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CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA A CONCLUSIONE DELL’ANNO SACERDOTALE, 11.06.2010


Alle ore 10 di questa mattina, Solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, il Santo Padre Benedetto XVI presiede in Piazza San Pietro la Concelebrazione Eucaristica con i Cardinali, i Vescovi e i Presbiteri a conclusione dell’Anno Sacerdotale.
Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa pronuncia nel corso della Santa Messa:

TESTO IN LINGUA ITALIANA

Cari confratelli nel ministero sacerdotale,

Cari fratelli e sorelle,

l’Anno Sacerdotale che abbiamo celebrato, 150 anni dopo la morte del santo Curato d’Ars, modello del ministero sacerdotale nel nostro mondo, volge al termine. Dal Curato d’Ars ci siamo lasciati guidare, per comprendere nuovamente la grandezza e la bellezza del ministero sacerdotale. Il sacerdote non è semplicemente il detentore di un ufficio, come quelli di cui ogni società ha bisogno affinché in essa possano essere adempiute certe funzioni. Egli invece fa qualcosa che nessun essere umano può fare da sé: pronuncia in nome di Cristo la parola dell’assoluzione dai nostri peccati e cambia così, a partire da Dio, la situazione della nostra vita. Pronuncia sulle offerte del pane e del vino le parole di ringraziamento di Cristo che sono parole di transustanziazione – parole che rendono presente Lui stesso, il Risorto, il suo Corpo e suo Sangue, e trasformano così gli elementi del mondo: parole che spalancano il mondo a Dio e lo congiungono a Lui. Il sacerdozio è quindi non semplicemente «ufficio», ma sacramento: Dio si serve di un povero uomo al fine di essere, attraverso lui, presente per gli uomini e di agire in loro favore. Questa audacia di Dio, che ad esseri umani affida se stesso; che, pur conoscendo le nostre debolezze, ritiene degli uomini capaci di agire e di essere presenti in vece sua – questa audacia di Dio è la cosa veramente grande che si nasconde nella parola «sacerdozio». Che Dio ci ritenga capaci di questo; che Egli in tal modo chiami uomini al suo servizio e così dal di dentro si leghi ad essi: è ciò che in quest’anno volevamo nuovamente considerare e comprendere. Volevamo risvegliare la gioia che Dio ci sia così vicino, e la gratitudine per il fatto che Egli si affidi alla nostra debolezza; che Egli ci conduca e ci sostenga giorno per giorno. Volevamo così anche mostrare nuovamente ai giovani che questa vocazione, questa comunione di servizio per Dio e con Dio, esiste – anzi, che Dio è in attesa del nostro «sì». Insieme alla Chiesa volevamo nuovamente far notare che questa vocazione la dobbiamo chiedere a Dio. Chiediamo operai per la messe di Dio, e questa richiesta a Dio è, al tempo stesso, un bussare di Dio al cuore di giovani che si ritengono capaci di ciò di cui Dio li ritiene capaci. Era da aspettarsi che al «nemico» questo nuovo brillare del sacerdozio non sarebbe piaciuto; egli avrebbe preferito vederlo scomparire, perché in fin dei conti Dio fosse spinto fuori dal mondo. E così è successo che, proprio in questo anno di gioia per il sacramento del sacerdozio, siano venuti alla luce i peccati di sacerdoti – soprattutto l’abuso nei confronti dei piccoli, nel quale il sacerdozio come compito della premura di Dio a vantaggio dell’uomo viene volto nel suo contrario. Anche noi chiediamo insistentemente perdono a Dio ed alle persone coinvolte, mentre intendiamo promettere di voler fare tutto il possibile affinché un tale abuso non possa succedere mai più; promettere che nell’ammissione al ministero sacerdotale e nella formazione durante il cammino di preparazione ad esso faremo tutto ciò che possiamo per vagliare l’autenticità della vocazione e che vogliamo ancora di più accompagnare i sacerdoti nel loro cammino, affinché il Signore li protegga e li custodisca in situazioni penose e nei pericoli della vita. Se l’Anno Sacerdotale avesse dovuto essere una glorificazione della nostra personale prestazione umana, sarebbe stato distrutto da queste vicende. Ma si trattava per noi proprio del contrario: il diventare grati per il dono di Dio, dono che si nasconde "in vasi di creta" e che sempre di nuovo, attraverso tutta la debolezza umana, rende concreto in questo mondo il suo amore. Così consideriamo quanto è avvenuto quale compito di purificazione, un compito che ci accompagna verso il futuro e che, tanto più, ci fa riconoscere ed amare il grande dono di Dio. In questo modo, il dono diventa l’impegno di rispondere al coraggio e all’umiltà di Dio con il nostro coraggio e la nostra umiltà. La parola di Cristo, che abbiamo cantato come canto d’ingresso nella liturgia, può dirci in questa ora che cosa significhi diventare ed essere sacerdoti: "Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore" (Mt 11,29).

Celebriamo la festa del Sacro Cuore di Gesù e gettiamo con la liturgia, per così dire, uno sguardo dentro il cuore di Gesù, che nella morte fu aperto dalla lancia del soldato romano. Sì, il suo cuore è aperto per noi e davanti a noi – e con ciò ci è aperto il cuore di Dio stesso. La liturgia interpreta per noi il linguaggio del cuore di Gesù, che parla soprattutto di Dio quale pastore degli uomini, e in questo modo ci manifesta il sacerdozio di Gesù, che è radicato nell’intimo del suo cuore; così ci indica il perenne fondamento, come pure il valido criterio, di ogni ministero sacerdotale, che deve sempre essere ancorato al cuore di Gesù ed essere vissuto a partire da esso. Vorrei oggi meditare soprattutto sui testi con i quali la Chiesa orante risponde alla Parola di Dio presentata nelle letture. In quei canti parola e risposta si compenetrano. Da una parte, essi stessi sono tratti dalla Parola di Dio, ma, dall’altra, sono al contempo già la risposta dell’uomo a tale Parola, risposta in cui la Parola stessa si comunica ed entra nella nostra vita. Il più importante di quei testi nell’odierna liturgia è il Salmo 23 (22) – "Il Signore è il mio pastore" –, nel quale l’Israele orante ha accolto l’autorivelazione di Dio come pastore, e ne ha fatto l’orientamento per la propria vita. "Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla": in questo primo versetto si esprimono gioia e gratitudine per il fatto che Dio è presente e si occupadi noi. La lettura tratta dal Libro di Ezechiele comincia con lo stesso tema: "Io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura" (Ez 34,11). Dio si prende personalmente cura di me, di noi, dell’umanità. Non sono lasciato solo, smarrito nell’universo ed in una società davanti a cui si rimane sempre più disorientati. Egli si prende cura di me. Non è un Dio lontano, per il quale la mia vita conterebbe troppo poco. Le religioni del mondo, per quanto possiamo vedere, hanno sempre saputo che, in ultima analisi, c’è un Dio solo. Ma tale Dio era lontano. Apparentemente Egli abbandonava il mondo ad altre potenze e forze, ad altre divinità. Con queste bisognava trovare un accordo. Il Dio unico era buono, ma tuttavia lontano. Non costituiva un pericolo, ma neppure offriva un aiuto. Così non era necessario occuparsi di Lui. Egli non dominava. Stranamente, questo pensiero è riemerso nell’Illuminismo. Si comprendeva ancora che il mondo presuppone un Creatore. Questo Dio, però, aveva costruito il mondo e poi si era evidentemente ritirato da esso. Ora il mondo aveva un suo insieme di leggi secondo cui si sviluppava e in cui Dio non interveniva, non poteva intervenire. Dio era solo un’origine remota. Molti forse non desideravano neppure che Dio si prendesse cura di loro. Non volevano essere disturbati da Dio. Ma laddove la premura e l’amore di Dio vengono percepiti come disturbo, lì l’essere umano è stravolto. È bello e consolante sapere che c’è una persona che mi vuol bene e si prende cura di me. Ma è molto più decisivo che esista quel Dio che mi conosce, mi ama e si preoccupa di me. "Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me" (Gv 10,14), dice la Chiesa prima del Vangelo con una parola del Signore. Dio mi conosce, si preoccupa di me. Questo pensiero dovrebbe renderci veramente gioiosi. Lasciamo che esso penetri profondamente nel nostro intimo. Allora comprendiamo anche che cosa significhi: Dio vuole che noi come sacerdoti, in un piccolo punto della storia, condividiamo le sue preoccupazioni per gli uomini. Come sacerdoti, vogliamo essere persone che, in comunione con la sua premura per gli uomini, ci prendiamo cura di loro, rendiamo a loro sperimentabile nel concreto questa premura di Dio. E, riguardo all’ambito a lui affidato, il sacerdote, insieme col Signore, dovrebbe poter dire: "Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me". "Conoscere", nel significato della Sacra Scrittura, non è mai soltanto un sapere esteriore così come si conosce il numero telefonico di una persona. "Conoscere" significa essere interiormente vicino all’altro. Volergli bene. Noi dovremmo cercare di "conoscere" gli uomini da parte di Dio e in vista di Dio; dovremmo cercare di camminare con loro sulla via dell’amicizia di Dio.

Ritorniamo al nostro Salmo. Lì si dice: "Mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome. Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza" (23 [22], 3s). Il pastore indica la strada giusta a coloro che gli sono affidati. Egli precede e li guida. Diciamolo in maniera diversa: il Signore ci mostra come si realizza in modo giusto l’essere uomini. Egli ci insegna l’arte di essere persona. Che cosa devo fare per non precipitare, per non sperperare la mia vita nella mancanza di senso? È, appunto, questa la domanda che ogni uomo deve porsi e che vale in ogni periodo della vita. E quanto buio esiste intorno a tale domanda nel nostro tempo! Sempre di nuovo ci viene in mente la parola di Gesù, il quale aveva compassione per gli uomini, perché erano come pecore senza pastore. Signore, abbi pietà anche di noi! Indicaci la strada! Dal Vangelo sappiamo questo: Egli stesso è la via. Vivere con Cristo, seguire Lui – questo significa trovare la via giusta, affinché la nostra vita acquisti senso ed affinché un giorno possiamo dire: "Sì, vivere è stata una cosa buona". Il popolo d’Israele era ed è grato a Dio, perché Egli nei Comandamenti ha indicato la via della vita. Il grande Salmo 119 (118) è un’unica espressione di gioia per questo fatto: noi non brancoliamo nel buio. Dio ci ha mostrato qual è la via, come possiamo camminare nel modo giusto. Ciò che i Comandamenti dicono è stato sintetizzato nella vita di Gesù ed è divenuto un modello vivo. Così capiamo che queste direttive di Dio non sono catene, ma sono la via che Egli ci indica. Possiamo essere lieti per esse e gioire perché in Cristo stanno davanti a noi come realtà vissuta. Egli stesso ci ha resi lieti. Nel camminare insieme con Cristo facciamo l’esperienza della gioia della Rivelazione, e come sacerdoti dobbiamo comunicare alla gente la gioia per il fatto che ci è stata indicata la via giusta della vita.

