Sala Stampa

www.vatican.va

Sala Stampa Back Top Print Pdf
Sala Stampa


Udienza del Santo Padre alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, 22.12.2022


Discorso del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Traduzione in lingua araba

Questa mattina, nell’Aula della Benedizione del Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Francesco ha ricevuto in Udienza i Cardinali e i Superiori della Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi.

Nel corso dell’incontro, il Papa ha rivolto alla Curia Romana il discorso che riportiamo di seguito:

Discorso del Santo Padre

Cari fratelli e care sorelle!

1. Il Signore ci dà ancora una volta la grazia di celebrare il mistero della sua nascita. Ogni anno, ai piedi del Bambino che giace nella mangiatoia (cfr Lc 2,12), veniamo messi nella condizione di guardare la nostra vita a partire da questa speciale luce. Non è la luce della gloria di questo mondo, ma «la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,9). L’umiltà del figlio di Dio che viene nella nostra condizione umana è per noi scuola di adesione alla realtà. Così come Egli sceglie la povertà, che non è semplicemente assenza di beni, ma essenzialità, allo stesso modo ognuno di noi è chiamato a ritornare all’essenziale della propria vita, per buttare via tutto ciò che è superfluo e che può diventare impedimento nel cammino di santità. E questo cammino di santità non va negoziato.

2. È però importante avere chiaro che quando si esamina la propria esistenza o il tempo trascorso, bisogna sempre avere come punto di partenza la memoria del bene. Infatti, solo quando siamo consapevoli del bene che il Signore ci ha fatto siamo anche in grado di dare un nome al male che abbiamo vissuto o subito. Essere consapevoli della nostra povertà senza esserlo anche dell’amore di Dio ci schiaccerebbe. In questo senso l’atteggiamento interiore a cui dovremmo dare più importanza è la gratitudine.

Il Vangelo, per spiegarci in che cosa essa consiste, ci racconta la storia dei dieci lebbrosi che furono tutti sanati da Gesù; solo uno però torna indietro a ringraziare, un samaritano (cfr Lc 17,11-19). L’atto di ringraziare ottiene a quest’uomo, oltre alla guarigione fisica, la salvezza totale (cfr v. 19). L’incontro con il bene che Dio gli ha concesso non si ferma cioè alla superficie, ma tocca il cuore. È così: senza un costante esercizio di gratitudine finiremmo solo per fare l’elenco delle nostre cadute e oscureremmo ciò che più conta, cioè le grazie che il Signore ci concede ogni giorno.

3. Molte cose sono accadute in questo ultimo anno, e innanzitutto vogliamo dire grazie al Signore per tutti i benefici che ci ha concesso. Ma tra tutti questi benefici speriamo che ci sia anche la nostra conversione. Essa non è mai un discorso concluso. La cosa peggiore che possa accaderci è pensare di non avere più bisogno di conversione, a livello sia personale sia comunitario.

Convertirsi è imparare sempre di più a prendere sul serio il messaggio del Vangelo e tentare di metterlo in pratica nella nostra vita. Non è semplicemente prendere le distanze dal male, è mettere in pratica tutto il bene possibile: questo è convertirsi. Davanti al Vangelo rimaniamo sempre come dei bambini bisognosi di imparare. Presumere di avere imparato tutto ci fa cadere nella superbia spirituale.

Quest’anno sono ricorsi i sessant’anni dall’inizio del Concilio Vaticano II. Cos’è stato l’evento del Concilio se non una grande occasione di conversione per tutta la Chiesa? San Giovanni XXIII a questo proposito disse: «Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio». La conversione che il Concilio ci ha donato è stato il tentativo di comprendere meglio il Vangelo, di renderlo attuale, vivo, operante in questo momento storico.

Così, come più volte era già accaduto nella storia della Chiesa, anche nella nostra epoca come comunità di credenti ci siamo sentiti chiamati a conversione. E questo percorso è tutt’altro che concluso. L’attuale riflessione sulla sinodalità della Chiesa nasce proprio dalla convinzione che il percorso di comprensione del messaggio di Cristo non ha fine e ci provoca continuamente.

Il contrario della conversione è il fissismo, cioè la convinzione nascosta di non avere bisogno di nessuna comprensione ulteriore del Vangelo. È l’errore di voler cristallizzare il messaggio di Gesù in un'unica forma valida sempre. La forma invece deve poter sempre cambiare affinché la sostanza rimanga sempre la stessa. L’eresia vera non consiste solo nel predicare un altro Vangelo (cfr Gal 1,9), come ci ricorda Paolo, ma anche nello smettere di tradurlo nei linguaggi e nei modi attuali, cosa che proprio l’Apostolo delle genti ha fatto. Conservare significa mantenere vivo e non imprigionare il messaggio di Cristo.

4. Il vero problema, però, che tante volte dimentichiamo, è che la conversione non solo ci fa accorgere del male per farci scegliere il bene, ma nello stesso tempo spinge il male ad evolversi, a diventare sempre più insidioso, a mascherarsi in maniera nuova affinché facciamo fatica a riconoscerlo. È una vera lotta. Il tentatore torna sempre, e torna travestito.

Gesù nel Vangelo usa un paragone che ci aiuta a comprendere quest’opera che è fatta di tempi e modi diversi: «Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo, ciò che possiede è al sicuro. Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via le armi nelle quali confidava e ne spartisce il bottino» (Lc 11,21-22). Il nostro primo grande problema è confidare troppo in noi stessi, nelle nostre strategie, nei nostri programmi. È lo spirito pelagiano di cui più volte ho parlato. Allora alcuni fallimenti sono una grazia, perché ci ricordano che non dobbiamo confidare in noi stessi, ma solo nel Signore. Alcune cadute, anche come Chiesa, sono un grande richiamo a rimettere Cristo al centro. Perché «Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde» (Lc 11,23). È così semplice.

Cari fratelli e care sorelle, è troppo poco denunciare il male, anche quello che serpeggia in mezzo a noi. Ciò che si deve fare è decidere una conversione davanti ad esso. La semplice denuncia può darci l’illusione di aver risolto il problema, ma in realtà quello che conta è operare dei cambiamenti che ci mettano nella condizione di non lasciarci più imprigionare dalle logiche del male, che molto spesso sono logiche mondane. In questo senso, una delle virtù più utili da praticare è quella della vigilanza. Gesù descrive la necessità di questa attenzione su noi stessi e sulla Chiesa – la necessità della vigilanza – attraverso un esempio efficace: «Quando lo spirito impuro esce dall’uomo – dice Gesù –, si aggira per luoghi deserti cercando sollievo e, non trovandone, dice: “Ritornerò nella mia casa, da cui sono uscito”. Venuto, la trova spazzata e adorna. Allora va, prende altri sette spiriti peggiori di lui, vi entrano e vi prendono dimora. E l’ultima condizione di quell’uomo diventa peggiore della prima» (Lc 11,24-26). La nostra prima conversione riporta un certo ordine: il male che abbiamo riconosciuto e tentato di estirpare dalla nostra vita, effettivamente si allontana da noi; ma è da ingenui pensare che rimanga lontano per lungo tempo. In realtà, dopo un po’ si ripresenta a noi sotto una nuova veste. Se prima appariva rozzo e violento, ora invece si comporta in maniera più elegante ed educata. Allora abbiamo ancora una volta bisogno di riconoscerlo e smascherarlo. Permettetemi l’espressione: sono i “demoni educati”: entrano con educazione, senza che io me ne accorga. Solo la pratica quotidiana dell’esame di coscienza può far sì che ce ne rendiamo conto. Per questo si vede l’importanza dell’esame di coscienza, per vigilare la casa.

Nel secolo XVII – per esempio – ci fu il famoso caso delle monache di Port Royal. Una delle loro abbadesse, Madre Angelica, era partita bene: aveva “carismaticamente” riformato sé stessa e il monastero, respingendo dalla clausura perfino i genitori. Era una donna piena di doti, nata per governare, ma poi diventò l’anima della resistenza giansenista, mostrando una chiusura intransigente persino davanti all’autorità ecclesiastica. Di lei e delle sue monache si diceva: "Pure come angeli, superbe come demoni". Avevano scacciato il demonio, ma poi era tornato sette volte più forte e, sotto la veste dell’austerità e del rigore, aveva portato rigidità e presunzione di essere migliori degli altri. Sempre torna: il demonio, cacciato via, torna; travestito, ma torna. Stiamo attenti!

5. Gesù, nel Vangelo, racconta molte parabole rivolte soprattutto a ben pensanti, a scribi e farisei, con l’intento di portare alla luce l’inganno di sentirsi giusti e disprezzare gli altri (cfr Lc 18,9). Ad esempio, nelle cosiddette parabole della misericordia (cfr Lc 15), Egli narra non solo le storie della pecorella smarrita o del figlio minore di quel povero padre, che si vede trattato da morto proprio da quest’ultimo, le quali ci ricordano che il primo modo di peccare è andarsene, perdersi, fare cose evidentemente sbagliate; ma in quelle parabole parla anche della dracma perduta e del figlio maggiore. Il paragone è efficace: ci si può perdere anche in casa, come nel caso della moneta di quella donna; e si può vivere infelici pur rimanendo formalmente nel recinto del proprio dovere, come accade al figlio maggiore del padre misericordioso. Se, per chi va via, è facile accorgersi della distanza, per chi rimane in casa è difficile rendersi conto di quanto si viva all’inferno, per la convinzione di essere solo vittime, trattati ingiustamente dall’autorità costituita e, in ultima analisi, da Dio stesso. E quante volte ci succede questo, qui, a casa!

Cari fratelli e care sorelle, a tutti noi sarà successo di perderci come quella pecorella o di allontanarci da Dio come il figlio minore. Sono peccati che ci hanno umiliato, e proprio per questo, per grazia di Dio, siamo riusciti ad affrontarli a viso scoperto. Ma la grande attenzione che dobbiamo prestare in questo momento della nostra esistenza è dovuta al fatto che formalmente la nostra vita attuale è in casa, tra le mura dell’istituzione, a servizio della Santa Sede, nel cuore stesso del corpo ecclesiale; e proprio per questo potremmo cadere nella tentazione di pensare di essere al sicuro, di essere migliori, di non doverci più convertire.

Noi siamo più in pericolo di tutti gli altri, perché siamo insidiati dal “demonio educato”, che non viene facendo rumore ma portando fiori. Scusatemi, fratelli e sorelle, se a volte dico cose che possono suonare dure e forti, non è perché non creda nel valore della dolcezza e della tenerezza, ma perché è bene riservare le carezze agli affaticati e agli oppressi, e trovare il coraggio di “affliggere i consolati”, come amava dire il servo di Dio don Tonino Bello, perché a volte la loro consolazione è solo l’inganno del demonio e non un dono dello Spirito.

6. Infine, un’ultima parola la vorrei riservare al tema della pace. Tra i titoli che il profeta Isaia attribuisce al Messia c’è quello di «Principe della pace» (9,5). Mai come in questo momento sentiamo un grande desiderio di pace. Penso alla martoriata Ucraina, ma anche a tanti conflitti che sono in atto in diverse parti del mondo. La guerra e la violenza sono sempre un fallimento. La religione non deve prestarsi ad alimentare conflitti. Il Vangelo è sempre Vangelo di pace, e in nome di nessun Dio si può dichiarare “santa” una guerra.

Dove regnano morte, divisione, conflitto, dolore innocente, lì noi possiamo solo riconoscere Gesù crocifisso. E in questo momento è proprio a chi più soffre che vorrei si rivolga il nostro pensiero. Ci vengono in aiuto le parole di Dietrich Bonhoeffer, che dal carcere dove era prigioniero scriveva: «Guardando la cosa da un punto di vista cristiano, non può essere un problema particolare trascorrere un Natale nella cella di una prigione. Molti, in questa casa, celebreranno probabilmente un Natale più ricco di significato e più autentico di quanto non avvenga dove di questa festa non si conserva che il nome. Un prigioniero capisce meglio di chiunque altro che miseria, sofferenza, povertà, solitudine, mancanza di aiuto e colpa hanno, agli occhi di Dio, un significato completamente diverso che nel giudizio degli uomini; che Dio volge lo sguardo proprio verso coloro da cui gli uomini sono soliti distoglierlo; che Cristo nacque in una stalla perché non aveva trovato posto nell’albergo; tutto questo per un prigioniero è veramente un lieto annunzio» (Resistenza e resa, Cinisello Balsamo - MI, Ed. Paoline, 1988, 324).

7. Cari fratelli e care sorelle, la cultura della pace non la si costruisce solo tra i popoli e tra le nazioni. Essa comincia nel cuore di ciascuno di noi. Mentre soffriamo per l’imperversare di guerre e violenze, possiamo e dobbiamo dare il nostro contributo alla pace cercando di estirpare dal nostro cuore ogni radice di odio e risentimento nei confronti dei fratelli e delle sorelle che vivono accanto a noi. Nella Lettera agli Efesini leggiamo queste parole, che ritroviamo anche nella preghiera di Compieta: «Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo» (4,31-32). Possiamo domandarci: quanta asprezza c’è nel nostro cuore? Che cos’è che la alimenta? Da cosa nasce lo sdegno che molto spesso crea distanze tra di noi e alimenta rabbia e risentimento? Perché la maldicenza in tutte le sue declinazioni diventa l’unico modo che abbiamo per parlare della realtà?

Se è vero che vogliamo che il clamore della guerra cessi lasciando posto alla pace, allora ognuno inizi da sé stesso. San Paolo ci dice chiaramente che la benevolenza, la misericordia e il perdono sono la medicina che abbiamo per costruire la pace.

La benevolenza è scegliere sempre la modalità del bene per rapportarci tra di noi. Non esiste solo la violenza delle armi, esiste la violenza verbale, la violenza psicologica, la violenza dell’abuso di potere, la violenza nascosta delle chiacchiere, che fanno tanto male e distruggono tanto. Davanti al Principe della Pace che viene nel mondo, deponiamo ogni arma di ogni genere. Ciascuno non approfitti della propria posizione e del proprio ruolo per mortificare l’altro.

La misericordia è accettare che l’altro possa avere anche i suoi limiti. Anche in questo caso è giusto ammettere che persone e istituzioni, proprio perché sono umane, sono anche limitate. Una Chiesa pura per i puri è solo la riproposizione dell’eresia catara. Se così non fosse, il Vangelo, e la Bibbia in generale, non ci avrebbero raccontato limiti e difetti di molti che oggi noi riconosciamo come santi.

Infine il perdono è concedere sempre un’altra possibilità, cioè capire che si diventa santi per tentativi. Dio fa così con ciascuno di noi, ci perdona sempre, ci rimette sempre in piedi e ci dona ancora un’altra possibilità. Tra di noi deve essere così. Fratelli e sorelle, Dio non si stanca mai di perdonare, siamo noi a stancarci di chiedere perdono.

Ogni guerra per essere estinta ha bisogno di perdono, altrimenti la giustizia diventa vendetta, e l’amore viene riconosciuto solo come una forma di debolezza.

Dio si è fatto bambino, e questo bambino, diventato grande, si è lasciato inchiodare sulla croce. Non c’è cosa più debole di un uomo crocifisso, eppure in quella debolezza si è manifestata l’onnipotenza di Dio. Nel perdono opera sempre l’onnipotenza di Dio. La gratitudine, la conversione e la pace siano allora i doni di questo Natale.

Auguro a tutti buon Natale! E ancora una volta vi chiedo di non dimenticarvi di pregare per me. Grazie!

[02011-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Chers frères et sœurs !

1. Le Seigneur nous donne une fois encore la grâce de célébrer le mystère de sa naissance. Chaque année, aux pieds de l'Enfant qui repose dans la mangeoire (cf. Lc 2, 12), nous sommes mis en condition pour regarder notre vie sous cette lumière particulière. Ce n'est pas la lumière de la gloire de ce monde, mais « la vraie lumière, qui éclaire tout homme » (Jn 1, 9). L'humilité du Fils de Dieu venant dans notre condition humaine est pour nous une école d'adhésion à la réalité. De même qu'Il a choisi la pauvreté, qui n'est pas simplement une absence de biens mais sobriété, de même chacun de nous est appelé à revenir à l'essentiel de sa vie, afin de se débarrasser de tout ce qui est superflu et qui peut devenir un obstacle sur le chemin de la sainteté. Et ce chemin de sainteté ne se négocie pas.

2.  Il est important, cependant, d’avoir clairement à l’esprit que, lorsque nous examinons notre existence et le temps écoulé, il faut toujours commencer par se souvenir du bien. En effet, ce n'est que lorsque nous sommes conscients du bien que le Seigneur nous a fait que nous sommes alors capables de nommer le mal que nous avons vécu ou subi. Etre conscient de notre pauvreté sans l’être aussi de l'amour de Dieu, nous écraserait. En ce sens, l'attitude intérieure à laquelle nous devrions accorder le plus d'importance est la gratitude.

