Sala Stampa

www.vatican.va

Sala Stampa Back Top Print Pdf
Sala Stampa


Santa Messa nel IV centenario della Canonizzazione dei Santi Isidoro l’Agricoltore, Ignazio di Loyola, Francesco Saverio, Teresa di Gesù e Filippo Neri, 12.03.2022


Omelia del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Traduzione in lingua araba

Questo pomeriggio, nella Chiesa del Santissimo Nome di Gesù a Roma, ha avuto luogo la Santa Messa in occasione del IV centenario della Canonizzazione dei Santi Isidoro l’Agricoltore, Ignazio di Loyola, Francesco Saverio, Teresa di Gesù e Filippo Neri alla presenza del Santo Padre Francesco. La Santa Messa è stata presieduta da P. Arturo Sosa Abascal, S.I., Preposito Generale della Compagnia di Gesù.

Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa ha pronunciato nel corso della Celebrazione Eucaristica:

Omelia del Santo Padre

Il Vangelo della Trasfigurazione che abbiamo ascoltato riporta quattro azioni di Gesù. Ci farà bene seguire ciò che compie il Signore, per trovare nei suoi gesti le indicazioni per il nostro cammino.

Il primo verbo – la prima di queste azioni di Gesù – è prendere con sé: Gesù, dice il testo, «prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni» (Lc 9,28). È Lui che prende i discepoli, ed è Lui che ci ha presi accanto a sé: ci ha amati, scelti e chiamati. All’inizio c’è il mistero di una grazia, di un’elezione. Non siamo stati anzitutto noi a prendere una decisione, ma è stato Lui a chiamarci, senza meriti nostri. Prima di essere quelli che hanno fatto della vita un dono, siamo coloro che hanno ricevuto un dono gratuito: il dono della gratuità dell’amore di Dio. Il nostro cammino, fratelli e sorelle, ha bisogno di ripartire ogni giorno da qui, dalla grazia originaria. Gesù ha fatto con noi come con Pietro, Giacomo e Giovanni: ci ha chiamati per nome e ci ha presi con sé. Ci ha presi per mano. Per portarci dove? Al suo monte santo, dove già ora ci vede per sempre con Lui, trasfigurati dal suo amore. Lì ci conduce la grazia, questa grazia primaria, primigenia. Allora, quando proviamo amarezze e delusioni, quando ci sentiamo sminuiti o incompresi, non perdiamoci in rimpianti e nostalgie. Sono tentazioni che paralizzano il cammino, sentieri che non portano da nessuna parte. Prendiamo invece in mano la nostra vita a partire dalla grazia, dalla chiamata. E accogliamo il regalo di vivere ogni giorno come un tratto di strada verso la meta.

Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni: il Signore prende i discepoli insieme, li prende come comunità. La nostra chiamata è radicata nella comunione. Per ripartire ogni giorno, oltre al mistero della nostra elezione, occorre far rivivere la grazia di essere stati presi nella Chiesa, nostra santa Madre gerarchica, e per la Chiesa, nostra sposa. Siamo di Gesù, e lo siamo come Compagnia. Non stanchiamoci di chiedere la forza di costruire e custodire la comunione, di essere lievito di fraternità per la Chiesa e per il mondo. Non siamo solisti in cerca di ascolto, ma fratelli disposti in coro. Sentiamo con la Chiesa, respingiamo la tentazione di inseguire successi personali e di fare cordate. Non lasciamoci risucchiare dal clericalismo che irrigidisce e dalle ideologie che dividono. I Santi che ricordiamo oggi sono stati dei pilastri di comunione. Ci ricordano che in Cielo, nonostante le nostre diversità di caratteri e di vedute, siamo chiamati a stare insieme. E se saremo per sempre uniti lassù, perché non cominciare fin da ora quaggiù? Accogliamo la bellezza di essere stati presi insieme da Gesù, chiamati insieme da Gesù. Questo è il primo verbo: prese.

Il secondo verbo: salire. Gesù «salì sul monte» (v. 28). La strada di Gesù non è in discesa, è un’ascesa. La luce della trasfigurazione non arriva in pianura, ma dopo un cammino faticoso. Per seguire Gesù bisogna dunque lasciare le pianure della mediocrità e le discese della comodità; bisogna lasciare le proprie abitudini rassicuranti per compiere un movimento di esodo. Infatti, salito sul monte, Gesù parla con Mosè ed Elia proprio «del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme» (v. 31). Mosè ed Elia erano saliti sul Sinai od Oreb dopo due esodi nel deserto (cfr Es 19; 1 Re 19); ora parlano con Gesù dell’esodo definitivo, quello della sua pasqua. Fratelli e sorelle, solo la salita della croce conduce alla meta della gloria. Questa è la strada: dalla croce alla gloria. La tentazione mondana è ricercare la gloria senza passare dalla croce. Noi vorremmo vie note, diritte e spianate, ma per trovare la luce di Gesù occorre continuamente uscire da sé stessi e salire dietro di Lui. Il Signore che, come abbiamo ascoltato, dall’inizio «condusse fuori» Abramo (Gen 15,5), invita anche noi a uscire e salire.

Per noi gesuiti l’uscita e la salita seguono un percorso specifico, che il monte ben simboleggia. Nella Scrittura la cima dei monti rappresenta l’estremità, il limite, il confine tra terra e cielo. E noi siamo chiamati a uscire per andare proprio lì, ai confini tra terra e cielo, lì dove l’uomo “affronta” Dio con fatica; a condividere la sua ricerca scomoda e il suo dubbio religioso. Lì dobbiamo essere e per farlo occorre uscire e salire. Mentre il nemico della natura umana vuole convincerci a tornare sempre sugli stessi passi, quelli della ripetitività sterile, della comodità, del già visto, lo Spirito suggerisce aperture, dà pace senza lasciare mai in pace, invia i discepoli agli estremi confini. Pensiamo a Francesco Saverio.

E mi viene in mente che per fare questa strada, questo cammino, bisogna lottare. Pensiamo al povero vecchio Abramo: lì, con il sacrificio, lottando contro gli avvoltoi che volevano mangiarsi l’offerta (cfr Gen 15,7-11). E lui, con il bastone, li cacciava via. Il povero vecchio. Guardiamo questo: lottare per difendere questo cammino, questa strada, questa nostra consacrazione al Signore.

Il discepolo di ogni ora si trova di fronte a questo bivio. E può fare come Pietro, che mentre Gesù parla di esodo, dice: «È bello essere qui» (v. 33). C’è sempre il pericolo di una fede statica, “parcheggiata”. Ho paura delle fedi “parcheggiate”. Il rischio è quello di ritenersi discepoli “per bene”, che in realtà non seguono Gesù ma restano fermi, passivi e, come i tre del Vangelo, senza accorgersi si assopiscono e dormono. Anche nel Getsemani, questi stessi discepoli, dormiranno. Pensiamo, fratelli e sorelle, che per chi segue Gesù non è tempo di dormire, di lasciarsi narcotizzare l’anima, di farsi anestetizzare dal clima consumistico e individualistico di oggi, per cui la vita va bene se va bene a me; per cui si parla e si teorizza, ma si perde di vista la carne dei fratelli, la concretezza del Vangelo. Un dramma del nostro tempo è chiudere gli occhi sulla realtà e girarsi dall’altra parte. Santa Teresa ci aiuti a uscire da noi stessi e a salire sul monte con Gesù, per accorgerci che Lui si rivela anche attraverso le piaghe dei fratelli, le fatiche dell’umanità, i segni dei tempi. Non avere paura di toccare le piaghe: sono le piaghe del Signore.

Gesù salì sul monte, dice il Vangelo, «a pregare» (v. 28). Ecco il terzo verbo, pregare. E «mentre pregava – prosegue il testo –, il suo volto cambiò d’aspetto» (v. 29). La trasfigurazione nasce dalla preghiera. Chiediamoci, magari dopo tanti anni di ministero, che cos’è oggi per noi, che cos’è oggi per me, pregare. Forse la forza dell’abitudine e una certa ritualità ci hanno portati a credere che la preghiera non trasformi l’uomo e la storia. Invece pregare è trasformare la realtà. È una missione attiva, un’intercessione continua. Non è distanza dal mondo, ma cambiamento del mondo. Pregare è portare il palpito della cronaca a Dio perché il suo sguardo si spalanchi sulla storia. Cos’è per noi pregare?

E ci farà bene oggi domandarci se la preghiera ci immerge in questa trasformazione; se getta una luce nuova sulle persone e trasfigura le situazioni. Perché se la preghiera è viva, “scardina dentro”, ravviva il fuoco della missione, riaccende la gioia, provoca continuamente a lasciarci inquietare dal grido sofferente del mondo. Chiediamoci: come stiamo portando nella preghiera la guerra in corso? E pensiamo alla preghiera di San Filippo Neri, che gli dilatava il cuore e gli faceva aprire le porte ai ragazzi di strada. O a Sant’Isidoro, che pregava nei campi e portava il lavoro agricolo nella preghiera.

Prendere in mano ogni giorno la nostra chiamata personale e la nostra storia comunitaria; salire verso i confini indicati da Dio uscendo da noi stessi; pregare per trasformare il mondo in cui siamo immersi. C’è infine il quarto verbo, che compare all’ultimo versetto del Vangelo odierno: «Restò Gesù solo» (v. 36). Restò Lui, mentre tutto era passato ed echeggiava solo “il testamento” del Padre: «Ascoltatelo» (v. 35). Il Vangelo termina riportandoci all’essenziale. Siamo spesso tentati, nella Chiesa e nel mondo, nella spiritualità come nella società, di far diventare primari tanti bisogni secondari. È una tentazione di ogni giorno far diventare primari tanti bisogni secondari. Rischiamo, in altre parole, di concentrarci su usi, abitudini e tradizioni che fissano il cuore su ciò che passa e fanno dimenticare quel che resta. Quanto è importante lavorare sul cuore, perché sappia distinguere ciò che è secondo Dio, e rimane, da quello che è secondo il mondo, e passa!

Cari fratelli e sorelle, il santo padre Ignazio ci aiuti a custodire il discernimento, nostra eredità preziosa, tesoro sempre attuale da riversare sulla Chiesa e sul mondo. Esso permette di “vedere nuove tutte le cose in Cristo”. È essenziale, per noi stessi e per la Chiesa, perché, come scriveva Pietro Favre, «tutto il bene che si possa realizzare, pensare od organizzare, si faccia con buon spirito e non con quello cattivo» (Memorial, Paris 1959, n. 51). Così sia.

[00367-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

L’Évangile de la Transfiguration que nous avons entendu rapporte quatre actions de Jésus. Cela nous fera du bien de suivre ce que fait le Seigneur, et trouver dans ses gestes des indications pour notre route.

