Sala Stampa

www.vatican.va

Sala Stampa Back Top Print Pdf
Sala Stampa


Santa Messa in occasione della XXVI Giornata della Vita Consacrata, 02.02.2022


Omelia del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Traduzione in lingua araba

Alle ore 17.30 di questo pomeriggio, Festa della Presentazione del Signore, nella Basilica Vaticana, il Santo Padre Francesco ha celebrato la Santa Messa in occasione della XXVI Giornata della Vita Consacrata.

Nel corso della cerimonia, che si è aperta con la benedizione delle candele e la processione ed è proseguita con la Celebrazione Eucaristica, il Papa ha pronunciato l’omelia.

Durante la Santa Messa ha avuto luogo la significazione pubblica dell’Ecclesiastica Communio concessa dal Santo Padre Francesco a Sua Beatitudine Raphaël Bedros XXI Minassian, Patriarca di Cilicia degli Armeni.

Al termine, prima della benedizione, l'Em.mo Card. João Braz de Aviz, Prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, ha rivolto al Santo Padre un indirizzo di saluto.

Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa ha pronunciato nel corso della Celebrazione Eucaristica:

Omelia del Santo Padre

Due anziani, Simeone e Anna, attendono nel tempio il compimento della promessa che Dio ha fatto al suo popolo: la venuta del Messia. Ma la loro attesa non è passiva, è piena di movimento. Seguiamo dunque i movimenti di Simeone: egli dapprima è mosso dallo Spirito, poi vede nel Bambino la salvezza e finalmente lo accoglie tra le braccia (cfr Lc 2,26-28). Fermiamoci semplicemente su queste tre azioni e lasciamoci attraversare da alcune domande importanti per noi, in particolare per la vita consacrata.

La prima è: da che cosa siamo mossi? Simeone si reca al tempio «mosso dallo Spirito» (v. 27). Lo Spirito Santo è l’attore principale della scena: è Lui che fa ardere nel cuore di Simeone il desiderio di Dio, è Lui che ravviva nel suo animo l’attesa, è Lui che spinge i suoi passi verso il tempio e rende i suoi occhi capaci di riconoscere il Messia, anche se si presenta come un bambino piccolo e povero. Questo fa lo Spirito Santo: rende capaci di scorgere la presenza di Dio e la sua opera non nelle grandi cose, nell’esteriorità appariscente, nelle esibizioni di forza, ma nella piccolezza e nella fragilità. Pensiamo alla croce: anche lì è una piccolezza, una fragilità, anche una drammaticità. Ma lì c’è la forza di Dio. L’espressione “mosso dallo Spirito” ricorda quelle che nella spiritualità si chiamano “mozioni spirituali”: sono quei moti dell’animo che avvertiamo dentro di noi e che siamo chiamati ad ascoltare, per discernere se provengono dallo Spirito Santo o da altro. Stare attenti alle mozioni interiori dello Spirito.

Allora ci chiediamo: da chi ci lasciamo principalmente muovere: dallo Spirito Santo o dallo spirito del mondo? È una domanda su cui tutti dobbiamo misurarci, soprattutto noi consacrati. Mentre lo Spirito porta a riconoscere Dio nella piccolezza e nella fragilità di un bambino, noi a volte rischiamo di pensare alla nostra consacrazione in termini di risultati, di traguardi, di successo: ci muoviamo alla ricerca di spazi, di visibilità, di numeri: è una tentazione. Lo Spirito invece non chiede questo. Desidera che coltiviamo la fedeltà quotidiana, docili alle piccole cose che ci sono state affidate. Com’è bella la fedeltà di Simeone e Anna! Ogni giorno si recano al tempio, ogni giorno attendono e pregano, anche se il tempo passa e sembra non accadere nulla. Aspettano tutta la vita, senza scoraggiarsi e senza lamentarsi, restando fedeli ogni giorno e alimentando la fiamma della speranza che lo Spirito ha acceso nel loro cuore.

Possiamo chiederci, noi, fratelli e sorelle: che cosa muove i nostri giorni? Quale amore ci spinge ad andare avanti? Lo Spirito Santo o la passione del momento, ossia qualsiasi cosa? Come ci muoviamo nella Chiesa e nella società? A volte, anche dietro l’apparenza di opere buone, possono nascondersi il tarlo del narcisismo o la smania del protagonismo. In altri casi, pur portando avanti tante cose, le nostre comunità religiose sembrano essere mosse più dalla ripetizione meccanica – fare le cose per abitudine, tanto per farle – che dall’entusiasmo di aderire allo Spirito Santo. Farà bene, a tutti noi, verificare oggi le nostre motivazioni interiori, discerniamo le mozioni spirituali, perché il rinnovamento della vita consacrata passa anzitutto da qui.

Una seconda domanda: che cosa vedono i nostri occhi? Simeone, mosso dallo Spirito, vede e riconosce Cristo. E prega dicendo: «I miei occhi hanno visto la tua salvezza» (v. 30). Ecco il grande miracolo della fede: apre gli occhi, trasforma lo sguardo, cambia la visuale. Come sappiamo da tanti incontri di Gesù nei Vangeli, la fede nasce dallo sguardo compassionevole con cui Dio ci guarda, sciogliendo le durezze del nostro cuore, risanando le sue ferite, dandoci occhi nuovi per vedere noi stessi e il mondo. Occhi nuovi su noi stessi, sugli altri, su tutte le situazioni che viviamo, anche le più dolorose. Non si tratta di uno sguardo ingenuo, no, è sapienziale; lo sguardo ingenuo fugge la realtà o finge di non vedere i problemi; si tratta invece di occhi che sanno “vedere dentro” e “vedere oltre”; che non si fermano alle apparenze, ma sanno entrare anche nelle crepe della fragilità e dei fallimenti per scorgervi la presenza di Dio.

Gli occhi anziani di Simeone, pur affaticati dagli anni, vedono il Signore, vedono la salvezza. E noi? Ognuno può domandarsi: che cosa vedono i nostri occhi? Quale visione abbiamo della vita consacrata? Il mondo spesso la vede come uno “spreco”: “Ma guarda, quel ragazzo così bravo, farsi frate”, o “una ragazza così brava, farsi suora… È uno spreco. Se almeno fosse brutto o brutta… No, sono bravi, è uno spreco”. Così pensiamo noi. Il mondo la vede forse come una realtà del passato, qualcosa di inutile. Ma noi, comunità cristiana, religiose e religiosi, che cosa vediamo? Siamo rivolti con gli occhi all’indietro, nostalgici di ciò che non c’è più o siamo capaci di uno sguardo di fede lungimirante, proiettato dentro e oltre? Avere la saggezza del guardare – questa la dà lo Spirito –: guardare bene, misurare bene le distanze, capire le realtà. A me fa tanto bene vedere consacrati e consacrate anziani, che con occhi luminosi continuano a sorridere, dando speranza ai giovani. Pensiamo a quando abbiamo incontrato sguardi simili e benediciamo Dio per questo. Sono sguardi di speranza, aperti al futuro. E forse ci farà bene, in questi giorni, fare un incontro, fare una visita ai nostri fratelli religiosi e sorelle religiose anziani, per guardarli, per parlare, per domandare, per sentire cosa pensano. Credo che sarà una buona medicina.

Fratelli e sorelle, il Signore non manca di darci segnali per invitarci a coltivare una visione rinnovata della vita consacrata. Ci vuole, ma sotto la luce, sotto le mozioni dello Spirito Santo. Non possiamo fare finta di non vedere questi segnali e continuare come se niente fosse, ripetendo le cose di sempre, trascinandoci per inerzia nelle forme del passato, paralizzati dalla paura di cambiare. L’ho detto tante volte: oggi, la tentazione di andare indietro, per sicurezza, per paura, per conservare la fede, per conservare il carisma fondatore… È una tentazione. La tentazione di andare indietro e conservare le “tradizioni” con rigidità. Mettiamoci in testa: la rigidità è una perversione, e sotto ogni rigidità ci sono dei gravi problemi. Né Simeone né Anna erano rigidi, no, erano liberi e avevano la gioia di fare festa: lui, lodando il Signore e profetizzando con coraggio alla mamma; e lei, come buona vecchietta, andando da una parte all’altra dicendo: “Guardate questi, guardate questo!”. Hanno dato l’annuncio con gioia, gli occhi pieni di speranza. Niente inerzie del passato, niente rigidità. Apriamo gli occhi: attraverso le crisi – sì, è vero, ci sono le crisi –, i numeri che mancano – “Padre, non ci sono vocazioni, adesso andremo in capo al mondo per vedere se ne troviamo qualcuna” –, le forze che vengono meno, lo Spirito invita a rinnovare la nostra vita e le nostre comunità. E come facciamo questo? Lui ci indicherà il cammino. Noi apriamo il cuore, con coraggio, senza paura. Apriamo il cuore. Guardiamo a Simeone e Anna: anche se sono avanti negli anni, non passano i giorni a rimpiangere un passato che non torna più, ma aprono le braccia al futuro che viene loro incontro. Fratelli e sorelle, non sprechiamo l’oggi guardando a ieri, o sognando di un domani che mai verrà, ma mettiamoci davanti al Signore, in adorazione, e domandiamo occhi che sappiano vedere il bene e scorgere le vie di Dio. Il Signore ce li darà, se noi lo chiediamo. Con gioia, con fortezza, senza paura.

Infine, una terza domanda: che cosa stringiamo tra le braccia? Simeone accoglie Gesù tra le braccia (cfr v. 28). È una scena tenera e densa di significato, unica nei Vangeli. Dio ha messo suo Figlio tra le nostre braccia perché accogliere Gesù è l’essenziale, il centro della fede. A volte rischiamo di perderci e disperderci in mille cose, di fissarci su aspetti secondari o di immergerci nelle cose da fare, ma il centro di tutto è Cristo, da accogliere come il Signore della nostra vita.

Quando Simeone prende fra le braccia Gesù, le sue labbra pronunciano parole di benedizione, di lode, di stupore. E noi, dopo tanti anni di vita consacrata, abbiamo perso la capacità di stupirci? O abbiamo ancora questa capacità? Facciamo un esame su questo, e se qualcuno non la trova, chieda la grazia dello stupore, lo stupore davanti alle meraviglie che Dio sta facendo in noi, nascoste come quella del tempio, quando Simeone e Anna incontrarono Gesù. Se ai consacrati mancano parole che benedicono Dio e gli altri, se manca la gioia, se viene meno lo slancio, se la vita fraterna è solo fatica, se manca lo stupore, non è perché siamo vittime di qualcuno o di qualcosa, il vero motivo è che le nostre braccia non stringono più Gesù. E quando le braccia di un consacrato, di una consacrata non stringono Gesù, stringono il vuoto, che cercano di riempire con altre cose, ma c’è il vuoto. Stringere Gesù con le nostre braccia: questo è il segno, questo è il cammino, questa è la “ricetta” del rinnovamento. Allora, quando non abbracciamo Gesù, il cuore si chiude nell’amarezza. È triste vedere consacrati, consacrate amari: si chiudono nella lamentela per le cose che puntualmente non vanno, in un rigore che ci rende inflessibili, in atteggiamenti di pretesa superiorità. Sempre si lamentano di qualcosa: del superiore, della superiora, dei fratelli, della comunità, della cucina… Se non hanno lamentele non vivono. Ma noi dobbiamo stringere Gesù in adorazione e domandare occhi che sappiano vedere il bene e scorgere le vie di Dio. Se accogliamo Cristo a braccia aperte, accoglieremo anche gli altri con fiducia e umiltà. Allora i conflitti non inaspriscono, le distanze non dividono e si spegne la tentazione di prevaricare e di ferire la dignità di qualche sorella o fratello. Apriamo le braccia, a Cristo e ai fratelli! Lì c’è Gesù.