L'Évangile, pour nous expliquer en quoi celle-ci consiste, nous raconte l'histoire des dix lépreux, tous guéris par Jésus ; un seul, cependant, revient pour remercier, un Samaritain (cf. Lc 17, 11-19). Le fait de remercier obtient pour cet homme, en plus de la guérison physique, le salut total (cf. v. 19). La rencontre avec le bien que Dieu lui a accordé ne s'arrête pas à la surface, mais touche son cœur. C’est ainsi : sans un exercice constant de gratitude, nous ne ferions que dresser la liste de nos chutes, et nous occulterions ce qui compte le plus, à savoir les grâces que le Seigneur nous accorde chaque jour.

3. Beaucoup de choses se sont produites au cours de l'année écoulée, et nous voulons tout d'abord dire merci au Seigneur pour tous les bienfaits qu'il nous a accordés. Mais parmi tous ces bienfaits, nous espérons qu'il y a aussi notre conversion. Celle-ci n'est jamais une affaire réglée. La pire chose qui puisse nous arriver est de penser que nous n'avons plus besoin de conversion, tant au niveau personnel que communautaire.

Se convertir, c'est apprendre de plus en plus à prendre au sérieux le message de l'Évangile et essayer de le mettre en pratique dans notre vie. Ce n'est pas simplement prendre de la distance par rapport au mal, c'est mettre en pratique tout le bien qu’il est possible de faire :  c’est cela se convertir. Devant l'Évangile, nous restons toujours comme des enfants qui ont besoin d'apprendre. Croire que nous avons tout appris nous fait tomber dans l'orgueil spirituel.

Cette année a été marquée par le soixantième anniversaire du début du concile Vatican II. Qu’a été l'événement du Concile si ce n'est une grande occasion de conversion pour toute l'Église ? Saint Jean XXIII disait à ce propos : « Ce n'est pas l'Évangile qui change, c'est nous qui commençons à mieux le comprendre ». La conversion que le Concile nous a offerte a consisté dans la volonté de mieux comprendre l'Évangile, de le rendre plus actuel, vivant, opérant en ce moment de l’histoire.

Ainsi, comme cela s'est déjà produit plusieurs fois dans l'histoire de l'Église, nous nous sommes sentis, aussi à notre époque, appelés à la conversion en tant que communauté de croyants. Et ce chemin est loin d'être terminé. La réflexion actuelle sur la synodalité de l'Église découle précisément de la conviction que le parcours de compréhension du message du Christ est sans fin et nous interpelle continuellement.

Le contraire de la conversion, c’est le fixisme, c'est-à-dire la conviction cachée de n'avoir besoin d'aucune autre compréhension de l'Évangile. C'est l'erreur de vouloir cristalliser le message de Jésus dans une forme unique qui serait toujours valide. Au contraire, la forme doit toujours pouvoir changer pour que la substance reste toujours la même. La véritable hérésie ne consiste pas seulement à prêcher un autre Évangile (cf. Ga 1, 9), comme le rappelle Paul, mais aussi à omettre de traduire celui-ci dans les languages et les modalités actuels, ce qu’a fait précisément l'Apôtre des Gentils. Conserver signifie maintenir vivant le message du Christ et non l'emprisonner.  

4. Mais le vrai problème, que nous oublions souvent, c'est que la conversion, non seulement nous fait prendre conscience du mal pour que nous puissions choisir le bien, mais en même temps elle pousse le mal à évoluer, à devenir de plus en plus insidieux, à se déguiser sous de nouvelles formes pour que nous ayons du mal à le reconnaître. C'est une véritable lutte. Le Tentateur revient toujours, et il revient déguisé.

Dans l'Évangile, Jésus utilise une comparaison qui nous aide à comprendre cette action qui est faite de différents moments et de différentes manières : « Quand l’homme fort et bien armé garde son palais, tout ce qui lui appartient est en sécurité. Mais si un plus fort survient et triomphe de lui, il lui enlève son armement auquel il se fiait, et il distribue tout ce dont il l’a dépouillé » (Lc 11, 21-22). Notre premier grand problème est de trop nous fier à nous-mêmes, à nos stratégies, à nos programmes. C'est l'esprit pélagien dont j'ai parlé à plusieurs reprises. En fait, certains échecs sont une grâce, car ils nous rappellent que nous ne devons pas nous fier à nous-mêmes, mais seulement au le Seigneur. Certaines chutes, y compris en tant qu'Église, sont un rappel important pour remettre le Christ au centre. Car « celui qui n’est pas avec moi est contre moi ; celui qui ne rassemble pas avec moi disperse » (Lc 11, 23). C'est aussi simple que cela.

Chers frères et sœurs, c'est trop peu de dénoncer le mal, y compris celui qui serpente entre nous. Ce qu'il faut faire, c'est, face à lui, décider une conversion. La simple dénonciation peut nous donner l'illusion d'avoir résolu le problème mais, en réalité, ce qui importe c'est d'opérer des changements qui nous mettent en condition de ne plus nous laisser emprisonner par les logiques du mal, qui sont très souvent des logiques mondaines. En ce sens, l'une des vertus les plus utiles à pratiquer est celle de la vigilance. Jésus décrit la nécessité de cette attention à nous-mêmes et à l'Église - le besoin de vigilance - à travers un exemple efficace : « Quand l’esprit impur est sorti de l’homme, il parcourt des lieux arides en cherchant où se reposer. Et il ne trouve pas. Alors il se dit : “Je vais retourner dans ma maison, d’où je suis sorti”. En arrivant, il la trouve balayée et bien rangée. Alors il s’en va, et il prend d’autres esprits encore plus mauvais que lui, au nombre de sept ; ils entrent et s’y installent. Ainsi, l’état de cet homme-là est pire à la fin qu’au début » (Lc 11, 24-26). Notre première conversion apporte un certain ordre : le mal que nous avons reconnu et essayé d'éradiquer de notre vie s'éloigne effectivement de nous. Mais il est naïf de penser qu'il restera loin pour longtemps. Après un certain temps, il se présente à nouveaux à nous sous de nouveaux vêtements. S'il semblait auparavant grossier et violent, il se comporte maintenant de manière plus élégante et bien élevée.  Nous devons alors de nouveau le reconnaître et le démasquer. Permettez-moi cette expression : ce sont les "démons bien élevés" : ils entrent poliment, sans que je m'en aperçoive. Seule la pratique quotidienne de l'examen de conscience peut faire que nous nous en rendions compte. Pour cette raison nous voyons l'importance de l'examen de conscience, pour veiller sur la maison.

Au XVIIe siècle – par exemple – il y eut le célèbre cas des moniales de Port Royal. L'une de leurs abbesses, Mère Angélique, avait pris un bon départ : elle s'était réformée elle-même, de manière "charismatique", ainsi que le monastère, renvoyant de la clôture même ses parents. Elle était une femme pleine de talents, née pour gouverner. Mais après elle devint l'âme de la résistance janséniste, faisant preuve d'une fermeture intransigeante y compris devant l'autorité ecclésiastique. D'elle et de ses moniales, on disait : "Pures comme des anges, orgueilleuses comme des démons". Elles avaient chassé le démon, mais il était ensuite revenu sept fois plus fort et, sous le couvert de l’austérité et de la rigueur, il avait apporté la rigidité et la présomption d'être meilleures que les autres. Il revient toujours : le démon, chassé, revient ; déguisé, mais il revient. Soyons vigilants !

5. Jésus, dans l'Évangile, raconte de nombreuses paraboles qui s'adressent principalement aux bien-pensants, aux scribes et aux pharisiens, dans le but de mettre en lumière la supercherie qui consiste à se sentir juste et à mépriser les autres (cf. Lc 18, 9). Par exemple, dans les paraboles dites de la miséricorde (cf. Lc 15), Il raconte non seulement les histoires de la brebis perdue ou du fils cadet de ce pauvre père qui le considéré comme mort, histoires qui nous rappellent que la première façon de pécher est de s’éloigner, de se perdre, de faire des choses manifestement mauvaises. Mais, dans ces paraboles, Il parle aussi de la drachme perdue et du fils aîné. La comparaison est efficace : on peut se perdre même à la maison, comme dans le cas de la pièce de monnaie de cette femme ; et on peut vivre malheureux tout en restant formellement dans l'enceinte de son devoir, comme cela arrive au fils aîné du père miséricordieux. Si, pour ceux qui partent, il est facile de se rendre compte de la distance, pour ceux qui restent chez eux, il est difficile de se rendre compte à quel point l’on vit un enfer à cause de la conviction de n’être que des victimes, traitées injustement par l'autorité constituée et, en définitive, par Dieu lui-même. Et combien de fois cela nous arrive-t-il, ici, à la maison !

Chers frères et sœurs, il nous sera à tous arrivé de nous perdre comme la brebis, ou de nous détourner de Dieu comme le fils cadet. Ce sont des péchés qui nous ont humiliés et c'est précisément pour cette raison que, par la grâce de Dieu, nous avons pu les regarder en face. Mais la grande attention que nous devons avoir à ce moment de notre existence doit porter sur le fait que, formellement, notre vie se déroule à la maison, entre les murs de l'institution, au service du Saint-Siège, au cœur même du corps ecclésial ; et, précisément à cause de cela, nous pouvons tomber dans la tentation de penser que nous sommes en sécurité, que nous sommes meilleurs, que nous n'avons plus besoin de nous convertir.

Nous sommes en danger plus que tous les autres, car nous sommes tentés par le "démon bien élevé" qui ne vient pas en faisant du bruit mais en apportant des fleurs. Excusez-moi, frères et sœurs, si je dis parfois des choses qui peuvent sembler dures et fortes, ce n'est pas parce que je ne crois pas à la valeur de la douceur et de la tendresse, mais parce qu'il est bon de réserver les caresses aux personnes fatiguées et opprimées, et de trouver le courage d'"affliger les consolés", comme aimait à le dire le serviteur de Dieu don Tonino Bello, parce que parfois leur consolation n'est qu'une ruse du diable et non un don de l'Esprit. 

6. Enfin, un dernier mot que je voudrais réserver au thème de la paix. Parmi les titres que le prophète Ésaïe attribue au Messie figure celui de « Prince de la paix » (9, 5). Jamais comme en ce moment nous n’avons ressenti un si grand désir de paix. Je pense à l'Ukraine martyrisée, mais aussi aux nombreux conflits qui se déroulent en différentes parties du monde. La guerre et la violence sont toujours un échec. La religion ne doit pas se prêter à alimenter les conflits. L'Évangile est toujours un Évangile de paix, et une guerre ne peut être déclarée "sainte" au nom d'aucun Dieu.

Là où règnent la mort, la division, le conflit, la souffrance des innocents, nous ne pouvons que reconnaître Jésus crucifié. Et, en ce moment, c'est précisément vers ceux qui souffrent le plus que je voudrais que nos pensées se tournent. Nous sommes aidés par les paroles de Dietrich Bonhoeffer qui écrivait dans la prison où il était incarcéré : « Regardant les choses d’un point de vue chrétien, ce n’est pas un problème particulier que de passer Noel dans la cellule d’une prison. Beaucoup, dans cette maison, célébreront probablement un Noel plus riche de signification et plus authentique que là où il ne reste de cette fête que le nom. Un prisonnier comprend, mieux que personne, que misère, souffrance, pauvreté, solitude, abandon et faute ont, aux yeux de Dieu, un sens complètement différent que celui qu’en donnent les hommes ; que Dieu tourne son regard justement vers ceux de qui les hommes ont l’habitude de se détourner ; que le Christ est né dans une étable parce qu’il n’avait pas trouvé de place à l’hôtellerie ; tout cela, pour un prisonnier, est vraiment une heureuse annonce » (Résistance et soumission, Cinisello Balsamo - MI, Ed. Paoline, 1988, p. 324).

7. Chers frères et sœurs, la culture de la paix ne se construit pas seulement entre peuples et nations. Elle commence dans le cœur de chacun d'entre nous. Alors que nous souffrons du déchaînement des guerres et de la violence, nous pouvons et devons apporter notre contribution à la paix en essayant de déraciner de nos cœurs toute racine de haine et de ressentiment envers les frères et les sœurs qui vivent à nos côtés. Dans l'Épître aux Éphésiens, nous lisons ces mots que nous retrouvons également dans la prière des Complies : « Amertume, irritation, colère, éclats de voix ou insultes, tout cela doit être éliminé de votre vie, ainsi que toute espèce de méchanceté. Soyez entre vous pleins de générosité et de tendresse. Pardonnez-vous les uns aux autres, comme Dieu vous a pardonné dans le Christ » (4, 31-32). Nous pouvons nous demander : quelle amertume y-a-t-il dans notre cœur ? Qu'est-ce qui la nourrit ? Quelle est la source de l'indignation qui, très souvent, crée une distance entre nous et alimente la colère et le ressentiment ? Pourquoi la médisance, dans toutes ses déclinaisons, devient-elle le seul moyen que nous avons pour parler de la réalité ?

S'il est vrai que nous voulons que la clameur de la guerre cesse faisant place à la paix, il faut alors que chacun commence par lui-même. Saint Paul nous dit clairement que la bienveillance, la miséricorde et le pardon sont les remèdes dont nous disposons pour construire la paix.

La bienveillance, c'est toujours choisir la modalité du bien pour entrer en relation entre nous. Il n'y a pas que la violence des armes, il y a la violence verbale, la violence psychologique, la violence de l'abus de pouvoir, la violence cachée des bavardages, qui font tant de mal et détruisent tant de choses. Devant le Prince de la Paix qui vient dans le monde, déposons toutes les armes de toutes sortes. Que personne ne profite de sa position et de son rôle pour mortifier l'autre.

La miséricorde consiste à accepter que l'autre puisse aussi avoir ses limites. Là aussi, il est juste d'admettre que les personnes et les institutions, précisément parce qu'elles sont humaines, sont également limitées. Une Église pure pour les purs n'est qu'une répétition de l'hérésie cathare. S'il n'en était pas ainsi, l'Évangile, et la Bible en général, ne nous auraient pas raconté les limites et les défauts de beaucoup de ceux que nous reconnaissons aujourd'hui comme des saints.  

Enfin, le pardon consiste à accorder une nouvelle chance, c'est-à-dire à comprendre que nous devenons des saints par tâtonnement. Dieu fait cela avec chacun de nous, il nous pardonne toujours, il nous remet toujours sur pied et nous donne une nouvelle chance. Entre nous, il doit en être ainsi. Frères et sœurs, Dieu ne se lasse pas de pardonner, c'est nous qui nous lassons de demander pardon.

Toute guerre, pour s'éteindre, a besoin du pardon, sinon la justice devient vengeance, et l'amour n'est reconnu que comme une forme de faiblesse.

Dieu s'est fait enfant, et cet enfant, devenu grand, s'est laissé clouer sur la croix. Il n'y a  pas de choses plus faible qu'un homme crucifié, et pourtant, dans cette faiblesse, la toute-puissance de Dieu s’est manifestée. Dans le pardon, la toute-puissance de Dieu opère toujours. Que la gratitude, la conversion et la paix soient donc les dons de ce Noël.

Je vous souhaite, à chacun, un joyeux Noël ! Et encore une fois, je vous demande de ne pas oublier de prier pour moi. Merci!

[02011-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

Dear brothers and sisters!

1. Once more, the Lord grants us the grace of celebrating the mystery of his birth. Each year, kneeling before the Child lying in the manger (cf. Lk 2:12), we can look at our lives in this special light. It is not the light of the glory of this world, but “the true light, which enlightens everyone” (Jn 1:9). The humility of the Son of God who partook of our human condition is, for us, a lesson in seeing things as they really are. Just as he chose poverty, which is not merely the absence of wealth, but utter simplicity, so too, each of us is called to return to what is essential in our own lives, to discard all that is superfluous and a potential hindrance on the path of holiness. And that path of holiness is non-negotiable.

2. At the same time, we need to realize clearly that in reviewing our lives and our past, we should always begin with the remembrance of all the good we have known. For only when we are conscious of the Lord’s goodness to us can we also give a name to the evil that we have experienced or endured. The realization of our poverty, without the realization of God’s love, would crush us. Consequently, the interior attitude that we should deem most important is gratitude.

