemplo dos ápodes: «Há certas aves, Teótimo, que Aristóteles chama “ápodes” porque têm pernas tão curtas e pés tão débeis que não podem servir-se deles – é como se os não tivessem –; e, se por acaso poisam em terra, ficam ali, sem poder retomar o voo sozinhas, porque, não possuindo o uso das pernas nem dos pés, não conseguem ganhar impulso e lançar-se ao ar; então permanecem aninhadas por terra e morrem ali, a não ser que o vento, suprindo a sua incapacidade com lufadas sobre a terra, as tome e levante, como faz com muitas outras coisas. Neste caso, se elas se servirem das asas e valerem do ímpeto e do primeiro impulso que lhes dá o vento, o próprio vento continua a vir em sua ajuda, impelindo-as cada vez mais para o alto ajudando-as a retomar de novo o voo».[32]Assim é o homem: feito por Deus para voar e desenvolver todas as suas potencialidades na vocação ao amor, arrisca-se a ficar incapaz de levantar voo quando cai por terra e não permite reabrir as asas à brisa do Espírito.

Concluindo, a «forma» como a graça de Deus se dirige aos homens é a dos laços preciosos e humaníssimos de Adão. A força de Deus não cessa de ser absolutamente capaz de devolver o voo e, no entanto, a sua doçura faz com que a liberdade do consentimento ao mesmo não seja violada nem aniquilada. Cabe ao homem levantar-se ou não. Embora a graça o tenha tocado ao despertar, sem ele, aquela não quer que o homem se levante sem o seu consentimento. Daqui tira a sua reflexão conclusiva: «Teótimo, as inspirações precedem-nos e fazem-se sentir antes de nos apercebermos, mas, depois de as advertirmos, cabe-nos consentir colaborando e seguindo os seus impulsos, ou dissentir e recusá-las: fazem-se sentir em nós sem nós, mas não se fazem consentir sem nós».[33]Portanto, na relação com Deus, trata-se sempre duma experiência de gratuidade, que atesta a profundidade do amor do Pai.

Todavia, esta graça nunca torna o homem passivo. Leva a compreender que somos radicalmente precedidos pelo amor de Deus, e que o seu primeiro dom consiste precisamente em recebermos o seu próprio amor. Mas cada um tem o dever de cooperar na sua realização, abrindo com confiança as próprias asas à brisa de Deus. Vemos aqui um aspeto importante da nossa vocação humana: sermos criadores. «A ordem de Deus a Adão e Eva, no Génesis, é de que fossem fecundos. A humanidade recebeu a ordem de mudar, construir e dominar a Criação, no sentido positivo de criar a partir dela e com ela. Então, o futuro não depende dum mecanismo invisível do qual os humanos são espetadores passivos. Não, somos protagonistas, somos – forçando a palavra –concriadores».[34]Foi isto que Francisco de Sales compreendeu bem e procurou transmitir no seu ministério de guia espiritual.

A verdadeira devoção

Uma segunda grande opção crucial foi debruçar-se sobre a questão da devoção. Também neste caso, como aliás nos nossos dias, a nova mudança de época levantara não poucos interrogativos a tal respeito. Em particular, há dois aspetos que precisam, também hoje, de ser compreendidos e relançados: o primeiro tem a ver com a própria ideia de devoção; o segundo, com o seu caráter universal e popular. Começou por indicar o que se entende por devoção, dedicando-lhe a sua atenção no início deFiloteu: «É necessário, em primeiro lugar, que saibas o que é a virtude da devoção. Verdadeira, há apenas uma; falsas e vãs, há muitas; e se não souberes distinguir a verdadeira, podes cair no erro e perder tempo correndo atrás de qualquer devoção absurda e supersticiosa».[35]

Graciosa e sempre atual é a descrição feita por Francisco de Sales da falsa devoção, na qual não é difícil rever-nos, intercalada aqui e ali por eficazes ditos de são humorismo: «Quem se consagra ao jejum, pensará que é devoto porque não come, enquanto tem o coração cheio de rancor; e enquanto não se permite banhar a língua no vinho e nem sequer na água por amor da sobriedade, não sentirá qualquer escrúpulo em mergulhá-la no sangue do próximo com a maledicência e a calúnia. Outro pensará que é devoto porque bisbilha todo o dia uma série interminável de orações; e não dará peso às palavras más, arrogantes e injuriosas que a sua língua lançará, no resto do dia, aos servos e vizinhos. Outro ainda levará de bom grado a mão à carteira para dar esmola aos pobres, mas não conseguirá extrair do coração uma migalha de doçura para perdoar os inimigos; e outrem, por sua vez, perdoará aos inimigos, mas pagar as dívidas nem lhe passará pela cabeça; será preciso o tribunal».[36]Trata-se evidentemente de vícios e dificuldades de sempre, inclusive de hoje, pelo que o Santo conclui: «Toda esta boa gente é considerada devota pela opinião comum, mas não o é de forma alguma».[37]

Ao contrário, a novidade e a verdade da devoção encontram-se noutro ponto, numa raiz profundamente ligada à vida divina em nós. Assim «a devoção verdadeira e viva exige o amor de Deus; antes, nada mais é do que um verdadeiro amor de Deus; não um amor entendido genericamente».[38]Na sua ideia, aquela não é senão, «em poucas palavras, uma espécie de agilidade e vivacidade espiritual pela qual a caridade age em nós ou, se quisermos, nós agimos por meio dela com prontidão e afeto».[39]Por isso, não se coloca a par da caridade, mas é uma manifestação dela e, ao mesmo tempo, a ela conduz. É como uma chama em relação ao fogo: aviva-lhe a intensidade, sem alterar a sua qualidade. «Em conclusão, pode-se dizer que caridade e devoção diferem entre si como o fogo da chama; a caridade é um fogo espiritual que, quando arde com uma chama forte, chama-se devoção: a devoção só acrescenta ao fogo da caridade a chama que torna a caridade pronta, ativa e diligente, não só na observância dos Mandamentos de Deus, mas também no exercício dos conselhos e inspirações do Céu».[40]Assim entendida, a devoção não tem nada de abstrato; antes, é um estilo de vida, um modo de estar no concreto da existência quotidiana. Congrega e interpreta as pequenas coisas do dia a dia: o alimento e o vestuário, o trabalho e o lazer, o amor e a geração, a atenção aos deveres profissionais; em resumo, ilumina a vocação de cada um.

Aqui intui-se a raiz popular da devoção, afirmada desde as primeiras frases deFiloteu: «Quase todos aqueles que trataram da devoção tiveram em vista instruir pessoas separadas do mundo ou, pelo menos, ensinaram um género de devoção que leva a este isolamento. Eu pretendo oferecer os meus ensinamentos àqueles que vivem nas cidades, em família, na corte, e que, em virtude do seu estado, são obrigados, pelas conveniências sociais, a viver no meio dos outros».[41]É por isso que está muito enganado quem pensa relegar a devoção para qualquer âmbito protegido e reservado. Pelo contrário, ela é de todos e para todos, onde quer que estejam, e cada um pode praticá-la segundo a sua própria vocação. Como escrevia São Paulo VI no IV centenário do nascimento de Francisco de Sales, «a santidade não é prerrogativa duma classe ou doutra; mas é dirigido a todos os cristãos este premente convite: “Amigo, vem mais para cima” (Lc14, 10);todos são obrigados a subir a montanha de Deus, embora nem todos pelo mesmo caminho. “A devoção deve ser exercida de forma diferente pelo cavalheiro, pelo artesão, pelo servente de mesa, pelo príncipe, pela viúva, pela jovem, pela esposa. Mais ainda, a prática da devoção deve ser adaptada às forças, aos negócios e aos deveres de cada um”».[42]Atravessar a cidade secular conservando a interioridade, combinar o desejo de perfeição com cada estado de vida encontrando um centro que não se separa do mundo, mas ensina a viver nele, a apreciá-lo aprendendo também a guardar as justas distâncias do mesmo: tal era a sua intenção, e continua a ser uma lição preciosa para cada mulher e homem do nosso tempo.

Trata-se, aliás, do tema conciliar da vocação universal à santidade: «Munidos de tantos e tão grandes meios de salvação, todos os fiéis, seja qual for a sua condição e estado, são chamados pelo Senhor à perfeição do Pai, cada um por seu caminho».[43]Cada um por seu caminho... «Por isso, uma pessoa não deve desanimar, quando contempla modelos de santidade que lhe parecem inatingíveis».[44]A mãe Igreja propõe-no-los, não para procurarmos copiá-los, mas para que nos estimulem a caminhar pelo caminho, único e específico, que o Senhor pensou para nós. «Importante é que cada crente discirna o seu próprio caminho e traga à luz o melhor de si mesmo, quanto Deus colocou nele de muito pessoal (cf.1 Cor12, 7)».[45]

O êxtase da vida

Tudo isso levou o santo Bispo a considerar a vida cristã na sua integralidade como «o êxtase da ação e da vida».[46]Todavia não deve ser confundido com uma fuga fácil ou uma retirada intimista, e menos ainda com uma obediência triste e cinzenta. Sabemos que este perigo está sempre presente na vida de fé. De facto, «há cristãos que parecem ter escolhido viver uma Quaresma sem Páscoa. (…) Compreendo as pessoas que se vergam à tristeza por causa das graves dificuldades que têm que suportar, mas aos poucos é preciso permitir que a alegria da fé comece a despertar, como uma secreta mas firme confiança, mesmo no meio das piores angústias».[47]

Permitir despertar a alegria é precisamente o que Francisco de Sales exprime ao descrever o «êxtase da ação e da vida». Graças a tal êxtase, «não vivemos apenas uma vida civil, honesta e cristã, mas uma vida sobre-humana, espiritual, devota e extática, ou seja, uma vida que em todo o caso está fora e acima da nossa condição natural».[48]Estamos aqui nas páginas centrais e mais luminosas doTratado. O êxtase é o excesso feliz da vida cristã, projetada para além da mediocridade da mera observância: «não roubar, não mentir, não cair na luxúria, rezar a Deus, não jurar em vão, amar e honrar o pai, não matar é viver segundo a razão natural do homem; mas abandonar todos os nossos bens, amar a pobreza, chamá-la e considerá-la uma patroa deliciosa, considerar os opróbrios, o desprezo, as abjeções, as perseguições, os martírios como felicidade e bem-aventurança, manter-se dentro dos limites duma castidade absoluta e, finalmente, viver no mundo e nesta vida mortal contra todas as opiniões e máximas do mundo e contra corrente do rio desta vida, com habitual resignação, renúncia e abnegação de nós mesmos não é viver segundo a natureza humana, mas acima dela; não é viver em nós, mas fora de nós e acima de nós: e como ninguém pode sair, deste modo, acima de si mesmo se não o atrai o Pai eterno, segue-se que tal modo de viver deve ser um arrebatamento contínuo e um perpétuo êxtase de ação e operação».[49]

É uma vida que reencontrou as fontes da alegria, contra todo o seu definhamento, contra a tentação de se fechar em si mesma. De facto, «o grande risco do mundo atual, com sua múltipla e avassaladora oferta de consumo, é uma tristeza individualista que brota do coração comodista e mesquinho, da busca desordenada de prazeres superficiais, da consciência isolada. Quando a vida interior se fecha nos próprios interesses, deixa de haver espaço para os outros, já não entram os pobres, já não se ouve a voz de Deus, já não se goza a doce alegria do seu amor, nem fervilha o entusiasmo de fazer o bem. Este é um risco, certo e permanente, que correm também os crentes. Muitos caem nele, transformando-se em pessoas ressentidas, queixosas, sem vida».[50]

Por fim São Francisco acrescenta, à descrição do «êxtase da ação e da vida», dois esclarecimentos importantes, mesmo para o nosso tempo. O primeiro refere um critério eficaz para o discernimento da verdade neste mesmo estilo de vida; o segundo, a sua fonte profunda. Quanto ao critério de discernimento, afirma que, se por um lado tal êxtase implica uma verdadeira e própria saída de si mesmo, por outro não significa um abandono da vida. É importante nunca o esquecer, para evitar desvios perigosos. Por outras palavras, quem presume que está a elevar-se para Deus, mas não vive a caridade para com o próximo, engana-se a si mesmo e aos outros.

Encontramos aqui o mesmo critério que ele aplicava à qualidade da verdadeira devoção. «Quando se encontra uma pessoa que, na oração, tem arrebatamentos por meio dos quais sai e se eleva acima de si mesma até Deus, mas não tem êxtase de vida, isto é, não leva uma vida elevada e unida a Deus (...) sobretudo por meio duma incessante caridade, acredita-me, Teótimo, todos os seus arrebatamentos são muito duvidosos e perigosos». E, de grande eficácia, é a sua conclusão: «Estar acima de si mesmo na oração e abaixo de si mesmo na vida e na ação, ser angélico na meditação e animal no diálogo, é um verdadeiro sinal de que tais arrebatamentos e êxtases não passam de divertimentos e enganos do espírito maligno».[51]Substancialmente é aquilo que já Paulo lembrava aos Coríntios no hino da caridade: «Ainda que eu tenha tão grande fé que transporte montanhas, mas não tiver amor, nada sou. Ainda que eu distribua todos os meus bens e entregue o meu corpo para ser queimado, se não tiver amor, de nada me vale» (1 Cor13, 2-3).

Assim, para São Francisco de Sales, a vida cristã nunca é tal sem êxtase e, todavia, o êxtase não é autêntico sem a vida. De facto, a vida sem o êxtase corre o risco de se reduzir a uma obediência opaca, a um Evangelho que esqueceu a sua alegria. Por outro lado, o êxtase sem a vida expõe-se facilmente à ilusão e ao engano do Maligno. As grandes polaridades da vida cristã não se podem dissolver uma na outra. Quando muito, uma mantém a outra na sua autenticidade. Deste modo, a verdade não é tal sem a justiça, a complacência sem a responsabilidade, a espontaneidade sem a lei; e vice-versa.

Passando agora à fonte profunda deste êxtase, sapientemente liga-o ao amor manifestado pelo Filho encarnado. Se é verdade que, por um lado, «o amor é o primeiro ato e o princípio da nossa vida devota ou espiritual, por meio da qual vivemos, sentimos, nos comovemos» e, por outro, «a vida espiritual é como são os nossos movimentos afetivos», é claro que «um coração que não tem afeto, não tem amor», bem como «um coração que tem amor, não é sem movimento afetivo».[52]Mas a fonte deste amor que atrai o coração é a vida de Jesus Cristo: «não há nada que faça tanta pressão sobre o coração do homem como o amor», e o ponto culminante de tal pressão é ver que «Jesus Cristo morreu por nós, deu-nos a vida com a sua morte. Vivemos apenas porque Ele morreu e morreu por nós, para nosso benefício e em nós».[53]

É comovente esta indicação que manifesta, além duma visão esclarecida e que não era óbvia da relação entre Deus e o homem, o estreito vínculo afetivo que ligava o santo Bispo ao Senhor Jesus. A verdade do êxtase da vida e da ação não é genérica, mas deriva da forma da caridade de Cristo, que culmina na cruz. Este amor não anula a existência, mas fá-la brilhar com uma qualidade extraordinária.

Por isso São Francisco de Sales, com uma imagem muito bela, descreve o Calvário como «o monte dos enamorados».[54]Lá, e somente lá, se compreende que «não é possível ter a vida sem o amor, nem o amor sem a morte do Redentor; mas, fora de lá, tudo é morte eterna ou amor eterno, e toda a sabedoria cristã consiste em saber escolher bem».[55]Assim pode encerrar o seuTratadoremetendo para a conclusão dum discurso de Santo Agostinho sobre a caridade: «Que há de mais fiel que a caridade? Fiel não ao efémero, mas ao eterno. Ela tudo suporta na vida presente, pela simples razão que acredita em tudo sobre a vida futura: suporta todas as coisas que aqui nos são dadas suportar, porque espera tudo o que lhe foi prometido lá. Justamente nunca acaba. Por isso praticai a caridade e produzi, meditando-a santamente, frutos de justiça. E se encontrardes, em louvor dela, outras coisas que não vos tenha dito agora, que isso se veja no vosso modo de viver».[56]

Isto é o que transparece da vida do santo Bispo de Annecy e que, mais uma vez, é entregue a cada um de nós. Que a passagem do IV centenário do seu nascimento para o Céu nos ajude a recordá-lo devotamente e que o Senhor, por sua intercessão, derrame abundantemente os dons do Espírito no caminho do santo Povo fiel de Deus.

Roma, São João de Latrão, 28 de dezembro de 2022.

FRANCISCO

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[1]S. Francisco de Sales,Tratado do Amor de Deus, Prefácio: editado por Ravier-Devos, Paris 1969, 336.

[2]Idem, Carta (2103) «Ao senhor Silvestre de Saluces de la Mente, Abade de Altacomba», 3 de novembro de 1622:Œuvres de Saint François de Sales, XXVI, Annecy 1932, 490-491.

[3]Idem, Carta (1961) «A uma senhora», 19 de dezembro de 1622:Œuvres de Saint François de Sales, XX (Lettres, X:1621-1622), Annecy 1918, 395.

[4]Idem,Tratado do Amor de Deus, I, 15: editado por Ravier-Devos, Paris 1969, 395.

[5]Idem,Recreações Espirituais(21, a Última Recreação): editadas por Ravier-Devos, Paris 1969, 1319.