Le premier verbe – la première de ces actions de Jésus – est prendre avec soi: Jésus, dit le texte, «prit avec lui Pierre, Jean et Jacques» (Lc 9, 28). C’est lui qui prend les disciples, et c’est lui qui nous a pris à ses côtés. Il nous a aimés, choisis et appelés. Au début, il y a le mystère d’une grâce, d’une élection. Ce n’est pas nous d’abord qui avons pris une décision, mais c’est Lui qui nous a appelés, sans mérite de notre part. Avant d’être ceux qui ont fait un don de leur vie, nous sommes ceux qui ont reçu un don gratuit: le don gratuit de l’amour de Dieu. Notre marche, frères et sœurs, doit recommencer chaque jour à partir de là, de la grâce originelle. Jésus a fait avec nous comme il a fait avec Pierre, Jacques et Jean: il nous a appelés par notre nom et il nous a pris avec Lui. Il nous a pris par la main. Pour nous emmener où? Sur sa sainte montagne, là où, dès maintenant, il nous veut pour toujours avec Lui, transfigurés par son amour. La grâce nous y conduit, cette grâce première, primitive. Alors, lorsque nous ressentons de l’amertume ou de la déception, lorsque nous nous sentons rabaissés ou incompris, nous ne devons pas nous perdre en regrets et en nostalgie. Ce sont des tentations qui paralysent la marche, des sentiers qui ne mènent nulle part. Prenons plutôt notre vie en main, à partir de la grâce, de l’appel. Et accueillons le don de vivre chaque jour comme une marche vers le but.

Il prit avec lui Pierre, Jacques et Jean: le Seigneur prend les disciples ensemble, il les prend en communauté. Notre appel est enraciné dans la communion. Pour recommencer chaque jour, en plus du mystère de notre élection, il nous faut raviver la grâce d’avoir été pris dans l’Eglise, notre sainte Mère hiérarchique, et pour l’Eglise, notre épouse. Nous appartenons à Jésus, mais en tant que Compagnie. Ne nous lassons pas de demander la force de construire et de garder la communion, d’être levain de fraternité pour l’Église et pour le monde.

Nous ne sommes pas des solistes qui cherchent à être écoutés, mais des frères disposés en chœur. Écoutons avec l’Église, rejetons la tentation de rechercher des succès personnels, et d’entrer dans des copinages. Ne nous laissons pas prendre par le cléricalisme qui raidit, et par les idéologies qui divisent. Les Saints dont nous faisons mémoire aujourd’hui ont été des piliers de communion. Ils nous rappellent qu’au Ciel, malgré notre diversité de caractères et de vues, nous sommes appelés à être ensemble. Et puisque nous serons unis pour toujours là-haut, pourquoi ne pas commencer dès maintenant ici-bas? Accueillons la beauté d’avoir été pris ensemble par Jésus, appelés ensemble par Jésus. Voilà donc le premier verbe: il prit.

Le deuxième verbe: gravir. Jésus «gravit la montagne» (v. 28). La route de Jésus n’est pas en descente, elle est en montée. La lumière de la transfiguration n’arrive pas dans la plaine, mais suite à une marche fatigante. Pour suivre Jésus il faut donc quitter les plaines de la médiocrité et les descentes du confort; il faut laisser ses habitudes rassurantes pour réaliser un mouvement d’exode. En effet, une fois monté sur la montagne, Jésus parle à Moïse et à Élie «de son départ qui allait s’accomplir à Jérusalem» (v. 31). Moïse et Elie étaient montés sur le Sinaï, l’Oreb, après deux exodes dans le désert (cf. Ex 19; 1 Rois 19). Maintenant ils parlent avec Jésus de l’exode définitif, celui de sa pâque. Frères et sœurs, seule la montée de la croix mène au but de la gloire. C’est la voie: de la croix à la gloire. La tentation du monde est de rechercher la gloire sans passer par la croix. Nous voudrions des chemins connus, droits et aplanis, mais pour trouver la lumière de Jésus, il faut sans cesse sortir de soi-même et monter à sa suite. Le Seigneur, comme nous l’avons entendu, «fit sortir» Abraham au commencement (Gn 15, 5), il nous invite également à sortir et à monter.

Pour nous jésuites, la sortie et la montée suivent un parcours bien précis que la montagne symbolise bien. Dans l’Écriture, le sommet des montagnes représente la limite, la frontière entre la terre et le ciel. Et nous sommes appelés à sortir pour aller là-bas, à la frontière entre la terre et le ciel, là où l’homme “affronte” Dieu avec grande peine. Nous sommes appelés à partager sa recherche inconfortable et son doute religieux. Nous devons être là et, pour ce faire, nous devons sortir et nous montrer. Alors que l’ennemi de la nature humaine veut nous convaincre de toujours revenir sur les mêmes pas, ceux de la répétition stérile, du confort, du déjà vu, l’Esprit suggère des ouvertures, il donne la paix sans jamais laisser en paix, il envoie les disciples jusqu’aux limites extrêmes. Pensons à François-Xavier.

Il me vient à l’esprit que pour prendre ce chemin, il faut lutter. Pensons au pauvre vieil Abraham : là, avec son sacrifice, luttant contre les vautours qui voulaient manger l'offrande (cf. Gn 15, 7-11). Et il les chassait avec son bâton. Le pauvre vieux. Regardons cela : lutter pour défendre ce chemin, cette voie, notre consécration au Seigneur.

De tout temps, le disciple se trouve à ce carrefour. Et il peut faire comme Pierre qui, alors que Jésus parle de l’exode, dit: «il est bon que nous soyons ici» (v. 33). Le danger d’une foi statique, “garée”, existe toujours. Je crains une foi “garée”. Le risque est de se considérer comme des disciples “honnêtes” qui ne suivent pas Jésus en réalité mais restent immobiles, passifs et, comme les trois de l’Évangile, s’assoupissent et s’endorment sans s’en rendre compte. À Gethsémani, ces mêmes disciples dormiront aussi. Pensons bien, frères et sœurs, que pour ceux qui suivent Jésus le moment n’est pas venu de dormir, de se laisser intoxiquer l’âme, de se laisser anesthésier par le climat consumériste et individualiste d’aujourd’hui, climat selon lequel la vie va bien si elle va bien pour moi; selon lequel celui qui parle et théorise, perd de vue la chair des frères, le caractère concret de l’Évangile. Un drame de notre temps consiste à fermer les yeux sur la réalité et se détourner. Que sainte Thérèse nous aide à sortir de nous-mêmes et à gravir la montagne avec Jésus, afin de nous rendre compte qu’Il se révèle aussi à travers les blessures de nos frères, les efforts de l’humanité, les signes des temps. Il ne faut pas avoir peur de toucher les plaies: ce sont les plaies du Seigneur.

Jésus a gravi la montagne, dit l’Évangile, «pour prier» (v. 28). Voici le troisième verbe, prier. Et «pendant qu’il priait – continue le texte –, l’aspect de son visage devint autre» (v. 29). La transfiguration naît de la prière. Demandons-nous, peut-être après de nombreuses années de ministère, ce que signifie prier pour nous, ce que signifie prier pour moi. Peut-être que la force de l’habitude et une certaine ritualité nous ont-elles amenés à penser que la prière ne transforme pas l’homme ni l’histoire. Cependant, la prière transforme la réalité. Elle est une mission active, une intercession continue. Elle n’éloigne pas du monde, mais change le monde. Prier, c’est apporter à Dieu le battement de cœur de l’actualité pour que son regard s’ouvre tout grand sur l’histoire. Pour nous, que signifie prier?

Et cela nous fera du bien aujourd’hui de nous demander si la prière nous plonge dans cette transformation; si elle apporte un éclairage nouveau sur les personnes et transfigure les situations. Car si la prière est vivante, elle “déstabilise intérieurement”, ravive le feu de la mission, rallume la joie, nous provoque sans cesse à nous laisser déranger par le cri souffrant du monde. Demandons-nous comment nous portons dans la prière la guerre en cours. Et pensons à la prière de saint Philippe Néri qui lui élargissait le cœur et lui faisait ouvrir les portes aux enfants de la rue. Ou bien à saint Isidore qui priait dans les champs et portait le travail agricole dans la prière.

Prendre en main chaque jour notre appel personnel et notre histoire communautaire; monter vers les limites indiquées par Dieu en sortant de nous-mêmes; prier pour transformer le monde dans lequel nous sommes plongés. Enfin, il y a le quatrième verbe, qui apparaît dans le dernier verset de l’Évangile: «Jésus se trouva seul» (v. 36). Il resta, alors que tout était fini et que résonnait seulement “le testament” du Père: «Écoutez-le» (v. 35). L’Évangile s’achève en nous ramenant à l’essentiel. Nous sommes souvent tentés, dans l’Église et dans le monde, dans la spiritualité comme dans la société, de faire passer pour primaires de nombreux besoins secondaires. C’est une tentation quotidienne, de faire passer pour primaires de nombreux besoins secondaires. En d’autres termes, nous risquons de nous concentrer sur des coutumes, des habitudes et des traditions qui fixent le cœur sur ce qui passe et qui nous font oublier ce qui reste. Combien il est important de travailler sur le cœur, afin qu’il sache distinguer ce qui est selon Dieu et demeure, de ce qui est selon le monde et qui passe!

Chers frères et sœurs, que le saint père Ignace nous aide à garder le discernement, notre précieux héritage, un trésor toujours actuel à reverser sur l’Église et sur le monde. Il nous permet de “voir toutes choses nouvelles dans le Christ”. Il est essentiel, pour nous-mêmes et pour l’Église, car, comme l’écrivait Pierre Favre, «tout le bien qui peut être réalisé, pensé ou organisé doit l’être dans un bon esprit, et non dans un esprit mauvais » (Mémorial, Paris 1959, n. 51). Ainsi soit-il.

[00367-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

Today’s Gospel of the Transfiguration presents us with four actions of Jesus. We would do well to dwell on them, in order to discover in these gestures clear directions for our own journey as his disciples.

The first verb, the first of these actions of Jesus, is to take with him. Luke tells us that Jesus “took with him Peter, James and John” (9:28). Jesus “takes” the disciples, and he ourselves as well, to be “with him”. Christ loved us, chose us and called us. Everything begins with the mystery of a grace, a choice, an “election”. The first decision was not ours; rather, Jesus called us, apart from any merit on our part. Before becoming men who make their lives a gift, we are persons who received a gift freely given: the free gift of God’s love. Our journey, brothers and sisters, needs to start anew each day from this initial grace. As he did with Peter, James and John, Jesus has called us by name and taken us with him. He took us by the hand. Where? To his holy mountain, where even now he sees us with himself forever, transfigured by his love. Grace, this first grace, leads us there. So, when we feel bitterness or disappointment, when we feel belittled or misunderstood, let us not wander off into complaints or nostalgia for bygone times. These are temptations that block our progress, that lead us nowhere. Instead, let us take our lives into our hands, starting anew with grace, in fidelity to our calling. Let us accept the gift of seeing each day as a step along the way towards our ultimate goal.