Carissimi, carissime, rinnoviamo oggi con entusiasmo la nostra consacrazione! Chiediamoci quali motivazioni muovono il nostro cuore e il nostro agire, qual è la visione rinnovata che siamo chiamati a coltivare e, soprattutto, prendiamo fra le braccia Gesù. Anche se sperimentiamo fatiche e stanchezze – questo succede: anche delusioni, succede –, facciamo come Simeone e Anna, che attendono con pazienza la fedeltà del Signore e non si lasciano rubare la gioia dell’incontro. Andiamo verso la gioia dell’incontro: questo è molto bello! Rimettiamo Lui al centro e andiamo avanti con gioia. Così sia.

[00154-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Deux personnes âgées, Siméon et Anne, attendent dans le temple l’accomplissement de la promesse faite par Dieu à son peuple : la venue du Messie. Mais leur attente n’est pas passive, elle est pleine de mouvement. Suivons donc les mouvements de Siméon : il est d’abord poussé par l’Esprit, puis il voit le salut dans l’Enfant, et enfin il l’accueille dans ses bras (cf Lc 2, 26-28). Arrêtons-nous simplement sur ces trois actions et laissons-nous traverser par quelques questions importantes pour nous, pour la vie consacrée en particulier.

La première est : par quoi sommes-nous poussés ? Siméon se rend au temple « sous l’action de l’Esprit » (v. 27). L’Esprit Saint est l’acteur principal de la scène : c’est lui qui embrase le cœur de Siméon du désir de Dieu, c’est lui qui ravive dans son âme l’attente, c’est lui qui dirige ses pas vers le temple et rend ses yeux capables de reconnaître le Messie, même s’il se présente comme un pauvre petit enfant. C’est ce que fait l’Esprit Saint : il rend capable de percevoir la présence de Dieu et son œuvre, non pas dans les grandes choses, ni dans les apparences extérieures, ni dans les exhibitions de force, mais dans la petitesse et la fragilité. Pensons à la croix : là aussi, il y a de la petitesse, de la fragilité, aussi du drame. Mais là, il y a la force de Dieu. L’expression « sous l’action de l’Esprit » nous rappelle ce qu’on appelle en spiritualité « motions spirituelles » : ce sont ces mouvements de l’âme que nous ressentons en nous et que nous sommes appelés à écouter, pour discerner s’ils proviennent de l’Esprit Saint ou d’ailleurs. Faire attention aux motions intérieures de l’Esprit.

Alors, demandons-nous : par qui nous laissons-nous principalement mouvoir : par l’Esprit Saint ou par l’esprit du monde? C’est une question à laquelle nous devons tous nous confronter, surtout nous, consacrés. Tandis que l’Esprit fait reconnaître Dieu dans la petitesse et dans la fragilité d’un enfant, nous, nous risquons parfois de penser à notre consécration en termes de résultats, d’objectifs, de succès : nous nous déplaçons à la recherche d’espaces, de visibilité, de nombres : c’est une tentation. Mais l’Esprit ne demande pas cela. Il désire que nous cultivions la fidélité quotidienne, dociles aux petites choses qui nous ont été confiées. Comme la fidélité de Siméon et d’Anne est belle ! Chaque jour ils se rendent au temple, chaque jour ils attendent et prient, même si le temps passe et que rien ne semble arriver. Ils attendent toute leur vie, sans se décourager et sans se plaindre, en restant fidèles chaque jour et en alimentant la flamme de l’espérance que l’Esprit a allumée dans leurs cœurs.

Nous pouvons nous demander, nous, frères et sœurs : qu’est-ce qui motive nos journées? Quel amour nous pousse à aller de l’avant? L’Esprit Saint ou la passion du moment, c’est-à-dire n’importe quoi? Comment évoluons-nous dans l’Église et dans la société? Parfois, même derrière l’apparence de bonnes œuvres, peuvent se cacher le ver du narcissisme ou la frénésie du protagonisme. Dans d’autres cas, tout en accomplissant beaucoup de choses, nos communautés religieuses semblent être animées davantage par la répétition mécanique – faire les choses par habitude, seulement pour les faire – que par l’enthousiasme d’adhérer à l’Esprit Saint. Ça nous ferait du bien, à chacun, de vérifier aujourd’hui nos motivations intérieures, discernons les motions spirituelles, car le renouveau de la vie consacrée passe d’abord par là.

Une deuxième question : que voient nos yeux? Siméon, poussé par l’Esprit, voit et reconnaît le Christ. Et il prie en disant : « Mes yeux ont vu le salut » (v. 30). Voilà le grand miracle de la foi : elle ouvre les yeux, transforme le regard, change la vision. Comme nous le savons à travers de nombreuses rencontres de Jésus dans les Évangiles, la foi naît du regard compatissant avec lequel Dieu nous regarde, en déliant les duretés de notre cœur, en guérissant ses blessures, en nous donnant des yeux nouveaux pour nous regarder nous-mêmes et le monde. Un regard nouveau sur nous-mêmes, sur les autres, sur toutes les situations que nous vivons, même les plus douloureuses. Il ne s’agit pas d’un regard naïf, non, mais sage. Le regard naïf fuit la réalité ou feint de ne pas voir les problèmes. Il s’agit au contraire d’un regard qui sait “voir à l’intérieur” et “voir au-delà”; qui ne s’arrête pas aux apparences, mais qui sait entrer aussi dans les fissures de la fragilité et des échecs pour y percevoir la présence de Dieu.

Les yeux âgés de Siméon, bien que fatigués par les années, voient le Seigneur, ils voient le salut. Et nous? Chacun peut se demander : que voient nos yeux? Quelle vision avons-nous de la vie consacrée? Le monde la voit souvent comme un “gaspillage” : “Mais regarde, ce garçon si doué devenir Frère”, ou bien “une fille aussi douée, devenir sœur... C’est du gâchis. Si au moins il était laid ou elle était laide... Non, ils sont bons, c’est du gâchis”. C’est ainsi que nous pensons. Le monde voit peut-être la vie consacrée comme une réalité du passé, quelque chose d’inutile. Mais nous, communauté chrétienne, religieuses et religieux, que voyons-nous? Sommes-nous tournés vers l’arrière, nostalgiques de ce qui n’existe plus, ou bien sommes-nous capables d’un regard de foi tourné vers l’avenir, qui va au-delà? Avoir la sagesse de regarder – c’est l’Esprit qui la donne – de bien regarder, bien mesurer les distances, comprendre la réalité. Ça me fait beaucoup de bien de voir des personnes consacrées âgées, qui, avec des yeux lumineux, continuent à sourire, donnant de l’espoir aux jeunes. Pensons à tous les moments où nous avons croisé de tels regards et bénissons Dieu pour cela. Ce sont des regards d’espérance, ouverts à l’avenir. Et peut-être cela nous fera du bien, en ces jours-ci, de rencontrer, de rendre visite à nos frères religieux et à nos sœurs religieuses âgés, pour les regarder, pour parler, pour demander, pour entendre ce qu’ils pensent. Je pense que ce sera un bon médicament.

Frères et sœurs, le Seigneur ne manque pas de nous donner des signes pour nous inviter à cultiver une vision renouvelée de la vie consacrée. Il le faut, mais à la lumière, sous les motions de l’Eprit Saint. Nous ne pouvons pas faire semblant de ne pas les voir, et continuer comme si de rien n’était, en répétant les choses de toujours, en nous traînant par inertie dans les formes du passé, paralysés par la peur du changement. Je l’ai dit souvent : aujourd’hui, la tentation de reculer, par sécurité, par peur, pour conserver la foi, pour conserver le charisme fondateur... C’est une tentation. La tentation de reculer et de conserver les “traditions” avec rigidité. Mettons-nous à l’esprit que la rigidité est une perversion, et sous toute rigidité il y a de graves problèmes. Ni Siméon ni Anne étaient rigides, non, ils étaient libres et ils avaient la joie de faire la fête : lui, louant le Seigneur et prophétisant avec courage à la mère; et elle, comme une bonne vieille femme, allant d’un côté à l’autre en disant : “Regardez ceux-ci, regardez cela !”. Ils ont donné l’annonce avec joie, les yeux pleins d’espérance. Pas d’inertie du passé, pas de rigidité. Ouvrons les yeux : à travers les crises – oui, c’est vrai, il y a des crises -, le nombre qui fait défaut - “Mon Père, il n’y a pas de vocations, maintenant nous irons au bout du monde pour voir si nous en trouvons quelques-unes” -, les forces qui diminuent, l’Esprit invite à renouveler notre vie et nos communautés. Et comment ferons-nous cela? Il nous indiquera le chemin. Nous, ouvrons notre cœur avec courage, sans peur. Ouvrons notre cœur. Regardons Siméon et Anne : même s’ils ont un âge avancé, ils ne passent pas leur temps à regretter un passé qui ne reviendra pas, mais ils ouvrent les bras à l’avenir qui vient à leur rencontre. Frères et sœurs, ne gaspillons pas l’aujourd’hui en regardant l’hier, ou en rêvant d’un lendemain qui n’adviendra jamais, mais mettons-nous devant le Seigneur, en adoration, et demandons des yeux qui sachent voir le bien et percevoir les voies de Dieu. Le Seigneur nous les indiquera si nous si nous le demandons. Avec joie, avec force, sans peur.

Enfin, une troisième question : que serrons-nous dans nos bras? Siméon accueille Jésus dans ses bras (cf. v. 28). C’est une scène tendre et pleine de signification, unique dans les Évangiles. Dieu a mis son Fils entre nos bras parce qu’accueillir Jésus est l’essentiel, le centre de la foi. Parfois, nous risquons de nous perdre et de nous disperser dans mille choses différentes, de nous fixer sur des aspects secondaires ou de nous plonger dans les choses à faire, mais le centre de tout c’est le Christ qu’on doit accueillir comme Seigneur de notre vie.

Quand Siméon prend Jésus dans ses bras, ses lèvres prononcent des paroles de bénédiction, de louange, d’émerveillement. Et nous, après de nombreuses années de vie consacrée, avons-nous perdu la capacité de nous émerveiller? Ou avons-nous encore cette capacité? Faisons un examen là-dessus, et si quelqu’un ne la trouve pas, qu’il demande la grâce de l’émerveillement, l’émerveillement face aux merveilles que Dieu fait en nous, cachées comme celle du temple, lorsque Siméon et Anne rencontrèrent Jésus. Si les personnes consacrées manquent de paroles qui bénissent Dieu et les autres, si la joie manque, si l’élan disparaît, si la vie fraternelle n’est que peine, s’il manque l’émerveillement, ce n’est pas parce que nous sommes victimes de quelqu’un ou de quelque chose, la vraie raison est que nos bras ne serrent plus Jésus. Et quand les bras d’un consacré, d’une consacrée ne serrent pas Jésus, ils serrent le vide, qu’ils cherchent à remplir par d’autres choses, mais il y a le vide. Serrer Jésus dans nos bras : tel est le signe, tel est le chemin, telle est la “recette” du renouveau. Alors, quand nous n’embrassons pas Jésus, le cœur s’enferme dans l’amertume. C’est triste de voir des consacrés, des consacrées amers : ils s’enferment dans les plaintes pour les choses qui ponctuellement ne vont pas, dans une rigueur qui les rend inflexibles, dans des attitudes de prétendue supériorité. Ils se plaignent toujours de quelque chose : du supérieur, de la supérieure, des frères, de la communauté, de la cuisine... S’ils ne se plaignent pas, ils ne vivent pas. Mais nous devons serrer Jésus en adoration et demander des yeux qui sachent voir le bien et percevoir les voies de Dieu. Si nous accueillons le Christ à bras ouverts, nous accueillerons aussi les autres avec confiance et humilité. Alors les conflits ne s’envenimeront plus, les distances ne diviseront plus, et la tentation de d’abuser et de blesser la dignité de certaines sœurs ou de certains frères disparaîtra. Ouvrons nos bras au Christ et à nos frères! C’est là qu’est Jésus.

Bien-aimés, renouvelons aujourd’hui avec enthousiasme notre consécration! Demandons-nous quelles sont les motivations qui animent notre cœur et notre action, quelle est la vision renouvelée que nous sommes appelés à cultiver et, surtout, prenons dans nos bras Jésus. Même si nous faisons l’expérience des lassitudes et des fatigues – cela arrive : même les déceptions, ça arrive -, faisons comme Siméon et Anne qui attendent avec patience la fidélité du Seigneur et qui ne se laissent pas voler la joie de la rencontre. Avançons vers la joie de la rencontre : c’est très beau ! Remettons-Le au centre et avançons avec joie. Ainsi soit-il.

