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LETTERA APOSTOLICA
DESIDERIO DESIDERAVI
DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
AI VESCOVI, AI PRESBITERI E AI DIACONI,
ALLE PERSONE CONSACRATE
E AI FEDELI LAICI
SULLA FORMAZIONE LITURGICA
DEL POPOLO DI DIO
Desiderio desideravi
hoc Pascha manducare vobiscum,
antequam patiar (Lc 22,15).
1. Carissimi fratelli e sorelle,
con questa lettera desidero raggiungere tutti – dopo aver già scritto ai soli vescovi in seguito alla pubblicazione del Motu Proprio Traditionis custodes – per condividere con voi alcune riflessioni sulla Liturgia, dimensione fondamentale per la vita della Chiesa. Il tema è molto vasto e merita un’attenta considerazione in ogni suo aspetto: tuttavia, con questo scritto non intendo trattare la questione in modo esaustivo. Voglio semplicemente offrire alcuni spunti di riflessione per contemplare la bellezza e la verità del celebrare cristiano.
La Liturgia: “oggi” della storia della salvezza
2. “Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione” (Lc 22,15). Le parole di Gesù con le quali si apre il racconto dell’ultima Cena sono lo spiraglio attraverso il quale ci viene data la sorprendente possibilità di intuire la profondità dell’amore delle Persone della Santissima Trinità verso di noi.
3. Pietro e Giovanni erano stati mandati a preparare per poter mangiare la Pasqua, ma, a ben vedere, tutta la creazione, tutta la storia – che finalmente stava per rivelarsi come storia di salvezza – è una grande preparazione di quella Cena. Pietro e gli altri stanno a quella mensa, inconsapevoli eppure necessari: ogni dono per essere tale deve avere qualcuno disposto a riceverlo. In questo caso la sproporzione tra l’immensità del dono e la piccolezza di chi lo riceve, è infinita e non può non sorprenderci. Ciò nonostante – per misericordia del Signore – il dono viene affidato agli Apostoli perché venga portato ad ogni uomo.
4. A quella Cena nessuno si è guadagnato un posto, tutti sono stati invitati, o, meglio, attratti dal desiderio ardente che Gesù ha di mangiare quella Pasqua con loro: Lui sa di essere l’Agnello di quella Pasqua, sa di essere la Pasqua. Questa è l’assoluta novità di quella Cena, la sola vera novità della storia, che rende quella Cena unica e per questo “ultima”, irripetibile. Tuttavia, il suo infinito desiderio di ristabilire quella comunione con noi, che era e che rimane il progetto originario, non si potrà saziare finché ogni uomo, di ogni tribù, lingua, popolo e nazione (Ap 5,9) non avrà mangiato il suo Corpo e bevuto il suo Sangue: per questo quella stessa Cena sarà resa presente, fino al suo ritorno, nella celebrazione dell’Eucaristia.
5. Il mondo ancora non lo sa, ma tutti sono invitati al banchetto di nozze dell’Agnello (Ap 19,9). Per accedervi occorre solo l’abito nuziale della fede che viene dall’ascolto della sua Parola (cfr. Rm 10,17): la Chiesa lo confeziona su misura con il candore di un tessuto lavato nel Sangue dell’Agnello (cfr. Ap 7,14). Non dovremmo avere nemmeno un attimo di riposo sapendo che ancora non tutti hanno ricevuto l’invito alla Cena o che altri lo hanno dimenticato o smarrito nei sentieri contorti della vita degli uomini. Per questo ho detto che “sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione” (Evangelii gaudium, n. 27): perché tutti possano sedersi alla Cena del sacrificio dell’Agnello e vivere di Lui.
6. Prima della nostra risposta al suo invito – molto prima – c’è il suo desiderio di noi: possiamo anche non esserne consapevoli, ma ogni volta che andiamo a Messa la ragione prima è perché siamo attratti dal suo desiderio di noi. Da parte nostra, la risposta possibile, l’ascesi più esigente, è, come sempre, quella dell’arrendersi al suo amore, del volersi lasciare attrarre da lui. Per certo ogni nostra comunione al Corpo e al Sangue di Cristo è stata da Lui desiderata nell’ultima Cena.
7. Il contenuto del Pane spezzato è la croce di Gesù, il suo sacrificio in obbedienza d’amore al Padre. Se non avessimo avuto l’ultima Cena, vale a dire l’anticipazione rituale della sua morte, non avremmo potuto comprendere come l’esecuzione della sua condanna a morte potesse essere l’atto di culto perfetto e gradito al Padre, l’unico vero atto di culto. Poche ore dopo, gli Apostoli avrebbero potuto vedere nella croce di Gesù, se ne avessero sostenuto il peso, che cosa voleva dire “corpo offerto”, “sangue versato”: ed è ciò di cui facciamo memoria in ogni Eucaristia. Quando torna risorto dai morti per spezzare il pane per i discepoli di Emmaus e per i suoi tornati a pescare pesce – e non uomini – sul lago di Galilea, quel gesto apre i loro occhi, li guarisce dalla cecità inferta dall’orrore della croce, rendendoli capaci di “vedere” il Risorto, di credere alla Risurrezione.
8. Se fossimo giunti a Gerusalemme dopo la Pentecoste e avessimo sentito il desiderio non solo di avere informazioni su Gesù di Nazareth, ma di poterlo ancora incontrare, non avremmo avuto altra possibilità se non quella di cercare i suoi per ascoltare le sue parole e vedere i suoi gesti, più vivi che mai. Non avremmo avuto altra possibilità di un incontro vero con Lui se non quella della comunità che celebra. Per questo la Chiesa ha sempre custodito come il suo più prezioso tesoro il mandato del Signore: “fate questo in memoria di me”.
9. Fin da subito la Chiesa è stata consapevole che non si trattava di una rappresentazione, fosse pure sacra, della Cena del Signore: non avrebbe avuto alcun senso e nessuno avrebbe potuto pensare di “mettere in scena” – tanto più sotto gli occhi di Maria, la Madre del Signore – quel momento altissimo della vita del Maestro. Fin da subito la Chiesa ha compreso, illuminata dallo Spirito Santo, che ciò che era visibile di Gesù, ciò che si poteva vedere con gli occhi e toccare con le mani, le sue parole e i suoi gesti, la concretezza del Verbo incarnato, tutto di Lui era passato nella celebrazione dei sacramenti.[1]
La Liturgia: luogo dell’incontro con Cristo
10. Qui sta tutta la potente bellezza della Liturgia. Se la Risurrezione fosse per noi un concetto, un’idea, un pensiero; se il Risorto fosse per noi il ricordo del ricordo di altri, per quanto autorevoli come gli Apostoli, se non venisse data anche a noi la possibilità di un incontro vero con Lui, sarebbe come dichiarare esaurita la novità del Verbo fatto carne. Invece, l’incarnazione oltre ad essere l’unico evento nuovo che la storia conosca, è anche il metodo che la Santissima Trinità ha scelto per aprire a noi la via della comunione. La fede cristiana o è incontro con Lui vivo o non è.
11. La Liturgia ci garantisce la possibilità di tale incontro. A noi non serve un vago ricordo dell’ultima Cena: noi abbiamo bisogno di essere presenti a quella Cena, di poter ascoltare la sua voce, mangiare il suo Corpo e bere il suo Sangue: abbiamo bisogno di Lui. Nell’Eucaristia e in tutti i sacramenti ci viene garantita la possibilità di incontrare il Signore Gesù e di essere raggiunti dalla potenza della sua Pasqua. La potenza salvifica del sacrificio di Gesù, di ogni sua parola, di ogni suo gesto, sguardo, sentimento ci raggiunge nella celebrazione dei sacramenti. Io sono Nicodemo e la Samaritana, l’indemoniato di Cafarnao e il paralitico in casa di Pietro, la peccatrice perdonata e l’emorroissa, la figlia di Giairo e il cieco di Gerico, Zaccheo e Lazzaro, il ladrone e Pietro perdonati. Il Signore Gesù che immolato sulla croce, più non muore, e con i segni della passione vive immortale[2] continua a perdonarci, a guarirci, a salvarci con la potenza dei sacramenti. È il modo concreto, per via di incarnazione, con il quale ci ama; è il modo con il quale sazia quella sete di noi che ha dichiarato sulla croce (Gv 19,28).
12. Il nostro primo incontro con la sua Pasqua è l’evento che segna la vita di tutti noi credenti in Cristo: il nostro battesimo. Non è un’adesione mentale al suo pensiero o la sottoscrizione di un codice di comportamento da Lui imposto: è l’immergersi nella sua passione, morte, risurrezione e ascensione. Non un gesto magico: la magia è l’opposto della logica dei sacramenti perché pretende di avere un potere su Dio e per questa ragione viene dal tentatore. In perfetta continuità con l’incarnazione, ci viene data la possibilità, in forza della presenza e dell’azione dello Spirito, di morire e risorgere in Cristo.
13. Il modo in cui accade è commovente. La preghiera di benedizione dell’acqua battesimale[3] ci rivela che Dio ha creato l’acqua proprio in vista del battesimo. Vuol dire che mentre Dio creava l’acqua pensava al battesimo di ciascuno di noi e questo pensiero lo ha accompagnato nel suo agire lungo la storia della salvezza ogni volta che, con preciso disegno, ha voluto servirsi dell’acqua. È come se, dopo averla creata, avesse voluto perfezionarla per arrivare ad essere l’acqua del battesimo. E così l’ha voluta riempire del movimento del suo Spirito che vi aleggiava sopra (cfr. Gen 1,2) perché contenesse in germe la forza di santificare; l’ha usata per rigenerare l’umanità nel diluvio (cfr. Gen 6,1-9,29); l’ha dominata separandola per aprire una strada di liberazione nel Mar Rosso (cfr. Es 14); l’ha consacrata nel Giordano immergendovi la carne del Verbo intrisa di Spirito (cfr. Mt 3,13-17; Mc 1,9-11; Lc 3,21-22). Infine, l’ha mescolata con il sangue del suo Figlio, dono dello Spirito inseparabilmente unito al dono della vita e della morte dell’Agnello immolato per noi, e dal costato trafitto l’ha effusa su di noi (Gv 19,34). È in quest’acqua che siamo stati immersi perché per la sua potenza potessimo essere innestati nel Corpo di Cristo e con Lui risorgere alla vita immortale (cfr. Rm 6,1-11).
La Chiesa: sacramento del Corpo di Cristo
14. Come il Concilio Vaticano II ci ha ricordato (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 5) citando la Scrittura, i Padri e la Liturgia – le colonne della vera Tradizione – dal costato di Cristo dormiente sulla croce è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa. [4] Il parallelo tra il primo e il nuovo Adamo è sorprendente: come dal costato del primo Adamo, dopo aver fatto scendere su di Lui un torpore, Dio trasse Eva, così dal costato del nuovo Adamo, addormentato nel sonno della morte, nasce la nuova Eva, la Chiesa. Lo stupore è per le parole che possiamo pensare che il nuovo Adamo faccia sue guardando la Chiesa: “Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne” (Gen 2,23). Per aver creduto alla Parola ed essere scesi nell’acqua del battesimo, noi siamo diventati osso dalle sue ossa, carne dalla sua carne.
15. Senza questa incorporazione non vi è alcuna possibilità di vivere la pienezza del culto a Dio. Infatti, uno solo è l’atto di culto perfetto e gradito al Padre, l’obbedienza del Figlio la cui misura è la sua morte in croce. L’unica possibilità per poter partecipare alla sua offerta è quella di diventare figli nel Figlio. È questo il dono che abbiamo ricevuto. Il soggetto che agisce nella Liturgia è sempre e solo Cristo-Chiesa, il Corpo mistico di Cristo.
Il senso teologico della Liturgia
16. Dobbiamo al Concilio – e al movimento liturgico che l’ha preceduto – la riscoperta della comprensione teologica della Liturgia e della sua importanza nella vita della Chiesa: i principi generali enunciati dalla Sacrosanctum Concilium così come sono stati fondamentali per l’intervento di riforma, continuano ad esserlo per la promozione di quella partecipazione piena, consapevole, attiva e fruttuosa alla celebrazione (cfr. Sacrosanctum Concilium, nn.11.14), “prima e indispensabile fonte dalla quale i fedeli possono attingere il genuino spirito cristiano” (Sacrosanctum Concilium, n.14). Con questa lettera vorrei semplicemente invitare tutta la Chiesa a riscoprire, custodire e vivere la verità e la forza della celebrazione cristiana. Vorrei che la bellezza del celebrare cristiano e delle sue necessarie conseguenze nella vita della Chiesa, non venisse deturpata da una superficiale e riduttiva comprensione del suo valore o, ancor peggio, da una sua strumentalizzazione a servizio di una qualche visione ideologica, qualunque essa sia. La preghiera sacerdotale di Gesù nell’ultima Cena perché tutti siano una cosa sola (Gv 17,21), giudica ogni nostra divisione attorno al Pane spezzato, sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità.[5]
La Liturgia: antidoto al veleno della mondanità spirituale
17. Ho più volte messo in guardia rispetto ad una pericolosa tentazione per la vita della Chiesa che è la “mondanità spirituale”: ne ho parlato diffusamente nell’Esortazione Evangelii gaudium (nn. 93-97), individuando nello gnosticismo e nel neo-pelagianesimo i due modi tra loro connessi che la alimentano.
Il primo riduce la fede cristiana in un soggettivismo che chiude l’individuo “nell’immanenza della propria ragione o dei suoi sentimenti” (Evangelii gaudium, n. 94).
Il secondo annulla il valore della grazia per confidare solo sulle proprie forze, dando luogo “ad un elitarismo narcisista e autoritario, dove invece di evangelizzare si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare” (Evangelii gaudium, n. 94).
Queste forme distorte del cristianesimo possono avere conseguenze disastrose per la vita della Chiesa.
18. Da quanto ho voluto sopra ricordare risulta evidente che la Liturgia è, per la sua stessa natura, l’antidoto più efficace contro questi veleni. Ovviamente parlo della Liturgia nel suo senso teologico e non certo – già Pio XII lo affermava – come cerimoniale decorativo o mera somma di leggi e di precetti che regolano il culto.[6]
19. Se lo gnosticismo ci intossica con il veleno del soggettivismo, la celebrazione liturgica ci libera dalla prigione di una autoreferenzialità nutrita dalla propria ragione o dal proprio sentire: l’azione celebrativa non appartiene al singolo ma a Cristo-Chiesa, alla totalità dei fedeli uniti in Cristo. La Liturgia non dice “io” ma “noi” e ogni limitazione all’ampiezza di questo “noi” è sempre demoniaca. La Liturgia non ci lascia soli nel cercare una individuale presunta conoscenza del mistero di Dio, ma ci prende per mano, insieme, come assemblea, per condurci dentro il mistero che la Parola e i segni sacramentali ci rivelano. E lo fa, coerentemente con l’agire di Dio, seguendo la via dell’incarnazione, attraverso il linguaggio simbolico del corpo che si estende nelle cose, nello spazio e nel tempo.
20. Se il neo-pelagianesimo ci intossica con la presunzione di una salvezza guadagnata con le nostre forze, la celebrazione liturgica ci purifica proclamando la gratuità del dono della salvezza accolta nella fede. Partecipare al sacrificio eucaristico non è una nostra conquista come se di questo potessimo vantarci davanti a Dio e ai fratelli. L’inizio di ogni celebrazione mi ricorda chi sono chiedendomi di confessare il mio peccato e invitandomi a supplicare la beata sempre Vergine Maria, gli angeli, i santi e tutti i fratelli e le sorelle, di pregare per me il Signore: non siamo certo degni di entrare nella sua casa, abbiamo bisogno di una sua parola per essere salvati (cfr. Mt 8,8). Non abbiamo altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo (cfr. Gal 6,14). La Liturgia non ha nulla a che vedere con un moralismo ascetico: è il dono della Pasqua del Signore che, accolto con docilità, fa nuova la nostra vita. Non si entra nel Cenacolo se non che per la forza di attrazione del suo desiderio di mangiare la Pasqua con noi: Desiderio desideravi hoc Pascha manducare vobiscum, antequam patiar (Lc 22,15).
Riscoprire ogni giorno
la bellezza della verità della celebrazione cristiana
21. Dobbiamo però fare attenzione: perché l’antidoto della Liturgia sia efficace ci viene chiesto di riscoprire ogni giorno la bellezza della verità della celebrazione cristiana. Mi riferisco ancora una volta al suo senso teologico, come il n. 7 della Sacrosanctum Concilium ha mirabilmente descritto: la Liturgia è il sacerdozio di Cristo a noi rivelato e donato nella sua Pasqua, reso oggi presente e attivo attraverso segni sensibili (acqua, olio, pane, vino, gesti, parole) perché lo Spirito, immergendoci nel mistero pasquale, trasformi tutta la nostra vita conformandoci sempre più a Cristo.
22. La continua riscoperta della bellezza della Liturgia non è la ricerca di un estetismo rituale che si compiace solo nella cura della formalità esteriore di un rito o si appaga di una scrupolosa osservanza rubricale. Ovviamente questa affermazione non vuole in nessun modo approvare l’atteggiamento opposto che confonde la semplicità con una sciatta banalità, l’essenzialità con una ignorante superficialità, la concretezza dell’agire rituale con un esasperato funzionalismo pratico.
23. Intendiamoci: ogni aspetto del celebrare va curato (spazio, tempo, gesti, parole, oggetti, vesti, canto, musica, …) e ogni rubrica deve essere osservata: basterebbe questa attenzione per evitare di derubare l’assemblea di ciò che le è dovuto, vale a dire il mistero pasquale celebrato nella modalità rituale che la Chiesa stabilisce. Ma anche se la qualità e la norma dell’azione celebrativa fossero garantite, ciò non sarebbe sufficiente per rendere piena la nostra partecipazione.
Lo stupore per il mistero pasquale:
parte essenziale dell’atto liturgico
24. Se venisse a mancare lo stupore per il mistero pasquale che si rende presente nella concretezza dei segni sacramentali, potremmo davvero rischiare di essere impermeabili all’oceano di grazia che inonda ogni celebrazione. Non sono sufficienti i pur lodevoli sforzi a favore di una migliore qualità della celebrazione e nemmeno un richiamo all’interiorità: anche quest’ultima corre il rischio di ridursi ad una vuota soggettività se non accoglie la rivelazione del mistero cristiano. L’incontro con Dio non è frutto di una individuale ricerca interiore di Lui ma è un evento donato: possiamo incontrare Dio per il fatto nuovo dell’incarnazione che nell’ultima Cena arriva fino all’estremo di desiderare di essere mangiato da noi. Come ci può accadere la sventura di sottrarci al fascino della bellezza di questo dono?
25. Dicendo stupore per il mistero pasquale non intendo in nessun modo ciò che a volte mi pare si voglia esprimere con la fumosa espressione “senso del mistero”: a volte tra i presunti capi di imputazione contro la riforma liturgica vi è anche quello di averlo – si dice – eliminato dalla celebrazione. Lo stupore di cui parlo non è una sorta di smarrimento di fronte ad una realtà oscura o ad un rito enigmatico, ma è, al contrario, la meraviglia per il fatto che il piano salvifico di Dio ci è stato rivelato nella Pasqua di Gesù (cfr. Ef 1,3-14) la cui efficacia continua a raggiungerci nella celebrazione dei “misteri”, ovvero dei sacramenti. Resta pur vero che la pienezza della rivelazione ha, rispetto alla nostra finitezza umana, una eccedenza che ci trascende e che avrà il suo compimento alla fine dei tempi quando il Signore tornerà. Se lo stupore è vero non vi è alcun rischio che non si percepisca, pur nella vicinanza che l’incarnazione ha voluto, l’alterità della presenza di Dio. Se la riforma avesse eliminato quel “senso del mistero” più che un capo di accusa sarebbe una nota di merito. La bellezza, come la verità, genera sempre stupore e quando sono riferite al mistero di Dio, porta all’adorazione.
26. Lo stupore è parte essenziale dell’atto liturgico perché è l’atteggiamento di chi sa di trovarsi di fronte alla peculiarità dei gesti simbolici; è la meraviglia di chi sperimenta la forza del simbolo, che non consiste nel rimandare ad un concetto astratto ma nel contenere ed esprimere nella sua concretezza ciò che significa.
La necessità di una seria e vitale formazione liturgica
27. La questione fondamentale è, dunque, questa: come recuperare la capacità di vivere in pienezza l’azione liturgica? La riforma del Concilio ha questo come obiettivo. La sfida è molto impegnativa perché l’uomo moderno – non in tutte le culture allo stesso modo – ha perso la capacità di confrontarsi con l’agire simbolico che è tratto essenziale dell’atto liturgico.
28. La post-modernità – nella quale l’uomo si sente ancor più smarrito, senza riferimenti di nessun tipo, privo di valori perché divenuti indifferenti, orfano di tutto, in una frammentazione nella quale sembra impossibile un orizzonte di senso – è ancora gravata dalla pesante eredità che l’epoca precedente ci ha lasciato, fatta di individualismo e soggettivismo (che ancora una volta richiamano pelagianesimo e gnosticismo) come pure di uno spiritualismo astratto che contraddice la natura stessa dell’uomo, spirito incarnato e, quindi, in se stesso capace di azione e di comprensione simbolica.
29. È con la realtà della modernità che la Chiesa riunita in Concilio ha voluto confrontarsi, riaffermando la consapevolezza di essere sacramento di Cristo, luce delle genti (Lumen gentium), mettendosi in religioso ascolto della parola di Dio (Dei Verbum) e riconoscendo come proprie le gioie e le speranze (Gaudium et spes) degli uomini d’oggi. Le grandi Costituzioni conciliari non sono separabili e non è un caso che quest’unica grande riflessione del Concilio Ecumenico – la più alta espressione della sinodalità della Chiesa della cui ricchezza io sono chiamato ad essere, con tutti voi, custode – abbia preso l’avvio dalla Liturgia (Sacrosanctum Concilium).
30. Chiudendo la seconda sessione del Concilio (4 dicembre 1963) san Paolo VI così si esprimeva:
«Del resto, questa discussione appassionata e complessa non è stata affatto senza un frutto copioso: infatti quel tema che è stato prima di tutto affrontato, e che in un certo senso nella Chiesa è preminente, tanto per sua natura che per dignità – vogliamo dire la sacra Liturgia – è arrivato a felice conclusione, e viene oggi da Noi con solenne rito promulgato. Per questo motivo il Nostro animo esulta di sincera gioia. In questo fatto ravvisiamo infatti che è stato rispettato il giusto ordine dei valori e dei doveri: in questo modo abbiamo riconosciuto che il posto d’onore va riservato a Dio; che noi come primo dovere siamo tenuti ad innalzare preghiere a Dio; che la sacra Liturgia è la fonte primaria di quel divino scambio nel quale ci viene comunicata la vita di Dio, è la prima scuola del nostro animo, è il primo dono che da noi dev’essere fatto al popolo cristiano, unito a noi nella fede e nell’assiduità alla preghiera; infine, il primo invito all’umanità a sciogliere la sua lingua muta in preghiere sante e sincere ed a sentire quell’ineffabile forza rigeneratrice dell’animo che è insita nel cantare con noi le lodi di Dio e nella speranza degli uomini, per Gesù Cristo e nello Spirito Santo».[7]
31. Non posso in questa lettera intrattenermi sulla ricchezza delle singole espressioni che lascio alla vostra meditazione. Se la Liturgia è “il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia” (Sacrosanctum Concilium, n.10), comprendiamo bene che cosa è in gioco nella questione liturgica. Sarebbe banale leggere le tensioni, purtroppo presenti attorno alla celebrazione, come una semplice divergenza tra diverse sensibilità nei confronti di una forma rituale. La problematica è anzitutto ecclesiologica. Non vedo come si possa dire di riconoscere la validità del Concilio – anche se un po’ mi stupisce che un cattolico possa presumere di non farlo – e non accogliere la riforma liturgica nata dalla Sacrosanctum Concilium che esprime la realtà della Liturgia in intima connessione con la visione di Chiesa mirabilmente descritta dalla Lumen gentium. Per questo – come ho spiegato nella lettera inviata a tutti i Vescovi – ho sentito il dovere di affermare che “i libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano” (Motu Proprio Traditionis custodes, art. 1).
La non accoglienza della riforma, come pure una sua superficiale comprensione, ci distoglie dall’impegno di trovare le risposte alla domanda che torno a ripetere: come crescere nella capacità di vivere in pienezza l’azione liturgica? Come continuare a stupirci di ciò che nella celebrazione accade sotto i nostri occhi? Abbiamo bisogno di una seria e vitale formazione liturgica.
32. Torniamo ancora nel Cenacolo a Gerusalemme: il mattino di Pentecoste nasce la Chiesa, cellula iniziale dell’umanità nuova. Solo la comunità di uomini e donne riconciliati perché perdonati, vivi perché Lui è vivo, veri perché abitati dallo Spirito di verità, può aprire lo spazio angusto dell’individualismo spirituale.
33. È la comunità della Pentecoste che può spezzare il Pane nella certezza che il Signore è vivo, risorto dai morti, presente con la sua parola, con i suoi gesti, con l’offerta del suo Corpo e del suo Sangue. Da quel momento la celebrazione diventa il luogo privilegiato, non l’unico, dell’incontro con Lui. Noi sappiamo che solo grazie a questo incontro l’uomo diventa pienamente uomo. Solo la Chiesa della Pentecoste può concepire l’uomo come persona, aperto ad una relazione piena con Dio, con il creato e con i fratelli.
34. Qui si pone la questione decisiva della formazione liturgica. Dice Guardini: «Così è delineato anche il primo compito pratico: sostenuti da questa trasformazione interiore del nostro tempo, dobbiamo nuovamente imparare a porci di fronte al rapporto religioso come uomini in senso pieno».[8] È questo che la Liturgia rende possibile, a questo dobbiamo formarci. Lo stesso Guardini non esita ad affermare che senza formazione liturgica, “le riforme nel rito e nel testo non aiutano molto”.[9] Non intendo ora trattare in modo esaustivo il ricchissimo tema della formazione liturgica: vorrei solo offrire alcuni spunti di riflessione. Penso che possiamo distinguere due aspetti: la formazione alla Liturgia e la formazione dalla Liturgia. Il primo è funzionale al secondo che è essenziale.
35. È necessario trovare i canali per una formazione come studio della liturgia: a partire dal movimento liturgico molto in tal senso è stato fatto, con contributi preziosi di molti studiosi ed istituzioni accademiche. Occorre tuttavia diffondere queste conoscenze al di fuori dell’ambito accademico, in modo accessibile, perché ogni fedele cresca in una conoscenza del senso teologico della Liturgia – è la questione decisiva e fondante ogni conoscenza e ogni pratica liturgica – come pure dello sviluppo del celebrare cristiano, acquisendo la capacità di comprendere i testi eucologici, i dinamismi rituali e la loro valenza antropologica.
36. Penso alla normalità delle nostre assemblee che si radunano per celebrare l’Eucaristia nel giorno del Signore, domenica dopo domenica, Pasqua dopo Pasqua, in momenti particolari della vita dei singoli e delle comunità, nelle diverse età della vita: i ministri ordinati svolgono un’azione pastorale di primaria importanza quando prendono per mano i fedeli battezzati per condurli dentro la ripetuta esperienza della Pasqua. Ricordiamoci sempre che è la Chiesa, Corpo di Cristo, il soggetto celebrante, non solo il sacerdote. La conoscenza che viene dallo studio è solo il primo passo per poter entrare nel mistero celebrato. È evidente che per poter condurre i fratelli e le sorelle, i ministri che presiedono l’assemblea devono conoscere la strada sia per averla studiata sulla mappa della scienza teologica sia per averla frequentata nella pratica di una esperienza di fede viva, nutrita dalla preghiera, di certo non solo come impegno da assolvere. Nel giorno dell’ordinazione ogni presbitero si sente dire dal vescovo: «Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore».[10]
37. Anche l’impostazione dello studio della Liturgia nei seminari deve dare conto della straordinaria capacità che la celebrazione ha in se stessa di offrire una visione organica del sapere teologico. Ogni disciplina della teologia, ciascuna secondo la sua prospettiva, deve mostrare la propria intima connessione con la Liturgia, in forza della quale si rivela e si realizza l’unità della formazione sacerdotale (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 16). Una impostazione liturgico-sapienziale della formazione teologica nei seminari avrebbe certamente anche effetti positivi nell’azione pastorale. Non c’è aspetto della vita ecclesiale che non trovi in essa il suo culmine e la sua fonte. La pastorale d’insieme, organica, integrata, più che essere il risultato di elaborati programmi è la conseguenza del porre al centro della vita della comunità la celebrazione eucaristica domenicale, fondamento della comunione. La comprensione teologica della Liturgia non permette in nessun modo di intendere queste parole come se tutto si riducesse all’aspetto cultuale. Una celebrazione che non evangelizza non è autentica, come non lo è un annuncio che non porta all’incontro con il Risorto nella celebrazione: entrambi, poi, senza la testimonianza della carità, sono come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita (cfr. 1Cor 13,1).
38. Per i ministri e per tutti i battezzati, la formazione liturgica in questo suo primo significato, non è qualcosa che si possa pensare di conquistare una volta per sempre: poiché il dono del mistero celebrato supera la nostra capacità di conoscenza, questo impegno dovrà per certo accompagnare la formazione permanente di ciascuno, con l’umiltà dei piccoli, atteggiamento che apre allo stupore.
39. Un’ultima osservazione sui seminari: oltre allo studio devono anche offrire la possibilità di sperimentare una celebrazione non solo esemplare dal punto di vista rituale, ma autentica, vitale, che permetta di vivere quella vera comunione con Dio alla quale anche il sapere teologico deve tendere. Solo l’azione dello Spirito può perfezionare la nostra conoscenza del mistero di Dio, che non è questione di comprensione mentale ma di relazione che tocca la vita. Tale esperienza è fondamentale perché una volta divenuti ministri ordinati, possano accompagnare le comunità nello stesso percorso di conoscenza del mistero di Dio, che è mistero d’amore.
40. Quest’ultima considerazione ci porta a riflettere sul secondo significato con il quale possiamo intendere l’espressione “formazione liturgica”. Mi riferisco all’essere formati, ciascuno secondo la sua vocazione, dalla partecipazione alla celebrazione liturgica. Anche la conoscenza di studio di cui ho appena detto, perché non diventi razionalismo, deve essere funzionale al realizzarsi dell’azione formatrice della Liturgia in ogni credente in Cristo.
41. Da quanto abbiamo detto sulla natura della Liturgia risulta evidente che la conoscenza del mistero di Cristo, questione decisiva per la nostra vita, non consiste in una assimilazione mentale di una idea, ma in un reale coinvolgimento esistenziale con la sua persona. In tal senso la Liturgia non riguarda la “conoscenza” e il suo scopo non è primariamente pedagogico (pur avendo un grande valore pedagogico: cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 33) ma è la lode, il rendimento di grazie per la Pasqua del Figlio la cui forza di salvezza raggiunge la nostra vita. La celebrazione riguarda la realtà del nostro essere docili all’azione dello Spirito che in essa opera, finché non sia formato Cristo in noi (cfr. Gal 4,19). La pienezza della nostra formazione è la conformazione a Cristo. Ripeto: non si tratta di un processo mentale, astratto, ma di diventare Lui. Questo è lo scopo per il quale è stato donato lo Spirito la cui azione è sempre e solo quella di fare il Corpo di Cristo. È così con il pane eucaristico, è così per ogni battezzato chiamato a diventare sempre più ciò che ha ricevuto in dono nel battesimo, vale a dire l’essere membro del Corpo di Cristo. Scrive Leone Magno: «La nostra partecipazione al Corpo e al Sangue di Cristo non tende ad altro che a farci diventare quello che mangiamo».[11]
42. Questo coinvolgimento esistenziale accade – in continuità e coerenza con il metodo dell’incarnazione – per via sacramentale. La Liturgia è fatta di cose che sono esattamente l’opposto di astrazioni spirituali: pane, vino, olio, acqua, profumo, fuoco, cenere, pietra, stoffa, colori, corpo, parole, suoni, silenzi, gesti, spazio, movimento, azione, ordine, tempo, luce. Tutta la creazione è manifestazione dell’amore di Dio: da quando lo stesso amore si è manifestato in pienezza nella croce di Gesù tutta la creazione ne è attratta. È tutto il creato che viene assunto per essere messo a servizio dell’incontro con il Verbo incarnato, crocifisso, morto, risorto, asceso al Padre. Così come canta la preghiera sull’acqua per il fonte battesimale, ma anche quella sull’olio per il sacro crisma e le parole della presentazione del pane e del vino, frutti della terra e del lavoro dell’uomo.
43. La liturgia dà gloria a Dio non perché noi possiamo aggiungere qualcosa alla bellezza della luce inaccessibile nella quale Egli abita (cfr. 1Tm 6,16) o alla perfezione del canto angelico che risuona eternamente nelle sedi celesti. La Liturgia dà gloria a Dio perché ci permette, qui, sulla terra, di vedere Dio nella celebrazione dei misteri e, nel vederlo, prendere vita dalla sua Pasqua: noi, che da morti che eravamo per le colpe, per grazia, siamo stati fatti rivivere con Cristo (cfr. Ef 2,5), siamo la gloria di Dio. Ireneo, doctor unitatis, ce lo ricorda: «La gloria di Dio è l’uomo vivente, e la vita dell’uomo consiste nella visione di Dio: se già la rivelazione di Dio attraverso la creazione dà la vita a tutti gli esseri che vivono sulla terra, quanto più la manifestazione del Padre attraverso il Verbo è causa di vita per coloro che vedono Dio!».[12]
44. Scrive Guardini: «Con ciò si delinea il primo compito del lavoro di formazione liturgica: l’uomo deve diventare nuovamente capace di simboli».[13] Questo impegno riguarda tutti, ministri ordinati e fedeli. Il compito non è facile perché l’uomo moderno è diventato analfabeta, non sa più leggere i simboli, quasi non ne sospetta nemmeno l’esistenza. Ciò accade anche con il simbolo del nostro corpo. È simbolo perché intima unione di anima e corpo, visibilità dell’anima spirituale nell’ordine del corporeo e in questo consiste l’unicità umana, la specificità della persona irriducibile a qualsiasi altra forma di essere vivente. La nostra apertura al trascendente, a Dio, è costitutiva: non riconoscerla ci porta inevitabilmente ad una non conoscenza oltre che di Dio, anche di noi stessi. Basta vedere il modo paradossale con il quale viene trattato il corpo, ora curato in modo quasi ossessivo inseguendo il mito di una eterna giovinezza, ora ridotto ad una materialità alla quale è negata ogni dignità. Il fatto è che non si può dare valore al corpo partendo solo dal corpo. Ogni simbolo è nello stesso tempo potente e fragile: se non viene rispettato, se non viene trattato per quello che è, si infrange, perde di forza, diventa insignificante.
Non abbiamo più lo sguardo di san Francesco che guardava il sole – che chiamava fratello perché così lo sentiva – lo vedeva bellu e radiante cum grande splendore, e, pieno di stupore, cantava: de te Altissimu, porta significatione.[14] L’aver perso la capacità di comprendere il valore simbolico del corpo e di ogni creatura rende il linguaggio simbolico della Liturgia quasi inaccessibile all’uomo moderno. Non si tratta, tuttavia, di rinunciare a tale linguaggio: non è possibile rinunciarvi perché è ciò che la Santissima Trinità ha scelto per raggiungerci nella carne del Verbo. Si tratta, piuttosto, di recuperare la capacità di porre e di comprendere i simboli della Liturgia. Non dobbiamo disperare, perché nell’uomo questa dimensione, come ho appena detto, è costitutiva e, nonostante i mali del materialismo e dello spiritualismo – entrambi negazione dell’unità corpo e anima – è sempre pronta a riemergere, come ogni verità.
45. La domanda che ci poniamo è, dunque, come tornare ad essere capaci di simboli? Come tornare a saperli leggere per poterli vivere? Sappiamo bene che la celebrazione dei sacramenti è – per grazia di Dio – efficace in se stessa (ex opere operato) ma questo non garantisce un pieno coinvolgimento delle persone senza un adeguato modo di porsi di fronte al linguaggio della celebrazione. La lettura simbolica non è un fatto di conoscenza mentale, di acquisizione di concetti ma è esperienza vitale.
46. Anzitutto dobbiamo riacquistare fiducia nei confronti della creazione. Intendo dire che le cose – con le quali i sacramenti “sono fatti” – vengono da Dio, a Lui sono orientate e da Lui sono state assunte, in modo particolare con l’incarnazione, perché diventassero strumenti di salvezza, veicoli dello Spirito, canali di grazia. Qui si avverte tutta la distanza sia dalla visione materialista sia da quella spiritualista. Se le cose create sono parte irrinunciabile dell’agire sacramentale che opera la nostra salvezza, dobbiamo predisporci nei loro confronti con uno sguardo nuovo non superficiale, rispettoso, grato. Fin dall’origine esse contengono il germe della grazia santificante dei sacramenti.
47. Altra questione decisiva – sempre riflettendo su come la Liturgia ci forma – è l’educazione necessaria per poter acquisire l’atteggiamento interiore che ci permette di porre e di comprendere i simboli liturgici. Lo esprimo in modo semplice. Penso ai genitori e, ancor più, ai nonni, ma anche ai nostri parroci e catechisti. Molti di noi hanno appreso la potenza dei gesti della liturgia – come ad esempio il segno della croce, lo stare in ginocchio, le formule della nostra fede – proprio da loro. Forse non ne abbiamo il ricordo vivo, ma facilmente possiamo immaginare il gesto di una mano più grande che prende la piccola mano di un bambino e la accompagna lentamente nel tracciare per la prima volta il segno della nostra salvezza. Al movimento si accompagnano le parole, anch’esse lente, quasi a voler prendere possesso di ogni istante di quel gesto, di tutto il corpo: «Nel nome del Padre … e del Figlio … e dello Spirito Santo … Amen». Per poi lasciare la mano del bambino e guardarlo ripetere da solo, pronti a venire in suo aiuto, quel gesto ormai consegnato, come un abito che crescerà con Lui, vestendolo nel modo che solo lo Spirito conosce. Da quel momento quel gesto, la sua forza simbolica, ci appartiene o, sarebbe meglio dire, noi apparteniamo a quel gesto, ci dà forma, siamo da esso formati. Non servono troppi discorsi, non è necessario aver compreso tutto di quel gesto: occorre essere piccoli sia nel consegnarlo sia nel riceverlo. Il resto è opera dello Spirito. Così siamo stati iniziati al linguaggio simbolico. Di questa ricchezza non possiamo farci derubare. Crescendo potremo avere più mezzi per poter comprendere, ma sempre a condizione di rimanere piccoli.
Ars celebrandi
48. Un modo per custodire e per crescere nella comprensione vitale dei simboli della Liturgia è certamente quello di curare l’arte del celebrare. Anche questa espressione è oggetto di diverse interpretazioni. Essa si chiarisce se viene compresa avendo come riferimento il senso teologico della Liturgia descritto in Sacrosanctum Concilium al n. 7 e che abbiamo più volte richiamato. L’ars celebrandi non può essere ridotta alla sola osservanza di un apparato rubricale e non può nemmeno essere pensata come una fantasiosa – a volte selvaggia – creatività senza regole. Il rito è per se stesso norma e la norma non è mai fine a se stessa, ma sempre a servizio della realtà più alta che vuole custodire.