C’è poi la parola concernente la "valle oscura" attraverso la quale il Signore guida l’uomo. La via di ciascuno di noi ci condurrà un giorno nella valle oscura della morte in cui nessuno può accompagnarci. Ed Egli sarà lì. Cristo stesso è disceso nella notte oscura della morte. Anche lì Egli non ci abbandona. Anche lì ci guida. "Se scendo negli inferi, eccoti", dice il Salmo 139 (138). Sì, tu sei presente anche nell’ultimo travaglio, e così il nostro Salmo responsoriale può dire: pure lì, nella valle oscura, non temo alcun male. Parlando della valle oscura possiamo, però, pensare anche alle valli oscure della tentazione, dello scoraggiamento, della prova, che ogni persona umana deve attraversare. Anche in queste valli tenebrose della vita Egli è là. Sì, Signore, nelle oscurità della tentazione, nelle ore dell’oscuramento in cui tutte le luci sembrano spegnersi, mostrami che tu sei là. Aiuta noi sacerdoti, affinché possiamo essere accanto alle persone a noi affidate in tali notti oscure. Affinché possiamo mostrare loro la tua luce.

"Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza": il pastore ha bisogno del bastone contro le bestie selvatiche che vogliono irrompere tra il gregge; contro i briganti che cercano il loro bottino. Accanto al bastone c’è il vincastro che dona sostegno ed aiuta ad attraversare passaggi difficili. Ambedue le cose rientrano anche nel ministero della Chiesa, nel ministero del sacerdote. Anche la Chiesa deve usare il bastone del pastore, il bastone col quale protegge la fede contro i falsificatori, contro gli orientamenti che sono, in realtà, disorientamenti. Proprio l’uso del bastone può essere un servizio di amore. Oggi vediamo che non si tratta di amore, quando si tollerano comportamenti indegni della vita sacerdotale. Come pure non si tratta di amore se si lascia proliferare l’eresia, il travisamento e il disfacimento della fede, come se noi autonomamente inventassimo la fede. Come se non fosse più dono di Dio, la perla preziosa che non ci lasciamo strappare via. Al tempo stesso, però, il bastone deve sempre di nuovo diventare il vincastro del pastore – vincastro che aiuti gli uomini a poter camminare su sentieri difficili e a seguire il Signore.

Alla fine del Salmo si parla della mensa preparata, dell’olio con cui viene unto il capo, del calice traboccante, del poter abitare presso il Signore. Nel Salmo questo esprime innanzitutto la prospettiva della gioia per la festa di essere con Dio nel tempio, di essere ospitati e serviti da Lui stesso, di poter abitare presso di Lui. Per noi che preghiamo questo Salmo con Cristo e col suo Corpo che è la Chiesa, questa prospettiva di speranza ha acquistato un’ampiezza ed una profondità ancora più grandi. Vediamo in queste parole, per così dire, un’anticipazione profetica del mistero dell’Eucaristia in cui Dio stesso ci ospita offrendo se stesso a noi come cibo – come quel pane e quel vino squisito che, soli, possono costituire l’ultima risposta all’intima fame e sete dell’uomo. Come non essere lieti di poter ogni giorno essere ospiti alla mensa stessa di Dio, di abitare presso di Lui? Come non essere lieti del fatto che Egli ci ha comandato: "Fate questo in memoria di me"? Lieti perché Egli ci ha dato di preparare la mensa di Dio per gli uomini, di dare loro il suo Corpo e il suo Sangue, di offrire loro il dono prezioso della sua stessa presenza. Sì, possiamo con tutto il cuore pregare insieme le parole del Salmo: "Bontà e fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita" (23 [22], 6).

Alla fine gettiamo ancora brevemente uno sguardo sui due canti alla comunione propostici oggi dalla Chiesa nella sua liturgia. C’è anzitutto la parola con cui san Giovanni conclude il racconto della crocifissione di Gesù: "Un soldato gli trafisse il costato con la lancia e subito ne uscì sangue ed acqua" (Gv 19,34). Il cuore di Gesù viene trafitto dalla lancia. Esso viene aperto, e diventa una sorgente: l’acqua e il sangue che ne escono rimandano ai due Sacramenti fondamentali dei quali la Chiesa vive: il Battesimo e l’Eucaristia. Dal costato squarciato del Signore, dal suo cuore aperto scaturisce la sorgente viva che scorre attraverso i secoli e fa la Chiesa. Il cuore aperto è fonte di un nuovo fiume di vita; in questo contesto, Giovanni certamente ha pensato anche alla profezia di Ezechiele che vede sgorgare dal nuovo tempio un fiume che dona fecondità e vita (Ez 47): Gesù stesso è il tempio nuovo, e il suo cuore aperto è la sorgente dalla quale esce un fiume di vita nuova, che si comunica a noi nel Battesimo e nell’Eucaristia.

La liturgia della Solennità del Sacro Cuore di Gesù prevede, però, come canto di comunione anche un’altra parola, affine a questa, tratta dal Vangelo di Giovanni: Chi ha sete, venga a me. Beva chi crede in me. La Scrittura dice: "Sgorgheranno da lui fiumi d’acqua viva" (cfr Gv 7,37s). Nella fede beviamo, per così dire, dall’acqua viva della Parola di Dio. Così il credente diventa egli stesso una sorgente, dona alla terra assetata della storia acqua viva. Lo vediamo nei santi. Lo vediamo in Maria che, quale grande donna di fede e di amore, è diventata lungo i secoli sorgente di fede, amore e vita. Ogni cristiano e ogni sacerdote dovrebbero, a partire da Cristo, diventare sorgente che comunica vita agli altri. Noi dovremmo donare acqua della vita ad un mondo assetato. Signore, noi ti ringraziamo perché hai aperto il tuo cuore per noi; perché nella tua morte e nella tua risurrezione sei diventato fonte di vita. Fa’ che siamo persone viventi, viventi dalla tua fonte, e donaci di poter essere anche noi fonti, in grado di donare a questo nostro tempo acqua della vita. Ti ringraziamo per la grazia del ministero sacerdotale. Signore, benedici noi e benedici tutti gli uomini di questo tempo che sono assetati e in ricerca. Amen.

[00873-01.01] [Testo originale: Italiano]

TESTO IN LINGUA INGLESE

Dear Brothers in the Priestly Ministry,
Dear Brothers and Sisters,

The Year for Priests which we have celebrated on the one hundred and fiftieth anniversary of the death of the holy Curè of Ars, the model of priestly ministry in our world, is now coming to an end. We have let the Curé of Ars guide us to a renewed appreciation of the grandeur and beauty of the priestly ministry. The priest is not a mere office-holder, like those which every society needs in order to carry out certain functions. Instead, he does something which no human being can do of his own power: in Christ’s name he speaks the words which absolve us of our sins and in this way he changes, starting with God, our entire life. Over the offerings of bread and wine he speaks Christ’s words of thanksgiving, which are words of transubstantiation – words which make Christ himself present, the Risen One, his Body and Blood – words which thus transform the elements of the world, which open the world to God and unite it to him. The priesthood, then, is not simply "office" but sacrament: God makes use of us poor men in order to be, through us, present to all men and women, and to act on their behalf. This audacity of God who entrusts himself to human beings – who, conscious of our weaknesses, nonetheless considers men capable of acting and being present in his stead – this audacity of God is the true grandeur concealed in the word "priesthood". That God thinks that we are capable of this; that in this way he calls men to his service and thus from within binds himself to them: this is what we wanted to reflect upon and appreciate anew over the course of the past year. We wanted to reawaken our joy at how close God is to us, and our gratitude for the fact that he entrusts himself to our infirmities; that he guides and sustains us daily. In this way we also wanted to demonstrate once again to young people that this vocation, this fellowship of service for God and with God, does exist – and that God is indeed waiting for us to say "yes". Together with the whole Church we wanted to make clear once again that we have to ask God for this vocation. We have to beg for workers for God’s harvest, and this petition to God is, at the same time, his own way of knocking on the hearts of young people who consider themselves able to do what God considers them able to do. It was to be expected that this new radiance of the priesthood would not be pleasing to the "enemy"; he would have rather preferred to see it disappear, so that God would ultimately be driven out of the world. And so it happened that, in this very year of joy for the sacrament of the priesthood, the sins of priests came to light – particularly the abuse of the little ones, in which the priesthood, whose task is to manifest God’s concern for our good, turns into its very opposite. We too insistently beg forgiveness from God and from the persons involved, while promising to do everything possible to ensure that such abuse will never occur again; and that in admitting men to priestly ministry and in their formation we will do everything we can to weigh the authenticity of their vocation and make every effort to accompany priests along their journey, so that the Lord will protect them and watch over them in troubled situations and amid life’s dangers. Had the Year for Priests been a glorification of our individual human performance, it would have been ruined by these events. But for us what happened was precisely the opposite: we grew in gratitude for God’s gift, a gift concealed in "earthen vessels" which ever anew, even amid human weakness, makes his love concretely present in this world. So let us look upon all that happened as a summons to purification, as a task which we bring to the future and which makes us acknowledge and love all the more the great gift we have received from God. In this way, his gift becomes a commitment to respond to God’s courage and humility by our own courage and our own humility. The word of God, which we have sung in the Entrance Antiphon of the liturgy, can speak to us, at this hour, of what it means to become and to be priests: "Take my yoke upon you, and learn from me; for I am gentle and humble of heart" (Mt 11:29).