[00154-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

Two elderly people, Simeon and Anna, await in the Temple the fulfilment of the promise that God made to his people: the coming of the Messiah.  Yet theirs is no passive expectation, it is full of movement.  Let us look at what Simeon does.  First, he is moved by the Spirit; then he sees salvation in the Child Jesus and finally he takes him into his arms (cf. Lk 2:26-28).  Let us simply consider these three actions and reflect on some important questions for us and in particular for the consecrated life. 

First, what moves us?  Simeon goes to the Temple, “moved by the spirit” (v. 27).  The Holy Spirit is the protagonist in this scene.  He makes Simeon’s heart burn with desire for God.  He keeps expectation alive in his heart:  He impels him to go to the Temple and he enables his eyes to recognize the Messiah, even in the guise of a poor little baby.  That is what the Holy Spirit does: he enables us to discern God’s presence and activity not in great things, in outward appearances or shows of force, but in littleness and vulnerability.  Think of the cross.  There too we find littleness and vulnerability, but also something dramatic: the power of God.  Those words “moved by the spirit” remind us of what ascetic theology calls “movements of the Spirit”: those movements of the soul that we recognize within ourselves and are called to test, in order to discern whether they come from the Holy Spirit or not.  Be attentive to the interior movements of the Spirit.

We can also ask, who mostly moves us?  Is it the Holy Spirit, or the spirit of this world?   This a question that everyone, consecrated persons in particular, needs to ask.  The Spirit moves us to see God in the littleness and vulnerability of a baby, yet we at times risk seeing our consecration only in terms of results, goals and success: we look for influence, for visibility, for numbers.  This is a temptation.  The Spirit, on the other hand, asks for none of this.  He wants us to cultivate daily fidelity and to be attentive to the little things entrusted to our care.  How touching is the fidelity shown by Simeon and Anna!  Each day they go to the Temple, each day they keep watch and pray, even though time passes and nothing seems to happen.  They live their lives in expectation, without discouragement or complaint, persevering in fidelity and nourishing the flame of hope that the Spirit has kindled in their hearts.

Brothers and sisters, we can ask, what moves our days?  What is the love that makes us keep going?  Is it the Holy Spirit, or the passion of the moment, or something else?  How do we “move” in the Church and in society?  Sometimes, even behind the appearance of good works, the canker of narcissism, or the need to stand out, can be concealed.  In other cases, even as we go about doing many things, our religious communities can appear moved more by mechanical repetition – acting out of habit, just to keep busy – than by enthusiastic openness to the Holy Spirit.  All of us would do well today to examine our interior motivations and discern our spiritual movements, so that the renewal of consecrated life may come about, first and foremost, from there.

A second question: What do our eyes see?  Simeon, moved by the Spirit, sees and recognizes Christ.  And he prays, saying: “My eyes have seen your salvation” (v. 30).  This is the great miracle of faith: it opens eyes, transforms gazes, changes perspectives.  As we know from Jesus’ many encounters in the Gospel, faith is born of the compassionate gaze with which God looks upon us, softening the hardness of our hearts, healing our wounds and giving us new eyes to look at ourselves and at our world.  New ways to see ourselves, others and all the situations that we experience, even those that are most painful.  This gaze is not naïve but sapiential.  A naïve gaze flees reality and refuses to see problems.  A sapiential gaze, however, can “look within” and “see beyond”.  It is a gaze that does not stop at appearances, but can enter into the very cracks of our weaknesses and failures, in order to discern God’s presence even there.

The eyes of the elderly Simeon, albeit dimmed by the years, see the Lord.  They see salvation.  What about us?  Each of us can ask: what do our eyes see?  What is our vision of consecrated life?  The world often sees it as “a waste”: “look at that fine young person becoming a friar or a nun, what a waste!  If at least they were ugly… but what a waste”!  That is how we think.  The world perhaps sees this as a relic of the past, something useless.  But we, the Christian community, men and women religious, what do we see?  Are our eyes turned only inward, yearning for something that no longer exists, or are we capable of a farsighted gaze of faith, one that looks both within and beyond?  To have the wisdom to look at things – this is a gift of the Spirit – to look at things well, to see them in perspective, to grasp reality.  I am greatly edified when I see older consecrated men and women whose eyes are bright, who continue to smile and in this way to give hope to the young.  Let us think of all those times when we encountered such persons, and bless God for this.  For their eyes are full of hope and openness to the future.  And perhaps we would do well, in these days, to go make a visit to our elderly religious brothers and sisters, to see them, to talk with them, to ask questions, to hear what they are thinking.  I consider this a good medicine.

Brothers and sisters, the Lord never fails to give us signs that invite us to cultivate a renewed vision of consecrated life.  We need to do this, but in the light of the Holy Spirit and docile to his movements.  We cannot pretend not to see these signs and go on as usual, doing the same old things, drifting back through inertia to the forms of the past, paralyzed by fear of change.  I have said this over and over again: nowadays the temptation to go back, for security, out of fear, in order to preserve the faith or the charism of the founder… is a temptation.  The temptation to go back and preserve “”traditions” with rigidity.  Let’s get this into our head: rigidity is a perversion, and beneath every form of rigidity there are grave problems.  Neither Simeon or Anna were rigid; no, they were free and had the joy of celebrating: Simeon by praising the Lord and prophesying with courage to the child’s mother.  Anna, like a good old woman, kept saying: “Look at them!”  “Look at this!”  She spoke with joy, her eyes full of hope.  None of the inertia of the past, no rigidity.  Let us open our eyes: the Spirit is inviting us amid our crises – and crises there are –,  our decreasing numbers – “Father, there are no vocations, now we will go to the ends of the earth to see if we can find one” – and our diminishing forces, to renew our lives and our communities.  And how do we do this?  He will show us the way.  Let us open our hearts, with courage and without fear.  Let us look at Simeon and Anna: although they were advanced in years, they did not spend their days mourning a past that never comes back, but instead embraced the future opening up before them.  Brothers and sisters, let us not waste today by looking back at yesterday, or dreaming of a tomorrow that will never come; instead, let us place ourselves before the Lord in adoration and ask for eyes to see goodness and to discern the ways of God.  The Lord will give them to us, if we ask him.  With joy, with courage, without fear.

Finally, a third question: what do we take into our own arms?  Simeon took Jesus into his arms (cf. v. 28).  It is a touching scene, full of meaning and unique in the Gospels.  God has placed his Son in our arms too, because embracing Jesus is the essential thing, the very heart of faith.  Sometimes we risk losing our bearings, getting caught up in a thousand different things, obsessing about minor issues or plunging into new projects, yet the heart of everything is Christ, embracing him as the Lord of our lives.

When Simeon took Jesus into his arms, he spoke words of blessing, praise and wonder.  And we, after so many years of consecrated life, have we lost the ability to be amazed?  Do we still have this capacity?  Let us examine ourselves on this, and if someone does not find it, let him or her ask the grace of amazement, amazement before the wonders that God is working in us, hidden, like those in the temple, when Simeon and Anna encountered Jesus.  If consecrated men and women lack words that bless God and other people, if they lack joy, if their enthusiasm fails, if their fraternal life is only a chore, if amazement is lacking, that is not the fault of someone or something else.  The real reason is that our arms no longer embrace Jesus.  And when the arms of a consecrated man or woman do not embrace Jesus, they embrace a vacuum which they try to fill with other things, but it remains a vacuum.  To take Jesus into our arms: this is the sign, the journey, the recipe for renewal.  When we fail to take Jesus into our arms, our hearts fall prey to bitterness.  It is sad to see religious who are bitter: closed up in complaining about things that never go right, in a rigidity that makes them inflexible, in attitudes of supposed superiority.  They are always complaining about something: the superior, their brothers or sisters, the community, the food…  They live for something to complain about.  But we have to embrace Jesus in adoration and ask for eyes capable of seeing the goodness and discerning the ways of God.  If we embrace Christ with open arms, we will also embrace others with trust and humility.  Then conflicts will not escalate, disagreements will not divide, and the temptation to domineer and to offend the dignity of others will be overcome.  So let us open our arms to Christ and to all our brothers and sisters.  For that is where Jesus is.

Dear friends, today let us joyfully renew our consecration!  Let us ask ourselves what “moves” our hearts and actions, what renewed vision we are being called to cultivate, and above all else, let us take Jesus into our arms.  Even if at times we experience fatigue and weariness – this too happens – , let us do as Simeon and Anna did.   They awaited with patience the fidelity of the Lord and did not allow themselves to be robbed of the joy of the encounter with him.  Let us advance to the joy of the encounter: this is beautiful!  Let us put the Lord back in the centre, and press forward with joy.  Amen.

[01154-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Zwei alte Menschen, Simeon und Hanna, warten im Tempel auf die Erfüllung der Verheißung, die Gott seinem Volk gegeben hatte: das Kommen des Messias. Aber ihr Warten ist nicht passiv, es ist voller Bewegung. Blicken wir zunächst auf das, was bei Simeon vor sich geht: Zuerst wird er vom Geist geführt, dann sieht er in diesem Kind das Heil und schließlich nimmt er es in seine Arme (vgl. Lk 2,26-28). Bleiben wir einfach ein wenig bei diesen drei Bewegungen und lassen wir uns von einigen Fragen leiten, die für uns wichtig sind, insbesondere für das gottgeweihte Leben.

Die erste Frage lautet: Wovon sind wir bewegt? Simeon wurde »vom Geist in den Tempel geführt« (V. 27). Der Heilige Geist ist der Protagonist der Szene. Er ist es, der die Sehnsucht nach Gott in Simeons Herz entzündet, er ist es, der die Erwartung in seiner Seele neu belebt, er ist es, der seine Schritte zum Tempel lenkt und seine Augen fähig macht, den Messias zu erkennen, auch wenn er ihm in der Gestalt eines kleinen und armen Kindes begegnet. Das ist es, was der Heilige Geist tut: Er befähigt, Gottes Gegenwart und sein Wirken nicht in den großen Dingen, in auffälligen Äußerlichkeiten oder in der Zurschaustellung von Stärke zu entdecken, sondern im Kleinen und Schwachen. Denken wir an das Kreuz: auch dort sehen wir das Kleine, das Zerbrechliche, ja das Dramatische. Aber darin liegt die Kraft Gottes. Der Ausdruck „vom Geist bewegt“ erinnert an das, was man in der Spiritualität „geistliche Regungen“ nennt: das sind jene Bewegungen der Seele, die wir in uns spüren und auf die wir hören sollen, um dann zu unterscheiden, ob sie vom Heiligen Geist oder von etwas anderem herrühren. Auf die inneren Regungen des Geistes achten.

Fragen wir uns also: Von wem lassen wir uns in erster Linie bewegen: vom Heiligen Geist oder vom Geist der Welt? Das ist eine Frage, an der wir uns alle messen müssen, besonders wir, die wir unser Leben Gott geweiht haben. Während der Geist uns Gott in der Kleinheit und Schwachheit eines Kindes erkennen lässt, laufen wir manchmal Gefahr, unsere Weihe in den Kategorien von Ergebnissen, Zielen und Erfolgen zu denken: Wir streben nach Räumen, Sichtbarkeit und Zahlen: das ist eine Versuchung. Der Geist hingegen verlangt dies nicht. Er möchte, dass wir täglich Treue üben und uns um die kleinen Dinge kümmern, die uns anvertraut worden sind. Wie schön ist die Treue von Simeon und Hanna! Jeden Tag gehen sie zum Tempel, jeden Tag warten sie und beten, auch wenn die Zeit vergeht und nichts zu geschehen scheint. Sie warten ihr ganzes Leben lang, ohne den Mut zu verlieren und ohne zu klagen, sie bleiben täglich treu und nähren die Flamme der Hoffnung, die der Geist in ihren Herzen entzündet hat.