49. Come ogni arte, richiede diverse conoscenze.
Anzitutto la comprensione del dinamismo che descrive la Liturgia. Il momento dell’azione celebrativa è il luogo nel quale attraverso il memoriale si fa presente il mistero pasquale perché i battezzati, in forza della loro partecipazione, possano farne esperienza nella loro vita: senza questa comprensione facilmente si cade nell’esteriorismo (più o meno raffinato) e nel rubricismo (più o meno rigido).
Occorre, poi, conoscere come lo Spirito Santo agisce in ogni celebrazione: l’arte del celebrare deve essere in sintonia con l’azione dello Spirito. Solo così sarà libera da soggettivismi, che sono il frutto del prevalere di sensibilità individuali, e da culturalismi, che sono acquisizioni acritiche di elementi culturali che non hanno nulla a che vedere da un corretto processo di inculturazione.
È necessario, infine, conoscere le dinamiche del linguaggio simbolico, la sua peculiarità, la sua efficacia.
50. Da questi brevi cenni, risulta evidente che l’arte del celebrare non si può improvvisare. Come ogni arte richiede applicazione assidua. Ad un artigiano basta la tecnica; ad un artista, oltre alle conoscenze tecniche, non può mancare l’ispirazione che è una forma positiva di possessione: l’artista, quello vero, non possiede un’arte ne è posseduto. Non si impara l’arte del celebrare perché si frequenta un corso di public speaking o di tecniche di comunicazione persuasiva (non giudico le intenzioni, vedo gli effetti). Ogni strumento può essere utile ma deve sempre essere sottomesso alla natura della Liturgia e all’azione dello Spirito. Occorre una diligente dedizione alla celebrazione lasciando che sia la celebrazione stessa a trasmetterci la sua arte. Scrive Guardini: «Dobbiamo renderci conto di quanto profondamente siamo ancora radicati nell’individualismo e nel soggettivismo, di quanto siamo disabituati al richiamo delle grandezze e di quanto sia piccola la misura della nostra vita religiosa. Deve risvegliarsi il senso dello stile grande della preghiera, la volontà di coinvolgere anche in essa la nostra esistenza. Ma la via verso queste mète è la disciplina, la rinuncia ad una sentimentalità morbida; un serio lavoro, svolto in obbedienza alla Chiesa, in rapporto al nostro essere e al nostro comportamento religioso».[15] È così che si impara l’arte del celebrare.
51. Parlando di questo tema siamo portati a pensare che riguardi solo i ministri ordinati che svolgono il servizio della presidenza. In realtà è un atteggiamento che tutti i battezzati sono chiamati a vivere. Penso a tutti i gesti e le parole che appartengono all’assemblea: il radunarsi, l’incedere in processione, lo stare seduti, in piedi, in ginocchio, il cantare, lo stare in silenzio, l’acclamare, il guardare, l’ascoltare. Sono molti modi con i quali l’assemblea, come un solo uomo (Ne 8,1), partecipa alla celebrazione. Compiere tutti insieme lo stesso gesto, parlare tutti insieme ad una sola voce, trasmette ai singoli la forza dell’intera assemblea. È una uniformità che non solo non mortifica ma, al contrario, educa i singoli fedeli a scoprire l’unicità autentica della propria personalità non in atteggiamenti individualistici ma nella consapevolezza di essere un solo corpo. Non si tratta di dover seguire un galateo liturgico: si tratta piuttosto di una “disciplina” – nel senso usato da Guardini – che, se osservata con autenticità, ci forma: sono gesti e parole che mettono ordine dentro il nostro mondo interiore facendoci vivere sentimenti, atteggiamenti, comportamenti. Non sono l’enunciazione di un ideale al quale cercare di ispirarci, ma sono un’azione che coinvolge il corpo nella sua totalità, vale a dire nel suo essere unità di anima e di corpo.
52. Tra i gesti rituali che appartengono a tutta l’assemblea occupa un posto di assoluta importanza il silenzio. Più volte è espressamente prescritto nelle rubriche: tutta la celebrazione eucaristica è immersa nel silenzio che precede il suo inizio e segna ogni istante del suo svolgersi rituale. Infatti è presente nell’atto penitenziale; dopo l’invito alla preghiera; nella liturgia della Parola (prima delle letture, tra le letture e dopo l’omelia); nella preghiera eucaristica; dopo la comunione.[16] Non si tratta di un rifugio nel quale nascondersi per un isolamento intimistico, quasi patendo la ritualità come se fosse una distrazione: un tale silenzio sarebbe in contraddizione con l’essenza stessa della celebrazione. Il silenzio liturgico è molto di più: è il simbolo della presenza e dell’azione dello Spirito Santo che anima tutta l’azione celebrativa, per questo motivo spesso costituisce il culmine di una sequenza rituale. Proprio perché simbolo dello Spirito ha la forza di esprimere la sua multiforme azione. Così, ripercorrendo i momenti che ho sopra ricordato, il silenzio muove al pentimento e al desiderio di conversione; suscita l’ascolto della Parola e la preghiera; dispone all’adorazione del Corpo e del Sangue di Cristo; suggerisce a ciascuno, nell’intimità della comunione, ciò che lo Spirito vuole operare nella vita per conformarci al Pane spezzato. Per questo siamo chiamati a compiere con estrema cura il gesto simbolico del silenzio: in esso lo Spirito ci dà forma.
53. Ogni gesto e ogni parola contiene un’azione precisa che è sempre nuova perché incontra un istante sempre nuovo della nostra vita. Mi spiego con un solo semplice esempio. Ci inginocchiamo per chiedere perdono; per piegare il nostro orgoglio; per consegnare a Dio il nostro pianto; per supplicare un suo intervento; per ringraziarlo di un dono ricevuto: è sempre lo stesso gesto che dice essenzialmente il nostro essere piccoli dinanzi a Dio. Tuttavia, compiuto in momenti diversi del nostro vivere, plasma la nostra interiorità profonda per poi manifestarsi all’esterno nella nostra relazione con Dio e con i fratelli. Anche l’inginocchiarsi va fatto con arte, vale a dire con una piena consapevolezza del suo senso simbolico e della necessità che noi abbiamo di esprimere con questo gesto il nostro modo di stare alla presenza del Signore. Se tutto questo è vero per questo semplice gesto, quanto più lo sarà per la celebrazione della Parola? Quale arte siamo chiamati ad apprendere nel proclamare la Parola, nell’ascoltarla, nel farla ispirazione della nostra preghiera, nel farla diventare vita? Tutto questo merita la massima cura, non formale, esteriore, ma vitale, interiore, perché ogni gesto e ogni parola della celebrazione espresso con “arte” forma la personalità cristiana del singolo e della comunità.
54. Se è vero che l’ars celebrandi riguarda tutta l’assemblea che celebra, è altrettanto vero che i ministri ordinati devono avere per essa una particolare cura. Nel visitare le comunità cristiane ho spesso notato che il loro modo di vivere la celebrazione è condizionato – nel bene e, purtroppo, anche nel male – da come il loro parroco presiede l’assemblea. Potremmo dire che vi sono diversi “modelli” di presidenza. Ecco un possibile elenco di atteggiamenti che, pur essendo tra loro opposti, caratterizzano la presidenza in modo certamente inadeguato: rigidità austera o creatività esasperata; misticismo spiritualizzante o funzionalismo pratico; sbrigatività frettolosa o lentezza enfatizzata; sciatta trascuratezza o eccessiva ricercatezza; sovrabbondante affabilità o impassibilità ieratica. Pur nell’ampiezza di questa gamma, penso che l’inadeguatezza di questi modelli abbia una comune radice: un esasperato personalismo dello stile celebrativo che, a volte, esprime una mal celata mania di protagonismo. Spesso ciò acquista maggior evidenza quando le nostre celebrazioni vengono trasmesse in rete, cosa non sempre opportuna e sulla quale dovremmo riflettere. Intendiamoci, non sono questi gli atteggiamenti più diffusi, ma non di rado le assemblee subiscono questi “maltrattamenti”.
55. Molto si potrebbe dire sull’importanza e sulla delicatezza del presiedere. In più occasioni mi sono soffermato sul compito impegnativo del tenere l’omelia.[17] Mi limito ora ad alcune considerazioni più ampie, sempre volendo riflettere con voi su come veniamo formati dalla Liturgia. Penso alla normalità delle Messe domenicali nelle nostre comunità: mi riferisco, quindi, ai presbiteri ma implicitamente a tutti i ministri ordinati.
56. Il presbitero vive la sua tipica partecipazione alla celebrazione in forza del dono ricevuto nel sacramento dell’Ordine: tale tipicità si esprime proprio nella presidenza. Come tutti gli uffici che è chiamato a svolgere, non si tratta primariamente di un compito assegnato dalla comunità, quanto, piuttosto, della conseguenza dell’effusione dello Spirito Santo ricevuta nell’ordinazione che lo abilita a tale compito. Anche il presbitero viene formato dal suo presiedere l’assemblea che celebra.
57. Perché questo servizio venga fatto bene – con arte, appunto – è di fondamentale importanza che il presbitero abbia anzitutto una viva coscienza di essere, per misericordia, una particolare presenza del Risorto. Il ministro ordinato è egli stesso una delle modalità di presenza del Signore che rendono l’assemblea cristiana unica, diversa da ogni altra (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 7). Questo fatto dà spessore “sacramentale” – in senso ampio – a tutti i gesti e le parole di chi presiede. L’assemblea ha diritto di poter sentire in quei gesti e in quelle parole il desiderio che il Signore ha, oggi come nell’ultima Cena, di continuare a mangiare la Pasqua con noi. Il Risorto è, dunque, il protagonista, non lo sono di sicuro le nostre immaturità che cercano, assumendo un ruolo e un atteggiamento, una presentabilità che non possono avere. Il presbitero stesso è sopraffatto da questo desiderio di comunione che il Signore ha verso ciascuno: è come se fosse posto in mezzo tra il cuore ardente d’amore di Gesù e il cuore di ogni fedele, l’oggetto del suo amore. Presiedere l’Eucaristia è stare immersi nella fornace dell’amore di Dio. Quando ci viene dato di comprendere, o anche solo di intuire, questa realtà, non abbiamo di certo più bisogno di un direttorio che ci imponga un comportamento adeguato. Se di questo abbiamo bisogno è per la durezza del nostro cuore. La norma più alta, e, quindi, più impegnativa, è la realtà stessa della celebrazione eucaristica che seleziona parole, gesti, sentimenti, facendoci comprendere se sono o meno adeguati al compito che devono svolgere. È evidente che anche questo non si improvvisa: è un’arte, chiede al presbitero applicazione, vale a dire una frequentazione assidua del fuoco di amore che il Signore è venuto a portare sulla terra (cfr. Lc 12,49).
58. Quando la prima comunità spezza il pane in obbedienza al comando del Signore, lo fa sotto sguardo di Maria che accompagna i primi passi della Chiesa: “erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù” (At 1,14). La Vergine Madre “sorveglia” i gesti del suo Figlio affidati agli Apostoli. Come ha custodito nel suo grembo, dopo aver accolto le parole dell’angelo Gabriele, il Verbo fatto carne, la Vergine custodisce ancora una volta nel grembo della Chiesa quei gesti che fanno il corpo del Figlio suo. Il presbitero, che in forza del dono ricevuto con il sacramento dell’Ordine ripete quei gesti, è custodito nel grembo della Vergine. Serve una norma per dirci come ci si deve comportare?
59. Divenuti strumenti per far divampare il fuoco del suo amore sulla terra, custoditi nel grembo di Maria, Vergine fatta Chiesa (come cantava san Francesco), i presbiteri si lasciano lavorare dallo Spirito che vuole portare a compimento l’opera che ha iniziato nella loro ordinazione. L’azione dello Spirito offre a loro la possibilità di esercitare la presidenza dell’assemblea eucaristica con il timore di Pietro, consapevole del suo essere peccatore (cfr. Lc 5,1-11), con l’umiltà forte del servo sofferente (cfr. Is 42 ss), con il desiderio di “farsi mangiare” dal popolo a loro affidato nell’esercizio quotidiano del ministero.
60. È la celebrazione stessa che educa a questa qualità di presidenza, non è, lo ripetiamo, un’adesione mentale, anche se tutta la nostra mente, come pure la nostra sensibilità, viene in essa coinvolta. Il presbitero è, dunque, formato alla presidenza dalle parole e dai gesti che la liturgia mette sulle sue labbra e nelle sue mani.
Non siede su di un trono[18] perché il Signore regna con l’umiltà di chi serve.
Non ruba la centralità all’altare, segno di Cristo dal cui fianco squarciato scaturirono l’acqua e il sangue fonte dei sacramenti della Chiesa, e centro della nostra lode e del comune rendimento di grazie.[19]
Accostandosi all’altare per l’offerta il presbitero è educato all’umiltà e al pentimento dalle parole: «Umili e pentiti accoglici, o Signore: ti sia gradito il nostro sacrificio che oggi si compie dinanzi a te».[20]
Non può presumere di se stesso per il ministero a Lui affidato perché la Liturgia lo invita a chiedere di essere purificato, nel segno dell’acqua: «Lavami, o Signore, dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro».[21]
Le parole che la liturgia mette sulle sue labbra hanno contenuti, diversi che chiedono specifiche tonalità: per l’importanza di queste parole al presbitero è chiesta una vera ars dicendi. Esse danno forma ai suoi sentimenti interiori, ora nella supplica al Padre a nome dell’assemblea, ora nell’esortazione rivolta all’assemblea, ora nell’acclamazione ad una sola voce con tutta l’assemblea.
Con la preghiera eucaristica – nella quale anche tutti i battezzati partecipano ascoltando con riverenza e silenzio e intervenendo con le acclamazioni[22] – chi presiede ha la forza, a nome di tutto il popolo santo, di ricordare al Padre l’offerta del Figlio suo nell’ultima Cena, perché quel dono immenso si renda nuovamente presente sull’altare. A quell’offerta partecipa con l’offerta di se stesso. Il presbitero non può narrare al Padre l’ultima Cena senza esserne partecipe. Non può dire: «Prendete, e mangiatene tutti: questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi», e non vivere lo stesso desiderio di offrire il proprio corpo, la propria vita per il popolo a lui affidato. È ciò che avviene nell’esercizio del suo ministero.
Da tutto questo, e da molto altro, il presbitero viene continuamente formato nell’azione celebrativa.
* * *
61. Ho voluto semplicemente offrire alcune riflessioni che certamente non esauriscono l’immenso tesoro della celebrazione dei santi misteri. Chiedo a tutti i vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, ai formatori dei seminari, agli insegnanti delle facoltà teologiche e delle scuole di teologia, a tutti i catechisti e le catechiste, di aiutare il popolo santo di Dio ad attingere a quella che da sempre è la fonte prima della spiritualità cristiana. Siamo chiamati continuamente a riscoprire la ricchezza dei principi generali esposti nei primi numeri della Sacrosanctum Concilium comprendendo l’intimo legame tra la prima delle Costituzioni conciliari e tutte le altre. Per questo motivo non possiamo tornare a quella forma rituale che i Padri conciliari, cum Petro e sub Petro, hanno sentito la necessità di riformare, approvando, sotto la guida dello Spirito e secondo la loro coscienza di pastori, i principi da cui è nata la riforma. I santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II approvando i libri liturgici riformati ex decreto Sacrosancti Œcumenici Concilii Vaticani II hanno garantito la fedeltà della riforma al Concilio. Per questo motivo ho scritto Traditionis Custodes, perché la Chiesa possa elevare, nella varietà delle lingue, una sola e identica preghiera capace di esprimere la sua unità.[23] Questa unità, come già ho scritto, intendo che sia ristabilita in tutta la Chiesa di Rito Romano.
62. Vorrei che questa lettera ci aiutasse a ravvivare lo stupore per la bellezza della verità del celebrare cristiano, a ricordare la necessità di una formazione liturgica autentica e a riconoscere l’importanza di un’arte della celebrazione che sia a servizio della verità del mistero pasquale e della partecipazione di tutti i battezzati, ciascuno con la specificità della sua vocazione.
Tutta questa ricchezza non è lontana da noi: è nelle nostre chiese, nelle nostre feste cristiane, nella centralità della domenica, nella forza dei sacramenti che celebriamo. La vita cristiana è un continuo cammino di crescita: siamo chiamati a lasciarci formare con gioia e nella comunione.
63. Per questo desidero lasciarvi ancora una indicazione per proseguire nel nostro cammino. Vi invito a riscoprire il senso dell’anno liturgico e del giorno del Signore: anche questa è una consegna del Concilio (cfr. Sacrosanctum Concilium, nn. 102-111).
64. Alla luce di quanto abbiamo sopra ricordato, comprendiamo che l’anno liturgico è per noi la possibilità di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo, immergendo la nostra vita nel mistero della sua Pasqua, in attesa del suo ritorno. È questa una vera formazione continua. La nostra vita non è un susseguirsi casuale e caotico di eventi ma un percorso che, di Pasqua in Pasqua, ci conforma a Lui nell’attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro Salvatore, Gesù Cristo.[24]
65. Nello scorrere del tempo fatto nuovo dalla Pasqua, ogni otto giorni la Chiesa celebra nella domenica l’evento della salvezza. La domenica, prima di essere un precetto, è un dono che Dio fa al suo popolo (per questo motivo la Chiesa lo custodisce con un precetto). La celebrazione domenicale offre alla comunità cristiana la possibilità di essere formata dall’Eucaristia. Di domenica in domenica, la Parola del Risorto illumina la nostra esistenza volendo operare in noi ciò per cui è stata mandata (cfr. Is 55,10-11). Di domenica in domenica, la comunione al Corpo e al Sangue di Cristo vuole fare anche della nostra vita un sacrificio gradito al Padre, nella comunione fraterna che si fa condivisione, accoglienza, servizio. Di domenica in domenica, la forza del Pane spezzato ci sostiene nell’annuncio del Vangelo nel quale si manifesta l’autenticità della nostra celebrazione.
Abbandoniamo le polemiche per ascoltare insieme che cosa lo Spirito dice alla Chiesa, custodiamo la comunione, continuiamo a stupirci per la bellezza della Liturgia. Ci è stata donata la Pasqua, lasciamoci custodire dal desiderio che il Signore continua ad avere di poterla mangiare con noi. Sotto lo sguardo di Maria, Madre della Chiesa.
Dato a Roma, presso San Giovanni in Laterano, il 29 giugno, Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, dell’anno 2022, decimo del mio pontificato.
FRANCESCO
Tutta l’umanità trepidi, l’universo intero tremi e il cielo esulti,
quando sull’altare, nella mano del sacerdote,
è presente Cristo, il Figlio del Dio vivo.
O ammirabile altezza e stupenda degnazione!
O umiltà sublime! O sublimità umile,
che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio,
si umili a tal punto da nascondersi, per la nostra salvezza,
sotto poca apparenza di pane!
Guardate, fratelli, l’umiltà di Dio,
e aprite davanti a Lui i vostri cuori;
umiliatevi anche voi, perché siate da Lui esaltati.
Nulla, dunque, di voi trattenete per voi,
affinché tutti e per intero vi accolga Colui che tutto a voi si offre.
San Francesco d’Assisi
Lettera a tutto l’Ordine II,26-29
________________
[1] Cfr. Leo Magnus, Sermo LXXIV: De ascensione Domini II,1: «quod [...] Redemptoris nostri conspicuum fuit, in sacramenta transivit».
[2] Præfatio paschalis III, Missale Romanum (2008) p. 367: «Qui immolátus iam non móritur, sed semper vivit occísus».
[3] Cfr. Missale Romanum (2008) p. 532.
[4] Cfr. Augustinus, Enarrationes in psalmos. Ps. 138,2; Oratio post septimam lectionem, Vigilia paschalis, Missale Romanum (2008) p. 359; Super oblata, Pro Ecclesia (B), Missale Romanum (2008) p. 1076.
[5] Cfr. Augustinus, In Ioannis Evangelium tractatus XXVI,13.
[6] Cfr. Litteræ encyclicæ Mediator Dei (20 Novembris 1947) in AAS 39 (1947) 532.
[7] AAS 56 (1964) 34.
[8] R. Guardini, Liturgische Bildung (1923) in Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) p. 43; trad. it. Formazione Liturgica (Brescia 2022) p. 69.
[9] R. Guardini, Der Kultakt und die gegenwärtige Aufgabe der Liturgischen Bildung (1964) in Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) p. 14; trad. it. L’atto di culto e il compito attuale della formazione liturgica. Una lettera (1964) in Formazione liturgica (Brescia 2022) p. 33.
[10] De Ordinatione Episcopi, Presbyterorum et Diaconorum (1990) p. 95: «Agnosce quod ages, imitare quod tractabis, et vitam tuam mysterio dominicæ crucis conforma».
[11] Leo Magnus, Sermo XII: De Passione III,7.
[12] Irenæus Lugdunensis, Adversus hæreses IV,20,7.
[13] R. Guardini, Liturgische Bildung (1923) in Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) p. 36; trad. it. Formazione Liturgica (Brescia 2022) p. 60.
[14] Cantico delle Creature, Fonti Francescane, n. 263.
[15] R. Guardini Liturgische Bildung (1923) in Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) p. 99; trad. it. Formazione Liturgica (Brescia 2022) p. 139.
[16] Cfr. Institutio Generalis Missalis Romani, nn. 45; 51; 54-56; 66; 71; 78; 84; 88; 271.
[17] Vedi Esortazione apostolica Evangelii gaudium (24 novembre 2013), nn. 135-144.
[18] Cfr. Institutio Generalis Missalis Romani, n. 310.
[19] Prex dedicationis in Ordo dedicationis ecclesiæ et altaris (1977) p. 102.
[20] Missale Romanum (2008) p. 515: «In spiritu humilitatis et in animo contrito suscipiamur a te, Domine; et sic fiat sacrificium nostrum in conspectu tuo hodie, ut placeat tibi, Domine Deus».
[21] Missale Romanum (2008) p. 515: «Lava me, Domine, ab iniquitate mea, et a peccato meo munda me».
[22] Cfr. Institutio Generalis Missalis Romani, nn. 78-79.
[23] Cfr. Paulus VI, Constitutio apostolica Missale Romanum (3 Aprilis 1969) in AAS 61 (1969) 222.
[24] Missale Romanum (2008) p. 598: « … exspectantes beatam spem et adventum Salvatoris nostri Iesu Christi».
[01027-IT.01] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua francese
LETTRE APOSTOLIQUE
DESIDERIO DESIDERAVI
DU SAINT-PÈRE
FRANÇOIS
AUX ÉVÊQUES, PRÊTRES ET DIACRES,
AUX PERSONNES CONSACRÉES
ET AUX FIDÈLES LAÏCS
SUR LA FORMATION LITURGIQUE
DU PEUPLE DE DIEU
Desiderio desideravi
hoc Pascha manducare vobiscum,
antequam patiar. (Lc 22,15)
1. Très chers frères et sœurs,
par cette lettre, je désire vous rejoindre tous – après avoir déjà écrit uniquement aux évêques après la publication du Motu Proprio Traditionis custodes – et je vous écris pour partager avec vous quelques réflexions sur la liturgie, dimension fondamentale pour la vie de l’Église. Le sujet est vaste et mérite d’être examiné attentivement sous tous ses aspects. Toutefois, dans cette lettre, je n’ai pas l’intention de traiter la question de manière exhaustive. Je souhaite plutôt offrir quelques pistes de réflexion qui puissent aider à la contemplation de la beauté et de la vérité de la célébration chrétienne.
La Liturgie : « l’aujourd’hui » de l’histoire du salut
2. « J’ai désiré d’un grand désir manger cette Pâque avec vous avant de souffrir ! » (Lc 22,15) Ces paroles de Jésus par lesquelles s’ouvre le récit de la Dernière Cène sont la fente par laquelle nous est donnée la surprenante possibilité de percevoir la profondeur de l’amour des Personnes de la Sainte Trinité pour nous.
3. Pierre et Jean avaient été envoyés pour faire les préparatifs nécessaires pour manger la Pâque. Mais, à y regarder de plus près, toute la création, toute l’histoire – qui allait finalement se révéler comme l’histoire du salut – est une grande préparation à ce repas. Pierre et les autres se tiennent à cette table, inconscients et pourtant nécessaires : tout don, pour être tel, doit avoir quelqu’un disposé à le recevoir. Dans ce cas, la disproportion entre l’immensité du don et la petitesse du destinataire est infinie et ne peut manquer de nous surprendre. Néanmoins, par la miséricorde du Seigneur, le don est confié aux apôtres afin qu’il soit apporté à tout homme et à toute femme.
4. Personne n’avait gagné sa place à ce repas. Tout le monde a été invité. Ou plutôt, tous ont été attirés par le désir ardent que Jésus avait de manger cette Pâque avec eux : Il sait qu’il est l’Agneau de ce repas de Pâque, il sait qu’il est la Pâque. C’est la nouveauté absolue de ce repas, la seule vraie nouveauté de l’histoire, qui rend ce repas unique et, pour cette raison, ultime, non reproductible : « la Dernière Cène ». Cependant, son désir infini de rétablir cette communion avec nous, qui était et reste son projet initial, ne sera pas satisfait tant que tout homme, de toute tribu, langue, peuple et nation (Ap 5,9) n’aura pas mangé son Corps et bu son Sang. C’est pourquoi ce même repas sera rendu présent, jusqu’à son retour, dans la célébration de l’Eucharistie.
5. Le monde ne le sait pas encore, mais tous sont invités au repas des noces de l’Agneau (Ap 19, 9). Pour être admis au festin, il suffit de porter l’habit nuptial de la foi, qui vient de l’écoute de sa Parole (cf. Rm 10, 17). L’Église taille ce vêtement sur mesure pour chacun, avec la blancheur d’un tissu lavé dans le Sang de l’Agneau (cf. Ap 7, 14). Nous ne devrions pas nous permettre ne serait-ce qu’un seul instant de repos, sachant que tous n’ont pas encore reçu l’invitation à ce repas, ou que d’autres l’ont oubliée ou se sont perdus en chemin dans les méandres de la vie humaine. C’est ce dont je parlais lorsque je disais : « J’imagine un choix missionnaire capable de transformer toute chose, afin que les habitudes, les styles, les horaires, le langage et toute structure ecclésiale devienne un canal adéquat pour l’évangélisation du monde actuel, plus que pour l’auto-préservation » (Evangelii gaudium, n° 27) : afin que tous puissent s’asseoir au repas du sacrifice de l’Agneau et vivre de Lui.
6. Avant notre réponse à son invitation — bien avant ! — il y a son désir pour nous, Nous n’en sommes peut-être même pas conscients, mais chaque fois que nous allons à la Messe, la raison première est que nous sommes attirés par son désir pour nous. De notre côté, la réponse possible — qui est aussi l’ascèse la plus exigeante — est, comme toujours, celle de nous abandonner à son amour, de nous laisser attirer par lui. Vraiment, toute réception de la communion au Corps et au Sang du Christ a déjà été désirée par Lui lors de la Dernière Cène.
7. Le contenu du Pain rompu est la croix de Jésus, son sacrifice d’obéissance par amour pour le Père. Si nous n’avions pas eu la dernière Cène, c’est-à-dire si nous n’avions pas eu l’anticipation rituelle de sa mort, nous n’aurions jamais pu saisir comment l’exécution de sa condamnation à mort a pu être l’acte de culte parfait, agréable au Père, le seul véritable acte de culte. Quelques heures seulement après la Cène, les Apôtres auraient pu voir dans la croix de Jésus, s’ils avaient pu en supporter le poids, ce que signifiait : « corps offert », « sang versé ». C’est de cela que nous faisons mémoire dans chaque Eucharistie. Lorsque le Ressuscité revient d’entre les morts pour rompre le pain pour les disciples d’Emmaüs, et pour ses disciples qui étaient retournés pêcher des poissons et non des hommes sur la mer de Galilée, ce geste ouvre leurs yeux, les guérit de l’aveuglement infligé par l’horreur de la croix, et les rend capables de « voir » le Ressuscité, de croire en la Résurrection.
8. Si nous étions arrivés d’une manière ou d’une autre à Jérusalem après la Pentecôte et que nous avions ressenti le désir non seulement d’avoir des informations sur Jésus de Nazareth, mais plutôt le désir de pouvoir encore le rencontrer, nous n’aurions eu d’autre possibilité que celle de rechercher ses disciples pour entendre ses paroles et voir ses gestes, plus vivants que jamais. Nous n’aurions pas d’autre possibilité de vraie rencontre avec Lui que celle de la communauté qui célèbre. C’est pourquoi l’Église a toujours protégé comme son trésor le plus précieux le commandement du Seigneur : « Faites ceci en mémoire de moi ».
9. Dès le début, l’Église était consciente qu’il ne s’agissait pas d’une représentation, aussi sacrée soit-elle, de la Cène du Seigneur. Cela n’aurait eu aucun sens, et personne n’aurait pu penser à « mettre en scène » — surtout devant les yeux de Marie, la Mère du Seigneur — ce moment le plus élevé de la vie du Maître. Dès le début, l’Église avait compris, éclairée par l’Esprit Saint, que ce qui, de Jésus, était visible, ce qui pouvait être vu avec les yeux et touché avec les mains, ses paroles et ses gestes, le caractère concret du Verbe incarné, tout de Lui était passé dans la célébration des sacrements.[1]
La Liturgie : lieu de la rencontre avec le Christ
10. C’est là que réside toute la puissante beauté de la liturgie. Si la Résurrection était pour nous un concept, une idée, une pensée ; si le Ressuscité était pour nous le souvenir du souvenir d’autres personnes, même si elles faisaient autorité, comme par exemple les Apôtres ; s’il ne nous était pas donné, à nous aussi, la possibilité d’une vraie rencontre avec Lui, ce serait comme déclarer épuisée la nouveauté du Verbe fait chair. Au contraire, l’Incarnation, en plus d’être le seul événement nouveau que l’histoire connaisse, est aussi la méthode même que la Sainte Trinité a choisie pour nous ouvrir le chemin de la communion. La foi chrétienne est soit une rencontre avec Lui vivant, soit elle n’existe pas.
11. La liturgie nous garantit la possibilité d’une telle rencontre. Un vague souvenir de la Dernière Cène ne nous servirait à rien. Nous avons besoin d’être présents à ce repas, de pouvoir entendre sa voix, de manger son Corps et de boire son Sang. Nous avons besoin de Lui. Dans l’Eucharistie et dans tous les Sacrements, nous avons la garantie de pouvoir rencontrer le Seigneur Jésus et d’être atteints par la puissance de son Mystère Pascal. La puissance salvatrice du sacrifice de Jésus, de chacune de ses paroles, de chacun de ses gestes, de chacun de ses regards, de chacun de ses sentiments, nous parvient à travers la célébration des sacrements. Je suis Nicodème et la Samaritaine au puits, l’homme possédé par des démons à Capharnaüm et le paralytique dans la maison de Pierre, la femme pécheresse pardonnée et la femme affligée d’hémorragies, la fille de Jaïre et l’aveugle de Jéricho, Zachée et Lazare, le bon larron et Pierre pardonnés. Le Seigneur Jésus, immolé, a vaincu la mort ; mis à mort, il est toujours vivant ;[2] il continue à nous pardonner, à nous guérir, à nous sauver avec la puissance des Sacrements. C’est la manière concrète, par le biais de l’incarnation, dont il nous aime. C’est la manière dont étanche la soif qu’il a de nous, comme il l’avait déclaré sur la croix (Jn 19,28).
12. Notre première rencontre avec sa Pâque est l’événement qui marque la vie de nous tous, croyants dans le Christ : notre baptême. Il ne s’agit pas d’une adhésion intellectuelle à sa pensée ni de l’acceptation d’un code de conduite imposé par Lui. Il s’agit plutôt d’être plongé dans sa passion, sa mort, sa résurrection et son ascension. Il ne s’agit pas d’un geste magique. La magie est à l’opposé de la logique des sacrements car elle prétend avoir un pouvoir sur Dieu, et pour cette raison elle vient du Tentateur. En parfaite continuité avec l’Incarnation, en vertu de la présence et de l’action de l’Esprit, la possibilité de mourir et de ressusciter dans le Christ nous est donnée.
13. La manière dont cela se passe est émouvante. La prière pour la bénédiction de l’eau baptismale[3] nous révèle que Dieu a créé l’eau précisément en pensant au Baptême. Cela signifie que lorsque Dieu a créé l’eau, il pensait au Baptême de chacun d’entre nous, et cette pensée l’a accompagné tout au long de son action dans l’histoire du salut, chaque fois que, avec un dessein précis, il a voulu se servir de l’eau. C’est comme si, après l’avoir créée, il voulait la perfectionner pour en faire l’eau du baptême. C’est ainsi qu’il a voulu la remplir du mouvement de son Esprit planant sur la surface des eaux (cf. Gn 1, 2) afin qu’elle contienne en germe le pouvoir de sanctifier ; il s’en est servi pour régénérer l’humanité lors du Déluge (cf. Gn 6,1–9,29) ; il l’a dominée en la séparant pour ouvrir un chemin de libération dans la Mer Rouge (cf. Ex 14) ; il l’a consacrée dans le Jourdain en immergeant la chair du Verbe imprégnée de l’Esprit (cf. Mt 3,13-17 ; Mc 1,9-11 ; Lc 3,21-22). Enfin, il l’a mélangée au sang de son Fils, don de l’Esprit inséparablement uni au don de la vie et de la mort de l’Agneau immolé pour nous, et de son côté transpercé il l’a répandue sur nous (Jn 19,34). C’est dans cette eau que nous avons été immergés afin que, par sa puissance, nous puissions être greffés dans le Corps du Christ et qu’avec Lui, nous ressuscitions à la vie immortelle (cf. Rm 6, 1-11).
L’Église : sacrement du Corps du Christ
14. Comme nous l’a rappelé le Concile Vatican II (cf. Sacrosanctum Concilium, n. 5) en citant l’Écriture, les Pères et la Liturgie – les piliers de la Tradition authentique – c’est du côté du Christ endormi sur la croix qu’est né l’admirable sacrement de toute l’Église[4]. Le parallèle entre le premier et le nouvel Adam est étonnant : de même que du côté du premier Adam, après l’avoir plongé dans un profond sommeil, Dieu a tiré Eve, de même du côté du nouvel Adam, endormi dans le sommeil de la mort sur la croix, naît la nouvelle Eve, l’Eglise. L’étonnement, pour nous, réside dans les paroles que nous pouvons imaginer que le nouvel Adam s’est appropriées en regardant l’Église : « Cette fois, c’est l’os de mes os, la chair de ma chair » (Gn 2,23). Pour avoir cru en sa Parole et être descendus dans les eaux du baptême, nous sommes devenus l’os de ses os et la chair de sa chair.
15. Sans cette incorporation, il n’y a aucune possibilité de vivre la plénitude du culte rendu à Dieu. En effet, il n’y a qu’un seul acte de culte parfait et agréable au Père, à savoir l’obéissance du Fils dont la mesure est sa mort sur la croix. La seule façon de participer à son offrande est de devenir des « fils dans le Fils ». C’est le don que nous avons reçu. Le sujet qui agit dans la Liturgie est toujours et uniquement le Christ-Église, le Corps mystique du Christ.
Le sens théologique de la Liturgie
16. Nous devons au Concile – et au mouvement liturgique qui l’a précédé – la redécouverte d’une compréhension théologique de la Liturgie et de son importance dans la vie de l’Eglise. De même que les principes généraux énoncés dans Sacrosanctum Concilium ont été fondamentaux pour la réforme de la liturgie, ils continuent à l’être pour la promotion de cette célébration pleine, consciente, active et féconde (cf. Sacrosanctum Concilium nn.11.14), la Liturgie étant la « source première et indispensable à laquelle les fidèles peuvent puiser l’authentique esprit chrétien » (Sacrosanctum Concilium, n.14). Par cette lettre, je voudrais simplement inviter toute l’Église à redécouvrir, à sauvegarder et à vivre la vérité et la force de la célébration chrétienne. Je voudrais que la beauté de la célébration chrétienne et ses conséquences nécessaires dans la vie de l’Église ne soient pas défigurées par une compréhension superficielle et réductrice de sa valeur ou, pire encore, par son instrumentalisation au service d’une vision idéologique, quelle qu’elle soit. La prière sacerdotale de Jésus à la dernière Cène pour que tous soient un (Jn 17,21), juge toutes nos divisions autour du Pain rompu, sacrement de piété, signe d’unité, lien de charité.[5]
La Liturgie : un antidote contre le venin de la mondanité spirituelle
17. J’ai mis en garde à plusieurs reprises contre une tentation dangereuse pour la vie de l’Église, la « mondanité spirituelle ». J’en ai longuement parlé dans l’Exhortation Evangelii gaudium (n° 93-97), en identifiant le gnosticisme et le néo-pélagianisme comme les deux modes reliés entre eux qui alimentent cette mondanité spirituelle.
Le premier réduit la foi chrétienne à un subjectivisme qui enferme l’individu « dans l’immanence de sa propre raison ou de ses propres sentiments » (Evangelii gaudium, n. 94).
Le second annule la valeur de la grâce pour ne compter que sur ses propres forces, donnant lieu à « un élitisme narcissique et autoritaire où, au lieu d’évangéliser, on analyse et on classe les autres, et au lieu de faciliter l’accès à la grâce, on consomme de l’énergie à contrôler » (Evangelii gaudium, n. 94).
Ces formes déformées de christianisme peuvent avoir des conséquences désastreuses pour la vie de l’Église.
18. Il est évident, d’après ce que j’ai rappelé ci-dessus, que la Liturgie est, par sa nature même, l’antidote le plus efficace contre ces poisons. Je parle évidemment de la Liturgie dans son sens théologique et certainement pas – Pie XII l’a déjà dit – comme un cérémonial décoratif ou une simple somme de lois et de préceptes réglant le culte[6].
19. Si le gnosticisme nous intoxique avec le poison du subjectivisme, la célébration liturgique nous libère de la prison d’une autoréférentialité nourrie par son propre raisonnement et par le sentiment, L’action célébrative n’appartient pas à l’individu mais au Christ-Eglise, à la totalité des fidèles unis dans le Christ. La liturgie ne dit pas « je » mais « nous » et toute limitation de l’étendue de ce « nous » est toujours démoniaque. La Liturgie ne nous laisse pas seuls à la recherche d’une connaissance individuelle présumée du mystère de Dieu, mais nous prend par la main, ensemble, en assemblée, pour nous conduire dans le mystère que la Parole et les signes sacramentels nous révèlent. Et elle le fait en cohérence avec l’action de Dieu, en suivant le chemin de l’incarnation, à travers le langage symbolique du corps qui se prolonge dans les choses, l’espace et le temps.
20. Si le néo-pélagianisme nous enivre de la présomption d’un salut gagné par nos propres efforts, la célébration liturgique nous purifie en proclamant la gratuité du don du salut reçu dans la foi. Participer au sacrifice eucharistique n’est pas un exploit personnel, comme si nous pouvions nous en vanter devant Dieu ou devant nos frères et sœurs. Le début de chaque célébration me rappelle qui je suis, en me demandant de confesser mon péché et en m’invitant à supplier la bienheureuse Vierge Marie, les anges, les saints et tous mes frères et sœurs, de prier pour moi le Seigneur : nous ne sommes certainement pas dignes d’entrer dans sa maison, nous avons besoin de sa parole pour être sauvés (cf. Mt 8,8). Nous n’avons pas d’autre fierté que celle de la croix de notre Seigneur Jésus-Christ (cf. Ga 6,14). La Liturgie n’a rien à voir avec un moralisme ascétique : c’est le don de la Pâque du Seigneur qui, accueilli avec docilité, rend notre vie nouvelle. On n’entre dans le cénacle que par la force d’attraction de son désir de manger la Pâque avec nous: Desiderio desideravi hoc Pascha manducare vobiscum, antequam patiar (Lc 22,15).