The Gospel, to explain this gratitude, recounts the story of the ten lepers who were all healed by Jesus; yet only one of them, a Samaritan, returned to thank him (cf. Lk 17:11-19). His act of thanksgiving obtained for him, in addition to his physical healing, complete salvation (cf. v. 19). His encounter with the goodness bestowed on him by God was not superficial; it touched his very heart. That is how it is: without a constant exercise of gratitude, we would end up simply cataloguing our failures and lose sight of what counts most: the graces that the Lord grants us each day.

3. Much has happened in the course of this year and, before anything else, we want to thank the Lord for all his blessings. Yet we hope that among those blessings is that of our conversion. Conversion is a never-ending story. The worst thing that could happen to us is to think that we are no longer in need of conversion, either as individuals or as a community.

To be converted is to learn ever anew how to take the Gospel message seriously and to put it into practice in our lives. It is not simply about avoiding evil but doing all the good that we can. That is what it means to be converted. Where the Gospel is concerned, we are always like children needing to learn. The illusion that we have learned everything makes us fall into spiritual pride.

This year marked the sixtieth anniversary of the opening of the Second Vatican Council. What was the Council if not a great moment of conversion for the entire Church? As Saint John XXIII observed: “The Gospel does not change; it is we who begin to understand it more fully”. The conversion that the Council sparked was an effort to understand the Gospel more fully and to make it relevant, living and effective in our time.

As had happened many other times in the Church’s history, so too in our own time, we felt called, as a community of believers, to conversion. This process is far from complete. Our current reflection on the Church’s synodality is the fruit of our conviction that the process of understanding Christ’s message never ends, but constantly challenges us.

The contrary of conversion is “immobility”, the secret belief that we have nothing else to learn from the Gospel. This is the error of trying to crystallize the message of Jesus in a single, perennially valid form. Instead, its form must be capable of constantly changing, so that its substance can remain constantly the same. True heresy consists not only in preaching another gospel (cf. Gal 1:9), as Saint Paul told us, but also in ceasing to translate its message into today’s languages and ways of thinking, which is precisely what the Apostle of the Gentiles did. To preserve means to keep alive and not to imprison the message of Christ.

4. The true problem, however, and it is one that we often overlook, is that conversion does not only make us aware of evil so that we can choose the good; it also forces evil to change its tactics, to become more insidious, to find new disguises that will be hard for us to see through. The battle is real. The tempter keeps coming back, disguised, but he comes back.

In the Gospel, Jesus uses a parable to illustrate how this battle takes place at different times and in different ways: “When a strong man, fully armed, guards his castle, his property is safe. But when one stronger than he attacks him and overpowers him, he takes away the armour in which he trusted and divides his plunder” (Lk 11:21-22). The first major problem is when we put too much trust in ourselves, our strategies and our programmes. This is the “pelagianism” of which I have often spoken. Some of our failures are in fact a grace, for they remind us that we should not put our trust in ourselves, but in the Lord alone. Some of our failings, also as a Church, are a forceful summons to put Christ back at the centre, for, as he says, “Whoever is not with me is against me, and whoever does not gather with me scatters” (Lk 11:23). It is that easy.

Dear brothers and sisters, it is not enough to condemn evil, including the evil that quietly lurks among us. We need to respond by choosing to be converted. Mere condemnation can give the illusion that we have solved the problem, whereas what really counts is making the changes that will ensure that we no longer allow ourselves to be imprisoned by evil ways of thinking, which are often those of this world. One of the most helpful virtues to practice in this regard is the virtue of vigilance. Jesus uses a striking example to illustrate the need for vigilance, attentiveness to ourselves and to the Church. He tells us: “When the unclean spirit has gone out of a person, it wanders through waterless regions looking for a resting place, but not finding any, it says, ‘I will return to my house from which I came’. When it comes, it finds it swept and put in order. Then it goes and brings seven other spirits more evil than itself, and they enter and live there; and the last state of that person is worse than the first” (Lk 11:24-26). Our initial conversion follows a certain pattern: the evil that we acknowledge and try to uproot from our lives does indeed leave us, but we would be naïve to think that it will long be gone. In short order, it comes back under a new guise. Before, it appeared rough and violent, now it shows up as elegant and refined. We need to realize that and once again to unmask it. Let me put it this way: they are “elegant demons”: they enter smoothly, without our even being conscious of them. Only the daily practice of the examination of conscience can enable us to be aware of them. Hence the importance of the examination of conscience, to keep watch over our house.

In the seventeenth century, for example, there was the well-known case of the nuns of Port Royal. One of their abbesses, Mère Angélique, had begun well; she had “charismatically” reformed herself and her monastery, even banishing parents from the cloister. She was a very gifted woman, born to govern, but then she became the soul of the Jansenist resistance, intransigent and unbending even in the face of ecclesiastical authority. Of her and her nuns, it was said that they were “pure as angels and proud as demons”. They had cast out the demon, but he had returned seven times stronger, and under the guise of austerity and rigour he had introduced rigidity and the presumption that they were better than others. The demon, once cast out, always returns; albeit under another guise, but he does return. Let us be attentive!

5. In the Gospel, Jesus tells many parables aimed at the righteous, the scribes and the Pharisees, in order to unmask their illusion of feeling themselves just and despising others (cf. Lk 18:9). For example, in the so-called parables of mercy (cf. Lk 15), he tells the stories of the lost sheep and of the younger son of that poor father, who considers himself treated as dead precisely by the latter. These parables remind us that the first way to sin is to go off, to go astray, and to do what is clearly wrong. Yet these parables also include those of the lost drachma and the elder son. These parables hit the mark: we can be lost even at home, like the coin of that woman, and we can be unhappy even while formally remaining faithful to our duties, like the elder son of the merciful father. For those who set out and go astray, it is easy to recognize how far they have wandered; for those who remain at home, it is not easy to appreciate the hell they are living in, convinced that they are mere victims, treated unjustly by constituted authority and, in the last analysis, by God himself. How often this happens here, at home!

Dear brothers and dear sisters, all of us have had the experience of getting lost, like that sheep, or of leaving God behind, like that younger son. These sins have caused us humiliation and for this very reason, by God’s grace, we were able to face them squarely. At this time in our lives, we need to pay greater attention to the fact that, in a formal sense, we are now living “at home”, within the walls of the institution, in the service of the Holy See, at the heart of the Church. Precisely for this reason, we could easily fall into the temptation of thinking we are safe, better than others, no longer in need of conversion.

Yet we are in greater danger than all others, because we are beset by the “elegant demon”, who does not make a loud entrance, but comes with flowers in his hand. Pardon me, brothers and sisters, if at times I say things that may sound harsh and pointed; it is not because I don’t believe in the value of kindness and persuasion. Rather, it is because it is good to keep our caresses for the weary and the oppressed, and to have the courage to “afflict the comfortable”, as the Servant of God Don Tonino Bello liked to say. For there are times when the comfort they enjoy is only the deception of the devil and not a gift of the Spirit.

6. I would like to say one last word about the subject of peace. Among the titles that the prophet Isaiah gives the Messiah is that of “Prince of Peace” (9:5). Never as at this time have we felt so great a desire for peace. I think of war-torn Ukraine, but also of the many ongoing conflicts in different parts of our world. War and violence are always a catastrophe. Religion must not lend itself to fueling conflicts. The Gospel is always a Gospel of peace, and in the name of no God can one declare a war to be “holy”.

Wherever death, division, conflict and innocent suffering reign, there we can recognize only the crucified Jesus. At this time, it is precisely to those who are suffering most greatly that I would like our thoughts to turn. We can be helped by the words of Dietrich Bonhoeffer, who from his prison cell wrote: “Viewed from a Christian perspective, Christmas in a prison cell can, of course, hardly be considered particularly problematic. Most likely, many of those in this building will celebrate a more meaningful and authentic Christmas than in places where it is celebrated in name only. That misery, sorrow, poverty, loneliness, helplessness and guilt mean something quite different in the eyes of God than according to human judgement; that God turns towards the very places from which men turn away; that Christ was born in a stable because there was no room for him in the inn – a prisoner grasps this better than others, and for him this is truly good news” (Letters and Papers from Prison, Letter to his Parents, 17 December 1943).

7. Dear brothers and dear sisters, the culture of peace is not built up solely between peoples and nations. It begins in the heart of every one of us. Anguished as we are by the spread of wars and violence, we can and must make our own contribution to peace by striving to uproot from our hearts all hatred and resentment towards the brothers and sisters with whom we live. In the Letter to the Ephesians, we read these words, which are also found in the Office of Compline: “Put away from you all bitterness and wrath and anger and wrangling and slander, together with all malice, and be kind to one another, tenderhearted, forgiving one another, as God in Christ has forgiven you” (4:31-32). Let us ask ourselves: How much bitterness do we have in our hearts? What is feeding it? What is the source of the indignation that so often creates distances between us and fuels anger and resentment? Why is it that backbiting in all its forms becomes our only way of talking about the things around us?

If we truly want the din of war to cease and give way to peace, then each of us ought to begin with himself or herself. Saint Paul clearly tells us that kindliness, mercy and forgiveness are our medicine for building peace.

Kindliness means always choosing goodness in our way of relating with one another. Besides the violence of arms, there is also verbal violence, psychological violence, the violence of the abuse of power and the hidden violence of gossip, all of which are so deeply harmful and destructive. In the presence of the Prince of Peace who comes into the world, let us lay aside all weapons of every kind. May none of us profit from his or her position and role in order to demean others.

Mercy means accepting the fact that others also have their limits. Here too, it is fair to accept that individuals and institutions, precisely because they are human, are also limited. A Church that is pure and for the pure is only a return to the heresy of Catharism. Were that the case, the Gospel and the Bible as a whole would not have told us of limitations and shortcomings of many of those whom today we acknowledge as saints.

Finally, forgiveness means always giving others a second chance, in the realization that we become saints by fits and starts. God does this with every one of us; he keeps forgiving us; he keeps putting us back on our feet; he always gives us another chance. We ought to do the same. Brothers and sisters, God never tires of forgiving; we are the ones who tire of asking forgiveness.

For every war to end, forgiveness is required. Otherwise, justice becomes vengeance, and love is seen only as a form of weakness.

God became a Child, and that Child, once grown, let himself be nailed on a cross. There is nothing weaker than one who is crucified, yet that weakness became the demonstration of God’s supreme power. In forgiveness, God’s power is always at work. May gratitude, conversion and peace thus be the gifts of this Christmas.

I wish you all a happy Christmas! And once again, I ask you, please, not to forget to pray for me. Thank you!

[02011-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Liebe Brüder und Schwestern!

1.    Der Herr schenkt uns einmal mehr die Gnade, das Geheimnis seiner Geburt zu feiern. Jedes Jahr können wir zu Füßen des Kindes in der Krippe (vgl. Lk 2,12) unser Leben in diesem besonderen Licht betrachten. Es ist nicht das Licht der Herrlichkeit dieser Welt, sondern »das wahre Licht, das jeden Menschen erleuchtet« (Joh 1,9). Die Demut des Gottessohnes, der in unser menschliches Dasein eintritt, ist uns eine Schule für unseren Bezug zur Wirklichkeit. So wie er die Armut wählt, die nicht einfach die Abwesenheit von Gütern ist, sondern Wesentlichkeit, so ist auch jeder von uns aufgerufen, sich auf das Wesentliche in seinem Leben zu besinnen, alles Überflüssige abzuwerfen, das auf dem Weg der Heiligkeit zum Hindernis werden kann. Und um diesen Weg der Heiligkeit wird nicht gefeilscht.

2.    Es ist jedoch wichtig, sich darüber im Klaren zu sein, dass wir beim Überdenken unseres Lebens oder der verbrachten Zeit immer von der Erinnerung an das Gute ausgehen müssen. Denn nur wenn wir uns des Guten bewusst sind, das der Herr an uns getan hat, können wir auch das Böse benennen, das wir getan oder erlitten haben. Wenn wir uns unserer Armut bewusst wären, ohne uns zugleich auch der Liebe Gottes bewusst zu sein, würde uns das erdrücken. In diesem Sinne ist die innere Haltung, der wir mehr Bedeutung beimessen sollten, die Dankbarkeit.

Um uns zu erklären, worum es dabei geht, erzählt uns das Evangelium die Geschichte der zehn Aussätzigen, die alle von Jesus geheilt wurden; nur einer kehrte jedoch zurück, um zu danken, und zwar ein Samariter (vgl. Lk 17,11-19). Das Danksagen ermöglicht diesem Mann neben der körperlichen Genesung auch das vollständige Heil (vgl. V. 19). Das heißt, die Begegnung mit dem Guten, das Gott ihm gewährt hat, bleibt nicht an der Oberfläche, sondern berührt das Herz. Genauso ist es: Ohne eine ständige Übung der Dankbarkeit würden wir nur eine Liste unserer Schwächen erstellen und das Wichtigste übersehen, nämlich die Gnaden, die der Herr uns jeden Tag gewährt.

3.    Im vergangenen Jahr ist vieles geschehen, und wir möchten vor allem Gott für all die Wohltaten danken, die er uns gewährt hat. Aber wir hoffen, dass sich unter all diesen Wohltaten auch unsere Bekehrung befindet. Sie ist nie eine abgeschlossene Sache. Das Schlimmste, was uns passieren kann, ist der Gedanke, dass wir keine Bekehrung mehr brauchen, sowohl auf persönlicher als auch auf gemeinschaftlicher Ebene.

Bekehrung bedeutet, zu lernen, die Botschaft des Evangeliums immer ernster zu nehmen und zu versuchen, sie in unserem Leben in die Tat umzusetzen. Es geht nicht bloß darum, vom Bösen Abstand zu nehmen, sondern so viel Gutes wie möglich zu tun: das bedeutet, sich zu bekehren. Angesichts des Evangeliums bleiben wir immer wie lernbedürftige Kinder. Wenn wir glauben, alles gelernt zu haben, verfallen wir in geistlichen Hochmut.

Dieses Jahr sind es sechzig Jahre seit dem Beginn des Zweiten Vatikanischen Konzils. Was war das Ereignis des Konzils anderes als eine große Gelegenheit zur Umkehr für die ganze Kirche? Der heilige Johannes XXIII. sagte in diesem Zusammenhang: »Nicht das Evangelium verändert sich, sondern wir beginnen, es besser zu verstehen«. Die Umkehr, die uns das Konzil geschenkt hat, war der Versuch, das Evangelium besser zu verstehen, es in diesem historischen Augenblick aktuell, lebendig und wirksam werden zu lassen.

So fühlten wir uns, wie schon mehrfach in der Kirchengeschichte geschehen, auch in unserer Zeit als Gemeinschaft der Gläubigen zur Umkehr aufgerufen. Und dieser Weg ist keineswegs abgeschlossen. Das gegenwärtige Nachdenken über die Synodalität der Kirche entspringt gerade der Überzeugung, dass der Weg zum Verständnis der Botschaft Christi nie zu Ende ist und uns ständig herausfordert.

Das Gegenteil von Bekehrung ist die Fixierung, d.h. die versteckte Überzeugung, dass wir kein tieferes Verständnis des Evangeliums benötigen. Es ist der Fehler, die Botschaft Jesu auf eine einzige, allzeit gültige Form festlegen zu wollen. Die Form jedoch muss sich immer wieder verändern können, damit die Substanz dieselbe bleibt. Die wahre Häresie besteht nicht nur darin, ein anderes Evangelium zu predigen (vgl. Gal 1,9), wie Paulus sagt, sondern auch darin, es nicht mehr in die jeweils aktuelle Sprache und Kultur zu übersetzen, und der Apostel der Völker hat gerade das getan. Bewahren bedeutet, die Botschaft Christi lebendig zu halten und nicht, sie einzusperren.

4.    Das eigentliche Problem, das wir oft vergessen, besteht jedoch darin, dass die Bekehrung uns nicht nur das Böse vor Augen führt, damit wir uns für das Gute entscheiden, sondern das sie gleichzeitig das Böse antreibt, sich weiterzuentwickeln, immer heimtückischer zu werden und sich auf neue Art und Weise zu tarnen, damit es uns schwerfällt, es zu erkennen. Es ist ein wirklicher Kampf. Der Versucher kehrt immer wieder zurück, und er kommt verkleidet.