Wir, Brüder und Schwestern, können uns fragen: Was bewegt uns im Leben? Welche Liebe treibt uns an? Der Heilige Geist oder die Leidenschaft des Augenblicks oder irgendetwas sonst? Wie bewegen wir uns in der Kirche und in der Gesellschaft? Selbst hinter dem Anschein guter Taten kann sich manchmal der Wurm des Narzissmus oder Geltungsbedürfnis verbergen. In anderen Fällen scheinen unsere Ordensgemeinschaften, auch wenn sie viele Dinge tun, mehr von mechanischer Wiederholung angetrieben zu werden – davon, Dinge aus Gewohnheit zu tun, einfach nur, damit sie getan werden – als von der Freude des Heiligen Geistes. Es tut uns gewiss gut, heute unsere inneren Beweggründe zu prüfen. Unterscheiden wir diese geistlichen Regungen, denn die Erneuerung des gottgeweihten Lebens nimmt vor allem hier ihren Ausgang.

Eine zweite Frage: Was sehen unsere Augen? Simeon, vom Geist bewegt, sieht und erkennt Christus. Und er betet und sagt: »Meine Augen haben das Heil gesehen« (V. 30). Das ist das große Wunder des Glaubens: Er öffnet die Augen, verwandelt den Blick, verändert die Sichtweise. Wie wir aus den vielen Begegnungen Jesu in den Evangelien wissen, erwächst der Glaube aus dem mitfühlenden Blick, mit dem Gott uns ansieht, der unsere harten Herzen erweicht und dessen Wunden heilt und der uns eine neue Sicht auf uns selbst und die Welt schenkt. Einen neuen Blick auf uns selbst, auf die Anderen, auf alle Situationen unseres Lebens, selbst die schmerzhaftesten. Es geht nicht um einen naiven Blick, nein, er ist weise; der naive Blick flieht vor der Realität oder tut so, als würde er die Probleme nicht sehen; es geht hingegen um Augen, die es verstehen, „nach innen zu blicken“ und „darüber hinaus zu sehen“; die nicht bei Äußerlichkeiten stehen bleiben, sondern auch in die Risse der Zerbrechlichkeit und des Versagens vordringen können, um dort die Gegenwart Gottes wahrzunehmen.

Simeons alte und über die Jahre müde gewordenen Augen sehen den Herrn, sehen das Heil. Und was ist mit uns? Jeder kann sich fragen: Was sehen unsere Augen? Welche Vorstellung haben wir vom gottgeweihten Leben? Die Welt sieht darin oft eine „Verschwendung“: „Sieh doch nur, dieser gescheite Junge, der will ein Mönch werden“, oder „dieses gute Mädchen, die will eine Nonne werden... Das ist eine Verschwendung. Wenn er oder sie wenigstens hässlich wäre... Nein, die sind gut, das ist eine Verschwendung.“ So denken wir. Die Welt sieht darin vielleicht eine Realität aus der Vergangenheit, etwas Unnützes. Aber wir, was sehen wir als christliche Gemeinschaft, als Ordensleute? Blicken wir nostalgisch auf das zurück, was nicht mehr ist, oder sind wir fähig zu dem weitsichtigen Blick des Glaubens, der sowohl nach innen geht, als auch über die Dinge hinaus? Die Weisheit des Schauens – dies ist eine Gabe des Geistes: etwas gut zu sehen, Entfernungen richtig abzuschätzen, die Dinge zu verstehen. Es ist sehr wohltuend für mich, ältere gottgeweihte Männer und Frauen zu sehen, die mit leuchtenden Augen immerzu lächeln und den jungen Menschen Hoffnung geben. Denken wir an Situationen, in denen uns ähnliche Blicke begegnet sind, und preisen wir Gott dafür. Das sind Blicke der Hoffnung, offen für die Zukunft. Und vielleicht wäre es gut, wenn wir in diesen Tagen ein Treffen mit unseren älteren Ordensbrüdern und -schwestern organisieren würden, um sie zu besuchen, nach ihnen zu schauen, mit ihnen zu sprechen, sie zu fragen und zu hören, was sie denken. Ich denke, das wäre eine gute Medizin.

Brüder und Schwestern, der Herr unterlässt es nicht, uns Zeichen zu geben, die uns einladen, eine erneuerte Sicht des gottgeweihten Lebens zu kultivieren. Das ist nötig, aber im Lichte und gemäß den Eingebungen des Heiligen Geistes. Wir können nicht so tun, als ob wir diese Zeichen nicht sehen, und so weitermachen, als ob nichts geschehen wäre; wir können nicht die gleichen althergebrachten Dinge wiederholen und aus Trägheit in die Formen der Vergangenheit zurückverfallen, gelähmt von der Angst vor Veränderungen. Ich habe es schon oft gesagt: Heute ist die Versuchung groß, rückwärts zu gehen, aus Sicherheit, aus Angst, um den Glauben zu bewahren, um das Gründungscharisma zu bewahren... Das ist eine Versuchung. Die Versuchung, rückwärts zu gehen und die „Traditionen“ starr zu bewahren. Wir müssen uns klarmachen: Starrheit ist eine Perversion, und hinter jeder Starrheit verbergen sich ernste Probleme. Weder Simeon noch Hanna waren starr, nein, sie waren frei und hatten Freude am Feiern: er, indem er den Herrn lobte und der Mutter Jesu gegenüber mutig prophezeite; und sie, wie eine gute alte Frau, die hin und her ging und sagte: „Seht euch das an, seht euch das an!“. Sie verkündeten dies voller Freude und mit einem Blick voller Hoffnung. Kein Verharren in der Vergangenheit, keine Starrheit. Öffnen wir unsere Augen: Durch die Krisen – ja, es stimmt, es gibt Krisen –, durch die immer geringer werdenden Zahlen – „Pater, es gibt keine Berufungen, jetzt schauen wir am Ende der Welt nach, ob wir eine finden –, durch die nachlassenden Kräfte, lädt der Geist uns ein, unser Leben und unsere Gemeinschaften zu erneuern. Und wie machen wir das? Er wird uns den Weg zeigen. Wir öffnen unser Herz, mutig und ohne Angst. Öffnen wir unser Herz. Blicken wir auf Simeon und Hanna: Auch wenn sie fortgeschrittenen Alters sind, verbringen sie ihre Tage nicht damit, einer Vergangenheit nachzuweinen, die nicht mehr wiederkehrt, sondern sie öffnen ihre Arme für die Zukunft, für das, was auf sie zukommt. Brüder und Schwestern, vergeuden wir die Gegenwart nicht mit dem Blick auf das Gestrige und träumen wir auch nicht von einer Zukunft, die es nie geben wird, sondern begeben wir uns in Anbetung vor den Herrn und bitten wir um Augen, die das Gute sehen und die Wege Gottes erkennen können. Der Herr wird sie uns zeigen, wenn wir ihn darum bitten. Freudig, kräftig und ohne Angst.

Schließlich eine dritte Frage: Was halten wir in unseren Armen? Simeon nimmt Jesus in seine Arme (vgl. V. 28). Dies ist eine zärtliche und bedeutungsvolle Szene, die in den Evangelien einzigartig ist. Gott hat seinen Sohn in unsere Arme gelegt, weil die Aufnahme Jesu das Wesentliche ist, der Kern des Glaubens. Manchmal laufen wir Gefahr, uns in tausend Dingen zu verlieren und zu verzetteln, uns auf Nebensächlichkeiten zu fixieren oder uns in irgendwelche Aktivitäten zu stürzen, aber das Zentrum von allem ist Christus, den wir als Herrn unseres Lebens annehmen sollen.

Als Simeon Jesus in seine Arme nimmt, kommen ihm Worte des Lobpreises und des Staunens über die Lippen. Und wir, haben wir nach so vielen Jahren gottgeweihten Lebens die Fähigkeit verloren, zu staunen? Oder besitzen wir diese Fähigkeit noch? Prüfen wir uns diesbezüglich, und wenn jemand sieht, dass er diese Fähigkeit nicht mehr hat, dann möge er um die Gnade des Staunens bitten, des Staunens über die Wunder, die Gott in uns wirkt, im Verborgenen, so wie damals im Tempel, als Simeon und Hanna Jesus begegneten. Wenn es bei gottgeweihten Menschen an Worten fehlt, die Gott und die Mitmenschen loben, wenn die Freude ausbleibt, wenn der Elan fehlt, wenn das Zusammenleben mit den Brüdern und Schwestern nur noch mühsam ist, wenn man nicht mehr staunen kann, dann liegt das nicht daran, dass wir Opfer von jemandem oder etwas sind. Das wahre Motiv ist, dass wir Jesus nicht mehr in unseren Armen halten. Und wenn die Arme eines Gottgeweihten, einer Gottgeweihten nicht Jesus umschließen, dann halten sie die Leere fest, die sie mit anderen Dingen zu füllen versuchen, aber da ist dann eben nur Leere. Jesus an sich drücken: das ist das Zeichen, das ist der Weg, das ist das „Rezept“ für die Erneuerung. Dann, wenn wir Jesus nicht in unsere Arme schließen, verschließt sich das Herz in Bitterkeit. Es ist traurig, verbitterte gottgeweihte Menschen zu sehen: sie verschließen sich in Klagen über Dinge, die regelmäßig nicht gut laufen, in einer Härte, die unnachgiebig macht, in einer Haltung anmaßender Überlegenheit. Sie beklagen sich immer über irgendetwas: über die Oberen, die Brüder und Schwestern, die Gemeinschaft, die Küche... Wenn sie nicht klagen, leben sie nicht. Aber wir müssen Jesus anbetend festhalten und um Augen bitten, die das Gute zu sehen und die Wege Gottes zu erkennen vermögen. Wenn wir Christus mit offenen Armen aufnehmen, werden wir auch unsere Mitmenschen mit Vertrauen und Demut annehmen. Dann werden Konflikte nicht eskalieren, Unterschiede werden nicht zu Spaltungen führen und die Versuchung, einer Schwester oder einem Bruder gegenüber Grenzen zu überschreiten und sie in ihrer Würde zu verletzen, ist gebannt. Öffnen wir unsere Arme für Christus und für unsere Brüder und Schwestern! Dort ist Jesus.

Liebe Brüder und Schwestern, wir wollen heute mit Begeisterung unsere Weihe erneuern! Fragen wir uns, was unser Herz und unser Handeln antreibt, welche neue Sichtweise wir kultivieren sollen, und nehmen wir vor allem Jesus in unsere Arme. Auch wenn wir Müdigkeit und Erschöpfung empfinden – das mag sein, auch Enttäuschungen, das passiert – wollen wir es Simeon und Hanna gleichtun und geduldig auf die Treue des Herrn bauen und uns die Freude der Begegnung nicht nehmen lassen. Suchen wir die Freude der Begegnung: das ist etwas sehr Schönes! Stellen wir ihn wieder in den Mittelpunkt und schreiten wir freudig voran. Amen.

[00154-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

Dos ancianos, Simeón y Ana, esperan en el templo el cumplimiento de la promesa que Dios ha hecho a su pueblo: la llegada del Mesías. Pero no es una espera pasiva sino llena de movimiento. En este contexto, sigamos pues los pasos de Simeón: él, en un primer momento, es conducido por el Espíritu, luego, ve en el Niño la salvación y, finalmente, lo toma en sus brazos (cf. Lc 2,26-28). Detengámonos en estas tres acciones y dejémonos interpelar por algunas cuestiones importantes para nosotros, en particular para la vida consagrada.