[6]Francisco,Exort. ap.Gaudete et exsultate(19/III/2018), 49:AAS110 (2018), 1124.

[7]Ibid., 57:o. c., 1127.

[8]Cf.ibid., 37-39:o. c., 1121-1122.

[9]S. Francisco de Sales,Recreações Espirituais(21, a Última Recreação): editadas por Ravier-Devos, Paris 1969, 1319.

[10]Ibid., 1308.

[11]Ibidem.

[12]Carta a D. Yves Boivineau, Bispo de Annecy, por ocasião dos 400 anos da Ordenação Episcopal de São Francisco de Sales(23/XI/2002), 3:Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XXV/2 (2002), 767.

[13]S. Francisco de Sales,Tratado do Amor de Deus, Prefácio: editado por Ravier-Devos, Paris 1969, 336.

[14]BentoXVI, «Catequese» do dia 2 de março de 2011:Insegnamenti di Benedetto XVI, VII/1 (2011), 270.

[15]S. Francisco de Sales, «Fragmentos de escritos íntimos (3: Ato de heroico abandono)»:Œuvres de Saint François de Sales, XXII (Opúsculos, I), Annecy 1925, 41.

[16]Cf.Francisco,Discurso à Comissão Teológica Internacional, 29 de novembro de 2019:L'Osservatore Romano(30/XI/2019), 8.

[17]S. Francisco de Sales, Carta (165) «A Sua Santidade Clemente VIII», nos finais de outubro de 1602:Œuvres de Saint François de Sales, XII (Lettres, II:1599-1604), Annecy 1902, 128.

[18]H. Bremond, «O humanismo devoto 1580-1660»:Histoire littéraire du sentiment religieux en France, depuis la fin des guerres de religion jusqu’à nos jours, I, Jérôme Millon, Grenoble2006, 131.

[19]S. Francisco de Sales, Carta (168)«Às religiosas do mosteiro das “Filhas de Deus”», 22 de novembro de 1602:Œuvres de Saint François de Sales, XII (Lettres, II:1599-1604), Annecy 1902, 105.

[20]BentoXVI, «Catequese» do dia 2 de março de 2011:Insegnamenti di Benedetto XVI, VII/1 (2011), 272.

[21]S. Francisco de Sales, Carta (1869)«Ao senhor Pierre Jay», por 1620 ou 1621:Œuvres de Saint François de Sales, XX (Lettres, X:1621-1622), Annecy 1918, 219.

[22]Ibidem.

[23]S. Francisco de Sales,Tratado do Amor de Deus, Prefácio: editado por Ravier-Devos, Paris 1969, 339.

[24]Ibid., 347.

[25]Ibid., 338-339.

[26]Cf.Francisco,Discurso aos bispos, sacerdotes, religiosos, seminaristas e catequistas(Bratislava 13 de setembro de 2021):L’Osservatore Romano(13/IX/2021), 11-12.

[27]Cf.Ibidem.

[28]S. Francisco de Sales,Tratado do Amor de Deus, II, 12: editado por Ravier-Devos, Paris 1969, 444.

[29]Eis o texto de Oseias: «Segurava-os com laços humanos [na Vulgata:in funiculis Adam], com laços de amor, fui para eles como os que levantam uma criancinha contra o seu rosto; inclinei-Me para ele para lhe dar de comer».

[30]S. Francisco de Sales,Tratado do Amor de Deus, II, 12: editado por Ravier-Devos, Paris 1969, 444.

[31]Ibid., II, 12:edição citada, 444-445.

[32]Ibid., II, 9:edição citada, 434.

[33]Ibid., II, 12:edição citada, 446.

[34]Francisco,Vamos Sonhar Juntos. O Caminho para um Futuro Melhor, Em conversa com Austen Ivereigh (Editora Intrínseca – Rio de Janeiro 2020), 10.

[35]S. Francisco de Sales,Introdução à Vida Devota, I, 1: editado por Ravier-Devos, Paris 1969, 31.

[36]Ibid.I, 1:edição citada, 31-32.

[37]Ibid.I, 1:edição citada, 32.

[38]Ibidem.

[39]Ibidem.

[40]Ibid.I, 1:edição citada, 33.

[41]Ibid., Prefácio:edição citada, 23.

[42]Epist. ap.Sabaudiae gemma, no IV centenário do nascimento de São Francisco de Sales, doutor da Igreja (29/I/1967):AAS59 (1967), 119.

[43]Conc. Ecum. Vat. II, Const. dogm.Lumen gentium, 11.

[44]Francisco, Exort. ap.Gaudete et exsultate, 11:AAS110 (2018), 1114.

[45]Ibidem.

[46]S. Francisco de Sales,Tratado do Amor de Deus, VII, 6: editado por Ravier-Devos, Paris 1969, 682.

[47]Francisco, Exort. ap.Evangelii gaudium(24/XI/2013), 6:AAS105 (2013), 1021-1022.

[48]S. Francisco de Sales,Tratado do Amor de Deus, VII, 6: editado por Ravier-Devos, Paris 1969, 682-683.

[49]Ibid.VII, 6:edição citada, 683.

[50]Francisco, Exort. ap.Evangelii gaudium, 2:AAS105 (2013), 1019-1020.

[51]S. Francisco de Sales,Tratado do Amor de Deus, VII, 7: editado por Ravier-Devos, Paris 1969, 685.

[52]Ibid.VII, 7:edição citada, 684.

[53]Ibid.VII, 8:edição citada, 687.688.

[54]Ibid.XII, 13:edição citada, 971.

[55]Ibidem.

[56] Santo Agostinho, Discursos, 350, 3:PL39, 1535.

[02021-PO.01] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

LIST APOSTOLSKI

TOTUM AMORIS EST

OJCA ŚWIĘTEGO FRANCISZKA

W CZTERECHSETNĄ ROCZNICĘ ŚMIERCI

ŚWIĘTEGO FRANCISZKA SALEZEGO

„Wszystko należy do miłości”[1]. W tych słowach możemy zebrać duchowe dziedzictwo pozostawione przez św. Franciszka Salezego, który zmarł cztery wieki temu, 28 grudnia 1622 r. w Lyonie. Miał niewiele ponad pięćdziesiąt lat, a od dwudziestu był biskupem i „wygnanym” księciem Genewy. Przybył do Lyonu po zakończeniu swej ostatniej misji dyplomatycznej. Książę Sabaudzki poprosił go, aby towarzyszył kardynałowi Maurycemu Sabaudzkiemu w podróży do Awinionu. Razem mieli złożyć hołd młodemu królowi Ludwikowi XIII, który wracał do Paryża doliną Rodanu po zwycięskiej kampanii wojennej na południu Francji. Utrudzony i w złym stanie zdrowia Franciszek, wyruszył w podróż zmotywowany wyłącznie duchem służby. „Gdyby odbycie tej podróży nie było zbyt pożyteczne dla świadczonej im służby, miałbym z pewnością wiele dobrych i solidnych powodów, by się z niej zwolnić; lecz jeśli jest to kwestia służenia im, żywy lub martwy, nie będę się wycofywał, lecz pójdę lub dam się ponieść”[2]. Taki był jego temperament. Kiedy w końcu dotarł do Lyonu, zamieszkał przy klasztorze sióstr wizytek, w domu ogrodnika, aby nie sprawiać zbyt wielu kłopotów, a jednocześnie by móc się spotykać z każdym, z kim zechce.

Już od dłuższego czasu nie robiła na nim wrażenia „marna wielkość dworu”[3], a swoje ostatnie dni spędził wypełniając posługę pasterską w następujących jedno po drugim spotkaniach: spowiedziach, rozmowach, konferencjach, kazaniach i ostatnich – nieodzownych – listach przyjaźni duchowej. Z czasem, coraz jaśniejsza stawała się dla niego głęboka motywacja tego przepełnionego Bogiem stylu życia, którą prosto i precyzyjnie sformułował w swoim słynnym „Traktacie o miłości Bożej”: „Skoro tyko człowiek nieco wnikliwiej zaduma się nad Bóstwem, dozna pewnego serdecznego wzruszenia, świadczącego o tym, że Bóg jest Bogiem ludzkiego serca”[4]. Stanowi to syntezę jego myśli. Doświadczenie Boga jest oczywistością ludzkiego serca, takim jakim je rozumie Franciszek Salezy. Nie jest to konstrukcja myślowa, lecz raczej rozpoznanie pełne zdumienia i wdzięczności, będące następstwem objawienia się Boga. To właśnie w sercu i poprzez serce dokonuje się ten subtelny i intensywny proces zjednoczenia w łasce, dzięki której człowiek rozpoznaje Boga, a zarazem siebie samego, swoje pochodzenie i głębię, swoje spełnienie w powołaniu do miłości. Odkrywa, że wiara nie jest ślepym ruchem, lecz przede wszystkim postawą serca. Poprzez nią człowiek powierza się prawdzie, która jawi się jego sumieniu jako „słodkie wzruszenie”, zdolne wzbudzić odpowiednią i niezbędną życzliwość wobec każdej rzeczywistości stworzonej, jak lubił mawiać.

W tym świetle rozumiemy, że dla św. Franciszka Salezego nie było lepszego miejsca, by znaleźć Boga i by pomagać w Jego poszukiwaniu, niż serce każdej kobiety i każdego mężczyzny jego czasów. Nauczył się tego, obserwując z baczną uwagą samego siebie i badając ludzkie serce od najmłodszych lat.

Mając głębokie doświadczenie codzienności wypełnionej Bogiem, podczas ostatniego spotkania w tamtych dniach w Lyonie, pozostawił swoim siostrom wizytkom wyrażenie, poprzez które pragnął zostać zapamiętanym przez nie na zawsze: „Wszystko już wam powiedziałem w tych dwóch słowach, mówiąc, aby niczego nie odmawiać, niczego nie pragnąć; nie mam nic innego do powiedzenia”[5]. Nie był to jednak wyraz czystego woluntaryzmu, „woli bez pokory”[6], tej subtelnej pokusy na drodze do świętości, która myli ją z usprawiedliwianiem siebie o własnych siłach, z uwielbieniem ludzkiej woli i własnych możliwości, uwielbieniem „przekładającym się na egocentryczne i elitarystyczne samozadowolenie, pozbawione prawdziwej miłości”[7]. Tym bardziej nie był to też czysty kwietyzm, owo bierne i pozbawione uczuć oddanie się doktrynie bez ciała i bez historii[8]. Zrodził się on raczej z kontemplacji życia Syna Wcielonego. Było to 26 grudnia, kiedy Święty przemówił do sióstr w sercu tajemnicy Bożego Narodzenia: „Czy widzicie Dzieciątko Jezus w żłóbku? Przyjmuje wszystkie utrapienia pogody, zimno i wszystko, na co Ojciec zezwala, by stało się Jego udziałem. Nie odrzucał drobnych pieszczot Matki, które mu dawała i nie napisano, aby kiedykolwiek sam wyciągał swoje ręce ku piersi swej Matki, ale pozostawia wszystko jej opiece i przezorności. Podobnie i my nie powinniśmy niczego pragnąć ani niczego nie odmawiać, przyjmując wszystko to, co Bóg nam ześle, chłód i niedogodności pogody”[9]. Wzrusza jego uwaga, uznająca za nieodzowną, troskę o to, co ludzkie. W szkole Wcielenia nauczył się zatem odczytywać historię i wkraczać w nią z ufnością.

Kryterium miłości

Poprzez doświadczenie uznał pragnienie za źródło prawdziwego życia duchowego, a jednocześnie za miejsce jego fałszowania. Z tego powodu, czerpiąc obficie z wcześniejszej tradycji duchowej, zrozumiał, jak ważne jest ciągłe wystawianie pragnień na próbę poprzez nieustanne ćwiczenie się w rozeznawaniu. Rozstrzygające kryterium swojej oceny odnalazł w miłości. Podczas ostatniej wizyty w Lyonie, w święto św. Szczepana, na dwa dni przed śmiercią, powiedział: „To miłość jest tym, co czyni doskonałymi nasze czyny. I powiem wam znacznie więcej. Oto osoba, która znosi męczeństwo dla Boga z jedną uncją miłości, zasługuje na wiele, bo nie można było ofiarować więcej, niż własne życie; ale inna osoba, która cierpiałaby tylko zadrapanie z dwiema uncjami miłości, będzie miała o wiele większe zasługi, bowiem to miłosierdzie i miłość nadają wartość wszystkiemu”[10].

Z zadziwiającą precyzją mówił dalej, ukazując trudną relację między kontemplacją a działaniem: „Wiecie lub powinniście wiedzieć, że kontemplacja sama w sobie jest lepsza od działania i życia czynnego; ale jeśli w życiu czynnym zjednoczenie [z Bogiem] jest większe, to jest ono lepsze. Jeśli siostra, która jest w kuchni i trzyma patelnię na ogniu, ma więcej miłości i miłosierdzia niż inna, to ogień materialny nie będzie jej przeszkadzał, ale przeciwnie, pomoże jej być bardziej miłą Bogu. Często zdarza się, że człowiek jest zjednoczony z Bogiem zarówno w działaniu, jak i w samotności; ale w końcu zawsze powracam do kwestii: gdzie jest więcej miłości”[11]. Oto prawdziwe pytanie, które przezwycięża swym dynamizmem wszelki bezużyteczny rygoryzm i zamykanie się w sobie: w każdej chwili, w każdej decyzji, w każdej okoliczności życia należy zadawać sobie pytanie o to, gdzie znajduje się największa miłość. Nie przypadkiem św. Franciszek Salezy został nazwany przez św. Jana Pawła II „doktorem Bożej miłości”[12], nie tylko dlatego, że napisał na ten temat obszernyTraktat, ale przede wszystkim dlatego, że był świadkiem tej miłości. Z drugiej strony, jego pism nie można traktować jako teorii tworzonej przy biurku, z dala od niepokojów zwykłego człowieka. Jego nauczanie istotnie zrodziło się z uważnego wsłuchiwania się w doświadczenie. Nie uczynił nic więcej, jak tylko przekształcił w doktrynę to, czym sam żył i co czytał z wnikliwością, oświeconą przez Ducha Świętego, w swoim wyjątkowym i nowatorskim działaniu duszpasterskim. Syntezę tego sposobu postępowania można znaleźć wPrzedmowiedo tegożTraktatu o miłości Bożej: „W Kościele świętym wszystko należy do miłości, żyje w miłości, czyni się dla miłości i pochodzi z miłości”[13].

Lata formacji początkowej: przygoda poznawania siebie w Bogu

Franciszek urodził się 21 sierpnia 1567 r. w zamku Sales, niedaleko Thorens, jako syn François de Nouvelles, pana na Boisy, i Françoise de Sionnaz. „Żył na przełomie dwóch wieków, XVI i XVII, toteż przyswoił sobie to, co najlepsze w naukach i zdobycze kulturalne kończącego się stulecia, godząc z dziedzictwem humanizmu, charakterystyczne dla prądów mistycznych pęd ku absolutowi”[14].

Po początkowej formacji kulturalnej, najpierw w kolegium w La Roche-sur-Foron, a następnie w Annecy, przybył do Paryża, do niedawno założonego kolegium jezuickiego Clermont. W zniszczonej wojnami religijnymi stolicy Królestwa Francji, przeżył w krótkim czasie, następujące po sobie, dwa kryzysy wewnętrzne, które na zawsze naznaczyły jego życie. Owa żarliwa modlitwa w kościele św. Szczepana-des-Gres, przed obliczem paryskiej Czarnej Madonny zapali w jego sercu – pośród ciemności – płomień, który pozostanie w nim żywy na zawsze, jako klucz do zrozumienia własnych i cudzych doświadczeń. „Cokolwiek by się działo, o Panie, który trzymasz wszystko w swoich rękach i którego drogami są sprawiedliwość i prawda [...] będę Cię kochał, o Panie [...], będę Cię kochał tutaj, o mój Boże, i zawsze będę pokładał nadzieję w Twoim miłosierdziu, i zawsze będę głosił Twoją chwałę […] Panie Jezu, Ty zawsze będziesz moją nadzieją i moim zbawieniem w ziemi żyjących”[15].

To właśnie zapisał w swoim notatniku, odnajdując spokój. I to doświadczenie, z jego niepokojami i pytaniami, zawsze będzie dla niego oświecające i otworzy przed nim jedyny w swoim rodzaju sposób dotarcia do tajemnicy relacji Boga z człowiekiem. Pomoże mu wsłuchiwać się w życie innych i rozpoznawać, z misternym rozeznaniem, wewnętrzną postawę, która łączy myśl z odczuwaniem, rozum z uczuciem, i która nazywa po imieniu „Boga ludzkiego serca”. W ten sposób Franciszek nie uległ niebezpieczeństwu przypisania wartości teoretycznej własnemu osobistemu doświadczeniu, absolutyzując je, lecz nauczył się czegoś niezwykłego, będącego owocem łaski: odczytywania w Bogu zarówno własnych przeżyć jak i innych osób.