Jesus took with him Peter, James and John. The Lord takes the disciples together; he takes them as a community. Our vocation is grounded in communion. To start anew each day, we need to experience once more the mystery of our election and the grace of living in the Church, our hierarchical Mother, and for the Church, our spouse. We belong to Jesus, and we belong to him as a Society. Let us never tire of asking for the strength to form and foster communion, to be a leaven of fraternity for the Church and for the world. We are not soloists in search of an audience, but brothers arranged as a choir. Let us think with the Church and reject the temptation to be concerned about our own personal success or attainments. Let us not allow ourselves to be sucked into a clericalism that leads to rigidity or an ideology that leads to divisiveness. The saints we commemorate today were pillars of communion. They remind us that, for all our differences of character and viewpoint, we have been called to be together. If we will be forever united in heaven, why not begin here? Let us cherish the beauty of having been “taken”, brought together, called together, by Jesus. This is the first verb: take.

A second verb is go up. Jesus “went up the mountain” (v. 28). Jesus’ path is one of ascent, not descent. The light of the transfiguration is not seen on the plain, but only after a strenuous ascent. In following Jesus, we too need to leave the plains of mediocrity and the foothills of convenience; we need to abandon our reassuring routines and set out on an exodus. Jesus, after going up the mountain, speaks to Moses and Elijah precisely about the “exodus, which he was to accomplish in Jerusalem” (v. 31). Moses and Elijah had gone up to Sinai or Horeb after two “exodus” experiences in the desert (cf. Ex 19; 1 Kings 19); now they speak with Jesus about the definitive exodus, that of his Pasch. Brothers and sisters, only the ascent of the cross leads to the goal of glory. This is the way: from the cross to glory. The worldly temptation is to seek glory in bypassing the cross. We would prefer paths that are familiar, direct and smooth, but to encounter the light of Jesus we must continually leave ourselves behind and follow him upwards. The Lord who, as we heard, first “brought Abraham outside” (Gen 15:5), also invites us to move outwards and upwards.

For us Jesuits, this journey of moving outwards and upwards follows a specific path, nicely symbolized by the mountain. In Scripture, mountain peaks represent the extremity, the heights, the border between heaven and earth. We are called to go precisely there, to the border between heaven and earth where men and women “confront” God with their difficulties, so that we in turn can accompany them in their restless seeking and their religious doubt. That is where we need to be, and to do so, we have to go outwards and upwards. The enemy of human nature would persuade us to keep to the path of empty but comfortable routines and familiar landscapes, whereas the Spirit impels us to openness and to a peace that never leaves us in peace. He sends disciples to the utmost limits. We need think only of Francis Xavier.

In this journey, in following this path, I think of the need to struggle. Think of poor old Abraham, there with his sacrifice, fighting off the birds of prey that would devour it (cf. Gen 15:7-11). With his staff, he chases them away. Poor old man. Let us think about this: struggling to defend this path, this journey, this, our consecration to the Lord.

In every age, Christ’s disciples find themselves before this crossroads. We can act like Peter, who responds to Jesus’ prediction of his exodus by saying, “It is good to be here” (v. 33). This is the risk of a static faith, a “neatly parked” faith. I dread this kind of “parked” faith. We risk considering ourselves “respectable” disciples, but are not in fact following Jesus; instead, we passively stay put, and, without realizing it, doze off like the disciples in the Gospel. In Gethsemane too, the same disciples would fall asleep. Let us think, brothers and sisters, that for the followers of Jesus, now is not a time for sleeping, for letting our souls be sedated, anesthetized by today’s consumerist and individualistic culture, by the attitude of “life is good as long as it’s good for me”. In that way, we can continue speak and theorize, while losing sight of the flesh of our brothers and sisters, and the concreteness of the Gospel. One of the great tragedies of our time is the refusal to open our eyes to reality and instead to look the other way. Saint Teresa helps us to move beyond ourselves, to go up the mountain with the Lord, to realize that Jesus also reveals himself through the wounds of our brothers and sisters, the struggles of humanity, and the signs of the times. Do not be afraid to touch those wounds: they are the wounds of the Lord.

The Gospel tells us that Jesus went up the mountain “to pray” (v. 28). This is the third verb: to pray. “And as he was praying, the appearance of his countenance was altered, and his clothing became dazzling white” (v. 29). The Transfiguration was born of prayer. Let us ask ourselves, even after many years of ministry, what does it mean today for us, for me, to pray? Perhaps force of habit or a certain daily ritual has led us to think that prayer does not change individuals or history. Yet to pray is to change reality. Prayer is an active mission, a constant intercession. It is not distant from the world, but changes the world. To pray is to bring the beating heart of current affairs into God’s presence, so that his gaze will shine out upon history. What does it mean for us to pray?

We would do well today to ask ourselves if prayer immerses us in this change. Does it shed new light upon others and transfigure their situations? For if prayer is living, it “unhinges” us from within, reignites the fire of mission, rekindles our joy, and continually prompts us to allow ourselves to be troubled by the plea of all those who suffer in our world. Let us also ask: how we are bringing the present war to our prayers? We can look to the prayer of Saint Philip Neri, which expanded his heart and made him open his doors to the street children of the Rome of his time. Or to that of Saint Isidore, who prayed in the fields and brought his farm work to his prayer.

Taking up each day anew our individual calling and our community history; then going up towards the heights that God points out to us; and praying in order to change this world in which we are immersed.

Yet there is also a fourth verb, which appears in the last verse of today’s Gospel: “Jesus remained alone” (v. 36). He remained, while everything else passed away except for the echo of the Father’s “testimony”: “Listen to him” (v. 35). The Gospel concludes by leading us back to what is essential. We are often tempted, in the Church and in the world, in our spirituality and in our society, to give primary importance to many secondary needs. It is a daily temptation to make any number of secondary needs primary. In a word, we risk focusing on customs, habits and traditions that set our hearts on passing things and make us forget what remains. How important it is for us to work on our hearts, so that they can distinguish between the things of God that remain, and worldly things that pass away!

Dear brothers and sisters, may our holy father Ignatius help us to preserve discernment, our precious legacy, as an ever timely treasure to be poured out on the Church and on the world. For discernment enables us to “see anew all things in Christ”. Indeed, discernment is essential, so that, as Saint Peter Faber wrote, “the good that can be achieved, thought or organized, may be done with a good, not a malign, spirit” (cf. Memorial, Paris, 1959, n. 51). Amen.

[00367-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Das Evangelium von der Verklärung, das wir gerade gehört haben, erzählt von vier Handlungen Jesu. Es ist gut für uns, dem nachzugehen, was der Herr tut, um in seinen Gesten Hinweise für unseren eigenen Weg zu finden.

Das erste Verb – die erste dieser Handlungen Jesu – lautet mit sich nehmen: Jesus, so heißt es im Text, nahm Petrus, Jakobus und Johannes mit sich (vgl. Lk 9,28). Er ist es, der die Jünger mitnimmt, und er ist es, der uns in seine Nähe geholt hat. Er hat uns geliebt, erwählt und gerufen. Am Anfang steht das Geheimnis einer Gnade, einer Erwählung. Diese Entscheidung war zunächst einmal nicht unsere Entscheidung, sondern er war es, der uns gerufen hat, ohne unser Verdienst. Bevor wir unser Leben zu einem Geschenk gemacht haben, haben wir selbst ein unverdientes Geschenk erhalten: das Geschenk der Unentgeltlichkeit der Liebe Gottes. Unser Weg, liebe Brüder und Schwestern, muss jeden Tag von hier aus beginnen, von der ursprünglichen Gnade. Jesus hat mit uns gemacht, was er mit Petrus, Jakobus und Johannes gemacht hat: Er hat uns bei unserem Namen gerufen und uns mit sich genommen. Er hat uns bei der Hand genommen. Wo aber möchte er uns hinführen? Auf seinen heiligen Berg, wo er uns bereits jetzt für immer bei sich sieht, verklärt durch seine Liebe. Die Gnade führt uns dorthin, diese erste und ursprüngliche Gnade. Wenn wir also Bitterkeit und Enttäuschung erleben, wenn wir uns herabgesetzt oder unverstanden fühlen, sollten wir uns nicht in Bedauern und Nostalgie verlieren. Das sind Versuchungen, die uns auf unserem Weg lähmen, Pfade, die nirgendwo hinführen. Nehmen wir stattdessen – ausgehend von der Gnade und von unserer Berufung – unser Leben in die Hand. Und nehmen wir das Geschenk an, jeden Tag zu leben als einen Wegabschnitt auf das Ziel hin.

Er nahm Petrus, Jakobus und Johannes mit sich. Der Herr nimmt die Jünger gemeinsam mit, als Gemeinschaft. Unsere Berufung gründet in der Gemeinschaft. Um jeden Tag neu zu beginnen, müssen wir neben dem Geheimnis unserer Erwählung auch die Gnade wieder neu erleben, in die Kirche, unsere heilige hierarchische Mutter, aufgenommen worden zu sein, und für die Kirche, unsere Braut. Wir gehören zu Jesus, und wir gehören zu ihm als Gesellschaft. Lasst uns nicht müde werden, um die Kraft zu bitten, die Gemeinschaft aufzubauen und zu bewahren und Sauerteig der Brüderlichkeit für die Kirche und die Welt zu sein. Wir sind keine Solisten, die gehört werden wollen, sondern ein Chor von Brüdern. Lasst uns in kirchlicher Gesinnung der Versuchung widerstehen, persönlichen Erfolgen nachzujagen und Seilschaften zu bilden. Lasst uns nicht in einen Klerikalismus geraten, der erstarren lässt und in Ideologien, die spalten. Die Heiligen, derer wir heute gedenken, waren Säulen der Gemeinschaft. Sie erinnern uns daran, dass wir im Himmel trotz unserer Unterschiede im Charakter und in den Ansichten dazu berufen sind, zusammen zu sein. Und wenn wir dort oben für immer vereint sein werden, warum sollten wir dann nicht gleich hier unten anfangen? Machen wir uns bewusst, wie schön es ist, dass wir gemeinsam von Jesus mitgenommen, gemeinsam von Jesus berufen wurden! Dies ist das erste Verb: mit sich nehmen.