Redécouvrir chaque jour la beauté de la vérité de la célébration chrétienne
21. Mais nous devons faire attention : pour que l’antidote de la Liturgie soit efficace, il nous est demandé de redécouvrir chaque jour la beauté de la vérité de la célébration chrétienne. Je me réfère encore une fois au sens théologique, comme l’a admirablement décrit le n° 7 de Sacrosanctum Concilium : la Liturgie est le sacerdoce du Christ révélé et donné dans son Mystère Pascal, rendu présent et actif aujourd’hui par des signes sensibles (eau, huile, pain, vin, gestes, paroles) afin que l’Esprit, en nous plongeant dans le mystère pascal, transforme toute notre vie, nous conformant toujours plus au Christ.
22. La redécouverte continuelle de la beauté de la liturgie n’est pas la poursuite d’un esthétisme rituel qui ne prend plaisir qu’à soigner la formalité extérieure d’un rite ou se satisfait d’une scrupuleuse observance des rubriques. Il va de soi que cette affirmation ne vise nullement à approuver l’attitude opposée qui confond la simplicité avec une banalité débraillée, l’essentialité avec une superficialité ignorante, ou le caractère concret de l’action rituelle avec un fonctionnalisme pratique exaspérant.
23. Soyons clairs : tous les aspects de la célébration doivent être soignés (espace, temps, gestes, paroles, objets, vêtements, chant, musique, ...) et toutes les rubriques doivent être respectées : une telle attention suffirait à ne pas priver l’assemblée de ce qui lui est dû, c’est-à-dire le mystère pascal célébré selon le rituel établi par l’Église. Mais même si la qualité et le bon déroulement de la célébration étaient garantis, cela ne suffirait pas pour que notre participation soit pleine et entière.
L’émerveillement devant le mystère pascal :élément essentiel de l’acte liturgique
24. Si notre émerveillement pour le mystère pascal rendu présent dans le caractère concret des signes sacramentels venait à manquer, nous risquerions vraiment d’être imperméables à l’océan de grâce qui inonde chaque célébration. Les efforts, certes louables, pour améliorer la qualité de la célébration ne suffisent pas, pas plus que l’appel à une plus grande intériorité : même cette dernière court le risque d’être réduite à une subjectivité vide si elle n’accueille pas la révélation du mystère chrétien. La rencontre avec Dieu n’est pas le fruit d’une recherche intérieure individuelle, mais un événement donné : nous pouvons rencontrer Dieu à travers le fait nouveau de l’Incarnation qui, dans la dernière Cène, va jusqu’à désirer être mangé par nous. Comment la disgrâce de perdre la fascination de la beauté de ce don pourrait-elle nous arriver ?
25. Quand je parle d’émerveillement devant le Mystère pascal, je n’entends nullement ce que me semble parfois exprimer l’expression vague de « sens du mystère ». C’est parfois l’une des principales accusations portées contre la réforme liturgique. On dit que le sens du mystère a été supprimé de la célébration. L’émerveillement dont je parle n’est pas une sorte de désarroi devant une réalité obscure ou un rite énigmatique, mais c’est, au contraire, l’émerveillement devant le fait que le dessein salvifique de Dieu nous a été révélé dans la Pâque de Jésus (cf. Ep 1, 3-14) dont l’efficacité continue à nous atteindre dans la célébration des « mystères », c’est-à-dire des sacrements. Il n’en reste pas moins vrai que la plénitude de la révélation a, par rapport à notre finitude humaine, une abondance qui nous transcende et qui aura son accomplissement à la fin des temps, lorsque le Seigneur reviendra. Si l’émerveillement est vrai, il n’y a aucun risque que nous ne percevions pas, même dans la proximité voulue par l’Incarnation, l’altérité de la présence de Dieu. Si la réforme avait éliminé ce vague « sens du mystère », ce serait un mérite plutôt qu’une accusation fondée. La beauté, tout comme la vérité, suscite toujours l’admiration et, lorsqu’elle est rapportée au mystère de Dieu, elle conduit à l’adoration.
26. L’émerveillement est une partie essentielle de l’acte liturgique car c’est l’attitude de ceux qui se savent confrontés à la particularité des gestes symboliques ; c’est l’émerveillement de celui qui fait l’expérience de la puissance du symbole, qui ne consiste pas à se référer à un concept abstrait mais à contenir et à exprimer dans sa concrétude même ce qu’il signifie.
La nécessité d’une formation liturgique sérieuse et vitale
27. La question fondamentale est donc la suivante : comment retrouver la capacité de vivre pleinement l’action liturgique ? Tel était l’objectif de la réforme du Concile. Le défi est très exigeant car l’homme moderne – pas dans toutes les cultures au même degré – a perdu la capacité de s’engager dans l’action symbolique qui est une caractéristique essentielle de l’acte liturgique.
28. Dans la postmodernité, l’homme se sent encore plus perdu, sans références d’aucune sorte, privé de valeurs parce qu’elles sont devenues indifférentes, orphelin de tout, dans une fragmentation où un horizon de sens semble impossible. Cette postmodernité reste encore accablée par le lourd héritage que nous a laissé l’époque précédente, fait d’individualisme et de subjectivisme (qui rappellent à nouveau le pélagianisme et le gnosticisme). Elle consiste aussi en un spiritualisme abstrait qui contredit la nature humaine elle-même, car la personne humaine est un esprit incarné et donc, en tant que tel, capable d’action et de compréhension symboliques.
29. C’est avec cette réalité du monde moderne que l’Église, réunie en Concile, a voulu se confronter, en réaffirmant sa conscience d’être le sacrement du Christ, la lumière des nations (Lumen Gentium), en se mettant religieusement à l’écoute de la parole de Dieu (Dei Verbum) et en reconnaissant comme siennes les joies et les espérances (Gaudium et spes) des hommes d’aujourd’hui. Les grandes Constitutions conciliaires sont inséparables, et ce n’est pas un hasard si cet immense effort de réflexion du Concile œcuménique – qui est la plus haute expression de la synodalité dans l’Église et dont je suis appelé, avec vous tous, à être le gardien de la richesse – a commencé par une réflexion sur la Liturgie (Sacrosanctum Concilium).
30. En clôturant la deuxième session du Concile (le 4 décembre 1963), saint Paul VI s’est exprimé ainsi :
« Cette discussion passionnée et complexe n’a d’ailleurs pas été sans fruits abondants : en effet, le sujet qui a été abordé en premier lieu et qui, en un certain sens, est prééminent dans l’Église, tant par sa nature que par sa dignité – Nous voulons parler de la sainte Liturgie – a trouvé une heureuse conclusion et il est aujourd’hui promulgué par Nous avec un rite solennel. Notre esprit exulte donc avec une joie véritable, car dans la manière dont les choses se sont passées, Nous constatons le respect d’une juste échelle des valeurs et des devoirs. Dieu doit occuper la première place ; la prière envers Lui est notre premier devoir. La Liturgie est la première source de communion divine dans laquelle Dieu partage sa propre vie avec nous. Elle est aussi la première école de la vie spirituelle. La Liturgie est le premier don que nous devons faire au peuple chrétien uni à nous par la foi et la ferveur de ses prières. C’est enfin la première invitation faite au genre humain, afin que se délie sa langue muette pour que s’élève une prière sainte et sincère et qu’elle fasse l'expérience de cette force indescriptible et régénératrice qui se trouve lorsqu’ils se joignent à nous pour proclamer les louanges de Dieu et les espoirs du cœur humain par Jésus-Christ et dans l’Esprit Saint ».[7]
31. Dans cette lettre, je ne peux pas m’attarder avec vous sur la richesse des diverses expressions de ce passage, que je laisse à votre méditation. Si la liturgie est « le sommet vers lequel tend l’action de l’Église et, en même temps, la source d’où découle toute son énergie » (Sacrosanctum Concilium, n.10), alors on comprend bien l’enjeu de la question liturgique. Il serait banal de considérer les tensions, malheureusement présentes autour de la célébration, comme une simple divergence entre différentes sensibilités envers une forme rituelle. La problématique est avant tout ecclésiologique. Je ne vois pas comment on peut dire que l’on reconnaît la validité du Concile – encore que je m’étonne qu’un catholique puisse prétendre ne pas le faire – et ne pas accepter la réforme liturgique née de Sacrosanctum Concilium, un document qui exprime la réalité de la liturgie en lien intime avec la vision de l’Église admirablement décrite par Lumen Gentium. Pour cette raison – comme je l’ai expliqué dans la lettre envoyée à tous les évêques – j’ai estimé qu’il était de mon devoir d’affirmer que « les livres liturgiques promulgués par les Saints Pontifes Paul VI et Jean-Paul II, conformément aux décrets du Concile Vatican II, sont l’unique expression de la lex orandi du Rite romain » (Motu Proprio Traditionis custodes, art. 1).
La non-acceptation de la réforme, ainsi qu’une compréhension superficielle de celle-ci, nous détournent de la tâche de trouver les réponses à la question que je répète : comment pouvons-nous grandir dans la capacité de vivre pleinement l’action liturgique? Comment continuer à nous laisser surprendre par ce qui se passe dans la célébration sous nos yeux? Nous avons besoin d’une formation liturgique sérieuse et vitale.
32. Revenons encore une fois au Cénacle de Jérusalem. Au matin de la Pentecôte naît l’Église, cellule initiale de l’humanité nouvelle. Seule la communauté des hommes et des femmes - réconciliés parce que pardonnés, vivants parce qu’Il est vivant, vrais parce qu’habités par l’Esprit de vérité - peut ouvrir l’espace étroit de l’individualisme spirituel.
33. C’est la communauté de la Pentecôte qui est capable de rompre le Pain dans la certitude que le Seigneur est vivant, ressuscité des morts, présent par sa parole, par ses gestes, par l’offrande de son Corps et de son Sang. Dès lors, la célébration devient le lieu privilégié – quoique pas le seul – de la rencontre avec Lui. Nous savons que c’est seulement par cette rencontre que l’homme devient pleinement homme. Seule l’Église de la Pentecôte peut concevoir l’être humain comme une personne, ouverte à une relation pleine et entière avec Dieu, avec la création et avec ses frères et sœurs.
34. C’est ici que se pose la question décisive de la formation liturgique. Guardini dit : [Voici] « la première tâche pratique à accomplir: portés par cette transformation intérieure de notre époque, nous devons réapprendre à vivre comme hommes en un rapport religieux »[8]. C’est ce que la Liturgie rend possible. Pour cela, nous devons être formés. Guardini lui-même n’hésite pas à affirmer que sans formation liturgique, « les réformes des rites et des textes ne seront d’aucune aide »[9]. Je n’ai pas l’intention de traiter maintenant de manière exhaustive le thème très riche de la formation liturgique. Je voudrais seulement proposer quelques pistes de réflexion. Je pense que nous pouvons distinguer deux aspects : la formation pour la liturgie et la formation par la liturgie. La première est fonctionnelle ; la seconde, essentielle.
35. Il est nécessaire de trouver les modalités d’une formation à l’étude de la Liturgie. Depuis le début du mouvement liturgique, beaucoup a été fait à cet égard, avec de précieuses contributions de la part de chercheurs et d’institutions académiques. Néanmoins, il est important aujourd’hui de diffuser cette connaissance au-delà du milieu universitaire, de manière accessible, afin que chaque fidèle puisse grandir dans la connaissance du sens théologique de la Liturgie. C’est la question décisive, qui fonde tout type de compréhension et toute pratique liturgique. Elle fonde également la célébration elle-même, en aidant tous et chacun à acquérir la capacité de comprendre les textes euchologiques, les dynamiques rituelles et leur signification anthropologique.
36. Je pense au rythme régulier de nos assemblées qui se réunissent pour célébrer l’Eucharistie le jour du Seigneur, dimanche après dimanche, Pâques après Pâques, à des moments particuliers de la vie des personnes et des communautés, à tous les âges de la vie. Les ministres ordonnés accomplissent une action pastorale de première importance lorsqu’ils prennent par la main les fidèles baptisés, afin de les conduire dans l’expérience répétée de la Pâque. Rappelons-nous toujours que c’est l’Église, le Corps du Christ, qui est le sujet célébrant et non pas seulement le prêtre. La connaissance qui découle de l’étude n’est que le premier pas pour pouvoir entrer dans le mystère célébré. Il est évident que pour pouvoir conduire leurs frères et sœurs, les ministres qui président l’assemblée doivent connaître le chemin en l’ayant étudié selon l’itinéraire donné pour leurs études théologiques mais aussi en ayant fréquenté la liturgie dans la pratique effective d’une expérience de foi vivante, nourrie par la prière – et certainement pas seulement comme une obligation à remplir. Le jour de son ordination, chaque prêtre entend l’évêque lui dire: « Réalise ce que tu vas faire, imite ce que tu vas célébrer, conforme ta vie au mystère de la croix du Christ Seigneur ».[10]
37. Le plan d’études de la Liturgie dans les séminaires doit également tenir compte de l’extraordinaire capacité qu’a en elle-même la célébration actuelle d’offrir une vision organique et unifiée de tout le savoir théologique. Chaque discipline de la théologie, chacune selon sa propre perspective, doit montrer son lien intime avec la Liturgie, en vertu de laquelle se révèle et se réalise l’unité de la formation sacerdotale (cf. Sacrosanctum Concilium n.16). Une approche liturgico-sapientielle de la formation théologique dans les séminaires aurait certainement aussi des effets positifs dans l’action pastorale. Il n’y a pas d’aspect de la vie ecclésiale qui ne trouve son sommet et sa source dans la liturgie. Plus que le résultat de programmes élaborés, une pratique pastorale globale, organique et intégrée est la conséquence du fait de placer l’Eucharistie dominicale, fondement de la communion, au centre de la vie de la communauté. La compréhension théologique de la liturgie ne permet en aucun cas de comprendre ces paroles comme si tout était réduit à l’aspect cultuel. Une célébration qui n’évangélise pas n’est pas authentique, de même qu’une annonce qui ne conduit pas à une rencontre avec le Seigneur ressuscité dans la célébration n’est pas authentique. Enfin l’une et l’autre, sans le témoignage de la charité, ne sont qu’un cuivre qui résonne, une cymbale retentissante (cf. 1 Co 13,1).
38. Pour les ministres comme pour tous les baptisés, la formation liturgique dans son sens premier n’est pas quelque chose qui peut être acquis une fois pour toutes. Puisque le don du mystère célébré dépasse notre capacité de le connaître, cet effort doit certainement accompagner la formation permanente de tous, avec l’humilité des petits, l’attitude qui ouvre à l’émerveillement.
39. Une dernière observation sur les séminaires. En plus d’un programme d’études, ils doivent offrir la possibilité de vivre une célébration non seulement exemplaire du point de vue rituel, mais aussi authentique et vivante, qui permette de vivre une véritable communion avec Dieu, cette même communion vers laquelle doit tendre la connaissance théologique. Seule l’action de l’Esprit peut parfaire notre connaissance du mystère de Dieu, qui n’est pas une question de compréhension mentale mais de relation qui touche toute la vie. Cette expérience est fondamentale pour que les séminaristes, une fois devenus ministres ordonnés, puissent accompagner les communautés sur le même chemin de connaissance du mystère de Dieu, qui est le mystère de l’amour.
40. Cette dernière considération nous amène à réfléchir sur le deuxième sens que nous pouvons comprendre dans l’expression « formation liturgique ». Je me réfère au fait que nous sommes formés, chacun selon sa vocation, à partir de la participation à la célébration liturgique. Même la connaissance qui vient des études, dont je parlais tout à l’heure, pour qu’elle ne devienne pas une sorte de rationalisme, doit servir à réaliser l’action formatrice de la Liturgie elle-même en chaque croyant dans le Christ.
41. De tout ce que nous avons dit sur la nature de la Liturgie, il apparaît clairement que la connaissance du mystère du Christ, question décisive pour notre vie, ne consiste pas en une assimilation purement intellectuelle d’une idée quelconque, mais en un attachement existentiel réel à sa personne. En ce sens, la liturgie n’a pas pour objet la « connaissance », et sa portée n’est pas essentiellement pédagogique, même si elle a une grande valeur pédagogique (cf. Sacrosanctum Concilium n. 33). La liturgie est plutôt une louange, une action de grâce pour la Pâque du Fils dont la puissance atteint nos vies. La célébration concerne la réalité de notre docilité à l’action de l’Esprit qui opère par elle jusqu’à ce que le Christ soit formé en nous (cf. Ga 4,19). La pleine mesure de notre formation est notre conformation au Christ. Je le répète : il ne s’agit pas d’un processus mental abstrait, mais de devenir Lui. C’est dans ce but qu’est donné l’Esprit, dont l’action est toujours et uniquement de façonner le Corps du Christ. Il en est ainsi du pain eucharistique, et de chacun des baptisés appelés à devenir toujours plus ce qui a été reçu comme don au Baptême, à savoir être membre du Corps du Christ. Léon le Grand écrit: « Notre participation au Corps et au Sang du Christ n’a d’autre fin que de nous faire devenir ce que nous mangeons ».[11]
42. Cet engagement existentiel se produit – en continuité et en cohérence avec la méthode de l’Incarnation – de manière sacramentelle. La liturgie se fait avec des choses qui sont l’exact opposé des abstractions spirituelles : le pain, le vin, l’huile, l’eau, les parfums, le feu, les cendres, la pierre, les tissus, les couleurs, le corps, les mots, les sons, les silences, les gestes, l’espace, le mouvement, l’action, l’ordre, le temps, la lumière. Toute la création est une manifestation de l’amour de Dieu, et à partir du moment où ce même amour s’est manifesté dans sa plénitude dans la croix de Jésus, toute la création a été attirée vers lui. C’est toute la création qui est assumée pour être mise au service de la rencontre avec le Verbe : incarné, crucifié, mort, ressuscité, monté vers le Père. C’est ce que chantent la prière sur l’eau des fonts baptismaux, mais aussi la prière sur l’huile du saint chrême et les paroles pour la présentation du pain et du vin – tous fruits de la terre et du travail de l’homme.
43. La liturgie rend gloire à Dieu non pas parce que nous pouvons ajouter quelque chose à la beauté de la lumière inaccessible dans laquelle Dieu habite. (Cf. 1Tim 6,16) Nous ne pouvons pas non plus ajouter à la perfection du chant angélique qui résonne éternellement dans les demeures célestes. La Liturgie rend gloire à Dieu parce qu’elle nous permet – ici, sur la terre – de voir Dieu dans la célébration des mystères et, en le voyant, de reprendre vie par sa Pâque. Nous qui étions morts par nos péchés et qui avons été rendus à la vie avec le Christ, nous sommes la gloire de Dieu. C’est par la grâce que nous avons été sauvés (cf. Ep 2, 5). Irénée, doctor unitatis, nous le rappelle : « La gloire de Dieu est l’homme vivant, et la vie de l’homme consiste dans la vision de Dieu : si déjà la révélation de Dieu par la création donne la vie à tous les êtres vivant sur terre, combien plus la manifestation du Père par le Verbe est-elle cause de la vie pour ceux qui voient Dieu ! »[12]
44. Guardini écrit : « C’est ainsi que s’ébauche la première tâche du travail de formation liturgique: l’homme doit retrouver sa puissance symbolique ».[13] C’est une responsabilité pour tous, pour les ministres ordonnés comme pour les fidèles. La tâche n’est pas facile car l’homme moderne est devenu analphabète, il ne sait plus lire les symboles, il en soupçonne à peine l’existence. Cela se produit également avec le symbole de notre corps. Il est un symbole parce qu’il est une union intime de l’âme et du corps ; il est la visibilité de l’âme spirituelle dans l’ordre corporel ; et en cela consiste l’unicité humaine, la spécificité de la personne irréductible à toute autre forme d’être vivant. Notre ouverture au transcendant, à Dieu, est constitutive : ne pas la reconnaître nous conduit inévitablement non seulement à une méconnaissance de Dieu mais aussi à une méconnaissance de nous-mêmes. Il suffit de regarder la manière paradoxale dont le corps est traité, à un moment soigné de manière presque obsessionnelle, inspiré par le mythe de l’éternelle jeunesse, et à un autre moment réduisant le corps à une matérialité à laquelle on refuse toute dignité. Le fait est que l’on ne peut pas donner de valeur au corps en partant uniquement du corps lui-même. Tout symbole est à la fois puissant et fragile. S’il n’est pas respecté, s’il n’est pas traité pour ce qu’il est, il se brise, perd sa force, devient insignifiant.
Nous n’avons plus le regard de saint François qui regardait le soleil – qu’il appelait frère parce qu’il le sentait ainsi – le voyait bellu e radiante cum grande splendore, et, émerveillé, chantait : de te Altissimu, porta significatione.[14] Le fait d’avoir perdu la capacité de saisir la valeur symbolique du corps et de toute créature rend le langage symbolique de la liturgie presque inaccessible à la mentalité moderne. Et pourtant, il ne peut être question de renoncer à ce langage. On ne peut y renoncer parce que c’est ainsi que la Sainte Trinité a choisi de nous atteindre à travers la chair du Verbe. Il s’agit plutôt de retrouver la capacité d’utiliser et de comprendre les symboles de la liturgie. Nous ne devons pas perdre espoir car cette dimension en nous, comme je viens de le dire, est constitutive ; et malgré les méfaits du matérialisme et du spiritualisme – tous deux négateurs de l’unité de l’âme et du corps – elle est toujours prête à resurgir, comme toute vérité.
45. Ainsi, la question que je veux poser est la suivante : comment pouvons-nous redevenir capables de symboles ? Comment pouvons-nous à nouveau savoir les lire et être capables de les vivre ? Nous savons bien que la célébration des sacrements, par la grâce de Dieu, est efficace en soi (ex opere operato), mais cela ne garantit pas le plein engagement des personnes sans une manière adéquate de se situer par rapport au langage de la célébration. Une « lecture » symbolique n’est pas une connaissance purement intellectuelle, ni l’acquisition de concepts, mais plutôt une expérience vitale.
46. Avant tout, nous devons retrouver la confiance dans la création. Je veux dire que les choses – les sacrements « sont faits » de choses – viennent de Dieu. C’est vers Lui qu’elles sont orientées, et c’est par Lui qu’elles ont été assumées, et assumées de manière particulière dans l’Incarnation, afin de devenir des instruments de salut, des véhicules de l’Esprit, des canaux de la grâce. En cela, il est clair que la distance est grande entre cette vision et une vision matérialiste ou spiritualiste. Si les choses créées sont une partie si fondamentale, si essentielle, de l’action sacramentelle qui réalise notre salut, alors nous devons nous disposer en leur présence avec un regard neuf, non superficiel, respectueux et reconnaissant. Dès le début, les choses créées contiennent le germe de la grâce sanctifiante des sacrements.
47. Toujours en pensant à la manière dont la Liturgie nous forme, une autre question décisive est l’éducation nécessaire pour pouvoir acquérir l’attitude intérieure qui nous permettra d’utiliser et de comprendre les symboles liturgiques. Permettez-moi de l’exprimer d’une manière simple. Je pense aux parents, ou plus peut-être, aux grands-parents, mais aussi à nos pasteurs et catéchistes. Beaucoup d’entre nous ont appris d’eux la force des gestes de la liturgie, comme, par exemple, le signe de la croix, l’agenouillement, les formules de notre foi. Peut-être n’avons-nous pas de souvenir de cet apprentissage, mais nous pouvons facilement imaginer le geste d’une grande main qui prend la petite main d’un enfant et l’accompagne lentement en traçant pour la première fois sur son corps le signe de notre salut. Des paroles accompagnent le mouvement, elles aussi dites lentement, presque comme si elles voulaient s’approprier chaque instant du geste, prendre possession de tout le corps : « Au nom du Père... et du Fils... et du Saint-Esprit… Amen. » Et puis la main de l’enfant est laissée seule, et on la regarde répéter toute seule, avec une aide toute proche en cas de besoin. Mais ce geste est maintenant consigné, comme une habitude qui va grandir avec lui, en lui donnant un sens que seul l’Esprit sait lui donner. Dès lors, ce geste, avec sa force symbolique, est à nous, il nous appartient, ou mieux, nous lui appartenons. Il nous donne une forme. Nous sommes formés par lui. Il n’est pas nécessaire de faire beaucoup de discours ici. Il n’est pas nécessaire d’avoir tout compris dans ce geste. Ce qu’il faut, c’est être petit, à la fois en l’enseignant et en le recevant. Le reste est l’œuvre de l’Esprit. C’est ainsi que nous sommes initiés au langage symbolique. Nous ne pouvons pas nous laisser dépouiller d’une telle richesse. En grandissant, nous aurons d’autres moyens de comprendre, mais toujours à condition de rester petits.
Ars celebrandi
48. L’ars celebrandi, l’art de célébrer, est certainement l’une des façons de prendre soin des symboles de la liturgie et de croître dans une compréhension vitale de ceux-ci. Cette expression est également sujette à différentes interprétations. Son sens devient clair si elle est comprise en référence au sens théologique de la Liturgie décrit dans Sacrosanctum Concilium au n° 7 et auquel j’ai déjà fait référence à plusieurs reprises. L’ars celebrandi ne peut être réduit à la simple observation d’un système de rubriques, et il faut encore moins le considérer comme une créativité de l’imagination – parfois sauvage – sans règles. Le rite est en soi une norme, et la norme n’est jamais une fin en soi, mais elle est toujours au service d’une réalité supérieure qu’elle entend protéger.
49. Comme dans tout art, l’ars celebrandi requiert différents types de connaissances.
Tout d’abord, il faut comprendre le dynamisme qui se déploie à travers la liturgie. L’action de la célébration est le lieu où, par le biais du mémorial, le mystère pascal est rendu présent afin que les baptisés, par leur participation, puissent en faire l’expérience dans leur propre vie. Sans cette compréhension, la célébration tombe facilement dans le souci de ce qui est extérieur (plus ou moins raffiné) ou dans le souci des seules rubriques (plus ou moins rigides).
Ensuite, il est nécessaire de savoir comment l’Esprit Saint agit dans chaque célébration. L’art de célébrer doit être en harmonie avec l’action de l’Esprit. C’est seulement ainsi qu’il sera libre des subjectivismes qui sont le fruit de la domination des goûts individuels. Ce n’est qu’ainsi qu’il sera libre de l’invasion d’éléments culturels assumés sans discernement et qui n’ont rien à voir avec une compréhension correcte de l’inculturation.
Enfin, il est nécessaire de comprendre la dynamique du langage symbolique, sa nature particulière, son efficacité.
50. Avec ces brèves indications, il devrait être clair que l’art de la célébration ne s’improvise pas. Comme tout art, il exige une application constante. Pour un artisan, la technique suffit. Mais pour un artiste, en plus des connaissances techniques, il faut aussi de l’inspiration, qui est une forme positive de possession. Le véritable artiste ne possède pas un art, mais il est possédé par lui. On n’apprend pas l’art de célébrer en fréquentant un cours d’art oratoire ou de techniques de communication persuasives. (Je ne juge pas les intentions, je ne fais qu’observer les effets). Tout outil peut être utile, mais il doit être au service de la nature de la liturgie et de l’action de l’Esprit Saint. Il faut un engagement soutenu dans la célébration, permettant à la célébration elle-même de nous transmettre son art. Guardini écrit : « Nous devons comprendre à quel point nous nous sommes profondément enlisés dans l’individualisme et le subjectivisme ; à quel point nous nous sommes maintenant affaiblis et combien étroite est devenue la dimension de notre vie religieuse. L’ardent désir de cultiver un grand style de prière doit à nouveau s’éveiller ; la volonté d’essentialité doit aussi revivre dans la prière. La voie à suivre pour y arriver est celle de la discipline ; du renoncement aux satisfactions faciles et sans effort ; du travail rigoureux, accompli dans l’obéissance à l’Église, pour notre conduite et notre être religieux ».[15] C’est ainsi que l’on apprend l’art de célébrer.
51. En parlant de ce thème, nous sommes enclins à penser qu’il ne concerne que les ministres ordonnés qui exercent le service de la présidence. Mais en fait, il s’agit d’une attitude que tous les baptisés sont appelés à vivre. Je pense à tous les gestes et à toutes les paroles qui appartiennent à l’assemblée : se rassembler, marcher en procession, s’asseoir, se tenir debout, s’agenouiller, chanter, se taire, acclamer, regarder, écouter. Ce sont autant de façons par lesquelles l’assemblée, comme un seul homme (Ne 8,1), participe à la célébration. Effectuer tous ensemble le même geste, parler tous d’une seule voix, cela transmet à chaque individu l’énergie de toute l’assemblée. Il s’agit d’une uniformité qui non seulement ne brime pas mais, au contraire, éduque le fidèle individuel à découvrir l’unicité authentique de sa personnalité non pas dans des attitudes individualistes mais dans la conscience d’être un seul corps. Il ne s’agit pas de suivre un livre de bonnes manières liturgiques. Il s’agit plutôt d’une « discipline » – au sens où l’entend Guardini – qui, si elle est observée, nous forme authentiquement. Ce sont des gestes et des paroles qui mettent de l’ordre dans notre monde intérieur en nous faisant vivre certains sentiments, attitudes, comportements. Ils ne sont pas l’explication d’un idéal dont nous cherchons à nous inspirer, mais ils sont au contraire une action qui engage le corps dans sa totalité, c’est-à-dire dans son être unité de corps et d’âme.
52. Parmi les gestes rituels qui appartiennent à l’ensemble de l’assemblée, le silence occupe une place d’importance absolue. Bien souvent, il est expressément prescrit dans les rubriques. Toute la célébration eucharistique est immergée dans le silence qui précède son début et qui marque chaque moment de son déroulement rituel. En effet, il est présent dans l’acte pénitentiel, après l’invitation « Prions », dans la Liturgie de la Parole (avant les lectures, entre les lectures et après l’homélie), dans la prière eucharistique, après la communion.[16] Un tel silence n’est pas un havre intérieur dans lequel se retirer dans une sorte d’isolement intime, comme si on laissait derrière soi la forme rituelle considérée comme une distraction. Ce type de silence contredirait l’essence même de la célébration. Le silence liturgique est quelque chose de beaucoup plus grand : il est le symbole de la présence et de l’action de l’Esprit Saint qui anime toute l’action de la célébration. C’est pourquoi il constitue un sommet dans une séquence liturgique. C’est précisément parce qu’il est un symbole de l’Esprit qu’il a le pouvoir d’exprimer l’action multiforme de l’Esprit. Ainsi, en reprenant les moments que je viens de mentionner, le silence conduit à la contrition et au désir de conversion. Il suscite la disponibilité à l’écoute de la Parole et à la prière. Il nous dispose à adorer le Corps et le Sang du Christ. Il suggère à chacun, dans l’intimité de la communion, ce que l’Esprit veut opérer dans nos vies pour nous conformer au Pain rompu. Pour toutes ces raisons, nous sommes appelés à accomplir avec un soin extrême le geste symbolique du silence. À travers lui, l’Esprit nous donne forme.
53. Chaque geste, chaque parole contient une action précise qui est toujours nouvelle parce qu’elle rencontre un moment toujours nouveau de notre propre vie. Je vais expliquer ce que je veux dire par un exemple simple. Nous nous agenouillons pour demander pardon, pour plier notre orgueil, pour présenter à Dieu nos larmes, pour implorer son intervention, pour le remercier d’un cadeau reçu. C’est toujours le même geste qui, au fond, déclare notre propre petitesse en présence de Dieu. Néanmoins, accompli à différents moments de notre vie, il façonne nos profondeurs intérieures et se manifeste ensuite extérieurement dans notre relation avec Dieu et avec nos frères et sœurs. Aussi l’agenouillement doit être fait avec art, c’est-à-dire avec une pleine conscience de son sens symbolique et du besoin que nous avons de ce geste pour exprimer notre manière d’être en présence du Seigneur. Et si tout cela est vrai pour ce simple geste, combien plus le sera-t-il pour la célébration de la Parole ? Quel art sommes-nous appelés à apprendre pour proclamer la Parole, pour l’écouter, pour la laisser inspirer notre prière, pour la faire devenir notre vie ? Tout cela est digne de la plus grande attention, non pas formelle ou simplement extérieure, mais vivante et intérieure, afin que chaque geste et chaque parole de la célébration, exprimés avec « art », forment la personnalité chrétienne de chaque individu et de la communauté.
54. S’il est vrai que l’ars celebrandi est exigé de toute l’assemblée qui célèbre, il est également vrai que les ministres ordonnés doivent y porter une attention toute particulière. En visitant des communautés chrétiennes, j’ai remarqué que leur manière de vivre la célébration liturgique est conditionnée – pour le meilleur ou, malheureusement, pour le pire – par la façon dont leur pasteur préside l’assemblée. On pourrait dire qu’il existe différents « modèles » de présidence. Voici une liste possible d’approches qui, bien qu’opposées l’une à l’autre, caractérisent une manière de présider certainement inadéquate : une austérité rigide ou une créativité exaspérante, un mysticisme spiritualisant ou un fonctionnalisme pratique, une vivacité précipitée ou une lenteur exagérée, une insouciance négligée ou une minutie excessive, une amabilité surabondante ou une impassibilité hiératique. Malgré la grande variété de ces exemples, je pense que l’inadéquation de ces modèles de présidence a une racine commune : une personnalisation exagérée du style de célébration qui exprime parfois une manie mal dissimulée d’être le centre de l’attention. Cela devient souvent plus évident lorsque nos célébrations sont transmises par voie hertzienne ou en ligne, ce qui n’est pas toujours opportun et nécessite une réflexion plus approfondie. Comprenez-moi bien : ce ne sont pas les comportements les plus répandus, mais il n’est pas rare que des assemblées souffrent d’être ainsi abusées.
55. Il y aurait beaucoup à dire sur l’importance et la délicatesse de la présidence. À plusieurs reprises, je me suis attardé sur la tâche exigeante que représente la prédication de l’homélie.[17] Je vais maintenant me limiter à quelques considérations plus larges, en voulant à nouveau réfléchir avec vous sur la manière dont nous sommes formés par la Liturgie. Je pense au rythme régulier des messes dominicales dans nos communautés, et je m’adresse donc aux prêtres, mais implicitement à tous les ministres ordonnés.
56. Le prêtre vit sa participation caractéristique à la célébration en vertu du don reçu dans le sacrement de l’Ordre, et celle-ci s’exprime précisément dans la présidence. Comme tous les rôles qu’il est appelé à remplir, il ne s’agit pas en premier lieu d’un devoir qui lui est assigné par la communauté, mais plutôt d’une conséquence de l’effusion de l’Esprit Saint reçue lors de l’ordination, qui le rend apte à une telle tâche. Le prêtre aussi est formé par le fait qu’il préside l’assemblée qui célèbre.
57. Pour que ce service soit bien fait – et même avec art ! – il est d’une importance fondamentale que le prêtre ait tout d’abord une conscience aiguë d’être, par la miséricorde de Dieu, une présence particulière du Seigneur ressuscité. Le ministre ordonné est lui-même l’un des modes de présence du Seigneur qui rendent l’assemblée chrétienne unique, différente de toute autre assemblée (cf. Sacrosanctum Concilium, n.7). Ce fait donne une profondeur « sacramentelle » – au sens large – à tous les gestes et paroles de celui qui préside. L’assemblée a le droit de pouvoir sentir dans ces gestes et ces paroles le désir que le Seigneur a, aujourd’hui comme à la dernière Cène, de continuer à manger la Pâque avec nous. C’est donc le Seigneur Ressuscité qui est le protagoniste, et certainement pas nos immaturités qui cherchent, en assumant un rôle et une attitude, une présentabilité qu’elles ne peuvent avoir. Le prêtre lui-même devrait être submergé par ce désir de communion que le Seigneur a envers chacun. C’est comme s’il était placé au milieu entre le cœur brûlant de l’amour de Jésus et le cœur de chaque croyant, objet de son amour. Présider l’Eucharistie, c’est être plongé dans la fournaise de l’amour de Dieu. Lorsqu’il nous sera donné de comprendre cette réalité, ou même simplement d’en avoir l’intuition, nous n’aurons certainement plus besoin d’un Directoire qui nous imposerait le comportement adéquat. Si nous en avons besoin, c’est à cause de la dureté de notre cœur. La norme la plus élevée, et donc la plus exigeante, est la réalité même de la célébration eucharistique, qui sélectionne les mots, les gestes, les sentiments qui nous feront comprendre si notre usage de ceux-ci est ou non à la hauteur de la réalité qu’ils servent. Il est évident que cela ne s’improvise pas. C’est un art. Cela demande de la part du prêtre de l’application, un entretien assidu du feu de l’amour du Seigneur qu’il est venu allumer sur la terre (cf. Lc 12,49).
58. Lorsque la première communauté rompt le pain en obéissant au commandement du Seigneur, elle le fait sous le regard de Marie qui accompagne les premiers pas de l’Église : « Tous étaient assidus à la prière, avec des femmes, avec Marie la mère de Jésus » (Ac 1,14). La Vierge Mère « veille » sur les gestes de son Fils confiés aux apôtres. Comme elle l’a fait après les paroles de l’ange Gabriel, elle garde à nouveau dans son cœur, ces gestes qui font le corps de son Fils. Le prêtre, qui répète ces gestes en vertu du don reçu dans le sacrement de l’Ordre, est lui-même protégé dans le cœur de la Vierge. Avons-nous vraiment besoin ici d’une règle pour nous dire comment nous devons agir ?
59. Devenus des instruments pour allumer le feu de l’amour du Seigneur sur la terre, protégés dans le cœur de Marie, Vierge faite Église (comme le chantait saint François), les prêtres doivent laisser l’Esprit Saint agir sur eux, pour mener à bien l’œuvre qu’il a commencée en eux lors de leur ordination. L’action de l’Esprit leur offre la possibilité d’exercer leur ministère de présidence de l’assemblée eucharistique avec la crainte de Pierre, conscient d’être pécheur (Lc 5,1-11), avec la puissante humilité du serviteur souffrant (cf. Is 42ss), avec le désir « d’être mangé » par les personnes qui leur sont confiées dans l’exercice quotidien du ministère.
60. C’est la célébration elle-même qui éduque le prêtre à ce niveau et à cette qualité de présidence. Il ne s’agit pas, je le répète, d’une adhésion mentale, même si tout notre esprit ainsi que toute notre sensibilité doivent y être engagés. Ainsi, le prêtre se forme en présidant les paroles et les gestes que la liturgie met sur ses lèvres et dans ses mains.
Il n’est pas assis sur un trône[18] car le Seigneur règne avec l’humilité de celui qui sert.
Il ne détourne pas l’attention de la centralité de l’autel, symbole du Christ, car c’est de son côté transpercé qu’il laissa couler l’eau et le sang, source des sacrements de l’Église et le centre de notre louange et de notre action de grâce.[19]
En s’approchant de l’autel pour l’offrande, le prêtre est éduqué à l’humilité et à la contrition par les paroles : « Le cœur humble et contrit, nous te supplions, Seigneur, accueille-nous : que notre sacrifice, en ce jour, trouve grâce devant toi, Seigneur notre Dieu ».[20]
Il ne peut pas compter sur lui-même pour le ministère qui lui est confié, car la Liturgie l’invite à prier pour être purifié par le signe de l’eau, lorsqu’il dit : « Lave-moi de mes fautes, Seigneur, et purifie-moi de mon péché ».[21]
Les mots que la Liturgie place sur ses lèvres ont des contenus différents qui exigent des tonalités spécifiques. L’importance de ces paroles exige du prêtre un véritable ars dicendi. Celles-ci donnent forme à ses sentiments intérieurs, tantôt dans la supplication du Père au nom de l’assemblée, tantôt dans l’exhortation adressée à l’assemblée, tantôt dans l’acclamation d’une seule voix avec toute l’assemblée.