Choć mimo, że nie aspirował do utworzenia własnego prawdziwego systemu teologicznego, to jego refleksja nad życiem duchowym odznaczała się wybitną godnością teologiczną. Ukazują się w nim istotne cechy dla uprawiania teologii, w odniesieniu do której nigdy nie można zapominać o dwóch konstytutywnych wymiarach. Pierwszym jest właśnieżycie duchowe, bo tylko w pokornej i wytrwałej modlitwie, w otwarciu na Ducha Świętego można starać się pojąć i wyrazić Słowo Boże. Teologami stajemy się w tyglu modlitwy. Drugim wymiarem jestżycie eklezjalne: czucie w Kościele i z Kościołem. Również teologia odczuła skutki kultury indywidualistycznej, lecz teolog chrześcijański wypracowuje swoją myśl będąc zanurzonym we wspólnocie, łamiąc w niej chleb Słowa[16]. Refleksja Franciszka, pozostająca na marginesie sporów akademickich ówczesnej epoki, a zarazem odnosząca się do nich z szacunkiem, wynika właśnie z tych dwóch cech konstytutywnych.

Odkrycie nowego świata

Po ukończeniu studiów humanistycznych podjął studia prawnicze na Uniwersytecie w Padwie. Powróciwszy do Annecy, pomimo sprzeciwu ojcowskiego, podjął decyzję co do kierunku swojego życia. Święcenia kapłańskie przyjął 18 grudnia 1593 r., a na początku września kolejnego roku, na zaproszenie biskupa de Granier, został powołany do trudnej misji w Chablais, na terytorium wyznania kalwińskiego, należącym do diecezji Annecy, które w labiryncie wojen i traktatów pokojowych ponownie przeszło pod kontrolę Księstwa Sabaudii. Były to lata intensywne i dramatyczne. Tu wówczas odkrył, obok pewnej rygorystycznej bezkompromisowości, która w przyszłości skłoni go do przemyśleń, swoje talenty mediatora i człowieka dialogu. Dał się też poznać jako wynalazca oryginalnych i śmiałych praktyk duszpasterskich, takich jak słynne „latające kartki”, wieszane wszędzie, a nawet wsuwane pod drzwi domów.

W 1602 r. powrócił do Paryża, aby – w imieniu samego bp. De Graniera i zgodnie z dokładnymi instrukcjami Stolicy Apostolskiej – przeprowadzić delikatną misję dyplomatyczną, w związku z kolejną zmianą sytuacji polityczno-religijnej na terytorium diecezji genewskiej. Mimo dobrych zamiarów króla Francji, misja ta zakończyła się niepowodzeniem. Sam Franciszek pisał do papieża Klemensa VIII: „Po dziewięciu miesiącach zmuszony byłem wycofać się, niczego niemal nie zakończywszy”[17]. Misja ta stała się jednak dla niego i dla Kościoła nieoczekiwanym bogactwem pod względem ludzkim, kulturowym i religijnym. W czasie wolnym od negocjacji dyplomatycznych, Franciszek głosił kazania w obecności króla i dworu francuskiego, nawiązywał ważne kontakty, a przede wszystkim całkowicie zanurzył się w cudownej duchowej i kulturowej wiośnie nowoczesnej stolicy Królestwa.

Tam wszystko uległo zmianie i nadal się zmieniało. On sam dał się poruszyć zajmując się wielkimi problemami, jakie pojawiały się w świecie oraz nowymi sposobami ich postrzegania, a także zadziwiającym zapotrzebowaniem na duchowość, która wyłoniła się, a także bezprecedensowymi pytaniami, jakie ona stawiała. Krótko mówiąc, zdał sobie sprawę z prawdziwego „przemijania epoki”, na które trzeba było odpowiedzieć za pomocą języków starych jak i nowych. Z pewnością nie po raz pierwszy spotkał żarliwych chrześcijan, ale chodziło o coś innego. Nie był to Paryż spustoszony przez wojny religijne, jaki widział w latach swej formacji, ani też nie były to zawzięte walki na terenach Chablais. Było to coś nieoczekiwanego: tłum „świętych, prawdziwych świętych, licznych i wszędzie”[18]. Byli tam ludzie kultury, profesorowie Sorbony, przedstawiciele instytucji, książęta i księżniczki oraz służba, zakonnicy i zakonnice. Świat na różne sposoby spragniony Boga.

Spotkanie tych osób i poznawanie ich pytań było jednym z najważniejszych opatrznościowych wydarzeń w jego życiu. Dni pozornie bezużyteczne i nieudane zamieniały się w ten sposób w niezrównaną szkołę odczytywania nastrojów epoki, bez schlebiania im. Zręczny i niestrudzony polemista, przeistaczał się, dzięki łasce, w doskonałego interpretatora czasów i nadzwyczajnego kierownika dusz. Jego działalność duszpasterska, wielkie dzieła (Wprowadzenie do życia pobożnegoiTraktat o miłości Bożej), tysiące listów przyjaźni duchowej, które z nich wypływały, wysyłane wewnątrz klasztornych murów i poza nimi, do zakonników i zakonnic, do dworzan, a także do zwykłych ludzi, spotkanie z Joanną de Chantal i założenie Wizytek w 1610 r., byłyby niezrozumiałe bez owego przełomu wewnętrznego. Ewangelia i kultura osiągnęły wówczas owocną syntezę, z której wyłoniła się intuicja prawdziwej i rzeczywistej metody postępowania, która dojrzała i była gotowa do wydania trwałego i obiecującego plonu.

W jednym z pierwszych listów o kierownictwie duchowym i przyjaźni duchowej, wysłanym do jednej ze wspólnot sióstr wizytek w Paryżu, Franciszek Salezy mówi, z głęboką pokorą, o „swojej metodzie”, która różni się od innych, w oczekiwaniu prawdziwej reformy. Jest to metoda, która wyrzeka się surowości i w pełni polega na godności i zdolnościach pobożnej duszy, pomimo jej słabości: „Mam wątpliwość, że waszej reformie można by przeciwstawić inną przeszkodę: być może ci, którzy wam ją narzucili, zbyt surowo potraktowali ranę. [...] Pochwalam ich metodę, jakkolwiek sam jej nie stosuję, zwłaszcza w odniesieniu do mocnych i wielkodusznych umysłów jak twój. Wydaje mi się bowiem, że wystarczy im po prostu wskazać ranę i dać im skalpel do ręki, aby same mogły dokonać cięcia. Ale nie pomijajcie z tego powodu reformy, której potrzebujecie”[19]. Słowa te ukazują wizję, która rozsławiła optymizm salezjański i która odcisnęła piętno na historii duchowości poprzez kolejne wspaniałe dzieła, jak w przypadku księdza Bosko dwa wieki później.

Po powrocie do Annecy, 8 grudnia tego samego roku przyjął święcenia biskupie. Wpływ jego posługi biskupiej na Europę w tamtym czasie i w następnych stuleciach był i jest ogromny. „Był apostołem, kaznodzieją, pisarzem, człowiekiem czynu i modlitwy, z zaangażowaniem wprowadzał w życie ideały Soboru Trydenckiego; był uczestnikiem sporu i dialogu z protestantami, doświadczając coraz bardziej, że choć teologiczna dyskusja jest konieczna, to bardzo skuteczne są osobiste stosunki i miłość. Były mu powierzane misje dyplomatyczne na szczeblu europejskim, a także społeczne misje mediacyjne i pojednawcze”[20]. Przede wszystkim jest on interpretatorem zmieniającej się epoki i przewodnikiem dusz w czasach, które w nowy sposób wyrażają pragnienie Boga.

Miłość czyni wszystko dla swoich dzieci

Między rokiem 1620 a 1621, a więc pod koniec swego życia, Franciszek skierował do jednego z księży ze swojej diecezji słowa, które mogą pomóc zrozumieć jego wizję tamtej epoki. Zachęcał go, by spełnił jego pragnienie i poświęcił się pisaniu oryginalnych tekstów, które byłyby w stanie wychwycić nowe pytania, wyczuwając ich potrzebę. „Muszę ci powiedzieć, że moja pogłębiająca się z każdym dniem znajomość nastrojów panujących na świecie, wzbudza we mnie żarliwe pragnienie, aby Bóg raczył w swojej dobroci natchnąć któregoś ze swoich sług umiejętnością i chęcią pisania w sposób odpowiadający upodobaniom tego biednego świata”[21]. Motyw tej zachęty znajdował we własnej wizji tamtych czasów: „Świat staje się tak przewrażliwiony, że niebawem już nikt nie ośmieli się tknąć go inaczej niż w aksamitnych rękawiczkach, ani leczyć jego rany czym innym, niż okładami z cebuli. Ale jakie to ma znaczenie, jeżeli ludzie zdrowieją, i w końcu są uratowani? Nasza królowa, miłość, gotowa jest wszystko uczynić dla swych dzieci”[22]. Nie jest to rys oczywisty, ani tym bardziej ostateczne poddanie się w obliczu porażki. Było to raczej wyczucie dokonującej się przemiany i w pełni ewangeliczna potrzeba zrozumienia, jak można być w niej obecnym.

Skądinąd, tę samą świadomość rozwinął i wyraził wPrzedmowiedoTraktatu o miłości Bożej: „Przyznam się, że miałem wzgląd na potrzeby umysłowe naszego wieku, bo dużo zależy od zwrócenia uwagi na ducha czasu, w którym się pisze”[23]. Prosząc następnie czytelnika o życzliwość, powiedział: „Jeśli znajdziesz styl nieco odmienny od stylu, jakim zwracałem się doFilotei(choć zapewniam cię, że ta różnica będzie niewielka), i jeśli zobaczysz, że styl obu tych dzieł bardzo się różni od stylu, jakiego użyłem wObronie krzyża, to wiedz, że przez dziewiętnaście lat wiele się człowiek uczy i wiele zapomina, że język wojny jest odmienny od języka pokoju, i że inaczej się mówi do młodych początkujących, a inaczej do starych towarzyszy”[24]. Ale w obliczu tych przemian, od czego zacząć? Nie odbiegając zbytnio od historii relacji Boga z człowiekiem. Stąd ostateczny cel jego traktatu: „W rzeczywistości zamierzałem tylko przedstawić z prostotą i szczerością, bez kunsztu, a tym bardziej bez upiększeń, historię narodzin, upadku, działań, właściwości, zalet i wzniosłych cech miłości Bożej”[25].

Pytania o zmiany epoki

Z okazji czterechsetlecia śmierci św. Franciszka Salezego zastanawiałem się nad jego spuścizną dla naszych czasów i uznałem, że pouczające są jego elastyczność i zdolność do wypracowywania wizji. Po części, dzięki darowi Bożemu, po części dzięki własnemu usposobieniu, a także za sprawą wytrwałego pielęgnowania doświadczeń, miał jasną wizję zmieniających się czasów. Sam nigdy by nie przypuszczał, że będzie miał taką okazję do głoszenia Ewangelii. Słowo, które umiłował od młodości, było zdolne, by utorować sobie drogę, ukazując nowe i nieprzewidywalne perspektywy w świecie, w trakcie gwałtownych przemian.

To właśnie nas czeka jako istotne zadanie, także w obecnej mijającej epoce: Kościół, który nie skoncentrowany na sobie, wolny od wszelkiej światowości, lecz zdolny do przebywania w świecie, dzielenia życia z ludźmi, podążania razem, wysłuchania i akceptacji[26]. Tak właśnie postąpił Franciszek Salezy, odczytując, z pomocą łaski, znaki swoją epokę. Dlatego zachęca nas do porzucenia zbytniej troski o siebie samych, o nasze struktury, o to, jak postrzega nas społeczeństwo i postawienia sobie raczej pytania: jakie są konkretne potrzeby i duchowe oczekiwania naszego ludu?[27]. Ważne jest zatem, także dzisiaj, ponowne odczytanie pewnych ich kluczowych wyborów, aby z ewangeliczną mądrością przeżywać zmiany.

Bryza i skrzydła

Pierwszym z tych wyborów było ponowne odczytanie i przedstawienie każdemu, w jego specyficznej sytuacji, dobrej relacji między Bogiem a człowiekiem. Istotnie, ostatecznym motywem i konkretnym celemTraktatujest właśnie ukazanie współczesnym fascynacji Bożą miłością. Franciszek zastanawia się: „Jakież są więc te zwyczajne więzy, którymi Opatrzność Boża pociąga nasze serca do swej miłości?”[28]Czerpiąc sugestywnie z tekstu Ozeasza 11, 4[29], określa te zwyczajne środki jako „ludzkie więzy, lub więzy miłości i przyjaźni”. „Bez wątpienia – pisze – nie łańcuchami żelaznymi Bóg nas pociąga jak byki i bawoły, ale za pomocą ponęt, delikatnych pociągnięć i świętych natchnień. To są tewięzy Adama, więzy ludzkie– odpowiadające sercu człowieka, który jest wolny z natury”[30]. To właśnie poprzez te więzy Bóg wyprowadził swój lud z niewoli, ucząc go chodzić, trzymając go za rękę, tak jak czyni to tata lub mama ze swoim dzieckiem. Nie ma więc żadnego narzucania z zewnątrz, nie ma despotycznej i arbitralnej siły, żadnej przemocy. Jest to raczej przekonująca forma zaproszenia, która pozostawia nienaruszoną wolność człowieka. „Łaska – kontynuuje, myśląc z pewnością o wielu historiach życia, z którymi się zetknął – posiada moc nie po to, by zniewalać, lecz aby miłością zjednywać serce; posiada świętą gwałtowność nie po to, by zadawać gwałt, lecz by naszą wolność uczynić umiłowaną. Działa mocno, ale bardzo łagodnie, że wola nie pozostaje zmiażdżona tym potężnym działaniem; przynagla nas, ale nie przygniata naszej wolności: przez którą możemy, w obliczu całej jej potęgi, przyzwolić, lub jemu się sprzeciwić, jak nam się podoba”[31].

Nieco wcześniej zarysował tę zależność w ciekawym przykładzie „apodów”: „Są pewne ptaki, Teotymie, które Arystoteles nazywa „apodami”, dlatego że mają bardzo krótkie i bezsilne nóżki, i tak słabe stopki, że nie mogą się nimi posługiwać. Gdy raz spadną na ziemię, pozostają na niej bez możliwości ponownego wzbicia się do lotu o własnych siłach, ponieważ nie mają siły w nogach ani w stopkach, ani siły, by wznieść się w powietrze; przez co pozostają na ziemi, marnieją i giną, jeśli jakiś wiatr pomyślny nie przyjdzie im na pomoc, powiewając silnymi podmuchami po powierzchni ziemi, nie uchwyci ich i nie uniesie w górę, jak to czyni z wielu innymi przedmiotami. Kiedy zaś odpowiedzą na pierwszy podmuch, jakiego im wiatr użycza i posłużą się skrzydłami, wówczas wiatr dalej im pomaga, unosząc je coraz wyżej w locie”[32]. Taki jest człowiek: stworzony przez Boga, aby latać i rozwijać swój pełny potencjał w powołaniu do miłości. Gdy upadnie na ziemię i nie zgodzi się, by ponownie otworzyć skrzydła na powiew Ducha, grozi mu, że stanie się niezdolny, by wzbić się do lotu.

Oto więc „forma”, poprzez którą łaska Boża zwraca się ku ludzkości: są to cenne i bardzo ludzkie więzy Adama. Moc Boga nigdy nie przestaje być w pełni zdolna do przywrócenia zdolności lotu, a jednak Jegołagodnośćdziała w taki sposób, aby wolność zgody na niego nie była pogwałcona lub bezużyteczna. Od człowieka zależy, czy się podniesie, czy nie. Choć łaska dotknęła go w jego przebudzeniu, nie chce, by człowiek powstawał bez swojej zgody. I tak kończy św. Franciszek swoją refleksję: „Teotymie, natchnienia uprzedzają nas i zanim pomyślimy, już je odczuwamy, lecz skoro już je uczujemy, to od nas zależy zezwolenie na nie, współdziałanie z nimi i pójście za ich wołaniami lub sprzeciwianie się im i ich odrzucenie: czujemy je w sobie bez nas, ale one bez nas nie mogą nas skłonić, byśmy dali swe przyzwolenie”[33]. Dlatego w relacji z Bogiem zawsze chodzi o doświadczenie bezinteresowności, które świadczy o głębi miłości Ojca.

Jednakże ta łaska nigdy nie czyni człowieka biernym. Prowadzi do zrozumienia, że radykalnie poprzedza nas miłość Boga, i że Jego pierwszy dar polega właśnie na przyjęciu siebie z Jego własnej miłości. Każdy jednak ma obowiązek współdziałania w swoim wypełnianiu zadań, z ufnością rozwijając swe skrzydła na łagodny Boży powiew. Widzimy tu jeden ważny aspekt naszego ludzkiego powołania: „Zadanie, jakie Bóg powierza Adamowi i Ewie w tekście Księgi Rodzaju polega na tym, aby byli płodni. Ludzkość otrzymała zadanie przemieniania, budowania i panowania nad stworzeniem. Jest to zadanie pozytywne, które oznacza tworzenie z niego i wraz z nim. Przyszłość nie zależy więc od niewidzialnego mechanizmu, którego człowiek jest biernym obserwatorem. Wręcz przeciwnie – jesteśmy protagonistami, jesteśmy – wymuszając to słowo –współstworzycielami[34]. To właśnie Franciszek Salezy dobrze zrozumiał i starał się przekazać w swojej posłudze przewodnika duchowego.