Das zweite Verb lautet hinaufsteigen. Jesus »stieg auf einen Berg« (V. 28). Der Weg Jesu führt nicht bergab, sondern nach oben. Das Licht der Verklärung erreicht einen nicht in der Ebene, sondern nach einem mühsamen Weg. Um Jesus nachzufolgen, muss man also die Ebenen der Mittelmäßigkeit und die Abhänge der Bequemlichkeit verlassen; man muss die eigenen beruhigenden Gewohnheiten ablegen, um einen Exodus zu vollziehen. Nachdem er auf den Berg gestiegen war, spricht Jesus mit Mose und Elia eben »von seinem Ende, das er in Jerusalem erfüllen sollte« (V. 31). Mose und Elia waren jeweils nach ihrem Exodus in die Wüste auf den Sinai bzw. den Horeb hinaufgestiegen (vgl. Ex 19; 1 Kön 19); nun sprechen sie mit Jesus über den endgültigen Exodus, den seines Todes und seiner Auferstehung. Brüder und Schwestern, nur der Aufstieg des Kreuzes führt zum Ziel der Herrlichkeit. Das ist der Weg: vom Kreuz zur Herrlichkeit. Die weltliche Versuchung besteht darin, die Herrlichkeit zu suchen, ohne vorher den Kreuzweg zu gehen. Wir wünschen uns bekannte, gerade und ebene Wege, aber um das Licht Jesu zu finden, müssen wir kontinuierlich aus uns herausgehen und in seiner Nachfolge hinaufsteigen. Der Herr, der, wie wir gehört haben, Abraham von Anfang an hinausgeführt hat (vgl. Gen 15,5), lädt auch uns ein, hinauszugehen und den Aufstieg zu wagen.

Für uns Jesuiten vollzieht sich dieses Hinausgehen und Hinaufsteigen auf eine besondere Weise, welche der Berg gut symbolisiert. In der Heiligen Schrift stehen die Gipfel der Berge für den Rand, die Grenze, den Übergang zwischen Erde und Himmel. Und wir sind gerufen, hinauszugehen und uns gerade dorthin zu begeben, an die Grenze zwischen Erde und Himmel, dorthin, wo der Mensch nur mit Mühe Gott begegnet; um seine mühevolle Suche und seine religiösen Zweifel zu begleiten. Dort müssen wir hin, und dazu müssen wir hinausgehen und hinaufsteigen. Während der Feind des Menschen uns davon überzeugen will, immer wieder den gleichen Schritten zu folgen, einer sterilen Wiederholung, der Bequemlichkeit, dem Altbekannten, regt der Geist Öffnung an, er schenkt Frieden ohne uns einfach in Frieden zu lassen, er sendet die Jünger bis an die äußersten Grenzen. Denken wir an Franz Xaver.

Und ich denke mir, dass man kämpfen muss, um einen solchen Weg zu gehen. Denken wir an den armen alten Abraham, dort beim Opfer, als er gegen die Geier kämpfte, die die Opfergaben fressen wollten (vgl. Gen 15,7-11). Und er verscheuchte sie mit seinem Stab. Der arme alte Mann. Betrachten wir dies: kämpfen, um diesen Weg zu verteidigen, diese unsere Weihe an den Herrn.

Die Jünger aller Zeiten stehen vor diesem Scheideweg. Und man kann es machen wie Petrus, der, während Jesus vom Exodus spricht, sagt: »Es ist gut, dass wir hier sind« (v. 33). Es besteht immer die Gefahr eines statischen Glaubens in „Parkposition“. Ich habe Angst vor einem solchen Glauben in „Parkposition“. Die Gefahr besteht darin, dass man sich für einen „guten“ Jünger hält, ohne dass man Jesus wirklich nachfolgt, dass man sich vielmehr unbeweglich und passiv verhält und, wie die drei im Evangelium, ohne es zu merken, eindöst und schläft. Auch in Gethsemane werden diese selben Jünger schlafen. Denken wir daran, liebe Brüder und Schwestern, dass es für diejenigen, die Jesus nachfolgen, jetzt nicht die Zeit ist zu schlafen, sich die Seele betäuben zu lassen, sich vom heutigen konsumorientierten und individualistischen Klima betäuben zu lassen, wonach das Leben gut ist, wenn es gut für mich ist; da wird geredet und theoretisiert, aber der Mensch aus Fleisch und Blut, unsere Brüder und Schwestern, und die Konkretheit des Evangeliums geraten aus dem Blick. Eines der Dramen unserer Zeit besteht darin, dass wir die Augen vor der Realität verschließen und uns abwenden. Möge die heilige Theresia uns helfen, aus uns selbst herauszugehen und mit Jesus auf den Berg zu steigen, damit wir erkennen, dass der Herr sich auch durch die Leiden unserer Brüder und Schwestern, die Nöte der Menschheit, die Zeichen der Zeit zu erkennen gibt. Habt keine Angst, diese Wunden zu berühren: es sind die Wunden des Herrn.

Jesus stieg auf den Berg, sagt das Evangelium, »um zu beten« (V. 28). Dies ist das dritte Verb, beten. Und »während er betete«, so der Text weiter, »veränderte sich das Aussehen seines Gesichtes« (V. 29). Die Verklärung entspringt dem Gebet. Fragen wir uns, vielleicht nach vielen Jahren im Dienst, welche Bedeutung das Beten heute für uns hat – welche Bedeutung es heute für mich hat. Vielleicht haben uns die Macht der Gewohnheit und eine gewisse Ritualisierung dazu verleitet zu glauben, dass das Gebet den Menschen und die Geschichte nicht verändert. Und doch verwandelt das Gebet die Wirklichkeit. Es ist aktive Mission, beständige Fürbitte. Es bedeutet nicht Entfernung von der Welt, sondern Veränderung der Welt. Beten heißt, den Puls der aktuellen Ereignisse vor Gott zu bringen, damit sich sein Blick auf die Geschichte weit öffnet. Welche Bedeutung hat das Beten für uns?

Und es ist gut für uns, wenn wir uns heute fragen, ob das Gebet uns in diese Verwandlung mithineinnimmt, ob es ein neues Licht auf die Menschen wirft und die Lebensumstände erhellt. Denn wenn das Gebet lebendig ist, hebt es einen „innerlich aus den Angeln“, es belebt das Feuer der Mission, es entfacht die Freude neu, es fordert uns immer wieder heraus, uns vom Hilferuf der Welt aufrütteln zu lassen. Fragen wir uns: Wie bringen wir den aktuellen Krieg in unserem Gebet vor Gott? Und denken wir an das Gebet des heiligen Philipp Neri, das sein Herz weit machte und ihn dazu bewegte, den Jugendlichen von der Straße die Türen zu öffnen. Oder an den heiligen Isidor, der auf den Feldern betete und die bäuerliche Arbeit in sein Gebet hineinnahm.

Jeden Tag unsere persönliche Berufung und unsere gemeinschaftliche Geschichte in die Hand nehmen; zu den von Gott gezeigten Grenzen hinaufsteigen, indem wir aus uns herausgehen; beten, um die Welt, in der wir leben, zu verändern. Schließlich gibt es noch ein viertes Verb, das im letzten Vers des heutigen Evangeliums vorkommt: „Jesus blieb allein zurück“ (vgl. V. 36). Er blieb, als alles vorübergegangen war und allein das „Vermächtnis“ des himmlischen Vaters noch nachklang: »Auf ihn sollt ihr hören« (V. 35). Das Evangelium endet damit, dass es uns wieder zum Wesentlichen zurückbringt. Wir sind oft versucht, in der Kirche und in der Welt, im geistlichen Bereich wie in der Gesellschaft, viele sekundäre Bedürfnisse als primär zu betrachten. Es ist eine alltägliche Versuchung, viele zweitrangige Bedürfnisse an die erste Stelle treten zu lassen. Mit anderen Worten: wir laufen Gefahr, uns auf Bräuche, Gewohnheiten und Traditionen zu konzentrieren, die unser Herz an das Vergängliche binden und uns das vergessen lassen, was bleibt. Wie wichtig ist die Bildung des Herzens, damit es unterscheiden kann, was Gott entspricht und bleibt, von dem, was der Welt entspricht und vergeht!

Liebe Brüder und Schwestern, möge unser heiliger Vater Ignatius uns helfen, die Gabe der Unterscheidung zu bewahren, unser kostbares Erbe, diesen Schatz, der zu allen Zeiten der Kirche und der Welt zukommen soll. Er befähigt uns, „alles neu zu sehen in Christus“. Er ist für uns selbst wie auch für die Kirche wesentlich, damit, wie Peter Faber schrieb, alles Gute, was man je tun, denken oder anordnen wird, vom guten Geist angeregt werde und nicht vom bösen (vgl. Memorial, Paris 1959, Nr. 51). Amen.

[00367-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

El Evangelio de la transfiguración que acabamos de escuchar relata cuatro acciones de Jesús. Será bueno fijarnos en lo que hace el Señor, para encontrar en sus gestos las indicaciones para nuestro camino.

El primer verbo —la primera de estas acciones de Jesús— es tomar consigo. Dice el texto que Jesús «tomó consigo a Pedro, Santiago y Juan» (Lc 9,28). Es Él quien tomó a los discípulos, y es Él quien nos ha tomado junto a sí. Nos ha amado, nos ha elegido y nos ha llamado. En el origen está el misterio de una gracia, de una elección. Ante todo, no hemos sido nosotros quienes tomamos una decisión, sino que fue Él quien nos llamó, sin ningún mérito de nuestra parte. Antes de ser aquellos que han hecho de su vida una ofrenda, somos quienes han recibido un regalo gratuito: el regalo de la gratuidad del amor de Dios. Hermanos y hermanas, nuestro camino tiene que empezar cada día desde aquí, desde la gracia original. Jesús ha hecho con nosotros lo mismo que con Pedro, Santiago y Juan: nos llamó por nuestro nombre y nos tomó con él. Nos ha tomado de la mano. ¿Para llevarnos a dónde? A su monte santo, donde ya desde ahora nos ve para siempre con Él, transfigurados por su amor. Ahí es donde nos lleva la gracia, esta gracia primaria, primigenia. Por eso, cuando experimentemos amargura y decepción, cuando nos sintamos menospreciados o incomprendidos, no caigamos en quejas y nostalgias. Son tentaciones que paralizan el camino, senderos que no llevan a ninguna parte. En cambio, a partir de la gracia, de la llamada, tomemos nuestra vida en nuestras manos. Y acojamos el regalo de vivir cada día como un tramo de camino hacia la meta.