Dans la prière eucharistique – à laquelle participent aussi tous les baptisés, en écoutant avec révérence et en silence, et en intervenant dans les acclamations[22] – celui qui préside a la force, au nom de tout le peuple saint, de rappeler devant le Père l’offrande de son Fils dans la dernière Cène, afin que ce don immense soit rendu nouvellement présent sur l’autel. À cette offrande, il participe par l’offrande de lui-même. Le prêtre ne peut pas raconter la Cène au Père sans y participer lui-même. Il ne peut pas dire : « Prenez, et mangez-en tous : ceci est mon Corps livré pour vous », et ne pas vivre le même désir d’offrir son propre corps, sa propre vie, pour le peuple qui lui est confié. C’est ce qui se passe dans l’exercice de son ministère.
De tout cela et de beaucoup d’autres choses, le prêtre est continuellement formé par l’action de célébrer.
* * *
61. Dans cette lettre, j’ai voulu simplement partager quelques réflexions qui n’épuisent certainement pas l’immense trésor de la célébration des saints mystères. Je demande à tous les évêques, prêtres et diacres, aux formateurs des séminaires, aux enseignants des facultés et des écoles de théologie, à tous les catéchistes d’aider le saint peuple de Dieu à puiser dans ce qui est la première source de la spiritualité chrétienne. Nous sommes appelés à redécouvrir sans cesse la richesse des principes généraux exposés dans les premiers numéros de Sacrosanctum concilium, en saisissant le lien intime entre cette première constitution du Concile et toutes les autres. C’est pourquoi nous ne pouvons pas revenir à cette forme rituelle que les Pères du Concile, cum Petro et sub Petro, ont senti la nécessité de réformer, approuvant, sous la conduite de l’Esprit Saint et suivant leur conscience de pasteurs, les principes d’où est née la réforme. Les saints Pontifes Paul VI et Jean Paul II, en approuvant les livres liturgiques réformés ex decreto Sacrosancti Œcumenici Concilii Vaticani II, ont garanti la fidélité de la réforme du Concile. C’est pour cette raison que j’ai écrit Traditionis custodes, afin que l’Église puisse élever, dans la variété de tant de langues, une seule et même prière capable d’exprimer son unité[23]. Comme je l’ai déjà écrit, j’entends que cette unité soit rétablie dans toute l’Église de rite romain.
62. Je voudrais que cette lettre nous aide à raviver notre émerveillement pour la beauté de la vérité de la célébration chrétienne, à nous rappeler la nécessité d’une authentique formation liturgique, et à reconnaître l’importance d’un art de célébrer qui soit au service de la vérité du Mystère Pascal et de la participation de tous les baptisés à celui-ci, chacun selon sa vocation.
Toute cette richesse n’est pas loin de nous. Elle est dans nos églises, dans nos fêtes chrétiennes, dans la centralité du Dimanche, Jour du Seigneur, dans la force des sacrements que nous célébrons. La vie chrétienne est un parcours continuel de croissance. Nous sommes appelés à nous laisser former dans la joie et dans la communion.
63. C’est pourquoi, je désire vous laisser une autre indication à suivre sur notre chemin. Je vous invite à redécouvrir le sens de l’année liturgique et du Jour du Seigneur: cela aussi est une consigne du Concile (cf. Sacrosanctum Concilium, nn.102-111).
64. À la lumière de ce que nous avons rappelé ci-dessus, nous comprenons que l’année liturgique est l’occasion pour nous de grandir dans notre connaissance du mystère du Christ, en plongeant nos vies dans le mystère de sa Pâque, dans l’attente de son retour dans la gloire. Il s’agit d’une véritable formation permanente. Notre vie n’est pas une série d’événements aléatoires et chaotiques, qui se succèdent les uns aux autres. Il s’agit plutôt d’un itinéraire précis qui, d’une célébration annuelle de Pâques à une autre, nous rend conformes à Lui, dans l’attente que se réalise cette bienheureuse espérance : l’avènement de Jésus Christ, notre Sauveur[24].
65. Au fur et à mesure que s’écoule le temps rendu nouveau par sa Pâque, l’Église célèbre chaque huitième jour, dans le jour du Seigneur, l’événement de notre salut. Le dimanche, avant d’être un précepte, est un don que Dieu fait à son peuple ; et pour cette raison l’Eglise le sauvegarde par un précepte. La célébration dominicale offre à la communauté chrétienne la possibilité d’être formée par l’Eucharistie. De dimanche en dimanche, la parole du Seigneur ressuscité illumine notre existence, en voulant atteindre en nous la fin pour laquelle elle a été envoyée. (Cf. Is 55,10-11) De dimanche en dimanche, la communion au Corps et au Sang du Christ veut faire de notre vie aussi un sacrifice agréable au Père, dans la communion fraternelle du partage, de l’accueil, du service. De dimanche en dimanche, l’énergie du Pain rompu nous soutient dans l’annonce de l’Évangile dans lequel se manifeste l’authenticité de notre célébration
Abandonnons nos polémiques pour écouter ensemble ce que l’Esprit dit à l’Eglise. Sauvegardons notre communion. Continuons à nous émerveiller de la beauté de la liturgie. La Pâque nous a été donnée. Laissons-nous toucher par le désir que le Seigneur continue d’avoir de manger sa Pâque avec nous. Sous le regard de Marie, Mère de l’Eglise.
Donné à Rome, près Saint Jean de Latran, le 29 juin, solennité des saints Pierre et Paul, apôtres, en l’an 2022, la dixième année de mon pontificat.
FRANÇOIS
L’humanité entière tremble,
l’univers entier tremble et le ciel se réjouit,
quand sur l’autel, dans la main du prêtre,
le Christ, le Fils du Dieu vivant, est présent.
Ô hauteur admirable et valeur stupéfiante !
Ô sublime humilité ! Ô humble sublimité !
que le Seigneur de l’univers, Dieu et Fils de Dieu
s’humilie au point de se cacher, pour notre salut,
sous un petit semblant de pain !
Voyez, mes frères, l’humilité de Dieu,
et ouvrez vos cœurs devant Lui ;
humiliez vous aussi, afin d’être élevés par Lui.
Ne retenez donc rien de vous-mêmes,
afin que vous soyez reçus en tout et pour tout
par Celui qui s’offre entièrement à vous.
Saint François d’Assise
Lettre à tout l’Ordre II,26-29
_______________________
[1] Cfr. Leo Magnus, Sermo LXXIV: De ascensione Domini II,1: «quod [...] Redemptoris nostri conspicuum fuit, in sacramenta transivit».
[2] Præfatio paschalis III, Missale Romanum (2008) p. 367: «Qui immolátus iam non móritur, sed semper vivit occísus».
[3] Cfr. Missale Romanum (2008) p. 532.
[4] Cfr. Augustinus, Enarrationes in psalmos. Ps. 138,2; Oratio post septimam lectionem, Vigilia paschalis, Missale Romanum (2008) p. 359; Super oblata, Pro Ecclesia (B), Missale Romanum (2008) p. 1076.
[5] Cfr. Augustinus, In Ioannis Evangelium tractatus XXVI,13.
[6] Litteræ encyclicæ Mediator Dei (20 Novembris 1947) in AAS 39 (1947) 532.
[7] AAS 56 (1964) 34.
[8] R. Guardini, Liturgische Bildung (1923) in Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) p. 43 ; trad. fr. La formation liturgique (Leuven 2017) p.32.
[9] R. Guardini, Der Kultakt und die gegenwärtge Aufgabe der Liturgischen Bildung (1964) in Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) p. 14 ; trad. fr. La formation liturgique (Leuven 2017) p.91.
[10] De Ordinatione Episcopi, Presbyterorum et Diaconorum (1990) p. 95 ; « Agnosce quod ages, imitare quod tractabis, et vitam tuam mysterio dominicæ crucis conforma ».
[11] Leo Magnus, Sermo XII: De Passione III, 7.
[12] Irenæus Lugdunensis, Adversus hæreses IV,20,7.
[13] R. Guardini, Liturgische Bildung (1923) in Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) p. 36 ; trad. fr. La formation liturgique (Leuven 2017) p.26.
[14] Cantico delle Creature, Fonti Francescane, n. 263.
[15] R. Guardini, Liturgische Bildung (1923) in Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) p. 99 ; trad. fr. La formation liturgique (Leuven 2017) p.75
[16] Cf. Institutio Generalis Missalis Romani, nn. 45; 51; 54-56; 66; 71; 78; 84; 88; 271.
[17] Voir l’Exhortation apostolique Evangelii gaudium (24 novembre 2013) nn. 135-144.
[18] Cf. Institutio Generalis Missalis Romani, n.310.
[19] Prex dedicationis in Ordo dedicationis ecclesiæ et altaris (1977) p. 102.
[20] Missale Romanum (2008) p. 515: «In spiritu humilitatis et in animo contrito suscipiamur a te, Domine; et sic fiat sacrificium nostrum in conspectu tuo hodie, ut placeat tibi, Domine Deus».
[21] Missale Romanum (2008) p. 515: «Lava me, Domine, ab iniquitate mea, et a peccato meo munda me».
[22] Cf. Institutio Generalis Missalis Romani, nn.78-79.
[23] Cf. Paulus VI, Constitutio apostolica Missale Romanum (3 Aprilis 1969) in AAS 61 (1969) 222.
[24] Missale Romanum (2008) p. 598 : « … exspectantes beatam spem et adventum Salvatoris nostri Iesu Christi ».
[01027-FR.01] [Texte original: Italien]
Traduzione in lingua inglese
APOSTOLIC LETTER
DESIDERIO DESIDERAVI
OF THE HOLY FATHER
FRANCIS
To the Bishops, Priests and Deacons,
to consecrated men and women
and to the lay faithful
on the liturgical formation
of the people of God
Desiderio desideravi
hoc Pascha manducare vobiscum,
antequam patiar (Lc 22, 15)
1. My dearest brothers and sisters,
with this letter I desire to reach you all – after having written already only to the bishops after the publication of the Motu Proprio Traditionis custodes – and I write to share with you some reflections on the liturgy, a dimension fundamental for the life of the Church. The theme is vast and always deserves an attentive consideration in every one of its aspects. Even so, with this letter I do not intend to treat the question in an exhaustive way. I simply desire to offer some prompts or cues for reflections that can aid in the contemplation of the beauty and truth of Christian celebration.
The Liturgy: the “today” of salvation history
2. “I have earnestly desired to eat this Passover with you before I suffer.” (Luke 22: 15) These words of Jesus, with which the account of the Last Supper opens, are the crevice through which we are given the surprising possibility of intuiting the depth of the love of the persons of the Most Holy Trinity for us.
3. Peter and John were sent to make preparations to eat that Passover, but in actual fact, all of creation, all of history — which at last was on the verge of revealing itself as the history of salvation — was a huge preparation for that Supper. Peter and the others are present at that table, unaware and yet necessary. Necessary because every gift, to be gift, must have someone disposed to receive it. In this case, the disproportion between the immensity of the gift and the smallness of the one who receives it is infinite, and it cannot fail to surprise us. Nonetheless, through the mercy of the Lord, the gift is entrusted to the Apostles so that it might be carried to every man and woman.
4. No one had earned a place at that Supper. All had been invited. Or better said: all had been drawn there by the burning desire that Jesus had to eat that Passover with them. He knows that he is the Lamb of that Passover meal; he knows that he is the Passover. This is the absolute newness, the absolute originality, of that Supper, the only truly new thing in history, which renders that Supper unique and for this reason “the Last Supper,” unrepeatable. Nonetheless, his infinite desire to re-establish that communion with us that was and remains his original design, will not be satisfied until every man and woman, from every tribe, tongue, people and nation (Rev 5:9), shall have eaten his Body and drunk his Blood. And for this reason that same Supper will be made present in the celebration of the Eucharist until he returns again.
5. The world still does not know it, but everyone is invited to the supper of the wedding of the Lamb (Rev 19: 9). To be admitted to the feast all that is required is the wedding garment of faith which comes from the hearing of his Word (cf. Rom 10:17). The Church tailors such a garment to fit each one with the whiteness of a garment bathed in the blood of the Lamb. (Rev 7:14). We must not allow ourselves even a moment of rest, knowing that still not everyone has received an invitation to this Supper or knowing that others have forgotten it or have got lost along the way in the twists and turns of human living. This is what I spoke of when I said, “I dream of a ‘missionary option’, that is, a missionary impulse capable of transforming everything, so that the Church’s customs, ways of doing things, times and schedules, language and structures can be suitably channelled for the evangelization of today’s world rather than for her self-preservation.” (Evangelii gaudium, n. 27). I want this so that all can be seated at the Supper of the sacrifice of the Lamb and live from Him.
6. Before our response to his invitation — well before! — there is his desire for us. We may not even be aware of it, but every time we go to Mass, the first reason is that we are drawn there by his desire for us. For our part, the possible response — which is also the most demanding asceticism — is, as always, that surrender to this love, that letting ourselves be drawn by him. Indeed, every reception of communion of the Body and Blood of Christ was already desired by him in the Last Supper.
7. The content of the bread broken is the cross of Jesus, his sacrifice of obedience out of love for the Father. If we had not had the Last Supper, that is to say, if we had not had the ritual anticipation of his death, we would have never been able to grasp how the carrying out of his being condemned to death could have been in fact the act of perfect worship, pleasing to the Father, the only true act of worship, the only true liturgy. Only a few hours after the Supper, the apostles could have seen in the cross of Jesus, if they could have borne the weight of it, what it meant for Jesus to say, “body offered,” “blood poured out.” It is this of which we make memorial in every Eucharist. When the Risen One returns from the dead to break the bread for the disciples at Emmaus, and for his disciples who had gone back to fishing for fish and not for people on the Sea of Galilee, that gesture of breaking the bread opens their eyes. It heals them from the blindness inflicted by the horror of the cross, and it renders them capable of “seeing” the Risen One, of believing in the Resurrection.
8. If we had somehow arrived in Jerusalem after Pentecost and had felt the desire not only to have information about Jesus of Nazareth but rather the desire still to be able to meet him, we would have had no other possibility than that of searching out his disciples so that we could hear his words and see his gestures, more alive than ever. We would have had no other possibility of a true encounter with him other than that of the community that celebrates. For this reason the Church has always protected as its most precious treasure the command of the Lord, “Do this in memory of me.”
9. From the very beginning the Church was aware that this was not a question of a representation, however sacred it be, of the Supper of the Lord. It would have made no sense, and no one would have been able to think of “staging” — especially before the eyes of Mary, the Mother of the Lord — that highest moment of the life of the Master. From the very beginning the Church had grasped, enlightened by the Holy Spirit, that that which was visible in Jesus, that which could be seen with the eyes and touched with the hands, his words and his gestures, the concreteness of the incarnate Word — everything of Him had passed into the celebration of the sacraments.[1]
The Liturgy: place of encounter with Christ
10. Here lies all the powerful beauty of the liturgy. If the resurrection were for us a concept, an idea, a thought; if the Risen One were for us the recollection of the recollection of others, however authoritative, as, for example, of the Apostles; if there were not given also to us the possibility of a true encounter with Him, that would be to declare the newness of the Word made flesh to have been all used up. Instead, the Incarnation, in addition to being the only always new event that history knows, is also the very method that the Holy Trinity has chosen to open to us the way of communion. Christian faith is either an encounter with Him alive, or it does not exist.
11. Liturgy guarantees for us the possibility of such an encounter. For us a vague memory of the Last Supper would do no good. We need to be present at that Supper, to be able to hear his voice, to eat his Body and to drink his Blood. We need Him. In the Eucharist and in all the sacraments we are guaranteed the possibility of encountering the Lord Jesus and of having the power of his Paschal Mystery reach us. The salvific power of the sacrifice of Jesus, his every word, his every gesture, glance, and feeling reaches us through the celebration of the sacraments. I am Nicodemus, the Samaritan woman at the well, the man possessed by demons at Capernaum, the paralytic in the house of Peter, the sinful woman pardoned, the woman afflicted by haemorrhages, the daughter of Jairus, the blind man of Jericho, Zacchaeus, Lazarus, the thief and Peter both pardoned. The Lord Jesus who dies no more, who lives forever with the signs of his Passion[2] continues to pardon us, to heal us, to save us with the power of the sacraments. It is the concrete way, by means of his incarnation, that he loves us. It is the way in which he satisfies his own thirst for us that he had declared from the cross. (John 19: 28)
12. Our first encounter with his paschal deed is the event that marks the life of all believers: our Baptism. This is not a mental adhesion to his thought or the agreeing to a code of conduct imposed by Him. Rather, it is a being plunged into his passion, death, resurrection, and ascension, a being plunged into his paschal deed. It is not magic. Magic is the opposite of the logic of the sacraments because magic pretends to have a power over God, and for this reason it comes from the Tempter. In perfect continuity with the Incarnation, there is given to us, in virtue of the presence and action of the Spirit, the possibility of dying and rising in Christ.
13. How moving, the way in which this comes about. The prayer for the blessing of baptismal water[3] reveals to us that God created water precisely with Baptism in mind. This means that when God created water, he was thinking of the Baptism of each one of us, and this same thought accompanied him all throughout his acting in the history of salvation every time that, with precise intention, he used water for his saving work. It is as if after having created water in the first place, he had wanted to perfect it by making it eventually to be the water of Baptism. It was thus that he wanted to fill it with the movement of his Spirit hovering over the face of the waters (Gen 1: 2) so that it could contain hidden within the power to sanctify. He used water to regenerate humanity through the flood (Gen 6: 1-9, 29). He controlled it, separating it to open the way of freedom through the Red Sea (cf. Ex 14). He consecrated it in the Jordan, plunging into it the flesh of the Word soaked in the Spirit. (cf. Mt 3:13-17; Mk 1:9-11; Lk 3:21-22) At the end he blended it with the blood of his Son, the gift of the Spirit inseparably united with the gift of the life and death of the Lamb slain for us, and from his pierced side he poured it out over us. (John 19:34) And it is into this water that we have been immersed so that through its power we can be inserted into the Body of Christ and with him rise to immortal life. (cf. Rom 6: 1-11)
The Church: Sacrament of the Body of Christ
14. As Vatican Council II reminded us (cf. Sacrosanctum Concilium, n. 5), citing the scriptures, the Fathers, and the Liturgy — the pillars of authentic Tradition — it was from the side of Christ as He slept the sleep of death upon the cross that there came forth “the wondrous sacrament of the whole Church.”[4] The parallel between the first Adam and the new Adam is striking: as from the side of the first Adam, after having cast him into a deep sleep, God draws forth Eve, so also from the side of the new Adam, sleeping the sleep of death on the cross, there is born the new Eve, the Church. The astonishment for us lies in the words that we can imagine the new Adam made his own in gazing at the Church: “Here at last is bone of my bones and flesh of my flesh.” (Gen 2: 23) For our having believed in His Word and descended into the waters of Baptism, we have become bone of his bone and flesh of his flesh.
15. Without this incorporation there is no possibility of living the fullness of the worship of God. In fact, there is only one act of worship, perfect and pleasing to the Father; namely, the obedience of the Son, the measure of which is his death on the cross. The only possibility of being able to participate in his offering is by becoming “sons in the Son.” This is the gift that we have received. The subject acting in the Liturgy is always and only Christ-Church, the mystical Body of Christ.
The theological sense of the Liturgy
16. We owe to the Council — and to the liturgical movement that preceded it — the rediscovery of a theological understanding of the Liturgy and of its importance in the life of the Church. As the general principles spelled out in Sacrosanctum Concilium have been fundamental for the reform of the liturgy, they continue to be fundamental for the promotion of that full, conscious, active, and fruitful celebration (cf. Sacrosanctum Concilium, nn. 11; 14), in the liturgy “the primary and indispensable source from which the faithful are to derive the true Christian spirit” (Sacrosanctum Concilium, n.14). With this letter I simply want to invite the whole Church to rediscover, to safeguard, and to live the truth and power of the Christian celebration. I want the beauty of the Christian celebration and its necessary consequences for the life of the Church not to be spoiled by a superficial and foreshortened understanding of its value or, worse yet, by its being exploited in service of some ideological vision, no matter what the hue. The priestly prayer of Jesus at the Last Supper that all may be one (John 17:21) judges every one of our divisions around the Bread broken, around the sacrament of mercy, the sign of unity, the bond of charity.[5]
The Liturgy: antidote for the poison of spiritual worldliness
17. On different occasions I have warned against a dangerous temptation for the life of the Church, which I called “spiritual worldliness.” I spoke about this at length in the exhortation Evangelii gaudium (nn. 93-97), pinpointing Gnosticism and neo-Pelagianism as two versions connected between themselves that feed this spiritual worldliness.
The first shrinks Christian faith into a subjectivism that “ultimately keeps one imprisoned in his or her own thoughts and feelings.” (EG 94) The second cancels out the role of grace and “leads instead to a narcissistic and authoritarian elitism, whereby instead of evangelizing, one analyses and classifies others, and instead of opening the door to grace, one exhausts his or her energies in inspecting and verifying.” (EG 94)
These distorted forms of Christianity can have disastrous consequences for the life of the Church.
18. From what I have recalled above it is clear that the Liturgy is, by its very nature, the most effective antidote against these poisons. Obviously, I am speaking of the Liturgy in its theological sense and certainly not, as Pius XII already affirmed, Liturgy as decorative ceremonies or a mere sum total of laws and precepts that govern the cult.[6]
19. If Gnosticism intoxicates us with the poison of subjectivism, the liturgical celebration frees us from the prison of a self-referencing nourished by one’s own reasoning and one’s own feeling. The action of the celebration does not belong to the individual but to the Christ-Church, to the totality of the faithful united in Christ. The liturgy does not say “I” but “we,” and any limitation on the breadth of this “we” is always demonic. The Liturgy does not leave us alone to search out an individual supposed knowledge of the mystery of God. Rather, it takes us by the hand, together, as an assembly, to lead us deep within the mystery that the Word and the sacramental signs reveal to us. And it does this, consistent with all action of God, following the way of the Incarnation, that is, by means of the symbolic language of the body, which extends to things in space and time.
20. If neo-Pelagianism intoxicates us with the presumption of a salvation earned through our own efforts, the liturgical celebration purifies us, proclaiming the gratuity of the gift of salvation received in faith. Participating in the Eucharistic sacrifice is not our own achievement, as if because of it we could boast before God or before our brothers and sisters. The beginning of every celebration reminds me who I am, asking me to confess my sin and inviting me to implore the Blessed Mary ever virgin, the angels and saints and all my brothers and sisters to pray for me to the Lord our God. Certainly, we are not worthy to enter his house; we need a word of his to be saved. (cf. Matt 8:8) We have no other boast but the cross of our Lord Jesus Christ. (cf. Gal 6: 14) The Liturgy has nothing to do with an ascetical moralism. It is the gift of the Paschal Mystery of the Lord which, received with docility, makes our life new. The cenacle is not entered except through the power of attraction of his desire to eat the Passover with us: Desiderio desideravi hoc Pascha manducare vobiscum, antequam patiar (Lc 22,15).
Rediscovering daily the beauty of the truth of the Christian celebration
21. But we must be careful: for the antidote of the Liturgy to be effective, we are required every day to rediscover the beauty of the truth of the Christian celebration. I refer once again to the theological sense, as n. 7 of Sacrosanctum Concilium so beautifully describes it: the Liturgy is the priesthood of Christ, revealed to us and given in his Paschal Mystery, rendered present and active by means of signs addressed to the senses (water, oil, bread, wine, gestures, words), so that the Spirit, plunging us into the paschal mystery, might transform every dimension of our life, conforming us more and more to Christ.
22. The continual rediscovery of the beauty of the Liturgy is not the search for a ritual aesthetic which is content by only a careful exterior observance of a rite or is satisfied by a scrupulous observance of the rubrics. Obviously, what I am saying here does not wish in any way to approve the opposite attitude, which confuses simplicity with a careless banality, or what is essential with an ignorant superficiality, or the concreteness of ritual action with an exasperating practical functionalism.
23. Let us be clear here: every aspect of the celebration must be carefully tended to (space, time, gestures, words, objects, vestments, song, music…) and every rubric must be observed. Such attention would be enough to prevent robbing from the assembly what is owed to it; namely, the paschal mystery celebrated according to the ritual that the Church sets down. But even if the quality and the proper action of the celebration were guaranteed, that would not be enough to make our participation full.
Amazement before the Paschal Mystery:
an essential part of the liturgical act
24. If there were lacking our astonishment at the fact that the paschal mystery is rendered present in the concreteness of sacramental signs, we would truly risk being impermeable to the ocean of grace that floods every celebration. Efforts to favour a greater quality to the celebration, even if praiseworthy, are not enough; nor is the call for a greater interiority. Interiority can run the risk of reducing itself to an empty subjectivity if it has not taken on board the revelation of the Christian mystery. The encounter with God is not the fruit of an individual interior searching for Him, but it is an event given. We can encounter God through the new fact of the Incarnation that reaches in the Last Supper the extreme point of his desiring to be eaten by us. How can the misfortune of distancing ourselves from the allure of the beauty of this gift happen to us?
25. When I speak of astonishment at the paschal mystery, I do not at all intend to refer to what at times seems to me to be meant by the vague expression “sense of mystery.” Sometimes this is among the presumed chief accusations against the liturgical reform. It is said that the sense of mystery has been removed from the celebration. The astonishment or wonder of which I speak is not some sort of being overcome in the face of an obscure reality or a mysterious rite. It is, on the contrary, marvelling at the fact that the salvific plan of God has been revealed in the paschal deed of Jesus (cf. Eph 1: 3-14), and the power of this paschal deed continues to reach us in the celebration of the “mysteries,” of the sacraments. It is still true that the fullness of revelation has, in respect to our human finitude, an abundance that transcends us and will find its fulfilment at the end of time when the Lord will return. But if the astonishment is of the right kind, then there is no risk that the otherness of God’s presence will not be perceived, even within the closeness that the Incarnation intends. If the reform has eliminated that vague “sense of mystery,” then more than a cause for accusations, it is to its credit. Beauty, just like truth, always engenders wonder, and when these are referred to the mystery of God, they lead to adoration.
26. Wonder is an essential part of the liturgical act because it is the way that those who know they are engaged in the particularity of symbolic gestures look at things. It is the marvelling of those who experience the power of symbol, which does not consist in referring to some abstract concept but rather in containing and expressing in its very concreteness what it signifies.
The need for a serious and vital liturgical formation
27. Therefore, the fundamental question is this: how do we recover the capacity to live completely the liturgical action? This was the objective of the Council’s reform. The challenge is extremely demanding because modern people — not in all cultures to the same degree — have lost the capacity to engage with symbolic action, which is an essential trait of the liturgical act.
28. With post-modernity people feel themselves even more lost, without references of any sort, lacking in values because they have become indifferent, completely orphaned, living a fragmentation in which an horizon of meaning seems impossible. And so it is even more weighed down by the burdensome inheritance that the previous epoch left us, consisting in individualism and subjectivism (which evokes once again the Pelagian and gnostic problems). It consists also in an abstract spiritualism which contradicts human nature itself, for a human person is an incarnate spirit and therefore as such capable of symbolic action and of symbolic understanding.
29. It is with this reality of the modern world that the Church, united in Council, wanted to enter into contact, reaffirming her awareness of being the sacrament of Christ, the Light of the nations (Lumen gentium), putting herself in a devout listening to the Word of God (Dei Verbum), and recognizing as her own the joys and the hopes (Gaudium et spes) of the people of our times. The great Constitutions of the Council cannot be separated one from the other, and it is not an accident that this single huge effort at reflection by the Ecumenical Council — which is the highest expression of synodality in the Church and whose richness I, together with all of you, am called to be the custodian — began with reflection on the Liturgy. (Sacrosanctum concilium)
30. Closing the second session of the Council (December 4, 1963) Saint Paul VI expressed himself in this way:
“The difficult, complex debates have had rich results. They have brought one topic to a conclusion, the sacred liturgy. Treated before all others, in a sense it has priority over all others for its intrinsic dignity and importance to the life of the Church and today we will solemnly promulgate the document on the liturgy. Our spirit, therefore, exults with true joy, for in the way things have gone we note respect for a right scale of values and duties. God must hold first place; prayer to him is our first duty. The liturgy is the first source of divine communion in which God shares his own life with us. It is also the first school of the spiritual life. The liturgy is the first gift we must make to the Christian people united to us by faith and the fervour of their prayers. It is also a primary invitation to the human race, so that all may now lift their mute voices in blessed and genuine prayer and thus may experience that indescribable, regenerative power to be found when they join us in proclaiming the praises of God and the hopes of the human heart through Jesus Christ and in the Holy Spirit”.[7]
31. In this letter I cannot dwell with you on the richness of this passage’s various expressions, which I recommend to your own meditation. If the liturgy is “the summit toward which the activity of the Church is directed, and at the same time the font from which all her power flows,” (Sacrosanctum Concilium, n. 10), well then, we can understand what is at stake in the liturgical question. It would be trivial to read the tensions, unfortunately present around the celebration, as a simple divergence between different tastes concerning a particular ritual form. The problematic is primarily ecclesiological. I do not see how it is possible to say that one recognizes the validity of the Council — though it amazes me that a Catholic might presume not to do so — and at the same time not accept the liturgical reform born out of Sacrosanctum Concilium, a document that expresses the reality of the Liturgy intimately joined to the vision of Church so admirably described in Lumen gentium. For this reason, as I already expressed in my letter to all the bishops, I have felt it my duty to affirm that “The liturgical books promulgated by Saint Paul VI and Saint John Paul II, in conformity with the decrees of Vatican Council II, are the unique expression of the lex orandi of the Roman Rite.” (Motu Proprio Traditionis custodes, art 1)
The non-acceptance of the liturgical reform, as also a superficial understanding of it, distracts us from the obligation of finding responses to the question that I come back to repeating: how can we grow in our capacity to live in full the liturgical action? How do we continue to let ourselves be amazed at what happens in the celebration under our very eyes? We are in need of a serious and dynamic liturgical formation.
32. Let us return to the cenacle in Jerusalem. On the morning of Pentecost the Church is born, the initial cell of the new humanity. Only the community of men and women — reconciled because pardoned, alive because He is alive, true because dwelt in by the Spirit of truth — can open the cramped space of spiritual individualism.
33. It is the community of Pentecost that is able to break the Bread in the certain knowledge that the Lord is alive, risen from the dead, present with his word, with his gestures, with the offering of His Body and His Blood. From that moment on the celebration became the privileged place — though not the only one — of an encounter with Him. We know that only thanks to the grace of this encounter does a human being become fully human. Only the Church of Pentecost can conceive of the human being as a person, open to a full relationship with God, with creation, and with one’s brothers and sisters.
34. In this is posed the decisive question of liturgical formation. Romano Guardini says, “Here too the first practical task is indicated: carried along by this inner transformation of our time, we must learn anew how to relate religiously as fully human beings.”[8] This is what the Liturgy makes possible. For this we must be formed. Guardini does not hesitate to declare that without liturgical formation “then ritual and textual reforms won’t help much.”[9] I do not intend to treat here in an exhaustive way the very rich theme of liturgical formation. I only want to offer some starting points for reflection. I think two aspects can be distinguished: formation for the Liturgy and formation by the Liturgy. The first depends upon the second which is essential.
35. It was and is necessary to find the channels for a formation that is the study of Liturgy. From the beginning of the liturgical movement much has been done in this regard, with precious contributions from scholars and academic institutions. Nonetheless, it is important now to spread this knowledge beyond the academic environment, in an accessible way, so that each one of the faithful might grow in a knowledge of the theological sense of the Liturgy. This is the decisive question, and it grounds every kind of understanding and every liturgical practice. It also grounds the very celebration itself, helping each and all to acquire the capacity to comprehend the euchological texts, the ritual dynamics, and their anthropological significance.
36. I think of the regular rhythm of our assemblies that come together to celebrate the Eucharist on the Lord’s Day, Sunday after Sunday, Easter after Easter, at particular moments in the life of each single person and of the communities, in all the different ages of life. Ordained ministers carry out a pastoral action of the first importance when they take the baptized faithful by the hand to lead them into the repeated experience of the Paschal Mystery. Let us always remember that it is the Church, the Body of Christ, that is the celebrating subject and not just the priest. The kind of knowledge that comes from study is just the first step to be able to enter into the mystery celebrated. Obviously, to be able to lead their brothers and sisters, the ministers who preside in the assembly must know the way, know it from having studied it on the map of their theological studies but also from having frequented the liturgy in actual practice of an experience of living faith, nourished by prayer — and certainly not just as an obligation to be fulfilled. On the day of his ordination every priest hears the bishop say to him: “Understand what you will do, imitate what you will celebrate, and conform your life to the mystery of the Lord’s Cross.”[10]
37. Also the plan of studies for the Liturgy in seminaries must take account of the extraordinary capacity that the actual celebration has in itself to offer an organic and unified vision of all theological knowledge. Every discipline of theology, each from its own perspective, must show its own intimate connection with the Liturgy in light of which the unity of priestly formation is made clear and realized (cf. Sacrosanctum Concilium, n. 16). A liturgical-sapiential plan of studies in the theological formation of seminaries would certainly have positive effects in pastoral action. There is no aspect of ecclesial life that does not find its summit and its source in the Liturgy. More than being the result of elaborate programs, a comprehensive, organic, and integrated pastoral practice is the consequence of placing the Sunday Eucharist, the foundation of communion, at the centre of the life of the community. The theological understanding of the Liturgy does not in any way permit that these words be understood to mean to reduce everything to the aspect of worship. A celebration that does not evangelize is not authentic, just as a proclamation that does not lead to an encounter with the risen Lord in the celebration is not authentic. And then both of these, without the testimony of charity, are like sounding a noisy gong or a clanging cymbal. (1 Cor 13: 1)
38. For ministers as well as for all the baptized, liturgical formation in this first sense is not something that can be acquired once and for all. Since the gift of the mystery celebrated surpasses our capacity to know it, this effort certainly must accompany the permanent formation of everyone, with the humility of little ones, the attitude that opens up into wonder.
39. One final observation about seminaries: in addition to a program of studies, they must also offer the possibility of experiencing a celebration that is not only exemplary from a ritual point of view, but also authentic and alive, which allows the living out of a true communion with God, that same communion toward which theological knowledge must tend. Only the action of the Spirit can bring to completion our knowledge of the mystery of God, for the mystery of God is not a question of something grasped mentally but a relationship that touches all of life. Such experience is fundamental so that, once seminarians become ordained ministers, they can accompany communities in the same journey of knowledge of the mystery of God, which is the mystery of love.
40. This last consideration brings us to reflection on the second sense that we can understand in the expression “liturgical formation.” I refer to our being formed, each one according to his or her vocation, from participation in the liturgical celebration. Even the knowledge that comes from studies, of which I was just speaking, for it not to become a sort of rationalism, must serve to realize the formative action of the Liturgy itself in every believer in Christ.
41. From all that we have said about the nature of the Liturgy it becomes clear that knowledge of the mystery of Christ, the decisive question for our lives, does not consist in a mental assimilation of some idea but in real existential engagement with his person. In this sense, Liturgy is not about “knowledge,” and its scope is not primarily pedagogical, even though it does have great pedagogical value. (Cf. Sacrosanctum Concilium, n. 33) Rather, Liturgy is about praise, about rendering thanks for the Passover of the Son whose power reaches our lives. The celebration concerns the reality of our being docile to the action of the Spirit who operates through it until Christ be formed in us. (Cf. Gal 4:19) The full extent of our formation is our conformation to Christ. I repeat: it does not have to do with an abstract mental process, but with becoming Him. This is the purpose for which the Spirit is given, whose action is always and only to confect the Body of Christ. It is that way with the Eucharistic bread, and with every one of the baptized called to become always more and more that which was received as a gift in Baptism; namely, being a member of the Body of Christ. Leo the Great writes, “Our participation in the Body and Blood of Christ has no other end than to make us become that which we eat.”[11]
42. This existential engagement happens — in continuity with and consistent with the method of Incarnation — in a sacramental way. The Liturgy is done with things that are the exact opposite of spiritual abstractions: bread, wine, oil, water, fragrances, fire, ashes, rock, fabrics, colours, body, words, sounds, silences, gestures, space, movement, action, order, time, light. The whole of creation is a manifestation of the love of God, and from when that same love was manifested in its fullness in the cross of Jesus, all of creation was drawn toward it. It is the whole of creation that is assumed in order to be placed at the service of encounter with the Word: incarnate, crucified, dead, risen, ascended to the Father. It is as the prayer over the water at the baptismal font sings, but also the prayer over the oil for sacred chrism and the words for the presentation of the bread and wine — all fruit of the earth and work of human hands.
43. The Liturgy gives glory to God not because we can add something to the beauty of the inaccessible light within which God dwells (cf. 1Tim 6:16). Nor can we add to the perfection of the angelic song which resounds eternally through the heavenly places. The Liturgy gives glory to God because it allows us — here, on earth — to see God in the celebration of the mysteries, and in seeing Him to draw life from his Passover. We, who were dead through our sins and have been made be alive again with Christ — we are the glory of God. By grace we have been saved (Eph 2: 5). Irenaeus, the doctor unitatis, reminds us of this: “The glory of God is man alive, and the life of man consists in seeing God: if the revelation of God through the creation already gives life to all living beings on earth, how much more then is the manifestation of the Father through the Word the cause of life for those who see God.”[12]
44. Guardini writes, “Here there is outlined the first task of the work of liturgical formation: man must become once again capable of symbols.”[13] This is a responsibility for all, for ordained ministers and the faithful alike. The task is not easy because modern man has become illiterate, no longer able to read symbols; it is almost as if their existence is not even suspected. This happens also with the symbol of our body. Our body is a symbol because it is an intimate union of soul and body; it is the visibility of the spiritual soul in the corporeal order; and in this consists human uniqueness, the specificity of the person irreducible to any other form of living being. Our openness to the transcendent, to God, is constitutive of us. Not to recognize this leads us inevitably not only to a not knowing of God but also to not knowing ourselves. It is enough to look at the paradoxical way in which the body is treated, in one moment cared for in an almost obsessive way, inspired by the myth of eternal youth, and in another moment reducing the body to a materiality to which there is denied every dignity. The fact is that value cannot be given to the body starting only from the body itself. Every symbol is at the same time both powerful and fragile. If it is not respected, if it is not treated for what it is, it shatters, loses its force, becomes insignificant.
We no longer have the gaze of St. Francis, who looked at the sun — which he called brother because so he felt it to be — and saw it beautiful and radiant with great splendour, and, full of wonder, he sang that it bears a likeness of You, Most High One.[14] To have lost the capacity to grasp the symbolic value of the body and of every creature renders the symbolic language of the Liturgy almost inaccessible to the modern mentality. And yet there can be no question of renouncing such language. It cannot be renounced because it is how the Holy Trinity chose to reach us through the flesh of the Word. It is rather a question of recovering the capacity to use and understand the symbols of the Liturgy. We must not lose hope because this dimension in us, as I have just said, is constitutive; and despite the evils of materialism and spiritualism — both of them negations of the unity of soul and body — it is always ready to re-emerge, as is every truth.