La primera, ¿qué es lo que nos mueve? Simeón va al templo «conducido por el mismo Espíritu» (v. 27). El Espíritu Santo es el actor principal de la escena. Es Él quien inflama el corazón de Simeón con el deseo de Dios, es Él quien aviva en su ánimo la espera, es Él quien lleva sus pasos hacia el templo y permite que sus ojos sean capaces de reconocer al Mesías, aunque aparezca como un niño pequeño y pobre. Así actúa el Espíritu Santo: nos hace capaces de percibir la presencia de Dios y su obra no en las cosas grandes, tampoco en las apariencias llamativas ni en las demostraciones de fuerza, sino en la pequeñez y en la fragilidad. Pensemos en la cruz, también ahí hay una pequeñez, una fragilidad, incluso un dramatismo. Pero ahí está la fuerza de Dios. La expresión “conducido por el Espíritu” nos recuerda lo que en la espiritualidad se denominan “mociones espirituales”, que son esas inspiraciones del alma que sentimos dentro de nosotros y que estamos llamados a escuchar, para discernir si provienen o no del Espíritu Santo. Estemos atentos a las mociones interiores del Espíritu.

Preguntémonos entonces, ¿de quién nos dejamos principalmente inspirar? ¿Del Espíritu Santo o del espíritu del mundo? Esta es una pregunta con la que todos nos debemos confrontar, sobre todo nosotros, los consagrados. Mientras el Espíritu lleva a reconocer a Dios en la pequeñez y en la fragilidad de un niño, nosotros a veces corremos el riesgo de concebir nuestra consagración en términos de resultados, de metas y de éxito. Nos movemos en busca de espacios, de notoriedad, de números —es una tentación—. El Espíritu, en cambio, no nos pide esto. Desea que cultivemos la fidelidad cotidiana, que seamos dóciles a las pequeñas cosas que nos han sido confiadas. Qué hermosa es la fidelidad de Simeón y de Ana. Cada día van al templo, cada día esperan y rezan, aunque el tiempo pase y parece que no sucede nada. Esperan toda la vida, sin desanimarse ni quejarse, permaneciendo fieles cada día y alimentando la llama de la esperanza que el Espíritu encendió en sus corazones.

Podemos preguntarnos, hermanos y hermanas, ¿qué es lo que anima nuestros días? ¿Qué amor nos impulsa a seguir adelante? ¿El Espíritu Santo o la pasión del momento, o cualquier otra cosa? ¿Cómo nos movemos en la Iglesia y en la sociedad? A veces, aun detrás de la apariencia de buenas obras, puede esconderse el virus del narcisismo o la obsesión de protagonismo. En otros casos, incluso cuando realizamos tantas actividades, nuestras comunidades religiosas parece que se mueven más por una repetición mecánica —hacer las cosas por costumbre, sólo por hacerlas— que por el entusiasmo de entrar en comunión con el Espíritu Santo. Nos hará bien a todos verificar hoy nuestras motivaciones interiores, discernir las mociones espirituales, porque la renovación de la vida consagrada pasa sobre todo por aquí. 

Una segunda cuestión es, ¿qué ven nuestros ojos? Simeón, movido por el Espíritu, ve y reconoce a Cristo. Y reza diciendo: «mis ojos han visto tu salvación» (v. 30). Este es el gran milagro de la fe: que abre los ojos, trasforma la mirada y cambia la perspectiva. Como comprobamos por los muchos encuentros de Jesús en los evangelios, la fe nace de la mirada compasiva con la que Dios nos mira, rompiendo la dureza de nuestro corazón, curando sus heridas y dándonos una mirada nueva para vernos a nosotros mismos y al mundo. Una mirada nueva hacia nosotros mismos, hacia los demás, hacia todas las situaciones que vivimos, incluso las más dolorosas. No se trata de una mirada ingenua, no, sino sapiencial: la mirada ingenua huye de la realidad o finge no ver los problemas; se trata, por el contrario, de una mirada que sabe “ver dentro” y “ver más allá”; que no se detiene en las apariencias, sino que sabe entrar también en las fisuras de la fragilidad y de los fracasos para descubrir en ellas la presencia de Dios.

La mirada cansada de Simeón, aunque debilitada por los años, ve al Señor, ve la salvación. ¿Y nosotros? Cada uno de nosotros puede preguntarse: ¿qué ven nuestros ojos? ¿qué visión tenemos de la vida consagrada? El mundo la ve muchas veces como un “despilfarro”: “Pero mira, aquel chico tan bueno, hacerse fraile”, o “una chica tan competente, hacerse religiosa… Es un despilfarro. Si por lo menos fuera feo o fea… Pero no, son buenos, y esto es un despilfarro”. Así pensamos nosotros. El mundo lo ve como si fuera una realidad del pasado, inútil. Pero nosotros, comunidad cristiana, religiosas y religiosos, ¿qué vemos? ¿tenemos puesta la mirada en el pasado, nostálgicos de lo que ya no existe o somos capaces de una mirada de fe clarividente, proyectada hacia el interior y más allá? Tener la sabiduría de mirar —esta la da el Espíritu—, mirar bien, medir bien las distancias, comprender la realidad. A mí me hace mucho bien ver consagrados y consagradas mayores, que con mirada radiante continúan a sonreír, dando esperanza a los jóvenes. Pensemos en las veces en las que nos hemos encontrado con esas miradas y bendigamos a Dios por ello. Son miradas de esperanza, abiertas al futuro. Y tal vez nos hará bien, en estos días, tener un encuentro, ir a visitar a nuestros hermanos religiosos y religiosas mayores, para mirarlos, para conversar con ellos, para preguntarles, para saber qué es lo que piensan. Creo que sería una buena medicina. 

Hermanos y hermanas, el Señor no deja de mandarnos señales para invitarnos a cultivar una visión renovada de la vida consagrada. Esta es necesaria, pero bajo la luz y las mociones del Espíritu Santo. No podemos fingir no ver estas señales y continuar como si nada, repitiendo las cosas de siempre, arrastrándonos por inercia en las formas del pasado, paralizados por el miedo a cambiar. Lo he dicho muchas veces, hoy, la tentación es ir hacia atrás, por seguridad, por miedo, para conservar la fe, para conservar el carisma del fundador… Es una tentación. La tentación de ir hacia atrás y de conservar las “tradiciones” con rigidez. Metámonoslo en la cabeza: la rigidez es una perversión, y detrás de toda rigidez hay graves problemas. Ni Simeón ni Ana eran rígidos, no, eran libres y tenían la alegría de hacer fiesta. Él, alabando al Señor y profetizando con valentía a la mamá; y ella, como buena viejita, yendo de un lado para otro diciendo: “Miren a estos, miren esto”. Dieron el anuncio con alegría, con ojos llenos de esperanza. Nada de inercias del pasado, nada de rigidez. Abramos los ojos: a través de las crisis —sí, es verdad, hay crisis—, de los números que escasean y de las fuerzas que disminuyen —“Padre, no hay vocaciones, ahora iremos hasta el fin del mundo para ver si encontramos alguna”— el Espíritu Santo nos invita a renovar nuestra vida y nuestras comunidades. ¿Y cómo lo haremos? Él nos indicará el camino. Nosotros abramos el corazón, con valentía, sin miedo. Abramos el corazón. Fijémonos en Simeón y Ana que, aun teniendo una edad avanzada, no transcurrieron los días añorando un pasado que ya no volvería, sino que abrieron sus brazos al futuro que les salía al encuentro. Hermanos y hermanas, no desaprovechemos el presente mirando al pasado, o soñando un mañana que jamás llegará, sino que pongámonos ante el Señor, en adoración, y pidámosle una mirada que sepa ver el bien y discernir los caminos de Dios. El Señor nos la dará, si nosotros se la pedimos. Con alegría, con fortaleza, sin miedo.

Por último, una tercera cosa, ¿qué estrechamos en nuestros brazos? Simeón tomó a Jesús en sus brazos (cf. v. 28). Esta es una escena tierna y densa de significado, única en los evangelios. Dios ha puesto a su Hijo en nuestros brazos porque acoger a Jesús es lo esencial, es el centro de la fe. A veces corremos el riesgo de perdernos y dispersarnos en mil cosas, de fijarnos en aspectos secundarios o de concéntranos en nuestros asuntos, olvidando que el centro de todo es Cristo, a quien debemos acoger como el Señor de nuestra vida.

Cuando Simeón toma en brazos a Jesús, sus labios pronuncian palabras de bendición, de alabanza y de asombro. Y nosotros, después de tantos años de vida consagrada, ¿hemos perdido la capacidad de asombrarnos? ¿O tenemos todavía esta capacidad? Hagamos un examen sobre esto, y si alguno no la encuentra, pida la gracia del asombro, el asombro ante las maravillas que Dios está haciendo en nosotros, ocultas como la del templo, cuando Simeón y Ana encontraron a Jesús. Si a los consagrados nos faltan palabras que bendigan a Dios y a los otros, si nos falta la alegría, si desaparece el entusiasmo, si la vida fraterna es sólo un peso, si nos falta el asombro, no es porque seamos víctimas de alguien o de algo, el verdadero motivo es que ya no tenemos a Jesús en nuestros brazos. Y cuando los brazos de un consagrado, de una consagrada no abrazan a Jesús, abrazan el vacío, que buscan rellenar con otras cosas, pero el vacío queda. Tener a Jesús en nuestros brazos, esta es la señal, este es el camino, esta es la “receta” de la renovación. Cuando no abrazamos a Jesús, entonces el corazón se encierra en la amargura. Es triste ver consagrados amargados, que viven encerrados en la queja por las cosas que no van bien, en un rigor que nos vuelve inflexibles, con aires de aparente superioridad. Siempre se quejan de algo, del superior, de la superiora, de los hermanos, de la comunidad, de la cocina… Si no se quejan no viven. Nosotros en cambio debemos abrazar a Jesús en adoración y pedirle una mirada que sepa reconocer el bien y distinguir los caminos de Dios. Si acogemos a Cristo con los brazos abiertos, acogeremos también a los demás con confianza y humildad. De este modo, los conflictos no exasperan, las distancias no dividen y desaparece la tentación de intimidar y de herir la dignidad de cualquier hermana o hermano se apaga. Abramos, pues, los brazos a Cristo y a los hermanos. Ahí está Jesús.

Queridos amigos, queridas amigas, renovemos hoy con entusiasmo nuestra consagración. Preguntémonos qué motivaciones impulsan nuestro corazón y nuestra acción, cuál es la visión renovada que estamos llamados a cultivar y, sobre todo, tomemos en brazos a Jesús. Aun cuando experimentemos dificultades y cansancios —esto sucede, incluso desilusiones, sucede—, hagamos como Simeón y Ana, que esperan con paciencia la fidelidad del Señor y no se dejan robar la alegría del encuentro. Caminemos hacia la alegría del encuentro, esto es muy hermoso. Pongámoslo de nuevo a Él en el centro y sigamos adelante con alegría. Que así sea.

[00154-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

Dois anciãos, Simeão e Ana, aguardam no templo o cumprimento da promessa que Deus fez ao seu povo: a vinda do Messias. Mas a sua espera não é passiva; está cheia de movimento. Sigamos, pois, os movimentos de Simeão: em primeiro lugar, é movido pelo Espírito, depois no Menino a salvação e, finalmente, acolhe-O nos braços (cf. Lc 2, 26-28). Partindo simplesmente destas três ações, deixemo-nos interpelar por algumas perguntas importantes para nós, em particular para a vida consagrada.

A primeira é esta: O que é que nos faz mover? Simeão vai ao templo «movido pelo Espírito» (2, 27). O Espírito Santo é o ator principal da cena: faz arder no coração de Simeão o desejo de Deus, reaviva no seu íntimo a expetativa, impele os seus passos para o templo e torna os seus olhos capazes de reconhecer o Messias no pobre bebé que ali aparece. Isto é o que faz o Espírito Santo: torna-nos capazes de vislumbrar a presença de Deus e a sua obra, não nas grandes coisas, nas exterioridades vistosas, nas exibições de força, mas na pequenez e na fragilidade. Pensemos na cruz: também lá nos aparece a pequenez, a fragilidade, até mesmo um drama. Mas lá está a força de Deus. A expressão «movido pelo Espírito» faz pensar naquilo que a espiritualidade designa por «moções espirituais»: motos da alma, que sentimos dentro de nós e que somos chamados a auscultar para discernir se provêm do Espírito Santo ou doutra realidade. É preciso estarmos atentos às moções interiores do Espírito.