Tomó consigo a Pedro, Santiago y Juan. El Señor toma a los discípulos juntos, los toma como comunidad. Nuestra llamada está arraigada en la comunión. Para empezar cada día, además del misterio de nuestra elección, necesitamos revivir la gracia de haber sido acogidos en la Iglesia, nuestra santa Madre jerárquica, y por la Iglesia, nuestra esposa. Pertenecemos a Jesús, y le pertenecemos como Compañía. No nos cansemos de pedir la fuerza para construir y conservar la comunión, para ser fermento de fraternidad para la Iglesia y para el mundo. No somos solistas que buscan ser escuchados, sino hermanos que forman un coro. Sintamos con la Iglesia, rechacemos la tentación de buscar éxitos personales y formar facciones. No nos dejemos arrastrar por el clericalismo que nos vuelve rígidos ni por las ideologías que dividen. Los santos que hoy recordamos han sido columnas de comunión. Nos recuerdan que, en el cielo, a pesar de nuestras diferencias de carácter y de perspectiva, estamos llamados a estar juntos. Y si vamos a estar unidos para siempre allá arriba, ¿por qué no empezar desde ahora aquí abajo? Acojamos la belleza de haber sido tomados juntos por Jesús, llamados juntos por Jesús. Este es el primer verbo: tomó.

El segundo verbo: subir. Jesús «subió a la montaña» (v. 28). El camino de Jesús no es cuesta abajo, sino que es un ascenso. La luz de la transfiguración no llega en la planicie, sino después de un camino difícil. Por tanto, para seguir a Jesús hay que dejar las planicies de la mediocridad y las bajadas de la comodidad; hay que dejar los propios hábitos tranquilizadores para efectuar un movimiento de éxodo. De hecho, en lo alto de la montaña, Jesús hablaba con Moisés y Elías precisamente de su «partida […], que iba a cumplirse en Jerusalén» (v. 31). Moisés y Elías habían subido al monte Sinaí u Horeb, después de dos éxodos en el desierto (cf. Ex 19; 1 R 19); ahora hablan con Jesús del éxodo definitivo, el de su pascua. Hermanos y hermanas, sólo la subida de la cruz conduce a la meta de la gloria. Este es el camino: de la cruz a la gloria. La tentación mundana es buscar la gloria sin pasar por la cruz. A nosotros nos gustarían caminos conocidos, rectos y llanos, pero para encontrar la luz de Jesús es necesario que salgamos continuamente de nosotros mismos y vayamos detrás de Él. Como hemos oído, el Señor, que desde el principio «llevó afuera» a Abraham (Gn 15,5), nos invita también a nosotros a salir y a subir.

Para nosotros, los jesuitas, la salida y la subida siguen un camino específico, que la montaña simboliza bien. En la Escritura, la cima de las montañas representa el borde, el límite, la frontera entre la tierra y el cielo. Y estamos llamados a salir para ir precisamente allí, al confín entre la tierra y el cielo, donde el hombre se “enfrenta” a Dios con dificultad; a compartir su búsqueda incómoda y su duda religiosa. Es allí donde debemos estar, y para ello debemos salir y subir. Mientras el enemigo de la naturaleza humana quiere convencernos de que volvamos siempre sobre los mismos pasos, los de la repetición estéril, los de la comodidad, los de lo ya visto, el Espíritu sugiere aperturas, da paz, pero sin dejarnos nunca tranquilos, envía a los discípulos hasta los últimos rincones del mundo. Pensemos en Francisco Javier.

Y se me ocurre que, para recorrer este camino, esta ruta, es necesario luchar. Pensemos al pobre anciano Abrahán: allí, con el sacrificio, luchando contra los buitres que querían comerse la ofrenda (cf. Gn 15,7-11). Y él, con el bastón, los espantaba. El pobre anciano. Fijémonos en esto: luchar para defender este camino, esta ruta, nuestra consagración al Señor.

El discípulo de todas las horas se encuentra frente a esta encrucijada. Y puede proceder como Pedro, que, mientras Jesús hablaba del éxodo, dijo: «qué bien estamos aquí» (v. 33). Siempre existe el peligro de una fe estática y “aparcada”. Tengo miedo de las fes “aparcadas”. El riesgo es el de considerarse “buenos” discípulos, pero que en realidad no siguen a Jesús, sino que permanecen inmóviles, pasivos y, como los tres del Evangelio, sin darse cuenta, les da sueño y se quedan dormidos. Incluso en Getsemaní, estos mismos discípulos dormirán. Pensemos, hermanos y hermanas, que para los que siguen a Jesús no es tiempo de dormir, de dejarse narcotizar el alma, de dejarse anestesiar por el clima consumista e individualista de hoy, según el cual la vida es buena si es buena para mí; en el que se habla y se teoriza, mientras se pierde de vista la carne de nuestros hermanos, la realidad concreta del Evangelio. Uno de los dramas de nuestro tiempo es cerrar los ojos a la realidad y darle la espalda. Que santa Teresa nos ayude a salir de nosotros mismos y a subir a la montaña con Jesús, para darnos cuenta de que Él se revela también a través de las heridas de nuestros hermanos, de las dificultades de la humanidad, de los signos de los tiempos. No tener miedo de tocar las llagas: son las llagas del Señor.

Jesús, dice el Evangelio, subió a la montaña «para orar» (v. 28). Este es el tercer verbo, orar. Y «mientras oraba ―continúa el texto― su rostro cambió de aspecto» (v. 29). La transfiguración nace de la oración. Preguntémonos, tal vez después de muchos años de ministerio, qué significa hoy para nosotros, qué significa hoy para mí, orar. Quizá la fuerza de la costumbre y una cierta ritualidad nos han hecho creer que la oración no transforme al hombre y a la historia. En cambio, orar es transformar la realidad. Es una misión activa, una intercesión continua. No es un alejamiento del mundo, sino un cambio del mundo. Orar es llevar la pulsación de la actualidad a Dios para que su mirada se abra de par en par sobre la historia. ¿Qué es para mí rezar?

Y nos hará bien hoy preguntarnos si la oración nos sumerge en esta transformación; si arroja una nueva luz sobre las personas y transfigura las situaciones. Porque si la oración está viva “trastoca por dentro”, reaviva el fuego de la misión, enciende la alegría, provoca continuamente que nos dejemos inquietar por el grito sufriente del mundo. Preguntémonos: ¿cómo estamos rezando por la guerra actual? Pensemos en la oración de san Felipe Neri, que le ensanchaba el corazón y le hacía abrir las puertas a los niños de la calle. O en la de san Isidro, que rezaba en los campos y llevaba el trabajo agrícola a la oración.

Tomar cada día las riendas de nuestra llamada personal y de nuestra historia comunitaria; subir hacia los confines indicados por Dios, saliendo de nosotros mismos; orar para transformar el mundo en el que estamos inmersos. Finalmente, llegamos al cuarto verbo, que aparece en el último verso del Evangelio de hoy: «Jesús estaba solo» (v. 36). Él se quedó, permaneció, mientras todo había pasado y resonaba sólo “el testamento” del Padre: «Escúchenlo» (v. 35). El Evangelio termina llevándonos de nuevo a lo esencial. A menudo tenemos la tentación, en la Iglesia y en el mundo, en la espiritualidad como en la sociedad, de convertir en primarias tantas necesidades secundarias. Es una tentación cotidiana convertir en primarias tantas necesidades secundarias. En otras palabras, corremos el riesgo de concentrarnos en costumbres, hábitos y tradiciones que fijan nuestro corazón en lo pasajero y nos hacen olvidar lo que permanece. Qué importante es trabajar sobre el corazón, para que pueda distinguir lo que es según Dios, y permanece, de lo que es según el mundo, y pasa.

Queridos hermanos y hermanas, que el santo padre Ignacio nos ayude a custodiar el discernimiento, nuestra preciosa herencia, tesoro siempre válido para difundir en la Iglesia y en el mundo, que nos permite “ver nuevas todas las cosas en Cristo”. Es esencial, para nosotros y para la Iglesia, para que, como escribió Pedro Fabro, “todo el bien que se pueda practicar, pensar u organizar, se haga mediante el espíritu bueno, y no mediante el malo” (cf. Memorial, Buenos Aires 1983). Que así sea.

[00367-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

O evangelho da Transfiguração, que ouvimos, refere quatro ações de Jesus. Far-nos-á bem seguir aquilo que realiza o Senhor, para encontrar, nos seus gestos, sugestões para o nosso caminho.

O primeiro verbo – a primeira daquelas ações de Jesus – é tomar consigo. Assim diz o texto: «tomando consigo Pedro, João e Tiago, Jesus subiu ao monte…» (Lc 9, 28). É Ele que toma consigo os discípulos, fazendo o mesmo connosco: amou-nos, escolheu-nos e chamou-nos. No princípio encontra-se o mistério duma graça, duma eleição. Não fomos nós os primeiros a tomar uma decisão, mas foi Ele que nos chamou, sem qualquer mérito da nossa parte. Antes de ser alguém que doou a vida, somos uma pessoa contemplada com um dom gratuito: o dom da gratuidade do amor de Deus. O nosso caminho, irmãos e irmãs, precisa dia a dia de recomeçar daqui, desta graça originária. Jesus procedeu connosco como fez com Pedro, João e Tiago: chamou-nos pelo nome e tomou-nos consigo. Tomou-nos pela mão. Para nos levar aonde? Ao seu monte santo, onde, já agora, nos vê para sempre com Ele, transfigurados pelo seu amor. Lá nos conduz a graça, esta graça primeira, primigénia. Assim, quando experimentarmos amarguras e deceções, quando nos sentirmos menosprezados ou incompreendidos, não nos percamos em lamentos e nostalgias. São tentações que paralisam o caminho, sendas que não levam a parte alguma. Pelo contrário, assumamos a nossa vida a partir da graça, da vocação. E acolhamos a dádiva de cada dia para o viver como um pedaço de estrada rumo à meta.

Tomou consigo Pedro, João e Tiago: o Senhor toma os discípulos em conjunto, toma-os como comunidade. A nossa vocação está enraizada na comunhão. Para recomeçar em cada dia, além do mistério da nossa eleição, é necessário reviver a graça de termos sido tomados na Igreja, nossa santa Mãe hierárquica, e pela Igreja, nossa esposa. Somos de Jesus, e somo-lo como Companhia. Não nos cansemos de pedir a força de construir e guardar a comunhão, ser fermento de fraternidade para a Igreja e para o mundo. Não somos solistas à procura de audiência, mas irmãos organizados em coro. Sintamos com a Igreja, rejeitemos a tentação de buscar sucessos pessoais e claques de apoio. Não nos deixemos sorver pelo clericalismo que nos endurece e pelas ideologias que dividem. Os Santos, que hoje recordamos, foram pilares de comunhão. Lembram-nos que no Céu, apesar da nossa diversidade de carateres e perspetivas, somos chamados a estar juntos. E se havemos de estar unidos para sempre lá em cima, por que não começar já desde agora cá em baixo? Acolhamos a beleza de ter sido tomados em conjunto por Jesus, chamados em conjunto por Jesus. Este é o primeiro verbo: tomou.