45. So, the question I want to pose is how can we become once again capable of symbols? How can we again know how to read them and be able to live them? We know well that the celebration of the sacraments, by the grace of God, is efficacious in itself (ex opere operato), but this does not guarantee the full engagement of people without an adequate way of their placing themselves in relation to the language of the celebration. A symbolic “reading” is not a mental knowledge, not the acquisition of concepts, but rather a living experience.
46. Above all we must reacquire confidence about creation. I mean to say that things — the sacraments “are made” of things — come from God. To Him they are oriented, and by Him they have been assumed, and assumed in a particular way in the Incarnation, so that they can become instruments of salvation, vehicles of the Spirit, channels of grace. In this it is clear how vast is the distance between this vision and either a materialistic or spiritualistic vision. If created things are such a fundamental, essential part of the sacramental action that brings about our salvation, then we must arrange ourselves in their presence with a fresh, non-superficial regard, respectful and grateful. From the very beginning, created things contain the seed of the sanctifying grace of the sacraments.
47. Still thinking about how the Liturgy forms us, another decisive question is the education necessary to be able to acquire the interior attitude that will let us use and understand liturgical symbols. Let me express it in a simple way. I have in mind parents, or even more perhaps, grandparents, but also our pastors and catechists. Many of us learned the power of the gestures of the liturgy from them, as, for example, the sign of the cross, kneeling, the formulas of our faith. Perhaps we do not have an actual memory of such learning, but we can easily imagine the gesture of a larger hand taking the little hand of a child and accompanying it slowly in tracing across the body for the first time the sign of our salvation. Words accompany the movement, these also said slowly, almost as if wanting to take possession of every instant of the gesture, to take possession of the whole body: “In the name of the Father… and of the Son… and of the Holy Spirit…. Amen.” And then the hand of the child is left alone, and it is watched repeating it all alone, with help ready nearby if need be. But that gesture is now consigned, like a habit that will grow with Him, imparting to it a meaning that only the Spirit knows how. From that moment forward that gesture, its symbolic force, is ours, it belongs to us; or better said, we belong to it. It gives us form. We are formed by it. Not many discourses are needed here. It is not necessary to have understood everything in that gesture. What is needed is being small, both in consigning it and in receiving it. The rest is the work of the Spirit. In this way we are initiated into symbolic language. We cannot let ourselves be robbed of such richness. Growing up we will have more ways of being able to understand, but always on the condition of remaining little ones.
Ars celebrandi
48. One way of caring for and growing in a vital understanding of the symbols of the Liturgy is certainly the ars celebrandi, the art of celebrating. This expression also is subject to different interpretations. Its sense becomes clear if we refer to the theological sense of the Liturgy described in Sacrosanctum Concilium n. 7, to which I have already referred several times. The ars celebrandi cannot be reduced to only a rubrical mechanism, much less should it be thought of as imaginative — sometimes wild — creativity without rules. The rite is in itself a norm, and the norm is never an end in itself, but it is always at the service of a higher reality that it means to protect.
49. As in any art, the ars celebrandi requires different kinds of knowledge.
First of all, it requires an understanding of the dynamism that unfolds through the Liturgy. The action of the celebration is the place in which, by means of memorial, the Paschal Mystery is made present so that the baptized, through their participation, can experience it in their own lives. Without this understanding, the celebration easily falls into a preoccupation with the exterior (more or less refined) or into a concern only for rubrics (more or less rigid).
Then, it is necessary to know how the Holy Spirit acts in every celebration. The art of celebrating must be in harmony with the action of the Spirit. Only in this way will it be free from the subjectivisms that are the fruit of individual tastes dominating. Only in this way will it be free from the invasion of cultural elements that are taken on without discernment and that have nothing to do with a correct understanding of inculturation.
Finally, it is necessary to understand the dynamics of symbolic language, its particular nature, its efficacy.
50. From these brief indications it should be clear that the art of celebration is not something that can be improvised. Like every art, it requires consistent application. For an artisan, technique is enough. But for an artist, in addition to technical knowledge, there has also to be inspiration, which is a positive form of possession. The true artist does not possess an art but rather is possessed by it. One does not learn the art of celebrating by frequenting a course in public speaking or in persuasive techniques of communication. (I am not judging intentions, just observing effects.) Every tool can be useful, but it must be at the service of the nature of the Liturgy and the action of the Holy Spirit. A diligent dedication to the celebration is required, allowing the celebration itself to convey to us its art. Guardini writes: “We must understand how deeply we remain entrenched in individualism and subjectivism, how unaccustomed we have become to the demands of the ‘great’, and how small the parameters of our religious living are. We must regain the sense for the ‘great’ style of praying, the will towards the existential in prayer too. The way to achieve this, though, is through discipline, through giving up weak sentimentality; through serious work, carried out in obedience to the Church, on our religious being and acting.”[15] This is how the art of celebrating is learned.
51. Speaking of this theme we are inclined to think of it only in regards to ordained ministers carrying out the service of presiding. But in fact this is an attitude that all the baptized are called to live. I think of all the gestures and words that belong to the assembly: gathering, careful walking in procession, being seated, standing, kneeling, singing, being in silence, acclamations, looking, listening. There are many ways in which the assembly, as one body, (Neh 8:1) participates in the celebration. Everybody doing together the same gesture, everyone speaking together in one voice — this transmits to each individual the energy of the entire assembly. It is a uniformity that not only does not deaden but, on the contrary, educates individual believers to discover the authentic uniqueness of their personalities not in individualistic attitudes but in the awareness of being one body. It is not a question of following a book of liturgical etiquette. It is, rather, a “discipline,” — in the way that Guardini referred to — which, if observed authentically forms us. These are gestures and words that place order within our interior world making us live certain feelings, attitudes, behaviours. They are not the explanation of an ideal that we seek to let inspire us, but they are instead an action that engages the body in its entirety, that is to say, in its being a unity of body and soul.
52. Among the ritual acts that belong to the whole assembly, silence occupies a place of absolute importance. Many times it is expressly prescribed in the rubrics. The entire Eucharistic celebration is immersed in the silence which precedes its beginning and which marks every moment of its ritual unfolding. In fact, it is present in the penitential act, after the invitation “Let us pray,” in the Liturgy of the Word (before the readings, between the readings and after the homily), in the Eucharistic prayer, after communion.[16] Such silence is not an inner haven in which to hide oneself in some sort of intimate isolation, as if leaving the ritual form behind as a distraction. That kind of silence would contradict the essence itself of the celebration. Liturgical silence is something much more grand: it is a symbol of the presence and action of the Holy Spirit who animates the entire action of the celebration. For this reason it constitutes a point of arrival within a liturgical sequence. Precisely because it is a symbol of the Spirit, it has the power to express the Spirit’s multifaceted action. In this way, going over again the moments I just mentioned, silence moves to sorrow for sin and the desire for conversion. It awakens a readiness to hear the Word and awakens prayer. It disposes us to adore the Body and Blood of Christ. It suggests to each one, in the intimacy of communion, what the Spirit would effect in our lives to conform us to the Bread broken. For all these reasons we are called to enact with extreme care the symbolic gesture of silence. Through it the Spirit gives us shape, gives us form.
53. Every gesture and every word contains a precise action that is always new because it meets with an always new moment in our own lives. I will explain what I mean with a simple example. We kneel to ask pardon, to bend our pride, to hand over to God our tears, to beg his intervention, to thank Him for a gift received. It is always the same gesture which in essence declares our own being small in the presence of God. Nevertheless, done in different moments of our lives, it moulds our inner depths and then thereafter shows itself externally in our relation with God and with our brothers and sisters. Also kneeling should be done with art, that is to say, with a full awareness of its symbolic sense and the need that we have of this gesture to express our way of being in the presence of the Lord. And if all this is true for this simple gesture, how much more will it be for the celebration of the Word? Ah, what art are we summoned to learn for the proclamation of the Word, for the hearing of it, for letting it inspire our prayer, for making it become our very life? All of this is worthy of utmost attention — not formal or merely exterior, but living and interior — so that every gesture and every word of the celebration, expressed with “art,” forms the Christian personality of each individual and of the community.
54. If it is true that the ars celebrandi is required of the entire assembly that celebrates, it is likewise true that ordained ministers must have a very particular concern for it. In visiting Christian communities, I have noticed that their way of living the liturgical celebration is conditioned — for better or, unfortunately, for worse — by the way in which their pastor presides in the assembly. We could say that there are different “models” of presiding. Here is a possible list of approaches, which even though opposed to each other, characterize a way of presiding that is certainly inadequate: rigid austerity or an exasperating creativity, a spiritualizing mysticism or a practical functionalism, a rushed briskness or an overemphasized slowness, a sloppy carelessness or an excessive finickiness, a superabundant friendliness or priestly impassibility. Granted the wide range of these examples, I think that the inadequacy of these models of presiding have a common root: a heightened personalism of the celebrating style which at times expresses a poorly concealed mania to be the centre of attention. Often this becomes more evident when our celebrations are transmitted over the air or online, something not always opportune and that needs further reflection. Be sure you understand me: these are not the most widespread behaviours, but still, not infrequently assemblies suffer from being thus abused.
55. There would be much more to say about the importance of presiding and what care it requires. On different occasions I dwelt on the demanding duty of preaching the homily.[17] Here I limit myself to several other broad considerations, always wanting to reflect with you on how we are formed by the Liturgy. I think about the regular rhythm of Sunday Mass in our communities, and I address myself therefore to priests, but implicitly to all ordained ministers.
56. The priest lives his characteristic participation in the celebration in virtue of the gift received in the sacrament of Holy Orders, and this is expressed precisely in presiding. Like all the roles he is called to carry out, this is not primarily a duty assigned to him by the community but is rather a consequence of the outpouring of the Holy Spirit received in ordination which equips him for such a task. The priest also is formed by his presiding in the celebrating assembly.
57. For this service to be well done — indeed, with art! — it is of fundamental importance that the priest have a keen awareness of being, through God’s mercy, a particular presence of the risen Lord. The ordained minister is himself one of the types of presence of the Lord which render the Christian assembly unique, different from any other assembly. (cf. Sacrosanctum Concilium, n. 7) This fact gives “sacramental” weight (in the broad sense) to all the gestures and words of the one presiding. The assembly has the right to be able to feel in those gestures and words the desire that the Lord has, today as at the Last Supper, to eat the Passover with us. So, the risen Lord is in the leading role, and not our own immaturities, assuming roles and behaviours which are simply not appropriate. The priest himself should be overpowered by this desire for communion that the Lord has toward each person. It is as if he were placed in the middle between Jesus’ burning heart of love and the heart of each of the faithful, which is the object of the Lord’s love. To preside at Eucharist is to be plunged into the furnace of God’s love. When we are given to understand this reality, or even just to intuit something of it, we certainly would no longer need a Directory that would impose the proper behaviour. If we have need of that, then it is because of the hardness of our hearts. The highest norm, and therefore the most demanding, is the reality itself of the Eucharistic celebration, which selects words, gestures, feelings that will make us understand whether or not our use of these are at the level of the reality they serve. It is obvious that this cannot be improvised. It is an art. It requires application on the part of the priest, an assiduous tending to the fire of the love of the Lord that he came to ignite on the earth. (Luke 12: 49)
58. When the first community broke bread in obedience to the Lord’s command, it did so under the gaze of Mary who accompanied the first steps of the Church: “these all continued with one accord in prayer with the women and Mary the mother of Jesus.” (Acts 1: 14) The Virgin Mother “watches over” the gestures of her Son confided to the Apostles. As she protected the Word made flesh in her womb after receiving the words of the angel Gabriel, she protects once again in the womb of the Church those gestures that form the body of her Son. The priest, who repeats those gestures in virtue of the gift received in the sacrament of Holy Orders, is himself protected in the womb of the Virgin. Do we really need a rule here to tell us how we ought to act?
59. Having become instruments for igniting the fire of the Lord’s love on the earth, protected in the womb of Mary, Virgin made Church (as St Francis sang of her) priests should allow the Holy Spirit to work on them, to bring to completion the work he began in them at their ordination. The action of the Spirit offers to them the possibility of exercising their ministry of presiding in the Eucharistic assembly with the fear of Peter, aware of being a sinner (Luke 5:1-11), with the powerful humility of the suffering servant (cf. Is 42ff), with the desire “to be eaten” by the people entrusted to them in the daily exercise of the ministry.
60. It is the celebration itself that educates the priest to this level and quality of presiding. It is not, I repeat, a mental adhesion, even if our whole mind as well as all our sensitivity must be engaged in it. So, the priest is formed by presiding over the words and by the gestures that the Liturgy places on his lips and in his hands. He is not seated on a throne[18] because the Lord reigns with the humility of one who serves. He does not rob attention from the centrality of the altar, a sign of Christ, from whose pierced side flowed blood and water, by which were established the Sacraments of the Church and the centre of our praise and thanksgiving.[19]
Approaching the altar for the offering, the priest is educated in humility and contrition by the words, “With humble spirit and contrite heart may we be accepted by you, O Lord, and may our sacrifice in your sight this day be pleasing to you, Lord God.”[20] He cannot rely on himself for the ministry confided to him because the Liturgy invites him to pray to be purified through the sign of water, when he says, “Wash me, O Lord, from my iniquity and cleanse me from my sin.”[21]
The words which the Liturgy places on his lips have different contents which require specific tonalities. A true ars dicendi is required of the priest by the importance of such words. These give shape and form to his interior feelings, in one moment in supplication of the Father in the name of the assembly, in another in an exhortation addressed to the assembly, in another by acclamation in one voice with the entire assembly.
In the Eucharistic prayer — in which also all of the baptized participate by listening with reverence and in silence and intervening with the acclamations[22] (IGMR 78-79) — the one presiding has the strength, in the name of the whole holy people, to remember before the Father the offering of his Son in the Last Supper, so that that immense gift might be rendered newly present on the altar. In that offering he participates with the offering of himself. The priest cannot recount the Last Supper to the Father without himself becoming a participant in it. He cannot say, “Take this, all of you and eat of it, for this is my Body which will be given up for you,” and not live the same desire to offer his own body, his own life, for the people entrusted to him. This is what happens in the exercise of his ministry.
From all this and from many other things the priest is continually formed by the action of the celebration.
* * *
61. In this letter I have wanted simply to share some reflections which most certainly do not exhaust the immense treasure of the celebration of the holy mysteries. I ask all the bishops, priests, and deacons, the formators in seminaries, the instructors in theological faculties and schools of theology, and all catechists to help the holy people of God to draw from what is the first wellspring of Christian spirituality. We are called continually to rediscover the richness of the general principles exposed in the first numbers of Sacrosanctum Concilium, grasping the intimate bond between this first of the Council’s constitutions and all the others. For this reason we cannot go back to that ritual form which the Council fathers, cum Petro et sub Petro, felt the need to reform, approving, under the guidance of the Holy Spirit and following their conscience as pastors, the principles from which was born the reform. The holy pontiffs St. Paul VI and St. John Paul II, approving the reformed liturgical books ex decreto Sacrosancti Œcumenici Concilii Vaticani II, have guaranteed the fidelity of the reform of the Council. For this reason I wrote Traditionis custodes, so that the Church may lift up, in the variety of so many languages, one and the same prayer capable of expressing her unity.[23]
As I have already written, I intend that this unity be re-established in the whole Church of the Roman Rite.
62. I would like this letter to help us to rekindle our wonder for the beauty of the truth of the Christian celebration, to remind us of the necessity of an authentic liturgical formation, and to recognize the importance of an art of celebrating that is at the service of the truth of the Paschal Mystery and of the participation of all of the baptized in it, each one according to his or her vocation.
All this richness is not far from us. It is in our churches, in our Christian feasts, in the centrality of the Lord’s Day, in the power of the sacraments we celebrate. Christian life is a continual journey of growth. We are called to let ourselves be formed in joy and in communion.
63. For this I desire to leave you with yet a further indication to follow along our way. I invite you to rediscover the meaning of the liturgical year and of the Lord’s Day. Both of these were also left us by the Council. (Cf. Sacrosanctum Concilium, nn. 102-111)
64. In the light of all that we have said above, we see that the liturgical year is for us the possibility of growing in our knowledge of the mystery of Christ, immersing our life in the mystery of His Death and Resurrection, awaiting his return in glory. This is a true ongoing formation. Our life is not a random chaotic series of events, one following the other. It is rather a precise itinerary which, from one annual celebration of the His Death and Resurrection to the next, conforms us to Him, as we await the blessed hope and the coming of our Saviour, Jesus Christ.[24]
65. As the time made new by the mystery of His Death and Resurrection flows on, every eighth day the Church celebrates in the Lord’s day the event of our salvation. Sunday, before being a precept, is a gift that God makes for his people; and for this reason the Church safeguards it with a precept. The Sunday celebration offers to the Christian community the possibility of being formed by the Eucharist. From Sunday to Sunday the word of the Risen Lord illuminates our existence, wanting to achieve in us the end for which it was sent. (Cf. Is 55:10-11) From Sunday to Sunday communion in the Body and Blood of Christ wants to make also of our lives a sacrifice pleasing to the Father, in the fraternal communion of sharing, of hospitality, of service. From Sunday to Sunday the energy of the Bread broken sustains us in announcing the Gospel in which the authenticity of our celebration shows itself.
Let us abandon our polemics to listen together to what the Spirit is saying to the Church. Let us safeguard our communion. Let us continue to be astonished at the beauty of the Liturgy. The Paschal Mystery has been given to us. Let us allow ourselves to be embraced by the desire that the Lord continues to have to eat His Passover with us. All this under the gaze of Mary, Mother of the Church.
Given in Rome, at Saint John Lateran, on 29 June, the Solemnity of Saints Peter and Paul, Apostles, in the year 2022, the tenth of my Pontificate.
FRANCIS
Let everyone be struck with fear, let the whole world tremble, and let the heavens exult
when Christ, the Son of the living God, is present on the altar
in the hands of a priest!
O wonderful loftiness and stupendous dignity!
O sublime humility! O humble sublimity!
The Lord of the universe, God and the Son of God,
so humbles Himself that for our salvation
He hides Himself under an ordinary piece of bread!
Brothers, look at the humility of God,
and pour out your hearts before Him!
Humble yourselves that you may be exalted by Him!
Hold back nothing of yourselves for yourselves,
that He Who gives Himself totally to you may receive you totally!
Saint Francis of Assisi
A Letter to the Entire Order II,26-29
_________________________
[1] Cf. Leo Magnus, Sermo LXXIV: De ascensione Domini II, 1: «quod […] Redemptoris nostri conspicuum fuit, in sacramenta transivit».
[2] Præfatio paschalis III, Missale Romanum (2008) p. 367: «Qui immolátus iam non móritur, sed semper vivit occísus».
[3] Cf. Missale Romanum (2008) p. 532.
[4] Cf. Augustinus, Enarrationes in psalmos. Ps. 138,2; Oratio post septimam lectionem, Vigilia paschalis, Missale Romanum (2008) p. 359; Super oblata, Pro Ecclesia (B), Missale Romanum (2008) p. 1076.
[5] Cf. Augustinus, In Ioannis Evangelium tractatus XXVI, 13.
[6] Cf. Litteræ encyclicæ Mediator Dei (20 Novembris 1947) in AAS 39 (1947) 532.
[7] AAS 56 (1964) 34.
[8] R. Guardini Liturgische Bildung (1923) in Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) p. 43.
[9] R. Guardini Der Kultakt und die gegenwärtige Aufgabe der Liturgischen Bildung (1964) in Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) p. 14.
[10] De Ordinatione Episcopi, Presbyterorum et Diaconorum (1990) p. 95: «Agnosce quod ages, imitare quod tractabis, et vitam tuam mysterio dominicæ crucis conforma».
[11] Leo Magnus, Sermo LXIII: De Passione Domini III, 7.
[12] Irenæus Lugdunensis, Adversus hæreses IV,20,7.
[13] R. Guardini Liturgische Bildung (1923) in Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) p. 36.
[14] Cantico delle Creature, Fonti Francescane, p. 263; Eng. trans. Francis of Assisi, Early Documents, vol. I, 113.
[15] R. Guardini Liturgische Bildung (1923) in Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) p. 99.
[16] Cf. Institutio Generalis Missalis Romani nn. 45; 51; 54-56; 66; 71; 84; 88; 271.
[17] See Apostolic Exhortation Evangelii gaudium, (24 November 2013) nn. 135-144.
[18] Cf. Institutio Generalis Missalis Romani n. 310.
[19] Prex dedicationis in Ordo dedicationis ecclesiæ et altaris (1977) p. 102.
[20] Missale Romanum (2008) p. 515: «In spiritu humilitatis et in animo contrito suscipiamur a te, Domine; et sic fiat sacrificium nostrum in conspectu tuo hodie, ut placeat tibi, Domine Deus».
[21] Missale Romanum (2008) p. 515: «Lava me, Domine, ab iniquitate mea, et a peccato meo munda me».
[22] Cf. Institutio Generalis Missalis Romani, nn. 78-79.
[23] Cf. Paulus VI, Constitutio apostolica Missale Romanum (3 Aprilis 1969) in AAS 61 (1969) 222.
[24] Missale Romanum (2008) p. 598: «…exspectantes beatam spem et adventum Salvatoris nostri Iesu Christi».
[01027-EN.01] [Original text: Italian]
Traduzione in lingua tedesca
APOSTOLISCHES SCHREIBEN
DESIDERIO DESIDERAVI
DES HEILIGEN VATERS
FRANZISKUS
AN DIE BISCHÖFE, DIE PRIESTER, DIE DIAKONE,
AN DIE gottgeweihten Personen
und an die gläubigen Laien
Über die liturgische Bildung
des Volkes Gottes
Desiderio desideravi
hoc Pascha manducare vobiscum,
antequam patiar (Lc 22,15).
1. Meine lieben Schwestern und Brüder,
mit diesem Brief möchte ich mich an alle wenden - nachdem ich mich nach der Veröffentlichung des Motu Proprio Traditionis custodes bereits eigens an die Bischöfe gewandt habe -, um mit Euch einige Überlegungen zur Liturgie, einer grundlegenden Dimension für das Leben der Kirche, zu teilen. Das Thema ist sehr umfangreich und verdient in all seinen Aspekten eine sorgfältige Betrachtung: Mit diesen Zeilen beabsichtige ich jedoch nicht das Thema erschöpfend zu behandeln. Ich will hier schlichtweg einige Denkanstöße geben, um die Schönheit und Wahrheit der christlichen Feier zu betrachten.
Die Liturgie: das Heute der Heilsgeschichte
2. „Mit großer Sehnsucht habe ich danach verlangt, vor meinem Leiden dieses Paschamahl mit euch zu essen.“ (Lk 22,15) Die Worte Jesu, mit denen der Bericht über das letzte Abendmahl beginnt, sind der Spalt, durch den wir die erstaunliche Möglichkeit erhalten, die Tiefe der Liebe der Personen der Heiligsten Dreifaltigkeit zu uns zu ermessen.
3. Petrus und Johannes waren gesandt worden, um sich auf das Paschamahl vorzubereiten, aber bei genauerem Hinsehen ist die gesamte Schöpfung, die gesamte Geschichte – die sich schließlich als Heilsgeschichte offenbaren sollte – eine große Vorbereitung auf dieses Mahl. Petrus und die anderen stehen an diesem Tisch, unwissend und doch unverzichtbar: Jede Gabe, die eine solche sein soll, muss jemanden haben, der bereit ist, sie zu empfangen. In diesem Fall ist das Unverhältnis zwischen der Größe des Geschenks und der Kleinheit des Empfängers unendlich und kann uns nur überraschen. Doch durch die Barmherzigkeit des Herrn wird die Gabe den Aposteln anvertraut, damit sie jedem Menschen zuteil werden kann.
4. Bei diesem Abendmahl hat sich niemand einen Platz verdient, alle waren eingeladen, oder besser gesagt, sie wurden von Jesu brennendem Wunsch angezogen, dieses Pascha mit ihnen zu essen: Er weiß, dass er das Paschalamm ist, er weiß, dass er das Pascha ist. Dies ist die absolute Neuheit dieses Abendmahls, die einzige wirkliche Neuheit in der Geschichte, die dieses Abendmahl einzigartig und aus diesem Grund „endgültig“, unwiederholbar macht. Sein unendliches Verlangen, diese Gemeinschaft mit uns wiederherzustellen, die sein ursprüngliches Vorhaben war und bleibt, wird jedoch erst dann gestillt sein, wenn alle Menschen aus allen Stämmen, Sprachen, Völkern und Nationen (Offb 5,9) von seinem Leib gegessen und sein Blut getrunken haben: Deshalb wird dasselbe Abendmahl bis zu seiner Wiederkunft in der Feier der Eucharistie gegenwärtig gemacht.
5. Die Welt weiß es noch nicht, aber alle sind zum Hochzeitsmahl des Lammes eingeladen (Offb 19,9). Alles, was es dazu braucht, ist das Hochzeitskleid des Glaubens, der aus dem Hören seines Wortes kommt (vgl. Röm 10,17): Die Kirche schneidert es aus einem weißen, im Blut des Lammes gewaschenen Tuches (vgl. Offb 7,14). Wir sollten nicht einmal einen Augenblick Ruhe haben, wenn wir wissen, dass noch nicht alle die Einladung zum Abendmahl erhalten haben oder dass andere sie auf den verschlungenen Wegen des menschlichen Lebens vergessen oder verloren haben. Deshalb habe ich gesagt: „Ich träume von einer missionarischen Entscheidung, die fähig ist, alles zu verwandeln, damit die Gewohnheiten, die Stile, die Zeitpläne, der Sprachgebrauch und jede kirchliche Struktur ein Kanal werden, der mehr der Evangelisierung der heutigen Welt als der Selbstbewahrung dient.“ (Evangelii gaudium, Nr. 27): damit alle am Opfermahl des Lammes Platz nehmen und von Ihm leben können.
6. Vor unserer Antwort auf seine Einladung – viel früher – gibt es sein Verlangen nach uns: Wir sind uns dessen vielleicht nicht einmal bewusst, aber jedes Mal, wenn wir zur Messe gehen, ist der Hauptgrund, dass wir von seinem Verlangen nach uns angezogen werden. Die mögliche Antwort, die anspruchsvollste Askese, besteht für uns wie immer darin, uns seiner Liebe hinzugeben, uns von Ihm anziehen zu lassen. Sicher ist, dass unsere Gemeinschaft mit dem Leib und Blut Christi von ihm beim letzten Abendmahl gewollt war.
7. Der Inhalt des gebrochenen Brotes ist das Kreuz Jesu, sein Opfer im liebenden Gehorsam gegenüber dem Vater. Ohne das letzte Abendmahl, d.h. die rituelle Vorwegnahme seines Todes, hätten wir nicht verstehen können, wie die Vollstreckung seines Todesurteils der vollkommene und wohlgefällige Akt des Kultes gegenüber dem Vater, der einzig wahre Akt des Kultes sein kann. Wenige Stunden später hätten die Apostel am Kreuz Jesu erkennen können, was „geopferter Leib“ und „vergossenes Blut“ bedeuten, wenn sie die Last des Kreuzes getragen hätten: und daran erinnern wir uns in jeder Eucharistie. Wenn er auferstanden von den Toten zurückkehrt, um für die Emmausjünger und für seine Jünger, die zum Fischfang und nicht zum Fischen von Menschen an den See Genezareth zurückgekehrt waren, das Brot zu brechen, dann öffnet diese Geste ihre Augen, heilt sie von der Blindheit, die ihnen der Schrecken des Kreuzes zugefügt hat, und macht sie fähig, den Auferstandenen zu „sehen“, an die Auferstehung zu glauben.
8. Wenn wir nach Pfingsten nach Jerusalem gekommen wären und den Wunsch verspürt hätten, nicht nur Informationen über Jesus von Nazareth zu erhalten, sondern Ihm zu begegnen, hätten wir keine andere Möglichkeit gehabt, als die Seinen aufzusuchen, um seine Worte zu hören und seine Taten zu sehen, lebendiger denn je. Wir hätten keine andere Möglichkeit der wahren Begegnung mit Ihm gehabt als die der feiernden Gemeinschaft. Deshalb hat die Kirche den Auftrag des Herrn: „Tut dies zu meinem Gedächtnis“ immer als ihren kostbarsten Schatz gehütet.
9. Die Kirche war sich von Anfang an darüber im Klaren, dass es sich nicht um eine Darstellung des Abendmahls handelte, auch nicht um eine heilige: Es hätte keinen Sinn gemacht, und niemand wäre auf die Idee gekommen, diesen erhabenen Moment im Leben des Meisters zu „inszenieren“, schon gar nicht unter den Augen von Maria, der Mutter des Herrn. Von Anfang an hat die Kirche, erleuchtet vom Heiligen Geist, verstanden, dass das, was von Jesus sichtbar war, was man mit den Augen sehen und mit den Händen anfassen konnte, seine Worte und Taten, die Konkretheit des fleischgewordenen Wortes, alles von Ihm in die Feier der Sakramente übergegangen ist.[1]
Die Liturgie: Ort der Begegnung mit Christus
10. Darin liegt die ganze kraftvolle Schönheit der Liturgie. Wenn die Auferstehung für uns ein Konzept, eine Idee, ein Gedanke wäre; wenn der Auferstandene für uns die Erinnerung an die Erinnerung anderer wäre, und seien sie noch so maßgebend wie die Apostel, wenn wir nicht auch die Möglichkeit einer echten Begegnung mit Ihm hätten, wäre das so, als würde man die Neuheit des fleischgewordenen Wortes für erschöpft erklären. Stattdessen ist die Inkarnation nicht nur das einzige neue Ereignis, das die Geschichte kennt, sondern auch die Methode, welche die heiligste Dreifaltigkeit gewählt hat, um uns den Weg der Gemeinschaft zu öffnen. Der christliche Glaube ist entweder eine Begegnung mit Ihm, dem Lebendigen, oder er ist nicht.
11. Die Liturgie gewährleistet uns die Möglichkeit einer solchen Begegnung. Wir brauchen keine vage Erinnerung an das letzte Abendmahl: Wir müssen bei diesem Abendmahl anwesend sein, seine Stimme hören, seinen Leib essen und sein Blut trinken können: Wir brauchen Ihn. In der Eucharistie und in allen Sakramenten wird uns die Möglichkeit garantiert, dem Herrn Jesus zu begegnen und von der Kraft seines Paschas erreicht zu werden. Die rettende Kraft des Opfers Jesu, jedes seiner Worte, jede Geste, jeder Blick, jedes Gefühl erreicht uns in der Feier der Sakramente. Ich bin Nikodemus und die samaritanische Frau, der Besessene von Kafarnaum und der Gelähmte im Haus des Petrus, die Sünderin, der vergeben wurde, und die blutflüssige Frau, die Tochter des Jairus und der Blinde von Jericho, Zachäus und Lazarus, der Schächer und Petrus, denen vergeben wurde. Der Herr Jesus, der am Kreuz geopfert wurde, stirbt nicht mehr, sondern lebt mit den Zeichen seiner Passion unsterblich weiter,[2] um uns zu vergeben, uns zu heilen und uns mit der Kraft der Sakramente zu retten. Es ist die konkrete Art und Weise, in der er uns durch die Inkarnation liebt; es ist die Art und Weise, in der er den Durst nach uns stillt, den er am Kreuz bekundet hat (Joh 19,28).
12. Unsere erste Begegnung mit seinem Pascha ist das Ereignis, das das Leben von uns allen, die wir an Christus glauben, kennzeichnet: unsere Taufe. Es ist nicht ein geistiges Festhalten an seinen Gedanken oder das Unterschreiben eines von Ihm auferlegten Verhaltenskodex: es ist das Eintauchen in sein Leiden, seinen Tod, seine Auferstehung und seine Himmelfahrt. Es handelt sich nicht um eine magische Geste: Magie ist das Gegenteil der Logik der Sakramente, weil sie behauptet, Macht über Gott zu haben, und aus diesem Grund vom Versucher kommt. In vollkommener Kontinuität mit der Inkarnation wird uns durch die Gegenwart und das Wirken des Heiligen Geistes die Möglichkeit gegeben, in Christus zu sterben und aufzuerstehen.
13. Die Art und Weise, wie das geschieht, ist beeindruckend. Das Gebet zur Segnung des Taufwassers[3] zeigt uns, dass Gott das Wasser gerade im Hinblick auf die Taufe geschaffen hat. Das bedeutet, dass Gott bei der Erschaffung des Wassers an die Taufe eines jeden von uns gedacht hat, und dieser Gedanke hat ihn bei seinem Handeln im Laufe der Heilsgeschichte immer dann begleitet, wenn er mit Absicht das Wasser nutzen wollte. Es ist, als ob er es erschaffen hätte, um es zu vervollkommnen, damit es zum Wasser der Taufe wird. Und so wollte er es mit der Bewegung seines Geistes erfüllen, der über ihm schwebte (vgl. Gen 1,2), damit es im Keim die Kraft zur Heiligung enthalte; er benutzte es, um die Menschheit in der Sintflut zu erneuern (vgl. Gen 6,1-9,29); er beherrschte es, indem er es teilte, um einen Weg der Befreiung im Roten Meer zu öffnen (vgl. Ex 14); er weihte es im Jordan, indem er das Fleisch des vom Geist durchdrungenen Wortes untertauchte (vgl. Mt 3,13-17; Mk 1,9-11; Lk 3,21-22). Schließlich vermischte er es mit dem Blut seines Sohnes, der Gabe des Geistes, die untrennbar mit der Gabe des Lebens und des Todes des für uns geopferten Lammes verbunden ist, und goss es aus der durchbohrten Seite über uns aus (Joh 19,34). In dieses Wasser sind wir eingetaucht, damit wir durch seine Kraft in den Leib Christi eingepfropft werden und mit Ihm zum unsterblichen Leben auferstehen (vgl. Röm 6,1-11).
Die Kirche: Sakrament des Leibes Christi
14. Wie das Zweite Vatikanische Konzil (vgl. Sacrosanctum Concilium, Nr. 5) unter Berufung auf die Heilige Schrift, die Väter und die Liturgie – die Säulen der wahren Tradition – daran erinnert hat, ist aus der Seite des am Kreuz entschlafenen Christus das wunderbare Sakrament der ganzen Kirche hervorgegangen[4]. Die Parallele zwischen dem ersten und dem neuen Adam ist überraschend: So wie Gott aus dem ersten Adam, nachdem er ihn in einen tiefen Schlaf versetzt hatte, Eva schuf, so wird aus dem neuen Adam, der im Schlaf des Todes liegt, die neue Eva, die Kirche, geboren. Wir staunen über die Worte, die sich der neue Adam zu eigen macht, wenn er die Kirche betrachtet: „Das endlich ist Bein von meinem Bein und Fleisch von meinem Fleisch.“ (Gen 2,23). Weil wir dem Wort geglaubt haben und in das Wasser der Taufe hinabgestiegen sind, sind wir Bein von seinem Bein und Fleisch von seinem Fleisch geworden.
15. Ohne diese Eingliederung gibt es keine Möglichkeit, den Kult gegenüber Gott in Fülle zu leben. In der Tat gibt es nur einen Akt des vollkommenen und angemessenen Kultes gegenüber dem Vater, den Gehorsam des Sohnes, dessen Maß sein Tod am Kreuz ist. Die einzige Möglichkeit, an seinem Opfer teilzuhaben, besteht darin, Söhne im Sohn zu werden. Dies ist das Geschenk, das wir erhalten haben. Das Subjekt, das in der Liturgie handelt, ist immer und einzig Christus-Kirche, der mystische Leib Christi.
Der theologische Sinn der Liturgie
16. Dem Konzil – und der ihm vorangegangenen liturgischen Bewegung – verdanken wir die Wiederentdeckung des theologischen Verständnisses der Liturgie und ihrer Bedeutung für das Leben der Kirche: Die allgemeinen Grundsätze, die Sacrosanctum Concilium formuliert hat, waren für die Reform von grundlegender Bedeutung und sind es auch weiterhin für die Förderung jener vollen, bewussten, tätigen und fruchtbaren Teilnahme an der Feier (vgl. Sacrosanctum Concilium, Nrn. 11.14), „die erste und unentbehrliche Quelle [ist], aus der die Christen wahrhaft christlichen Geist schöpfen sollen“ (Sacrosanctum Concilium, Nr. 14). Mit diesem Brief möchte ich schlicht und einfach die ganze Kirche einladen, die Wahrheit und die Kraft der christlichen Feier wiederzuentdecken, zu bewahren und zu leben. Ich wünsche, dass die Schönheit des christlichen Feierns und ihre notwendigen Konsequenzen für das Leben der Kirche nicht durch ein oberflächliches und verkürztes Verständnis ihres Wertes oder, was noch schlimmer ist, durch ihre Instrumentalisierung im Dienste einer ideologischen Vision, wie immer sie aussieht, entstellt wird. Das priesterliche Gebet Jesu beim letzten Abendmahl, dass alle eins sein mögen (Joh 17,21), richtet alle unsere Spaltungen durch das gebrochene Brot, Sakrament der Frömmigkeit, Zeichen der Einheit, Band der Liebe[5].
Die Liturgie: das Gegenmittel gegen das Gift der spirituellen Weltlichkeit
17. Ich habe wiederholt vor einer gefährlichen Versuchung für das Leben der Kirche gewarnt, nämlich der „spirituellen Weltlichkeit“: Ich habe mich ausführlich im Apostolischen Schreiben Evangelii gaudium (Nrrn. 93-97) darüber geäußert und den Gnostizismus und den Neo-Pelagianismus als die beiden miteinander verbundenen Formen bezeichnet, die sie nähren.
Der Erste reduziert den christlichen Glauben auf einen Subjektivismus, der den Einzelnen „in der Immanenz seiner eigenen Vernunft oder seiner Gefühle“ (Evangelii gaudium, Nr. 94) einschließt.
Der Zweite hebt den Wert der Gnade auf, um sich nur auf die eigene Kraft zu verlassen, was zu „narzisstischem und autoritärem Elitebewusstsein [führt], wo man, anstatt die anderen zu evangelisieren, sie analysiert und bewertet und, anstatt den Zugang zur Gnade zu erleichtern, die Energien im Kontrollieren verbraucht.“ (Evangelii gaudium, Nr. 94).
Diese verzerrten Formen des Christentums können verheerende Folgen für das Leben der Kirche haben.
18. Aus dem, was ich zuvor gesagt habe, wird deutlich, dass die Liturgie von Natur aus das wirksamste Gegenmittel gegen diese Gifte ist. Natürlich spreche ich von der Liturgie in ihrem theologischen Sinn und sicherlich nicht - wie Pius XII. bereits sagte - als würdige Aufmachung von Zeremonien oder als bloße Sammlung von Gesetzen und Vorschriften zur Regelung des Gottesdienstes.[6]
19. Wenn der Gnostizismus uns mit dem Gift des Subjektivismus berauscht, befreit uns die liturgische Feier aus dem Gefängnis einer Selbstreferentialität, die von der eigenen Vernunft oder dem eigenen Gefühl genährt wird: Die feierliche Handlung gehört nicht dem Einzelnen, sondern Christus-Kirche, der Gesamtheit der mit Christus vereinten Gläubigen. In der Liturgie heißt es nicht „ich“, sondern „wir“, und jede Einschränkung des Umfangs dieses „wir“ ist immer dämonisch. Die Liturgie lässt uns bei der Suche nach einer vermeintlichen individuellen Erkenntnis des Geheimnisses Gottes nicht allein, sondern nimmt uns gemeinsam als Gemeinde an die Hand, um uns in das Geheimnis zu führen, das uns das Wort und die sakramentalen Zeichen offenbaren. Und sie tut dies in Übereinstimmung mit dem Handeln Gottes, auf dem Weg der Inkarnation, durch die symbolische Sprache des Körpers, die sich in die Dinge, den Raum und die Zeit hinein erstreckt.