Prawdziwa pobożność

Drugim ważnym kluczowym wyborem było zajęcie się kwestią pobożności. Również w tym przypadku, podobnie jak w naszych czasach, zmiana epoki wzbudziła wiele pytań dotyczących tego zagadnienia. W szczególności dwa aspekty wymagają dziś zrozumienia i ponownego podjęcia. Pierwszy dotyczy samej idei pobożności, drugi – jej powszechnego i ludowego charakteru. Przede wszystkim wskazanie tego, co należy rozumieć pod pojęciem pobożności, jest pierwszą uwagą, jaką znajdujemy na początkuFilotei: „potrzeba ci przede wszystkim wiedzieć, co to jest cnota pobożności. Istnieje bowiem tylko jedna pobożność prawdziwa, a mnóstwo fałszywych i próżnych. Jeśli więc nie poznasz, która to prawdziwa, mógłbyś zabłądzić i oddać się jakiejś pobożności niewłaściwej i zabobonnej”[35].

Wyborny i zawsze aktualny jest opis Franciszka Salezego o fałszywej pobożności, w którym to opisie nietrudno nam się odnaleźć, nie bez pewnej szczypty zdrowego humoru: „kto oddany jest postom, będzie się miał za pobożnego, byle pościł, lubo serce jego pełne zawziętości. Nie śmiejąc przez wstrzemięźliwość zwilżyć swego języka winem ani nawet wodą, nie będzie się wahał zanurzać go w krwi bliźniego przez obmowę i oszczerstwo. Inny będzie się uważał za pobożnego dlatego, że odmawia codziennie wielką ilość modlitw, chociaż poza tym używa swego języka do słów przykrych, zuchwałych i krzywdzących dla domowników i sąsiadów. Inny znowu dobywa chętnie grosza z kieszeni na jałmużnę dla ubogich, atoli nie potrafi zdobyć się na tyle słodyczy serca, by wybaczyć swym wrogom. Inny wreszcie będzie odpuszczał winy swym nieprzyjaciołom, cóż, kiedy nie płaci długów, chyba zmuszony sądownie!”[36]. Są to oczywiście wady i trudy wszystkich czasów, także i współczesnych, dlatego Święty konkluduje: „Wszyscy ci ludzie uchodzą za pobożnych, a bynajmniej nie są takimi”[37].

Natomiast nowość i prawda pobożności znajdują się gdzie indziej, w pierwiastku głęboko związanym z życiem Bożym w nas. W ten sposób „pobożność istotna i żywa płynie z miłości Bożej, a nawet nie jest w gruncie niczym innym, jeno prawdziwą miłością Boga i to nie byle jaką”[38]. W jego żarliwej wyobraźni nie jest ona niczym innym, jak „krótko mówiąc, pobożność to nic innego, tylko żywość i ruchliwość duchowa, dzięki której miłość działa, albo my przez nią ochoczo i ze szczerego serca”[39]. Dlatego nie stoi ona obok miłości, ale jest jej przejawem i jednocześnie do niej prowadzi. Jest jak płomień wobec ognia: ożywia jego intensywność, nie zmieniając jego jakości. „Ostatecznie między miłością a pobożnością nie zachodzi większa różnica jak między ogniem a płomieniem, gdyż miłość będąca rodzajem ognia duchowego, skoro tylko silnie się rozpłomieni, nazywamy pobożnością. Pobożność nic nie dodaje do ognia miłości, prócz płomienia, który czyni ją ochotną, ruchliwą i pilną nie tyko w zachowywaniu przykazań, lecz także, w wykonywaniu rad i natchnień Bożych”[40]. Tak rozumiana pobożność nie ma w sobie nic abstrakcyjnego. Jest to raczej sposób życia, sposób bycia w konkrecie codziennej egzystencji. Łączy ona i interpretuje małe rzeczy dnia codziennego, jedzenie i ubranie, pracę i rozrywkę, miłość i rodzenie życia, troskę o obowiązki zawodowe; podsumowując, oświeca powołanie każdego.

Można tu wyczuć ludowe korzenie pobożności, o czym mówią już pierwsze wersyFilotei: „Ci, co pisali dotąd o pobożności, prawie wszyscy, mieli na celu pouczenie osób, żyjących z dala od świata, a przynajmniej nauczali pobożności prowadzącej do takiego zupełnego odosobnienia się. Moim natomiast zamiarem jest przemówić do ludzi żyjących po miastach, w kole rodzinnym, na dworach; do ludzi, których warunki stanu i obranego zawodu zmuszają do prowadzenia życia pospolitego na zewnątrz”[41]. Z tego względu bardzo się mylą ci, którzy myślą o usunięciu pobożności do jakiejś sfery chronionej i zastrzeżonej. Należy ona raczej do wszystkich i przeznaczona jest dla wszystkich, gdziekolwiek jesteśmy, a każdy może ją praktykować zgodnie ze swoim powołaniem. Jak napisał św. Paweł VI w czterechsetlecie urodzin Franciszka Salezego, „świętość nie jest przywilejem tej czy innej klasy, ale do wszystkich chrześcijan skierowane jest naglące zaproszenie: „Przyjacielu, przesiądź się wyżej!” (Łk14, 10); wszyscy są zobowiązani do wspinania się na górę Boga, nawet jeśli nie wszyscy tą samą drogą. „Inaczej rozwijać ma pobożność szlachcic, rzemieślnik, służący, książę, wdowa, młoda kobieta, małżonka. Co więcej, praktyka pobożności musi być dostosowana do sił, spraw i obowiązków każdej osoby”[42]. Przemierzanie świeckiego miasta, strzegąc życia wewnętrznego, łączenie pragnienia doskonałości z każdym stanem życia, odnajdując centrum, które nie oddziela się od świata, ale uczy, jak w nim żyć, jak go doceniać, ucząc się także odpowiedniego dystansu wobec niego: taki był jego zamysł, a i współcześnie jest to cenna lekcja dla każdej kobiety i każdego mężczyzny naszych czasów.

To zresztą jest soborowym tematem powszechnego powołania do świętości: „wyposażeni w tyle tak wielkich środków zbawienia, we wszystkich sytuacjach życiowych i w każdym stanie powołani są przez Pana, każdy na właściwej sobie drodze, do doskonałej świętości, jak i sam Ojciec jest doskonały”[43]. «Każdy na właściwej sobie drodze». „Nie można się więc zniechęcać, podziwiając wzory świętości, które wydają się nieosiągalne”[44]. Matka Kościół proponuje je nam nie po to, abyśmy starali się je kopiować, ale po to, by zachęcały nas do kroczenia jedyną i specyficzną drogą, którą zaplanował dla nas Pan. „Liczy się to, aby każdy wierny rozpoznał swoją drogę i wydobył z siebie to, co ma najlepszego, to, co najbardziej osobistego Bóg w nim umieścił (por.1Kor12, 7)”[45].

Ekstaza życia

Wszystko to sprawiło, że święty biskup uznał życie chrześcijańskie w całości za „ekstazę działania i życia”[46]. Nie należy jej jednak mylić z łatwą ucieczką czy wycofaniem się w głąb siebie, a tym bardziej ze smutnym i szarym posłuszeństwem. Wiemy, że to niebezpieczeństwo jest zawsze obecne w życiu wiary. Istotnie, „są chrześcijanie, którzy wydają się przyjmować klimat Wielkiego Postu bez Wielkanocy. […] Rozumiem osoby skłaniające się do smutku z powodu doświadczania poważnych trudności, jednak trzeba pozwolić, aby powoli zaczęła się budzić radość wiary jako tajemnicza, ale mocna ufność, nawet pośród najgorszej udręki”[47].

Otóż, pozwolić radości, by obudziła się, to właśnie Franciszek Salezy wyraża w opisie „ekstazy czynu i życia”. Dzięki niej „nie żyjemy już wówczas tylko przyzwoitym, uczciwym i chrześcijańskim życiem, ale nadprzyrodzonym, duchowym, pobożnym i ekstatycznym, to znaczy życiem, które w każdym przypadku jest poza i ponad naszą kondycją naturalną”[48]. Jesteśmy tutaj w centralnych i najbardziej światłych stronachTraktatu. Ekstaza jest szczęśliwym nadmiarem życia chrześcijańskiego, wykraczającym poza przeciętność zwykłego przestrzegania. „Nie kraść, nie kłamać, nie dopuszczać się pożądliwości, modlić się do Boga, nie przysięgać nadaremno, kochać i czcić ojca, nie zabijać – to żyć zgodnie z naturalnym rozumem człowieka; ale porzucić wszystkie nasze dobra, kochać ubóstwo, nazywać je i uważać za rozkoszną panią, uważać okropieństwa, wzgardę, upokorzenia, prześladowania, męczeństwo za szczęście i błogosławieństwa, trzymać się granic absolutnej czystości, a wreszcie żyć na świecie i w tym życiu doczesnym wbrew wszelkim opiniom i zasadom tego świata i pod prąd rzeki tego życia, z ciągłą rezygnacją, wyrzeczeniem i zaparciem się siebie, to nie jest życie zgodne z naturą ludzką, ale ponad nią; nie ma żyć w nas, ale poza nami i ponad nami: a ponieważ nikt nie może w ten sposób wyjść ponad siebie, jeśli go nie pociągnie wieczny Ojciec, wynika z tego, że ten sposób życia musi być nieustannym uniesieniem i wieczną ekstazą czynu i działania”[49].

Jest to życie, które na nowo odkryło źródła radości, wbrew wszelkiemu swemu wyjałowieniu, wbrew pokusie skoncentrowania się na sobie. Istotnie, „[…] wielkim niebezpieczeństwem współczesnego świata, z jego wieloraką i przygniatającą ofertą konsumpcji, jest smutek rodzący się w przyzwyczajonym do wygody i chciwym sercu, towarzyszący chorobliwemu poszukiwaniu powierzchownych przyjemności oraz wyizolowanemu sumieniu. Kiedy życie wewnętrzne zamyka się we własnych interesach, nie ma już miejsca dla innych, nie liczą się ubodzy, nie słucha się już więcej głosu Bożego, nie doświadcza się słodkiej radości z Jego miłości, zanika entuzjazm czynienia dobra. To niebezpieczeństwo nieuchronnie i stale zagraża również wierzącym. Ulega mu wielu ludzi i stają się osobami urażonymi, zniechęconymi, bez chęci do życia”[50].

Do tego opisu „ekstazy działania i życia” św. Franciszek dodaje na koniec dwa wyjaśnienia, ważne także w naszych czasach. Pierwsze dotyczy skutecznego kryterium rozeznawania prawdziwości tego stylu życia. Drugie – jej głębokiego źródła. Jeśli chodzi o kryterium rozeznawania, stwierdza, że choć ekstaza oznacza prawdziwe wyjście z siebie, nie oznacza porzucenia życia. Aby uniknąć niebezpiecznych wynaturzeń, nie wolno o tym nigdy zapominać. Innymi słowy, ten, kto sądzi iż wznosi się ku Bogu, ale nie żyje miłością bliźniego, oszukuje siebie i innych.

Znajdujemy to samo kryterium, które Franciszek Salezy stosował do jakości prawdziwej pobożności. „Gdy zatem spotyka się osobę, która na modlitwie jest pogrążona w zachwyceniu i wychodzi poza siebie, unosząc się ku Bogu, natomiast nie ma ekstazy życia, to znaczy nie prowadzi życia wznioślejszego, oddanego Bogu, [...] zwłaszcza zaś przez nieustanną miłość – to wierz mi Teotymie, że wszystkie jej zachwycenia są wielce podejrzane i niebezpieczne”. Jego konkluzja jest bardzo sugestywna: „Być ponad sobą samym na modlitwie, a poniżej siebie w życiu i w czynnościach – być anielskim na medytacji, a zwierzęcym w obcowaniu [...] jest wyraźnym objawem, że te zachwycenia, te ekstazy to tylko igraszka i oszustwo złego ducha”[51]. To jest w istocie to, co Paweł przypominał już Koryntianom w swoim Hymnie o miłości: „Gdybym też miał[...]wszelką [możliwą] wiarę, tak iżbym góry przenosił, a miłości bym nie miał, byłbym niczym.I gdybym rozdał na jałmużnę całą majętność moją, a ciało wystawił na spalenie, lecz miłości bym nie miał, nic bym nie zyskał” (1Kor13, 2-3).

Zatem, dla św. Franciszka Salezego życie chrześcijańskie jest nierozłącznie związane z ekstazą, jednakże ekstaza nie jest autentyczna bez życia. Życiu bez ekstazy grozi bowiem sprowadzenie do nieprzejrzystego posłuszeństwa, do Ewangelii, która zapomniała o swojej radości. Z drugiej strony, ekstaza bez życia łatwo naraża się na iluzję i oszustwo Złego. Wielkich biegunów życia chrześcijańskiego nie da się rozwiązać, jeden w drugim. Wręcz przeciwnie, jedno podtrzymuje drugie w swojej autentyczności. W ten sposób prawda nie jest bez sprawiedliwości, zadowolenie – bez odpowiedzialności, spontaniczność – bez ram prawa; ivice versa.

Jeśli natomiast chodzi o głębokie źródło tej ekstazy, Franciszek Salezy mądrze łączy je z miłością objawioną przez wcielonego Syna. Jeśli z jednej strony prawdą jest, że „miłość jest pierwszym aktem i początkiem naszego życia pobożnego lub duchowego, przy pomocy którego żyjemy, czujemy i poruszamy się”, a z drugiej strony „nasze życie duchowe jest takie, jakie są nasze uczucia”, to jasne jest, że „serce pozbawione uczuć, nie ma miłości”, jak również, że „kochające serce nie jest bez uczuć”[52]. Jednak źródłem tej miłości, która pociąga serce, jest życie Jezusa Chrystusa: „Nic tak nie przynagla serca ludzkiego, jak miłość”, a ukoronowaniem tego nacisku jest to, że „Jezus Chrystus umarł za nas, swoją śmiercią obdarzył nas życiem. Żyjemy jedynie dlatego, że On umarł za nas, dla nas i w nas”[53].

Porusza to wyjaśnienie, ukazujące, oprócz błyskotliwej i nieoczywistej wizji relacji między Bogiem a człowiekiem, także ścisłą więź emocjonalną, jaka łączyła świętego Biskupa z Panem Jezusem. Prawda o ekstazie życia i działania nie jest prawdą ogólnikową, lecz ukazuje się w postaci miłości Jezusa, której kulminacją jest krzyż. Ta miłość nie przekreśla istnienia, lecz sprawia, że jaśnieje ono niezwykłą jakością.

Z tego powodu św. Franciszek Salezy używa pięknego obrazu, opisując Kalwarię jako „górę zakochanych”[54]. Tam, i tylko tam można zrozumieć, że „nie jest możliwe życie bez miłości, ani też miłowanie bez śmierci Odkupiciela: ale wszystko, co jest poza tym, jest albo wieczystą śmiercią albo wieczystą miłością, a cała zaś mądrość chrześcijańska polega na tym, aby dobrze wybrać”[55]. W ten sposób św. Franciszek Salezy może zakończyć swójTraktatodsyłając do stwierdzenia św. Augustyna na temat miłości: „Cóż jest wierniejszego niż miłość? Wierna nie temu, co ulotne, lecz temu, co wieczne. Znosi ona wszystko w obecnym życiu, ponieważ wierzy we wszystko, co dotyczy życia przyszłego: znosi wszystko, co jest nam dane do zniesienia tutaj, ponieważ ma nadzieję na wszystko, co jest jej obiecane tam. Słusznie, nigdy nie ma ona końca. Praktykujcie więc miłość, a myśląc o niej w sposób święty, przynoście owoce sprawiedliwości. A jeśli znajdziecie w pochwale miłości coś innego niż to, co wam dotychczas powiedziałem, niech się ujawni w waszym postępowaniu”[56].

To, co odsłoniło się w życiu świętego Biskupa Annecy, jest po raz kolejny powierzone każdemu z nas. Niech czterechsetna rocznica jego narodzin dla nieba, pomoże nam pobożnie go wspominać; i za jego wstawiennictwem, niech Pan udzieli obfitych darów Ducha na pielgrzymowanie świętego wiernego Ludu Bożego.

Rzym, u św. Jana na Lateranie, dnia 28 grudnia 2022, wdziesiątym roku mojego Pontyfikatu.

FRANCISCUS

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[1]Św.Franciszek Salezy,Traktat o miłości Bożej, tłum. M. Bronisława Bzowska, Kraków 2002, s. 20.

[2]Tenże,Lett. 2103:A Monsieur Sylvestre de Saluces de la Mente, Abbé d'Hautecombe(3 nov. 1622), inŒuvres de Saint François de Sales, XXVI, Annecy 1932, 490-491.

[3]Tenże,Do pewnej pani, w:Korespondencja osobista, tłum. Agnieszka Kuryś, Kraków 2017, s. 289.

[4]Tenże,Traktat o miłości Bożej, tłum. M. Bronisława Bzowska, Kraków 2002, s. 80.

[5]Tenże,Entretiens spirituels, Dernier entretien [21]: red.Ravier – Devos, Paryż 1969, 1319.

[6]por. Adhort. apost.Gaudete et exsultate(19 marca 2018), 49;AAS110 (2018), 1124.

[7]Tamże, 57;AAS110 (2018), 1127.

[8]Por.tamże, 37-39:AAS110 (2018), 1121-1122.

[9]Św. Franciszek Salezy, Entretiens spirituels,Dernier entretien [21]: red.Ravier – Devos, Paryż 1969, 1319.

[10]Tamże,1308.

[11]Tamże.

[12]Św. Jan Paweł II,Lettera a Mons.Yves Boivineau, Vescovo di Annecy, in occasione del 400° anniversario dell’ordinazione episcopale di san Francesco di Sales(23 listopada 2002), 3:Insegnamenti, XXV/2 (2002), 767.