O segundo verbo: subir. «Jesus subiu ao monte» (9, 28). O caminho de Jesus não se apresenta em descida, é uma subida. A luz da Transfiguração só chega à planície depois dum fadigoso caminho. Assim, para seguir Jesus, é preciso abandonar as planícies da mediocridade e as descidas ditadas pela comodidade; é preciso deixar as próprias rotinas pacatas para cumprir um movimento de êxodo. Com efeito, tendo subido ao monte, Jesus fala com Moisés e Elias precisamente «de sua partida [êxodo], que iria consumar-se em Jerusalém» (6, 31). Moisés e Elias subiram ao Sinai ou Horeb depois de dois êxodos no deserto (cf. Ex 19; 1 Re 19); agora falam com Jesus do êxodo definitivo: o da sua páscoa. Irmãos e irmãs, só a subida à cruz conduz à meta da glória. Este é o caminho: da cruz à glória. A tentação mundana é buscar a glória sem passar pela cruz. Nós quereríamos caminhos conhecidos, direitos e desimpedidos, mas para encontrar a luz de Jesus é preciso sair continuamente de nós mesmos e subir atrás d’Ele. Como ouvimos na primeira leitura, o Senhor, que desde o início «conduziu para fora» Abrão (Gn 15, 5), convida-nos também a nós a sair e subir.

Para nós, jesuítas, a saída e a subida seguem um caminho específico, bem simbolizado pelo monte. Na Sagrada Escritura, o cimo dos montes representa a extremidade, o limite, a fronteira entre terra e céu. E nós somos chamados a sair precisamente para os confins entre terra e céu, lá onde o homem «luta» fadigosamente com Deus; somos chamados a partilhar a sua busca incómoda e inquietude religiosa. Lá devemos estar e, para o conseguirmos, é preciso sair e subir. Enquanto o inimigo da natureza humana quer convencer-nos a voltar sempre pelos mesmos passos, os da repetição estéril, da comodidade, do já visto, o Espírito sugere aberturas, dá paz sem nunca deixar em paz, envia os discípulos até aos últimos confins. Pensemos em Francisco Xavier.

E vem-me à ideia que, para seguir esta estrada, este caminho, é preciso lutar. Pensemos no pobre velho Abraão: lá, com o sacrifício, lutando contra os abutres que lhe queriam comer a oferenda (cf. Gn 15, 7-11). E ele, com a sua bengala, afugentava-os. O pobre velho. Vejamos isto: lutar para defender este caminho, este caminho, esta nossa consagração ao Senhor.

De hora em hora, o discípulo encontra-se nesta encruzilhada. E pode fazer como Pedro que, enquanto Jesus fala de êxodo, ele diz: «É bom estarmos aqui» (9, 33). Há sempre o perigo duma fé estática, «estacionada». Tenho medo da fé «estacionada». O risco é considerar-se discípulos «como se deve», mas que na realidade não seguem Jesus: permanecem parados, passivos e, sem dar por isso como os três do Evangelho, começam a cabecear e adormecem. Também no Getsémani, hão de adormecer estes mesmos discípulos. Pensemos irmãos e irmãs que, para quem segue Jesus não é tempo de dormir, deixar-se narcotizar a alma, fazer-se anestesiar pelo atual clima consumista e individualista, segundo o qual a vida corre bem se correr bem para mim; fala-se e teoriza-se, mas perde-se de vista a carne dos irmãos, a concretização do Evangelho. Um drama do nosso tempo é fechar os olhos à realidade e voltar a face para o outro lado. Que Santa Teresa nos ajude a sair de nós mesmos e subir ao monte com Jesus, para nos apercebermos que Ele Se revela também através das chagas dos irmãos, dos esforços da humanidade, dos sinais dos tempos. Não devemos ter medo de tocar as chagas: são as chagas do Senhor.

Jesus subiu ao monte, diz o Evangelho, «para orar» (6, 28). E aqui temos o terceiro verbo: orar. E, «enquanto orava – continua o texto –, o aspeto do seu rosto modificou-se» (6, 29). A transfiguração nasce da oração. Vale a pena perguntar-me, mesmo depois de muitos anos de ministério: hoje, para mim, que é rezar. Quem sabe se a força do hábito e um certo ritualismo me tenham levado a pensar que a oração não transforma o homem nem a história. Ao contrário, rezar é transformar a realidade. É uma missão ativa, uma intercessão contínua. Não é distância do mundo, mas mudança do mundo. Rezar é levar o palpitar dos acontecimentos até Deus para que o seu olhar se abra de par em par sobre a história. Para nós, que é rezar?

Por isso será bom hoje perguntar-nos se a oração nos imerge nesta transformação, lança uma luz nova sobre as pessoas e transfigura as situações. Pois se a oração é viva, «mexe dentro», reaviva o fogo da missão, reacende a alegria, provoca-nos continuamente para nos deixarmos inquietar pelo grito sofredor do mundo. Perguntemo-nos: como estamos a levar à oração a guerra em curso? E pensemos na oração de São Filipe de Néri, que lhe dilatava o coração fazendo-lhe abrir as portas aos meninos de rua. Ou em Santo Isidro, que rezava nos campos e levava à oração o trabalho agrícola.

Tomar nas mãos dia a dia a nossa vocação pessoal e a nossa história comunitária; subir para os confins indicados por Deus saindo de nós mesmos; orar para transformar o mundo em que estamos imersos. E, por fim, temos o quarto verbo, que aparece no último versículo do Evangelho de hoje: «Jesus ficou só» (9, 36). Ficou Ele, enquanto tudo havia passado e ecoava apenas «o testamento» do Pai: «Escutai-O» (6, 35). O Evangelho termina, fazendo-nos voltar ao essencial. Muitas vezes na Igreja e no mundo, tanto na vida espiritual como na sociedade, somos tentados a considerar como primárias tantas necessidades secundárias. É uma tentação diária o fazer tornarem-se primárias tantas necessidades secundárias. Por outras palavras, corremos o risco de nos concentrar em usos, costumes e tradições que fixam o coração naquilo que passa, fazendo esquecer o que permanece. Como é importante trabalhar o coração, para que saiba distinguir o que é segundo Deus, e permanece, daquilo que é segundo o mundo, e passa!

Amados irmãos e irmãs, que Santo Inácio, nosso pai, nos ajude a conservar o discernimento, nossa herança preciosa, um tesouro sempre atual para oferecer à Igreja e ao mundo. Permite «ver como novas todas as coisas em Cristo». É essencial para nós mesmos e para a Igreja, pois, como escreveu Pedro Favre, «todo o bem que se possa realizar, pensar ou organizar, faça-se com bom espírito e não com o mau» (Memorial, Paris 1959, nº 51). Assim seja!

[00367-PO.01] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

Ewangelia o Przemienieniu Pańskim, której wysłuchaliśmy, przywołuje cztery działania Jezusa. Warto, abyśmy prześledzili to, czego dokonuje Pan, aby w Jego gestach znaleźć wskazania dla naszej drogi.

Pierwszym czasownikiem – pierwszym z tych działań Jezusa – jest wziąć z sobą: Jezus, jak mówi tekst, „wziął z sobą Piotra, Jana i Jakuba” (Łk 9, 28). To On ujmuje uczniów i On pociąga nas ku sobie: umiłował nas, wybrał i powołał. Na początku jest tajemnica łaski, wybrania. To nie my podjęliśmy decyzję, lecz to On nas powołał, bez żadnej naszej zasługi. Zanim staniemy się tymi, którzy uczynili z życia dar, jesteśmy tymi, którzy otrzymali dar darmo dany: dar darmo dany miłości Boga. Nasza droga, bracia i siostry, musi się zaczynać każdego dnia od tego miejsca, od pierwotnej łaski. Jezus uczynił z nami to samo, co uczynił z Piotrem, Jakubem i Janem: powołał nas po imieniu i wziął ze sobą. Wziął nas za rękę. A gdzie chce nas zaprowadzić? Na Jego świętą górę, gdzie już teraz widzi nas na zawsze z Sobą, przemienionych Jego miłością. To właśnie tam prowadzi nas łaska, ta łaska najważniejsza, pierwotna. Kiedy więc doświadczamy goryczy i rozczarowania, kiedy czujemy się pomniejszeni lub niezrozumiani, nie zatracajmy się w żalu i nostalgii. Są to pokusy, które paraliżują drogę, które prowadzą donikąd. Weźmy natomiast nasze życie w swoje ręce, wychodząc od łaski, od powołania.. I przyjmijmy dar przeżywania każdego dnia jako odcinka drogi prowadzącego do celu.

Wziął z sobą Piotra, Jakuba i Jana: Pan zabiera uczniów razem, zabiera ich jako wspólnotę. Nasze powołanie jest zakorzenione w komunii. Aby każdego dnia zaczynać od nowa, oprócz tajemnicy naszego wybrania, musimy przeżywać łaskę przyjęcia do Kościoła, naszej świętej, hierarchicznej Matki, i dla Kościoła - naszej oblubienicy. Jesteśmy Jezusa i jesteśmy Jego jako Towarzystwo. Nie ustawajmy w proszeniu o siłę do budowania i zachowania komunii, do bycia zaczynem braterstwa dla Kościoła i dla świata. Nie jesteśmy solistami, którzy chcą, by ich usłyszano, lecz braćmi, którzy chcą być w chórze. Czujmy z Kościołem, odrzucajmy pokusę pogoni za osobistymi sukcesami i tworzenia stronnictw. Nie dajmy się wciągnąć w klerykalizm, który nas usztywnia, i w ideologie, które dzielą. Święci, których dziś wspominamy, byli filarami komunii. Przypominają nam, że w niebie, pomimo różnic naszych charakterów i postrzegania świata, jesteśmy wezwani do przebywania razem. A jeśli będziemy na zawsze zjednoczeni tam, w górze, to dlaczego nie zacząć już teraz, tutaj na ziemi? Przyjmijmy piękno bycia wziętymi razem przez Jezusa, powołanymi razem przez Jezusa. To jest pierwszy czasownik: wziął.