Nesta linha, perguntemo-nos: Deixamo-nos mover principalmente pelo Espírito Santo ou pelo espírito do mundo? É uma interrogação com que devemos confrontar-nos todos nós, especialmente os consagrados. Enquanto o Espírito leva a reconhecer Deus na pequenez e fragilidade duma criança, nós às vezes corremos o risco de pensar na nossa consagração em termos de resultados, metas, sucesso: movemo-nos à procura de espaços, de visibilidade, de números: é uma tentação. Ao passo que o Espírito não pede isto; deseja que cultivemos a fidelidade diária, dóceis às pequenas coisas que nos foram confiadas. Como é bela a fidelidade de Simeão e Ana! Todos os dias vão ao templo, todos os dias esperam e rezam, não obstante vá passando o tempo e nada pareça acontecer. Esperam a vida inteira, sem desanimar nem se lamentar, mantendo-se fiéis dia a dia e alimentando a chama da esperança que o Espírito acendeu no seu coração.

Podemos perguntar-nos, irmãos e irmãs: O que é que move os nossos dias? Que amor nos impele a seguir em frente: o Espírito Santo ou a paixão do momento, isto é, uma coisa qualquer? Como nos movemos na Igreja e na sociedade? Às vezes, mesmo por trás da aparência de boas obras, podem ocultar-se a traça do narcisismo ou o frenesi do protagonismo. Noutros casos, embora realizando muitas coisas, as nossas comunidades religiosas parecem ser movidas mais pela repetição mecânica – fazer as coisas por hábito, apenas para fazê-las – do que pelo entusiasmo de aderir ao Espírito Santo. Far-nos-á bem, a todos nós, verificar hoje as nossas motivações interiores, discirnamos as moções espirituais, porque a renovação da vida consagrada passa primariamente por aqui.

Uma segunda pergunta: O que veem os nossos olhos? Simeão, movido pelo Espírito, vê e reconhece Cristo. E reza dizendo: «Meus olhos viram a Salvação» (2, 30). Eis o grande milagre da fé: abre os olhos, transforma o olhar, muda a perspetiva. Como sabemos através de muitos encontros de Jesus nos Evangelhos, a fé nasce do olhar compassivo com que Deus nos vê, dissolvendo as durezas do nosso coração, curando as suas feridas, dando-nos olhos novos para nos vermos a nós mesmos e ao mundo: olhos novos sobre nós mesmos, sobre os outros, sobre todas as situações que vivemos, mesmo as mais dolorosas. Não se trata dum olhar ingénuo, mas é sapiencial; o olhar ingénuo foge da realidade ou finge não ver os problemas; ao contrário, trata-se de olhos que sabem «ver dentro» e «ver mais além»; que não se detêm nas aparências, mas sabem entrar também nas brechas da fragilidade e dos fracassos para vislumbrar a presença de Deus.

Os olhos envelhecidos de Simeão, embora cansados pelos anos, veem o Senhor, veem a salvação. E nós? Cada qual pode interrogar-se: que veem os nossos olhos? Que visão temos da vida consagrada? Muitas vezes o mundo vê-a como um «desperdício»: «Mas vê tu! Aquele rapaz tão promissor tornar-se frade», ou «uma jovem tão promissora fazer-se freira… É um desperdício. Se ao menos valessem pouco... Não, são promissores, é um desperdício». Assim pensam; o mundo talvez veja a vida consagrada como uma realidade do passado, qualquer coisa de inútil. Mas nós, comunidade cristã, religiosas e religiosos, que vemos? Temos os nossos olhos voltados para trás, saudosos daquilo que já não existe ou somos capazes dum olhar de fé clarividente, projetado para o íntimo e mais além? Devemos ter esta sabedoria de olhar (é o Espírito que a dá): olhar bem, medir bem as distâncias, compreender as realidades. Faz-me muito bem ver consagrados e consagradas idosos, que continuam a sorrir com olhos luminosos, dando esperança aos jovens. Pensemos nas vezes em que nos cruzamos com tais olhares e bendigamos a Deus por isso. São olhares de esperança, abertos para o futuro. E talvez nos faça bem, nestes dias, ir encontrar, fazer uma visita aos nossos irmãos e irmãs religiosos idosos, para os ver, conversar, perguntar, ouvir o que pensam. Creio que será um bom remédio.

Irmãos e irmãs, o Senhor não cessa de dar sinais para nos convidar a cultivar uma visão renovada da vida consagrada. Isso faz falta, mas sob a luz, sob a moção do Espírito Santo. Não podemos fingir que não vemos esses sinais e continuar como se não importassem, repetindo as coisas de sempre, arrastando-nos por inércia nas formas do passado, paralisados pelo medo de mudar. Já o disse muitas vezes: hoje há a tentação de voltar para trás, por segurança, por medo, para manter a fé, para manter o carisma fundador... É uma tentação. A tentação de voltar para trás e manter as «tradições» com rigidez. Fixemos isto na cabeça: a rigidez é uma perversão e, sob cada rigidez, há graves problemas. Nem Simeão nem Ana eram rígidos, não! Eram livres e tinham a alegria de festejar: ele, louvando o Senhor e profetizando com coragem acerca da Mãe; e ela, como uma boa velhinha, a mover-se dum lado para o outro dizendo: «Vede estes aqui, vede isto!» Fizeram o anúncio com alegria, com os olhos cheios de esperança. Sem inércias do passado, nem rigidez. Abramos os olhos: através das crises – é verdade; existem as crises – através dos números que faltam - «Padre, não há vocações! Agora iremos até ao fim do mundo para ver se encontramos alguma» –, através das forças que esmorecem, o Espírito convida-nos a renovar a nossa vida e as nossas comunidades. Mas como fazer? Será Ele a indicar-nos o caminho. Nós abrimos o coração, com coragem, sem medo. Abrimos o coração. Olhemos para Simeão e Ana! Embora de idade avançada, não passam os dias a chorar por um passado que não volta mais, mas abrem os braços para o futuro que vem ao seu encontro. Irmãos e irmãs, não desperdicemos o hoje a olhar para o ontem ou sonhando com um amanhã que jamais virá, mas coloquemo-nos diante do Senhor, em adoração, e peçamos olhos que saibam ver o bem e vislumbrar os caminhos de Deus. O Senhor no-lo concederá, se Lho pedirmos com alegria, com fortaleza, sem medo.

Por fim, uma terceira pergunta: Que estreitamos nos braços? Simeão acolhe Jesus nos braços (cf. 2, 28). É uma cena terna e rica de significado, única nos Evangelhos. Deus colocou o seu Filho nos nossos braços, porque o essencial, o centro da fé é acolher Jesus. Às vezes corremos o risco de nos perder e dispersar em mil coisas, fixar-nos em aspetos secundários ou mergulhar-nos nas coisas que temos de fazer, mas o centro de tudo é Cristo, que devemos acolher como o Senhor da nossa vida.

Quando Simeão toma Jesus nos braços, os seus lábios pronunciam palavras de bênção, louvor, maravilha. E nós, depois de tantos anos de vida consagrada, perdemos a capacidade de nos maravilhar? Ou temos ainda essa capacidade? Examinemo-nos sobre isto e, se alguém não a tiver, peça a graça da estupefação, a estupefação diante das maravilhas que Deus está a realizar em nós, escondidas como a do templo, quando Simeão e Ana encontraram Jesus. Se aos consagrados faltam palavras que bendizem Deus e os outros, se falta a alegria, se esmorece o entusiamo, se a vida fraterna é apenas fadiga, se falta a estupefação, isso não acontece por que somos vítimas de alguém ou dalguma coisa, o verdadeiro motivo é que os nossos braços já não estreitam Jesus. E quando os braços dum consagrado, duma consagrada não estreitam Jesus, estreitam o vazio, que procuram preencher com outras coisas, mas permanece o vazio. Estreitar Jesus com os braços: este é o sinal, este é o caminho, esta é a «receita» para a renovação. Então, quando não abraçamos Jesus, o coração fecha-se na amargura. É triste ver consagrados amargos, consagradas amargas: fecham-se na lamentação pelas coisas que não funcionam a tempo e horas, num rigor que nos torna inflexíveis, em atitudes de pretensa superioridade.

Sempre se lamentam de alguma coisa: do superior, da superiora, dos irmãos, da comunidade, da cozinha... Se não têm de que lamentar-se, não vivem. Mas nós devemos abraçar Jesus em adoração e pedir olhos que saibam ver o bem e ver os caminhos de Deus. Se acolhermos Cristo de braços abertos, acolheremos também os outros com confiança e humildade. Então não se exacerbam os conflitos, as distâncias não se alongam e extingue-se a tentação de abusar e ferir a dignidade de alguma irmã ou irmão. Abramos os braços, a Cristo e aos irmãos! Lá está Jesus.

Caríssimos, caríssimas, renovemos hoje com entusiasmo a nossa consagração! Perguntemo-nos quais são as motivações que movem o nosso coração e o nosso agir, qual é a visão renovada que somos chamados a cultivar e, sobretudo, tomemos Jesus nos braços. Mesmo que experimentemos fadiga e cansaço – isto acontece! Até desilusões acontecem – façamos como Simeão e Ana que esperam com paciência na fidelidade do Senhor e não se deixam roubar a alegria do encontro. Encaminhemo-nos para a alegria do encontro. Isto é bom! Coloquemo-Lo no centro e continuemos para diante com alegria. Assim seja!

[00154-PO.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

Dwoje starców, Symeon i Anna, oczekuje w świątyni na spełnienie obietnicy, którą Bóg złożył swojemu ludowi: przyjście Mesjasza. Ale ich oczekiwanie nie jest pasywne, jest pełne dynamizmu. Prześledźmy ruchy Symeona: najpierw jest poruszony przez Ducha, następnie widzi w Dzieciątku zbawienie, a w końcu bierze Je w swoje ramiona (por. Łk 2, 26-28). Zatrzymajmy się zwyczajnie nad tymi trzema działaniami i pozwólmy, by przeniknęły do nas pytania, które są dla nas ważne, zwłaszcza dla życia konsekrowanego.

Pierwsze z nich brzmi: czym jesteśmy poruszeni? Symeon idzie do świątyni „za natchnieniem Ducha” (w. 27). Duch Święty jest głównym aktorem tej sceny: to On sprawia, że serce Symeona płonie pragnieniem Boga, to On ożywia w jego duszy oczekiwanie, to On popycha jego kroki ku świątyni i sprawia, że jego oczy są zdolne rozpoznać Mesjasza, nawet jeśli jawi się On jako małe i ubogie niemowlę. To właśnie czyni Duch Święty: sprawia, że są w stanie dostrzec obecność Boga i Jego działanie nie w rzeczach wielkich, w krzykliwej zewnętrzności, w okazywaniu siły, ale w małości i kruchości. Pomyślmy o krzyżu: również tam jest małość, kruchość, a także dramatyzm. Ale jest tam moc Boga. Wyrażenie „za natchnieniem Ducha” przywołuje to, co w duchowości nazywa się „poruszeniami duchowymi”: są to te poruszenia duszy, które odczuwamy w nas i do których wysłuchiwania jesteśmy wezwani, aby rozeznać, czy pochodzą one od Ducha Świętego, czy też od innego. Bądźcie uważni na wewnętrzne poruszenia Ducha.

Zastanówmy się zatem: przez kogo dajemy się zasadniczo poruszać: przez Ducha Świętego czy przez ducha świata? Jest to pytanie, z którym wszyscy musimy się zmierzyć, zwłaszcza my, osoby konsekrowane. Podczas, gdy Duch Święty prowadzi nas do rozpoznania Boga w małości i kruchości niemowlęcia, grozi nam czasami myślenie o naszej konsekracji w kategoriach rezultatów, celów, sukcesu: nasza dynamika nakierowana jest na poszukiwanie przestrzeni, widzialności, liczb: to jest pokusa. Natomiast Duch Święty nie tego od nas wymaga. Chce, abyśmy pielęgnowali codzienną wierność, będąc pojętnymi wobec rzeczy małych, które zostały nam powierzone. Jakże piękna jest wierność Symeona i Anny! Każdego dnia idą do świątyni, każdego dnia czekają i modlą się, chociaż czas mija a zdaje się, że nic się nie dzieje. Czekają całe życie, nie zniechęcając się i nie narzekając, pozostając wiernymi każdego dnia i podsycając płomień nadziei, który Duch Święty zapalił w ich sercach.