We are celebrating the feast of the Sacred Heart of Jesus, and in the liturgy we peer, as it were, into the heart of Jesus opened in death by the spear of the Roman soldier. Jesus’ heart was indeed opened for us and before us – and thus God’s own heart was opened. The liturgy interprets for us the language of Jesus’ heart, which tells us above all that God is the shepherd of mankind, and so it reveals to us Jesus’ priesthood, which is rooted deep within his heart; so too it shows us the perennial foundation and the effective criterion of all priestly ministry, which must always be anchored in the heart of Jesus and lived out from that starting-point. Today I would like to meditate especially on those texts with which the Church in prayer responds to the word of God presented in the readings. In those chants, word (Wort) and response (Antwort) interpenetrate. On the one hand, the chants are themselves drawn from the word of God, yet on the other, they are already our human response to that word, a response in which the word itself is communicated and enters into our lives. The most important of those texts in today’s liturgy is Psalm 23(22) – "The Lord is my shepherd" – in which Israel at prayer received God’s self-revelation as shepherd, and made this the guide of its own life. "The Lord is my shepherd, I shall not want": this first verse expresses joy and gratitude for the fact that God is present to and concerned for us. The reading from the Book of Ezechiel begins with the same theme: "I myself will look after and tend my sheep" (Ez 34:11). God personally looks after me, after us, after all mankind. I am not abandoned, adrift in the universe and in a society which leaves me ever more lost and bewildered. God looks after me. He is not a distant God, for whom my life is worthless. The world’s religions, as far as we can see, have always known that in the end there is only one God. But this God was distant. Evidently he had abandoned the world to other powers and forces, to other divinities. It was with these that one had to deal. The one God was good, yet aloof. He was not dangerous, nor was he very helpful. Consequently one didn’t need to worry about him. He did not lord it over us. Oddly, this kind of thinking re-emerged during the Enlightenment. There was still a recognition that the world presupposes a Creator. Yet this God, after making the world, had evidently withdrawn from it. The world itself had a certain set of laws by which it ran, and God did not, could not, intervene in them. God was only a remote cause. Many perhaps did not even want God to look after them. They did not want God to get in the way. But wherever God’s loving concern is perceived as getting in the way, human beings go awry. It is fine and consoling to know that there is someone who loves me and looks after me. But it is far more important that there is a God who knows me, loves me and is concerned about me. "I know my own and my own know me" (Jn 10:14), the Church says before the Gospel with the Lord’s words. God knows me, he is concerned about me. This thought should make us truly joyful. Let us allow it to penetrate the depths of our being. Then let us also realize what it means: God wants us, as priests, in one tiny moment of history, to share his concern about people. As priests, we want to be persons who share his concern for men and women, who take care of them and provide them with a concrete experience of God’s concern. Whatever the field of activity entrusted to him, the priest, with the Lord, ought to be able to say: "I know my sheep and mine know me". "To know", in the idiom of sacred Scripture, never refers to merely exterior knowledge, like the knowledge of someone’s telephone number. "Knowing" means being inwardly close to another person. It means loving him or her. We should strive to "know" men and women as God does and for God’s sake; we should strive to walk with them along the path of God's friendship.

Let us return to our Psalm. There we read: "He leads me in right paths for his name’s sake. Even though I walk through the darkest valley, I fear no evil; for you are with me; your rod and your staff – they comfort me" (23[22]:3ff.). The shepherd points out the right path to those entrusted to him. He goes before them and leads them. Let us put it differently: the Lord shows us the right way to be human. He teaches us the art of being a person. What must I do in order not to fall, not to squander my life in meaninglessness? This is precisely the question which every man and woman must ask and one which remains valid at every moment of one’s life. How much darkness surrounds this question in our own day! We are constantly reminded of the words of Jesus, who felt compassion for the crowds because they were like a flock without a shepherd. Lord, have mercy on us too! Show us the way! From the Gospel we know this much: he is himself the way. Living with Christ, following him – this means finding the right way, so that our lives can be meaningful and so that one day we might say: "Yes, it was good to have lived". The people of Israel continue to be grateful to God because in the Commandments he pointed out the way of life. The great Psalm 119(118) is a unique expression of joy for this fact: we are not fumbling in the dark. God has shown us the way and how to walk aright. The message of the Commandments was synthesized in the life of Jesus and became a living model. Thus we understand that these rules from God are not chains, but the way which he is pointing out to us. We can be glad for them and rejoice that in Christ they stand before us as a lived reality. He himself has made us glad. By walking with Christ, we experience the joy of Revelation, and as priests we need to communicate to others our own joy at the fact that we have been shown the right way of life.

Then there is the phrase about the "darkest valley" through which the Lord leads us. Our path as individuals will one day lead us into the valley of the shadow of death, where no one can accompany us. Yet he will be there. Christ himself descended into the dark night of death. Even there he will not abandon us. Even there he will lead us. "If I sink to the nether world, you are present there", says Psalm 139(138). Truly you are there, even in the throes of death, and hence our Responsorial Psalm can say: even there, in the darkest valley, I fear no evil. When speaking of the darkest valley, we can also think of the dark valleys of temptation, discouragement and trial through which everyone has to pass. Even in these dark valleys of life he is there. Lord, in the darkness of temptation, at the hour of dusk when all light seems to have died away, show me that you are there. Help us priests, so that we can remain beside the persons entrusted to us in these dark nights. So that we can show them your own light.

"Your rod and your staff – they comfort me": the shepherd needs the rod as protection against savage beasts ready to pounce on the flock; against robbers looking for prey. Along with the rod there is the staff which gives support and helps to make difficult crossings. Both of these are likewise part of the Church’s ministry, of the priest’s ministry. The Church too must use the shepherd’s rod, the rod with which he protects the faith against those who falsify it, against currents which lead the flock astray. The use of the rod can actually be a service of love. Today we can see that it has nothing to do with love when conduct unworthy of the priestly life is tolerated. Nor does it have to do with love if heresy is allowed to spread and the faith twisted and chipped away, as if it were something that we ourselves had invented. As if it were no longer God’s gift, the precious pearl which we cannot let be taken from us. Even so, the rod must always become once again the shepherd’s staff – a staff which helps men and women to tread difficult paths and to follow the Lord.

At the end of the Psalm we read of the table which is set, the oil which anoints the head, the cup which overflows, and dwelling in the house of the Lord. In the Psalm this is an expression first and foremost of the prospect of the festal joy of being in God’s presence in the temple, of being his guest, whom he himself serves, of dwelling with him. For us, who pray this Psalm with Christ and his Body which is the Church, this prospect of hope takes on even greater breadth and depth. We see in these words a kind of prophetic foreshadowing of the mystery of the Eucharist, in which God himself makes us his guests and offers himself to us as food – as that bread and fine wine which alone can definitively sate man’s hunger and thirst. How can we not rejoice that one day we will be guests at the very table of God and live in his dwelling-place? How can we not rejoice at the fact that he has commanded us: "Do this in memory of me"? How can we not rejoice that he has enabled us to set God’s table for men and women, to give them his Body and his Blood, to offer them the precious gift of his very presence. Truly we can pray together, with all our heart, the words of the Psalm: "Goodness and mercy shall follow me all the days of my life" (Ps 23[22]:6).

Finally, let us take a brief look at the two communion antiphons which the Church offers us in her liturgy today. First there are the words with which Saint John concludes the account of Jesus’ crucifixion: "One of the soldiers pierced his side with a spear, and at once blood and water came out" (Jn 19:34). The heart of Jesus is pierced by the spear. Once opened, it becomes a fountain: the water and the blood which stream forth recall the two fundamental sacraments by which the Church lives: Baptism and the Eucharist. From the Lord’s pierced side, from his open heart, there springs the living fountain which continues to well up over the centuries and which makes the Church. The open heart is the source of a new stream of life; here John was certainly also thinking of the prophecy of Ezechiel who saw flowing forth from the new temple a torrent bestowing fruitfulness and life (Ez 47): Jesus himself is the new temple, and his open heart is the source of a stream of new life which is communicated to us in Baptism and the Eucharist.

The liturgy of the Solemnity of the Sacred Heart of Jesus also permits another phrase, similar to this, to be used as the communion antiphon. It is taken from the Gospel of John: Whoever is thirsty, let him come to me. And let the one who believes in me drink. As the Scripture has said: "Out of his heart shall flow rivers of living water" (cf. Jn 7:37ff.) In faith we drink, so to speak, of the living water of God’s Word. In this way the believer himself becomes a wellspring which gives living water to the parched earth of history. We see this in the saints. We see this in Mary, that great woman of faith and love who has become in every generation a wellspring of faith, love and life. Every Christian and every priest should become, starting from Christ, a wellspring which gives life to others. We ought to be offering life-giving water to a parched and thirst world. Lord, we thank you because for our sake you opened your heart; because in your death and in your resurrection you became the source of life. Give us life, make us live from you as our source, and grant that we too may be sources, wellsprings capable of bestowing the water of life in our time. We thank you for the grace of the priestly ministry. Lord bless us, and bless all those who in our time are thirsty and continue to seek. Amen.

[00873-02.01] [Original text: English]

TESTO IN LINGUA FRANCESE

Chers confrères dans le ministère sacerdotal,
Chers frères et sœurs,

L’Année sacerdotale que nous avons célébrée, 150 ans après la mort du saint Curé d’Ars, modèle du ministère sacerdotal dans notre monde, arrive à son terme. Par le Curé d’Ars, nous nous sommes laissé guider, pour saisir à nouveau la grandeur et la beauté du ministère sacerdotal. Le prêtre n’est pas simplement le détenteur d’une charge, comme celles dont toute société a besoin afin qu’en son sein certaines fonctions puissent être remplies. Il fait en revanche quelque chose qu’aucun être humain ne peut faire de lui-même : il prononce au nom du Christ la parole de l’absolution de nos péchés et il transforme ainsi, à partir de Dieu, la situation de notre existence. Il prononce sur les offrandes du pain et du vin les paroles d’action de grâce du Christ qui sont paroles de transsubstantiation – des paroles qui le rendent présent, Lui, le Ressuscité, son Corps et son Sang, et transforment ainsi les éléments du monde : des paroles qui ouvrent le monde à Dieu et l’unissent à Lui. Le sacerdoce n’est donc pas seulement une « charge », mais un sacrement : Dieu se sert d’un pauvre homme pour être, à travers lui, présent pour les hommes et agir en leur faveur. Cette audace de Dieu qui se confie à des êtres humains et qui, tout en connaissant nos faiblesses, considère les hommes capables d’agir et d’être présents à sa place – cette audace de Dieu est la réalité vraiment grande qui se cache dans le mot « sacerdoce ». Que Dieu nous considère capables de cela, que de cette manière il appelle les hommes à son service et qu’ainsi de l’intérieur il se lie à eux : c’est ce que, en cette année, nous voulions considérer et comprendre à nouveau. Nous voulions réveiller la joie que Dieu nous soit si proche, et la gratitude pour le fait qu’il se confie à notre faiblesse ; qu’il nous conduise et nous soutienne jour après jour. Nous voulions aussi ainsi montrer à nouveau aux jeunes que cette vocation, cette communion de service pour Dieu et avec Dieu, existe – et plus encore, que Dieu est en attente de notre « oui ». Avec l’Église, nous voulions à nouveau faire noter que cette vocation nous devons la demander à Dieu. Nous demandons des ouvriers pour la moisson de Dieu, et cette requête faite à Dieu c’est, en même temps, Dieu qui frappe à la porte du cœur des jeunes qui se considèrent capables de ce dont Dieu les considère capables. On pouvait s’attendre à ce que cette nouvelle mise en lumière du sacerdoce déplaise « l’ennemi » ; il aurait préféré le voir disparaître, pour qu’en fin de compte Dieu soit repoussé hors du monde. Et il est ainsi arrivé que, proprement au cours de cette année de joie pour le sacrement du sacerdoce, sont venus à la lumière les péchés des prêtres – en particulier l’abus à l’égard des petits, où le sacerdoce chargé de témoigner de la prévenance de Dieu à l’égard de l’homme se trouve retourné en son contraire. Nous aussi nous demandons avec insistance pardon à Dieu et aux personnes impliquées, alors que nous entendons promettre de faire tout ce qui est possible pour que de tels abus ne puissent jamais plus survenir ; promettre que dans l’admission au ministère sacerdotal et dans la formation délivrée au cours du parcours qui y prépare, nous ferons tout ce qui est possible pour examiner attentivement l’authenticité de la vocation et que nous voulons mieux encore accompagner les prêtres sur leur chemin, afin que le Seigneur les protège et les garde dans les situations difficiles et face aux dangers de la vie. Si l’Année sacerdotale avait du être une glorification de notre prestation humaine personnelle, elle aurait été détruite par ces événements. Mais il s’agissait pour nous exactement du contraire : devenir reconnaissant pour le don de Dieu, un don qui se cache « dans des vases d’argile » et qui toujours de nouveau, à travers toute la faiblesse humaine, rend concret son amour en ce monde. Nous considérons ainsi que ce qui est arrivé est un devoir de purification, un devoir qui nous porte vers l’avenir et qui, d’autant plus, nous fait reconnaître et aimer le grand don de Dieu. De cette façon, le don devient l’engagement de répondre au courage et à l’humilité de Dieu par notre courage et notre humilité. La parole du Christ, que nous avons chanté comme chant d’entrée dans la liturgie, peut nous suggérer en cette heure ce que signifie devenir et être prêtres : « Prenez sur vous mon joug, devenez mes disciples, car je suis doux et humble de cœur » (Mt 11, 29).