20. Wenn uns der Neo-Pelagianismus mit der Anmaßung eines durch eigene Anstrengung verdienten Heils berauscht, so reinigt uns die liturgische Feier, indem sie die Unverdientheit der im Glauben angenommenen Heilsgabe verkündet. Die Teilnahme am eucharistischen Opfer ist nicht unsere Leistung, mit der wir uns vor Gott und unseren Brüdern und Schwestern brüsten könnten. Der Beginn jeder Feier erinnert mich daran, wer ich bin, und fordert mich auf, meine Sünde zu bekennen und die allerseligste Jungfrau Maria, die Engel, die Heiligen und alle meine Brüder und Schwestern zu bitten, für mich beim Herrn zu beten: wir sind gewiss nicht würdig, sein Haus zu betreten, wir brauchen sein Wort, um gerettet zu werden (vgl. Mt 8,8). Wir haben keinen anderen Ruhm als den des Kreuzes unseres Herrn Jesus Christus (vgl. Gal 6,14). Die Liturgie hat nichts mit asketischem Moralismus zu tun: Sie ist das Geschenk des Paschas des Herrn, das, wenn wir es mit Fügsamkeit annehmen, unser Leben neu macht. Man betritt den Abendmahlssaal nur, wenn man seinen Wunsch verspürt, das Pascha mit uns zu essen: Desiderio desideravi hoc Pascha manducare vobiscum, antequam patiar (Lc 22,15).
Jeden Tag die Schönheit der Wahrheit des christlichen Feierns wiederentdecken
21. Wir müssen jedoch aufpassen: Damit das Gegenmittel der Liturgie wirksam sein kann, sind wir aufgefordert, jeden Tag die Schönheit der Wahrheit des christlichen Feierns neu zu entdecken. Ich verweise noch einmal auf ihre theologische Bedeutung, wie sie in Nr. 7 von Sacrosanctum Concilium wunderbar beschrieben ist: Die Liturgie ist das Priestertum Christi, das uns in seinem Pascha geoffenbart und geschenkt wurde, das heute durch sensible Zeichen (Wasser, Öl, Brot, Wein, Gesten, Worte) gegenwärtig und lebendig gemacht wird, damit der Geist, der uns in das Pascha-Mysterium eintaucht, unser ganzes Leben umwandelt und uns immer mehr Christus gleichgestaltet.
22. Die ständige Wiederentdeckung der Schönheit der Liturgie ist nicht das Streben nach einem rituellen Ästhetizismus, der sich nur an der Pflege der äußeren Formalität eines Ritus erfreut oder sich mit einer skrupulösen Einhaltung der Rubriken zufrieden gibt. Mit dieser Aussage soll natürlich keineswegs die gegenteilige Haltung gebilligt werden, die Einfachheit mit nachlässiger Banalität, die Wesentlichkeit mit ignoranter Oberflächlichkeit, die Konkretheit der rituellen Handlung mit übertriebenem praktischen Funktionalismus verwechselt.
23. Um es deutlich zu sagen: Jeder Aspekt des Feierns muss gepflegt werden (Raum, Zeit, Gesten, Worte, Gegenstände, Kleidung, Gesang, Musik, ...) und jede Rubrik muss beachtet werden: Diese Aufmerksamkeit würde ausreichen, um zu vermeiden, dass die Gemeinde dessen beraubt wird, was ihr zusteht, nämlich das Pascha-Mysterium, das in der von der Kirche festgelegten rituellen Form gefeiert wird. Aber selbst wenn die Qualität und die Norm der feiernden Handlung garantiert wären, würde dies nicht ausreichen, um unsere Teilnahme vollständig zu gewährleisten.
Das Staunen über das Pascha-Mysterium: wesentlicher Bestandteil des liturgischen Aktes
24. Wenn uns das Staunen über das Pascha-Mysterium, das in der Konkretheit der sakramentalen Zeichen gegenwärtig wird, fehlen würde, könnten wir wirklich Gefahr laufen, für den Ozean der Gnade, der jede Feier überflutet, unempfänglich zu sein. Die zwar lobenswerten Bemühungen um eine Verbesserung der Qualität der Feier reichen ebenso wenig aus wie ein Aufruf zur Innerlichkeit: Selbst letztere läuft Gefahr, sich auf eine leere Subjektivität zu reduzieren, wenn sie die Offenbarung des christlichen Geheimnisses nicht aufnimmt. Die Begegnung mit Gott ist nicht die Frucht einer individuellen inneren Suche nach Ihm, sondern ein geschenktes Ereignis: Wir können Gott durch die neue Tatsache der Inkarnation begegnen, die im Letzten Abendmahl so weit geht, dass sie von uns gegessen werden möchte. Wie kann uns das Unglück passieren, der Faszination der Schönheit dieses Geschenks zu entgehen?
25. Wenn ich vom Staunen über das Pascha-Mysterium spreche, so meine ich keineswegs das, was mir manchmal durch den nebulösen Ausdruck „Sinn für das Geheimnis“ ausgedrückt zu werden scheint: Zu den angeblichen Vorwürfen gegen die Liturgiereform gehört auch der Vorwurf, sie habe ihn – so heißt es – aus der Feier entfernt. Das Staunen, von dem ich spreche, ist nicht eine Art Verwunderung angesichts einer obskuren Realität oder eines rätselhaften Ritus, sondern im Gegenteil das Staunen darüber, dass sich uns der Heilsplan Gottes im Pascha Jesu offenbart hat (vgl. Eph 1,3-14), dessen Wirksamkeit uns in der Feier der „Geheimnisse“, d.h. der Sakramente, weiterhin erreicht. Es bleibt jedoch wahr, dass die Fülle der Offenbarung im Vergleich zu unserer menschlichen Endlichkeit einen Überschuss hat, der uns übersteigt und am Ende der Zeit, wenn der Herr wiederkommt, seine Erfüllung finden wird. Wenn das Staunen wahr ist, besteht keine Gefahr, dass wir die Andersartigkeit der Gegenwart Gottes nicht wahrnehmen, selbst in der Nähe, die die Inkarnation beabsichtigt. Wenn die Reform diesen „Sinn für das Geheimnis“ beseitigt hätte, wäre dies eher ein Verdienst als eine Anklage. Die Schönheit ruft wie die Wahrheit immer Staunen hervor, und wenn sie sich auf das Geheimnis Gottes bezieht, führt sie zur Anbetung.
26. Das Staunen ist ein wesentlicher Bestandteil des liturgischen Aktes, denn es ist die Haltung derjenigen, die wissen, dass sie mit der Eigentümlichkeit der symbolischen Gesten konfrontiert sind; es ist die Verwunderung derjenigen, die die Macht des Symbols erfahren, die nicht darin besteht, auf einen abstrakten Begriff zu verweisen, sondern in seiner Konkretheit zu enthalten und auszudrücken, was es bedeutet.
Die Notwendigkeit einer ernsthaften und belebenden liturgischen Bildung
27. Die grundlegende Frage lautet daher: Wie kann man die Fähigkeit wiedererlangen, die liturgische Handlung in vollem Umfang zu leben? Die Reform des Konzils hat dies zum Ziel. Die Herausforderung ist sehr anspruchsvoll, weil der moderne Mensch – nicht in allen Kulturen in gleicher Weise – die Fähigkeit verloren hat, sich auf die symbolische Handlung einzulassen, die ein wesentliches Merkmal des liturgischen Aktes ist.
28. Die Postmoderne – in der sich der Mensch noch verlorener fühlt, ohne Bezugspunkte jeglicher Art, der Werte beraubt, weil sie gleichgültig geworden sind, verwaist von allem, in einer Zersplitterung, in der ein Sinnhorizont unmöglich erscheint – ist immer noch mit dem schweren Erbe belastet, das uns die vorherige Epoche hinterlassen hat, welches besteht aus Individualismus und Subjektivismus (die wiederum an den Pelagianismus und Gnostizismus erinnern) sowie einem abstrakten Spiritualismus, der dem Wesen des Menschen widerspricht, der ein verkörperter Geist ist und daher an sich zu symbolischem Handeln und Verstehen fähig ist.
29. Es ist die Realität der Moderne, mit der sich die auf dem Konzil versammelte Kirche auseinandersetzen wollte, indem sie ihr Bewusstsein bekräftigte, Sakrament Christi und Licht der Heiden zu sein (Lumen Gentium), indem sie sich in das religiöse Hören auf das Wort Gottes versetzte (Dei Verbum) und indem sie die Freuden und Hoffnungen der Menschen von heute als die ihren anerkannte (Gaudium et spes). Die großen konziliaren Konstitutionen sind untrennbar miteinander verbunden, und es ist kein Zufall, dass diese einzige große Reflexion des Ökumenischen Konzils – der höchster Ausdruck der Synodalität der Kirche ist, deren Hüter ich zusammen mit Euch allen zu sein berufen bin – ihren Ausgangspunkt in der Liturgie (Sacrosanctum Concilium) hatte.
30. Zum Abschluss der zweiten Sitzungsperiode des Konzils (4. Dezember 1963) äußerte sich der heilige Paul VI. wie folgt:
„Im Übrigen fehlt es dieser schwierigen und komplexen Diskussion keineswegs an reicher Frucht: Das Thema, das vor allem anderen behandelt worden ist und in gewisser Hinsicht von allen das wichtigste ist, sowohl wegen seiner Natur wie auch wegen seiner Würde, die ihm in der Kirche zukommt, die heilige Liturgie, ist zu einem glücklichen Abschluss gekommen und wird heute in feierlicher Form von Uns promulgiert. Wir empfinden darüber aufrichtige Freude. Wir können nämlich feststellen, dass auf diese Weise die rechte Ordnung der Gegenstände und Pflichten gewahrt worden ist. Wir haben dadurch bekannt, dass Gott der erste Platz zukommt, dass das Gebet unsere erste Pflicht ist, dass die heilige Liturgie die erste Quelle jener Verbindung mit Gott ist, in der das göttliche Leben uns selbst mitgeteilt wird, die erste Schule unseres geistlichen Lebens, das erste Geschenk, das wir dem christlichen Volk anbieten können, das mit uns im Glauben und im Gebet verbunden ist, dass es schließlich die erste Einladung an die Welt ist, damit ihre stumme Zunge sich zu beglückendem und wahrhaftem Gebet löse und jene unaussprechliche und die Seele stärkende Kraft spüre, die aus dem gemeinsamen Lob Gottes und der menschlichen Hoffnung durch Christus im Heiligen Geist fließt.“[7]
31. Ich kann in diesem Brief nicht auf den Reichtum der einzelnen Ausdrücke eingehen, das überlasse ich Eurer Betrachtung. Wenn die Liturgie „der Höhepunkt [ist], dem das Tun der Kirche zustrebt, und zugleich die Quelle, aus der all ihre Kraft strömt“ (Sacrosanctum Concilium, Nr. 10), dann verstehen wir gut, was in der Frage der Liturgie auf dem Spiel steht. Es wäre banal, die Spannungen, die es leider rund um die Feier gibt, als einfache Unterschiede zwischen verschiedenen Empfindungen gegenüber einer rituellen Form zu deuten. Die Problematik ist in erster Linie ekklesiologischer Natur. Ich verstehe nicht, wie man sagen kann, dass man die Gültigkeit des Konzils anerkennt – obwohl ich mich ein wenig wundere, dass ein Katholik sich anmaßen kann, dies nicht zu tun – und nicht die Liturgiereform akzeptieren kann, die aus Sacrosanctum Concilium hervorgegangen ist und die die Realität der Liturgie in enger Verbindung mit der Vision der Kirche zum Ausdruck bringt, die in Lumen Gentium auf bewundernswerte Weise beschrieben wurde. Aus diesem Grund fühlte ich mich – wie ich in dem Brief an alle Bischöfe erklärt habe – verpflichtet zu bekräftigen, dass „die von den heiligen Päpsten Paul VI. und Johannes Paul II. in Übereinstimmung mit den Dekreten des Zweiten Vatikanischen Konzils promulgierten liturgischen Bücher […] die einzige Ausdrucksform der Lex orandi des Römischen Ritus [sind]“ (Motu Proprio Traditionis custodes, Art. 1).
Die Nichtannahme der Reform und das oberflächliche Verständnis der Reform lenken uns von der Aufgabe ab, Antworten auf die Frage zu finden, die ich immer wieder stelle: Wie können wir in der Fähigkeit wachsen, die liturgische Handlung voll zu leben? Wie können wir weiterhin darüber staunen, was bei der Feier vor unseren Augen geschieht? Wir brauchen eine ernsthafte und belebende liturgische Bildung.
32. Gehen wir noch einmal zurück in den Abendmahlssaal in Jerusalem: Am Pfingstmorgen wurde die Kirche, die Urzelle der neuen Menschheit, geboren. Nur die Gemeinschaft von Männern und Frauen, die versöhnt sind, weil ihnen vergeben wurde, die leben, weil Er lebt, die wahrhaftig sind, weil sie vom Geist der Wahrheit beseelt sind, kann den engen Raum des spirituellen Individualismus aufbrechen.
33. Es ist die Gemeinschaft von Pfingsten, die das Brot in der Gewissheit brechen kann, dass der Herr lebt, dass Er auferstanden ist von den Toten, gegenwärtig mit seinem Wort, mit seinen Gesten, mit der Gabe seines Leibes und Blutes. Von diesem Moment an wird die Feier zum bevorzugten, aber nicht zum einzigen Ort der Begegnung mit Ihm. Wir wissen, dass der Mensch erst dank dieser Begegnung ganz Mensch wird. Nur die Kirche von Pfingsten kann den Menschen als Person begreifen, die offen ist für eine umfassende Beziehung zu Gott, zur Schöpfung und zu den Brüdern und Schwestern.
34. Hier stellt sich die entscheidende Frage der liturgischen Bildung. Guardini sagt: „Damit ist auch die erste praktische Aufgabe gezeichnet: Getragen von dieser inneren Umformung unserer Zeit müssen wir wieder lernen, als volle Menschen im religiösen Verhältnis zu stehen.“[8] Das ist es, was die Liturgie ermöglicht, das ist es, wozu wir uns formen müssen. Guardini selbst zögert nicht zu bekräftigen, dass ohne liturgische Bildung „Reformen in Ritus und Text nicht viel [helfen]“[9]. Ich habe nicht die Absicht, das sehr umfangreiche Thema der liturgischen Bildung erschöpfend zu behandeln, sondern möchte einige Punkte zum Nachdenken anbieten. Ich denke, wir können zwei Aspekte unterscheiden: die Bildung zur Liturgie hin und die Bildung von der Liturgie her. Die Erste steht im Dienst der Zweiten, die wesentlich ist.
35. Es ist notwendig, Wege für eine Bildung als Studium der Liturgie zu finden: ausgehend von der liturgischen Bewegung ist in dieser Hinsicht viel getan worden, mit wertvollen Beiträgen von vielen Gelehrten und akademischen Institutionen. Es ist jedoch notwendig, dieses Wissen außerhalb der akademischen Welt zu verbreiten, und zwar auf eine zugängliche Art und Weise, damit jeder Gläubige in der Kenntnis der theologischen Bedeutung der Liturgie wachsen kann – dies ist die entscheidende und grundlegende Frage allen Wissens und aller liturgischen Praxis – sowie in der Entwicklung christlichen Feierns, indem er die Fähigkeit erwirbt, euchologische Texte, rituelle Dynamiken und deren anthropologische Bedeutung zu verstehen.
36. Ich denke an unsere normalen Versammlungen, die sich zur Feier der Eucharistie am Tag des Herrn, Sonntag für Sonntag, Ostern für Ostern, zu bestimmten Zeiten im Leben der Einzelnen und der Gemeinschaften, in verschiedenen Lebensaltern versammeln: Die geweihten Amtsträger vollziehen eine pastorale Handlung von größter Bedeutung, wenn sie die getauften Gläubigen an die Hand nehmen, um sie in die wiederholte Erfahrung des Pascha-Mysteriums zu führen. Erinnern wir uns daran, dass die Kirche, der Leib Christi, das feiernde Subjekt ist und nicht nur der Priester. Das Wissen, das aus dem Studium kommt, ist nur der erste Schritt, um in das gefeierte Geheimnis einzutreten. Es liegt auf der Hand, dass die Amtsträger, die der Versammlung vorstehen, den Weg kennen müssen, um die Brüder und Schwestern zu leiten, indem sie ihn sowohl auf der Landkarte der theologischen Wissenschaft studiert als auch in der Praxis einer lebendigen Glaubenserfahrung – die durch das Gebet genährt wird und gewiss nicht nur eine zu erfüllende Verpflichtung darstellt – begangen haben. Am Tag der Weihe sagt der Bischof zu jedem Priester: „Bedenke, was du tust, ahme nach, was du vollziehst, und stelle dein Leben unter das Geheimnis des Kreuzes.“[10]
37. Der Ansatz für das Studium der Liturgie in den Seminaren muss auch der außerordentlichen Eigenschaft Rechnung tragen, dass die Feier an sich eine organische Vision des theologischen Wissens bietet. Jede theologische Disziplin muss, je nach ihrer eigenen Perspektive, ihre eigene enge Verbindung mit der Liturgie aufzeigen, durch die die Einheit der Priesterausbildung offenbart und verwirklicht wird (vgl. Sacrosanctum Concilium, Nr. 16). Ein liturgisch-sapientialer Ansatz in der theologischen Ausbildung in den Seminaren würde sich sicherlich auch positiv auf das pastorale Handeln auswirken. Es gibt keinen Aspekt des kirchlichen Lebens, der nicht in ihr seinen Höhepunkt und seine Quelle findet. Die umfassende, organische und ganzheitliche pastorale Arbeit ist nicht das Ergebnis ausgearbeiteter Programme, sondern die Folge davon, dass die sonntägliche Eucharistiefeier, die Grundlage der Gemeinschaft, in den Mittelpunkt des Lebens der Gemeinschaft gestellt wird. Das theologische Verständnis der Liturgie erlaubt es keineswegs, diese Worte so zu verstehen, als ob alles auf den kultischen Aspekt reduziert würde. Eine Feier, die nicht evangelisiert, ist nicht authentisch, ebenso wie eine Verkündigung, die nicht zu einer Begegnung mit dem auferstandenen Herrn in der Feier führt, nicht glaubwürdig ist: beide sind also ohne das Zeugnis der Liebe wie dröhnendes Erz oder eine lärmende Pauke (vgl. 1 Kor 13,1).
38. Für die Amtsträger und für alle Getauften ist die liturgische Bildung in ihrer ersten Bedeutung nicht etwas, das man ein für alle Mal als erledigt betrachten kann: Da die Gabe des gefeierten Geheimnisses unser Erkenntnisvermögen übersteigt, muss diese Verpflichtung sicherlich die ständige Weiterbildung eines jeden begleiten und zwar mit der Demut der Kleinen, die eine Haltung ist, die zum Staunen einlädt.
39. Eine letzte Bemerkung zu den Seminaren: Sie müssen neben dem Studium auch die Möglichkeit bieten, dass eine Feier erlebbar wird, die nicht nur rituell vorbildlich, sondern authentisch und lebendig ist, die es erlaubt, jene wahre Gemeinschaft mit Gott zu erfahren, nach der auch das theologische Wissen streben muss. Nur das Wirken des Geistes kann unsere Erkenntnis des Geheimnisses Gottes vervollkommnen, das nicht eine Sache des Verstandes ist, sondern eine Beziehung, die das Leben berührt. Diese Erfahrung ist von grundlegender Bedeutung, damit die Seminaristen nach ihrer Weihe die Gemeinden auf demselben Weg der Erkenntnis des Geheimnisses Gottes, das ein Geheimnis der Liebe ist, begleiten können.
40. Diese letzte Überlegung führt uns dazu, über die zweite Bedeutung nachzudenken, in der wir den Ausdruck „liturgische Bildung“ verstehen können. Ich spreche davon, dass jeder entsprechend seiner Berufung durch die Teilnahme an der liturgischen Feier geformt wird. Auch das soeben erwähnte Studienwissen muss, damit es nicht zum Rationalismus wird, funktional sein für die Verwirklichung des formenden Wirkens der Liturgie in jedem an Christus Glaubenden.
41. Aus dem, was wir über das Wesen der Liturgie gesagt haben, wird deutlich, dass die Kenntnis des Geheimnisses Christi, die für unser Leben entscheidend ist, nicht in der gedanklichen Übernahme einer Idee besteht, sondern in einer wirklichen existentiellen Einbeziehung in seine Person. In diesem Sinne geht es in der Liturgie nicht um „Wissen“, und ihr Zweck ist nicht in erster Linie pädagogisch (obwohl sie einen großen pädagogischen Wert hat: vgl. Sacrosanctum Concilium, Nr. 33), sondern sie ist Lobpreis, Danksagung für das Pascha des Sohnes, dessen rettende Kraft unser Leben erreicht. Bei der Feier geht es darum, dass wir dem Wirken des Geistes, der in uns wirkt, gefügig sind, bis Christus in uns geformt ist (vgl. Gal 4,19). Die Fülle unserer Bildung ist die Angleichung an Christus. Ich wiederhole: Es geht nicht um einen geistigen, abstrakten Prozess, sondern darum, Er zu werden. Das ist der Zweck, zu dem der Geist gegeben wurde, dessen Wirken immer und ausschließlich darin besteht, den Leib Christi zu bilden. So ist es mit dem eucharistischen Brot, so ist es mit jedem Getauften, der dazu berufen ist, immer mehr das zu werden, was er in der Taufe als Gabe empfangen hat, nämlich Glied des Leibes Christi zu sein. Leo der Große schreibt: „Unsere Teilnahme am Leib und am Blut Christi bewirkt nichts anderes, als dass wir zu dem werden, was wir essen“[11].
42. Diese existentielle Einbeziehung geschieht – in Fortführung und im Einklang mit der Weise der Inkarnation – durch sakramentale Mittel. Die Liturgie besteht aus Tatsachen, die genau das Gegenteil von spirituellen Abstraktionen sind: Brot, Wein, Öl, Wasser, Duft, Feuer, Asche, Stein, Tuch, Farben, Körper, Worte, Töne, Stille, Gesten, Raum, Bewegung, Handlung, Ordnung, Zeit, Licht. Die gesamte Schöpfung ist eine Manifestation der Liebe Gottes: Da sich diese Liebe in ihrer ganzen Fülle im Kreuz Jesu manifestiert hat, wird die gesamte Schöpfung von ihr angezogen. Es ist die gesamte Schöpfung, die in den Dienst der Begegnung mit dem fleischgewordenen, gekreuzigten, gestorbenen, auferstandenen und zum Vater aufgefahrenen Wort gestellt wird. So wie es im Gebet über das Wasser der Taufe gesungen wird, aber auch im Gebet über das Öl für den heiligen Chrisam und in den Worten der Darreichung von Brot und Wein, den Früchten der Erde und der menschlichen Arbeit.
43. Die Liturgie gibt Gott die Ehre, nicht, weil wir etwas zur Schönheit des unzugänglichen Lichts, in dem er wohnt (vgl. 1 Tim 6,16), oder zur Vollkommenheit des Engelsgesangs, der ewig in den himmlischen Wohnungen erklingt, beitragen können. Die Liturgie gibt Gott die Ehre, weil sie es uns hier auf der Erde ermöglicht, Gott in der Feier der Geheimnisse zu sehen und, im Schauen, von seinem Pascha zum Leben zu erwachen: Wir, die wir durch die Sünden tot waren und durch die Gnade mit Christus wieder lebendig gemacht wurden (vgl. Eph 2,5), sind die Herrlichkeit Gottes. Irenäus, der doctor unitatis, erinnert uns daran: „Denn Gottes Ehre ist der lebendige Mensch, das Leben des Menschen ist die Schau Gottes. Denn wenn schon das Sichtbarwerden Gottes durch die Schöpfung allen Lebewesen der Erde das Leben gibt, dann gibt die Offenbarung des Vaters durch den Sohn noch viel mehr denen Leben, die Gott sehen.“[12]
44. Guardini schreibt: „Damit zeichnet sich die erste Aufgabe der liturgischen Bildungsarbeit ab: der Mensch muss wieder symbolfähig werden“[13]. Diese Verpflichtung geht alle an, geweihte Amtsträger und Gläubige gleichermaßen. Die Aufgabe ist nicht leicht, denn der moderne Mensch ist ein Analphabet geworden, er kann Symbole nicht mehr lesen, er ahnt nicht einmal ihre Existenz. Dies geschieht auch mit dem Symbol unseres Körpers. Es ist ein Symbol, weil es die innige Verbindung von Seele und Leib ist, die Sichtbarkeit der geistigen Seele in der Ordnung des Körperlichen, und darin besteht die Einzigartigkeit des Menschen, die Besonderheit der Person, die auf keine andere Form der Lebewesen angewandt werden kann. Unsere Offenheit für das Transzendente, für Gott, ist konstitutiv: Sie nicht anzuerkennen, führt unweigerlich dazu, dass wir nicht nur Gott, sondern auch uns selbst nicht kennen. Man betrachte gegenwärtig nur den paradoxen Umgang mit dem Körper, der einerseits geradezu obsessiv auf der Suche nach dem Mythos der ewigen Jugend ausgerichtet ist und andererseits auf eine Materialität reduziert wird, dem jede Würde abgesprochen wird. Es ist eine Tatsache, dass man dem Körper nicht allein durch den Körper einen Wert geben kann. Jedes Symbol ist gleichzeitig mächtig und zerbrechlich: Wenn es nicht respektiert wird, wenn es nicht als das behandelt wird, was es ist, zerbricht es, verliert an Kraft, wird unbedeutend.
Wir haben nicht mehr den Blick des heiligen Franziskus, der die Sonne betrachtete – die er Bruder nannte, weil er sie so empfand –, die er schön und strahlend in großem Glanz sah und voller Staunen sang: de te Altissimu, porta significatione (von dir, Höchster, ein Sinnbild)[14]. Da wir die Fähigkeit verloren haben, den symbolischen Wert des Körpers und jeder Kreatur zu verstehen, ist die symbolische Sprache der Liturgie für den modernen Menschen fast unzugänglich. Es geht jedoch nicht darum, auf eine solche Sprache zu verzichten: Es ist nicht möglich, darauf zu verzichten, weil es das ist, was die heiligste Dreifaltigkeit gewählt hat, um uns im Fleisch des Wortes zu erreichen. Vielmehr geht es darum, die Fähigkeit wiederzuerlangen, die Symbole der Liturgie einzuordnen und zu verstehen. Wir dürfen nicht verzweifeln, denn diese Dimension ist, wie ich soeben gesagt habe, für den Menschen konstitutiv und trotz der Übel des Materialismus und des Spiritualismus – die beide die Einheit von Körper und Seele leugnen – immer bereit, wie jede Wahrheit wieder aufzutauchen.
45. Die Frage, die wir uns stellen, lautet also: Wie können wir wieder zu Symbolen fähig werden? Wie kann man wieder in der Lage sein, sie zu lesen, um sie zu leben? Wir wissen sehr wohl, dass die Feier der Sakramente – durch Gottes Gnade – in sich selbst wirksam ist (ex opere operato), aber dies garantiert nicht die volle Beteiligung der Menschen, wenn sie nicht auf angemessene Weise mit der Sprache der Feier umgehen. Symbole zu lesen ist keine Angelegenheit des mentalen Wissens, der Aneignung von Begriffen, sondern eine lebendige Erfahrung.
46. Zuallererst müssen wir das Vertrauen in die Schöpfung zurückgewinnen. Damit meine ich, dass die Dinge – mit denen die Sakramente „gemacht“ sind – von Gott kommen, auf Ihn ausgerichtet sind und von Ihm aufgenommen wurden, besonders bei der Inkarnation, damit sie Werkzeuge des Heils, Träger des Geistes, Kanäle der Gnade werden konnten. Hier spürt man die volle Distanz sowohl zur materialistischen als auch zur spiritualistischen Vision. Wenn die geschaffenen Dinge ein unverzichtbarer Teil des sakramentalen Wirkens sind, das unser Heil bewirkt, müssen wir uns ihnen gegenüber mit einem neuen Blick vorbereiten, der nicht oberflächlich, sondern respektvoll und dankbar ist. Sie enthalten von Anfang an den Keim der heiligmachenden Gnade der Sakramente.
47. Ein weiterer entscheidender Punkt – wiederum mit Blick auf die Art und Weise, wie die Liturgie uns formt – ist die Erziehung, die notwendig ist, um die innere Haltung zu erlangen, die es uns ermöglicht, liturgische Symbole einzuordnen und zu verstehen. Ich drücke es einfach aus. Ich denke dabei an die Eltern und noch mehr an die Großeltern, aber auch an unsere Pfarrer und Katecheten. Viele von uns haben von ihnen die Kraft der liturgischen Gesten – wie das Kreuzzeichen, das Knien, die Glaubensbekenntnisse – gelernt. Wir haben vielleicht keine lebhafte Erinnerung daran, aber wir können uns leicht die Geste einer größeren Hand vorstellen, die die kleine Hand eines Kindes ergreift und sie langsam begleitet, während sie zum ersten Mal das Zeichen unserer Erlösung zeichnet. Die Bewegung wird von den Worten begleitet, die ebenfalls langsam sind, als ob sie jeden Moment dieser Geste, des ganzen Körpers, in Besitz nehmen wollten: „Im Namen des Vaters ... und des Sohnes ... und des Heiligen Geistes ... Amen“. Dann die Hand des Kindes loszulassen und ihm zuzusehen, wie es sie allein wiederholt – bereit, ihm zu Hilfe zu kommen –, diese Geste, die jetzt abgegeben wird, wie ein Gewand, das mit ihm wächst und es auf eine Weise kleidet, die nur der Geist kennt. Von diesem Moment an gehört diese Geste, ihre symbolische Kraft, uns, oder besser gesagt, wir gehören zu dieser Geste, sie gibt uns Form, wir werden durch sie geformt. Es ist nicht notwendig, zu viel zu reden, es ist nicht notwendig, alles über diese Geste verstanden zu haben: es ist notwendig, klein zu sein, sowohl beim Überbringen als auch beim Empfangen der Geste. Der Rest ist das Werk des Geistes. Auf diese Weise sind wir in die symbolische Sprache eingeweiht worden. Von diesem Reichtum dürfen wir uns nicht berauben lassen. Wenn wir erwachsen werden, haben wir vielleicht mehr Mittel, um zu verstehen, aber immer unter der Bedingung, dass wir klein bleiben.
Ars celebrandi
48. Eine Möglichkeit, das lebendige Verständnis der Symbole der Liturgie zu pflegen und zu vertiefen, besteht sicherlich darin, die Kunst des Feierns (ars celebrandi) zu pflegen. Auch dieser Ausdruck kann unterschiedlich interpretiert werden. Er wird deutlicher, wenn man ihn im Zusammenhang mit der theologischen Bedeutung der Liturgie versteht, die in Sacrosanctum Concilium Nr. 7 beschrieben wird und auf die wir schon mehrfach hingewiesen haben. Die ars celebrandi kann nicht auf die bloße Einhaltung eines rubrizistischen Apparats reduziert werden, noch kann sie als eine phantasievolle – manchmal wilde – Kreativität ohne Regeln betrachtet werden. Der Ritus ist in sich selbst eine Norm, und die Norm ist nie Selbstzweck, sondern steht immer im Dienst der höheren Wirklichkeit, die sie schützen will.
49. Wie jede Kunst erfordert sie unterschiedliche Kenntnisse.
Zunächst einmal ein Verständnis für die Dynamik, die die Liturgie ausmacht. Der Augenblick der feiernden Handlung ist der Ort, an dem das Pascha-Mysterium durch das Gedächtnis vergegenwärtigt wird, damit die Getauften es durch ihre Teilnahme in ihrem Leben erfahren können: Ohne dieses Verständnis verfällt man leicht in (mehr oder weniger verfeinerte) Äußerlichkeiten und in einen (mehr oder weniger starren) Rubrizismus.
Man muss also wissen, wie der Heilige Geist in jeder Feier wirkt: Die Kunst des Feierns muss im Einklang mit dem Wirken des Geistes stehen. Nur so wird sie frei von Subjektivismus, der das Ergebnis des Vorherrschens individueller Befindlichkeiten ist, und von Kulturalismus, der unkritischen Übernahme kultureller Elemente, die nichts mit einem korrekten Inkulturationsprozess zu tun haben.
Schließlich ist es notwendig, die Dynamik der symbolischen Sprache, ihre Besonderheiten und ihre Wirksamkeit zu kennen.
50. Aus diesen kurzen Ausführungen wird deutlich, dass die Kunst des Feierns nicht improvisiert werden kann. Wie jede Kunst erfordert sie eine gewissenhafte Anwendung. Ein Handwerker braucht nur die Technik, ein Künstler braucht neben dem technischen Wissen auch die Inspiration, die eine positive Form des Besitzes ist: der Künstler, der wahre, besitzt keine Kunst, noch ist er von ihr besessen. Die Kunst des Feierns lernt man nicht, indem man einen Kurs in public speaking (öffentliches Reden) oder überzeugenden Kommunikationstechniken besucht (ich beurteile nicht die Absichten, ich sehe die Wirkungen). Jedes Werkzeug kann nützlich sein, muss aber immer dem Wesen der Liturgie und dem Wirken des Heiligen Geistes unterworfen sein. Was wir brauchen, ist eine gewissenhafte Hinwendung zur Feier, damit die Feier selbst ihre Kunst auf uns übertragen kann. Guardini schreibt: „Wir müssen einsehen, wie tief wir noch im Individualismus und Subjektivismus stecken; wie sehr der Beanspruchung durch das Große entwöhnt, und wie klein die Maße unseres religiösen Lebens sind. Der Sinn für den großen Stil des Betens, der Wille zum Existentiellen auch im Gebet muss wieder erwachen. Der Weg dahin ist aber die Zucht, der Verzicht auf schwächliche Sentimentalität; ernste, im Gehorsam gegen die Kirche vollzogene Arbeit und unserem religiösen Sein und Verhalten“[15]. So lernt man die Kunst des Feierns.
51. Wenn wir über dieses Thema sprechen, sind wir geneigt zu denken, dass es nur die geweihten Amtsträger betrifft, die den Dienst des Vorsitzes ausüben. In Wirklichkeit ist es eine Haltung, zu der alle Getauften aufgerufen sind. Ich denke an all die Gesten und Worte, die zur Versammlung gehören: sich versammeln, in Prozession gehen, sitzen, stehen, knien, singen, schweigen, jubeln, zusehen, zuhören. Es gibt viele Möglichkeiten, wie die Gemeinde als Einheit (Neh 8,1) an der Feier teilnimmt. Wenn alle gemeinsam die gleiche Geste ausführen, wenn alle mit einer Stimme sprechen, wird dem Einzelnen die Stärke der gesamten Versammlung verliehen. Es ist eine Einheitlichkeit, die nicht nur nicht tötet, sondern im Gegenteil die einzelnen Gläubigen dazu erzieht, die authentische Einzigartigkeit ihrer Persönlichkeit nicht in individualistischen Haltungen zu entdecken, sondern im Bewusstsein, ein Leib zu sein. Es geht nicht darum, eine liturgische Etikette zu befolgen: Es geht vielmehr um eine „Zucht“ – im Sinne Guardinis –, die uns, wenn sie authentisch befolgt wird, formt: Es sind Gesten und Worte, die unsere innere Welt in Ordnung bringen, indem sie uns Gefühle, Einstellungen und Verhaltensweisen erleben lassen. Sie sind nicht die Äußerung eines Ideals, um uns zu inspirieren, sondern sie sind eine Handlung, die den Körper in seiner Gesamtheit einbezieht, d.h. in seinem Wesen als Einheit von Seele und Körper.
52. Unter den rituellen Gesten, die zur gesamten Versammlung gehören, nimmt das Schweigen einen Platz von herausragender Bedeutung ein. Mehrmals ist es in den Rubriken ausdrücklich vorgeschrieben: Die gesamte Eucharistiefeier ist in die Stille getaucht, die ihrem Beginn vorausgeht und jeden Moment ihrer rituellen Entfaltung prägt. Sie findet sich im Bußakt, nach der Einladung zum Gebet, im Wortgottesdienst (vor den Lesungen, zwischen den Lesungen und nach der Homilie), im eucharistischen Hochgebet und nach der Kommunion.[16] Es ist kein Zufluchtsort, an dem man sich in eine private Abgeschiedenheit zurückzieht und das Ritual fast wie eine Ablenkung erträgt: Ein solches Schweigen würde dem eigentlichen Wesen der Feier widersprechen. Die liturgische Stille ist viel mehr: Sie ist das Symbol für die Anwesenheit und das Wirken des Heiligen Geistes, der die gesamte feierliche Handlung belebt, weshalb sie oft den Höhepunkt einer rituellen Handlung darstellt. Gerade weil sie ein Symbol des Geistes ist, hat sie die Kraft, sein vielgestaltiges Wirken auszudrücken. So führt die Stille, wenn ich die zuvor genannten Momente wiederhole, zur Reue und zum Wunsch nach Umkehr; sie weckt das Hören auf das Wort und das Gebet; sie führt zur Anbetung des Leibes und des Blutes Christi; sie zeigt jedem in der Vertrautheit der Gemeinschaft, was der Geist im Leben wirken will, um es dem gebrochenen Brot gleich zu machen. Deshalb sind wir aufgerufen, die symbolische Geste des Schweigens mit äußerster Sorgfalt auszuführen: In ihr gibt uns der Geist Gestalt.
53. Jede Geste und jedes Wort enthält eine genaue Handlung, die immer wieder neu ist, weil sie auf einen immer neuen Moment in unserem Leben trifft. Dies möchte ich anhand eines einfachen Beispiels erläutern. Wir knien nieder, um um Vergebung zu bitten; um unseren Hochmut zu zügeln; um Gott unsere Tränen zu übergeben; um ihn um sein Eingreifen zu bitten; um ihm für ein erhaltenes Geschenk zu danken: es ist immer dieselbe Geste, die im Wesentlichen besagt, dass wir vor Gott klein sind. In verschiedenen Momenten unseres Lebens formt sie jedoch unser tiefes Inneres, um sich dann äußerlich in unserer Beziehung zu Gott und unseren Brüdern und Schwestern zu manifestieren. Auch das Niederknien sollte kunstvoll erfolgen, d.h. im vollen Bewusstsein seiner symbolischen Bedeutung und des Anliegens, durch diese Geste auszudrücken, wie wir in der Gegenwart des Herrn sein möchten. Wenn all dies für diese einfache Geste wahr ist, wie viel mehr gilt es dann für die Feier des Wortes? Welche Kunst sollen wir lernen, das Wort zu verkünden, es zu hören, es zur Inspiration unseres Gebets zu machen, es zum Leben zu bringen? All das verdient höchste Sorgfalt, nicht formell, äußerlich, sondern lebendig, innerlich, denn jede Geste und jedes Wort der Feier, das mit „Kunst“ ausgedrückt wird, formt die christliche Persönlichkeit des Einzelnen und der Gemeinschaft.