Możemy zadać sobie pytanie, my, bracia i siostry: co porusza nasze dni? Jaka miłość pobudza nas, by iść naprzód? Duch Święty czy najnowsza fascynacja, czy cokolwiek? Jak poruszamy się w Kościele i w społeczeństwie? Czasami, nawet za pozorami dobrych uczynków, może kryć się narcyzm lub mania popularności. W innych przypadkach, choć robimy wiele rzeczy, nasze wspólnoty zakonne wydają się być bardziej napędzane mechaniczną powtarzalnością - robieniem rzeczy z przyzwyczajenia, tylko po to, by je robić - niż entuzjazmem przylgnięcia do Ducha Świętego. Dobrze będzie, dla nas wszystkich, jeśli sprawdźmy dziś nasze wewnętrzne motywacje, rozeznajmy motywacje duchowe, bo odnowa życia konsekrowanego bierze się przede wszystkim stąd.

Drugie pytanie: co widzą nasze oczy? Symeon, natchniony przez Ducha, widzi i rozpoznaje Chrystusa. I modli się, mówiąc: „moje oczy ujrzały Twoje zbawienie” (w. 30). Oto wielki cud wiary: otwiera oczy, przemienia spojrzenie, zmienia perspektywę. Jak wiemy z wielu spotkań Jezusa w Ewangelii, wiara rodzi się ze współczującego spojrzenia, z jakim patrzy na nas Bóg, roztapiając hardość naszych serc, lecząc rany, daje nam nowe oczy, abyśmy mogli zobaczyć siebie i świat. Nowe spojrzenie na siebie, na innych, na wszystkie sytuacje, jakie przeżywamy, nawet te najbardziej bolesne. Nie chodzi tu o naiwne spojrzenie, nie, ono jest mądre; spojrzenie naiwne ucieka od rzeczywistości lub udaje, że nie widzi problemów; chodzi natomiast o oczy, które umieją „widzieć wewnątrz” i „widzieć poza”; które nie zatrzymują się na pozorach, lecz umieją wejść nawet w szczeliny kruchości i niepowodzeń, aby rozpoznać obecność Boga.

Starcze oczy Symeona, choć znużone latami, widzą Pana, widzą zbawienie. A co z nami? Każdy może się zapytać: co widzą nasze oczy? Jaką mamy wizję życia konsekrowanego? Świat często postrzega je jako „trwonienie”: „Ale spójrz, ten chłopiec, który jest taki dobry, zostaje mnichem”, albo „dziewczyna, która jest taka dobra, zostaje zakonnicą... To strata. Gdyby chociaż był brzydki albo brzydka... Nie, są świetni, to strata”. Tak właśnie myślimy. Świat widzi to być może jako rzeczywistość z przeszłości, coś bezużytecznego. Ale co my, wspólnota chrześcijańska, zakonnice i zakonnicy, widzimy? Czy patrzymy wstecz, tęskniąc za tym, co już nie istnieje, czy też jesteśmy zdolni do dalekowzrocznego spojrzenia wiary skierowanego w głąb i w przyszłość? Mieć mądrość spojrzenia – daje ją Duch – patrzeć dobrze, dobrze mierzyć dystanse, rozumieć rzeczywistość. Cieszę się, gdy widzę starszych konsekrowanych mężczyzn i kobiety, którzy z jasnymi oczami nadal się uśmiechają, dając nadzieję młodym. Pomyślmy o chwilach, kiedy spotykaliśmy się z podobnymi spojrzeniami i błogosławmy za to Boga. Są to spojrzenia pełne nadziei, otwarte na przyszłość. I może dobrze nam zrobi, w tych dniach, spotkanie, odwiedzenie naszych starszych braci i sióstr zakonnych, aby przyjrzeć się im, porozmawiać, pytać, wysłuchać co myślą. Myślę, że to będzie dobre lekarstwo.

Bracia i siostry, Pan niezawodnie daje nam znaki zachęcające nas do kultywowania odnowionej wizji życia konsekrowanego. Potrzeba, ale w świetle, w poruszeniach Ducha Świętego. Nie możemy udawać, że ich nie widzimy tych sygnałów i żyć dalej tak, jak gdyby nic się nie stało, powtarzając te same stare rzeczy, wlokąc się z powodu bierności w formach czasów minionych, sparaliżowani lękiem przed zmianą. Mówiłem to wiele razy: dzisiaj pokusa cofania się, dla bezpieczeństwa, ze strachu, dla zachowania wiary, dla zachowania charyzmatu założyciela... To jest pokusa. Pokusa cofania się i sztywnego zachowywania „tradycji”. Wbijmy to sobie do głowy: sztywność jest zaburzeniem, i pod każdą sztywnością kryją się poważne problemy. Ani Symeon, ani Anna nie byli sztywni, nie, byli wolni i mieli radość świętowania: on, chwaląc Pana i prorokując odważnie do matki; a ona, jak dobra staruszka, chodząc tu i tam, i mówiąc: „Spójrzcie na nich, spójrzcie na to!” Ogłaszali to z radością, ich oczy były pełne nadziei. Bez inercji przeszłości, bez sztywności. Otwórzmy oczy: poprzez kryzysy – tak, to prawda, są kryzysy –, poprzez liczby, których brakuje – „Ojcze, nie ma powołań, teraz wybieramy się na koniec świata, żeby zobaczyć, czy nie uda się jakiegoś znaleźć -, poprzez siły, które zawodzą, Duch Święty zaprasza nas do odnowy naszego życia i naszych wspólnot. A jak to zrobimy? On nam wskaże drogę. My otwórzmy serce, z odwagą, bez lęku. Otwórzmy serce. Spójrzmy na Symeona i Annę: nawet jeśli są w podeszłym wieku, nie spędzają swoich dni na użalaniu się nad przeszłością, która już nie powraca, ale otwierają ramiona na przyszłość, która wychodzi im na spotkanie. Bracia i siostry, nie marnujmy dzisiejszego dnia spoglądając w przeszłość, albo marząc o jutrze, które nigdy nie nadejdzie, ale stańmy przed Panem, w adoracji, i prośmy o oczy, które umiałyby widzieć dobro i dostrzec drogi Boga. Pan nam je da, jeśli my o to poprosimy. Z radością, z mocą, bez lęku.

I wreszcie trzecie pytanie: co trzymamy w rękach? Symeon bierze Jezusa w swoje ramiona (por. w. 28). Jest to scena czuła i wymowna, jedyna w swoim rodzaju w Ewangelii. Bóg złożył swojego Syna w nasze ramiona, ponieważ przyjęcie Jezusa jest istotą, centrum wiary. Czasami grozi nam, że się zagubimy i zatracimy w tysiącu sprawach, koncentrując się na drugorzędnych aspektach lub zanurzając się w rzeczach, które trzeba zrobić, lecz centrum wszystkiego jest Chrystus, którego należy przyjąć jako Pana naszego życia.

Kiedy Symeon bierze Jezusa w ramiona, jego usta wypowiadają słowa błogosławieństwa, uwielbienia i zachwytu. A czy my, po tylu latach życia konsekrowanego, straciliśmy zdolność do zdumiewania się? Czy też nadal mamy tę zdolność? Zbadajmy to, a jeśli ktoś jej nie znajduje, niech prosi o łaskę zdumienia, zdumienia wobec cudów, które Bóg czyni w nas, ukrytych jak ten w świątyni, gdy Symeon i Anna spotkali Jezusa. Jeśli osobom konsekrowanym brakuje słów błogosławiących Boga i innych, jeśli brakuje radości, jeśli brakuje energii, jeśli życie braterskie jest tylko trudem, jeśli brak zdumienia, to nie dlatego, że jesteśmy ofiarami kogoś lub czegoś, lecz prawdziwy motyw jest ten, że nasze ramiona nie trzymają już Jezusa. A kiedy ramiona konsekrowanego, konsekrowanej nie obejmują Jezusa, obejmują pustkę, którą próbują wypełnić innymi rzeczami, ale jest pustka. Obejmować Jezusa naszymi ramionami: to jest znak, to jest droga, to jest „przepis” na odnowę. Wtedy, gdy nie obejmujemy Jezusa, serce zamyka się w goryczy. To smutne widzieć konsekrowanych, konsekrowane zgorzkniałych: zamykają się w narzekaniu na rzeczy, które nie idą dokładnie tak jak trzeba, w rygorze, który sprawia, że jesteśmy nieugięci, w postawach pretensjonalności i wyższości. Ciągle na coś narzekają: na przełożonego, na przełożoną, na braci, na wspólnotę, na kuchnię... Jeśli nie narzekają, to nie żyją. Ale my musimy tulić Jezusa w adoracji i prosić o oczy, które potrafią widzieć dobro i rozeznawać drogi Boże. Jeśli przyjmiemy Chrystusa z otwartymi ramionami, będziemy również przyjmować innych z ufnością i pokorą. Wtedy konflikty się nie zaostrzają, oddalenie nie dzieli, a pokusa wykroczenia i naruszania godności jakiejś siostry czy brata gaśnie. Otwórzmy nasze ramiona na Chrystusa i na naszych braci! Tam jest Jezus.

Najmilsi, najmilsze, odnówmy dziś z entuzjazmem naszą konsekrację! Zapytajmy siebie, jakie motywy kierują naszymi sercami i naszymi czynami, jaka jest odnowiona wizja, do której pielęgnowania jesteśmy powołani, a przede wszystkim weźmy w ramiona Jezusa. Nawet jeśli doświadczamy zmęczenia i znużenia – to się zdarza: również rozczarowania, zdarza się -, róbmy to, co Symeon i Anna, którzy cierpliwie oczekują na wierność Pana i nie pozwalają się pozbawić radości spotkania. Idźmy ku radości spotkania: to jest bardzo piękne! Postawmy Go na nowo w centrum i idźmy naprzód z radością. Niech tak się stanie.

[00154-PL.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua araba

عظة قداسة البابا فرنسيس

في القدّاس الإلهيّ

في عيد تقدمة الرّبّ يسوع إلى الهيكل

2 شباط/فبراير 2022

بازيليكا القدّيس بطرس

انتظر الشيخان، سمعان وحنة، في الهيكل تحقيق الوعد الذي قطعه الله لشعبه وهو: مجيء المسيح. لم يكن انتظارهما بلا حركة، بل كان مليئًا بالحركة. لنتبع إذًا حركات سمعان: أوّلًا، اندفع بالرّوح، ثمّ رأى الخلاص في الطفل وأخيرًا استقبله بين ذراعَيه (راجع لوقا 2، 26-28). لنتوقّف ببساطة عند هذه الحركات الثلاث، ولنطرح على أنفسنا بعض الأسئلة المهمّة بالنسبة لنا، ولا سّيما للحياة المكرّسة.

السؤال الأوّل: ما الذي يحرّكنا؟ أتى سمعان إلى الهيكل "بِدافِعٍ مِنَ الرُّوح" (آية 27). الرّوح القدس هو العامل الرئيسي في المشهد: هو الذي أشعل في قلب سمعان شوقه إلى الله، وهو الذي أنعش الانتظار في نفسه، وهو الذي دفع خطواته نحو الهيكل وجعل عينيه قادرتين على التعرّف على المسيح، ولو ظهر أمامه طفلًا صغيرًا وفقيرًا. هذا ما يفعله الرّوح القدس: إنّه يمكّننا من أن نرى حضور الله وعمله ليس في الأمور العظيمة، في الخارج الظاهر، وفي مظاهر القوّة، بل في الأمور الصغيرة والهشّة. لنفكّر في الصليب: هناك أيضًا الصغر والهشاشة، بل المأساة. لكن هناك قوّة الله. العبارة ”بِدافِعٍ مِنَ الرُّوح“ تذكّر بما يسمّى في الرّوحانية ”الدوافع الرّوحية“: إنّها حركات في النفس نشعر بها في داخلنا، ونحن مدعوون للاستماع إليها، لكي نميّز ونعرف هل هي من الرّوح القدس أم من شيء آخر. انتبهوا إلى دوافع الرّوح الداخليّة.