[13]Św. Franciszek Salezy, Traktat o miłości Bożej, Przemowa, tłum. M. Bronisława Bzowska, Kraków 2002, s. 20.

[14]BenedyktXVI,Św. Franciszek Salezy, Audiencja Generalna (2 marca 2011):Insegnamenti, VII/1 (2011), 270;L'Osservatore Romano, wydanie polskie, n. 5 (333)/2011, s. 27.

[15]Św. Franciszek Salezy,Fragments d’écrits intimes, 3:Acte d’abandon heroïque, inŒuvres de Saint François de Sales, XXII (Opuscules, I), Annecy 1925, 41.

[16]Por.Przemówienie do Międzynarodowej Komisji Teologicznej(29 listopada 2019):L’Osservatore Romano, wydanie polskie, n. 1 (419)/2020, s. 25.

[17]Św.Franciszek Salezy,Lett. 165:À Sa Sainteté Clément VIII(fine ottobre 1602), inŒuvres de Saint François de Sales, XII (Lettres, II:1599-1604), Annecy 1902, 128.

[18]H. Bremond,L’humanisme dévot, inHistoire littéraire du sentiment religieux en France depuis la fin des guerres de religion jusqu’à nos jours, Jérôme Million, Grenoble 2006, 131.

[19]Św.Franciszek Salezy, Do zakonnic z klasztoru Les Filles-Dieu, w:Wybór Pism, Warszawa 1956, s. 379.

[20]BenedyktXVI, Św. Franciszek Salezy, Audiencja Generalna(2 marca 2011):Insegnamenti, VII/1 (2011), 2720;L’Osservatore Romano, wydanie polskie, 5 (333)/2011, s. 27-28.

[21]Św.Franciszek Salezy, List do Pierre Jay, w:Wybór Pism, Warszawa 1956, s. 296.

[22]Tamże.

[23]Tenże,Traktat o miłości Bożej, Przemowa, tłum. M. Bronisława Bzowska, Kraków 2002, s. 22-23.

[24]Tamże, s. 29.

[25]Tamże, s. 22.

[26]Por.Przemówienie do biskupów, księży, zakonników i zakonnic, seminarzystów, katechetów, Bratysława (13 września 2021):L’Osservatore Romano, 13 września 2021, s. 11-12.

[27]Por.tamże.

[28]Św.Franciszek Salezy, Traktat o miłości Bożej,II, 12,tłum.M. Bronisława Bzowska,Kraków 2002, s. 132.

[29]„Pociągnąłem ich ludzkimi więzami, a były to więzy miłości. Byłem dla nich jak ten, co podnosi do swego policzka niemowlę-schyliłem się ku niemu i nakarmiłem go”.

[30]Św.Franciszek Salezy, Traktat o miłości Bożej,II, 12,tłum.M. Bronisława Bzowska,Kraków 2002, s. 132.

[31]Tamże, II, 12, s. 122.

[32]Tamże, II, 9.

[33]Tamże, II, 12, s. 134.

[34]Ritorniamo a sognare. La strada per un futuro migliore, Conversazione con A. Ivereigh, Piemme, Milano 2020, 8.

[35]Św.Franciszek Salezy,Filotea, Olsztyn 1985, tłum. H. Libiński, Rozdział I, s. 25.

[36]Tamże, s.25-26.

[37]Tamże, s. 26.

[38]Tamże.

[39]Tamże.

[40]Tamże, s. 27.

[41]Tamże,Przedmowa, s. 15-16.

[42]List apost.Sabaudiae gemma nel IV centenario della nascita di San Francesco di Sales dottore della Chiesa(29 stycznia 1967):AAS59 (1967), 119.

[43]Sobór Wat.II, Konst. dogmat.Lumen gentium, 11.

[44]Adhort. apost.Gaudete et exsultate, 11:AAS110 (2018), 1114.

[45]Tamże.

[46]Św. Franciszek Salezy, Traktat o miłości Bożej, VII, 6, tłum. M. Bronisława Bzowska, Kraków 2002, s. 377.

[47]Adhort. apost.Evangelii gaudium(24 listopada 2013),6:AAS105 (2013), 1021-1022.

[48]Św. Franciszek Salezy, Traktat o miłości Bożej,VII, 6,tłum. M. Bronisława Bzowska,Kraków 2002,s. 377.

[49]Tamże,s.377-378.

[50]Adhort. apost.Evangelii gaudium,2.

[51]Św. Franciszek Salezy, Traktat o miłości Bożej,VII, 7,tłum. M. Bronisława Bzowska,Kraków 2002, s. 380.

[52]Tamże,VII, 7,s. 379.

[53]Tamże,VII, 8,s. 382-383.

[54]Tamże,XII, 13, tłum. M. Bronisława Bzowska,Kraków 2002, s. 686.

[55]Tamże,s. 687.

[56] AGOSTINO DI IPPONA,Discorsi, 350, 3, Città Nuova, Roma 1989, https://www.augustinus.it/italiano/discorsi/index2.htm.

[02021-PL.01] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua araba

رسالة بابويّة

TOTUM AMORIS EST

”كلّ شيء يعود إلى الحبّ“

للحبر الأعظم البابا فرنسيس

في الذكرى المئويّة الرابعة لوفاة القدّيس فرنسيس دي سالِس

"كلّ شيء يعود إلى الحبّ"[1]. هذه الكلمات يمكن أن تلخّص الإرث الرّوحي الذي تركه لنا القدّيس فرنسيس دي سالِس، الذي توفيّ قبل أربعة قرون، في 28 كانون الأوّل/ديسمبر 1622 في ليون. كان عمره يزيد قليلًا عن خمسين سنة، وكان أسقفًا على جنيف وأميرًا ”في المنفى“ مدّة عشرين عامًا. كان قد وصل إلى ليون بعد مهمّته الدبلوماسيّة الأخيرة. طلب منه دوق سافويا مرافقة الكاردينال ماوريتسيو دي سافويا إلى أفينيون. سيقدّمان معًا الاحترام للملك الشّاب لويس الثالث عشر، الذي كان عائدًا إلى باريس، مارًّا بوادي الرون، بعد حملة عسكريّة منتصرة في جنوب فرنسا. رضي فرنسيس بالسفر تدفعه روح الخدمة فقط، لأنّه كان متعبًا وفي حالة صحيّة سيّئة. "لو لم تكن هذه الرّحلة مفيدة إلى حدّ كبير لخدمتهم، فلدي بالتأكيد العديد من الأسباب الوجيهة والجيّدة لإعفاء نفسي منها. لكن بما أنّها خدمة لهم، فلن أتراجع، بل سأذهب ولو زحفًا، حيًّا أو ميتًا"[2]. كان هذا طبعه. ولمّا وصل أخيرًا إلى ليون، أقام بالقرب من دير راهبات الزيارة (Visitandines)، في بيت البستاني، حتى لا يسبّب المتاعب الكثيرة، وفي نفس الوقت حتى يكون حرًّا للقاء أيّ شخص يرغب في لقائه.

منذ وقت لم يكن معجبًا بـ "عظمة البلاط غير المستقرة"[3]، فأمضى حتّى أيامه الأخيرة في ممارسة خدمة الرّاعي في سلسلة من المواعيد: اعترافات ومحادثات ومؤتمرات ومواعظ، والرسائل الأخيرة التي لا مفرّ منها عن الصّداقة الرّوحية. السبب العميق لنمط هذه الحياة المليئة بالله ازداد له وضوحًا بمرور الوقت، وقد صاغه ببساطة ودقّة في مؤلَّفِه الشهير ”خواطر في حبّ الله“: "عندما يفكّر الإنسان، بشيء من الاهتمام، في الألوهيّة، فإنّه يشعر فورًا بشعور عذب في قلبه يثبت أنّ الله هو إلهُ قلبِ الإنسان"[4]. هذه خلاصةُ فكرِه. خبرةُ الله هي دليلٌ على قلبِ الإنسان. وهذا ليس تحليلًا ذِهنِيًّا، بل هو اعترافٌ مليءٌ بالدهشةِ والشُّكر، نتيجةَ ظهورِ الله. الله في القلب، ومن خلالِ القلبِ تتِمُّ هذه العمليّةُ المُوحِّدة الدقيقة والعميقة التي من خلالها يتعرّفُ الإنسانُ على الله، ويتعرّفُ أيضًا على نفسه، وأصلِه وأعماقِه، وكمالِه في الدعوةِ إلى الحبّ. ويكتشفُ أنّ الإيمانَ ليس حركةً عمياء، بل هو أوّلًا موقفٌ في القلب. بالإيمان، يثق الإنسان بحقيقة تظهر للضمير على أنّها ”شعورٌ عذْبٌ“، قادرٌ على أن يُثيرَ نيّةً حسَنة منسجمة، لا غنى عنها لكلّ واقعٍ مخلوق، كما كان يُحِبّ أن يقول.

في ضوء هذا، نفهمُ أنّه ليس مكانٌ أفضل، للقديس فرنسيس دي سالِس، للعثورِ على الله والمساعدةِ في البحثِ عنه، من قلبِ كلّ امرأةٍ ورجلٍ في زمنِه. لقد تعلّم ذلك من خلال مراقبةِ نفسِه بدقَّة، منذ شبابِه المبكّر، وبتفحُّصِ قلبِ الإنسان.

مع الشعور الحميم بأنّ الله يسكن حياته اليوميّة، ترك فرنسيس دي سالِس في اللقاء الأخير في أيّامه التي قضاها في ليون، لراهبات الزيارة (Visitandines)، العبارة التي تمنّى أن تبقى ختمًا لذكراه بينهنَّ، وهي: "لقد لخّصتُ كلّ شيء في هاتَين الكلمتَين عندما قلت لكم لا ترفضوا شيئًا ولا تطلبوا شيئًا. ليس لدي شيءٌ آخر أقوله لكم"[5]. ولم يكن ذلك محض تدريب للإرادة، لأنّ "الإرادة بدون تواضع"[6]، هي التجربة الخفيّة في المسيرة نحو القداسة، التي نخلطها مع التبرير بقوانا الخاصّة، ومع عبادة الإنسان لإرادته وقدرته الذاتيّة، "التي يعبَّر عنها بإرضاء ذاتي ذي طابع نخبوي متمركز حول الذات وخالٍ من الحبّ الحقيقي"[7]. ولم يكن الأمر كذلك مسألة ”طمأنينة“ واستسلام سلبي لا مشاعر له، وتعليم بلا جسد وبلا تاريخ[8]. بل وُلد موقفه هذا من التأمّل في حياة الابن المتجسّد نفسه. كان ذلك في 26 كانون الأوّل/ديسمبر، وكان القدّيس يتكلّم إلى الراهبات في قلب سرّ عيد الميلاد: "أترين الطفل يسوع في المذود؟ إنّه يتلقّى كلّ ويلات الأزمنة، البرد وكلّ ما يسمح به الأب بأن يحدث له. إنّه لا يرفض التعزية الصغيرة التي قدّمتها له والدته، ولم يُكتَب أنّه مدّ يديه ليمسك بصدر والدته، بل ترك كلّ شيء لرعايتها وبُعد نظرها، لذلك يجب ألّا نرغب في أيّ شيء أو أن نرفض شيئًا، وأن نتحمّل كلّ ما يرسله الله إلينا، البرد وويلات الأزمنة"[9]. يؤثِّر فينا انتباهه واعترافه بالاهتمام بما لا غِنى عنه للإنسان. فقد تعلّم في مدرسة التجسّد أن يقرأ التاريخ ويعيشه بثقة.

معيار الحبّ

من خلال الخبرة، أدرك أنّ الرغبة هي أصل كلّ حياة روحيّة حقيقيّة، وفي نفس الوقت، هي مكان لتزييفها. لهذا السبب، جمّع بكِلتا يدَيه من التّقليد الرّوحي الذي سبقه، وأدرك أهميّة وضع الرغبة باستمرار في الاختبار، من خلال ممارسة التميّيز المستمرّة. ووجد المعيار النهائي لتقييمه في الحبّ. وفي تلك الخلوة الأخيرة أيضًا في ليون، في عيد القدّيس اسطفانس، قبل يومين من وفاته قال: "إنّها المحبّة التي تضفي الكمال على أعمالنا. أقول لكم أكثر من ذلك بكثير. هذا هو الشخص الذي استشهد في سبيل الله بأُوقِيَّة من الحبّ. إنّه يستحقّ الكثير، بما أنّه لا يستطيع أن يهب أكثر من حياته؛ لكن الشخص الآخر الذي يتألّم من جرح خفيف بأوقيتين من الحبّ سيستحقّ أكثر بكثير، لأنّ المحبّة والحبّ هما اللذان يعطيان قيمة لأعمالنا"[10].

وتابع بواقعيّة مدهشة، وأوضح العلاقة الصّعبة بين التأمّل والعمل. قال: "تعلمون أو يجب أن تعلموا أنّ التأمّل في حدّ ذاته أفضل من العمل والحياة النشطة؛ بل إن وجد المزيد من الاتحاد [مع الله] في الحياة النشطة، فهذا أفضل. إن كانت أخت في المطبخ تمسك المقلاة فوق النار ولها حبّ ومحبّة أكثر من غيرها، فإنّ النار الماديّة لن تمنعها، بل ستساعدها على أن تكون أكثر إرضاءً لله في العمل كما في العزلة؛ في النهاية، أعود دائمًا إلى السؤال: أين يوجد الحبّ الأعظم"[11]. هذا هو السؤال الحقيقي الذي يتخطّى كلّ تشدّد عديم الفائدة أو انطواء على الذات: أن نسأل أنفسنا في كلّ لحظة، وفي كلّ اختيار، وفي كلّ ظرف من ظروف الحياة أين نجد الحبّ الأعظم؟ ليس من قبيل المصادفة أنّ القدّيس يوحنا بولس الثاني أطلق على القدّيس فرنسيس دي سالِس لقب "معلّم الحبّ الإلهي"[12]، ليس فقط لأنّه كتب فيه خواطر بليغة، بل وقبل كلّ شيء لأنّه كان شاهداً للحبّ. من ناحية أخرى، لا يمكن اعتبار كتاباته مثل نظريّة مؤلفة في مَكتَب، بعيدةً عن اهتمامات الانسان العادي. في الواقع، وُلدَت تعاليمه من اصغاء متنبّه للخبرة. لم يفعل شيئًا سوى أنّه حوّل ما عاشه وقرأه بفطنة إلى تعلِيم، مستنير بالرّوح، في عمله الرّعوي الفريد والخلّاق. يمكن أن نجد خلاصة لطريقة العمل هذه في مقدّمة كتابه، ”خواطر في حبّ الله“: "في الكنيسة المقدّسة، كلّ شيء يعود إلى الحبّ، ويعيش في الحبّ، ويُعمَلُ من أجل الحبّ ويأتي من الحبّ"[13].

سنوات التنشئة الأولى: مغامرة معرفة الذات في الله

وُلِدَ في 21 آب/أغسطس 1567 في قلعة سالِس (Sales)، بالقرب من تورينس (Thorens)، والده فرانسوا دي نوفيل، سيِّد بوازي، ووالدته فرانسواز دي سيوناز. "عاش بين قرنَين من الزمان، القرن الخامس عشر والسادس عشر، وجمّع لنفسه أفضل التّعاليم والإنجازات الثقافيّة للقرن الذي كان على وشك الانتهاء، ووفّق بين إرث مَذهَبِ الإنسانيّة (umanesimo) والاندفاع نحو النموذج المطلق للتيّارات الصوفيّة"[14].

بعد تنشئته الثقافيّة الأولى، أوّلًا في كليّة La Roche-sur-Foron ومن ثمّ في كليّة Annecy، وصل إلى باريس، إلى الكليّة اليسوعيّة، كليرمون (Clermont) التي تأسّست مؤخّرًا. في عاصمة مملكة فرنسا، التي دمّرتها الحروب الدينيّة، سرعان ما اختبر أزمتَين داخليّتَين متتاليتَين، وَسَمَتا حياته بسِمَةٍ لا تُمحى. الصّلاة الحارّة التي صلّاها في كنيسة Saint Étienne des Grès، أمام السيّدة مريم العذراء السوداء في باريس، ستشعل في قلبه، في وسط الظلام، شعلة ستبقى حيّة فيه إلى الأبد، وهي مفتاح لقراءة خبرته الخاصّة وخبرة الآخرين. "مهما حدث، يا ربّ، أنت من تمسك بكلّ شيء بين يديك وطُرقك كلّها حقّ وعدل، [...] سأحبّك، يا ربّ [...]، سأحبّك هنا، يا إلهيّ، وسأرجو دائمًا رحمتَك، وسأكرّر لك الحمد والتسبيح. […] أيّها الرّبّ يسوع، ستكون دائمًا رجائي وخلاصي في أرض الأحياء"[15].

كذلك كتب في دفتر ملاحظاته، ووجد السّلام. ستظّل هذه الخبرة، بقلقها وأسئلتها، منيرة دائمًا له وستمنحه طريقًا فريدًا للوصول إلى سرّ علاقة الله بالإنسان. سيساعده ذلك على الاستماع إلى حياة الآخرين والتعرّف، بتمييز دقيق، على الموقف الداخلي الذي يوحّد الفكر بالشعور، والعقل بالعاطفة، والذي يسمّيه ”إله قلب الإنسان“. بذلك، لم يقع فرنسيس في خطر إعطاء خبرته الشخصيّة قيمة نظريّة، وجعْلِها مطلقة، بل تعلّم شيئًا غير عادي، وهو ثمرة النعمة: أن يقرأ في الله حياته وحياة الآخرين.