Nous célébrons la fête du Sacré Cœur de Jésus et nous jetons avec la liturgie, pour ainsi dire, un regard dans le cœur de Jésus qui, dans la mort, fut ouvert par la lance du soldat romain. Oui, son cœur est ouvert pour nous et devant nous – et ainsi, le cœur de Dieu lui-même nous est ouvert. La liturgie interprète pour nous le langage du cœur de Jésus, qui parle surtout de Dieu en tant que pasteur des hommes et nous présente de cette façon le sacerdoce de Jésus, qui est enraciné dans les profondeurs de son cœur ; elle nous indique ainsi le fondement durable, tout autant que le critère valable, de tout ministère sacerdotal, qui doit être ancré dans le cœur de Jésus et être vécu à partir de lui. Je voudrais aujourd’hui méditer surtout sur les textes avec lesquels l’Église qui prie répond à la Parole de Dieu donnée dans les lectures. Dans ces chants, la parole et la réponse se compénètrent. D’une part, eux-mêmes sont tirés de la Parole de Dieu, mais d’autre part, ils sont en même temps déjà la réponse de l’homme à une telle Parole, une réponse dans laquelle la Parole elle-même se communique et entre dans notre vie. Le plus important de ces textes dans la liturgie de ce jour est le Psaume 23 (22) – « Le Seigneur est mon berger » -, à travers lequel l’Israël priant a accueilli l’autorévélation de Dieu comme pasteur, et en a fait l’orientation pour sa vie. « Le Seigneur est mon berger : je ne manque de rien » : dans ce premier verset, la joie et la gratitude s’expriment pour le fait que Dieu est présent et qu’il s’occupe de nous. La lecture tirée du Livre d’Ézéchiel débute par le même thème : « J’irai moi-même à la recherche de mes brebis, et je veillerai sur elles » (Ez 34, 11). Dieu prend personnellement soin de moi, de nous, de l’humanité. Je ne suis pas laissé seul, perdu dans l’univers et dans une société devant laquelle on demeure toujours plus désorientés. Il prend soin de moi. Il n’est pas un Dieu lointain, pour lequel ma vie compterait très peu. Les religions du monde, d’après ce que l’on peut voir, ont toujours su que, en dernière analyse, il y a un seul Dieu. Mais un tel Dieu demeurait lointain. Apparemment celui-ci abandonnait le monde à d’autres puissances et à d’autres forces, à d’autres divinités. De cela, il fallait s’accommoder. Le Dieu unique était bon, mais lointain cependant. Il ne constituait pas un danger, mais il n’offrait pas davantage une aide. Il n’était donc pas nécessaire de se préoccuper de lui. Il ne dominait pas. Étrangement, cette pensée est réapparue avec les Lumières. On comprenait encore que le monde supposait un Créateur. Cependant, ce Dieu avait construit le monde et s’en était ensuite évidemment retiré. À présent, le monde avait un ensemble de lois suivant lesquelles il se développait et sur lequel Dieu n’intervenait pas, ni ne pouvait intervenir. Dieu ne constituait qu’une origine lointaine. Beaucoup peut-être ne désiraient pas non plus que Dieu prenne soin d’eux. Ils ne voulaient pas être dérangés par Dieu. Mais là où la tendresse et l’amour de Dieu sont perçus comme une gêne, là l’être humain est faussé. Il est beau et consolant de savoir qu’il y a une personne qui m’aime et qui prend soin de moi. Mais il est encore plus décisif qu’existe ce Dieu qui me connaît, qui m’aime et se préoccupe de moi. « Je connais mes brebis, et mes brebis me connaissent » (Jn 10, 14), dit l’Église avant l’Évangile (de ce jour) avec une parole du Seigneur. Dieu me connaît, il se préoccupe de moi. Cette pensée devrait nous rendre véritablement joyeux. Laissons cela pénétrer profondément en nous. Alors nous comprendrons aussi ce qu’elle signifie : Dieu veut que nous, en tant que prêtres, en un petit point de l’histoire, nous partagions ses préoccupations pour les hommes. En tant que prêtres, nous voulons être des personnes qui, en communion avec sa tendresse pour les hommes, prenons soin d’eux, leur permettons d’expérimenter concrètement cette tendresse de Dieu. Et, à l’égard du milieu qui lui est confié, le prêtre, avec le Seigneur, devrait pouvoir dire : « Je connais mes brebis, et mes brebis me connaissent ». « Connaître », au sens des Saintes Écritures, n’est jamais seulement un savoir extérieur, comme on connaît le numéro de téléphone d’une personne. « Connaître » signifie être intérieurement proche de l’autre. L’aimer. Nous devrions chercher à « connaître » les hommes de la part de Dieu et en vue de Dieu ; nous devrions chercher à cheminer avec eux sur la voie de l’amitié de Dieu.

Revenons à notre Psaume. Il y est dit : « Il me conduit par le juste chemin pour l’honneur de son nom. Si je traverse les ravins de la mort, je ne crains aucun mal, car tu es avec moi : ton bâton me guide et me rassure » (23 (22), 3-4). Le pasteur indique le juste chemin à ceux qui lui sont confiés. Il les précède et il les guide. Disons-le autrement : le Seigneur nous dévoile comment l’être humain s’accomplit de façon juste. Il nous enseigne l’art d’être une personne. Que dois-je faire pour ne pas précipiter, pour ne pas gaspiller ma vie dans l’absence de sens ? C’est précisément la question que tout homme doit se poser et qui vaut pour tout âge de la vie. Et quelle obscurité existe autour de cette question en notre temps ! Toujours de nouveau, nous vient à l’esprit la parole de Jésus, lequel avait compassion des hommes, parce qu’ils étaient comme des brebis sans pasteur. Seigneur, aie pitié aussi de nous ! Indique-nous le chemin ! De l’Évangile, nous savons cela : Il est lui-même la vie. Vivre avec le Christ, le suivre – cela signifie découvrir le juste chemin, afin que notre vie acquiert du sens et afin que nous puissions dire : « Oui, vivre a été une bonne chose ». Le peuple d’Israël était et est reconnaissant à Dieu, parce qu’à travers les Commandements il a indiqué la route de la vie. Le grand Psaume 119 (118) est une seule expression de joie pour ce fait : nous n’avançons pas à tâtons dans l’obscurité. Dieu nous a montré quel est le chemin, comment nous pouvons cheminer de façon juste. Ce que les Commandements disent a été synthétisé dans la vie de Jésus et est devenu un modèle vivant. Nous comprenons ainsi que ces directives de Dieu ne sont pas des chaînes, mais sont la voie qu’Il nous indique. Nous pouvons en être heureux et nous réjouir parce que dans le Christ elles sont devant nous comme une réalité vécue. Lui-même nous a rendus heureux. Dans notre cheminement avec le Christ, nous faisons l’expérience de la joie de la Révélation, et comme prêtres nous devons communiquer aux gens la joie liée au fait que nous a été indiquée la voie juste de la vie.

Il y a ensuite la parole concernant « le ravin de la mort » à travers lequel le Seigneur guide l’homme. La route de chacun de nous nous conduira un jour dans le ravin obscur de la mort dans lequel personne ne peut nous accompagner. Et il sera là. Le Christ lui-même est descendu dans la nuit obscure de la mort. Là aussi, il ne nous abandonne pas. Là aussi, il nous guide. Si « je descends chez les morts : te voici » dit le Psaume 139 (138). Oui, tu es aussi présent dans l’ultime labeur, et ainsi, notre Psaume responsorial peut-il dire : là aussi, dans le ravin de la mort, je ne crains aucun mal. En parlant du ravin obscur nous pouvons, cependant, penser aussi aux vallées obscures de la tentation, du découragement, de l’épreuve, que tout être humain doit traverser. Dans ces vallées ténébreuses de la vie, il est là aussi. Oui, Seigneur, dans les obscurités de la tentation ; dans les heures sombres où toutes les lumières semblent s’éteindre, montre-moi que tu es là. Aide-nous, prêtres, afin que nous puissions être auprès des personnes qui nous sont confiés et qui sont dans ces nuits obscures. Afin que nous puissions leur montrer ta lumière.

« Ton bâton me guide et me rassure » : le pasteur a besoin du bâton contre les bêtes sauvages qui veulent faire irruption dans le troupeau ; contre les brigands qui cherchent leur butin. À côté du bâton, il y a la houlette qui offre un appui et une aide pour traverser les passages difficiles. Les deux réalités appartiennent aussi au ministère de l’Église, au ministère du prêtre. L’Église aussi doit utiliser le bâton du pasteur, le bâton avec lequel elle protège la foi contre les falsificateurs, contre les orientations qui sont, en réalité, des désorientations. L’usage même du bâton peut être un service d’amour. Nous voyons aujourd’hui qu’il ne s’agit pas d’amour, quand on tolère des comportements indignes de la vie sacerdotale. De même il ne s’agit pas non plus d’amour quand on laisse proliférer l’hérésie, la déformation et la décomposition de la foi, comme si nous inventions la foi de façon autonome. Comme si elle n’était plus le don de Dieu, la perle précieuse que nous ne nous laissons pas dérober. Toutefois, en même temps, le bâton doit toujours redevenir la houlette du pasteur – la houlette qui aide les hommes à pouvoir marcher sur les sentiers difficiles et à suivre le Seigneur.