Jesus verwendet im Evangelium einen Vergleich, der uns hilft, dieses Muster zu verstehen, das zeitlich wie auch von seiner Art her immer verschieden ist: »Solange ein bewaffneter starker Mann seinen Hof bewacht, ist sein Besitz sicher; wenn ihn aber ein Stärkerer angreift und besiegt, dann nimmt ihm der Stärkere seine ganze Rüstung, auf die er sich verlassen hat, und verteilt seine Beute« (Lk 11,21-22). Unser erstes großes Problem ist, dass wir zu sehr auf uns selbst, auf unsere Strategien und Programme vertrauen. Das ist die pelagianische Geisteshaltung, von der ich schon oft gesprochen habe. Dann sind manche Misserfolge eine Gnade, weil sie uns daran erinnern, dass wir nicht auf uns selbst vertrauen dürfen, sondern nur auf den Herrn. Manches Scheitern, auch als Kirche, ist eine gute Erinnerung daran, Christus wieder in den Mittelpunkt zu stellen. Denn »wer nicht mit mir ist, der ist gegen mich; wer nicht mit mir sammelt, der zerstreut« (Lk 11,23). So einfach ist das.

Liebe Brüder und liebe Schwestern, es ist zu wenig, das Böse anzuprangern, auch das, welches sich unter uns breitmacht. Es ist an uns, uns angesichts des Bösen für die Umkehr zu entscheiden. Das bloße Anprangern mag uns die Illusion vermitteln, dass wir das Problem gelöst haben, doch in Wirklichkeit geht es darum, Veränderungen zu bewirken, die uns erlauben, uns nicht länger von der Logik des Bösen, die sehr oft eine weltliche Logik ist, gefangen halten zu lassen. In diesem Sinne ist eine der nützlichsten Tugenden, die es zu üben gilt, die der Wachsamkeit. Jesus beschreibt die Notwendigkeit dieser Aufmerksamkeit uns selbst und der Kirche gegenüber – die Notwendigkeit der Wachsamkeit – durch ein wirkungsvolles Beispiel. Er sagt: »Wenn ein unreiner Geist aus dem Menschen ausfährt, durchwandert er wasserlose Gegenden, um eine Ruhestätte zu suchen, findet aber keine. Dann sagt er: Ich will in mein Haus zurückkehren, das ich verlassen habe. Und er kommt und findet es sauber und geschmückt. Dann geht er und holt sieben andere Geister, die noch schlimmer sind als er selbst. Sie ziehen dort ein und lassen sich nieder. Und die letzten Dinge jenes Menschen werden schlimmer sein als die ersten« (Lk 11,24-26). Unsere erste Bekehrung bringt eine gewisse Ordnung mit sich: Das Böse, das wir erkannt und versucht haben, aus unserem Leben auszurotten, geht tatsächlich von uns weg; aber es ist naiv zu glauben, dass es für lange Zeit fernbleibt. In Wirklichkeit kehrt es nach einer Weile in einem neuen Gewand wieder. Wirkte es früher grob und gewalttätig, so verhält es sich jetzt eleganter und höflicher. Dann müssen wir es erneut erkennen und entlarven. Erlaubt mir diesen Ausdruck: das sind die „gut erzogenen Dämonen“: Sie kommen höflich herein, ohne dass ich es bemerke. Nur die tägliche Praxis der Gewissenserforschung kann uns dies bewusstmachen. Daran sieht man die Bedeutung der Gewissenserforschung, um unser Haus zu bewachen.

Im 17. Jahrhundert zum Beispiel gab es den berühmten Fall der Nonnen von Port-Royal. Eine ihrer Äbtissinnen, Mutter Angélique, hatte gut begonnen: Sie hatte sich und das Kloster „charismatisch“ reformiert und sogar die Eltern aus der Klausur verwiesen. Sie war eine begabte Frau, geboren, um zu leiten, doch dann sie wurde zur Seele des jansenistischen Widerstands und zeigte eine unnachgiebige Härte auch gegenüber der kirchlichen Autorität. Von ihr und ihren Nonnen wurde gesagt: „Rein wie Engel, stolz wie Dämonen“. Sie hatten den Teufel ausgetrieben, aber er war dann siebenmal stärker zurückgekehrt und hatte unter dem Deckmantel von Entsagung und Strenge Starrheit und die Anmaßung mitgebracht, besser zu sein als andere. Er kehrt immer wieder zurück: der ausgetriebene Teufel kehrt zurück; zwar verkleidet, aber er kehrt zurück. Seien wir wachsam!

5.    Jesus erzählt im Evangelium viele Gleichnisse, die sich vor allem an die Mustergültigen, an die Schriftgelehrten und Pharisäer richten, um die Täuschung aufzudecken, der man erliegt, wenn man sich selbst für gerecht hält und andere verachtet (vgl. Lk 18,9). So erzählt er in den sogenannten Gleichnissen des Erbarmens (vgl. Lk 15) nicht nur die Geschichten vom verlorenen Schaf oder vom jüngeren Sohn jenes armen Vaters, der von seinem Sohn behandelt wird als sei er gestorben. All das erinnert uns daran, dass die erste Art der Sünde darin besteht, wegzugehen, in die Irre zu gehen, Dinge zu tun, die offensichtlich falsch sind; er spricht in diesen Gleichnissen aber auch von der verlorenen Drachme und dem älteren Sohn. Der Vergleich ist treffend: Man kann auch zu Hause verlieren, wie im Fall der Münze dieser Frau; und man kann unglücklich leben, auch wenn man formal innerhalb der Grenzen seiner Pflicht bleibt, wie es dem älteren Sohn des barmherzigen Vaters ergeht. Während es für diejenigen, die weggehen, leicht ist, den Abstand wahrzunehmen, ist es für diejenigen, die zu Hause bleiben, schwierig zu erkennen, wie sehr man in der Hölle lebt, weil man davon überzeugt ist, dass man nur ein Opfer ist, das von der vorgesetzten Autorität und letztlich von Gott selbst ungerecht behandelt wird. Und wie oft passiert uns das hier, zu Hause!

Liebe Brüder und Schwestern, es wird uns allen schon passiert sein, dass wir uns wie dieses Schaf verirrt haben oder dass wir uns von Gott abgewandt haben wie der jüngere Sohn. Es sind Sünden, die uns gedemütigt haben, und gerade deshalb konnten wir uns ihnen durch Gottes Gnade direkt stellen. Doch die große Vorsicht, die wir in diesem Augenblick unserer Existenz walten lassen müssen, rührt daher, dass unser gegenwärtiges Leben formell zu Hause stattfindet, innerhalb der Mauern der Institution, im Dienst des Heiligen Stuhls, im Herzen der Kirche; und gerade deshalb könnten wir der Versuchung erliegen, zu denken, dass wir in Sicherheit sind, dass wir besser sind, dass wir uns nicht mehr bekehren müssen.

Wir sind in größerer Gefahr als alle anderen, weil wir vom „gut erzogenen Dämon“ versucht werden, der nicht lärmend daherkommt, sondern Blumen mitbringt. Entschuldigt, liebe Brüder und Schwestern, wenn ich manchmal Dinge sage, die hart und streng klingen; es ist nicht so, dass ich nicht an den Wert von Sanftheit und Zärtlichkeit glaube, sondern weil es gut ist, Zärtlichkeiten für die Müden und Bedrängten zu reservieren und den Mut zu finden, „die Getrösteten zu betrüben“, wie der Diener Gottes Don Tonino Bello zu sagen pflegte, denn manchmal ist ihr Trost nur eine Täuschung des Teufels und keine Gabe des Geistes.

6.    Ein letztes Wort möchte ich dem Thema Frieden widmen. Der Prophet Jesaja gibt dem Messias unter anderem den Titel »Fürst des Friedens« (9,5). Niemals verspüren wir eine so große Sehnsucht nach Frieden wie in diesem Augenblick. Ich denke dabei an die leidgeprüfte Ukraine, aber auch an die vielen Konflikte, die in verschiedenen Teilen der Welt stattfinden. Krieg und Gewalt sind immer eine Niederlage. Die Religion darf nicht dazu dienen, Konflikte zu schüren. Das Evangelium ist immer das Evangelium des Friedens, und im Namen keines Gottes kann ein Krieg für „heilig“ erklärt werden.

Wo Tod, Spaltung, Konflikt und Leid von Unschuldigen herrschen, da können wir nur den gekreuzigten Jesus erkennen. Und in diesem Moment wünsche ich mir, dass wir gerade an die denken, die am meisten leiden. Dabei helfen uns die Worte Dietrich Bonhoeffers, der aus dem Gefängnis, in dem er inhaftiert war, schrieb: »Vom Christlichen her gesehen, kann ein Weihnachten in der Gefängniszelle ja kein besonderes Problem sein. Wahrscheinlich wird in diesem Haus hier von Vielen ein sinnvolleres und echteres Weihnachten gefeiert werden als dort, wo man nur noch den Namen dieses Festes hat. Dass Elend, Leid, Armut, Einsamkeit, Hilfslosigkeit und Schuld vor den Augen Gottes etwas ganz andere bedeuten als im Urteil der Menschen, dass Gott sich gerade dorthin wendet, wo die Menschen sich abzuwenden pflegen, dass Christus im Stall geboren wurde, weil er sonst keinen Raum in der Herberge fand, - das begreift ein Gefangener besser als ein anderer und das ist für ihn wirklich eine frohe Botschaft« (Widerstand und Ergebung, Kaiser Verlag, München 1985, 186).

7.    Liebe Brüder und Schwestern, die Kultur des Friedens wird nicht nur zwischen Völkern und Nationen aufgebaut. Sie beginnt im Herzen eines jeden von uns. Während wir unter dem Wüten der Kriege und der Gewalt leiden, können und müssen wir unseren Beitrag zum Frieden leisten, indem wir versuchen, jede Wurzel des Hasses und des Grolls gegenüber unseren Brüdern und Schwestern, die unsere Nachbarn sind, aus unseren Herzen auszureißen. Im Epheserbrief lesen wir diese Worte, die wir auch in der Komplet wiederfinden: »Jede Art von Bitterkeit und Wut und Zorn und Geschrei und Lästerung mit allem Bösen verbannt aus eurer Mitte! Seid gütig zueinander, seid barmherzig, vergebt einander, wie auch Gott euch in Christus vergeben hat« (4,31-32). Wir können uns fragen: Wie viel Bitterkeit ist in unserem Herzen? Wovon wird sie genährt? Was ist die Quelle der Wut, die oft Distanz zwischen uns schafft und Zorn und Groll schürt? Warum wird die Lästerei in all ihren Ausprägungen zur einzigen Art und Weise, wie wir über die Wirklichkeit sprechen?

Wenn wir wirklich wollen, dass das Kriegsgeschrei aufhört und dem Frieden Platz macht, dann müssen wir bei uns selbst anfangen. Der heilige Paulus sagt uns deutlich, dass Güte, Barmherzigkeit und Vergebung die Medizin sind, die wir haben, um Frieden zu schaffen.

Wohlwollen bedeutet, immer eine gute Weise im Umgang miteinander zu wählen. Es gibt nicht nur Waffengewalt, sondern auch verbale Gewalt, psychologische Gewalt, die Gewalt des Machtmissbrauchs, die versteckte Gewalt des Geschwätzes, die so weh tun und so viel zerstören. Vor dem Friedensfürsten, der in die Welt kommt, lasst uns jedwede Waffe ablegen. Niemand soll seine Position und seine Rolle ausnutzen, um den anderen vor den Kopf zu stoßen.

Barmherzigkeit bedeutet zu akzeptieren, dass der andere auch seine Grenzen hat. Auch hier ist es richtig, einzuräumen, dass Menschen und Institutionen, gerade weil sie menschlich sind, auch begrenzt sind. Eine reine Kirche für die Reinen ist nur eine Wiederauflage der katharischen Häresie. Wäre dem nicht so, hätten uns das Evangelium und allgemein die Bibel nicht von den Grenzen und Schwächen vieler Menschen erzählt, die wir heute als Heilige verehren.

Vergebung bedeutet schließlich immer, eine weitere Chance zu gewähren, d.h. zu verstehen, dass man heilig wird, indem man es immer wieder neu versucht. Gott geht so mit jedem von uns vor, er vergibt uns immer wieder, stellt uns immer wieder auf die Beine und gibt uns eine weitere Chance. Unter uns muss es genauso sein. Liebe Brüder und Schwestern, Gott wird nie müde, zu verzeihen, wir sind es, die müde werden, um Verzeihung zu bitten.

Jeder Krieg hat, wenn er beendet werden soll, Vergebung nötig, sonst wird die Gerechtigkeit zur Rache, und die Liebe wird nur als eine Form der Schwäche gesehen.

Gott wurde ein Kind, und dieses Kind ließ sich, erwachsen geworden, an das Kreuz nageln. Es gibt nichts Schwächeres als einen gekreuzigten Menschen, und doch hat sich in dieser Schwäche die Allmacht Gottes offenbart. In der Vergebung wirkt immer Gottes Allmacht. Lasst also Dankbarkeit, Umkehr und Frieden die Geschenke dieses Weihnachtsfestes sein.

Ich wünsche euch allen frohe Weihnachten! Und ich bitte euch noch einmal, nicht zu vergessen, für mich zu beten. Danke!

[02011-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

Queridos hermanos y hermanas:

1. El Señor nos da una vez más la gracia de celebrar el misterio de su nacimiento. Cada año, a los pies del Niño que está recostado en el pesebre (cf. Lc 2,12), se nos permite mirar nuestra vida a partir de esta luz especial. No es la luz de la gloria de este mundo, sino «la luz verdadera que ilumina a todo hombre» (Jn 1,9). La humildad del Hijo de Dios que viene en nuestra condición humana es para nosotros escuela de adhesión a la realidad. Así como Él elige la pobreza, que no es simplemente ausencia de bienes, sino esencialidad, del mismo modo cada uno de nosotros está llamado a volver a la esencialidad de la propia vida, para deshacerse de lo que es superfluo y que puede volverse un impedimento en el camino de santidad. Y este camino de santidad no se negocia.

2. Pero es importante tener claro que cuando se examina la propia existencia o el tiempo transcurrido, siempre es necesario tener como punto de partida la memoria del bien. En efecto, sólo cuando somos conscientes del bien que el Señor ha hecho por nosotros somos también capaces de dar un nombre al mal que hemos vivido o sufrido. Ser conscientes de nuestra pobreza sin serlo también del amor de Dios, nos aplastaría. En este sentido, la actitud interior a la que habríamos de dar más importancia es la gratitud.

El Evangelio, para explicarnos en qué consiste la gratitud, nos cuenta la historia de los diez leprosos que fueron curados por Jesús; pero sólo uno regresó para agradecer, un samaritano (cf. Lc 17,11-19). El acto de agradecer le da a este hombre, además de la curación física, la salvación total (cf. v. 19). El encuentro con el bien que Dios le ha concedido no se queda en la superficie, sino que toca el corazón. Es así: sin un ejercicio de gratitud constante sólo acabaremos por hacer la lista de nuestras caídas y opacaremos lo más importante, es decir, las gracias que el Señor nos concede cada día.   

3. Muchas cosas sucedieron en este último año y, en primer lugar, queremos decir gracias al Señor por todos los beneficios que nos ha concedido. Pero entre todos estos beneficios esperamos que esté también nuestra conversión, que nunca es un discurso acabado. Lo peor que nos podría pasar es pensar que ya no necesitamos conversión, sea a nivel personal o comunitario.

Convertirse es aprender a tomar cada vez más en serio el mensaje del Evangelio e intentar ponerlo en práctica en nuestra vida. No se trata sencillamente de tomar distancia del mal, sino de poner en práctica todo el bien posible: esto es convertirse. Ante el Evangelio seguimos siendo siempre como niños que necesitan aprender. Creer que hemos aprendido todo nos hace caer en la soberbia espiritual.

Este año se celebraron los sesenta años de la apertura del Concilio Vaticano II. ¿Qué ha sido el acontecimiento del Concilio sino una gran ocasión de conversión para toda la Iglesia? A este respecto, dijo san Juan XXIII: «No es el Evangelio el que cambia, somos nosotros los que empezamos a comprenderlo mejor». La conversión que nos dio el Concilio es la oportunidad de comprender mejor el Evangelio, de hacerlo actual, vivo y operante en este momento histórico.

Tal como ha sucedido otras veces en la historia de la Iglesia, también en nuestra época, como comunidad de creyentes, nos hemos sentido llamados a la conversión. Y este itinerario no ha concluido en absoluto. La actual reflexión sobre la sinodalidad de la Iglesia nace precisamente de la convicción de que el itinerario de comprensión del mensaje de Cristo no tiene fin y continuamente nos desafía.

Lo contrario a la conversión es el fijismo, es decir, la convicción oculta de no necesitar ninguna comprensión mayor del Evangelio. Es el error de querer cristalizar el mensaje de Jesús en una única forma válida siempre. En cambio, la forma debe poder cambiar para que la sustancia siga siendo siempre la misma. La herejía verdadera no consiste sólo en predicar otro Evangelio (cf. Ga 1,9), como nos recuerda Pablo, sino también en dejar de traducirlo a los lenguajes y modos actuales, que es lo que precisamente hizo el Apóstol de las gentes. Conservar significa mantener vivo y no aprisionar el mensaje de Cristo.