Drugi czasownik: wstępować. Jezus „wyszedł na górę” (w. 28). Droga Jezusa nie jest zstępowaniem, jest wstępowaniem. Światło przemienienia nie dociera na równinę, lecz po przebyciu trudnej drogi. Aby pójść za Jezusem, trzeba więc opuścić równiny przeciętności i schodzenia różnych wygód. Trzeba porzucić swoje uspokajające przyzwyczajenia, aby podjąć ruch wyjścia. Istotnie, po wejściu na górę Jezus rozmawia z Mojżeszem i Eliaszem właśnie „o Jego odejściu, którego miał dopełnić w Jeruzalem” (w. 31). Mojżesz i Eliasz weszli na Synaj lub Horeb po dwóch wyjściach na pustynię (por. Wj 19; 1 Krl 19). Teraz rozmawiają z Jezusem o ostatecznym exodusie, o Jego wydarzeniu paschalnym. Bracia, tylko wstępowanie krzyża prowadzi do celu chwały. Taka jest droga: od krzyża do chwały. Pokusa światowa polega na tym, by szukać chwały bez przejścia przez krzyż. Chcielibyśmy mieć znane, proste i równe drogi, ale aby znaleźć światło Jezusa, musimy nieustannie wychodzić z naszych ograniczeń i wspinać się za Nim. Pan, który - jak słyszeliśmy - od początku „wyprowadził” Abrahama (Rdz 15, 5), zaprasza także nas, abyśmy wstępowali wzwyż.

Dla nas, jezuitów, wychodzenie i wchodzenie pod górę odbywa się określoną drogą, którą symbolizuje góra. W Piśmie Świętym szczyt góry symbolizuje kres, skraj, granicę między ziemią a niebem. I my jesteśmy wezwani, by wyjść i pójść właśnie tam, na granicę między ziemią a niebem, gdzie człowiek z trudem „staje” przed Bogiem; by dzielić swoje nieudolne poszukiwania i religijne wątpliwości. Tam musimy być, i aby to osiągnąć, trzeba wyjść i wstąpić. Podczas gdy nieprzyjaciel ludzkiej natury chce nas przekonać, abyśmy zawsze wracali do tych samych kroków, do jałowego powtarzania, do wygody, do tego, co już widzieliśmy, Duch Święty sugeruje nam otwarcie się, daje pokój, nigdy nie pozostawiając w spokoju, wysyła uczniów na krańce świata. Pomyślmy o Franciszku Ksawerym.

I przychodzi mi na myśl, że aby przebyć tę drogę, tę podróż, trzeba zmagać się. Pomyślmy o starym, biednym Abrahamie: tam, z poświęceniem, walczył z drapieżnymi ptakami, które chciały zjeść ofiarę (por. Rdz 15, 7-11). A on, ze swoją laską, wypędzał je. Biedny starzec. Popatrzmy na to: walczyć, by bronić tej drogi, tego kierunku, tego naszego poświęcenia się Panu.

Uczeń każdego czasu staje na tym rozdrożu. I może uczynić jak Piotr, który, gdy Jezus mówi o exodusie, powiada: „dobrze, że tu jesteśmy” (w. 33). Zawsze istnieje niebezpieczeństwo wiary statycznej, „zaparkowanej”. Boję się wiary „zaparkowanej”. Zagrożenie polega na uważaniu się uczniami „porządnymi”, którzy w rzeczywistości nie idą za Jezusem, lecz pozostają nieruchomi, bierni i, jak trzej z Ewangelii, nie zdając sobie z tego sprawy, drzemią i śpią. Także w Getsemani ci sami uczniowie będą spali. Pomyślmy bracia i siostry, że dla tych, którzy idą za Jezusem, nie jest to czas na sen, na odurzanie duszy, na znieczulanie się współczesnym klimatem konsumpcjonizmu i dzisiejszego indywidualizmu, według którego życie jest dobre, jeśli jest dobre dla mnie; według którego mówimy i teoretyzujemy, ale tracimy z oczu ciało naszych braci i sióstr, konkret Ewangelii. Dramatem naszych czasów jest zamykanie oczu na rzeczywistość i odwracanie się od niej. Niech św. Teresa pomoże nam wyjść z naszych ograniczeń i wspiąć się z Jezusem na górę, aby uświadomić sobie, że On objawia się także poprzez rany naszych braci, trudy ludzkości, poprzez znaki czasu. Nie bójmy się dotykać ran: to są rany Pana.

Jezus wszedł na górę, jak mówi Ewangelia, „aby się modlić” (w. 28). Oto trzeci czasownik - modlić się. A „gdy się modlił - czytamy dalej - wygląd Jego twarzy się odmienił” (w. 29). Przemienienie rodzi się z modlitwy. Zapytajmy siebie, może po wielu latach posługi, czym jest dzisiaj dla nas, czym jest dzisiaj dla mnie, modlitwa. Być może siła przyzwyczajenia i pewna rytualność doprowadziły nas do przekonania, że modlitwa nie przemienia człowieka i historii. Tymczasem modlitwa przekształca rzeczywistość. Jest to misja czynna, nieustanne wstawiennictwo. Nie jest to oddalenie się od świata, lecz przemiana świata. Modlić się to przynosić Bogu bicie serca wydarzeń dnia dzisiejszego, aby Jego spojrzenie otworzyło się szeroko na historię. Czym jest dla nas dzisiaj modlitwa?

Dzisiaj, dobrze nam zrobi, jeżeli zapytamy siebie, czy modlitwa zanurza nas w tej przemianie, czy rzuca nowe światło na ludzi i przemienia sytuacje. Jeśli bowiem modlitwa jest żywa, „otwiera wnętrze”, ożywia ogień misji, rozpala radość, nieustannie prowokuje nas, byśmy dali się poruszyć bolesnemu wołaniu świata. Zapytajmy siebie: na ile naszą modlitwę przenika tocząca się obecnie wojna? Pomyślmy też o modlitwie św. Filipa Nereusza, która rozpaliła jego serce i sprawiła, że otworzył drzwi dla chłopców z ulicy. Albo św. Izydor, który modlił się na polach i zanosił w modlitwie pracę na roli.

Wziąć w rękę każdego dnia nasze osobiste powołanie i naszą wspólnotową historię; wspinać się ku granicom wskazanym przez Boga, wychodząc od nas samych; modlić się o przemianę świata, w którym jesteśmy zanurzeni. Jest wreszcie czwarty czasownik, który pojawia się w ostatnim wersecie dzisiejszej Ewangelii: „okazało się, że Jezus jest sam” (w. 36). Pozostał On, podczas gdy wszystko przeminęło i rozbrzmiewał echem tylko „testament” Ojca: „Jego słuchajcie” (w. 35). Ewangelia kończy się powrotem do tego, co najważniejsze. Często w Kościele i w świecie, zarówno w duchowości jak i w społeczeństwie, jesteśmy kuszeni, aby wiele potrzeb drugorzędnych uczynić pierwszorzędnymi. Każdy dzień rodzi pokusę, by tak wiele potrzeb drugorzędnych czynić pierwszorzędnymi. Ryzykujemy, innymi słowy, by koncentrować się zwyczajach, przyzwyczajeniach i tradycjach, które przywiązują nasze serca do tego, co przemija, a sprawiają, że zapominamy o tym, co pozostaje. Jak ważna jest praca nad sercem, aby potrafiło odróżnić to, co jest według Boga i trwa, od tego, co jest według świata i przemija!

Drodzy bracia i siostry, niech święty ojciec Ignacy pomoże nam strzec rozeznania, naszego cennego dziedzictwa, skarbu, który jest zawsze aktualny, aby przekazać go Kościołowi i światu. Pozwala nam on „widzieć wszystko nowe w Chrystusie”. Istotne jest dla nas samych i dla Kościoła, aby – jak pisał Piotr Faber – „wszelkie dobro, jakiego można dokonać, pomyśleć lub zorganizować, było czynione w dobrym duchu, a nie w złym” (Memorial, Paris 1959, n. 51). Amen.

[00367-PL.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua araba

عظة قداسة البابا فرنسيس

في الذكرى المئويّة الرابعة لتقديس

القدّيس أغناطيوس دي لويولا والقدّيس فرنسيس كسفاريوس والقدّيسة تريزا

والقدّيس إيزيدورس والقدّيس فيليبس نيري

يوم السبت 12 آذار / مارس 2022

في كنيسة يسوع - روما

يُورِدُ إنجيل التجلّي الذي سمعناه أربعة أفعال ليسوع. من المفيد أن نتبع ما عمله الرّبّ يسوع، حتّى نجد في حركاته التّعليمات من أجل مسيرتنا.

الفعل الأوّل – من أفعال يسوع - هو مَضَى بِهم (أَخَذَهم مَعَهُ)، قال النّصّ إنّ يسوع: "مَضى بِبُطرسَ ويوحنَّا ويعقوبَ" (لوقا 9، 28). هو الذي أخذ التّلاميذ، وهو الذي أخذنا إلى جانبه: لقد أحبّنا، واختارنا ودعانا. هنالك في البداية سرّ النّعمة، والاختيار. لم نكن نحن الذين اتّخذنا القرار أوّلاً، بل كان هو الذي دعانا، ومن دون استحقاق منَّا. وقبل أن نكون نحن الذين قدّمنا حياتنا ووهبناها، نحن حصلنا على عطيّة مجانيّة، عطيّة محبّة الله المجانيّة. أيّها الإخوة والأخوات، إنّ مسيرتنا بحاجة لأن تنطلق من جديد كلّ يوم من هنا، من النّعمة الأصليّة. صنع يسوع معنا مثلما صنع مع بطرس، ويعقوب ويوحنّا: دعانا باسمنا ومَضَى بِنَا. أخذنا من يدنا. ليأخذنا إلى أين؟ إلى جبله المقدّس، حيث يرانا منذ الآن معه إلى الأبد، وقد تَبدَّلْنا بمحبّته. إلى هناك تقودنا النّعمة، هذه النعمة الأوليّة، التي منذ البدء. لذلك، عندما نشعر بالمرارة وخيبة الأمل، وعندما نشعر بأنّ أحدًا قلَّلَ من شأننا أو أساءَ فَهمَنا، لا نُضَيِّعْ أنفسنا في النّدم والحنين إلى الماضي. إنّها تجارب تَشِلُّ مسيرتنا، وطرق لا تقود إلى أيّ مكان. بل، لنمسك بزمام أمور حياتنا انطلاقًا من النّعمة، ومن الدّعوة. ولنستقبل هبة العيش كلّ يوم على أنّها جزء من الطّريق نحو الهدف.