À la fin du Psaume, on évoque le banquet préparé, l’huile dont la tête est ointe, le calice débordant, la possibilité d’habiter avec le Seigneur. Dans le Psaume, ceci exprime avant tout la perspective de la joie festive qui accompagne le fait d’être avec Dieu dans le temple, d’être accueilli et servi par Lui, de pouvoir habiter auprès de Lui. Pour nous qui prions ce Psaume avec le Christ et avec son Corps qui est l’Église, cette perspective d’espérance a acquis une amplitude et une profondeur encore plus grandes. Nous voyons dans ces paroles, pour ainsi dire, une anticipation prophétique du mystère de l’Eucharistie dans lequel Dieu en personne nous accueille en s’offrant lui-même à nous comme nourriture – comme ce pain et ce vin excellents qui, seuls, peuvent constituer la réponse ultime à la faim et à la soif intimes de l’homme. Comment ne pas être heureux de pouvoir chaque jour être les hôtes de la table même de Dieu, d’habiter près de Lui ? Comment ne pas être heureux du fait qu’il nous a laissé ce commandement : « Faites cela en mémoire de moi » ? Heureux parce qu’Il nous a donné de préparer la table de Dieu pour les hommes, de leur donner son Corps et son Sang, de leur offrir le don précieux de sa présence même. Oui, nous pouvons de tout notre cœur prier ensemble les paroles du Psaume : « Grâce et bonheur m’accompagnent tous les jours de ma vie » (23 (22), 6).

Pour finir, jetons encore un bref regard sur les deux chants de communion qui nous sont proposés aujourd’hui par l’Église dans sa liturgie. Il y a tout d’abord la parole avec laquelle saint Jean conclut le récit de la crucifixion de Jésus : « Un des soldats avec sa lance lui perça le côté ; et aussitôt, il en sortit du sang et de l’eau » (Jn 19, 34). Le cœur de Jésus est transpercé par la lance. Il est ouvert, et il devient une source : l’eau et le sang qui en sortent renvoient aux deux Sacrements fondamentaux dont l’Église vit : le Baptême et l’Eucharistie. Du côté percé du Seigneur, de son cœur ouvert jaillit la source vive qui court à travers les siècles et qui fait l’Église. Le cœur ouvert est source d’un nouveau fleuve de vie ; dans ce contexte, Jean a certainement pensé aussi à la prophétie d’Ézéchiel qui voit jaillir du nouveau temple un fleuve qui donne fécondité et vie (Ez 47) : Jésus lui-même est le nouveau temple, et son cœur ouvert est la source d’où sort un fleuve de vie nouvelle, qui se communique à nous dans le Baptême et l’Eucharistie.

La liturgie de la Solennité du Sacré Cœur de Jésus prévoit, cependant aussi, comme chant à la communion une autre parole, proche de celle-là, tirée de l’Évangile de Jean : Qui a soif, qu’il vienne à moi. Qu’il boive, celui qui croit en moi. L’Écriture dit : « Des fleuves d’eau vive jailliront de son cœur » (cf. Jn 7, 37ss). Dans la foi, nous buvons, pour ainsi dire, de l’eau vive de la Parole de Dieu. Ainsi, le croyant devient lui-même une source, et offre à la terre desséchée de l’histoire l’eau vive. Nous le voyons chez les saints. Nous le voyons avec Marie qui, femme grande en foi et en amour, est devenue au long des siècles source de foi, d’amour et de vie. Chaque chrétien et chaque prêtre devrait, à partir du Christ, devenir une source qui communique la vie aux autres. Nous devrions donner l’eau de la vie à un monde assoiffé. Seigneur, nous te remercions parce que tu as ouvert ton cœur pour nous ; parce que dans ta mort et dans ta résurrection tu es devenu source de vie. Fais que nous soyons des personnes vivantes, vivantes de ta source, et donne-nous de pouvoir être nous aussi des sources, en mesure de donner à notre temps l’eau de la vie. Nous te remercions pour la grâce du ministère sacerdotal. Seigneur bénis-nous et bénis tous les hommes de ce temps qui sont assoiffés et en recherche. Amen.

[00873-03.01] [Texte original: Français]

TESTO IN LINGUA TEDESCA

Das Priesterjahr, das wir 150 Jahre nach dem Tod des heiligen Pfarrers von Ars, dem Vorbild priesterlichen Dienens in unserer Welt, begangen haben, geht zu Ende. Vom Pfarrer von Ars haben wir uns führen lassen, um Größe und Schönheit des priesterlichen Dienstes neu zu verstehen. Der Priester ist nicht einfach ein Amtsträger wie ihn jede Gesellschaft braucht, damit gewisse Funktionen in ihr erfüllt werden können. Er tut vielmehr etwas, das kein Mensch aus sich heraus kann: Er spricht in Christi Namen das Wort der Vergebung für unsere Sünden und ändert so von Gott her den Zustand unseres Lebens. Er spricht über die Gaben von Brot und Wein die Dankesworte Christi, die Wandlungsworte sind – ihn selbst, den Auferstandenen, sein Fleisch und sein Blut gegenwärtig werden lassen und so die Elemente der Welt verändern: die Welt auf Gott hin aufreißen und mit ihm zusammenfügen. So ist Priestertum nicht einfach „Amt", sondern Sakrament: Gott bedient sich eines armseligen Menschen, um durch ihn für die Menschen da zu sein und zu handeln. Diese Kühnheit Gottes, der sich Menschen anvertraut, Menschen zutraut, für ihn zu handeln und da zu sein, obwohl er unsere Schwächen kennt – die ist das wirklich Große, das sich im Wort Priestertum verbirgt. Daß Gott uns dies zutraut, daß er Menschen so in seinen Dienst ruft und so sich ihnen von innen her verbindet, das wollten wir in diesem Jahr neu bedenken und verstehen. Wir wollten die Freude neu aufleben lassen, daß Gott uns so nahe ist und die Dankbarkeit dafür, daß er sich unserer Schwachheit anvertraut. Daß er uns führt und hält, Tag um Tag. So wollten wir auch jungen Menschen wieder zeigen, daß es diese Berufung, diese Dienstgemeinschaft für Gott und mit Gott gibt – ja, daß Gott auf unser Ja wartet. Mit der Kirche wollten wir wieder darauf hinweisen, daß wir Gott um diese Berufung bitten müssen. Wir bitten um Arbeiter in der Ernte Gottes, und dieser Ruf an Gott ist zugleich ein Anklopfen Gottes ans Herz junger Menschen, die sich zutrauen, was Gott ihnen zutraut. Es war zu erwarten, daß dem bösen Feind dieses neue Leuchten des Priestertums nicht gefallen würde, das er lieber aussterben sehen möchte, damit letztlich Gott aus der Welt hinausgedrängt wird. So ist es geschehen, daß gerade in diesem Jahr der Freude über das Sakrament des Priestertums die Sünden von Priestern bekannt wurden – vor allem der Mißbrauch der Kleinen, in dem das Priestertum als Auftrag der Sorge Gottes um den Menschen in sein Gegenteil verkehrt wird. Auch wir bitten Gott und die betroffenen Menschen inständig um Vergebung und versprechen zugleich, daß wir alles tun wollen, um solchen Mißbrauch nicht wieder vorkommen zu lassen; daß wir bei der Zulassung zum priesterlichen Dienst und bei der Formung auf dem Weg dahin alles tun werden, was wir können, um die Rechtheit der Berufung zu prüfen, und daß wir die Priester mehr noch auf ihrem Weg begleiten wollen, damit der Herr sie in Bedrängnissen und Gefahren des Lebens schütze und behüte. Wenn das Priesterjahr eine Rühmung unserer eigenen menschlichen Leistung hätte sein sollen, dann wäre es durch diese Vorgänge zerstört worden. Aber es ging uns gerade um das Gegenteil: Das Dankbar-Werden für die Gabe Gottes, die sich „in irdenen Gefäßen" birgt und die immer wieder durch alle menschliche Schwachheit hindurch seine Liebe in dieser Welt praktisch werden läßt. So sehen wir das Geschehene als Auftrag zur Reinigung an, der uns in die Zukunft begleitet und der uns erst recht die große Gabe Gottes erkennen und lieben läßt. So wird sie zum Auftrag, dem Mut und der Demut Gottes mit unserem Mut und unserer Demut zu antworten. Das Wort Christi, das wir in der Liturgie des heutigen Tages als Eröffnungsvers gesungen haben, kann uns in dieser Stunde sagen, was es heißt, Priester zu werden und zu sein: „Nehmt mein Joch auf euch und lernt von mir; denn ich bin gütig und von Herzen demütig" (Mt 11, 29).