4. Pero el verdadero problema, que tantas veces olvidamos, es que la conversión no sólo nos hace caer en la cuenta del mal para hacernos elegir el bien, sino que al mismo tiempo impulsa al mal a evolucionar, a volverse cada vez más insidioso, a enmascararse de manera nueva para que nos cueste reconocerlo. Es una verdadera lucha. El tentador vuelve siempre, y vuelve disfrazado.

Jesús en el Evangelio usa una comparación que nos ayuda a comprender esta situación, que está hecha de diversos momentos y modos: «Cuando un hombre fuerte y bien armado hace guardia en su palacio, todas sus posesiones están seguras, pero si viene otro más fuerte que él y lo domina, le quita el arma en la que confiaba y reparte sus bienes» (Lc 11,21-22). Nuestro primer gran problema es confiar demasiado en nosotros mismos, en nuestras estrategias, en nuestros programas. Es el espíritu pelagiano del que he hablado otras veces. Entonces algunos fracasos son una gracia, porque nos recuerdan que no tenemos que confiar en nosotros mismos, sino sólo en el Señor. Algunas caídas, también como Iglesia, son una gran llamada a volver a poner a Cristo en el centro; porque: «El que no está conmigo, está contra mí; y el que no recoge conmigo, desparrama» (Lc 11,23). Es así de simple.

Queridos hermanos y hermanas, denunciar el mal, aun el que se propaga entre nosotros, es demasiado poco. Lo que se debe hacer ante ello es optar por una conversión. La simple denuncia puede hacernos creer que hemos resuelto el problema, pero en realidad lo importante es hacer cambios, de manera que no nos dejemos aprisionar más por las lógicas del mal, que muy a menudo son lógicas mundanas. En este sentido, una de las virtudes más útiles que se ha de practicar es la de la vigilancia. Jesús describe la necesidad de esta atención sobre nosotros mismos y sobre la Iglesia —la necesidad de la vigilancia— por medio de un ejemplo eficaz: «Cuando el espíritu impuro sale de un hombre, vaga por lugares desiertos en busca de reposo, y al no encontrarlo, piensa: ‘Volveré a mi casa, de donde salí’. Cuando llega, la encuentra barrida y ordenada. Entonces va a buscar a otros siete espíritus peores que él; entran y se instalan allí. Y al final, ese hombre se encuentra peor que al principio» (Lc 11,24-26). Nuestra primera conversión conlleva un cierto orden: el mal que hemos reconocido y tratado de extirpar de nuestra vida, efectivamente se aleja de nosotros; pero es ingenuo pensar que permanezca alejado por largo tiempo. En realidad, poco después se nos vuelve a presentar bajo una nueva apariencia. Si antes aparecía vulgar y violento, ahora en cambio se comporta de manera más elegante y educada. Entonces necesitamos reconocerlo y desenmascararlo una vez más. Permítanme la expresión: son los “demonios educados”, entran con educación, sin que uno se dé cuenta. Sólo la práctica cotidiana del examen de conciencia puede hacer que nos demos cuenta. Por eso se ve la importancia del examen de conciencia, para vigilar la casa.

En el siglo XVII —por ejemplo— aconteció el famoso caso de las monjas de Port Royal. Una de sus abadesas, Madre Angélica, había comenzado bien; se había reformado “carismáticamente” a sí misma y al monasterio, expulsando de la clausura incluso a los progenitores. Era una mujer llena de cualidades, nacida para gobernar, pero después se volvió el alma de la resistencia jansenista, mostrando una cerrazón intransigente incluso ante la autoridad eclesiástica. De ella y de sus monjas se decía: “Puras como ángeles, soberbias como demonios”. Habían expulsado al demonio, pero más tarde volvió siete veces más fuerte y, bajo apariencia de austeridad y rigor, había llevado consigo la rigidez y la presunción de ser mejores que los demás. Siempre vuelve; el demonio, aunque lo eches fuera, vuelve; disfrazado, pero vuelve. ¡Estemos atentos!

5. Jesús, en el Evangelio, cuenta muchas parábolas dirigidas sobre todo a biempensantes, a escribas y fariseos, con el intento de poner de manifiesto el engaño de creerse justos y despreciar a los demás (cf. Lc 18,9). Por ejemplo, en las llamadas parábolas de la misericordia (cf. Lc 15), Él narra no sólo las historias de la oveja perdida y del hijo menor de aquel pobre padre —que es tratado como un muerto precisamente por ese hijo—, que nos recuerdan que el primer modo de pecar es irse, perderse, hacer cosas evidentemente equivocadas; pero en esas parábolas habla también de la dracma perdida y del hijo mayor. La comparación es eficaz: uno se puede perder incluso en casa, como en el caso de la moneda de esa mujer; y se puede vivir infeliz aun permaneciendo formalmente en el sitio del propio deber, como le sucede al hijo mayor del padre misericordioso. Si, para quien se va, es fácil darse cuenta de la distancia, para quien se queda en casa es difícil percatarse del infierno que se vive por la convicción de ser solamente víctimas, tratados injustamente por la autoridad constituida y, en último análisis, por Dios mismo. ¡Y cuántas veces nos sucede esto aquí, en casa!

Queridos hermanos y hermanas, a todos nosotros nos habrá pasado que nos hemos perdido como esa oveja o nos hemos alejado de Dios como el hijo menor. Son pecados que nos han humillado, y precisamente por esto, por gracia de Dios, logramos afrontarlos a cara descubierta. Pero la mayor atención que debemos prestar en este momento de nuestra existencia es al hecho de que formalmente nuestra vida actual transcurre en casa, tras los muros de la institución, al servicio de la Santa Sede, en el corazón del cuerpo eclesial; y justamente por esto podríamos caer en la tentación de pensar que estamos seguros, que somos mejores, que ya no nos tenemos que convertir.

Nosotros corremos mayor peligro que todos los demás, porque nos asecha el “demonio educado”, que no llega haciendo ruido sino trayendo flores. Perdónenme, hermanos y hermanas, si a veces digo cosas que pueden sonar duras y fuertes, no es porque no crea en el valor de la dulzura y de la ternura, sino porque es bueno reservar las caricias para los cansados y los oprimidos, y encontrar la valentía de “afligir a los consolados”, como le gustaba decir al siervo de Dios don Tonino Bello, porque a veces su consolación es sólo el engaño del demonio y no un don del Espíritu.

6. Finalmente, quisiera reservar una última palabra al tema de la paz. Entre los títulos que el profeta Isaías atribuye al Mesías está el de «Príncipe de la paz» (9,5). Nunca como ahora hemos sentido un gran deseo de paz. Pienso en la martirizada Ucrania, pero también en tantos conflictos que están teniendo lugar en diversas partes del mundo. La guerra y la violencia son siempre un fracaso. La religión no debe prestarse a alimentar conflictos. El Evangelio es siempre Evangelio de paz, y en nombre de ningún Dios se puede declarar “santa” una guerra.

Allí donde reina la muerte, la división, el conflicto, el dolor inocente, nosotros no podemos más que reconocer a Jesús crucificado. Y en este momento quisiera que nuestro pensamiento se dirigiera precisamente a los que sufren. Vienen en nuestra ayuda las palabras de Dietrich Bonhoeffer, que en la cárcel donde estaba prisionero escribía: «Desde el punto de vista cristiano, unas navidades pasadas en la celda de una prisión no plantean ningún problema especial. En esta casa habrá posiblemente muchos que celebren unas navidades más auténticas y llenas de sentido que allí donde sólo se conserva el nombre de fiesta. El que la miseria, el sufrimiento, la pobreza, la soledad, el desamparo y la culpa tienen un significado muy diferente ante los ojos de Dios que en el juicio de los hombres; el que Dios se vuelve precisamente hacia el lugar de donde acostumbra a apartarse el hombre; el que Cristo nació en un establo, porque no hubo sitio para él en la hospedería, esto lo comprende un preso mucho mejor que cualquier otra persona, y para él significa una auténtica buena nueva» (Resistencia y sumisión, Sígueme, Salamanca 2001, 122).

7. Queridos hermanos y hermanas, la cultura de la paz no sólo se construye entre los pueblos y las naciones, sino que comienza en el corazón de cada uno de nosotros. Mientras sufrimos por los estragos que causan las guerras y la violencia, podemos y debemos dar nuestra contribución en favor de la paz tratando de extirpar de nuestro corazón toda raíz de odio y resentimiento respecto a los hermanos y las hermanas que viven junto a nosotros. En la Carta a los Efesios leemos estas palabras, que encontramos también en la oración de Completas: «Eviten la amargura, los arrebatos, la ira, los gritos, los insultos y toda clase de maldad. Por el contrario, sean mutuamente buenos y compasivos, perdonándose los unos a los otros como Dios los ha perdonado en Cristo» (4,31-32). Podemos preguntarnos: ¿cuánta amargura hay en nuestro corazón? ¿Qué es lo que la alimenta? ¿Qué es lo que causa la ira que muy a menudo crea distancias entre nosotros y alimenta rabia y resentimiento? ¿Por qué los insultos, en cualquiera de sus formas, se vuelven el único modo que tenemos para hablar de la realidad?

Si es verdad que queremos que el clamor de la guerra cese dando lugar a la paz, entonces que cada uno comience desde sí mismo. San Pablo nos dice claramente que la benevolencia, la misericordia y el perdón son la medicina que tenemos para construir la paz.

La benevolencia es elegir siempre la modalidad del bien para relacionarnos entre nosotros. No existe sólo la violencia de las armas; existe la violencia verbal, la violencia psicológica, la violencia del abuso de poder, la violencia escondida de las habladurías, que hacen tanto daño y destruyen tanto. Ante el Príncipe de la Paz, que viene al mundo, depongamos toda arma de cualquier tipo. Que ninguno saque provecho de la propia posición o del propio rol para mortificar al otro.

La misericordia también es aceptar que el otro pueda tener sus límites. Incluso en este caso, es justo admitir que personas e instituciones, precisamente porque son humanas, son también limitadas. Una Iglesia pura para los puros es sólo la repetición de la herejía cátara. Si no fuera así, el Evangelio, y la Biblia en general, no nos hubieran narrado los límites y los defectos de muchos de aquellos que hoy nosotros reconocemos como santos.

Por último, el perdón significa conceder siempre otra oportunidad, es decir, comprender que uno se hace santo a base de intentos. Dios hace así con cada uno de nosotros, nos perdona siempre, vuelve a ponernos siempre en pie y nos da aún otra oportunidad. Entre nosotros debe ser así. Hermanos y hermanas, Dios no se cansa nunca de perdonar, somos nosotros los que nos cansamos de pedir perdón.

Toda guerra, para que se extinga, necesita del perdón. De lo contrario, la justicia se convierte en venganza, y el amor sólo se reconoce como una forma de debilidad.

Dios se hizo niño, y este niño, al hacerse grande, se dejó clavar en la cruz. No hay algo más débil que un hombre crucificado y, sin embargo, en esa debilidad se manifestó la omnipotencia de Dios. En el perdón obra siempre la omnipotencia de Dios. Que la gratitud, la conversión y la paz sean entonces los dones de esta Navidad.

¡Les deseo a todos una feliz Navidad! Y una vez más les pido que no se olviden de rezar por mí. ¡Gracias!

[02011-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

Queridos irmãos e irmãs!

1.    O Senhor concede-nos, uma vez mais, a graça de celebrar o mistério do seu nascimento. Cada ano, aos pés do Menino deitado na manjedoura (cf. Lc 2, 12), temos a possibilidade de olhar a nossa vida sob esta luz especial: não é a luz da glória deste mundo, mas «a Luz verdadeira, que (…) a todo o homem ilumina» (Jo 1, 9). Na humildade do Filho de Deus que desce à nossa condição humana, temos uma escola de adesão à realidade. Assim como Ele escolhe a pobreza, que não se reduz a mera ausência de bens, mas é essencialidade, assim também cada um de nós é chamado a voltar ao essencial da própria vida, para deitar fora tudo o que é supérfluo e que pode tornar-se um impedimento no caminho da santidade. E este caminho de santidade não se há de trocar por nada.

2.    Mas é importante ter claro que, ao examinar a própria existência ou o tempo passado, se deve tomar sempre como ponto de partida a memória do bem. Com efeito, só quando estamos conscientes do bem que o Senhor nos fez é que podemos também dar nome ao mal, que praticamos ou padecemos. A noção da nossa pobreza esmagar-nos-ia, se não estivesse acompanhada pela consciência do amor de Deus. Neste sentido, a atitude interior, a que deveremos dar mais importância, é a gratidão.

Para nos explicar em que consiste a gratidão, o Evangelho narra-nos o caso dos dez leprosos que foram, todos, curados por Jesus, mas só um regressou para agradecer: um samaritano (cf. Lc 17, 11-19). A este homem, além da cura física, o ato de agradecimento obteve-lhe a salvação total (cf. 17, 19). O bem encontrado, que Deus lhe concedeu, não se detém à superfície, mas toca o coração. Assim, sem a prática constante da gratidão, acabaríamos elaborando apenas a lista das nossas quedas e deixaríamos na escuridão o que mais importa, isto é, as graças que o Senhor nos concede cada dia.

3.    Aconteceram muitas coisas neste último ano, e queremos, antes de mais nada, agradecer ao Senhor por todos os benefícios que nos concedeu. E, entre todos estes benefícios, queira Deus que se conte também o da nossa conversão. Esta nunca é um discurso acabado. A pior coisa que nos pode acontecer é pensar que já não precisamos de conversão quer a nível pessoal quer comunitário.

Converter-se é aprender a tomar a sério cada vez mais a mensagem do Evangelho, procurando pô-la em prática na nossa vida. Não é simplesmente manter-se longe do mal, mas praticar todo o bem possível: isto é converter-se! Perante o Evangelho, permanecemos sempre como crianças necessitadas de aprender. Presumir que já aprendemos tudo faz-nos cair no orgulho espiritual.

Em 2022, completaram-se sessenta anos do início do Concílio Vaticano II. E este, que foi senão um grande tempo de conversão para toda a Igreja? A propósito, dizia São João XXIII: «Não é o Evangelho que muda, somos nós que começamos a compreendê-lo melhor». A conversão, que o Concílio nos ofereceu, foi a tentativa de compreender melhor o Evangelho, torná-lo atual, vivo e operante neste momento histórico.

E assim – como, aliás, já acontecera mais vezes na história da Igreja – também na nossa época nos sentimos, como comunidade de crentes, chamados à conversão. E este itinerário está longe de terminar. A reflexão atual sobre a sinodalidade da Igreja nasce, precisamente, da convicção de que o percurso de compreensão da mensagem de Cristo não tem fim e desafia-nos sem cessar.

O contrário da conversão é o fixismo, ou seja, a sub-reptícia convicção de não precisar de qualquer nova compreensão do Evangelho. Trata-se do erro de querer cristalizar a mensagem de Jesus numa forma única e sempre válida; ao passo que a forma deve poder sempre mudar a fim de a substância permanecer sempre a mesma. A verdadeira heresia não consiste apenas em pregar outro Evangelho, como nos lembra Paulo (cf. Gal 1, 9), mas também em deixar de o traduzir nas linguagens e formas contemporâneas, como fez precisamente o Apóstolo dos Gentios. Conservar a mensagem de Cristo significa mantê-la viva, não enclausurá-la.

4.    O verdadeiro problema, que muitas vezes esquecemos, é que a conversão não apenas nos torna cientes do mal e faz-nos escolher o bem, mas ao mesmo tempo leva o mal a evoluir, a tornar-se cada vez mais insidioso, a disfarçar-se sob novas formas para termos dificuldade em o reconhecer. É uma verdadeira luta. O tentador volta sempre, e volta travestido.

Jesus, no Evangelho, usa uma comparação que nos ajuda a compreender esta obra que é feita de tempos e modos diferentes: «Quando um homem forte e bem armado guarda a sua casa, os seus bens estão em segurança; mas, se aparece um homem mais forte e o vence, tira-lhe as armas em que confiava e distribui os seus despojos» (Lc 11, 21-22). O nosso primeiro grande problema é confiarmos demais em nós mesmos, nas nossas estratégias, nos nossos programas. É o espírito pelagiano, de que já falei várias vezes. Assim, alguns falhanços acabam por ser uma graça, porque nos lembram que não devemos confiar em nós próprios, mas apenas no Senhor. Algumas quedas, mesmo como Igreja, são um grande apelo a colocar de novo Cristo no centro. Pois, «quem não está comigo está contra Mim, e quem não junta comigo, dispersa» (Lc 11, 23). É tão simples!