مَضى ببطرس ويوحنّا ويعقوب: أخذ الرّبّ يسوع التّلاميذ معًا، وأخذهم مثل جماعة. إنّ دعوتنا متجذّرة في الشّركة. وحتّى ننطلق من جديد كلّ يوم، بالإضافة إلى سرّ اختيارنا، من الضّروري أن نُحيي من جديد النّعمة في كوننا أُخِذنا في الكنيسة، أُمّنا المقدّسة في نظام التراتبية، ومن أجل الكنيسة، عروسنا. نحن ليسوع، ونحن له في صورة جماعة. لا نتعب من أن نطلب القوّة لنبني الشّركة ونحرسها، وأن نكون خميرة الأخوّة من أجل الكنيسة والعالم. نحن لسنا عازفين منفردين نبحث عمّن يستمع إلينا، بل نحن إخوة قائمون في جوقة. نحن نشعر مع الكنيسة، ونرفض تجارب السعي وراء النّجاحات الشخصيّة وعمل المخاصمات. لا ننجرُّ وراء روح التسلّط الإكليريكي الذي يزيدنا تزمُّتًا والأيديولوجيّات التي تُقسِّم. كان القدّيسون الذين نتذكّرهم اليوم أعمدةً للشّركة. يذكّروننا أنّه في السّماء، على الرّغم من تنوّع شخصيّاتنا ووجهات نظرنا، نحن مدعوّون لأن نكون معًا. وإن كنّا سنكون متّحدين إلى الأبد هناك في العُلى، فلماذا لا نبدأ الآن من هنا؟ لنستقبل جمال دعوة يسوع لنا معًا، وأنّ يسوع دعانا معًا. هذا هو الفعل الأوّل: مَضَى بِهم (أَخَذَهم مَعَهُ).

الفعل الثّاني: صَعِدَ. "صَعِدَ يسوع الجَبَل" (آية 28). ليس طريق يسوع مُنحَدَرًا، بل إنّه صعود. لا يصل نور التجلّي في السّهل، بل بعد مسيرة مُتعِبة. لذلك، حتّى نتبع يسوع، علينا أن نترك سهول الفتور ومنحدرات الرّاحة، وعلينا أن نترك عاداتنا المُطَمْئِنَة حتّى نقوم بحركة خروج. في الواقع، بعد أن صعد يسوع الجبل، تكلّم إلى موسى وإيليّا بالتّحديد "على رَحيلِه الَّذي سَيتِمُّ في أُورَشَليم" (آية 31). كان موسى وإيليّا قد صعدا إلى جبل سيناء أو جبل حوريب بعد رحيلَين في الصّحراء (راجع خروج 19؛ 1 ملوك 19)، والآن يتكلّمان مع يسوع عن رحيله النّهائي، أي عن فِصحِهِ. أيّها الإخوة والأخوات، صعود الصّليب فقط يقودنا إلى هدف المجد. هذه هي الطّريق: من الصّليب الى المجد. بينما التّجربة الدنيويّة هي أن نَطلُبَ المجد من دون أن نَمُرَّ بالصّليب. نحن نريد طرقًا مطروقة، ومستقيمة، ومستوية، ولكن حتّى نجد نور يسوع، يجب علينا أن نخرج باستمرار من أنفسنا ونصعد خلفه. مثلما سمعنا، إنّ الله الذي من البداية قال لأبرام "اخرج واترك بلدك وأهلك" (تكوين 15، 5)، يدعونا نحن أيضًا إلى الخروج والصّعود.

بالنّسبة لنا نحن اليسوعيّين، يتبع الخروج والصّعود مسارًا محدّدًا يرمز إليه الجبل رمزًا جيّدًا. في الكتاب المقدّس، تمثّلُ قممُ الجبال المُنتَهَى، والنّهاية، والحد بين الأرض والسّماء. ونحن دعينا لأن نخرج ونذهب إلى هناك بالتّحديد، على الحدود بين الأرض والسّماء، هناك حيث الإنسان ”يواجه“ الله بصعوبة. نحن مدعوّون إلى المشاركة في البحث المتعب، والشكّ الدّيني. هناك يجب أن نكون، ولكي نفعل ذلك، علينا أن نخرج ونصعد. وبينما يريد عدوّ الطّبيعة البشريّة أن يقنعنا بأن نعود دائمًا إلى خطواتنا نفسها، خطوات التّكرار العقيم، والرّاحة، إلى ”ما نعرفه“ من قبل، يعرض علينا الرّوح الانفتاح، ويمنحنا السّلام من دون أن يتركنا أبدًا بسلام، ويرسل التّلاميذ إلى أقاصي الأرض. لنفكّر في فرنسيس كسفاريوس.

وأفكّر أنّه حتّى نسلك هذه الطّريق، وهذه المسيرة، يجب علينا أن نعارك. لنفكّر في إبراهيم العجوز المسكين: هناك، مع الذّبيحة التي أراد أن يقرّبها لله، زجر النّسور التي أرادت أن تأكل التّقدمة (راجع تكوين 15، 7-11). وطردهم بعكّازه. العجوز المسكين. لننظر إلى هذا: نعارك حتّى ندافع عن هذه المسيرة، وهذه الطّريق، وتكرّسنا للرّبّ يسوع.

يجد التّلميذ نفسه في كلّ ساعة أمام مفترق الطّرق هذا. ويمكنه أن يفعل مثل بطرس، الذي بينما كان يسوع يتكلّم على الخروج، قال: "حَسَنٌ أَن نَكونَ ههُنا" (الآية 33). يوجد دائمًا الخطر من الإيمان الجامد ”المتوقّف“. أنا أخاف من الإيمان ”المتوقّف“. الخطر هو أن نعتبر أنفسنا تلاميذ ”جيدين“، ونحن في الواقع لا نتبع يسوع، بل نظلّ واقفين، وسلبيّين، مثل التّلاميذ الثّلاثة في الإنجيل، من دون أن يدركوا أنّ النعاس غلبهم وناموا. حتّى في الجسمانيّة، سينامون، هؤلاء التلاميذ نفسهم. لنفكّر، أيّها الإخوة والأخوات، أنّه للذين يتبعون يسوع، هذا ليس وقت النوم، ولا تخدير الرّوح، ولا لنترك المناخ الاستهلاكي والفردي اليوم يخدِّرُنا، ولا نسير بحسب من يقول إنّ الحياة تسير على ما يرام إن كانت تسير على ما يرام بالنّسبة لي، ولا سيرَ من يتكلم بالنّظريّات، فنسهو عن حاجة إخوتنا، وعن جوهر الإنجيل. إنّ مأساة عصرنا هي أن نغلق أعيننا عن الواقع ونلتفت إلى الجانب الآخر. لتساعدنا القدّيسة تريزا على أن نخرج من ذواتنا ونصعد الجبل مع يسوع، حتّى ندرك أنّه يظهر لنا أيضًا من خلال جروح إخوتنا، وتعب البشريّة، وعلامات الزّمن. لا نَخَف من أن نلمس الجروح: إنّها جروح الرّبّ يسوع.

قال الإنجيل، صَعِدَ يسوع الجبل "لِيُصَلِّي" (آية 28). هذا هو الفعل الثّالث، الصّلاة. وتابع النصّ قائلاً: "وبَينَما هو يُصَلِّي، تَبَدَّلَ مَنظَرُ وَجهه" (آية ٢٩). التجلّي يأتي من الصّلاة. لنتساءل، بعد سنوات عديدة من الخدمة، ما هي الصّلاة بالنّسبة لنا اليوم، وبالنّسبة لِي اليوم. ربّما حملتنا قوّة العادة وتحويل الصّلاة إلى طقوس إلى الاعتقاد بأنّ الصّلاة لا تغيّر الإنسان والتّاريخ. بل عكس ذلك، الصّلاة هي تغيير الواقع. إنّها رسالة فاعِلة، وشفاعة مستمرّة. هي ليست ابتعادًا عن العالم، بل هي تغييرٌ للعالم. الصّلاة هي نقل نبضات الأحداث إلى الله حتّى ينفتح نظره كاملًا على التّاريخ. ما هي الصّلاة بالنّسبة لنا؟

ومن المفيد أن نتساءل اليوم هل الصّلاة تغمرنا في مثل هذا التحوّل، وهل تلقي نورًا جديدًا على الأشخاص وتغيّر الأوضاع. لأنّه إذا كانت الصّلاة حيّة، فهي ”تنفجّر من الدّاخل“، وتؤجّج نار الرّسالة، وتشعل الفرح من جديد، وتحثنا باستمرار على أن نقلق من صرخة معاناة العالم. لنسأل أنفسنا: كيف نحمل في صلاتنا الحرب الدائرة الآن؟ ولنفكّر في صلاة القدّيس فيليبس نيري، التي وسّعت قلبه وجعلته يفتح الأبواب أمام أولاد الشّوارع. أو القدّيس إيزيدورس، الذي صلّى في الحقول وحمل الأعمال الزراعيّة في صلاته.

لنأخذ في يدنا كلّ يوم دعوتنا الشخصيّة وتاريخ جماعتنا، ولنصعد إلى الحدود التي أشار إليها الله ولنخرج من أنفسنا، ولنصلّ من أجل تغيير العالم الذي نحن منغمسون فيه. وأخيرًا، هناك الفعل الرّابع، الذي ظهر في الآية الأخيرة من إنجيل اليوم، وهو: "بَقِيَ يَسوعُ وَحدَه" (الآية 36). بَقِيَ هو، بينما مَرَّ كلّ شيء وكان يتردّد فقط صَدى ”وصيّة“ الآب، قائلاً: "فَلَه اسمَعوا" (الآية 35). انتهى الإنجيل وأعادنا إلى الأساس. نحن غالبًا ما نقع في التَّجرِبة، في الكنيسة وفي العالم، وفي الروحانيّات وفي المجتمع، في أن نجعل احتياجاتنا الثانويّة الكثيرة، هي الأولى. إنّها تجربة كلّ يوم وهي أن نجعل احتياجاتنا الثانويّة الكثيرة، هي الأولى. بمعنى آخر، نحن معرَّضون لأن نركّز على مواقف، وعادات وتقاليد تثبّت القلب على ما يمرّ وتجعلنا ننسى ما الذي يبقى. كم مهمّ أن نجتهد لنربِّيَ قلبنا، حتّى يعرف أن يميّز بين ما هو بحسب الله، وباقٍ، وما هو بحسب العالم، وزائل!

أيّها الإخوة والأخوات الأعزّاء، ليساعدنا الأب القدّيس أغناطيوس في أن نحافظ على التّمييز، هذا ميراثنا الثّمين، والكنز الذي نحتاج إليه دائمًا لنفيضه على الكنيسة والعالم. يساعدنا التّمييز في أن ”نرى كلّ الأشياء جديدة في المسيح“. إنّه أساسيّ، من أجل أنفسنا ومن أجل الكنيسة، لأنّه، مثلما كتب بيير فافر، قال: "كلّ الخير الذي يمكن تحقيقه، أو التّفكير فيه أو تحضيره، يجب أن يُعمَل بروح صالحة وليس بروح شريرة" (مذكرة، باريس 1959، عدد 51). آمين.

[00367-AR.02] [Testo originale: Italiano]

[B0171-XX.02]