لذلك لنسأل أنفسنا: ما الذي يحرّكنا: الرّوح القدس أم روح العالم؟ هو سؤال يجب علينا جميعًا أن نطرحه لنعرف أنفسنا، خاصة نحن المكرّسين. يقودنا الرّوح إلى أن نتعرّف على الله في طفل صغير هزيل، ونحن قد نفكّر في تكريسنا لله بأفكار النتائج والأهداف والنجاح: فنتحرّك للبحث عن المواقع والظهور والأرقام. إنّها تجربة. لكن الرّوح لا يطلب هذا. فهو يريدنا أن ننمّي فينا الأمانة اليومية، وأن نكون أمناء في الأشياء الصغيرة التي ائتمننا عليها. ما أجمل أمانة سمعان وحنّة! أتيا كلّ يوم إلى الهيكل، وانتظرا وصلّيا كلّ يوم، حتى لو مرّ الوقت وبدا أنّ لا شيء يحدث. انتظرا كلّ حياتهما، دون أن يُحبَطا، ودون أن يتشكّيا، وبقيا أمينَين كلّ يوم، وغذيا شعلة الرّجاء التي أشعلها الرّوح في قلبيهما.

يمكننا، أيّها الإخوة والأخوات، أن نسأل أنفسنا: ما الذي يحرّك أيامنا؟ أي محبّة تدفعنا للمضي قدمًا؟ محبّة الرّوح القدس أم هوى يولد فينا في كلّ لحظة أو أيًّا كان؟ كيف نتحرّك في الكنيسة وفي المجتمع؟ في بعض الأحيان، حتى وراء مظهر الأعمال الصالحة، يمكن أن نخفي الدودة النرجسية أو الرغبة في البطولة. وفي حالات أخرى، فيما تقوم بأعمال كثيرة، يبدو أنّ جماعاتنا الرهبانية تتحرّك بالحري بقوّة التكرار الميكانيكي - القيام بأمور بدافع العادة، لمجرد القيام بها – وليس بالحماس للاتحاد بالرّوح القدس. سيُفيدنا جميعًا أن نتحقّق اليوم من دوافعنا الداخلية، ولنميّز الحركات الرّوحية، لأن تجديد الحياة المكرّسة يمر أوّلًا من هنا.

السؤال الثاني: ماذا ترى أعيننا؟ سمعان، بدافعٍ مِنَ الرُّوح، رأى المسيح واعترف به. وصلّى وقال: "فقَد رَأَت عَينايَ خلاصَكَ" (الآية 30). هذه هي معجزة الإيمان الكبرى: تفتح العينَين، وتبدّل النظرة، وتغيّر الرؤيّة. كما نَعلَم من لقاءات عديدة مع يسوع في الأناجيل، فإنّ الإيمان يُولَد من نظرة الرّحمة التي ينظر بها الله إلينا، فيبدّل قساوة قلوبنا، ويشفي جراحنا، ويعطينا عيونًا جديدة لنرى أنفسنا والعالم. عيون جديدة لنرى أنفسنا، والآخرين، وجميع المواقف التي نعيشها، حتى أكثرها إيلامًا. ليست مسألة نظرة عفوية، لا، بل مسألة نظرة حكيمة، النظرة العفوية تهرب من الواقع أو تتظاهر بعدم رؤية المشاكل، بدلًا من ذلك، نظرة عيون تعرف كيف ”ترى الداخل“ و تعرف كيف ”ترى ما هو أبعد“. عيون لا تقف عند المظاهر، بل تعرف أيضًا كيف تدخل ثغرات الهشاشة والفشل لترى فيها حضور الله.

عينا سمعان الشيخ، رغم تعب السنين، رأت الرّبّ يسوع، رأت الخلاص. ونحن؟ كلّ واحد يمكن أن يسأل نفسه: ماذا ترى عيوننا؟ ما هي رؤيتنا للحياة المكرّسة؟ غالبًا ما يراها العالم على أنّها ”إهدار“، أو واقع من الماضي، أو شيء عديم الفائدة، ولكن نحن، الجماعة المسيحيّة، الراهبات والرهبان، ماذا نرى؟ هل ننظر إلى الوراء، ونحِنّ إلى ما لم يعد موجودًا أم أنّنا قادرون على نظرة إيمان بعيدة، تنتظر في الداخل والخارج؟ حافظوا على حكمة النظر - التي يمنحها الرّوح القدس -: انظروا جيدًا، وقيسوا المسافات جيدًا، وافهموا الحقائق. يسعدني كثيرًا أن أرى مُكرَّسين ومكرَّسات متقدمين في السّن، يواصلون الابتسام بعيون مشعة، ويعطون الأمل للشباب. لنفكّر عندما التقينا بنظرات مماثلة ولنبارك الله من أجل ذلك. إنّها نظرات أمل، منفتحة على المستقبل. وربما سيفيدنا، في هذه الأيام، أن نلتقي، وأن نزور إخوتنا وأخواتنا الرهبان والراهبات المسنين، لننظر إليهم، ولنكلّمهم، ولنسألهم، ولنسمع بما يفكرون به. أعتقد أنّ هذا سيكون دواءً جيدًا.

أيّها الإخوة والأخوات، الله لا يكف عن أن يعطينا إشارات تدعونا إلى تنمية رؤية متجدّدة للحياة المكرّسة. لا يمكننا أن نتظاهر بعدم رؤيتها ونستمر كما لو أنّ شيئًا لم يحدث، فنكرّر الأشياء المعتادة، ونجر أنفسنا في الخمول وفي طرق الماضي، مشلولين بخوف التغيير. لقد قلت ذلك عدة مرات: اليوم، تجربة أن نعود إلى الوراء، بدافع الأمان، ومن الخوف، للحفاظ على الإيمان، وللحفاظ على موهبة المؤسس... هي تجربة. التجربة أن نعود إلى الوراء وأن نحافظ على التقاليد بشدّة وصلابة. لنضع ذلك في عقلنا: الشدّة والصلابة ضلال، وتحت كلّ شدّة وصلابة يوجد مشاكل خطيرة. لم يكن سمعان ولا حنة شديدّين، لا، بل عاشا الحرية وتمتعا بفرح الاحتفال: سبح سمعان الله وتنبأ بشجاعة لأم يسوع، وحنة، المرأة المسنة الجيدة، ذهبت من جانب إلى آخر وقالت: ”انظروا إلى هؤلاء، انظروا إلى هذا!“. لقد أعلنا البشرى بفرح، وكانت عيونهما مليئة بالرجاء. لم يكن لهما خمول الماضي، ولا شدّة وصلابة. لنفتح عيوننا: أمام الأزمات - نعم، هذا صحيح، هناك أزمات -، وأعداد المكرّسين الآخذة بالنقصان - ”يا أبتِ، لا توجد دعوات، سنذهب الآن إلى أقاصي الأرض لنرى ما إذا كان بإمكاننا أن نجد أحدًا ما“ -، والعزيمة التي قلّت، الرّوح يدعونا إلى أن نجدّد حياتنا وجماعاتنا. وكيف نفعل ذلك؟ هو سيشير لنا إلى الطريق. لنفتح قلوبنا بشجاعة وبدون خوف. ولننظر إلى سمعان وحنّة: حتى لو تقدّما في السنين، لم يقضيا أيامًا في الندم على الماضي الذي لا يعود أبدًا، بل فتحا ذراعيهما على المستقبل الذي أتى للقائهما. أيّها الإخوة والأخوات، لا نضيّع ”اليوم“، فننظر إلى الأمس، أو نحلم بغد لن يأتي أبدًا، بل لنضع أنفسنا أمام الله، في السجود، ولنطلب عيونًا تعرف أن ترى الخير وتُبصر طرق الله. والله سيعطينا عيونًا إن طلبنا ذلك. بفرح وثبات وبدون خوف.

وأخيرًا السؤال الثالث: ماذا نحمل بين ذراعينا؟ استقبل سمعان يسوع بين ذراعيه (راجع الآية 28). إنّه مشهدٌ لطيف وهادف وفريد من نوعه في الأناجيل. وضع الله ابنه بين ذراعينا لأنّ استقبال يسوع هو الجوهر، هو محور الإيمان. أحيانًا نوشك أن نَضِيعَ ونتشتّت في ألف شيء وشيء، أو نركّز على جوانب ثانوية، أو نُغرِق أنفسنا في أمور يجب القيام بها، لكن محور كلّ شيء هو المسيح، الذي علينا أن نستقبله ربًّا لحياتنا.

عندما أخذ سمعان يسوع بين ذراعيه، نطقت شفتاه بكلمات البركة والحمد والدهشة. وبعد سنوات عديدة من الحياة المكرّسة، هل فقدنا القدرة على الاندهاش؟ أم ما زال لدينا هذه القدرة؟ لنفحص هذا، وإن لم يجدها أحد، ليطلب نعمة الدهشة، الدهشة أمام العجائب التي يصنعها الله فينا، تلك المخفية مثل في الهيكل، عندما التقى سمعان وحنة بيسوع. إن كان المكرّسون يفتقرون إلى الكلمات التي تبارك الله والآخرين، وغاب عنهم الفرح، وقلّ حماسهم، وصارت الحياة الأخويّة تعبًا فقط، وإن نقصت الدهشة، ليس هذا لأنّنا ضحايا لأحدٍ ما أو لشيءٍ ما، السبب الحقيقي هو لأنّ ذراعينا لم تعد تحمل يسوع. وعندما لا تحمل ذراعَي المكرّس والمكرّسة يسوع، فإنّهما تحملان الفراغ وتحاولان أن تملؤهما بأشياء أخرى، لكن يبقى الفراغ. احملوا يسوع بالأذرع: هذه هي العلامة، وهذا هو الطريق، وهذه هي ”الوصفة الطبية“ للتجديد. حينها، عندما لا نعانق يسوع، ينغلق القلب بالمرارة. من المحزن أن نرى مكرّسين ومكرّسات يعيشون بمرارة. وينغلقون بالتشكّي من أمور لا تسير بدقة كما نريدها، وبقسوةٍ تجعلنا متصلّبين، وبسلوكٍ فيه نتظاهر بأنّنا متفوّقون. إنّهم يتشكّون دائمًا من شيء ما: من الرئيس أو الرئيسة أو الإخوة أو الجماعة أو المطبخ... إن لم تكن لديهم شكاوى، فلن يعيشوا. لكن علينا أن نحمل يسوع في السجود وأن نطلب عيونًا تعرف كيف ترى الخير وتبصر طرق الله. إن استقبلنا المسيح بأذرع مفتوحة، فسنستقبل أيضًا الآخرين بثقة وتواضع. عند ذلك لن تتفاقم الخلافات، ولن تفرّقنا المسافات، وتزول تجربة المراوغة والإساءة إلى كرامة أخت أو أخ. لنفتح ذراعينا للمسيح وللإخوة! هناك يوجد يسوع.

أيّها الأعزاء وأيّتها العزيزات، لنجدّد اليوم تكريسنا لله بحماس! لنسأل أنفسنا ما هي الدوافع التي تحرّك قلوبنا وأفعالنا، وما هي الرؤية المتجدّدة التي نحن مدعوون إلى تنميتها، وقبل كلّ شيء، لنأخذ يسوع بين ذراعينا. ولو اختبرنا التعب والإرهاق – هذا يحدث: حتى خيبات الأمل تحدث -، لنعمل مثل سمعان وحنّة، اللّذين انتظرا بصبر أمانة الله ولم يسمحا بأن يُسرق منهما فرح اللقاء معه. لنذهب نحو فرح اللقاء: هذا جميل جدًا! لنضع يسوع من جديد في مركز حياتنا، ولنمضِ قدمًا بفرح. آمين

[00154-AR.02] [Testo originale: Italiano]

[B0076-XX.02]