على الرّغم من أنّه لم يزعم قط أن يضع نظريّة لاهوتيّة خاصّة، إلّا أنّ تأمّله في الحياة الروحيّة كان له قيمة لاهوتيّة بارزة. تَظهَرُ فيه السّمات الجوهريّة في فكر لاهوتي، حيث يجب ألّا يُنسى أبدًا بُعدَان أساسيَّان. البُعد الأوّل هو بالتّحديد الحياة الروحيّة، لأنّه يمكن أن نحاول فهم كلمة الله وأن نعبّر عنها، في الصّلاة المتواضعة والمثابرة، والانفتاح على الرّوح القدس. يصبح اللاهوتي لاهوتيًا في بوتقة الصّلاة. البُعد الثاني هو الحياة الكنسيّة: أن يكون لدينا الإحساس في الكنيسة ومع الكنيسة. حتّى اللاهوت تأثّر من الثقافة الفرديّة، لكن اللاهوتي المسيحي يطوِّر فكره وهو منغمس في الجماعة، وفيها يكسر خبز الكلمة[16]. فِكرُ فرنسيس دي سالِس، على هامش الجدالات المدرسيّة في وقته وحتّى مع احترامها، نشأ على وجه التحدّيد من هاتين السمتَين التأسيسيّتَين.

اكتشاف عالم جديد

بعد أن أكمل دراسته في العلوم الإنسانيّة، واصل تخصّصه في القانون في جامعة بادوفا. وعندما عاد إلى أنِسي (Annecy)، كان قد قرّر وِجهَةَ حياته، على الرّغم من مقاومة والده. وبعد أن رُسِمَ كاهنًا في 18 كانون الأوّل/ديسمبر 1593، في الأيّام الأولى من شهر أيلول/ سبتمبر من العام التالي، بدعوة من الأسقف المونسنيور كلود دي جرانيِي (Mons. Claude de Granier)، دُعي إلى رسالة صعبة في شابلي (Chablais)، وهي منطقة تابعة لأبرشيّة أنِسي (Annecy)، ذات العقيدة الكالفينيّة، وقد مرّت مرّة أخرى، عبر متاهة معقّدة من الحروب ومعاهدات السّلام، تحت سيطرة دوقية سافويا. كانت تلك سنوات شديدة ومأساويّة. اكتشف هنا، جنبًا إلى جنب مع بعض العناد الصّارم في شخصيّته، والذي سيكون موضوع تفكير له لاحقًا، مهاراته كوسيط ورجل حوار. وسيظهر أيضًا أنّه مبدع في ممارسات رعويّة أصيلة وجريئة، مثل ”المنشورات“ الشهيرة، التي كانت تُعلَّق في كلّ مكان وحتّى كانت تُمرّر أحيانًا من تحت أبواب البيوت.

عاد إلى باريس في عام 1602، والتزم بالقيام بمهمّة دبلوماسيّة دقيقة، نيابة عن المونسنيور دي جرانيِي نفسه (Mons. de Granier) وبناءً على توجيه دقيق من الكرسيّ الرّسوليّ، بعد التغيير الألف في الإطار السياسي والديني لإقليم أبرشيّة جنيف. على الرّغم من النّوايا الحسنة لملك فرنسا، باءت مهمّته بالفشل. هو نفسه كتب إلى البابا كليمنس الثامن وقال: "بعد تسعة أشهر كاملة، اضطررت إلى أن أعود دون أن أنجز أيّ شيء تقريبًا"[17]. لكن تلك المهمّة كشفت له وللكنيسة غِنًى غير متوقّع من وجهة نظر إنسانيّة وثقافيّة ودينيّة. في وقت الفراغ الذي تركته له المفاوضات الدبلوماسيّة، وعظ فرنسيس بحضور الملك والبلاط الفرنسي، وأقام علاقات مهمّة، ودخل خاصّة في الربيع الرّوحيّ والثقافيّ الرائع لعاصمة المملكة الحديثة.

تغيّر هناك كلّ شيء وما زال يتغيّر. هو نفسه ترك نفسه تتأثّر وتسأل عن المشاكل الكبرى التي نشأت في العالم والطريقة الجديدة لملاحظتها، تأثّر من الإقبال المذهل على الروحانيّة الذي ظهر، ومن الأسئلة غير المسبوقة التي طرحتها. باختصار، لاحظ ”تغيّر العصر“ الحقيقي، الذي أوجبه الرّد عليه من خلال اللغات القديمة والجديدة. لم تكن بالتأكيد المرّة الأولى التي يلتقي فيها بمسيحيّين ممتلئين بالحماس، لكن كان الأمر هنا مختلفًا. لم تكن باريس التي دمّرتها الحروب الدينيّة، التي شهدها في سنوات تنشئته، ولا الصّراع المرير في أراضي شابلي (Chablais). لقد كانت حقيقة غير متوقّعة. كان جَمعٌ من "القدّيسين، من القدّيسين الحقيقيّين، كثيرون وفي كلّ مكان"[18]. كان هناك رجال ونساء من الثقافة، وأساتذة من جامعة السوربون، وممثّلو مؤسّسات، وأمراء وأميرات، وخَدَم، ورهبان وراهبات. عالم متعطّش إلى الله بطرق مختلفة.

كان لقاء هؤلاء الأشخاص والتعرّف على أسئلتهم من أهمّ الظروف التي وفَّرتها له العنايّة الإلهيّة في حياته. وبهذه الطريقة، تحوّلت أيام الفشل والإخفاق الظاهر إلى مدرسة لا تضاهى، من أجل قراءة الأجواء السائدة في ذلك الوقت، من دون تجميلها. كان المجادل الماهر فيه الذي لا يعرف الكلل يتحوّل، بالنعمة، إلى مفسِّرٍ ماهرٍ لعلامات زمنه، وإلى موجِّهٍ غير عادي للنفوس. عمله الرعوي، ومؤلَّفاته الكبرى (مقدمة في حياة العبادة، وخواطر في حبّ الله)، وآلاف رسائل الصّداقة الروحيّة التي ستنتج عنها، والمُرسلة من داخل وخارج جدران الأديرة إلى الرهبان والراهبات، وإلى رجال ونساء البلاط وكذلك إلى الأشخاص العاديّين، واللقاء مع يوحنة فرنشيسكا دي شانتال (Giovanna Francesca di Chantal) مؤسّسة رهبنة الزيارة نفسها التي تأسّست في عام 1610، كلّ ذلك سيكون غير مفهومٍ بدون نقطة التحوّل الداخليّة هذه. وَجَدَ الإنجيلُ والثقافةُ بعد ذلك لقاءً مثمرًا أدّى إلى حَدْس ورؤية طريقة حقيقيّة وصلت إلى مرحلة النضج وكانت جاهزة لحصاد دائم واعد.

في إحدى رسائله الأولى من رسائل الصّداقة الروحيّة، التي أُرسلت إلى إحدى الجماعات التي زارها في باريس، تكلّم فرنسيس دي سالِس، لكن بتواضع، على ”طريقته“، التي تختلف عن غيرها، من أجل إصلاحٍ حقيقي. طريقة تنبذ التشدّد وتعتمد كاملةً على كرامة النفس التقيّة وقدرتها على الرّغم من ضعفها: "أتردّد في ذكر عائق آخر يمكنه أن يعارض إصلاحكم: ربّما الذين فرضوه عليكم قد عالجوا الجرح بشدّة. [...] أنا أثني على طريقتهم، ولو أنّها ليست ما اعتدت استخدامه، خاصّة مع أرواح نبيلة ومهذّبة مثلكم. أعتقد أنّه من الأفضل أن نبيّن لهم الشّرّ ثم نضع المشرط في أيديهم، حتّى يتمكّنوا من القيام بالجرح اللازم في أنفسهم. لكن لا تهملوا، لهذا، الإصلاح الذي تحتاجون إليه"[19]. تعكس هذه الكلمات تلك النظرة التي جعلت التفاؤل الساليزياني مشهورًا، والتي تركت آثارها الدائمة في تاريخ الروحانيّات، من أجل ازدهار حالات مستقبَلَة، كما في حالة دون بوسكو بعد قرنَين من الزمان.

ولمّا عاد إلى أنِسي (Annecy)، رُسم فيها أسقفًا في 8 كانون الأوّل/ديسمبر من نفس العام 1602. كان تأثير خدمته الأسقفيّة على أوروبا في ذلك الوقت وفي القرون التالية كبيرًا جدًّا "كان رسولًا وواعظًا وكاتبًا ورجل عمل وصلاة؛ ملتزمًا بتحقيق غايات المجمع التريدنتيني؛ ومنخرطًا في الجدل والحوار مع البروتستانت، وقد اختبر أكثر فأكثر، ما يتجاوز المواجهة اللاهوتيّة الضروريّة، فعاليّة العلاقات الشخصيّة والمحبّة؛ وكُلِّفَ بمهام دبلوماسيّة على مستوى أوروبا، وقام بوساطات اجتماعيّة ومصالحات"[20]. وفوق كلّ شيء، كان مفسّرًا لتغيّر علامات العصر، ومرشدًا للنفوس في وقت كان يتعطّش إلى الله بطريقة جديدة.

المحبّة تفعل كلّ شيء من أجل أبنائها

بين عامي 1620 و 1621، وهو الآن على حافة الموت، وجّه فرنسيس إلى كاهن من أبرشيّته كلمات قادرة على أن تنير رؤيته لزمنه. شجّعه على أن يسير مع رغبته في تكريس نفسه لكتابة نصوص مبتكرة قادرة على فهم الأسئلة الجديدة، وتبيُّن ضرورتها. "يجب أن أقول لك إنّ المعرفة التي أكتسبها كلّ يوم عن أمزجة العالم تقودني إلى أن أتمنّى بشدّة أن يُلهم الصّلاح الإلهي أحد خدامه للكتابة وليستجيب لطلب هذا العالم المسكين"[21]. وقد وجد سبب هذا التشجيع في نفس رؤيته لذلك الوقت. "أصبح العالم حسّاسًا لدرجة أنّنا لن نجرؤ، بعد قليل، على لمسه، إلّا بقفازات مخمليّة، ولا على تضميد جروحه، إن لم يكن بكمّادات البصل؛ لكن ماذا يهم، إن شُفي البشر ونالوا الخلاص في النهاية؟ ملكتنا، المحبّة، تفعل كلّ شيء من أجل أبنائها"[22]. إنّها ليست نتيجة مفروغًا منها، ولا هي استسلام نهائي أمام هزيمة. بل كان ذلك حدْسًا لتغيير يحدث، وضرورة إنجيليّة تتطلّب فهمه وكيفيّة إمكان العيش فيه.

هذا الوعي نفسه كان قد نضج فيه وعبَّر عنه في مقدّمة ”خواطر في حبّ الله“: "أبقيت في ذهني حاضرةً عقليّة الناس في هذا القرن ولم أستطع أن أفعل غير ذلك؛ فمن المهّم جدًّا مراعاة الوقت الذي تَكتب فيه"[23]. من ثمّ يطلب كَرم القارئ، فيقول: "إن وجدتَ أنّ الأسلوب مختلف قليلًا عن الأسلوب المستخدم في ”الفيلوثيا“ (Filotea) في ”المدخل إلى العبادة“، وكلاهما بعيد جدًّا عن أسلوب ”الدفاع عن الصّليب“، فضع في اعتبارك أنّه في تسعة عشر عامًا يتعلّم الإنسان وينسى أمورًا كثيرة؛ وأنّ لغة الحرب تختلف عن لغة السّلام، ويُكلَّم الشّباب المبتدئون بطريقة، والرفاق القدامى بطريقة أخرى"[24]. لكن، أمام هذا التغيير، من أين نبدأ؟ ليس بعيدًا عن نفس تاريخ الله مع الإنسان. هذا كان القصد النهائي لمؤلَّفِه: "في الواقع، أردت فقط أن أقدّم ببساطة وعفوية، بدون تصنّع، وبأولى حجة، بدون زخرفة، تاريخ ولادة الحبّ الإلهيّ ونموَّه، واختفاءه، وأعماله وميّزاته، وفوائده وسمُوّ صفاته"[25].

أسئلة يطرحها تغيُّر العصر

في مناسبة الذّكرى المئويّة الرّابعة لوفاة القدّيس فرنسيس دي سالِس، تساءلت: ما هو إرثه لعصرنا؟ ووجدت أنّ مرونته وقدرته على الرّؤية هي مصدر نورٍ لنا. كان لديه إدراكٌ واضح لتغيّر الأزمنة، بعضُه عطيّة من الله، وبعضُه يعود إلى ما فيه من صفات طبيعيّة، وأيضًا بسبب تنبُّهِه الدقيق للواقع الذي كان يعيشه. وهو نفسه لم يكن ليتخيّل قط، أن يرى في هذا الواقع فرصة لإعلان الإنجيل. الكلمة التي أحبّها منذ صِباه كانت قادرة على أن تشقّ طريقها، وتفتح آفاقًا جديدة لم يكن من الممكن توقُّعُها، في عالم يمرّ بمرحلة انتقاليّة سريعة.

هذه هي المهمّة الأساسيّة التي تنتظرنا أيضًا في زمننا وفي تغيّر العصر الذي نواجهه. فنكون كنيسةٌ لا تعتبر نفسها مرجعيّة لذاتها، بل متحرّرة من كلّ روح عالميّة لكن قادرة أن تسكن في العالم، وتشارك النّاس حياتهم، وتسير معهم، وتستمع لهم وتستقبلهم[26]. هذا ما فعله فرنسيس دي سالِس، وهو يحاول أن يفهم عصره، بمساعدة النّعمة الإلهيّة. لذلك، هو يدعونا لأن نخرج من القلق المُفرط على أنفسنا، وعلى هيكليّاتنا، وعلى صورتنا في المجتمع، وأن نسأل أنفسنا: ما هي الاحتياجات العمليّة والتوقّعات الروحيّة لشعبنا[27]. لذلك من المهمّ، حتّى اليوم، أن نعيد قراءة بعض خياراته الحاسمة، حتّى نعيش التّغيير بحكمة إنجيليّة.

النّسيم والأجنحة

أوّل هذه الخيارات هو إعادة فهم العلاقة الصحيحة بين الله والإنسان، وإعادة اقتراح على كلّ واحد، ما يناسبه في حالته الخاصّة. في الواقع، إنّ الدّافع النهائي والهدف الحقيقي لكتابه ”الخواطر“، هو بالتّحديد أن يوضح لمعاصريه سحر محبّة الله. كان يتساءل: "ما هي الوسائل المعتادة التي تستخدمها العنايّة الإلهيّة لتجذب قلوبنا إلى محبة الله؟"[28]. انطلاقًا من نصّ هوشع 11، 4[29]، عرّف هذه الوسائل العاديّة بأنّها "روابط إنسانيّة أو روابط محبّة وصداقة". وكتب: "ليس هناك شكّ في أنّنا لسنا منجذبين إلى الله بسلاسل حديديّة، مثل الثيران والجواميس، بل بواسطة نداءات، وقِوَى جاذبة عذبة، وإلهامات مقدّسة، التي هي روابط ”آدم والبشريّة“؛ أيّ إنّها مناسبة وملائمة لقلب الإنسان، الذي بالنّسبة له الحريّة هي أمرٌ طبيعيّ"[30]. بهذه الرّوابط، أخرج الله شعبه من العبوديّة، وعلّمه المشي، وهو ممسكٌ بيده، كما يفعل الأب أو الأم مع طفلهم. من دون أيّ فرضٍ خارجي، أي، من دون أيّة قوّة استبداديّة وتعسّفيّة، ومن دون عنف. بل بالدعوة التي تقنع وتترك حريّة الإنسان سليمة. تابع فرنسيس وهو يفكّر بالتأكيد في أحداث حياة كثيرة واجهها، قائلًا: "النعمة لها قوّة، لكن لا للإكراه، بل لتجذب القلب، فيها عنف مقدّس لا للاعتداء بل لتملأ حرّيتنا بالحبّ، تعمل بقوّة، لكن بعذوبة كثيرة، فلا تُسحق إرادتنا بمثل هذا العمل القويّ، وهي تدفعنا، لكنّها لا تخنق حرّيّتنا: لذلك يمكننا، أمام كلّ قوّتها، أن نقبل أو نقاوم تحرّكاتها، كما نريد"[31].

كان قبل فترة وجيزة، قد وصف هذه العلاقة في المثال الغريب لـلطائر ”الذي لا أرجل له“، قال: "هناك بعض الطّيور، يا تيوتيمو، كان يسمّيها أرسطو بــ ”التي لا أرجل لها“، لأنّ لها أرجلًا قصيرة جدًّا وسيقانًا ضعيفة جدًّا، فلا تقدر أن تستخدمها، كما لو لم يكن لها أرجل. وإذا اتّكأت بالصّدفة على الأرض، فإنّها تظلّ هناك، من دون أن تقدر الطيران، لأنّها، لكونها لا تستخدم أرجلها ولا سيقانها، فهي لا تقدر على أن تدفع نفسها وتنطلق في الهواء، فتبقى على الأرض في وضعيّة متقوقعة وتموت، إلّا إذا عوَّضَت الرّيح عن عجزها، فدفعتها من الأرض ورفعتها كما تفعل مع أشياء أخرى كثيرة. في هذه الحالة، إذا استخدمت أجنحتها، وتجاوبت مع الزّخم والدفعة الأولى التي تمنحها إيّاها الريح، ستستمرّ الرّيح نفسها في مساعدتها، وتدفعها إلى أعلى وأعلى حتّى تساعدها على الطيران من جديد"[32]. هكذا الإنسان: خلقه الله ليطير ويستخدم كلّ إمكانيّاته في الدّعوة إلى المحبّة، لكنّه يوشك أن يصير عاجزًا عن العودة إلى الطيران إذا وقع على الأرض، فلا يقدر أن يفتح جناحيه ثانية لنسيم الرّوح القدس.