Queridos irmãos e irmãs, é demasiado pouco denunciar o mal, inclusive aquele que se esconde entre nós. O que se deve fazer à vista dele, é decidir-se por uma conversão. A simples denúncia pode dar-nos a ilusão de termos resolvido o problema, mas na realidade aquilo que conta é realizar mudanças que nos ponham na condição de não mais nos deixarmos enclausurar pelas lógicas do mal, que muitas vezes são lógicas mundanas. Neste sentido, uma das virtudes mais úteis que havemos de praticar é a da vigilância. Jesus descreve a necessidade desta atenção a nós mesmos e à Igreja – a necessidade da vigilância – com um exemplo elucidativo: «Quando um espírito maligno sai dum homem – diz Jesus –, vagueia por lugares áridos em busca de repouso; e, não o encontrando, diz: “Vou voltar para a minha casa donde saí”. Ao chegar, encontra-a varrida e arrumada. Vai, então, e toma consigo outros sete espíritos piores do que ele; e, entrando, instalam-se ali. E o estado final daquele homem torna-se pior do que o primeiro» (Lc 11, 24-26). A nossa primeira conversão repõe uma certa ordem: o mal, que individuamos e tentamos erradicar da nossa vida, afasta-se efetivamente de nós; mas seria ingénuo pensar que vai ficar longe por muito tempo. Na realidade, pouco depois volta a apresentar-se-nos sob uma nova roupagem. Se antes aparecia rude e violento, agora, ao invés, comporta-se de forma mais elegante e educada. E assim temos necessidade mais uma vez de o individuar e desmascarar. São – perdoai-me a expressão – os «demónios educados»: entram com educação, sem me aperceber. Só a prática diária do exame de consciência é que nos pode fazer dar conta disso. Daqui se vê como é importante o exame de consciência para velar pela casa.

No século XVII – por exemplo – deu-se o conhecido caso das monjas de Port Royal. Uma das suas abadessas, Madre Angélica, começara bem: com grande «carisma», reformara-se a si mesma e ao mosteiro, afastando da clausura até os pais. Era uma mulher cheia de talento, nascida para governar, mas depois tornou-se a alma da resistência jansenista, mostrando um fechamento intransigente inclusive diante da autoridade eclesiástica. Dizia-se dela e das suas monjas: «puras como anjos, orgulhosas como demónios». Tinham expulso o demónio, mas depois este voltou sete vezes mais forte e, sob a roupagem da austeridade e do rigor, trouxera rigidez e a presunção de serem melhores que os outros. Volta sempre: o demónio, expulso, volta; travestido, ma volta. Estejamos atentos!

5.    No Evangelho, Jesus narra muitas parábolas dirigidas sobretudo a pessoas bem-pensantes, a escribas e fariseus, com a intenção de pôr a descoberto o engano de se sentirem justos e desprezarem os outros (cf. Lc 18, 9). Por exemplo, nas chamadas parábolas da misericórdia (cf. Lc 15), narra não só os casos da ovelha perdida e do filho mais novo daquele pai infeliz, que se vê tratado como morto precisamente por este filho; são histórias que nos lembram que o primeiro modo de pecar é partir de casa, perder-se, fazer coisas claramente erradas. Mas, nas referidas parábolas, Jesus fala também da dracma perdida e do filho mais velho, com uma lição elucidativa: podemo-nos perder também em casa, como no caso da moeda daquela mulher; e é possível viver infeliz, mesmo permanecendo formalmente no recinto do próprio dever, como acontece ao filho mais velho do pai misericordioso. Se é fácil, para quem sai, dar-se conta da distância, quem fica em casa tem dificuldade para se aperceber de quanto se viva no inferno: dificuldade essa, resultante da convicção de que somos apenas vítimas, tratadas injustamente pela autoridade constituída e, em última análise, pelo próprio Deus. Quantas vezes acontece isto, aqui em casa.

A todos nós, queridos irmãos e irmãs, terá sucedido perder-se como aquela ovelha ou distanciar-se de Deus como o filho mais novo. São pecados que nos humilharam e por isso mesmo, por graça de Deus, conseguimos enfrentá-los sem evasivas. Mas a grande atenção que se nos exige neste momento da nossa existência está ligada ao facto de a nossa vida atual se desenrolar formalmente em casa, dentro dos muros da instituição, ao serviço da Santa Sé, no próprio coração do corpo eclesial; e, por isso mesmo, podemos cair na tentação de pensar que nos encontramos em segurança, somos melhores, já não devemos converter-nos.

Corremos mais perigo do que todos os outros, porque nos encontramos insidiados pelo «demónio educado», que vem sem fazer rumor, mas trazendo flores. Desculpai-me, irmãos e irmãs, se às vezes digo coisas que podem soar duras e fortes, não é por não acreditar no valor da amabilidade e da ternura, mas porque é bom reservar as carícias para os extenuados e oprimidos, e encontrar a coragem de «afligir os consolados» – como gostava de dizer o Servo de Deus D. Tonino Bello –, porque às vezes a sua consolação não é um dom do Espírito, mas engano do demónio.

6.    Por fim gostaria de reservar uma última palavra para o tema da paz. Entre os títulos que o profeta Isaías atribui ao Messias, temos o de «Príncipe da Paz» (9, 5). Nunca sentimos, como neste momento, tão grande desejo de paz! Penso na martirizada Ucrânia e também em tantos conflitos que estão ocorrendo em várias partes do mundo. A guerra e a violência são sempre um falimento. A religião não se deve prestar para alimentar conflitos. O Evangelho é sempre Evangelho da paz e não se pode, em nome de Deus algum, declarar «santa» uma guerra.

Onde reinam morte, divisão, conflito, sofrimento inocente, lá podemos apenas reconhecer Jesus crucificado. E, neste momento, gostava que o pensamento de todos nós se voltasse precisamente para aqueles que mais sofrem. A isto mesmo nos podem ajudar as palavras de Dietrich Bonhoeffer, que assim escrevia do cárcere onde estava preso: «Vendo a realidade duma perspetiva cristã, não pode constituir um particular problema o facto de se passar o Natal na cela duma prisão. Provavelmente muitos, nesta casa, celebrarão um Natal mais rico de significado e mais autêntico do que acontece lá onde, desta Festa, se conserva só o nome. Um prisioneiro compreende melhor do que ninguém que miséria, sofrimento, pobreza, solidão, desamparo e culpa têm, aos olhos de Deus, um significado completamente diferente do dos juízos dos homens; que Deus volta o olhar precisamente para aqueles de quem os homens costumam afastá-lo; que Cristo nasceu num estábulo, porque não encontrara lugar na hospedaria; tudo isto, para um prisioneiro, é verdadeiramente uma feliz notícia» (Resistenza e resa, Cinisello Balsamo – Milão, 1988, 324).

7.    Queridos irmãos e irmãs, a cultura da paz não se constrói apenas entre os povos e entre as nações; começa no coração de cada um de nós. Enquanto sofremos com o embravecer de guerras e violências, podemos e devemos dar a nossa contribuição para a paz, procurando extirpar do próprio coração toda a raiz de ódio e ressentimento contra os irmãos e irmãs que vivem junto de nós. Na Carta aos Efésios, lemos estas palavras (que encontramos também na Hora de Completas): «Toda a espécie de azedume, raiva, ira, gritaria e injúria desapareça de vós, juntamente com toda a maldade. Sede, antes, bondosos uns para com os outros, compassivos; perdoai-vos mutuamente, como também Deus vos perdoou em Cristo» (4, 31-32). Podemos interrogar-nos: Quanta aspereza há no nosso coração? O que é que a alimenta? Donde nasce a indignação que muitas vezes cria distância entre nós e alimenta cólera e ressentimento? Porque é que a maledicência, em todas as suas declinações, se torna a única maneira que adotamos para falar da realidade?

Se é verdade que queremos que o clamor da guerra cesse deixando lugar à paz, então cada um comece por si mesmo. São Paulo diz-nos claramente que a benevolência, a misericórdia e o perdão são o remédio que temos para construir a paz.

A benevolência é escolher sempre a modalidade do bem para nos relacionarmos entre nós. Não existe só a violência das armas, mas também a violência verbal, a violência psicológica, a violência do abuso de poder, a violência oculta das murmurações que fazem tão mal e destroem imenso. À vista do Príncipe da Paz que vem ao mundo, deponhamos toda a arma de qualquer género. Cada um não se aproveite da própria posição e função para mortificar o outro.

A misericórdia consiste em aceitar que o outro possa ter também os seus limites. Também neste caso é justo admitir que pessoas e instituições, precisamente por serem humanas, são limitadas. Uma Igreja pura para os puros é apenas o renascimento da heresia cátara. Se não fosse assim, o Evangelho e a Bíblia em geral não nos teriam contado limitações e defeitos de muitos que hoje reconhecemos como santos.

Finalmente o perdão é conceder sempre uma nova possibilidade, ou seja, compreender que só por tentativas se consegue ser santo. É assim que Deus procede com cada um de nós: sempre nos perdoa, sempre nos põe de pé e dá ainda outra possibilidade. E deve ser assim entre nós. Irmãos e irmãs, Deus nunca Se cansa de perdoar, somo nós que nos cansamos de pedir perdão.

Toda a guerra, para ser extinta, precisa de perdão; caso contrário, a justiça torna-se vingança, e o amor acaba reconhecido apenas como uma forma de fraqueza.

Deus fez-Se criança; e esta criança, tendo crescido, deixou-Se pregar na cruz. Não há realidade mais frágil do que um homem crucificado e contudo, naquela fragilidade, manifestou-se a omnipotência de Deus. No perdão, opera sempre a omnipotência de Deus. Assim, que as prendas deste Natal sejam a gratidão, a conversão e a paz!

A todos desejo um feliz Natal! E uma vez mais peço para não vos esquecerdes de rezar por mim. Obrigado!

[02011-PO.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

Drodzy bracia i drogie siostry!

1.    Po raz kolejny Pan daje nam łaskę świętowania tajemnicy swoich narodzin. Co roku, u stóp Dzieciątka leżącego w żłobie (por. Łk 2, 12), jest nam dane spojrzeć na nasze życie wychodząc od tego szczególnego światła. Nie jest to światło chwały tego świata, lecz „światłość prawdziwa, która oświeca każdego człowieka” (J 1, 9). Pokora Syna Bożego, który przychodzi w naszą ludzką kondycję, jest dla nas szkołą akceptacji rzeczywistości. Tak jak On wybiera ubóstwo, które nie jest jedynie brakiem dóbr, lecz tym, co najistotniejsze, tak samo każdy z nas jest wezwany do powrotu do tego, co istotne w naszym życiu, do odrzucenia wszystkiego, co zbędne i co może stać się przeszkodą na drodze do świętości. A ta droga do świętości nie może być przedmiotem negocjacji.

2.    Trzeba jednak jasno powiedzieć, że gdy zastanawiamy się nad swoim życiem lub przebytym czasem, zawsze trzeba mieć za punkt wyjścia pamięć o dobru. Bowiem tylko wówczas, gdy jesteśmy świadomi dobra, które Pan nam uczynił, jesteśmy w stanie nazwać także zło, którego doświadczyliśmy lub którego doznaliśmy. Świadomość naszego ubóstwa bez świadomości Bożej miłości mogłaby nas zmiażdżyć. W tym sensie wewnętrzną postawą, do której powinniśmy przywiązywać większą wagę, jest wdzięczność.

Ewangelia, aby wyjaśnić nam, na czym ona polega, opowiada historię dziesięciu trędowatych, którzy zostali uzdrowieni przez Jezusa. Jednakże tylko jeden powrócił, aby podziękować, Samarytanin (por. Łk 17, 11-19). Akt dziękczynienia wyjednuje temu człowiekowi, oprócz uzdrowienia fizycznego, całkowite zbawienie (por. w. 19). Spotkanie z dobrem, którym obdarzył go Bóg, nie zatrzymuje się na powierzchni, lecz dotyka serca. Tak właśnie jest: bez ciągłego wprawiania się we wdzięczności doszlibyśmy jedynie do sporządzenia listy naszych ułomności i przesłonili to, co się liczy najbardziej, czyli łaski, których Pan udziela nam każdego dnia.

3.    Wiele rzeczy wydarzyło się w tym minionym roku, ale przede wszystkim chcemy podziękować Panu za wszelkie dobrodziejstwa, którymi nas obdarzył. Ale ufamy, że wśród tych wszelakich dobrodziejstw, znajdzie się też nasze nawrócenie. Nie jest ono nigdy sprawą zamkniętą. Najgorsze, co może nas spotkać, to myślenie, że nie potrzebujemy już nawrócenia, zarówno na poziomie osobistym, jak i wspólnotowym.

Nawracanie się to uczenie się brania coraz bardziej na serio orędzia Ewangelii i próba jego realizacji w naszym życiu. To nie tylko zwykłe zdystansowanie się od zła, to wprowadzanie w życie wszelkiego możliwego dobra: na tym polega nawrócenie się. W obliczu Ewangelii zawsze pozostajemy jak dzieci potrzebujące nauki. Przyjmowanie, że poznaliśmy wszystko sprawia, iż popadamy w pychę duchową.

W tym roku minęło sześćdziesiąt lat od rozpoczęcia Soboru Watykańskiego II. Czym było wydarzenie soborowe, jeśli nie wspaniałą okazją do nawrócenia dla całego Kościoła? Święty Jan XXIII powiedział w tym względzie: „To nie Ewangelia się zmienia, lecz my zaczynamy ją lepiej rozumieć”. Nawrócenie, jakie dał nam Sobór, było próbą lepszego zrozumienia Ewangelii, uczynienia jej aktualną, żywą i działającą w tym historycznym momencie.

Tak więc, jak to miało miejsce wiele razy w historii Kościoła, również w naszych czasach, jako wspólnota wierzących czuliśmy się wezwani do nawrócenia. Ale ten proces jest daleki od zakończenia. Obecna refleksja nad synodalnością Kościoła wynika właśnie z przekonania, że droga zrozumienia orędzia Chrystusa nigdy się nie kończy i nieustannie nas pobudza.

Przeciwieństwem nawrócenia jest stagnacja, czyli ukryte przekonanie, że nie potrzebujemy żadnego współczesnego rozumienia Ewangelii. To błąd polegający na chęci skrystalizowania orędzia Jezusa w jednej, zawsze obowiązującej formie. Tymczasem forma musi być zawsze zdolna do zmiany, aby substancja zawsze była taka sama. Prawdziwa herezja nie polega jedynie na głoszeniu innej Ewangelii (por. Ga 1, 9), jak nam przypomina św. Paweł, lecz także na zaprzestaniu jej przekładania na aktualne języki i sposoby, co właśnie czynił Apostoł Narodów. Zachowywać, oznacza podtrzymać żywe orędzie Chrystusa i nie więzić go.

4.    Prawdziwym problemem, o którym często zapominamy, jest jednak to, że nawrócenie nie tylko sprawia, iż dostrzegamy zło, aby skłonić nas do wyboru dobra, lecz jednocześnie popycha zło do przeobrażenia się, do stawania się coraz bardziej podstępnym, do kamuflowania się na nowe sposoby, aby trudno było nam je rozpoznać. Jest to prawdziwa walka. Kusiciel zawsze powraca, i powraca w przebraniu.

Jezus używa w Ewangelii porównania, które pomaga nam zrozumieć to dzieło, dokonujące się w różnych czasach i sytuacjach: „Gdy mocarz uzbrojony strzeże swego dworu, bezpieczne jest jego mienie. Lecz gdy mocniejszy od niego nadejdzie i pokona go, zabierze całą broń jego, na której polegał, i łupy jego rozda” (Łk 11, 21-22). Naszym pierwszym wielkim problemem jest zbytnie pokładanie ufności w sobie samym, w naszych strategiach, naszych programach. Jest to duch pelagiański, o którym wielokrotnie mówiłem. Wtedy niektóre upadki są łaską, bo przypominają nam, że nie wolno nam pokładać ufności w sobie, lecz jedynie w Panu. Niektóre upadki, także jako Kościół, są wielkim przypomnieniem, by w centrum postawić ponownie Chrystusa. Bo „kto nie jest ze Mną, jest przeciwko Mnie; a kto nie zbiera ze Mną, rozprasza” (Łk 11, 23). To takie proste.