Wir feiern das Herz-Jesu-Fest und schauen mit der Liturgie der Kirche gleichsam in das Herz Jesu hinein, das im Tod von der Lanze des römischen Soldaten geöffnet wurde. Ja, sein Herz ist offen für uns und vor uns – und damit das Herz Gottes selbst. Die Liturgie legt uns die Sprache des Herzens Jesu aus, die vor allem von Gott als dem Hirten der Menschen spricht und uns damit das Priestertum Jesu zeigt, das im Innersten seines Herzens verankert ist und den immerwährenden Grund wie den gültigen Maßstab alles priesterlichen Dienstes zeigt, der immer im Herzen Jesu verankert sein und von daher gelebt werden muß. Ich möchte heute vor allem die Texte auslegen, mit denen die betende Kirche auf das in den Lesungen ausgebreitete Wort Gottes antwortet. In diesen Gesängen gehen Wort und Antwort ineinander über. Sie sind einerseits selbst aus Gottes Wort genommen, sind aber zugleich schon Antwort des Menschen darauf, in der das Wort sich mitteilt und in unser Leben eintritt. Am wichtigsten unter diesen Texten ist in der Liturgie von heute der Psalm 23 (22): „Der Herr ist mein Hirte", in dem das betende Israel die Selbstoffenbarung Gottes als Hirten aufgenommen und zur Wegweisung im eigenen Leben gemacht hat. „Der Herr ist mein Hirte, nichts wird mir fehlen" – in diesem ersten Vers spricht sich Freude und Dankbarkeit dafür aus, daß Gott da ist und sich um den Menschen sorgt. Die Lesung aus Ezechiel beginnt mit dem gleichen Motiv: „Ich will mich selber um meine Schafe kümmern" (Ez 34, 11). Gott kümmert sich persönlich um mich, um uns, um die Menschheit. Ich bin nicht allein gelassen, nicht verloren im Weltall und in einer immer verwirrender werdenden Gesellschaft. ER kümmert sich um mich. Er ist kein ferner Gott, dem mein Leben zu unwichtig wäre. Die Religionen der Welt haben, soweit wir sehen können, immer gewußt, daß es letztlich nur einen Gott gibt. Aber dieser Gott war weit weg. Er überließ allem Anschein nach die Welt anderen Mächten und Gewalten, anderen Gottheiten. Mit ihnen mußte man sich arrangieren. Der eine Gott war gut, aber doch fern. Er war nicht gefährlich, aber auch nicht hilfreich. So brauchte man sich mit ihm nicht zu beschäftigen. Er herrschte nicht. In der Aufklärung ist merkwürdigerweise dieser Gedanke zurückgekehrt. Man verstand noch, daß die Welt einen Schöpfer voraussetzt. Aber dieser Gott hatte die Welt gebaut und sich offensichtlich von ihr zurückgezogen. Nun hatte sie ihre Gesetzmäßigkeiten, nach denen sie ablief, in die Gott nicht eingriff, nicht eingreifen konnte. Gott war nur ein ferner Anfang. Viele wollten vielleicht auch garnicht, daß Gott sich um sie kümmere. Sie wollten nicht gestört sein durch Gott. Wo aber Gottes Sorge und Liebe als Störung empfunden wird, da ist der Mensch verkehrt. Es ist schön und tröstlich zu wissen, daß ein Mensch mir gut ist und sich um mich kümmert. Aber noch viel entscheidender ist, daß es den Gott gibt, der mich kennt, mich liebt und sich um mich sorgt. „Ich kenne die Meinen, und die Meinen kennen mich" (Joh 10,14), betet die Kirche vor dem Evangelium mit einem Wort des Herrn. Gott kennt mich, sorgt sich um mich. Dieser Gedanke sollte uns richtig froh werden lassen. Lassen wir ihn tief in uns eindringen. Dann begreifen wir auch, was es bedeutet: Gott will, daß wir als Priester seine Sorgen um die Menschen an einem kleinen Punkt der Geschichte mittragen. Wir wollen als Priester Mitsorgende mit seiner Sorge um die Menschen sein, sie dieses Sich-Kümmern Gottes praktisch erlebbar werden lassen. Und mit dem Herrn sollte der Priester für seinen ihm anvertrauten Bereich sagen können: „Ich kenne die Meinen, und die Meinen kennen mich." „Kennen" ist im Sinne der Heiligen Schrift nie bloß ein äußeres Wissen, wie man die Telefonnummer eines Menschen kennt. „Kennen" heißt: dem anderen innerlich nah sein. Ihm gut sein. Wir sollten versuchen, die Menschen von Gott her und auf Gott hin zu „kennen", mit ihnen den Weg der Freundschaft Gottes zu gehen.

Kehren wir zu unserem Psalm zurück. Da heißt es: „Er leitet mich auf rechten Pfaden, treu seinem Namen. Muß ich auch wandern in finsterer Schlucht, ich fürchte kein Unheil – denn du bist bei mir. Dein Stock und dein Stab geben mir Zuversicht" (23 [22], 3f). Der Hirte zeigt den ihm Anvertrauten den rechten Weg. Er geht voraus und führt sie. Sagen wir es anders: Der Herr zeigt uns, wie man das Menschsein richtig macht. Er zeigt uns die Kunst, ein Mensch zu sein. Was muß ich tun, damit ich nicht abstürze, im Sinnlosen mein Leben vertue? Das ist doch die Frage, die sich jeder Mensch stellen muß und die zu allen Zeiten des Lebens gilt. Und wieviel Dunkel gibt es zu dieser Frage in unserer Zeit! Immer wieder kommt uns das Wort Jesu in den Sinn, der Mitleid mit den Menschen hatte, weil sie wie Schafe ohne Hirten waren. Herr, hab Mitleid auch mit uns! Zeige uns den Weg! Aus dem Evangelium wissen wir es: Er selbst ist der Weg. Mit Christus leben, ihm nachgehen – das heißt: den richtigen Weg finden, damit unser Leben sinnvoll wird und damit wir einmal sagen können: Ja, es war gut zu leben. Israel war und ist Gott dankbar, daß er in den Geboten den Weg des Lebens gezeigt hat. Der große Psalm 119 (118) ist ein einziger Ausdruck der Freude darüber: Wir tappen nicht im Dunkeln. Gott hat uns gezeigt, was der Weg ist, wie wir recht gehen können. Was die Gebote sagen, ist im Leben Jesu zusammengefaßt und zu lebendiger Gestalt geworden. So erkennen wir, daß diese Weisungen Gottes nicht Fesseln sind, sondern Weg, den er uns zeigt. Wir dürfen ihrer froh sein, und wir dürfen uns freuen, daß sie in Christus als gelebte Wirklichkeit vor uns stehen. Er selbst hat uns froh gemacht. Im Mitgehen mit Christus geht uns die Freude der Offenbarung auf, und als Priester sollen wir den Menschen die Freude darüber schenken, daß uns der rechte Weg gezeigt ist.

Da ist dann das Wort von der „finsteren Schlucht", durch die der Herr den Menschen geleitet. Unser aller Weg führt uns einmal in die finstere Schlucht des Todes, in der uns niemand begleiten kann. Und ER ist da. Christus ist selbst in die finstere Nacht des Todes hinabgestiegen. Auch dort verläßt er uns nicht. Auch dort führt er uns. „Bette ich mich in der Unterwelt, du bist zugegen", sagt der Psalm 139 (138). Ja, du bist zugegen auch in der letzten Not, und so kann unser Antwort-Psalm sagen: Auch dort, in finsterer Schlucht, fürchte ich kein Unheil. Bei der Rede von der finsteren Schlucht können wir aber auch an die dunklen Täler der Versuchung, der Mutlosigkeit, der Prüfung denken, die jeder Mensch durchschreiten muß. Auch in diesen finsteren Tälern des Lebens ist ER da. Ja, Herr, zeige mir in den Dunkelheiten der Versuchung, in den Stunden der Verfinsterung, in denen alle Lichter zu erlöschen scheinen, daß du da bist. Hilf uns Priestern, daß wir den uns anvertrauten Menschen in diesen dunklen Nächten beistehen können. Ihnen dein Licht zeigen dürfen.

„Dein Stock und dein Stab geben mir Zuversicht": Der Hirte braucht den Stock gegen die wilden Tiere, die in die Herde einbrechen möchten; gegen die Räuber, die sich ihre Beute suchen. Neben dem Stock steht der Stab, der Halt schenkt und schwierige Passagen zu durchschreiten hilft. Beides gehört auch zum Dienst der Kirche, zum Dienst des Priesters. Auch die Kirche muß den Stock des Hirten gebrauchen, mit dem sie den Glauben schützt gegen die Verfälscher, gegen die Führungen, die Verführungen sind. Gerade der Gebrauch des Stockes kann ein Dienst der Liebe sein. Heute sehen wir es, daß es keine Liebe ist, wenn ein für das priesterliche Leben unwürdiges Verhalten geduldet wird. So ist es auch nicht Liebe, wenn man die Irrlehre, die Entstellung und Auflösung des Glaubens wuchern läßt, als ob wir den Glauben selbst erfänden. Als ob er nicht mehr Gottes Geschenk, die kostbare Perle wäre, die wir uns nicht nehmen lassen. Zugleich freilich muß der Stock immer wieder Stab des Hirten werden, der den Menschen hilft, auf schwierigen Wegen gehen zu können und dem Herrn nachzufolgen.

Am Ende des Psalms ist die Rede vom gedeckten Tisch, vom Öl, mit dem das Haupt gesalbt wird, vom übervollen Becher, vom Wohnen-Dürfen beim Herrn. Im Psalm ist das zunächst Ausblick auf die Festesfreude, mit Gott im Tempel zu sein, von ihm selbst bewirtet zu werden, bei ihm wohnen zu dürfen. Für uns, die wir den Psalm mit Christus und mit seinem Leib, der Kirche, beten, hat dieser Blick der Hoffnung noch eine größere Weite und Tiefe gewonnen. Wir sehen in diesen Worten gleichsam einen prophetischen Vorgriff auf das Geheimnis der Eucharistie, in der Gott selbst uns bewirtet und sich selbst als Speise für uns gibt – als jenes Brot und als jenen köstlichen Wein, der allein die letzte Antwort auf den innersten Hunger und Durst des Menschen sein kann. Wie sollten wir uns da nicht darüber freuen, daß wir täglich zu Gast an Gottes eigenem Tisch sein, bei ihm wohnen dürfen. Wie sollten wir uns nicht freuen, daß er uns aufgetragen hat: Tut dies zu meinem Gedächtnis. Daß er uns schenkt, Gottes Tisch den Menschen zu decken; ihnen seinen Leib und sein Blut zu reichen, ihnen das kostbare Geschenk seiner eigenen Gegenwart zu geben. Ja, wir können mit ganzem Herzen die Wort des Psalms mitbeten: „Lauter Güte und Huld werden mir folgen mein Leben lang" (23 [22], 6).

Am Ende werfen wir noch einen kurzen Blick auf die beiden Kommunionlieder, die uns die Kirche heute in ihrer Liturgie vorschlägt. Da ist zunächst das Wort, mit dem der heilige Johannes den Bericht von der Kreuzigung Jesu abschließt: „Ein Soldat stieß mit der Lanze in seine Seite, und sogleich floß Blut und Wasser heraus" (Joh 19, 34). Das Herz Jesu wird von der Lanze durchbohrt. Es wird geöffnet, und es wird zur Quelle: Blut und Wasser, die herausströmen, verweisen auf die beiden Grundsakramente, von denen die Kirche lebt: Taufe und Eucharistie. Aus der geöffneten Seite des Herrn, aus seinem geöffneten Herzen entspringt der lebendige Quell, der die Jahrhunderte hindurch strömt und die Kirche schafft. Das offene Herz ist Quell eines neuen Lebensstroms; Johannes hat dabei gewiß auch an die Prophezeiung des Ezechiel gedacht, der aus dem neuen Tempel einen Strom hervorkommen sieht, der Fruchtbarkeit und Leben schenkt (Ez 47): Jesus selbst ist der neue Tempel, und sein offenes Herz ist die Quelle, aus der ein Strom neuen Lebens kommt, das sich uns in der Taufe und in der Eucharistie mitteilt.