هذه هي، إذن، ”الطريقة“ التي بها يعطي الله نعمته للبشر وهي: ”روابط آدم“ الثّمينة والإنسانيّة جدًّا. قوّة الله لا تكُفُّ عن أن تكون قادرة بصورة مطلقة على أن تعيد إليه القدرة على التّحليق، لكن، بلطفها لا تسمح بأن تُنتهَك حرّيّة القبول في الإنسان، أو تكون فيه بلا فائدة. يعود الأمر للإنسان في أن ينهض أو لا. النّعمة لمسته عند صحوته، لكن الله لا يريد أن يكون نهوض الإنسان بلا موافقة الإنسان. وهكذا خَلُص القديس فرنسيس إلى خاتمة تأمّله، قال: "يا تيوتيمو، الإلهامات تستبق أعمالنا، ونشعر بها قبل أن ننتبه، لكن بعد أن ننتبه، يعود الأمر لنا للموافقة، فنؤيّدها ونسير بحسب دوافعها، أو لا نوافق ونرفضها: نشعر بها من دوننا، لكن لا يمكن أن يكون الرضى بدوننا"[33]. لذلك، العلاقة مع الله، هي اختبار المجّانية التي تؤكّد عمق محبّة الآب.

ومع ذلك، لا تجعل هذه النعمة الإنسان مُتَلَقِّيًا سلبيًّا فقط. لكنّنا نفهم أنّ حبّ الله يسبقنا دائمًا، وأوّل هبة منه هي بالتّحديد قبولُنا لمحبّته نفسها. ومع ذلك، يجب على كلّ واحد أن يتعاون من أجل تحقيق نفسه، وينشر جناحيه بثقة فيرتفع مع نسيم الله. ونرى هنا جانبًا مهمًّا لدعوتنا الإنسانيّة: "إنّ المهمّة التي أوكلها الله إلى آدم وحواء في قصّة سفر التكوين هي أن يكونا مثمرين. وأُوكِلت إلى الإنسانيّة مهمّة تغيير الخليقة وبنائها والسّيطرة عليها، وهي مهمّة إيجابيّة تعني أن نَخلِقَ بها ومعها. لهذا، لا يعتمد المستقبل على آليّة غير مرئيّة يكون فيها البشر متفرّجين سلبيّين. لا، نحن شخصيّات رئيسيّة، نحن – مع التشدّيد على الكلمة –مشاركون في الخلق"[34]. هذا ما فهمه فرنسيس دي سالِس جيّدًا وحاول أن ينقله إلى الآخرين أثناء خدمته مرشدًا روحيًّا.

التّقوى الحقيقيّة

الخيار الثّاني الكبير والحاسم هو طرحه لموضوع التّقوى. وفي هذا الموضوع أيضًا، كما في يومنا هذا، أثار تغيّر العصر الكثير من الأسئلة. هناك جانبان خصوصًا، يجب أن نفهمهما اليوم أيضًا ونعيد إطلاقهما. الأوّل هو فكرة التّقوى نفسها، والثّاني صفاتها العالميّة والشعبيّة. أوّل ما نجده في بداية ”الفيلوثيا“ (Filotea) هي الإشارة، أوّلًا، إلى ما هو المقصود بالتّقوى. "من الضروري، أوّلًا، أن تعرف ما هي فضيلة التّقوى. هناك تقوى حقيقيّة واحدة فقط، وكثير من الطرق التقويّة الخاطئة والباطلة؛ وإن لم تقدر أن تعرف التّقوى الحقيقة، ستقع في الخطأ وتهدر وقتك في الجري وراء بعض التعبّدات السّخيفة والخرافية"[35].

وصفُ فرنسيس دي سالِس للتّقوى الزّائفة هو دائمًا ممتعٌ وواقعي، وليس من الصعب أن نجد أنفسنا في ما قال، ليس من دون بعض الدعابة السليمة: "من فَرَضَ على نفسه الصّيام، يظنّ أنّه تقيّ لأنّه لا يأكل، بينما قلبه مملوء حقدًا. وبينما لا يشعر بالرّغبة في أن يبلّ لسانه بالخمر أو حتّى بالماء، لأنّه صائم، لن يتردّد في غمسه بِدَمِ قريبه بالنّميمة والافتراء. وسيعتقد آخر أنّه تقيّ لأنّه يتمتم سلسلة لا تنتهي من الصّلوات طوال اليوم؛ ولن يهتمّ للكلمات السيّئة، والمتغطرسة والمُهينة التي يلفظها لسانه طول النهار تجاه الخدّام والجيران. وسوف يضع آخرٌ يده بكلّ سرور في محفظته ليعطي صدقة للفقراء، لكنّه لن يستطيع أن ينتزع من قلبه ذرّة من الطّيبة لمسامحة أعدائه؛ أو قد يكون هناك من يغفر لأعدائه، ولكن لن يخطر حتّى على باله أن يسدّد ديونه؛ إلّا أن يذهب إلى المحكمة"[36]. من الواضح أنّها رذائل ومصاعب كلّ العصور، حتّى اليوم، ولهذا اختتم القدّيس قائلًا: "كلّ هؤلاء النّاس الطيّبون، يُعتبَرون بحسب الرّأي العام أتقياء، لكنّهم ليسوا كذلك على الإطلاق"[37].

كلّ ما هو جديد في التّقوى وحقيقتها نجده في مكان آخر، في جذور مرتبطة ارتباطًا وثيقًا بالحياة الإلهيّة فينا. بهذه الطّريقة "التّقوى الحقيقيّة والحيّة [...] تتطلّب محبّة الله، فقط محبّة لله الحقيقيّة؛ وليس محبّة بشكل عام"[38]. في مخيّلته المتّقدة، التّقوى، "باختصار، ليست سوى نوع من الرّشاقة والحيويّة الروحيّة التي من خلالها تعمل المحبّة فينا، أو، إذا أردنا، نحن نعمل من خلالها، بسرعة وحنان"[39]. لهذا ليست التّقوى أمرًا إلى جانب المحبّة، بل هي مظهر من مظاهرها، ومعها تقودنا إليها. إنّها كاللهب مقارنة بالنّار: إنّها تُحيي شدّتها دون أن تغيّر نوعيّتها. "في الختام، يمكن القول إنّ المحبّة والتّقوى تختلفان الواحدة عن الأخرى مثل النّار واللهب. المحبّة نار روحيّة، وعندما تشتعل بلهب شديد يُقال لها التّقوى: تُضيف التّقوى إلى نار المحبّة فقط الشّعلة التي تجعل المحبّة جاهزة، وفاعلة ومثابرة، ليس فقط في حفظ وصايا الله، بل أيضًا في ممارسة المشورات وإلهامات السّماء"[40]. التّقوى، بهذا المفهوم، ليست شيئًا تجريديًّا. بل هي أسلوب حياة، وطريقة للعيش في صلب الحياة اليوميّة. إنّها تجمع وتفسّر الأمور الصغيرة في حياة كلّ يوم، المأكل والملبس، والعمل والتّرفيه، والحبّ والولادة، والاهتمام بالالتزامات المهنيّة؛ باختصار، إنّها تُنير دعوة كلّ واحد.

يمكننا أن نُدرك هنا الجذور الشعبيّة للتّقوى، والتي تمّ تأكيدها في السّطور الأولى ”للفيلوثيا“ (Filotea): "كلّ الذين عالجوا موضوع التّقوى تقريبًا، اهتموا بتعليم أشخاص منعزلين عن العالم، أو على الأقل، علّموهم نوعًا من التّقوى يؤدّي إلى هذه العزلة. أنا أنوي أن أقدّم تعاليمي إلى الذين يعيشون في المدن، وفي عائلات، وفي المحاكم، والذين بحكم حالتهم، هم مجبرون، بسبب المقتضيات الاجتماعيّة، على العيش مع الآخرين"[41]. لهذا يُخطئ كثيرًا مَن يفكّر في ربط التّقوى ببعض الأماكن المحميّة والخاصّة. على العكس، هي للجميع ومن أجل الجميع، أينما كنّا، ويمكن لكلّ واحدٍ أن يمارسها بحسب دعوته. كتب البابا القدّيس بولس السّادس في الذّكرى المئويّة الرّابعة لولادة فرنسيس دي سالِس، قال: "ليست القداسة امتيازًا لطبقة اجتماعيّة أو لأخرى؛ بل هي الدّعوة المُلحّة الموجّهة إلى جميع المسيحيّين: ”قُمْ إِلى فَوق، يا أَخي“ (لوقا 14، 10)؛ الكلّ ملزمون بأن يصعدوا جبل الله، حتّى لو لم يتّخذوا كلّهم الطّريق نفسها. التّقوى يمارسها بشكل مختلف الرجل النّبيل، والحِرَفي، والنّادل، والأمير، والأرملة، والشابّة، والعروس. وأكثر من ذلك، يجب أن تتكيّف ممارسة التّقوى مع قِوى كلّ واحد، وأعماله وواجباته"[42]. العيش في المدينة الدنيويّة، والحفاظ على الحياة الدّاخليّة، والجمع بين الرّغبة في الكمال مع كلّ حالة من حالات الحياة، وإيجاد هدف لا يفصلنا عن العالم، بل يعلّمنا العيش فيه، وتقديره، ويعلّمنا في الوقت نفسه المحافظة على المسافة اللازمة عنه: كان هذا هو هدف ”الفيلوثيا“ (Filotea)، وما زال ذلك درسًا قيّمًا لكلّ امرأة ورجل في عصرنا.

هذا هو موضوع المجمع في الدّعوة الشاملة إلى القداسة: "مزوّدين بمثل هذه الوسائل الخلاصيّة الوافرة والعظيمة، المؤمنون بالمسيح أيًّا كان وضعهم وحالهم، يدعوهم الله، كلَّ واحد في طريقه، الى قداسة تجد كمالها في الآب بالذات"[43]. ”كلّ واحد في طريقه“. "فيجب إذًا ألّا يفقد المرء الشّجاعة عندما يتأمّل أمثلة القداسة التي تبدو له بعيدة المنال"[44]. إنّ أمُّنا الكنيسة تقدِمّهم لنا لا لنحاول أن نقلّدهم، لكن لأنّهم يحفّزوننا على أن نسير على الطّريق الوحيد والمحدّد الذي فكّر فيها الله من أجلنا. "ما يهمُّ هو أن يميِّز ويعرف كلُّ مؤمن مسيرته ويُظهر أفضل ما في ذاته، والمواهب التي منحه الله إيّاها (راجع 1 قورنتس 12، 7)"[45].

نشوة الحياة

كلّ هذا دفع الأسقف القدّيس إلى اعتبار الحياة المسيحيّة بكاملها "نشوة العمل والحياة"[46]. ومع ذلك، ينبغي ألّا نخلط بينها وبين الهروب السّهل أو الانطواء على الذات، ولا هي الطّاعة الحزينة والرماديّة. نحن نعلم أنّ هذا الخطر موجود دائمًا في حياة الإيمان. في الواقع، "هناك مسيحيّون يبدون وكأنّهم متلبّسون سيماءَ صيام بدون فصح. [...] إنّي أتفهّم الأشخاص الذين يحزنون بسبب مصاعب يثقل عليهم حملها، إلّا أنّه يجب أن نسمحَ، شيئًا فشيئًا، لفرح الإيمان أن يبدأ فيستيقظ، كأنّه مسنود بثقة خفيّة لكن صامدة، حتّى وسط أشدّ الهموم"[47].

أن نسمح للفرح بأن يستيقظ هو بالضّبط ما عبّر عنه فرنسيس دي سالِس في وصفه ”نشوة العمل والحياة“. قال: بفضلها "لا نحيا فقط حياةً مدنيّة، وصادقة ومسيحيّة، بل حياةً فوق بشريّة، وروحيّة، وتقيّة وصوفيّة، أي حياةً خارج حالتنا الطبيعيّة وفوقها بأيّ حالٍ من الأحوال"[48]. نحن هنا في الصفحات الرئيسيّة وأكثرها إشراقًا لكتاب ”الخواطر“. النّشوة هي الإفراط المُبهج للحياة المسيحيّة، والتي تذهب إلى أبعد من الاعتدال الفاتر في مجرّد التقيّد بالأحكام: "لا تسرق، لا تكذب، لا تزن، صلّ إلى الله، لا تحلف كذبًا، أحبِب أباك وأكرمه، لا تقتل. كلّ هذا عَيش بحسب العقل الطبيعيّ للإنسان؛ لكن التخلّي عن كلّ ممتلكاتك، ومحبّة الفقر، وتسميته ”السّيّدة الطيّبة“، واعتبار العار، والازدراء، والذّل، والاضطهاد، والاستشهاد سعادة وتطويبات، وأن تبقَى ضمن حدود العفّة المطلقة، وأخيرًا، أن تعيِش في العالم وفي هذه الحياة الفانية ضدّ كلّ آراء وحِكَم العالم وعكس التيّار لنهر هذه الحياة، مع استسلامٍ مُعتاد، وتخلٍّ وإنكارٍ للذّات، هذا ليس عيشًا بحسب الطّبيعة البشريّة، بل فوق الطّبيعة البشريّة؛ هذا ليس عيشًا في داخل ذاتك، بل في خارج ذاتك وفوق ذاتك: وبما أنّه لا يمكن لأحدٍ أن يخرج بهذه الطّريقة إلى ما فوق نفسه ما لم يجتذبه الآب الأزليّ، ينتج عن ذلك أنّ طريقة الحياة يجب أن تكون اختطافًا مستمرًّا ونشوة دائمة في الفعل والعمل"[49].

إنّها الحياة التي أعادت اكتشاف ينابيع الفرح، ضدّ كلّ جفاف فيها، وضدّ تجربة الانطواء على الذات. في الواقع، "إنّ مجازفة عالم اليوم الكبيرة، بما يقدّم من وسائل استهلاكٍ كثيرة وضاغطة، هي أن يغرق في حزن فردي نابعٌ من قلبٍ مستريح وبخيل، ومن البحث السّقيم عن ملاذّ سطحيّة، وضمير منعزل. عندما تنغلق الحياة الداخليّة على مصالحها الذاتيّة، لا يبقى محلّ للآخرين، فلا الفقراء يدخلون، ولا يُسمعُ صوت الله، ولا يتمتّع بفرح الحبّ العذب، ولا يعودُ ينبضُ فيه الاندفاع إلى عمل الخير. حتّى المؤمنون يتعرّضون لهذه المجازفة الأكيدة والدّائمة. كثيرون يرزحون تحت عبئها ويتحوّلون إلى أشخاص عابسين مستائين، لا حياة فيهم"[50].

أخيرًا، يضيف القدّيس فرنسيس دي سالِس، في وصفه ”نشوة العمل والحياة“، تحديدَين مهمّين لعصرنا أيضًا. الأوّل هو المعيار الفعّال لتمييز الحقيقة في نمط الحياة هذه. والثاني، هو مصدره العميق. بالنّسبة إلى معيار التمييز، يؤكّد أنّه إذا كانت هذه النّشوة تؤدّي من جهة إلى خروج حقيقيّ من الذّات، فإنّ هذا لا يعني من جهة أخرى التخلّي عن الحياة. من المهم ألّا تنسى هذا أبدًا، حتّى نتجنّب انحرافات خطيرة. بمعنى آخر، من يفترض أنّه ارتفع نحو الله، وهو لا يعيش محبّة القريب، فهو يخدع نفسه والآخرين.

نجد هنا المعيار نفسه الذي طبّقه فرنسيس على نوعيّة التّقوى الحقيقيّة. "عندما نقابل شخصًا يعيش انخطافات في صلاته، وبها يخرج ويرتفع فوق نفسه إلى الله، ومع ذلك لا يشعر بنشوة الحياة، أي لا يعيش حياة رفيعة ومرتبطة بالله، [...] خصوصًا من خلال محبّة مستمرّة، صدّقني يا تيوتيمو، انخطافاته كلّها مشكوكٌ فيها وخطيرة جدًّا". والخاتمة مهمّة جدًّا، قال: "أن تكون فوق نفسك في الصّلاة وتحت نفسك في الحياة والعمل، وأن تكون ملائكيًّا في التأمّل وحيوانيًّا في المحادثة [...] هذه علامة حقيقيّة على أنّ هذه الانخطافات وهذه النّشوة ليست سوى تسلية وخداع من الرّوح الشرّيرة"[51]. إنّها الخلاصة لما ذكَّر به بولس أهل قورنتس في نشيد المحبّة، قال: "لَو كانَ لِيَ الإِيمانُ الكامِلُ فأَنقُلَ الجِبال، ولَم تَكُنْ لِيَ المَحَبَّة، فما أَنا بِشَيء. ولَو فَرَّقتُ جَميعَ أَموالي لإِطعامِ المَساكين، ولَو أَسلَمتُ جَسَدي لِيُحرَق، ولَم تَكُنْ لِيَ المَحبَّة، فما يُجْديني ذلكَ نَفْعًا" (1 قورنتس 13، 2-3).