Drodzy bracia i siostry, nie wystarczy potępić zło, nawet to, które czai się wśród nas. To, co należy uczynić, to zdecydować się na nawrócenie w jego obliczu. Zwykłe potępienie może dać nam złudzenie, że rozwiązaliśmy problem, ale w rzeczywistości liczy się dokonanie zmian, które pozwolą nam nie dać się już uwięzić logice zła, którą bardzo często są logiki światowe. Pod tym względem jedną z najbardziej użytecznych cnót, którą należy realizować jest cnota czujności. Jezus opisuje potrzebę tej wrażliwości na siebie i na Kościół - potrzebę czujności - poprzez skuteczny przykład: „Gdy duch nieczysty opuści człowieka - mówi Jezus - błąka się po miejscach bezwodnych, szukając spoczynku. A gdy go nie znajduje, mówi: «Wrócę do swego domu, skąd wyszedłem». Przychodzi i zastaje go wymiecionym i przyozdobionym. Wtedy idzie i bierze siedem innych duchów złośliwszych niż on sam; wchodzą i mieszkają tam. I stan późniejszy owego człowieka staje się gorszy niż poprzedni” (Łk 11, 24-26). Nasze pierwsze nawrócenie przywraca pewien ład: zło, które rozpoznaliśmy i staraliśmy się wykorzenić z naszego życia, rzeczywiście od nas się oddala. Ale naiwnością byłoby sądzić, że pozostaje z dala na długo. W rzeczywistości po jakimś czasie ukazuje się nam ponownie w nowej odsłonie. Jeśli wcześniej wydawało się prymitywne i brutalne, to teraz zachowuje się w sposób bardziej elegancki i uprzejmy. Wtedy po raz kolejny musimy go rozpoznać i zdemaskować. To są, że tak powiem, „uprzejme demony”: uprzejmie wchodzą, dla mnie niezauważalni. Tylko codzienna praktyka rachunku sumienia może sprawić, że to sobie uświadomimy. Dlatego widzimy znaczenie rachunku sumienia, aby czuwać nad domem.

W XVII wieku – na przykład - miała miejsce słynna sprawa zakonnic z Port Royal. Jedna z ich ksieni, Matka Andżelika, rozpoczęła dobrze: „charyzmatycznie” zreformowała siebie i klasztor, wyrzucając z klauzury nawet swoich rodziców. Była kobietą bardzo utalentowaną, urodzoną do rządzenia, ale stała się duszą jansenistycznego oporu, okazując nieprzejednane zamknięcie nawet wobec władzy kościelnej. O niej i jej zakonnicach mówiono: „Czyste jak anioły, ale pyszne jak diabły”. Wypędziły diabła, ale on powrócił siedem razy silniejszy i pod pozorem surowości i rygoru przyniósł sztywność i zarozumiałość, że jesteśmy lepszymi od innych. Zawsze powraca: diabeł wypędzony powraca; przebrany, lecz powraca. Uważajmy!

5.    Jezus opowiada w Ewangelii wiele przypowieści skierowanych głównie do osób o tradycyjnych zasadach i poglądach, do uczonych w Piśmie i faryzeuszy, mając zamiar zwrócić uwagę na złudzenie, jakim jest uważanie się za sprawiedliwych, a pogardzając innymi (por. Łk 18, 9). Na przykład w tzw. przypowieściach o miłosierdziu (por. Łk 15) opowiada On nie tylko historie o zagubionej owcy i młodszym synu biednego ojca, który przez tego ostatniego jest traktowany jak martwy, a które przypominają, że pierwszą drogą do grzechu jest zejście na manowce, zagubienie się, czynienie rzeczy, które są ewidentnie złe. Lecz w tych przypowieściach mówi On także o zagubionej drachmie i starszym synu. Porównanie jest trafne: można się zagubić nawet w domu, jak w przypadku monety owej kobiety. Można też żyć nieszczęśliwie, trwając formalnie w swoich obowiązkach, jak to się dzieje z starszym synem miłosiernego ojca. Jeśli w przypadku tych, którzy odchodzą, łatwo uświadomić sobie dystans, to w przypadku tych, którzy zostają w domu trudno sobie uświadomić, jak bardzo żyje się w piekle, z powodu przekonania, że jest się jedynie ofiarą, niesprawiedliwie potraktowaną przez ustanowioną władzę, a w ostatecznym rozrachunku przez samego Boga. Czasami nam się to przydarza, tutaj w domu!.

Drodzy bracia i drogie siostry, każdemu z nas zdarzy się zagubić siebie jak owa owieczka lub odwrócić się od Boga jak młodszy syn. Są to grzechy, które nas upokorzyły i właśnie dlatego, dzięki łasce Bożej, mogliśmy stawić im czoła. Ale wielka ostrożność, jaką musimy zachować w tym momencie naszego istnienia wynika z faktu, że formalnie nasze obecne życie jest w domu, w murach instytucji, w służbie Stolicy Apostolskiej, w samym sercu ciała kościelnego. I właśnie z tego powodu możemy popaść w pokusę myślenia, że jesteśmy bezpieczni, że jest nam lepiej, że nie musimy się już nawracać.

Znajdujemy się w większym niebezpieczeństwie niż wszyscy inni, ponieważ sidła zastawia na nas „uprzejmy diabeł”, który nie przychodzi robiąc zgiełk, lecz przynosząc kwiaty. Wybaczcie mi bracia i siostry, jeśli czasami mówię rzeczy, które mogą brzmieć szorstko i mocno, to nie dlatego, że nie wierzę w wartość łagodności i czułości, lecz dlatego, że dobrze jest okazywać czułość znużonym i uciśnionym, i znajdować odwagę, aby „trapić pocieszonych”, jak lubił mawiać sługa Boży ks. Tonino Bello, ponieważ czasami pocieszenie ich jest tylko oszustwem diabła, a nie darem Ducha.

6.    Na koniec jeszcze jedno słowo, które chciałbym poświęcić kwestii pokoju. Pośród tytułów, które prorok Izajasz przypisuje Mesjaszowi, jest „Książę Pokoju” (9, 5). Nigdy tak jak w tej chwili nie odczuwamy wielkiej tęsknoty za pokojem. Myślę o udręczonej Ukrainie, ale także o wielu konfliktach, które toczą się w różnych częściach świata. Wojna i przemoc są zawsze porażką. Religia nie może przyczyniać się do podsycania konfliktów. Ewangelia jest zawsze Ewangelią pokoju, i w imię żadnego Boga nie można ogłosić wojny „świętą”.

Tam, gdzie panują śmierć, podziały, konflikty, cierpienie niewinnych, tam możemy tylko rozpoznać Jezusa ukrzyżowanego. I właśnie w tej chwili chciałbym, aby nasze myśli zwróciły się ku tym, którzy najbardziej cierpią. Pomagają nam w tym słowa Dietricha Bonhoeffera, który pisał z więzienia, w którym był osadzony: „Patrząc na to z chrześcijańskiego punktu widzenia, spędzenie Bożego Narodzenia w więziennej celi nie może być szczególnym problemem. Wielu w tym domu będzie zapewne obchodzić święta bardziej znaczące i bardziej autentyczne niż w miejscach, w których jest ono obchodzone tylko z nazwy. Więzień, lepiej niż ktokolwiek inny rozumie, że nędza, cierpienie, ubóstwo, samotność, brak pomocy i przewina mają w oczach Boga zupełnie inne znaczenie niż według ludzkiego osądu; że Bóg zwraca się ku tym miejscom, od których ludzie się odwracają; że Chrystus urodził się w stajni, ponieważ nie było dla niego miejsca w gospodzie – więzień pojmuje to lepiej niż inni i dla niego jest to naprawdę radosną nowiną” (Resistenza e resa, Cinisello Balsamo - MI, Ed. Paoline, 1988, 324).

7.    Drodzy bracia i drogie siostry, kulturę pokoju buduje się nie tylko pomiędzy ludami i narodami. Zaczyna się ona w sercu każdego z nas. Cierpiąc z powodu szalejących wojen i przemocy, możemy i musimy wnieść nasz wkład w pokój, starając się wykorzenić z naszych serc wszelki korzeń nienawiści i niechęci wobec naszych braci i sióstr, którzy żyją obok nas. W Liście do Efezjan czytamy te słowa, które znajdujemy również w modlitwie Komplety: „Niech zniknie spośród was wszelka gorycz, uniesienie, gniew, wrzaskliwość, znieważenie – wraz z wszelką złością. Bądźcie dla siebie nawzajem dobrzy i miłosierni! Przebaczajcie sobie, tak jak i Bóg nam przebaczył w Chrystusie” (4, 31-32). Możemy zadać sobie pytanie: czy owa gorycz jest w naszych sercach? Co ją karmi? Z czego rodzi się pogarda, która bardzo często tworzy dystans między nami i podsyca gniew i urazy? Dlaczego obmowa we wszystkich jej odmianach staje się jedynym sposobem mówienia o rzeczywistości?

Jeśli to prawda, że chcemy, by ustał zgiełk wojny i ustąpił miejsca pokojowi, to zacznijmy od siebie. Święty Paweł mówi nam wyraźnie, że życzliwość, miłosierdzie i przebaczenie są lekarstwem, jakim dysponujemy, by budować pokój.

Życzliwość jest zawsze możliwością wybierania dobroci w odnoszeniu się do siebie nawzajem. Istnieje nie tylko przemoc zbrojna, ale także przemoc werbalna, przemoc psychologiczna, przemoc związana z nadużywaniem władzy, ukryta przemoc związana z plotkowaniem, które wyrządzają wiele zła i czynią wielkie zniszczenia. Przed Księciem Pokoju, który przychodzi na świat, złóżmy wszelką broń każdego rodzaju. Niech nikt nie wykorzystuje swojej pozycji i roli do poniżania drugiego.

Miłosierdzie to akceptacja tego, że drugi człowiek może też mieć swoje ograniczenia. Również w tym przypadku należy przyznać, że osoby i instytucje, właśnie dlatego, że są ludzkie, są również ograniczone. Czysty Kościół dla czystych to tylko ponowne zaproponowanie herezji katarów. Gdyby tak nie było, Ewangelia i w ogóle Biblia nie mówiłaby nam o ograniczeniach i wadach wielu osób, które dziś uznajemy za świętych.

Wreszcie, przebaczenie to dawanie zawsze kolejnej szansy, czyli zrozumienie, że stajemy się świętymi przez próbę i błąd. Bóg czyni to z każdym z nas, zawsze nam przebaczając, zawsze stawiając nas na nogi i dając nam jeszcze jedną szansę. Tak też musi być pośród nas. Bracia i siostry, Bóg niestrudzenie przebacza, to nam trudno prosić o przebaczenie.

Wszelka wojna, aby ją ugasić potrzebuje przebaczenia, inaczej sprawiedliwość staje się zemstą, a miłość jest uznawana jedynie za formę słabości.

 

Bóg stał się dzieckiem, a to dziecko, gdy dorosło, pozwoliło się przybić do krzyża. Nie ma nic słabszego niż ukrzyżowany człowiek, a jednak w tej słabości objawiła się wszechmoc Boga. W przebaczeniu zawsze działa Boża wszechmoc. Niech wdzięczność, nawrócenie i pokój będą zatem darami tych Świąt.

Życzę Wam wszystkim dobrego Bożego Narodzenia! I po raz kolejny proszę, abyście nie zapominali o mnie w modlitwie. Dziękuję!

[02011-PL.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua araba

كلمة قداسة البابا فرنسيس

إلى الكوريا الرّومانيّة

في مناسبة عيد الميلاد المجيد

الخميس 22 كانون الأوّل/ديسمبر 2022

أيّها الإخوة والأخوات الأعزاء!

1. الرّبّ يسوع يعطينا مرّة أخرى النّعمة لنحتفل بسرّ ميلاده. في كلّ سنة، عند أقدام الطّفل المضجع في المذود (راجع لوقا 2، 12)، يمنحنا الله أن ننظر إلى حياتنا انطلاقًا من هذا النّور الخاصّ. ليس نور مجد هذا العالم، بل "النُّورُ الحَقّ، الَّذي يُنيرُ كُلَّ إِنْسان، آتِيًا إِلى العالَم" (يوحنا 1، 9). تواضَعَ ابن الله واتخذ حالتنا البشريّة، وهو لنا مدرسة لقبول واقعنا. فكما اختار هو الفقر، الذي لا يعني فقط غياب الخيرات، بل غياب الجوهر، بنفس الطّريقة كلّ واحد منّا مدعوٌّ إلى أن يعود إلى ما هو أساسيّ في حياته، من أجل التخلّص من كلّ ما هو غير ضروري ويمكن أن يصير عقبة في مسيرة قداستنا. ومسيرة القداسة هذه يجب ألّا تكون موضوع تفاوُض.

2. ومع ذلك، من المهمّ أن نكون واضحين. عندما نراجع حياتنا أو الوقت الذي مضى، يجب أن تكون دائمًا نقطة الانطلاق ذاكرة الخير. في الواقع، فقط عندما نكون واعين للخير الذي صنعه لنا الرّبّ يسوع، يمكننا أيضًا أن نعطي اسمًا للشّرّ الذي اختبرناه أو عانينا منه. أن ندرك أنّنا فقراء ولا ندرك أيضًا محبّة الله لنا، هذا أمر يحطِّمنا. بهذا المعنى، إنّ الموقف الداخليّ الذي يجب أن نوليه الأهميّة الكبرى هو عرفان الجميل والشّكر.

ليفسر لنا الإنجيل ما هو عرفان الجميل، يروي لنا قصة البرص العشرة الذين شفاهم يسوع جميعًا؛ لكن واحدًا فقط عاد ليشكره، وكان سامِريًّا (راجع لوقا 17، 11-19). وعاد الشّكر على هذا الرجل، بالإضافة إلى الشّفاء الجسديّ، بالخلاص الكامل (راجع الآية 19). اللقاء مع الخير الذي منحه الله له، لم يتوقّف عند السّطح، بل مَسَّ قلبه. وهكذا، إن لم ندرِّبْ أنفسنا باستمرار على الشّكر، ينتهي بنا الأمر فقط إلى أن نضع قائمة لعثراتنا ولن نرى ما هو أهمّ، أي النّعم التي يمنحنا إياها الرّبّ يسوع كلّ يوم.

3. حدثت أمور كثيرة في السّنة الماضيّة، ونريد أوّلًا أن نشكُر الرّبّ يسوع على كل النِعم التي منحنا إياها. ومن بين كلّ هذه النِعم، نأمل أن يكون فيها توبتنا أيضًا. ليست قطعًا أمرًا مفروغًا منه. أسوأ شيء يمكن أن يحدث لنا هو أن نفكّر بأنّنا لم نَعُدْ بحاجة إلى توبة، على الصّعيد الشّخصيّ والجماعيّ.

أن نتوب هو أن نزداد دائمًا تعلُّمًا كيف نأخذ رسالة الإنجيل بصورة جدّية، وأن نحاول أن نعيشها في حياتنا. ليس فقط أن نبتعد عن الشّرّ، بل أن نصنع كلّ خير ممكن: هذا هو معنى أن نتوب. أمام الإنجيل، نبقَى دائمًا مثل الأطفال المحتاجين إلى أن يتعلّموا. أن نفترض أنّنا تعلّمنا كلّ شيء يجعلنا نقع في الكبرياء الرّوحيّ.

هذه السّنة هي الذكرى السّنويّة السّتون لبدء المجمع الفاتيكانيّ الثّانيّ. ماذا كان المجمع إن لم يكن فرصة كبيرة لتوبة الكنيسة كلّها؟ قال بهذا الصدد، البابا القدّيس يوحنا الثّالث والعشرون: "ليس الإنجيل الذي يتغيّر، بل نحن الذين نبدأ نفهمه بصّورة أفضل". كانت التّوبة التي منحنا إياها المجمع محاولة لنفهم الإنجيل بصورة أفضل، ولتطبيقه على حالتنا، وجعله حيًّا وفعّالًا في هذه اللحظة التاريخيّة.

وكما حدث عدّة مرات من قبل في تاريخ الكنيسة، حدث أيضًا في عصرنا لنا جماعةَ المؤمنين، شعرنا أنّنا مدعوّون إلى التّوبة. وهذ المسار لم ينتهِ بعد. التأمّل الحالي في سينوديّة الكنيسة ينشأ تحديدًا من قناعتنا بأنّ مسيرة فهم رسالة المسيح لا نهاية لها، وتحثّنا على الاستمرار.