54. Es ist zwar richtig, dass die ars celebrandi die gesamte feiernde Gemeinde betrifft, aber es ist ebenso richtig, dass die geweihten Amtsträger sich besonders darum bemühen müssen. Bei meinen Besuchen in christlichen Gemeinden habe ich oft festgestellt, dass die Art und Weise, wie sie die Feier leben, davon abhängt – im Guten und leider auch im Schlechten –, wie ihr Pfarrer der Versammlung vorsteht. Man könnte sagen, dass es verschiedene „Modelle“ des Vorstehens gibt. Hier ist eine mögliche Liste von Haltungen, die, obwohl sie gegensätzlich sind, das Vorstehen auf eine Art und Weise charakterisieren, die sicherlich unzureichend ist: rigide Strenge oder übertriebene Kreativität; vergeistigender Mystizismus oder praktischer Funktionalismus; hastende Eile oder betonte Langsamkeit; lieblose Vernachlässigung oder übertriebene Raffinesse; überbordende Freundlichkeit oder hieratische Unbeweglichkeit. Trotz der Brandbreite glaube ich, dass die Unzulänglichkeit dieser Modelle eine gemeinsame Wurzel hat: ein übertriebener Personalismus des Feierstils, der zuweilen eine schlecht verdeckte Manie des Protagonismus zum Ausdruck bringt. Dies wird oft noch deutlicher, wenn unsere Feiern im Internet übertragen werden, was nicht immer angemessen ist und worüber wir nachdenken sollten. Wohlgemerkt, das sind nicht die am weitesten verbreiteten Haltungen, aber Versammlungen sind nicht selten solchen „Misshandlungen“ ausgesetzt.
55. Es ließe sich viel über die Bedeutung und das Feingefühl des Vorstehens sagen. Bei mehreren Gelegenheiten habe ich mich mit der anspruchsvollen Aufgabe der Homilie befasst.[17] Ich werde mich nun auf einige umfassendere Überlegungen beschränken und möchte mit Euch darüber nachdenken, wie wir durch die Liturgie geformt werden. Ich denke dabei an die Normalität der Sonntagsmessen in unseren Gemeinden: Ich beziehe mich also auf die Priester, aber implizit auf alle geweihten Amtsträger.
56. Der Priester lebt seine ihm eigene Teilhabe an der Feier kraft der Gabe, die er im Sakrament der Weihe empfangen hat: Diese Eigenart kommt gerade im Vorstehen zum Ausdruck. Wie alle Ämter, zu denen er berufen ist, ist dies nicht in erster Linie eine Aufgabe, die ihm von der Gemeinschaft zugewiesen wird, sondern vielmehr die Folge der Ausgießung des Heiligen Geistes, die er bei der Weihe empfangen hat und die ihn zu dieser Aufgabe befähigt. Der Priester wird auch dadurch geformt, dass er der Versammlung vorsteht, die feiert.
57. Damit dieser Dienst gut – ja sogar kunstvoll – ausgeführt werden kann, ist es von grundlegender Bedeutung, dass der Priester vor allem ein lebendiges Bewusstsein dafür hat, durch die Barmherzigkeit eine besondere Gegenwart des Auferstandenen zu sein. Der geweihte Amtsträger ist selbst eine der Formen der Gegenwart des Herrn, die die christliche Versammlung einzigartig machen und von allen anderen unterscheiden (vgl. Sacrosanctum Concilium, Nr. 7). Diese Tatsache verleiht allen Gesten und Worten des Vorstehenden – im weitesten Sinne – eine „sakramentale“ Tiefe. Die Versammlung hat das Recht, in diesen Gesten und Worten den Wunsch zu spüren, dass der Herr auch heute, wie beim letzten Abendmahl, das Pascha mit uns essen will. Der Auferstandene ist also der Protagonist, und sicher nicht unsere Unreife, die nach einer Darstellbarkeit einer Rolle und eine Haltung strebt, die sie nicht haben kann. Der Priester selbst ist überwältigt von dem Wunsch nach Gemeinschaft, die der Herr für alle hat: Es ist, als stünde er zwischen dem in Liebe brennenden Herzen Jesu und dem Herzen jedes Gläubigen, dem Objekt seiner Liebe. Der Eucharistie vorzustehen bedeutet, in den Schmelzofen der Liebe Gottes einzutauchen. Wenn wir in der Lage sind, diese Realität zu verstehen oder auch nur zu erahnen, brauchen wir sicherlich kein Direktorium mehr, das uns ein angemessenes Verhalten vorschreibt. Wenn wir das brauchen, dann wegen der Härte unseres Herzens. Der höchste und daher anspruchsvollste Maßstab ist die Realität der Eucharistiefeier selbst, die Worte, Gesten und Gefühle auswählt und uns zu verstehen gibt, ob sie der Aufgabe, die sie zu erfüllen haben, angemessen sind oder nicht. Natürlich kann auch dies nicht improvisiert werden: es ist eine Kunst, sie verlangt vom Priester die Anwendung, d.h. das eifrige Ausüben des Feuers der Liebe, das der Herr auf die Erde gebracht hat (vgl. Lk 12,49).
58. Als die erste Gemeinde im Gehorsam gegenüber dem Gebot des Herrn das Brot bricht, tut sie dies unter dem Blick Marias, die die ersten Schritte der Kirche begleitet: „Sie alle verharrten dort einmütig im Gebet, zusammen mit den Frauen und Maria, der Mutter Jesu, und seinen Brüdern“ (Apg 1,14). Die jungfräuliche Mutter „beaufsichtigt“ die Handlungen ihres Sohnes, die den Aposteln anvertraut wurden. So wie sie nach den Worten des Engels Gabriel das fleischgewordene Wort in ihrem Schoß bewahrte, so bewahrt die Jungfrau im Schoß der Kirche die Handlungen, die den Leib ihres Sohnes ausmachen. Der Priester, der kraft der mit dem Weihesakrament empfangenen Gabe diese Handlungen wiederholt, ist in den Schoß der Jungfrau eingebettet. Brauchen wir eine Norm, die uns sagt, wie wir uns verhalten sollen?
59. Die Priester sind zu Werkzeugen geworden, um das Feuer seiner Liebe auf der Erde zu entfachen; sie sind im Schoß Marias, der Jungfrau, die die Kirche geschaffen hat (wie der heilige Franziskus gesungen hat), eingeschlossen und lassen sich vom Geist leiten, der das Werk, das er bei ihrer Weihe begonnen hat, zu Vollendung führen will. Das Wirken des Geistes bietet ihnen die Möglichkeit, den Vorsitz der eucharistischen Versammlung auszuüben, mit der Furcht des Petrus, der sich seiner Sündhaftigkeit bewusst ist (vgl. Lk 5,1-11), mit der starken Demut des leidenden Knechtes (vgl. Jes 42 ff.), mit dem Wunsch, von den Menschen „gegessen zu werden“, die ihnen in der täglichen Ausübung des Dienstes anvertraut sind.
60. Es ist die Feier selbst, die zu dieser Qualität des Vorstehens erzieht, es ist, wir wiederholen es, keine mentale Haltung, auch wenn unser ganzer Verstand, wie auch unsere Gefühle, an ihr beteiligt sind. Der Priester wird also darin geschult, mit den Worten und Gesten vorzustehen, die die Liturgie ihm auf die Lippen und in die Hände legt.
Er sitzt nicht auf einem Thron[18], denn der Herr regiert mit der Demut eines Dienenden.
Er beraubt den Altar nicht seiner zentralen Bedeutung als Zeichen Christi, aus dessen durchbohrter Seite Wasser und Blut geflossen sind, als Quelle der Sakramente der Kirche und als Mittelpunkt unseres Lobes und gemeinsamen Dankes.[19]
Wenn er sich dem Altar nähert, um die Opfergabe darzubringen, wird er mit den Worten zur Demut und Reue angehalten: „Herr, wir kommen zu dir mit reumütigem Herzen und mit demütigem Sinn. Nimm uns an und gib, dass unser Opfer dir gefalle.“[20]
Er kann sich das ihm anvertraute Amt nicht anmaßen, denn die Liturgie fordert ihn auf, im Zeichen des Wassers um seine Reinigung zu bitten: „Herr, wasche ab meine Schuld, von meinen Sünden mache mich rein“[21].
Die Worte, die die Liturgie ihm auf die Lippen legt, haben unterschiedliche Inhalte, die bestimmte Tonalitäten verlangen: Wegen der Bedeutung dieser Worte wird der Priester um eine echte ars dicendi gebeten. Sie geben seinen inneren Gefühlen Gestalt, einmal in der Anrufung des Vaters im Namen der Versammlung, einmal in der an die Versammlung gerichteten Ermahnung, einmal in der einstimmigen Akklamation mit der ganzen Versammlung.
Mit dem eucharistischen Hochgebet – an dem auch alle Getauften teilnehmen, indem sie ehrfürchtig und schweigend zuhören und sich mit Akklamationen beteiligen[22] – hat der Vorsteher die Kraft, im Namen des ganzen heiligen Volkes den Vater an die Hingabe seines Sohnes beim Letzten Abendmahl zu erinnern, damit dieses unermessliche Geschenk auf dem Altar wieder gegenwärtig wird. Er nimmt an dieser Opfergabe teil, indem er sich selbst opfert. Der Priester kann dem Vater nicht vom letzten Abendmahl erzählen, ohne daran teilzunehmen. Er kann nicht sagen: „Nehmt und esst alle davon: Das ist mein Leib, der für euch geopfert wird“, ohne dass er den gleichen Wunsch verspürt, seinen eigenen Leib, sein eigenes Leben für die ihm anvertrauten Menschen zu opfern. Dies geschieht bei der Ausübung seines Dienstes.
Aus all dem und vielem anderen wird der Priester ständig im feiernden Handeln geformt.
* * *
61. Ich wollte nur einige Überlegungen anstellen, die den unermesslichen Schatz der Feier der heiligen Geheimnisse sicher nicht erschöpfen. Ich bitte alle Bischöfe, Priester und Diakone, Seminarausbilder, Lehrer an den theologischen Fakultäten und Schulen sowie alle Katecheten und Katechetinnen, dem heiligen Volk Gottes zu helfen, aus dem zu schöpfen, was seit jeher die Hauptquelle der christlichen Spiritualität ist. Wir sind aufgerufen, den Reichtum der allgemeinen Grundsätze, die in den ersten Nummern von Sacrosanctum Concilium dargelegt sind, immer wieder neu zu entdecken und die enge Verbindung zwischen der ersten der konziliaren Konstitutionen und allen anderen zu verstehen. Deshalb können wir nicht zu jener rituellen Form zurückkehren, die die Konzilsväter cum Petro und sub Petro für reformbedürftig hielten, indem sie unter der Führung des Geistes und nach ihrem Gewissen als Hirten die Grundsätze billigten, aus denen die Reform hervorging. Die heiligen Päpste Paul VI. und Johannes Paul II. haben die revidierten liturgischen Bücher per Dekret Sacrosancti Œcumenici Concilii Vaticani II genehmigt und damit die Treue der Reform zum Konzil garantiert. Deshalb habe ich Traditionis Custodes geschrieben, damit die Kirche in der Vielfalt der Sprachen ein und dasselbe Gebet erhebt, das ihre Einheit zum Ausdruck bringt.[23] Diese Einheit möchte ich, wie ich bereits geschrieben habe, in der gesamten Kirche des Römischen Ritus wiederhergestellt sehen.
62. Ich möchte, dass dieser Brief dazu beiträgt, unser Staunen über die Schönheit der Wahrheit des christlichen Feierns neu zu entfachen, uns an die Notwendigkeit einer authentischen liturgischen Bildung zu erinnern und die Bedeutung einer Kunst des Feierns zu erkennen, die im Dienst der Wahrheit des Pascha-Mysteriums und der Teilnahme aller Getauften steht, jeder mit der Besonderheit seiner oder ihrer Berufung.
All dieser Reichtum ist nicht weit von uns entfernt: Er findet sich in unseren Kirchen, in unseren christlichen Festen, in der zentralen Bedeutung des Sonntags, in der Kraft der Sakramente, die wir feiern. Das christliche Leben ist ein ständiger Weg des Wachstums: Wir sind aufgerufen, uns mit Freude und in Gemeinschaft formen zu lassen.
63. Deshalb möchte ich Euch noch einen Hinweis geben, damit wir unseren Weg fortsetzen können. Ich lade Euch ein, den Sinn des liturgischen Jahres und des Tages des Herrn wiederzuentdecken: auch dies ist eine Aufgabe des Konzils (vgl. Sacrosanctum Concilium, Nrn. 102-111).
64. Im Lichte dessen, was wir zuvor in Erinnerung gerufen haben, verstehen wir, dass das liturgische Jahr für uns die Gelegenheit ist, in der Erkenntnis des Geheimnisses Christi zu wachsen, indem wir unser Leben in das Geheimnis seines Pascha-Mysteriums eintauchen, während wir seine Wiederkunft erwarten. Dies ist eine echte Weiterbildung. Unser Leben ist keine zufällige und ungeordnete Abfolge von Ereignissen, sondern ein Weg, der uns von Ostern zu Ostern mit Ihm in Einklang bringt, während wir die Erfüllung der seligen Hoffnung und das Kommen unseres Erlösers Jesus Christus erwarten[24].
65. In der durch Ostern neu gewordenen Zeit feiert die Kirche alle acht Tage am Sonntag das Heilsereignis. Der Sonntag ist, bevor er ein Gebot ist, ein Geschenk Gottes an sein Volk (weshalb er von der Kirche mit einem Gebot geschützt wird). Die sonntägliche Feier bietet der christlichen Gemeinschaft die Möglichkeit, sich durch die Eucharistie formen zu lassen. Von Sonntag zu Sonntag erhellt das Wort des Auferstandenen unsere Existenz und will in uns wirken, wozu es gesandt wurde (vgl. Jes 55,10-11). Von Sonntag zu Sonntag will die Gemeinschaft mit dem Leib und dem Blut Christi auch unser Leben zu einem dem Vater wohlgefälligen Opfer machen, in geschwisterlicher Gemeinschaft, die zum Teilen, zur Aufnahme und zum Dienst wird. Von Sonntag zu Sonntag stärkt uns die Kraft des gebrochenen Brotes in der Verkündigung des Evangeliums, in der sich die Authentizität unserer Feier zeigt.
Lassen wir die Streitereien hinter uns, um gemeinsam auf das zu hören, was der Geist der Kirche sagt, pflegen wir die Gemeinschaft, staunen wir weiterhin über die Schönheit der Liturgie. Wir haben das Pascha geschenkt bekommen, lassen wir uns von dem ständigen Wunsch des Herrn beschützen, es mit uns zu essen. Unter dem Blick Mariens, der Mutter der Kirche.
Gegeben zu Rom, bei St. Johannes im Lateran, am 29. Juni, dem Hochfest der heiligen Apostel Petrus und Paulus, im Jahr 2022, dem zehnten meines Pontifikates.
FRANZISKUS
Der ganze Mensch erschauere, die ganze Welt erbebe,
und der Himmel juble,
wenn auf dem Altar in der Hand des Priesters
Christus, der Sohn des lebendigen Gottes, ist!
O wunderbare Hoheit und staunenswerte Herablassung!
O erhabene Demut! O demütige Erhabenheit,
dass der Herr des Alls, Gott und Gottes Sohn, sich so erniedrigt,
dass er sich zu unserem Heil
unter der anspruchslosen Gestalt des Brotes verbirgt!
Seht, Brüder, Die Demut Gottes und schüttet vor ihm eure Herzen aus!
Erniedrigt auch ihr euch, damit ihr von ihm erhöht werdet!
Behaltet darum nichts von euch für euch zurück,
damit euch ganz aufnehme, der sich euch ganz hingibt!
Heilige Franz von Assisi
Brief an den gesamten Orden II,26-29
_________________________
[1] Vgl. Leo Magnus, Sermo LXXIV: De ascensione Domini II,1: «quod [...] Redemptoris nostri conspicuum fuit, in sacramenta transivit».
[2] Præfatio paschalis III, Missale Romanum (2008) S. 367: «Qui immolátus iam non móritur, sed semper vivit occísus».
[3] Vgl. Missale Romanum (2008) S. 532.
[4] Vgl. Augustinus, Enarrationes in psalmos. Ps. 138,2; Oratio post septimam lectionem, Vigilia paschalis, Missale Romanum (2008) S. 359; Super oblata, Pro Ecclesia (B), Missale Romanum (2008) S. 1076.
[5] Vgl. Augustinus, In Ioannis Evangelium tractatus XXVI,13.
[6] Vgl. Litteræ encyclicæ Mediator Dei (20 Novembris 1947) in AAS 39 (1947) 532.
[7] AAS 56 (1964) 34.
[8] R. Guardini, Liturgische Bildung (1923) in Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) S. 43.
[9] R. Guardini, Der Kultakt und die gegenwärtige Aufgabe der Liturgischen Bildung (1964) in Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) S. 14.
[10] De Ordinatione Episcopi, Presbyterorum et Diaconorum (1990) S. 95: «Agnosce quod ages, imitare quod tractabis, et vitam tuam mysterio dominicæ crucis conforma».
[11] Leo Magnus, Sermo XII: De Passione III,7.
[12] Irenæus Lugdunensis, Adversus hæreses IV,20,7.
[13] R. Guardini, Liturgische Bildung (1923) in Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) S. 36.
[14] Sonnengesang, Franziskanische Quellen, Nr. 263.
[15] R. Guardini Liturgische Bildung (1923) in Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) S. 99.
[16] Vgl. Institutio Generalis Missalis Romani, Nrn. 45; 51; 54-56; 66; 71; 78; 84; 88; 271.
[17] Siehe Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium (24 November 2013), Nrn. 135-144.
[18] Vgl. Institutio Generalis Missalis Romani, Nr. 310.
[19] Prex dedicationis in Ordo dedicationis ecclesiæ et altaris (1977) S. 102.
[20] Missale Romanum (2008) S. 515: «In spiritu humilitatis et in animo contrito suscipiamur a te, Domine; et sic fiat sacrificium nostrum in conspectu tuo hodie, ut placeat tibi, Domine Deus».
[21] Missale Romanum (2008) S. 515: «Lava me, Domine, ab iniquitate mea, et a peccato meo munda me».
[22] Vgl. Institutio Generalis Missalis Romani, Nrn. 78-79.
[23] Vgl. Paulus VI, Constitutio apostolica Missale Romanum (3 Aprilis 1969) in AAS 61 (1969) 222.
[24] Missale Romanum (2008) S. 598: « … exspectantes beatam spem et adventum Salvatoris nostri Iesu Christi».
[01027-DE.01] [Originalsprache: Italienisch]
Traduzione in lingua spagnola
CARTA APOSTÓLICA
DESIDERIO DESIDERAVI
DEL SANTO PADRE
FRANCISCO
A LOS OBISPOS, A LOS PRESBÍTEROS
Y A LOS DIÁCONOS,
A LAS PERSONAS CONSAGRADAS
Y A TODOS LOS FIELES LAICOS
SOBRE LA FORMACIÓN LITÚRGICA
DEL PUEBLO DE DIOS
Desiderio desideravi
hoc Pascha manducare vobiscum,
antequam patiar (Lc 22, 15)
1. Queridos hermanos y hermanas:
con esta carta deseo llegar a todos – después de haber escrito a los obispos tras la publicación del Motu Proprio Traditionis custodes – para compartir con vosotros algunas reflexiones sobre la Liturgia, dimensión fundamental para la vida de la Iglesia. El tema es muy extenso y merece una atenta consideración en todos sus aspectos: sin embargo, con este escrito no pretendo tratar la cuestión de forma exhaustiva. Quiero ofrecer simplemente algunos elementos de reflexión para contemplar la belleza y la verdad de la celebración cristiana.
La Liturgia: el “hoy” de la historia de la salvación
2. “Ardientemente he deseado comer esta Pascua con vosotros, antes de padecer” (Lc 22,15) Las palabras de Jesús con las cuales inicia el relato de la última Cena son el medio por el que se nos da la asombrosa posibilidad de vislumbrar la profundidad del amor de las Personas de la Santísima Trinidad hacia nosotros.
3. Pedro y Juan habían sido enviados a preparar lo necesario para poder comer la Pascua, pero, mirándolo bien, toda la creación, toda la historia – que finalmente estaba a punto de revelarse como historia de salvación – es una gran preparación de aquella Cena. Pedro y los demás están en esa mesa, inconscientes y, sin embargo, necesarios: todo don, para ser tal, debe tener alguien dispuesto a recibirlo. En este caso, la desproporción entre la inmensidad del don y la pequeñez de quien lo recibe es infinita y no puede dejar de sorprendernos. Sin embargo – por la misericordia del Señor – el don se confía a los Apóstoles para que sea llevado a todos los hombres.
4. Nadie se ganó el puesto en esa Cena, todos fueron invitados, o, mejor dicho, atraídos por el deseo ardiente que Jesús tiene de comer esa Pascua con ellos: Él sabe que es el Cordero de esa Pascua, sabe que es la Pascua. Esta es la novedad absoluta de esa Cena, la única y verdadera novedad de la historia, que hace que esa Cena sea única y, por eso, “última”, irrepetible. Sin embargo, su infinito deseo de restablecer esa comunión con nosotros, que era y sigue siendo su proyecto original, no se podrá saciar hasta que todo hombre, de toda tribu, lengua, pueblo y nación (Ap 5,9) haya comido su Cuerpo y bebido su Sangre: por eso, esa misma Cena se hará presente en la celebración de la Eucaristía hasta su vuelta.
5. El mundo todavía no lo sabe, pero todos están invitados al banquete de bodas del Cordero (Ap 19,9). Lo único que se necesita para acceder es el vestido nupcial de la fe que viene por medio de la escucha de su Palabra (cfr. Rom 10,17): la Iglesia lo confecciona a medida, con la blancura de una vestidura lavada en la Sangre del Cordero (cfr. Ap 7,14). No debemos tener ni un momento de descanso, sabiendo que no todos han recibido aún la invitación a la Cena, o que otros la han olvidado o perdido en los tortuosos caminos de la vida de los hombres. Por eso, he dicho que “sueño con una opción misionera capaz de transformarlo todo, para que las costumbres, los estilos, los horarios, el lenguaje y toda estructura eclesial se convierta en un cauce adecuado para la evangelización del mundo actual más que para la autopreservación” (Evangelii gaudium, n. 27): para que todos puedan sentarse a la Cena del sacrificio del Cordero y vivir de Él.
6. Antes de nuestra respuesta a su invitación – mucho antes – está su deseo de nosotros: puede que ni siquiera seamos conscientes de ello, pero cada vez que vamos a Misa, el motivo principal es porque nos atrae el deseo que Él tiene de nosotros. Por nuestra parte, la respuesta posible, la ascesis más exigente es, como siempre, la de entregarnos a su amor, la de dejarnos atraer por Él. Ciertamente, nuestra comunión con el Cuerpo y la Sangre de Cristo ha sido deseada por Él en la última Cena.
7. El contenido del Pan partido es la cruz de Jesús, su sacrificio en obediencia amorosa al Padre. Si no hubiéramos tenido la última Cena, es decir, la anticipación ritual de su muerte, no habríamos podido comprender cómo la ejecución de su sentencia de muerte pudiera ser el acto de culto perfecto y agradable al Padre, el único y verdadero acto de culto. Unas horas más tarde, los Apóstoles habrían podido ver en la cruz de Jesús, si hubieran soportado su peso, lo que significaba “cuerpo entregado”, “sangre derramada”: y es de lo que hacemos memoria en cada Eucaristía. Cuando regresa, resucitado de entre los muertos, para partir el pan a los discípulos de Emaús y a los suyos, que habían vuelto a pescar peces y no hombres, en el lago de Galilea, ese gesto les abre sus ojos, los cura de la ceguera provocada por el horror de la cruz, haciéndolos capaces de “ver” al Resucitado, de creer en la Resurrección.
8. Si hubiésemos llegado a Jerusalén después de Pentecostés y hubiéramos sentido el deseo no sólo de tener noticias sobre Jesús de Nazaret, sino de volver a encontrarnos con Él, no habríamos tenido otra posibilidad que buscar a los suyos para escuchar sus palabras y ver sus gestos, más vivos que nunca. No habríamos tenido otra posibilidad de un verdadero encuentro con Él sino en la comunidad que celebra. Por eso, la Iglesia siempre ha custodiado, como su tesoro más precioso, el mandato del Señor: “haced esto en memoria mía”.
9. Desde los inicios, la Iglesia ha sido consciente que no se trataba de una representación, ni siquiera sagrada, de la Cena del Señor: no habría tenido ningún sentido y a nadie se le habría ocurrido “escenificar” – más aún bajo la mirada de María, la Madre del Señor – ese excelso momento de la vida del Maestro. Desde los inicios, la Iglesia ha comprendido, iluminada por el Espíritu Santo, que aquello que era visible de Jesús, lo que se podía ver con los ojos y tocar con las manos, sus palabras y sus gestos, lo concreto del Verbo encarnado, ha pasado a la celebración de los sacramentos. [1]
La Liturgia: lugar del encuentro con Cristo
10. Aquí está toda la poderosa belleza de la Liturgia. Si la Resurrección fuera para nosotros un concepto, una idea, un pensamiento; si el Resucitado fuera para nosotros el recuerdo del recuerdo de otros, tan autorizados como los Apóstoles, si no se nos diera también la posibilidad de un verdadero encuentro con Él, sería como declarar concluida la novedad del Verbo hecho carne. En cambio, la Encarnación, además de ser el único y novedoso acontecimiento que la historia conozca, es también el método que la Santísima Trinidad ha elegido para abrirnos el camino de la comunión. La fe cristiana, o es un encuentro vivo con Él, o no es.
11. La Liturgia nos garantiza la posibilidad de tal encuentro. No nos sirve un vago recuerdo de la última Cena, necesitamos estar presentes en aquella Cena, poder escuchar su voz, comer su Cuerpo y beber su Sangre: le necesitamos a Él. En la Eucaristía y en todos los Sacramentos se nos garantiza la posibilidad de encontrarnos con el Señor Jesús y de ser alcanzados por el poder de su Pascua. El poder salvífico del sacrificio de Jesús, de cada una de sus palabras, de cada uno de sus gestos, mirada, sentimiento, nos alcanza en la celebración de los Sacramentos. Yo soy Nicodemo y la Samaritana, el endemoniado de Cafarnaún y el paralítico en casa de Pedro, la pecadora perdonada y la hemorroisa, la hija de Jairo y el ciego de Jericó, Zaqueo y Lázaro; el ladrón y Pedro, perdonados. El Señor Jesús que inmolado, ya no vuelve a morir; y sacrificado, vive para siempre, [2] continúa perdonándonos, curándonos y salvándonos con el poder de los Sacramentos. A través de la encarnación, es el modo concreto por el que nos ama; es el modo con el que sacia esa sed de nosotros que ha declarado en la cruz (Jn 19,28).
12. Nuestro primer encuentro con su Pascua es el acontecimiento que marca la vida de todos nosotros, los creyentes en Cristo: nuestro bautismo. No es una adhesión mental a su pensamiento o la sumisión a un código de comportamiento impuesto por Él: es la inmersión en su pasión, muerte, resurrección y ascensión. No es un gesto mágico: la magia es lo contrario a la lógica de los Sacramentos porque pretende tener poder sobre Dios y, por esa razón, viene del tentador. En perfecta continuidad con la Encarnación, se nos da la posibilidad, en virtud de la presencia y la acción del Espíritu, de morir y resucitar en Cristo.
13. El modo en que acontece es conmovedor. La plegaria de bendición del agua bautismal[3] nos revela que Dios creó el agua precisamente en vista del bautismo. Quiere decir que mientras Dios creaba el agua pensaba en el bautismo de cada uno de nosotros, y este pensamiento le ha acompañado en su actuar a lo largo de la historia de la salvación cada vez que, con un designio concreto, ha querido servirse del agua. Es como si, después de crearla, hubiera querido perfeccionarla para llegar a ser el agua del bautismo. Y por eso la ha querido colmar del movimiento de su Espíritu que se cernía sobre ella (cfr. Gén 1,2) para que contuviera en germen el poder de santificar; la ha utilizado para regenerar a la humanidad en el diluvio (cfr. Gén 6,1-9,29); la ha dominado separándola para abrir una vía de liberación en el Mar Rojo (cfr. Ex 14); la ha consagrado en el Jordán sumergiendo la carne del Verbo, impregnada del Espíritu (cfr. Mt 3,13-17; Mc 1,9-11; Lc 3,21-22). Finalmente, la ha mezclado con la sangre de su Hijo, don del Espíritu inseparablemente unido al don de la vida y la muerte del Cordero inmolado por nosotros, y desde el costado traspasado la ha derramado sobre nosotros (Jn 19,34). En esta agua fuimos sumergidos para que, por su poder, pudiéramos ser injertados en el Cuerpo de Cristo y, con Él, resucitar a la vida inmortal (cfr. Rom 6,1-11).
La Iglesia: sacramento del Cuerpo de Cristo
14. Como nos ha recordado el Concilio Vaticano II (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 5) citando la Escritura, los Padres y la Liturgia – columnas de la verdadera Tradición – del costado de Cristo dormido en la cruz brotó el admirable sacramento de toda la Iglesia.[4] El paralelismo entre el primer y el nuevo Adán es sorprendente: así como del costado del primer Adán, tras haber dejado caer un letargo sobre él, Dios formó a Eva, así del costado del nuevo Adán, dormido en el sueño de la muerte, nace la nueva Eva, la Iglesia. El estupor está en las palabras que, podríamos imaginar, el nuevo Adán hace suyas mirando a la Iglesia: “Esta sí que es hueso de mis huesos y carne de mi carne” (Gén 2,23). Por haber creído en la Palabra y haber descendido en el agua del bautismo, nos hemos convertido en hueso de sus huesos, en carne de su carne.
15. Sin esta incorporación, no hay posibilidad de experimentar la plenitud del culto a Dios. De hecho, uno sólo es el acto de culto perfecto y agradable al Padre, la obediencia del Hijo cuya medida es su muerte en cruz. La única posibilidad de participar en su ofrenda es ser hijos en el Hijo. Este es el don que hemos recibido. El sujeto que actúa en la Liturgia es siempre y solo Cristo-Iglesia, el Cuerpo Místico de Cristo.
El sentido teológico de la Liturgia
16. Debemos al Concilio – y al movimiento litúrgico que lo ha precedido – el redescubrimiento de la comprensión teológica de la Liturgia y de su importancia en la vida de la Iglesia: los principios generales enunciados por la Sacrosanctum Concilium, así como fueron fundamentales para la reforma, continúan siéndolo para la promoción de la participación plena, consciente, activa y fructuosa en la celebración (cfr. Sacrosanctum Concilium, nn. 11.14), “fuente primaria y necesaria de donde han de beber los fieles el espíritu verdaderamente cristiano” (Sacrosanctum Concilium, n. 14). Con esta carta quisiera simplemente invitar a toda la Iglesia a redescubrir, custodiar y vivir la verdad y la fuerza de la celebración cristiana. Quisiera que la belleza de la celebración cristiana y de sus necesarias consecuencias en la vida de la Iglesia no se vieran desfiguradas por una comprensión superficial y reductiva de su valor o, peor aún, por su instrumentalización al servicio de alguna visión ideológica, sea cual sea. La oración sacerdotal de Jesús en la última cena para que todos sean uno (Jn 17,21), juzga todas nuestras divisiones en torno al Pan partido, sacramento de piedad, signo de unidad, vínculo de caridad.[5]
17. He advertido en varias ocasiones sobre una tentación peligrosa para la vida de la Iglesia que es la “mundanidad espiritual”: he hablado de ella ampliamente en la Exhortación Evangelii gaudium (nn. 93-97), identificando el gnosticismo y el neopelagianismo como los dos modos vinculados entre sí, que la alimentan.
El primero reduce la fe cristiana a un subjetivismo que encierra al individuo “en la inmanencia de su propia razón o de sus sentimientos” (Evangelii gaudium, n. 94).
El segundo anula el valor de la gracia para confiar sólo en las propias fuerzas, dando lugar a “un elitismo narcisista y autoritario, donde en lugar de evangelizar lo que se hace es analizar y clasificar a los demás, y en lugar de facilitar el acceso a la gracia se gastan las energías en controlar” (Evangelii gaudium, n. 94).
Estas formas distorsionadas del cristianismo pueden tener consecuencias desastrosas para la vida de la Iglesia.
18. Resulta evidente, en todo lo que he querido recordar anteriormente, que la Liturgia es, por su propia naturaleza, el antídoto más eficaz contra estos venenos. Evidentemente, hablo de la Liturgia en su sentido teológico y – ya lo afirmaba Pío XII – no como un ceremonial decorativo… o un mero conjunto de leyes y de preceptos… que ordena el cumplimiento de los ritos.[6]
19. Si el gnosticismo nos intoxica con el veneno del subjetivismo, la celebración litúrgica nos libera de la prisión de una autorreferencialidad alimentada por la propia razón o sentimiento: la acción celebrativa no pertenece al individuo sino a Cristo-Iglesia, a la totalidad de los fieles unidos en Cristo. La Liturgia no dice “yo” sino “nosotros”, y cualquier limitación a la amplitud de este “nosotros” es siempre demoníaca. La Liturgia no nos deja solos en la búsqueda de un presunto conocimiento individual del misterio de Dios, sino que nos lleva de la mano, juntos, como asamblea, para conducirnos al misterio que la Palabra y los signos sacramentales nos revelan. Y lo hace, en coherencia con la acción de Dios, siguiendo el camino de la Encarnación, a través del lenguaje simbólico del cuerpo, que se extiende a las cosas, al espacio y al tiempo.
Redescubrir cada día la belleza de la verdad de la celebración cristiana
20. Si el neopelagianismo nos intoxica con la presunción de una salvación ganada con nuestras fuerzas, la celebración litúrgica nos purifica proclamando la gratuidad del don de la salvación recibida en la fe. Participar en el sacrificio eucarístico no es una conquista nuestra, como si pudiéramos presumir de ello ante Dios y ante nuestros hermanos. El inicio de cada celebración me recuerda quién soy, pidiéndome que confiese mi pecado e invitándome a rogar a la bienaventurada siempre Virgen María, a los ángeles, a los santos y a todos los hermanos y hermanas, que intercedan por mí ante el Señor: ciertamente no somos dignos de entrar en su casa, necesitamos una palabra suya para salvarnos (cfr. Mt 8,8). No tenemos otra gloria que la cruz de nuestro Señor Jesucristo (cfr. Gál 6,14). La Liturgia no tiene nada que ver con un moralismo ascético: es el don de la Pascua del Señor que, aceptado con docilidad, hace nueva nuestra vida. No se entra en el cenáculo sino por la fuerza de atracción de su deseo de comer la Pascua con nosotros: Desiderio desideravi hoc Pascha manducare vobiscum, antequam patiar (Lc 22,15).
21. Sin embargo, tenemos que tener cuidado: para que el antídoto de la Liturgia sea eficaz, se nos pide redescubrir cada día la belleza de la verdad de la celebración cristiana. Me refiero, una vez más, a su significado teológico, como ha descrito admirablemente el n. 7 de la Sacrosanctum Concilium: la Liturgia es el sacerdocio de Cristo revelado y entregado a nosotros en su Pascua, presente y activo hoy a través de los signos sensibles (agua, aceite, pan, vino, gestos, palabras) para que el Espíritu, sumergiéndonos en el misterio pascual, transforme toda nuestra vida, conformándonos cada vez más con Cristo.
22. El redescubrimiento continuo de la belleza de la Liturgia no es la búsqueda de un esteticismo ritual, que se complace sólo en el cuidado de la formalidad exterior de un rito, o se satisface con una escrupulosa observancia de las rúbricas. Evidentemente, esta afirmación no pretende avalar, de ningún modo, la actitud contraria que confunde lo sencillo con una dejadez banal, lo esencial con la superficialidad ignorante, lo concreto de la acción ritual con un funcionalismo práctico exagerado.
23. Seamos claros: hay que cuidar todos los aspectos de la celebración (espacio, tiempo, gestos, palabras, objetos, vestiduras, cantos, música, ...) y observar todas las rúbricas: esta atención sería suficiente para no robar a la asamblea lo que le corresponde, es decir, el misterio pascual celebrado en el modo ritual que la Iglesia establece. Pero, incluso, si la calidad y la norma de la acción celebrativa estuvieran garantizadas, esto no sería suficiente para que nuestra participación fuera plena.
Asombro ante el misterio pascual, parte esencial de la acción litúrgica
24. Si faltara el asombro por el misterio pascual que se hace presente en la concreción de los signos sacramentales, podríamos correr el riesgo de ser realmente impermeables al océano de gracia que inunda cada celebración. No bastan los esfuerzos, aunque loables, para una mejor calidad de la celebración, ni una llamada a la interioridad: incluso ésta corre el riesgo de quedar reducida a una subjetividad vacía si no acoge la revelación del misterio cristiano. El encuentro con Dios no es fruto de una individual búsqueda interior, sino que es un acontecimiento regalado: podemos encontrar a Dios por el hecho novedoso de la Encarnación que, en la última cena, llega al extremo de querer ser comido por nosotros. ¿Cómo se nos puede escapar lamentablemente la fascinación por la belleza de este don?
25. Cuando digo asombro ante el misterio pascual, no me refiero en absoluto a lo que, me parece, se quiere expresar con la vaga expresión “sentido del misterio”: a veces, entre las supuestas acusaciones contra la reforma litúrgica está la de haberlo – se dice – eliminado de la celebración. El asombro del que hablo no es una especie de desorientación ante una realidad oscura o un rito enigmático, sino que es, por el contrario, admiración ante el hecho de que el plan salvífico de Dios nos haya sido revelado en la Pascua de Jesús (cfr. Ef 1,3-14), cuya eficacia sigue llegándonos en la celebración de los “misterios”, es decir, de los sacramentos. Sin embargo, sigue siendo cierto que la plenitud de la revelación tiene, en comparación con nuestra finitud humana, un exceso que nos trasciende y que tendrá su cumplimiento al final de los tiempos, cuando vuelva el Señor. Si el asombro es verdadero, no hay ningún riesgo de que no se perciba la alteridad de la presencia de Dios, incluso en la cercanía que la Encarnación ha querido. Si la reforma hubiera eliminado ese “sentido del misterio”, más que una acusación sería un mérito. La belleza, como la verdad, siempre genera asombro y, cuando se refiere al misterio de Dios, conduce a la adoración.
26. El asombro es parte esencial de la acción litúrgica porque es la actitud de quien sabe que está ante la peculiaridad de los gestos simbólicos; es la maravilla de quien experimenta la fuerza del símbolo, que no consiste en referirse a un concepto abstracto, sino en contener y expresar, en su concreción, lo que significa.
La necesidad de una seria y vital formación litúrgica
27. Es ésta, pues, la cuestión fundamental: ¿cómo recuperar la capacidad de vivir plenamente la acción litúrgica? La reforma del Concilio tiene este objetivo. El reto es muy exigente, porque el hombre moderno – no en todas las culturas del mismo modo – ha perdido la capacidad de confrontarse con la acción simbólica, que es una característica esencial del acto litúrgico.
28. La posmodernidad – en la que el hombre se siente aún más perdido, sin referencias de ningún tipo, desprovisto de valores, porque se han vuelto indiferentes, huérfano de todo, en una fragmentación en la que parece imposible un horizonte de sentido – sigue cargando con la pesada herencia que nos dejó la época anterior, hecha de individualismo y subjetivismo (que recuerdan, una vez más, al pelagianismo y al gnosticismo), así como por un espiritualismo abstracto que contradice la naturaleza misma del hombre, espíritu encarnado y, por tanto, en sí mismo capaz de acción y comprensión simbólica.