لذلك، بالنّسبة للقدّيس فرنسيس دي سالِس، لا تكون الحياة المسيحيّة أبدًا من دون نشوة، ومع ذلك، النّشوة ليست حقيقيّة من دون الحياة. في الواقع، توشك الحياة من دون النّشوة أن تتحوّل إلى طاعة مُبهَمَة، وإلى إنجيل نَسِيَ فرحه. من ناحية أخرى، النّشوة من دون الحياة تعرّض نفسها بسهولة إلى وهم وخداع الشّرّير. لا يمكن حلّ التّناقضات الكبيرة في الحياة المسيحيّة في ما بينها. بل تُحافظ إحداها على أصالة الأخرى. بهذه الطريقة، لا تكون الحقيقة من دون عدل، ولا المسرَّة من دون المسؤوليّة، ولا العفويّة من دون القانون، والعكس صحيح.

أمّا بالنّسبة للمصدر العميق لهذه النّشوة، فقد ربطها فرنسيس بحكمةٍ بالحبّ الذي أظهره الابن المتجسّد. إذا كان صحيحًا، من ناحية، أنّ "الحبّ هو الفعل الأوّل والمبدأ الأوّل لحياتنا التقويّة أو الروحيّة، التي من خلالها نعيش، ونشعر ونتأثّر"، ومن ناحية أخرى، أنّ "الحياة الروحيّة هي مثل حركاتنا العاطفيّة"، يكون من الواضح أنّ "القلب الذي لا عاطفة فيه، لا محبّة فيه"، وكذلك "قلب فيه محبّة، لا يمكن أن يكون بدون حركة عاطفيّة"[52]. إنّ مصدر هذا الحبّ الذي يجذب القلب هو حياة يسوع المسيح: "لا شيء يضغط على قلب الإنسان مثل الحبّ"، وقمّة هذا الضّغط أنّ "يسوع المسيح مات من أجلنا، وأعطانا الحياة بموته. ونحن نحيا فقط لأنّه مات، ومات من أجلنا وفينا ولمنفعتنا"[53].

إنّ هذه الإشارة مؤثّرة، وهي تُظهِر، بالإضافة إلى رؤية مشعّة وغير محسومة للعلاقة بين الله والإنسان، الرّباط العاطفي الوثيق الذي ربط الأسقف القدّيس بالرّبّ يسوع. إنّ حقيقة نشوة الحياة والعمل ليست أمرًا عامًّا، بل هي التي تظهر في صورة محبّة المسيح، والتي بلغت ذروتها على الصّليب. لا تُلغي هذه المحبّة الحياة، بل تجعلها تتجلّى بصورة غير عاديّة.

لهذا، وصف القدّيس فرنسيس دي سالِس الجلجلة، بصورة جميلة جدًّا، قال إنّها "جبل العُشّاق"[54]. هناك، وفقط هناك، يمكننا أن نفهم أنّه "لا يمكن أن تكون فينا الحياة من دون المحبّة، ولا المحبّة من دون موت الفادي: وما عدا ذلك، إمّا موت أبدي أو محبّة أبديّة، وكلّ الحكمة المسيحيّة تقوم بمعرفة الاختيار جيدًّا"[55]. هكذا كان فرنسيس بإمكانه أن يُنهي كتابه ”الخواطر“، مشيرًا إلى خاتمةِ خطابٍ للقدّيس أغسطينس في المحبّة: "ما هو بالنسبة لكم أكثر إخلاصًا من المحبّة؟ إخلاص ليس للفاني بل للأبدي. إنّها تتحمّل كلّ شيء في الحياة الحاضرة، لأنّها تؤمن بكلّ شيء عن الحياة المستقبلَة: إنّها تتحمّل كلّ الأمور التي أعطيت لنا لنتحمّلها، لأنّها تترجّى كلّ ما وُعِدْنا به هناك. بالتأكيد ليس للمحبّة نهاية. لذلك، مارسوا المحبّة، وأثمروا العدل والبر بتأمّلكم فيها بطريقة مقدّسة. وإن وجدتم، في تسبيحكم لها، أمورًا أخرى لم أخبركم بها الآن، سترونها في طريقة حياتكم"[56].

هذا ما يظهر من حياة القدّيس أسقف آنسِي، وهذا ما سلَّمه مرّة أخرى لكلّ واحدٍ منّا. لتساعدنا الذّكرى المئويّة الرّابعة لميلاده في السّماء أن نحيي ذكراه بتقوى؛ وليسكب الرّبّ يسوع بشفاعته مواهب الرّوح القدس بغزارة على طريق شعب الله المقدّس المؤمن.

روما، بازيليكا القدّيس يوحنا في اللاتران، يوم 28 كانون الأوّل/ديسمبر 2022.

فرنسيس

[02021-AR.01] [Testo originale: Italiano]

[B0959-XX.02]

 

[1] القديس فرنسيس دي سالِس، خواطر في حبّ الله، مقدمة: طبعه رافيي - ديفوس، باريس 1969، 336.

S. Francesco di Sales, Traité de l’amour de Dieu, Préface: ed. Ravier – Devos, Paris 1969, 336.

[2] المؤلّف نفسه، رسالة 2103: إلى السيّد سيلفستر دي ساليس ديلا منتي، رئيس دير أوتيكومب (3 تشرين الثاني/نوفمبر 1622)، في مؤلفات القديس فرنسيس دي سالِس، 26، آنسي 1932، 490-491.

Id., Lett. 2103: A Monsieur Sylvestre de Saluces de la Mente, Abbé d'Hautecombe (3 nov. 1622), in Œuvres de Saint François de Sales, XXVI, Annecy 1932, 490-491.

[3] المؤلّف نفسه، رسالة 1961، إلى سيّدة (19 كانون الأوّل/ديسمبر 1622)، في مؤلفات القديس فرنسيس دي سالِس، 20 (رسائل، 10: 1621-1622)، آنسي 1918، 395.

Id., Lett. 1961: À une dame (19 dic. 1622), in Œuvres de Saint François de Sales, XX (Lettres, X: 1621-1622), Annecy 1918, 395.

[4] المؤلّف نفسه، خواطر في حبّ الله، 1، 15: طبعه رافيي - ديفوس، باريس 1969، 395.

Id., Traité de l’amour de Dieu, I, 15: ed. Ravier – Devos, Paris 1969, 395.

[5] المؤلّف نفسه، أحاديث روحيّة، آخر حديث [21]: طبعه رافيي - ديفوس، باريس 1969، 1319.

Id., Entretiens spirituels, Dernier entretien [21]: ed. Ravier – Devos, Paris 1969, 1319.

[6] الإرشاد الرسولي، اِفَرحوا وابتَهِجوا (19 آذار/مارس 2018)، 49: أعمال الكرسي الرّسولي 110 (2018)، 1124.

Esort. ap. Gaudete et exsultate (19 marzo 2018), 49: AAS 110 (2018), 1124.

[7] المرجع نفسه، 57: أعمال الكرسي الرّسولي 110 (2018)، 1127.

Ibid., 57: AAS 110 (2018), 1127.

[8] راجع المرجع نفسه، 37-39: أعمال الكرسي الرّسولي 110 (2018)، 1121-1122.

Cfr ibid., 37-39: AAS 110 (2018), 1121-1122.

[9] القديس فرنسيس دي سالِس، أحاديث روحيّة، آخر حديث [21]: طبعه رافيي - ديفوس، باريس 1969، 1319.

S. Francesco di Sales, Entretiens spirituels, Dernier entretien [21]: ed. Ravier – Devos, Paris 1969, 1319.

[10] المرجع نفسه، 1308.

[11] المرجع نفسه.

[12] رسالة إلى المونسنيور إيف بوافينو (Mons. Yves Boivineau)، أسقف آنسي، في مناسبة الذكرى المئويّة الرابعة بعد المائة للسيامة الأسقفية للقديس فرنسيس دي سالِس، 23 تشرين الثاني/نوفمبر 2002، 3: تعاليم يوحنا بولس الثاني، 25/2 (2002)، 767.

[13] القديس فرنسيس دي سالِس، خواطر في حبّ الله، مقدمة: طبعه رافيي - ديفوس، باريس 1969، 336.

S. Francesco di Sales, Traité de l’amour de Dieu, Préface: ed. Ravier – Devos, Paris 1969, 336.

[14] بندكتس السادس عشر، تعليم مسيحي، 2 آذار/مارس 2011، تعاليم، 7/1 (2011)، 270.

Benedetto XVI, Catechesi, 2 marzo 2011: Insegnamenti, VII/1 (2011), 270.

[15] القديس فرنسيس دي سالِس، شذرات من الكتابات الحميمة، 3: فعل الاستسلام البطولي، في مؤلفات القديس فرنسيس دي سالِس، 22 (كتيبات، 1)، آنسي 1925، 41.

S. Francesco di Sales., Fragments d’écrits intimes, 3: Acte d’abandon héroïque, in Œuvres de Saint François de Sales, XXII (Opuscules, I), Annecy 1925, 41.

[16] راجع كلمة إلى اللجنة اللاهوتية الدولية (29 تشرين الثاني/نوفمبر 2019): L’Osservatore Romano، 30 تشرين الثاني/نوفمبر 2019، صفحة 8.

Cfr Discorso alla Commissione Teologica Internazionale (29 nov. 2019): L’Osservatore Romano, 30 novembre 2019, p. 8.

[17] القديس فرنسيس دي سالِس، رسالة 165: إلى قداسة البابا كليمنس الثامن (نهاية تشرين الأوّل/أكتوبر 1602)، في مؤلفات القديس فرنسيس دي سالِس، 12 (رسائل، 2: 1599-1604)، آنسي 1902، 128.

S. Francesco di Sales, Lett. 165: À Sa Sainteté Clément VIII (fine ottobre 1602), in Œuvres de Saint François de Sales, XII (Lettres, II: 1599-1604), Annecy 1902, 128.

[18] هنري بريموند، المذهب الإنساني المتدين: 1580-1660، في التاريخ الأدبي للمشاعر الدينية في فرنسا: من نهاية الحروب الدينية حتى يومنا هذا، 1، جيروم ميلون، غرنوبل 2006، 131.

H. Bremond, L’humanisme dévôt: 1580-1660, in Histoire littéraire du sentiment religieux en France: depuis la fin des guerres de religion jusqu’à nos jours, I, Jérôme Millon, Grenoble 2006, 131.

[19] القديس فرنسيس دي سالِس، رسالة 168: إلى راهبات دير ”بنات-الله“ (22 تشرين الثاني/نوفمبر 1602)، في مؤلفات القديس فرنسيس دي سالِس، 12 (رسائل، 2: 1599-1604)، آنسي 1902، 105.

S. Francesco di Sales, Lett. 168: Aux religieuses du monastère des «Filles-Dieu» (22 novembre 1602), in Œuvres de Saint François de Sales, XII (Lettres, II: 1599-1604), Annecy 1902,105.

[20] بندكتس السادس عشر، تعليم مسيحي، 2 آذار/مارس 2011: تعاليم، 7/1 (2011)، 272.

Benedetto XVI, Catechesi, 2 marzo 2011: Insegnamenti, VII/1 (2011), 272.

[21] القديس فرنسيس دي سالِس، رسالة 1869: إلى السيّد بيير جي (1620 أو 1621)، في مؤلفات القديس فرنسيس دي سالِس، 20 (رسائل، 10: 1621-1622)، آنسي 1918، 219.

S. Francesco di Sales, Lett. 1869: À M. Pierre Jay (1620 o 1621), in Œuvres de Saint François de Sales, XX (Lettres, X: 1621-1622), Annecy 1918, 219.

[22] المرجع نفسه.

[23] المؤلّف نفسه، خواطر في حبّ الله، مقدمة: طبعه رافيي - ديفوس، باريس 1969، 339.

Id., Traité de l’amour de Dieu, Préface: ed. Ravier – Devos, Paris 1969, 339.

[24] المرجع نفسه، 347.

[25] المرجع نفسه، 338-339.

[26] راجع كلمة قداسة البابا فرنسيس في اللقاء مع الأساقفة والكهنة والرّهبان والرّاهبات والإكليريكيّين ومعلّمي التّعليم المسيحي، براتيسلافا، 13 أيلول/سبتمبر 2021: L’Osservatore Romano، 13 أيلول/سبتمبر 2021، صفحة 11-12.

Cfr Discorso ai vescovi, sacerdoti, religiosi, seminaristi e catechisti, Bratislava, 13 settembre 2021: L’Osservatore Romano, 13 settembre 2021, pp. 11-12.

[27] راجع المرجع نفسه.

[28] القديس فرنسيس دي سالِس، خواطر في حبّ الله، 2، 12: طبعه رافيي - ديفوس، باريس 1969، 444.

S. Francesco di Sales, Traité de l’amour de Dieu, II, 12: ed. Ravier – Devos, Paris 1969, 444.

[29] "بِحِبالِ البَشَرِ [فولجاتا: بِحبال آدم]ِ، بِرَوابِطِ الحُبِّ اجتَذَبتُهم وكُنتُ لَهم كمَن يَرفَعُ الرَّضيعَ إِلى وَجنَتَيه، وانحَنَيتُ علَيه وأَطعَمتُه".

[30] القديس فرنسيس دي سالِس، خواطر في حبّ الله، 2، 12: طبعه رافيي - ديفوس، باريس 1969، 444.

S. Francesco di Sales, Traité de l’amour de Dieu, II, 12: ed. Ravier – Devos, Paris 1969, 444.

[31] المرجع نفسه، 2، 12: 444-445.

[32] المرجع نفسه، 2، 9: 434.

[33] المرجع نفسه، 2، 12: 446.

[34] لنعد لنحلم. الطريق من أجل مستقبل أفضل، محاورة مع أوستين ايڤيريج، ميلانو، 2020، 8.

Ritorniamo a sognare. La strada per un futuro migliore, Conversazione con Austen Ivereigh, Piemme, Milano 2020, 8.

[35] القديس فرنسيس دي سالِس، مدخل إلى حياة التّقوى، 1، 1: طبعه رافيي - ديفوس، باريس 1969، 31.

S. Francesco di Sales, Introduction à la vie dévote, I, 1: ed. Ravier – Devos, Paris 1969, 31.

[36] المرجع نفسه: 31-32.

[37] المرجع نفسه: 32.

[38] المرجع نفسه.

[39] المرجع نفسه.

[40] المرجع نفسه: 33.

[41] المرجع نفسه، مقدمة: طبعه رافيي - ديفوس، باريس 1969، 23.

[42] رسالة بابويّة، جوهرة سافويا في مناسبة الذكّرى المئويّة الرّابعة لميلاد القديس فرنسيس دي سالِس معلّم الكنيسة (29 كانون الثّاني/يناير 1967): أعمال الكرسي الرّسولي 59 (1967)، 119.

Epist. Ap. Sabaudiae gemma nel IV centenario della nascita di San Francesco di Sales, dottore della Chiesa (29 gennaio 1967): AAS 59 (1967), 119.

[43] المجمع الفاتيكاني الثاني، دستور عقائدي في الكنيسة، نور الأمم، رقم 11.

[44] الإرشاد الرّسولي، اِفَرحوا وابتَهِجوا، رقم 11: أعمال الكرسي الرّسولي 110 (2018)، 1114.

Esort. ap. Gaudete et exsultate, 11: AAS 110 (2018), 1114.

[45] المرجع نفسه.

[46] القديس فرنسيس دي سالِس، خواطر في حبّ الله، 7، 6: طبعه رافيي - ديفوس، باريس 1969، 682.

S. Francesco di Sales, Traité de l’amour de Dieu, VII, 6: ed. Ravier – Devos, Paris 1969, 682.

[47] الإرشاد الرّسولي، فرح الإنجيل (24 تشرين الثاني/نوفمبر 2013)، رقم 6: أعمال الكرسي الرّسولي 105 (2013)، 1021-1022.

Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 6: AAS 105 (2013), 1021-1022.

[48] القديس فرنسيس دي سالِس، خواطر في حبّ الله، 7، 6: طبعه رافيي - ديفوس، باريس 1969، 682-683.

S. Francesco di Sales, Traité de l’amour de Dieu, VII, 6: ed. Ravier – Devos, Paris 1969, 682-683.

[49] المرجع نفسه: 683.

[50] الإرشاد الرّسولي، فرح الإنجيل، رقم 2: أعمال الكرسي الرّسولي 105 (2013)، 1019-1020.

Esort. ap. Evangelii gaudium, 2: AAS 105 (2013), 1019-1020.

[51] القديس فرنسيس دي سالِس، خواطر في حبّ الله، 7، 7: طبعه رافيي - ديفوس، باريس 1969، 685.

S. Francesco di Sales, Traité de l’amour de Dieu, VII, 7: ed. Ravier – Devos, Paris 1969, 685.

[52] المرجع نفسه، 684.

[53] المرجع نفسه، 7، 8: 687-688.

[54] المرجع نفسه، 12، 13: 971.

[55] المرجع نفسه.

[56] خطابات القديس أغسطينس، 350، 3: المؤلفات اللاتينية لأباء الكنيسة، 39، 1535.