Die Liturgie des Herz-Jesu-Festes sieht aber auch ein anderes verwandtes Wort aus dem Johannes-Evangelium als Kommunionvers vor: Wer Durst hat, komme zu mir. Es trinke, wer an mich glaubt. Die Schrift sagt: „Aus seinem Innern werden Ströme lebendigen Wassers fließen" (Joh 7, 37f). Im Glauben trinken wir gleichsam aus dem lebendigen Wasser von Gottes Wort. Der Glaubende wird so selbst zu einer Quelle, schenkt dem dürstenden Land der Geschichte lebendiges Wasser. Wir sehen es an den Heiligen. Wir sehen es an Maria, die als die große Glaubende und Liebende alle Jahrhunderte hindurch zur Quelle von Glaube, Liebe und Leben geworden ist. Jeder Christ und jeder Priester sollten von Christus her Quelle werden, die anderen Leben mitteilt. Wir sollten einer dürstenden Welt Wasser des Lebens schenken. Herr, wir danken dir, daß du dein Herz für uns aufgetan hast. Daß du in deinem Tod und in deiner Auferstehung Quelle des Lebens wurdest. Laß uns lebende Menschen sein, von deiner Quelle lebend, und schenke uns, daß auch wir Quellen sein dürfen, die dieser unserer Zeit Wasser des Lebens zu schenken vermögen. Wir danken dir für die Gnade des priesterlichen Dienstes. Herr, segne uns und segne alle dürstenden und suchenden Menschen dieser Zeit. Amen.

[00873-05.01] [Originalsprache: Deutsch]

TESTO IN LINGUA SPAGNOLA

Queridos hermanos en el ministerio sacerdotal,
queridos hermanos y hermanas:

El Año Sacerdotal que hemos celebrado, 150 años después de la muerte del santo Cura de Ars, modelo del ministerio sacerdotal en nuestros días, llega a su fin. Nos hemos dejado guiar por el Cura de Ars para comprender de nuevo la grandeza y la belleza del ministerio sacerdotal. El sacerdote no es simplemente alguien que detenta un oficio, como aquellos que toda sociedad necesita para que puedan cumplirse en ella ciertas funciones. Por el contrario, el sacerdote hace lo que ningún ser humano puede hacer por sí mismo: pronunciar en nombre de Cristo la palabra de absolución de nuestros pecados, cambiando así, a partir de Dios, la situación de nuestra vida. Pronuncia sobre las ofrendas del pan y el vino las palabras de acción de gracias de Cristo, que son palabras de transustanciación, palabras que lo hacen presente a Él mismo, el Resucitado, su Cuerpo y su Sangre, transformando así los elementos del mundo; son palabras que abren el mundo a Dios y lo unen a Él. Por tanto, el sacerdocio no es un simple «oficio», sino un sacramento: Dios se vale de un hombre con sus limitaciones para estar, a través de él, presente entre los hombres y actuar en su favor. Esta audacia de Dios, que se abandona en las manos de seres humanos; que, aun conociendo nuestras debilidades, considera a los hombres capaces de actuar y presentarse en su lugar, esta audacia de Dios es realmente la mayor grandeza que se oculta en la palabra «sacerdocio». Que Dios nos considere capaces de esto; que por eso llame a su servicio a hombres y, así, se una a ellos desde dentro, esto es lo que en este año hemos querido de nuevo considerar y comprender. Queríamos despertar la alegría de que Dios esté tan cerca de nosotros, y la gratitud por el hecho de que Él se confíe a nuestra debilidad; que Él nos guíe y nos ayude día tras día. Queríamos también, así, enseñar de nuevo a los jóvenes que esta vocación, esta comunión de servicio por Dios y con Dios, existe; más aún, que Dios está esperando nuestro «sí». Junto con la Iglesia, hemos querido destacar de nuevo que tenemos que pedir a Dios esta vocación. Pedimos trabajadores para la mies de Dios, y esta plegaria a Dios es, al mismo tiempo, una llamada de Dios al corazón de jóvenes que se consideren capaces de eso mismo para lo que Dios los cree capaces. Era de esperar que al «enemigo» no le gustara que el sacerdocio brillara de nuevo; él hubiera preferido verlo desaparecer, para que al fin Dios fuera arrojado del mundo. Y así ha ocurrido que, precisamente en este año de alegría por el sacramento del sacerdocio, han salido a la luz los pecados de los sacerdotes, sobre todo el abuso a los pequeños, en el cual el sacerdocio, que lleva a cabo la solicitud de Dios por el bien del hombre, se convierte en lo contrario. También nosotros pedimos perdón insistentemente a Dios y a las personas afectadas, mientras prometemos que queremos hacer todo lo posible para que semejante abuso no vuelva a suceder jamás; que en la admisión al ministerio sacerdotal y en la formación que prepara al mismo haremos todo lo posible para examinar la autenticidad de la vocación; y que queremos acompañar aún más a los sacerdotes en su camino, para que el Señor los proteja y los custodie en las situaciones dolorosas y en los peligros de la vida. Si el Año Sacerdotal hubiera sido una glorificación de nuestros logros humanos personales, habría sido destruido por estos hechos. Pero, para nosotros, se trataba precisamente de lo contrario, de sentirnos agradecidos por el don de Dios, un don que se lleva en «vasijas de barro», y que una y otra vez, a través de toda la debilidad humana, hace visible su amor en el mundo. Así, consideramos lo ocurrido como una tarea de purificación, un quehacer que nos acompaña hacia el futuro y que nos hace reconocer y amar más aún el gran don de Dios. De este modo, el don se convierte en el compromiso de responder al valor y la humildad de Dios con nuestro valor y nuestra humildad. La palabra de Cristo, que hemos entonado como canto de entrada en la liturgia, puede decirnos en este momento lo que significa hacerse y ser sacerdotes: «Cargad con mi yugo y aprended de mí, que soy manso y humilde de corazón» (Mt 11,29).

Celebramos la fiesta del Sagrado Corazón de Jesús y con la liturgia echamos una mirada, por así decirlo, dentro del corazón de Jesús, que al morir fue traspasado por la lanza del soldado romano. Sí, su corazón está abierto por nosotros y ante nosotros; y con esto nos ha abierto el corazón de Dios mismo. La liturgia interpreta para nosotros el lenguaje del corazón de Jesús, que habla sobre todo de Dios como pastor de los hombres, y así nos manifiesta el sacerdocio de Jesús, que está arraigado en lo íntimo de su corazón; de este modo, nos indica el perenne fundamento, así como el criterio válido de todo ministerio sacerdotal, que debe estar siempre anclado en el corazón de Jesús y ser vivido a partir de él. Quisiera meditar hoy, sobre todo, los textos con los que la Iglesia orante responde a la Palabra de Dios proclamada en las lecturas. En esos cantos, palabra y respuesta se compenetran. Por una parte, están tomados de la Palabra de Dios, pero, por otra, son ya al mismo tiempo la respuesta del hombre a dicha Palabra, respuesta en la que la Palabra misma se comunica y entra en nuestra vida. El más importante de estos textos en la liturgia de hoy es el Salmo 23 [22] – «El Señor es mi pastor» –, en el que el Israel orante acoge la autorrevelación de Dios como pastor, haciendo de esto la orientación para su propia vida. «El Señor es mi pastor, nada me falta». En este primer versículo se expresan alegría y gratitud porque Dios está presente y cuida de nosotros. La lectura tomada del Libro de Ezequiel empieza con el mismo tema: «Yo mismo en persona buscaré a mis ovejas, siguiendo su rastro» (Ez 34,11). Dios cuida personalmente de mí, de nosotros, de la humanidad. No me ha dejado solo, extraviado en el universo y en una sociedad ante la cual uno se siente cada vez más desorientado. Él cuida de mí. No es un Dios lejano, para quien mi vida no cuenta casi nada. Las religiones del mundo, por lo que podemos ver, han sabido siempre que, en último análisis, sólo hay un Dios. Pero este Dios era lejano. Abandonaba aparentemente el mundo a otras potencias y fuerzas, a otras divinidades. Había que llegar a un acuerdo con éstas. El Dios único era bueno, pero lejano. No constituía un peligro, pero tampoco ofrecía ayuda. Por tanto, no era necesario ocuparse de Él. Él no dominaba. Extrañamente, esta idea ha resurgido en la Ilustración. Se aceptaba no obstante que el mundo presupone un Creador. Este Dios, sin embargo, habría construido el mundo, para después retirarse de él. Ahora el mundo tiene un conjunto de leyes propias según las cuales se desarrolla, y en las cuales Dios no interviene, no puede intervenir. Dios es sólo un origen remoto. Muchos, quizás, tampoco deseaban que Dios se preocupara de ellos. No querían que Dios los molestara. Pero allí donde la cercanía del amor de Dios se percibe como molestia, el ser humano se siente mal. Es bello y consolador saber que hay una persona que me quiere y cuida de mí. Pero es mucho más decisivo que exista ese Dios que me conoce, me quiere y se preocupa por mí. «Yo conozco mis ovejas y ellas me conocen» (Jn 10,14), dice la Iglesia antes del Evangelio con una palabra del Señor. Dios me conoce, se preocupa de mí. Este pensamiento debería proporcionarnos realmente alegría. Dejemos que penetre intensamente en nuestro interior. En ese momento comprendemos también qué significa: Dios quiere que nosotros como sacerdotes, en un pequeño punto de la historia, compartamos sus preocupaciones por los hombres. Como sacerdotes, queremos ser personas que, en comunión con su amor por los hombres, cuidemos de ellos, les hagamos experimentar en lo concreto esta atención de Dios. Y, por lo que se refiere al ámbito que se le confía, el sacerdote, junto con el Señor, debería poder decir: «Yo conozco mis ovejas y ellas me conocen». «Conocer», en el sentido de la Sagrada Escritura, nunca es solamente un saber exterior, igual que se conoce el número telefónico de una persona. «Conocer» significa estar interiormente cerca del otro. Quererle. Nosotros deberíamos tratar de «conocer» a los hombres de parte de Dios y con vistas a Dios; deberíamos tratar de caminar con ellos en la vía de la amistad de Dios.