نقيض التّوبة هو التّجمد أي القناعة المخفية، بأنّنا لسنا بحاجة إلى مزيد من الفهم للإنجيل. إنّه الخطأ الذي يريد أن يجمِّد رسالة يسوع في شكل واحد يَصلُح دائمًا. بينما يجب أن يكون الشّكل دائمًا قادرًا على التّغيير حتّى يظَلَّ الجوهر على ما هو دائمًا. الهرطقة الحقيقيّة ليست فقط الكرازة بإنجيل آخر (راجع غلاطية 1، 9)، كما يذكّرنا بولس، بل هي أيضًا التوقّف عن ترجمته إلى اللغات والطّرق الحالية، وهو ما فعله رسول الأمم. أن نحافظ يعني أن نحافظ بصورة حيّة وفعّالة وليس أن نسجن رسالة المسيح.

4. ومع ذلك، فإنّ المشكلة الحقيقيّة، التي ننساها غالبًا، هي أنّ التّوبة لا تجعلنا نرى الشّرّ فقط، فنختار الخير، بل تجعلنا نرى في الوقت نفسه أنّها تدفع الشّرّ ليتطوّر، ليزداد مكرًا، وليتنكّر بأسلوب جديد حتّى يصعب علينا أن نتعرّف عليه. إنّها معركة حقيقيّة. المُجَرِّب يعود دائمًا، ويعود متخفّيًا بثوب الملاك.

استخدم يسوع في الإنجيل تشبيهًا يمكنه أن يساعدنا على أن نفهم هذا العمل الذي يتكوّن من أوقات وطُرُق مختلفة: "إِذا كانَ القَوِيُّ المُتَسَلِّحُ يَحرُسُ دارَه، فإِنَّ أَموالَه في أَمان. ولكِن إِذا فاجَأَهُ مَن هُوَ أَقْوى مِنهُ وغَلَبَه، يَنتَزِعُ ما كانَ يَعتَمِدُ علَيه مِن سِلاح، ويُوَزِّعُ أَسْلابَه" (لوقا 11، 21-22). مشكلتنا الكبيرة الأولى هي ثقتنا الزّائدة بأنفسنا، وباستراتيجيّاتنا، وببرامجنا. إنّها الرّوح البيلاجيّة التي تكلّمْتُ عليها عدّة مرّات. لذلك بعض الإخفاقات هي نعمة، لأنّها تذكّرنا أنّنا يجب ألّا نثق بأنفسنا، بل فقط بالرّبّ يسوع. بعض الوقعات، أيضًا ككنيسة، هي تذكير شديد لكي نضع المسيح من جديد في المركز. لأنّ "مَن لم يَكُنْ مَعي كانَ علَيَّ، ومَن لم يَجمَعْ مَعي كانَ مُبَدِّدًا" (لوقا 11، 23). إنّه أمرٌ بسيطٌ جدًّا.

أّيها الإخوة والأخوات الأعزّاء، لا يكفي أن نَدِين الشّرّ، حتّى الذي يتسرَّب بيننا. ما علينا أن نفعله هو أن نتّخذ القرار في أن نتوب ونبدِّل أنفسنا. التنديد فقط يمكن أن يوَهِّمنا بأنّنا حللنا المشكلة، بينما في الحقيقة، المهمّ هو أن نقوم بتغييرات في أنفسنا تضعنا في حالة لا نكون فيها سجناء لمنطق الشّرّ، وهو غالبًا منطقُ العالم. بهذا المعنى، إحدى أكثر الفضائل فائدة، يجب أن نمارسها، هي فضيلة السَّهَر. وصف يسوع ضرورة هذا الانتباه إلى أنفسنا وإلى الكنيسة – ضرورة السَّهَر – في تشبيه بليغ قال: "إنَّ الرُّوحَ النَّجِس، إِذا خَرَجَ مِنَ الإِنسان، هامَ في القِفارِ يَطلُبُ الرَّاحَةَ فلا يَجِدُها فيَقول: أَرجِعُ إِلى بَيتيَ الَّذي مِنهُ خَرَجْتُ. فيَأتي فَيَجِدُه مَكْنوسًا مُزَيَّنًا. فيَذْهَبُ ويَستَصحِبُ سَبعَةَ أَرواحٍ أَخبَثَ مِنه، فيَدخُلونَ ويُقيمونَ فيه، فتَكونَ حَالَةُ ذلكَ الإِنسانِ الأَخيرة أَسوأَ مِن حالَتِه الأُولى" (لوقا 11، 24-26). بتوبتنا الأوّلى وضعنا بعض التّرتيب: الشّرّ الذي عرفناه وحاولنا أن نستأصله من حياتنا، ابتعد في الواقع عنّا، لكن، فكَّرْنا في سذاجتنا أنّه سيبقى بعيدًا عنّا فترةً طويلة. في الواقع، رجع إلينا بعد قليل بصّورة جديدة. بدا لنا من قبل بصورة غليظة، عنيفة، والآن يتصرّف بطريقة أنيقة ومهذَّبة. لذلك، نحن بحاجة مرّة أخرى لأن نعرفه ونزيل القناع عنه. اسمحوا لِي أن أستخدم هذا التّعبير: إنّها ”الشّياطين المؤدّبة“: تدخل بأدب، دون أن أنتبه إلى ذلك. ممارستنا اليوميّة لفحص الضّمير فقط، يمكنها أن تجعلنا ندرك ذلك. لهذا نرى أهمّيّة فحص الضّمير، لكي نَسهَر على البيت.

في القرن السّابع عشر – على سبيل المثال - كانت قضيّة راهبات بورت رويال (Port Royal) الشّهيرة. إحدى الرئيسات، الأم أنجيليكا، بدأت بدايةً حسنة: كانت موهوبة، و”بمواهبها“ أصلحت نفسها وأصلحت الدّير، وأخرجت من حصن الرّاهبات حتّى الوالدين. كانت امرأة موهوبة، وُلِدَت لتَحكُم، لكنّها بعد ذلك أصبحت قلب المقاومة الجانسينية (giansenista)، وأظهرت انغلاقًا عنيدًا حتّى أمام السُّلطة الكنسيّة. قِيلَ عَنها وعن راهباتها إنّهنَّ: "طاهرات مثل الملائكة، ومتكبّرات مثل الشّياطين". طردنَ الشَّيطان، لكنّه رجع سبع مرّات أقوى، وتحت ثوب التّقشّف والتشدّد، جاء لهنَّ بالتزمّت والغرور بأنّهنّ أفضل من غيرهنَّ. الشّيطان يرجع دائمًا: الشَّيطان، الذي طُرِدَ، سيَرجِع، متخفّيًا بثوب الملاك، لكنّه سيَرجِع. لنتنبَّه!

5. روى يسوع في الإنجيل أمثلة كثيرة، كانت موجّهة قبل كلّ شيء إلى طبقة المفكّرين خيرًا بأنفسهم، إلى الكتبة والفرّيسيّين، بهدف أن يُظهر لهم الخدعة في أن نشعر بأنفسنا أنّنا أبرار ونحتقر سائر النّاس (راجع لوقا 18، 9). مثلًا، في ما يُسمّى بأمثال الرّحمة (راجع لوقا 15)، لم يَرْوِ فقط قصّة الخروف الضّال وقصّة الابن الأصغر لذلك الأب المسكين، الذي رأى ابنه هذا الأخير يعامله كما لو أنّه ميت. هذه الأمثال تذكّرنا أنّ الطّريقة الأولى لارتكاب الخطيئة هي أن نبتعد، ونَضِيع، ونفعل أمورًا خاطئة بشكل واضح. لكن يسوع يتكلّم في تلك الأمثال أيضًا على الدّرهم الضّائع وعلى الابن الأكبر. التّشبيه واضح: يمكن أن نَضِيع في البيت أيضًا، كما حصل مع درهم تلك المرأة، ويمكن أن نعيش غير سعداء ولو بقينا رسميًّا ضمن حدود واجبنا، كما حصل مع الابن الأكبر في مثل الأب الرّحيم. من السّهل أن نلاحظ الابتعاد في حالة الذي ابتعد، لكن من الصّعب أن نعرف أن الذين بقوا في البيت يعيشون في جحيم، بسبب قناعتهم أنّهم فقط ضحايا، وأنّ السُّلطة القائمة تعاملهم بشكل غير عادل، وفي النّهاية، الله نفسه لا ينصفهم. وكَم مرَّة يحدث لنا هذا، هنا في البيت!

أيّها الإخوة والأخوات الأعزّاء، لقد حصل لنا كلّنا أنّنا ضِعنَا مثل هذا الخروف الصّغير أو ابتعدنا عن الله مثل الابن الأصغر. إنّها خطايا أذلّتنا، ولهذا السّبب بالتّحديد، وبنعمة الله، استطعنا أن نواجِهها وجهًا لوجه. لكن، الانتباه الكبير الذي يجب أن نُوليه في هذه الفترة من حياتنا، هو أنّ واقعنا أي حياتنا الحاليّة هي رسميًّا في البيت، داخل جدران المؤسّسة، في خدمة الكرسيّ الرّسوليّ، وفي قلب الجسم الكنسيّ نفسه، ولهذا السّبب بالتّحديد يمكننا أن نقع في هذه التجربة: نفكّر في أنّنا في أمان، وأنّنا الأفضل، وأنّنا لسنا بحاجة إلى أن نتوب.

نحن في خطر أكثر من كلّ الآخرين، لأنّ ”الشّيطان المؤدّب“ يُحيط بنا، ولا يأتي بضجيج، بل حاملًا الزّهور. عذرًا، أيّها الإخوة والأخوات، إن قُلتُ أحيانًا بعض الأمور التي يمكن أن تبدو قاسيّة وشديدة، فهذا لا لأنّني لا أؤمن بمعاني اللّطف والحنان، بل لأنّه حسنٌ أن نخصّص الملاطفات للمُتعبين والمضطّهدين حقًّا، وأن نجد الشّجاعة حتى نُدخِل الاضطراب في نفوس من هم في التّعزية، كما كان يحبّ أن يقول خادم الله الكاهن تونينو بيلّو، لأن تعزيّة الذين هم في هذه الحالة، تكون فقط خدعة من الشّيطان لا عطيّة من الرّوح القدس.

6. أخيرًا، أودّ أن أحتفظ بكلمة أخيرة لموضوع السّلام. من الألقاب التي وصف بها النّبي أشعيا المسيح، لقب "رئيس السّلام" (9، 5). لم نشعر قط برغبة كبيرة في السّلام مثل رغبتنا فيه في هذه الفترة. أفكّر في أوكرانيا المعذّبة، وأيضًا في الكثير من النّزاعات التي تدور حاليًّا في أنحاء مختلفة من العالم. الحرب والعنف هما دائمًا تعبير عن الفشل. الدّيانة يجب ألّا تغذيّ الصّراعات. الإنجيل هو دائمًا إنجيل السّلام، ولا يمكن، وباسم أيّ إله، إعلان الحرب على أنّها ”مقدّسة“.

حيث يسود الموت، والانقسام، والصّراع، والألم البريء، هناك فقط يمكننا أن نتعرّف على يسوع المصلوب. وفي هذه اللّحظة أودّ أن تتوجّه أفكارنا بالتّحديد إلى الذين يتألّمون أكثر من غيرهم. يمكن أن تساعدنا كلمات ديتريش بونهوفر، الذي كتب من السّجن حيث كان سجينًا: "إن نظرنا إلى الأمر من وجهة نظر مسيحيّة، لا يمكن أن يكون قضاء عيد الميلاد في زنزانة السّجن مشكلة خاصّة. كثيرون في هذا البيت، ربّما سيحتفلون بعيد ميلاد غنيّ في معناه وحقيقي، أكثر من الذين يحتفلون به ولم يحتفظوا من هذا العيد إلّا باسمه. يفهم السّجين أكثر من أيّ شخص آخر أنّ البؤس، والألم، والفقر، والوَحدة، وعدم المساعدة والشّعور بالذّنب، كلّ هذا له، في نظر الله، معنى يختلف تمامًا عن حكم البشر، وأنّ الله يوجّه نظره تحديدًا إلى الذين يُبعد الأشخاص عادةً نظرهم عنهم، وأنّ المسيح وُلِدَ في اسطبل لأنّه لم يجد مكانًا في الفندق، كلّ تلك الأمور، هي للسجين بُشرَى سارة" (Resistenza e resa, Cinisello Balsamo - MI, Ed. Paoline, 1988, 324).

7. أيّها الإخوة والأخوات الأعزّاء، ثقافة السّلام لا تُبنى فقط بين الشّعوب وبين الأمم. إنّها تبدأ في قلب كلّ واحد منّا. بينما نتألّم من تفاقم الحروب والعنف، يمكننا ويجب علينا أن نساهم في بناء السّلام بمحاولة استئصال كلّ جذور الكراهية والاستياء من قلوبنا تجاه الإخوة والأخوات الذين يعيشون في جوارنا. نقرأ في الرّسالة إلى أهل أفسس هذه الكلمات، التي نجدها أيضًا في صلاة النّوم: "أَزيلوا مِن بَينِكم كُلَّ شَراسةٍ وسُخْطٍ وغَضَبٍ وصَخَبٍ وشَتيمة وكُلَّ ما كانَ سُوءًا. لِيَكُنْ بَعضُكم لِبَعضٍ مُلاطِفًا مُشفِقًا، ولْيَصفَحْ بَعضُكم عن بَعضٍ كما صَفَحَ اللهُ عنكم في المسيح" (4، 31-32). يمكننا أن نتساءل: كم من الشّراسة يوجد في قلوبنا؟ وما الذي يُؤجّجها؟ ومن أين يولد السّخط الذي يخلق غالبًا المسافات بيننا ويؤجّج الغضب والاستياء؟ لماذا تصبح الكلمة السّيئة بجميع أشكالها، الطّريقة الوحيدة التي فيها يجب أن نتكلّم على الواقع؟

إن كان صحيحًا أنّنا نريد أن يتوقّف ضجيج الحرب ونُفسح المجال للسّلام، إذًا يجب على كلّ واحد أن يبدأ من نفسه. قال لنا القدّيس بولس بوضوح إنّ اللّطف والرّحمة والمغفرة هي الدّواء بين أيدينا لبناء السّلام.

اللّطف هو اختيار أسلوب الخير دائمًا لكي نتواصل فيما بيننا. لا يوجد فقط العنف المسلّح، بل يوجد أيضًا العنف اللّفظي، والعنف النّفسي، وعنف سوء استعمال السُّلطة، والعنف المتخفّي في الثّرثرة، الذي يُضِرُّ كثيرًا ويهدم كثيرًا. أمام أمير السّلام الذي سيأتي إلى العالم، لنضع جانبًا كلّ سلاح، من كلّ نوع. ولا يستغلّ أحد منصبه ودوره في الحياة لكي يؤذي الآخر.

الرّحمة هي أن نتقبّل أن يكون للآخر حدوده أيضًا. في هذه الحالة أيضًا، من الصّحيح أن نعترف أنّ الأشخاص والمؤسّسات، الكلّ له حدوده أيضًا، بالتّحديد لأنّهم بَشَرْ. الكنيسة الطّاهرة من أجل الطّاهرين ليست سوى إحياء لِبِدعَةِ الكاثاريين (أي مُدَّعِي الطّهارة). لو لم يكن الأمر كذلك، لما قال لنا الإنجيل والكتاب المقدّس بشكل عام عن محدوديّة وعيوب الكثيرين الذين نعترف بهم اليوم قدّيسين.

أخيرًا، المغفرة هي أن نعطي دائمًا فرصة أخرى، أيّ أن نفهم أنّ الإنسان يصبح قدّيسًا بالمحاولة والسّعي. الله يفعل هكذا مع كلّ واحد منّا، ويغفر لنا دائمًا، وينهضنا دائمًا على أقدامنا ويعطينا فرصة أخرى. هكذا يجب أن يكون الأمر بيننا. أيّها الإخوة والأخوات، الله لا يتعب أبدًا من أن يغفر لنا، بل نحن الذين نتعب من طلب المغفرة منه.

كلّ حرب، كي نخمدها، بحاجة إلى مغفرة، وإلّا فإنّ العدالة تصير انتقامًا، والمحبّة تُعرَف كأنّها شكل من أشكال الضّعف.

صار الله طفلًا، وصار هذا الطّفل كبيرًا، وقَبِلَ أن يُسمَّر على الصّليب. لا يوجد أضعف من إنسان مصلوب، ومع ذلك، تجلّت قدرة الله في هذا الضّعف. قدرة الله تعمل دائمًا في المغفرة. ليكن الشّكر والتّوبة والسّلام إذًا عطايا عيد الميلاد لنا.

أتمنّى للجميع عيد ميلاد مجيد! وأطلب منكم مرّة أخرى ألّا تنسَوْا أن تصلّوا من أجلي. شكرًا!

 

[02011-AR.02] [Testo originale: Italiano]

[B0950-XX.02]