29. La Iglesia reunida en el Concilio ha querido confrontarse con la realidad de la modernidad, reafirmando su conciencia de ser sacramento de Cristo, luz de las gentes (Lumen Gentium), poniéndose a la escucha atenta de la palabra de Dios (Dei Verbum) y reconociendo como propios los gozos y las esperanzas (Gaudium et spes) de los hombres de hoy. Las grandes Constituciones conciliares son inseparables, y no es casualidad que esta única gran reflexión del Concilio Ecuménico – la más alta expresión de la sinodalidad de la Iglesia, de cuya riqueza estoy llamado a ser, con todos vosotros, custodio – haya partido de la Liturgia (Sacrosanctum Concilium).
30. Concluyendo la segunda sesión del Concilio (4 de diciembre de 1963) san Pablo VI se expresaba así:[7]
«Por lo demás, no ha quedado sin fruto la ardua e intrincada discusión, puestos que uno de los temas, el primero que fue examinado, y en un cierto sentido el primero también por la excelencia intrínseca y por su importancia para la vida de la Iglesia, el de la sagrada Liturgia, ha sido terminado y es hoy promulgado por Nos solemnemente. Nuestro espíritu exulta de gozo ante este resultado. Nos rendimos en esto el homenaje conforme a la escala de valores y deberes: Dios en el primer puesto; la oración, nuestra primera obligación; la Liturgia, la primera fuente de la vida divina que se nos comunica, la primera escuela de nuestra vida espiritual, el primer don que podemos hacer al pueblo cristiano, que con nosotros que cree y ora, y la primera invitación al mundo para que desate en oración dichosa y veraz su lengua muda y sienta el inefable poder regenerador de cantar con nosotros las alabanzas divinas y las esperanzas humanas, por Cristo Señor en el Espíritu Santo».
31. En esta carta no puedo detenerme en la riqueza de cada una de las expresiones, que dejo a vuestra meditación. Si la Liturgia es “la cumbre a la cual tiende la acción de la Iglesia y, al mismo tiempo, la fuente de donde mana toda su fuerza” (Sacrosanctum Concilium, n. 10), comprendemos bien lo que está en juego en la cuestión litúrgica. Sería banal leer las tensiones, desgraciadamente presentes en torno a la celebración, como una simple divergencia entre diferentes sensibilidades sobre una forma ritual. La problemática es, ante todo, eclesiológica. No veo cómo se puede decir que se reconoce la validez del Concilio – aunque me sorprende un poco que un católico pueda presumir de no hacerlo – y no aceptar la reforma litúrgica nacida de la Sacrosanctum Concilium, que expresa la realidad de la Liturgia en íntima conexión con la visión de la Iglesia descrita admirablemente por la Lumen Gentium. Por ello – como expliqué en la carta enviada a todos los Obispos – me sentí en el deber de afirmar que “los libros litúrgicos promulgados por los Santos Pontífices Pablo VI y Juan Pablo II, en conformidad con los decretos del Concilio Vaticano II, como única expresión de la lex orandi del Rito Romano” (Motu Proprio Traditionis custodes, art. 1).
La no aceptación de la reforma, así como una comprensión superficial de la misma, nos distrae de la tarea de encontrar las respuestas a la pregunta que repito: ¿cómo podemos crecer en la capacidad de vivir plenamente la acción litúrgica? ¿Cómo podemos seguir asombrándonos de lo que ocurre ante nuestros ojos en la celebración? Necesitamos una formación litúrgica seria y vital.
32. Volvamos de nuevo al Cenáculo de Jerusalén: en la mañana de Pentecostés nació la Iglesia, célula inicial de la nueva humanidad. Sólo la comunidad de hombres y mujeres reconciliados, porque han sido perdonados; vivos, porque Él está vivo; verdaderos, porque están habitados por el Espíritu de la verdad, puede abrir el angosto espacio del individualismo espiritual.
33. Es la comunidad de Pentecostés la que puede partir el Pan con la certeza de que el Señor está vivo, resucitado de entre los muertos, presente con su palabra, con sus gestos, con la ofrenda de su Cuerpo y de su Sangre. Desde aquel momento, la celebración se convierte en el lugar privilegiado, no el único, del encuentro con Él. Sabemos que, sólo gracias a este encuentro, el hombre llega a ser plenamente hombre. Sólo la Iglesia de Pentecostés puede concebir al hombre como persona, abierto a una relación plena con Dios, con la creación y con los hermanos.
34. Aquí se plantea la cuestión decisiva de la formación litúrgica. Dice Guardini: “Así se perfila también la primera tarea práctica: sostenidos por esta transformación interior de nuestro tiempo, debemos aprender nuevamente a situarnos ante la relación religiosa como hombres en sentido pleno.[8] Esto es lo que hace posible la Liturgia, en esto es en lo que nos debemos formar. El propio Guardini no duda en afirmar que, sin formación litúrgica, “las reformas en el rito y en el texto no sirven de mucho”.[9] No pretendo ahora tratar exhaustivamente el riquísimo tema de la formación litúrgica: sólo quiero ofrecer algunos puntos de reflexión. Creo que podemos distinguir dos aspectos: la formación para la Liturgia y la formación desde la Liturgia. El primero está en función del segundo, que es esencial.
35. Es necesario encontrar cauces para una formación como estudio de la Liturgia: a partir del movimiento litúrgico, se ha hecho mucho en este sentido, con valiosas aportaciones de muchos estudiosos e instituciones académicas. Sin embargo, es necesario difundir este conocimiento fuera del ámbito académico, de forma accesible, para que todo creyente crezca en el conocimiento del sentido teológico de la Liturgia – ésta es la cuestión decisiva y fundante de todo conocimiento y de toda práctica litúrgica –, así como en el desarrollo de la celebración cristiana, adquiriendo la capacidad de comprender los textos eucológicos, los dinamismos rituales y su valor antropológico.
36. Pienso en la normalidad de nuestras asambleas que se reúnen para celebrar la Eucaristía el día del Señor, domingo tras domingo, Pascua tras Pascua, en momentos concretos de la vida de las personas y de las comunidades, en diferentes edades de la vida: los ministros ordenados realizan una acción pastoral de primera importancia cuando llevan de la mano a los fieles bautizados para conducirlos a la repetida experiencia de la Pascua. Recordemos siempre que es la Iglesia, Cuerpo de Cristo, el sujeto celebrante, no sólo el sacerdote. El conocimiento que proviene del estudio es sólo el primer paso para poder entrar en el misterio celebrado. Es evidente que, para poder guiar a los hermanos y a las hermanas, los ministros que presiden la asamblea deben conocer el camino, tanto por haberlo estudiado en el mapa de la ciencia teológica, como por haberlo frecuentado en la práctica de una experiencia de fe viva, alimentada por la oración, ciertamente no sólo como un compromiso que cumplir. En el día de la ordenación, todo presbítero siente decir a su obispo: «Considera lo que realizas e imita lo que conmemoras, y conforma tu vida con el misterio de la cruz del Señor».[10]
37. La configuración del estudio de la Liturgia en los seminarios debe tener en cuenta también la extraordinaria capacidad que la celebración tiene en sí misma para ofrecer una visión orgánica del conocimiento teológico. Cada disciplina de la teología, desde su propia perspectiva, debe mostrar su íntima conexión con la Liturgia, en virtud de la cual se revela y realiza la unidad de la formación sacerdotal (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 16). Una configuración litúrgico-sapiencial de la formación teológica en los seminarios tendría ciertamente efectos positivos, también en la acción pastoral. No hay ningún aspecto de la vida eclesial que no encuentre su culmen y su fuente en ella. La pastoral de conjunto, orgánica, integrada, más que ser el resultado de la elaboración de complicados programas, es la consecuencia de situar la celebración eucarística dominical, fundamento de la comunión, en el centro de la vida de la comunidad. La comprensión teológica de la Liturgia no permite, de ninguna manera, entender estas palabras como si todo se redujera al aspecto cultual. Una celebración que no evangeliza, no es auténtica, como no lo es un anuncio que no lleva al encuentro con el Resucitado en la celebración: ambos, pues, sin el testimonio de la caridad, son como un metal que resuena o un címbalo que aturde (cfr. 1Cor 13,1).
38. Para los ministros y para todos los bautizados, la formación litúrgica, en su primera acepción, no es algo que se pueda conquistar de una vez para siempre: puesto que el don del misterio celebrado supera nuestra capacidad de conocimiento, este compromiso deberá ciertamente acompañar la formación permanente de cada uno, con la humildad de los pequeños, actitud que abre al asombro.
39. Una última observación sobre los seminarios: además del estudio, deben ofrecer también la oportunidad de experimentar una celebración, no sólo ejemplar desde el punto de vista ritual, sino auténtica, vital, que permita vivir esa verdadera comunión con Dios, a la cual debe tender también el conocimiento teológico. Sólo la acción del Espíritu puede perfeccionar nuestro conocimiento del misterio de Dios, que no es cuestión de comprensión mental, sino de una relación que toca la vida. Esta experiencia es fundamental para que, una vez sean ministros ordenados, puedan acompañar a las comunidades en el mismo camino de conocimiento del misterio de Dios, que es misterio de amor.
40. Esta última consideración nos lleva a reflexionar sobre el segundo significado con el que podemos entender la expresión “formación litúrgica”. Me refiero al ser formados, cada uno según su vocación, por la participación en la celebración litúrgica. Incluso el conocimiento del estudio que acabo de mencionar, para que no se convierta en racionalismo, debe estar en función de la puesta en práctica de la acción formativa de la Liturgia en cada creyente en Cristo.
41. De cuanto hemos dicho sobre la naturaleza de la Liturgia, resulta evidente que el conocimiento del misterio de Cristo, cuestión decisiva para nuestra vida, no consiste en una asimilación mental de una idea, sino en una real implicación existencial con su persona. En este sentido, la Liturgia no tiene que ver con el “conocimiento”, y su finalidad no es primordialmente pedagógica (aunque tiene un gran valor pedagógico: cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 33) sino que es la alabanza, la acción de gracias por la Pascua del Hijo, cuya fuerza salvadora llega a nuestra vida. La celebración tiene que ver con la realidad de nuestro ser dóciles a la acción del Espíritu, que actúa en ella, hasta que Cristo se forme en nosotros (cfr. Gál 4,19). La plenitud de nuestra formación es la conformación con Cristo. Repito: no se trata de un proceso mental y abstracto, sino de llegar a ser Él. Esta es la finalidad para la cual se ha dado el Espíritu, cuya acción es siempre y únicamente confeccionar el Cuerpo de Cristo. Es así con el pan eucarístico, es así para todo bautizado llamado a ser, cada vez más, lo que recibió como don en el bautismo, es decir, ser miembro del Cuerpo de Cristo. León Magno escribe: «Nuestra participación en el Cuerpo y la Sangre de Cristo no tiende a otra cosa sino a convertirnos en lo que comemos».[11]
42. Esta implicación existencial tiene lugar – en continuidad y coherencia con el método de la Encarnación – por vía sacramental. La Liturgia está hecha de cosas que son exactamente lo contrario de abstracciones espirituales: pan, vino, aceite, agua, perfume, fuego, ceniza, piedra, tela, colores, cuerpo, palabras, sonidos, silencios, gestos, espacio, movimiento, acción, orden, tiempo, luz. Toda la creación es manifestación del amor de Dios: desde que ese mismo amor se ha manifestado en plenitud en la cruz de Jesús, toda la creación es atraída por Él. Es toda la creación la que es asumida para ser puesta al servicio del encuentro con el Verbo encarnado, crucificado, muerto, resucitado, ascendido al Padre. Así como canta la plegaria sobre el agua para la fuente bautismal, al igual que la del aceite para el sagrado crisma y las palabras de la presentación del pan y el vino, frutos de la tierra y del trabajo del hombre.
43. La Liturgia da gloria a Dios no porque podamos añadir algo a la belleza de la luz inaccesible en la que Él habita (cfr. 1Tim 6,16) o a la perfección del canto angélico, que resuena eternamente en las moradas celestiales. La Liturgia da gloria a Dios porque nos permite, aquí en la tierra, ver a Dios en la celebración de los misterios y, al verlo, revivir por su Pascua: nosotros, que estábamos muertos por los pecados, hemos revivido por la gracia con Cristo (cfr. Ef 2,5), somos la gloria de Dios. Ireneo, doctor unitatis, nos lo recuerda: «La gloria de Dios es el hombre vivo, y la vida del hombre consiste en la visión de Dios: si ya la revelación de Dios a través de la creación da vida a todos los seres que viven en la tierra, ¡cuánto más la manifestación del Padre a través del Verbo es causa de vida para los que ven a Dios!».[12]
44. Guardini escribe: «Con esto se delinea la primera tarea del trabajo de la formación litúrgica: el hombre ha de volver a ser capaz de símbolos».[13] Esta tarea concierne a todos, ministros ordenados y fieles. La tarea no es fácil, porque el hombre moderno es analfabeto, ya no sabe leer los símbolos, apenas conoce de su existencia. Esto también ocurre con el símbolo de nuestro cuerpo. Es un símbolo porque es la unión íntima del alma y el cuerpo, visibilidad del alma espiritual en el orden de lo corpóreo, y en ello consiste la unicidad humana, la especificidad de la persona irreductible a cualquier otra forma de ser vivo. Nuestra apertura a lo trascendente, a Dios, es constitutiva: no reconocerla nos lleva inevitablemente a un no conocimiento, no sólo de Dios, sino también de nosotros mismos. No hay más que ver la forma paradójica en que se trata al cuerpo, o bien tratado casi obsesivamente en pos del mito de la eterna juventud, o bien reducido a una materialidad a la cual se le niega toda dignidad. El hecho es que no se puede dar valor al cuerpo sólo desde el cuerpo. Todo símbolo es a la vez poderoso y frágil: si no se respeta, si no se trata como lo que es, se rompe, pierde su fuerza, se vuelve insignificante.
Ya no tenemos la mirada de San Francisco, que miraba al sol –al que llamaba hermano porque así lo sentía –, lo veía bellu e radiante cum grande splendore y, lleno de asombro, cantaba: de te Altissimu, porta significatione.[14] Haber perdido la capacidad de comprender el valor simbólico del cuerpo y de toda criatura hace que el lenguaje simbólico de la Liturgia sea casi inaccesible para el hombre moderno. No se trata, sin embargo, de renunciar a ese lenguaje: no se puede renunciar a él porque es el que la Santísima Trinidad ha elegido para llegar a nosotros en la carne del Verbo. Se trata más bien de recuperar la capacidad de plantear y comprender los símbolos de la Liturgia. No hay que desesperar, porque en el hombre esta dimensión, como acabo de decir, es constitutiva y, a pesar de los males del materialismo y del espiritualismo – ambos negación de la unidad cuerpo y alma –, está siempre dispuesta a reaparecer, como toda verdad.
45. Entonces, la pregunta que nos hacemos es ¿cómo volver a ser capaces de símbolos? ¿Cómo volver a saber leerlos para vivirlos? Sabemos muy bien que la celebración de los sacramentos es – por la gracia de Dios – eficaz en sí misma (ex opere operato), pero esto no garantiza una plena implicación de las personas sin un modo adecuado de situarse frente al lenguaje de la celebración. La lectura simbólica no es una cuestión de conocimiento mental, de adquisición de conceptos, sino una experiencia vital.
46. Ante todo, debemos recuperar la confianza en la creación. Con esto quiero decir que las cosas – con las cuales “se hacen” los sacramentos – vienen de Dios, están orientadas a Él y han sido asumidas por Él, especialmente con la encarnación, para que pudieran convertirse en instrumentos de salvación, vehículos del Espíritu, canales de gracia. Aquí se advierte la distancia, tanto de la visión materialista, como espiritualista. Si las cosas creadas son parte irrenunciable de la acción sacramental que lleva a cabo nuestra salvación, debemos situarnos ante ellas con una mirada nueva, no superficial, respetuosa, agradecida. Desde el principio, contienen la semilla de la gracia santificante de los sacramentos.
47. Otra cuestión decisiva – reflexionando de nuevo sobre cómo nos forma la Liturgia – es la educación necesaria para adquirir la actitud interior, que nos permita situar y comprender los símbolos litúrgicos. Lo expreso de forma sencilla. Pienso en los padres y, más aún, en los abuelos, pero también en nuestros párrocos y catequistas. Muchos de nosotros aprendimos de ellos el poder de los gestos litúrgicos, como la señal de la cruz, el arrodillarse o las fórmulas de nuestra fe. Quizás puede que no tengamos un vivo recuerdo de ello, pero podemos imaginar fácilmente el gesto de una mano más grande que toma la pequeña mano de un niño y acompañándola lentamente mientras traza, por primera vez, la señal de nuestra salvación. El movimiento va acompañado de las palabras, también lentas, como para apropiarse de cada instante de ese gesto, de todo el cuerpo: «En el nombre del Padre... y del Hijo... y del Espíritu Santo... Amén». Para después soltar la mano del niño y, dispuesto a acudir en su ayuda, ver cómo repite él solo ese gesto ya entregado, como si fuera un hábito que crecerá con él, vistiéndolo de la manera que sólo el Espíritu conoce. A partir de ese momento, ese gesto, su fuerza simbólica, nos pertenece o, mejor dicho, pertenecemos a ese gesto, nos da forma, somos formados por él. No es necesario hablar demasiado, no es necesario haber entendido todo sobre ese gesto: es necesario ser pequeño, tanto al entregarlo, como al recibirlo. El resto es obra del Espíritu. Así hemos sido iniciados en el lenguaje simbólico. No podemos permitir que nos roben esta riqueza. A medida que crecemos, podemos tener más medios para comprender, pero siempre con la condición de seguir siendo pequeños.
Ars celebrandi
48. Un modo para custodiar y para crecer en la comprensión vital de los símbolos de la Liturgia es, ciertamente, cuidar el arte de celebrar. Esta expresión también es objeto de diferentes interpretaciones. Se entiende más claramente teniendo en cuenta el sentido teológico de la Liturgia descrito en el número 7 de Sacrosanctum Concilium, al cual nos hemos referido varias veces. El ars celebrandi no puede reducirse a la mera observancia de un aparato de rúbricas, ni tampoco puede pensarse en una fantasiosa – a veces salvaje – creatividad sin reglas. El rito es en sí mismo una norma, y la norma nunca es un fin en sí misma, sino que siempre está al servicio de la realidad superior que quiere custodiar.
49. Como cualquier arte, requiere diferentes conocimientos.
En primer lugar, la comprensión del dinamismo que describe la Liturgia. El momento de la acción celebrativa es el lugar donde, a través del memorial, se hace presente el misterio pascual para que los bautizados, en virtud de su participación, puedan experimentarlo en su vida: sin esta comprensión, se cae fácilmente en el “exteriorismo” (más o menos refinado) y en el rubricismo (más o menos rígido).
Es necesario, pues, conocer cómo actúa el Espíritu Santo en cada celebración: el arte de celebrar debe estar en sintonía con la acción del Espíritu. Sólo así se librará de los subjetivismos, que son el resultado de la prevalencia de las sensibilidades individuales, y de los culturalismos, que son incorporaciones sin criterio de elementos culturales, que nada tienen que ver con un correcto proceso de inculturación.
Por último, es necesario conocer la dinámica del lenguaje simbólico, su peculiaridad, su eficacia.
50. De estas breves observaciones se desprende que el arte de celebrar no se puede improvisar. Como cualquier arte, requiere una aplicación asidua. Un artesano sólo necesita la técnica; un artista, además de los conocimientos técnicos, no puede carecer de inspiración, que es una forma positiva de posesión: el verdadero artista no posee un arte, ni es poseído por él. Uno no aprende el arte de celebrar porque asista a un curso de oratoria o de técnicas de comunicación persuasiva (no juzgo las intenciones, veo los efectos). Toda herramienta puede ser útil, pero siempre debe estar sujeta a la naturaleza de la Liturgia y a la acción del Espíritu. Es necesaria una dedicación diligente a la celebración, dejando que la propia celebración nos transmita su arte. Guardini escribe: «Debemos darnos cuenta de lo profundamente arraigados que estamos todavía en el individualismo y el subjetivismo, de lo poco acostumbrados que estamos a la llamada de las cosas grandes y de lo pequeña que es la medida de nuestra vida religiosa. Hay que despertar el sentido de la grandeza de la oración, la voluntad de implicar también nuestra existencia en ella. Pero el camino hacia estas metas es la disciplina, la renuncia a un sentimentalismo blando; un trabajo serio, realizado en obediencia a la Iglesia, en relación con nuestro ser y nuestro comportamiento religioso».[15] Así es como se aprende el arte de la celebración.
51. Al hablar de este tema, podemos pensar que sólo concierne a los ministros ordenados que ejercen el servicio de la presidencia. En realidad, es una actitud a la que están llamados a vivir todos los bautizados. Pienso en todos los gestos y palabras que pertenecen a la asamblea: reunirse, caminar en procesión, sentarse, estar de pie, arrodillarse, cantar, estar en silencio, aclamar, mirar, escuchar. Son muchas las formas en que la asamblea, como un solo hombre (Neh 8,1), participa en la celebración. Realizar todos juntos el mismo gesto, hablar todos a la vez, transmite a los individuos la fuerza de toda la asamblea. Es una uniformidad que no sólo no mortifica, sino que, por el contrario, educa a cada fiel a descubrir la auténtica singularidad de su personalidad, no con actitudes individualistas, sino siendo conscientes de ser un solo cuerpo. No se trata de tener que seguir un protocolo litúrgico: se trata más bien de una “disciplina” – en el sentido utilizado por Guardini – que, si se observa con autenticidad, nos forma: son gestos y palabras que ponen orden en nuestro mundo interior, haciéndonos experimentar sentimientos, actitudes, comportamientos. No son el enunciado de un ideal en el que inspirarnos, sino una acción que implica al cuerpo en su totalidad, es decir, ser unidad de alma y cuerpo.
52. Entre los gestos rituales que pertenecen a toda la asamblea, el silencio ocupa un lugar de absoluta importancia. Varias veces se prescribe expresamente en las rúbricas: toda la celebración eucarística está inmersa en el silencio que precede a su inicio y marca cada momento de su desarrollo ritual. En efecto, está presente en el acto penitencial; después de la invitación a la oración; en la Liturgia de la Palabra (antes de las lecturas, entre las lecturas y después de la homilía); en la plegaria eucarística; después de la comunión.[16] No es un refugio para esconderse en un aislamiento intimista, padeciendo la ritualidad como si fuera una distracción: tal silencio estaría en contradicción con la esencia misma de la celebración. El silencio litúrgico es mucho más: es el símbolo de la presencia y la acción del Espíritu Santo que anima toda la acción celebrativa, por lo que, a menudo, constituye la culminación de una secuencia ritual. Precisamente porque es un símbolo del Espíritu, tiene el poder de expresar su acción multiforme. Así, retomando los momentos que he recordado anteriormente, el silencio mueve al arrepentimiento y al deseo de conversión; suscita la escucha de la Palabra y la oración; dispone a la adoración del Cuerpo y la Sangre de Cristo; sugiere a cada uno, en la intimidad de la comunión, lo que el Espíritu quiere obrar en nuestra vida para conformarnos con el Pan partido. Por eso, estamos llamados a realizar con extremo cuidado el gesto simbólico del silencio: en él nos da forma el Espíritu.
53. Cada gesto y cada palabra contienen una acción precisa que es siempre nueva, porque encuentra un momento siempre nuevo en nuestra vida. Permitidme explicarlo con un sencillo ejemplo. Nos arrodillamos para pedir perdón; para doblegar nuestro orgullo; para entregar nuestras lágrimas a Dios; para suplicar su intervención; para agradecerle un don recibido: es siempre el mismo gesto, que expresa esencialmente nuestra pequeñez ante Dios. Sin embargo, realizado en diferentes momentos de nuestra vida, modela nuestra profunda interioridad y posteriormente se manifiesta externamente en nuestra relación con Dios y con nuestros hermanos. Arrodillarse debe hacerse también con arte, es decir, con plena conciencia de su significado simbólico y de la necesidad que tenemos de expresar, mediante este gesto, nuestro modo de estar en presencia del Señor. Si todo esto es cierto para este simple gesto, ¿cuánto más para la celebración de la Palabra? ¿Qué arte estamos llamados a aprender al proclamar la Palabra, al escucharla, al hacerla inspiración de nuestra oración, al hacer que se haga vida? Todo ello merece el máximo cuidado, no formal, exterior, sino vital, interior, porque cada gesto y cada palabra de la celebración expresada con “arte” forma la personalidad cristiana del individuo y de la comunidad.
54. Si bien es cierto que el ars celebrandi concierne a toda la asamblea que celebra, no es menos cierto que los ministros ordenados deben cuidarlo especialmente. Visitando comunidades cristianas he comprobado, a menudo, que su forma de vivir la celebración está condicionada – para bien, y desgraciadamente también para mal – por la forma en que su párroco preside la asamblea. Podríamos decir que existen diferentes “modelos” de presidencia. He aquí una posible lista de actitudes que, aunque opuestas, caracterizan a la presidencia de forma ciertamente inadecuada: rigidez austera o creatividad exagerada; misticismo espiritualizador o funcionalismo práctico; prisa precipitada o lentitud acentuada; descuido desaliñado o refinamiento excesivo; afabilidad sobreabundante o impasibilidad hierática. A pesar de la amplitud de este abanico, creo que la inadecuación de estos modelos tiene una raíz común: un exagerado personalismo en el estilo celebrativo que, en ocasiones, expresa una mal disimulada manía de protagonismo. Esto suele ser más evidente cuando nuestras celebraciones se difunden en red, cosa que no siempre es oportuno y sobre la que deberíamos reflexionar. Eso sí, no son estas las actitudes más extendidas, pero las asambleas son objeto de ese “maltrato” frecuentemente.
55. Se podría decir mucho sobre la importancia y el cuidado de la presidencia. En varias ocasiones me he detenido en la exigente tarea de la homilía.[17] Me limitaré ahora a algunas consideraciones más amplias, queriendo, de nuevo, reflexionar con vosotros sobre cómo somos formados por la Liturgia. Pienso en la normalidad de las Misas dominicales en nuestras comunidades: me refiero, pues, a los presbíteros, pero implícitamente a todos los ministros ordenados.
56. El presbítero vive su participación propia durante la celebración en virtud del don recibido en el sacramento del Orden: esta tipología se expresa precisamente en la presidencia. Como todos los oficios que está llamado a desempeñar, éste no es, primariamente, una tarea asignada por la comunidad, sino la consecuencia de la efusión del Espíritu Santo recibida en la ordenación, que le capacita para esta tarea. El presbítero también es formado al presidir la asamblea que celebra.
57. Para que este servicio se haga bien – con arte – es de fundamental importancia que el presbítero tenga, ante todo, la viva conciencia de ser, por misericordia, una presencia particular del Resucitado. El ministro ordenado es en sí mismo uno de los modos de presencia del Señor que hacen que la asamblea cristiana sea única, diferente de cualquier otra (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 7). Este hecho da profundidad “sacramental” – en sentido amplio – a todos los gestos y palabras de quien preside. La asamblea tiene derecho a poder sentir en esos gestos y palabras el deseo que tiene el Señor, hoy como en la última cena, de seguir comiendo la Pascua con nosotros. Por tanto, el Resucitado es el protagonista, y no nuestra inmadurez, que busca asumir un papel, una actitud y un modo de presentarse, que no le corresponde. El propio presbítero se ve sobrecogido por este deseo de comunión que el Señor tiene con cada uno: es como si estuviera colocado entre el corazón ardiente de amor de Jesús y el corazón de cada creyente, objeto de su amor. Presidir la Eucaristía es sumergirse en el horno del amor de Dios. Cuando se comprende o, incluso, se intuye esta realidad, ciertamente ya no necesitamos un directorio que nos dicte el adecuado comportamiento. Si lo necesitamos, es por la dureza de nuestro corazón. La norma más excelsa y, por tanto, más exigente, es la realidad de la propia celebración eucarística, que selecciona las palabras, los gestos, los sentimientos, haciéndonos comprender si son o no adecuados a la tarea que han de desempeñar. Evidentemente, esto tampoco se puede improvisar: es un arte, requiere la aplicación del sacerdote, es decir, la frecuencia asidua del fuego del amor que el Señor vino a traer a la tierra (cfr. Lc 12,49).
58. Cuando la primera comunidad parte el pan en obediencia al mandato del Señor, lo hace bajo la mirada de María, que acompaña los primeros pasos de la Iglesia: “perseveraban unánimes en la oración, junto con algunas mujeres y María, la madre de Jesús” (Hch 1,14). La Virgen Madre “supervisa” los gestos de su Hijo encomendados a los Apóstoles. Como ha conservado en su seno al Verbo hecho carne, después de acoger las palabras del ángel Gabriel, la Virgen conserva también ahora en el seno de la Iglesia aquellos gestos que conforman el cuerpo de su Hijo. El presbítero, que en virtud del don recibido por el sacramento del Orden repite esos gestos, es custodiado en las entrañas de la Virgen. ¿Necesitamos una norma que nos diga cómo comportarnos?
59. Convertidos en instrumentos para que arda en la tierra el fuego de su amor, custodiados en las entrañas de María, Virgen hecha Iglesia (como cantaba san Francisco), los presbíteros se dejan modelar por el Espíritu que quiere llevar a término la obra que comenzó en su ordenación. La acción del Espíritu les ofrece la posibilidad de ejercer la presidencia de la asamblea eucarística con el temor de Pedro, consciente de su condición de pecador (cfr. Lc 5,1-11), con la humildad fuerte del siervo sufriente (cfr. Is 42 ss), con el deseo de “ser comido” por el pueblo que se les confía en el ejercicio diario de su ministerio.
60. La propia celebración educa a esta cualidad de la presidencia; repetimos, no es una adhesión mental, aunque toda nuestra mente, así como nuestra sensibilidad, estén implicadas en ella. El presbítero está, por tanto, formado para presidir mediante las palabras y los gestos que la Liturgia pone en sus labios y en sus manos.
No se sienta en un trono[18], porque el Señor reina con la humildad de quien sirve.
No roba la centralidad del altar, signo de Cristo, de cuyo lado, traspasado en la cruz, brotó sangre y agua, inicio de los sacramentos de la Iglesia y centro de nuestra alabanza y acción de gracias.[19]
Al acercarse al altar para la ofrenda, se enseña al presbítero la humildad y el arrepentimiento con las palabras: «Acepta, Señor, nuestro corazón contrito y nuestro espíritu humilde; que este sea hoy nuestro sacrificio y que sea agradable en tu presencia, Señor, Dios nuestro».[20]
No puede presumir de sí mismo por el ministerio que se le ha confiado, porque la Liturgia le invita a pedir ser purificado, con el signo del agua: «Lava del todo mi delito, Señor, y limpia mi pecado».[21]
Las palabras que la Liturgia pone en sus labios tienen distintos significados, que requieren tonalidades específicas: por la importancia de estas palabras, se pide al presbítero un verdadero ars dicendi. Éstas dan forma a sus sentimientos interiores, ya sea en la súplica al Padre en nombre de la asamblea, como en la exhortación dirigida a la asamblea, así como en las aclamaciones junto con toda la asamblea.
Con la plegaria eucarística – en la que participan también todos los bautizados escuchando con reverencia y silencio e interviniendo con aclamaciones[22] – el que preside tiene la fuerza, en nombre de todo el pueblo santo, de recordar al Padre la ofrenda de su Hijo en la última cena, para que ese inmenso don se haga de nuevo presente en el altar. Participa en esa ofrenda con la ofrenda de sí mismo. El presbítero no puede hablar al Padre de la última cena sin participar en ella. No puede decir: «Tomad y comed todos de él, porque esto es mi Cuerpo, que será entregado por vosotros», y no vivir el mismo deseo de ofrecer su propio cuerpo, su propia vida por el pueblo a él confiado. Esto es lo que ocurre en el ejercicio de su ministerio.
El presbítero es formado continuamente en la acción celebrativa por todo esto y mucho más.
* * *
61. He querido ofrecer simplemente algunas reflexiones que ciertamente no agotan el inmenso tesoro de la celebración de los santos misterios. Pido a todos los obispos, presbíteros y diáconos, a los formadores de los seminarios, a los profesores de las facultades teológicas y de las escuelas de teología, y a todos los catequistas, que ayuden al pueblo santo de Dios a beber de la que siempre ha sido la fuente principal de la espiritualidad cristiana. Estamos continuamente llamados a redescubrir la riqueza de los principios generales expuestos en los primeros números de la Sacrosanctum Concilium, comprendiendo el íntimo vínculo entre la primera Constitución conciliar y todas las demás. Por eso, no podemos volver a esa forma ritual que los Padres Conciliares, cum Petro y sub Petro, sintieron la necesidad de reformar, aprobando, bajo la guía del Espíritu y según su conciencia de pastores, los principios de los que nació la reforma. Los santos Pontífices Pablo VI y Juan Pablo II, al aprobar los libros litúrgicos reformados ex decreto Sacrosancti Œcumenici Concilii Vaticani II, garantizaron la fidelidad de la reforma al Concilio. Por eso, escribí Traditionis Custodes, para que la Iglesia pueda elevar, en la variedad de lenguas, una única e idéntica oración capaz de expresar su unidad.[23] Esta unidad que, como ya he escrito, pretendo ver restablecida en toda la Iglesia de Rito Romano.
62. Quisiera que esta carta nos ayudara a reavivar el asombro por la belleza de la verdad de la celebración cristiana, a recordar la necesidad de una auténtica formación litúrgica y a reconocer la importancia de un arte de la celebración, que esté al servicio de la verdad del misterio pascual y de la participación de todos los bautizados, cada uno con la especificidad de su vocación.
Toda esta riqueza no está lejos de nosotros: está en nuestras iglesias, en nuestras fiestas cristianas, en la centralidad del domingo, en la fuerza de los sacramentos que celebramos. La vida cristiana es un continuo camino de crecimiento: estamos llamados a dejarnos formar con alegría y en comunión.
63. Por eso, me gustaría dejaros una indicación más para proseguir en nuestro camino. Os invito a redescubrir el sentido del año litúrgico y del día del Señor: también esto es una consigna del Concilio (cfr. Sacrosanctum Concilium, nn. 102-111).
64. A la luz de lo que hemos recordado anteriormente, entendemos que el año litúrgico es la posibilidad de crecer en el conocimiento del misterio de Cristo, sumergiendo nuestra vida en el misterio de su Pascua, mientras esperamos su vuelta. Se trata de una verdadera formación continua. Nuestra vida no es una sucesión casual y caótica de acontecimientos, sino un camino que, de Pascua en Pascua, nos conforma a Él mientras esperamos la gloriosa venida de nuestro Salvador Jesucristo.[24]
65. En el correr del tiempo, renovado por la Pascua, cada ocho días la Iglesia celebra, en el domingo, el acontecimiento de la salvación. El domingo, antes de ser un precepto, es un regalo que Dios hace a su pueblo (por eso, la Iglesia lo protege con un precepto). La celebración dominical ofrece a la comunidad cristiana la posibilidad de formarse por medio de la Eucaristía. De domingo a domingo, la Palabra del Resucitado ilumina nuestra existencia queriendo realizar en nosotros aquello para lo que ha sido enviada (cfr. Is 55,10-11). De domingo a domingo, la comunión en el Cuerpo y la Sangre de Cristo quiere hacer también de nuestra vida un sacrificio agradable al Padre, en la comunión fraterna que se transforma en compartir, acoger, servir. De domingo a domingo, la fuerza del Pan partido nos sostiene en el anuncio del Evangelio en el que se manifiesta la autenticidad de nuestra celebración.
Abandonemos las polémicas para escuchar juntos lo que el Espíritu dice a la Iglesia, mantengamos la comunión, sigamos asombrándonos por la belleza de la Liturgia. Se nos ha dado la Pascua, conservemos el deseo continuo que el Señor sigue teniendo de poder comerla con nosotros. Bajo la mirada de María, Madre de la Iglesia.
Dado en Roma, en San Juan de Letrán, a 29 de junio, solemnidad de los Santos Pedro y Pablo, Apóstoles, del año 2022, décimo de mi pontificado.
FRANCISCO
¡Tiemble el hombre todo entero, estremézcase el mundo todo
y exulte el cielo cuando Cristo, el Hijo de Dios vivo,
se encuentra sobre el altar en manos del sacerdote!
¡Oh celsitud admirable y condescendencia asombrosa!
¡Oh sublime humildad, oh humilde sublimidad:
que el Señor del mundo universo, Dios e Hijo de Dios,
se humilla hasta el punto de esconderse,
para nuestra salvación, bajo una pequeña forma de pan!
Mirad, hermanos, la humildad de Dios
y derramad ante Él vuestros corazones;
humillaos también vosotros, para ser enaltecidos por Él.
En conclusión:
nada de vosotros retengáis para vosotros mismos
a fin de enteros os reciba el que todo entero se os entrega.
San Francisco de Asís
Carta a toda la Orden II,26-29
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[1] Cfr. Leo Magnus, Sermo LXXIV: De ascensione Domini II, 1: «quod […] Redemptoris nostri conspicuum fuit, in sacramenta transivit».
[2] Præfatio paschalis III, Missale Romanum (2008) p.367: «Qui immolátus iam non móritur, sed semper vivit occísus».
[3] Cfr. Missale Romanum (2008) p. 532.
[4] Cfr. Augustinus, Enarrationes in psalmos. Ps. 138,2; Oratio post septimam lectionem, Vigilia Paschalis, Missale Romanum (2008) p. 359; Super oblata, Pro Ecclesia (B), Missale Romanum (2008) p. 1076.
[5] Cfr. Augustinus, In Ioannis Evangelium tractatus XXVI,13.
[6] Litteræ encyclicæ Mediator Dei (20 Novembris 1947) en AAS 39 (1947) 532.
[7] AAS 56 (1964) 34.
[8] R. Guardini, Liturgische Bildung (1923) en Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) p. 43.
[9] R. Guardini, Der Kultakt und die gegenwärtige Aufgabe der Liturgischen Bildung (1964) en Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) p. 14.
[10] De Ordinatione Episcopi, Presbyterorum et Diaconorum (1990) p. 95: «Agnosce quod ages, imitare quod tractabis, et vitam tuam mysterio dominicæ crucis conforma».
[11] Leo Magnus, Sermo XII: De Passione III, 7.
[12] Irenæus Lugdunensis, Adversus hæreses IV, 20, 7.
[13] R. Guardini, Liturgische Bildung (1923) en Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) p. 36.
[14] Cantico delle Creature, Fonti Francescane, n. 263.
[15] R. Guardini, Liturgische Bildung (1923) en Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) p. 99.
[16] Cfr. Institutio Generalis Missalis Romani, nn. 45; 51; 54-56; 66; 71; 78; 84; 88; 271.
[17] Ver Exhortación apostólica Evangelii gaudium (24 Noviembre 2013), nn. 135-144.
[18] Cfr. Institutio Generalis Missalis Romani, n. 310.
[19] Prex dedicationis en Ordo dedicationis ecclesiæ et altaris (1977) p. 102.
[20] Missale Romanum (2008) p. 515: «In spiritu humilitatis et in animo contrito suscipiamur a te, Domine; et sic fiat sacrificium nostrum in conspectu tuo hodie, ut placeat tibi, Domine Deus».
[21] Missale Romanum (2008) p. 515: «Lava me, Domine, ab iniquitate mea, et a peccato meo munda me».
[22] Cfr. Institutio Generalis Missalis Romani, nn. 78-79.
[23] Cfr. Paulus VI, Constitutio apostolica Missale Romanum (3 Aprilis 1969) en AAS 61 (1969) 222.
[24] Missale Romanum (2008) p. 598: «… exspectantes beatam spem et adventum Salvatoris nostri Iesu Christi».
[01027-ES.01] [Texto original: Italiano]