Volvamos al Salmo. Allí se dice: «Me guía por el sendero justo, por el honor de su nombre. Aunque camine por cañadas oscuras, nada temo, porque tú vas conmigo: tu vara y tu cayado me sosiegan» (23 [22], 3s). El pastor muestra el camino correcto a quienes le están confiados. Los precede y guía. Digámoslo de otro modo: el Señor nos muestra cómo se realiza en modo justo nuestro ser hombres. Nos enseña el arte de ser persona. ¿Qué debo hacer para no arruinarme, para no desperdiciar mi vida con la falta de sentido? En efecto, ésta es la pregunta que todo hombre debe plantearse y que sirve para cualquier período de la vida. ¡Cuánta oscuridad hay alrededor de esta pregunta en nuestro tiempo! Siempre vuelve a nuestra mente la palabra de Jesús, que tenía compasión por los hombres, porque estaban como ovejas sin pastor. Señor, ten piedad también de nosotros. Muéstranos el camino. Sabemos por el Evangelio que Él es el camino. Vivir con Cristo, seguirlo, esto significa encontrar el sendero justo, para que nuestra vida tenga sentido y para que un día podamos decir: "Sí, vivir ha sido algo bueno". El pueblo de Israel estaba y está agradecido a Dios, porque ha mostrado en los mandamientos el camino de la vida. El gran salmo 119 (118) es una expresión de alegría por este hecho: nosotros no andamos a tientas en la oscuridad. Dios nos ha mostrado cuál es el camino, cómo podemos caminar de manera justa. La vida de Jesús es una síntesis y un modelo vivo de lo que afirman los mandamientos. Así comprendemos que estas normas de Dios no son cadenas, sino el camino que Él nos indica. Podemos estar alegres por ellas y porque en Cristo están ante nosotros como una realidad vivida. Él mismo nos hace felices. Caminando junto a Cristo tenemos la experiencia de la alegría de la Revelación, y como sacerdotes debemos comunicar a la gente la alegría de que nos haya mostrado el camino justo de la vida.

Después viene una palabra referida a la "cañada oscura", a través de la cual el Señor guía al hombre. El camino de cada uno de nosotros nos llevará un día a la cañada oscura de la muerte, a la que ninguno nos puede acompañar. Y Él estará allí. Cristo mismo ha descendido a la noche oscura de la muerte. Tampoco allí nos abandona. También allí nos guía. "Si me acuesto en el abismo, allí te encuentro", dice el salmo 139 (138). Sí, tú estás presente también en la última fatiga, y así el salmo responsorial puede decir: también allí, en la cañada oscura, nada temo. Sin embargo, hablando de la cañada oscura, podemos pensar también en las cañadas oscuras de las tentaciones, del desaliento, de la prueba, que toda persona humana debe atravesar. También en estas cañadas tenebrosas de la vida Él está allí. Señor, en la oscuridad de la tentación, en las horas de la oscuridad, en que todas las luces parecen apagarse, muéstrame que tú estás allí. Ayúdanos a nosotros, sacerdotes, para que podamos estar junto a las personas que en esas noches oscuras nos han sido confiadas, para que podamos mostrarles tu luz.

«Tu vara y tu cayado me sosiegan»: el pastor necesita la vara contra las bestias salvajes que quieren atacar el rebaño; contra los salteadores que buscan su botín. Junto a la vara está el cayado, que sostiene y ayuda a atravesar los lugares difíciles. Las dos cosas entran dentro del ministerio de la Iglesia, del ministerio del sacerdote. También la Iglesia debe usar la vara del pastor, la vara con la que protege la fe contra los farsantes, contra las orientaciones que son, en realidad, desorientaciones. En efecto, el uso de la vara puede ser un servicio de amor. Hoy vemos que no se trata de amor, cuando se toleran comportamientos indignos de la vida sacerdotal. Como tampoco se trata de amor si se deja proliferar la herejía, la tergiversación y la destrucción de la fe, como si nosotros inventáramos la fe autónomamente. Como si ya no fuese un don de Dios, la perla preciosa que no dejamos que nos arranquen. Al mismo tiempo, sin embargo, la vara continuamente debe transformarse en el cayado del pastor, cayado que ayude a los hombres a poder caminar por senderos difíciles y seguir a Cristo.

Al final del salmo, se habla de la mesa preparada, del perfume con que se unge la cabeza, de la copa que rebosa, del habitar en la casa del Señor. En el salmo, esto muestra sobre todo la perspectiva del gozo por la fiesta de estar con Dios en el templo, de ser hospedados y servidos por él mismo, de poder habitar en su casa. Para nosotros, que rezamos este salmo con Cristo y con su Cuerpo que es la Iglesia, esta perspectiva de esperanza ha adquirido una amplitud y profundidad todavía más grande. Vemos en estas palabras, por así decir, una anticipación profética del misterio de la Eucaristía, en la que Dios mismo nos invita y se nos ofrece como alimento, como aquel pan y aquel vino exquisito que son la única respuesta última al hambre y a la sed interior del hombre. ¿Cómo no alegrarnos de estar invitados cada día a la misma mesa de Dios y habitar en su casa? ¿Cómo no estar alegres por haber recibido de Él este mandato: "Haced esto en memoria mía"? Alegres porque Él nos ha permitido preparar la mesa de Dios para los hombres, de ofrecerles su Cuerpo y su Sangre, de ofrecerles el don precioso de su misma presencia. Sí, podemos rezar juntos con todo el corazón las palabras del salmo: «Tu bondad y tu misericordia me acompañan todos los días de mi vida» (23 [22], 6).

Por último, veamos brevemente los dos cantos de comunión sugeridos hoy por la Iglesia en su liturgia. Ante todo, está la palabra con la que san Juan concluye el relato de la crucifixión de Jesús: «uno de los soldados con la lanza le traspasó el costado, y al punto salió sangre y agua» (Jn 19,34). El corazón de Jesús es traspasado por la lanza. Se abre, y se convierte en una fuente: el agua y la sangre que manan aluden a los dos sacramentos fundamentales de los que vive la Iglesia: el Bautismo y la Eucaristía. Del costado traspasado del Señor, de su corazón abierto, brota la fuente viva que mana a través de los siglos y edifica la Iglesia. El corazón abierto es fuente de un nuevo río de vida; en este contexto, Juan ciertamente ha pensado también en la profecía de Ezequiel, que ve manar del nuevo templo un río que proporciona fecundidad y vida (Ez 47): Jesús mismo es el nuevo templo, y su corazón abierto es la fuente de la que brota un río de vida nueva, que se nos comunica en el Bautismo y la Eucaristía.

La liturgia de la solemnidad del Sagrado Corazón de Jesús, sin embargo, prevé como canto de comunión otra palabra, afín a ésta, extraída del evangelio de Juan: «El que tenga sed, que venga a mí; el que cree en mí que beba. Como dice la Escritura: De sus entrañas manarán torrentes de agua viva» (cfr. Jn 7,37s). En la fe bebemos, por así decir, del agua viva de la Palabra de Dios. Así, el creyente se convierte él mismo en una fuente, que da agua viva a la tierra reseca de la historia. Lo vemos en los santos. Lo vemos en María que, como gran mujer de fe y de amor, se ha convertido a lo largo de los siglos en fuente de fe, amor y vida. Cada cristiano y cada sacerdote deberían transformarse, a partir de Cristo, en fuente que comunica vida a los demás. Deberíamos dar el agua de la vida a un mundo sediento. Señor, te damos gracias porque nos has abierto tu corazón; porque en tu muerte y resurrección te has convertido en fuente de vida. Haz que seamos personas vivas, vivas por tu fuente, y danos ser también nosotros fuente, de manera que podamos dar agua viva a nuestro tiempo. Te agradecemos la gracia del ministerio sacerdotal. Señor, bendícenos y bendice a todos los hombres de este tiempo que están sedientos y buscando. Amén.

[00873-04.01] [Texto original: Español]

TESTO IN LINGUA PORTOGHESE

Prezados irmãos no ministério sacerdotal,

Amados irmãos e irmãs,

O Ano Sacerdotal que celebrámos 150 anos depois da morte do Santo Cura d’Ars, modelo do ministério sacerdotal no nosso mundo, está para terminar. Deixámo-nos guiar pelo Cura d’Ars, para voltarmos a compreender a grandeza e a beleza do ministério sacerdotal. O sacerdote não é simplesmente o detentor de um ofício, como aqueles de que toda a sociedade tem necessidade para nela se realizarem certas funções. É que o sacerdote faz algo que nenhum ser humano, por si mesmo, pode fazer: pronuncia em nome de Cristo a palavra da absolvição dos nossos pecados e assim, a partir de Deus, muda a situação da nossa vida. Pronuncia sobre as ofertas do pão e do vinho as palavras de agradecimento de Cristo que são palavras de transubstanciação – palavras que O tornam presente a Ele mesmo, o Ressuscitado, o seu Corpo e o seu Sangue, e assim transformam os elementos do mundo: palavras que abrem de par em par o mundo a Deus e o unem a Ele. Por conseguinte, o sacerdócio não é simplesmente «ofício», mas sacramento: Deus serve-Se de um pobre homem a fim de, através dele, estar presente para os homens e agir em seu favor. Esta audácia de Deus – que a Si mesmo Se confia a seres humanos; que, apesar de conhecer as nossas fraquezas, considera os homens capazes de agir e estar presentes em seu nome – esta audácia de Deus é o que de verdadeiramente grande se esconde na palavra «sacerdócio». Que Deus nos considere capazes disto; que deste modo Ele chame homens para o seu serviço e Se prenda assim, a partir de dentro, a eles: isto é o que, neste ano, queríamos voltar a considerar e compreender. Queríamos despertar a alegria por termos Deus assim tão perto, e a gratidão pelo facto de Ele Se confiar à nossa fraqueza, de Ele nos conduzir e sustentar dia após dia. E queríamos assim voltar a mostrar aos jovens que esta vocação, esta comunhão de serviço a Deus e com Deus, existe; antes, Deus está à espera do nosso «sim». Juntos com a Igreja, queríamos novamente assinalar que esta vocação devemos pedi-la a Deus. Pedimos operários para a messe de Deus, mas este pedido a Deus é simultaneamente Deus que bate à porta do coração de jovens que se considerem capazes daquilo de que Deus os considera capazes. Era de esperar que este novo resplendor do sacerdócio não fosse visto com agrado pelo «inimigo»; este teria preferido vê-lo desaparecer, para que em definitivo Deus fosse posto fora do mundo. E assim aconteceu que, precisamente neste ano de alegria pelo sacramento do sacerdócio, vieram à luz os pecados dos sacerdotes – sobretudo o abuso contra crianças, no qual o sacerdócio enquanto serviço da solicitude de Deus em benefício do homem se transforma no contrário. Também nós pedimos insistentemente perdão a Deus e às pessoas envolvidas, enquanto pretendemos e prometemos fazer tudo o possível para que um tal abuso nunca mais possa suceder; prometemos que, na admissão ao ministério sacerdotal e na formação ao longo do caminho de preparação para o mesmo, faremos tudo o que pudermos para avaliar a autenticidade da vocação, e que queremos acompanhar ainda mais os sacerdotes no seu caminho, para que o Senhor os proteja e guarde em situações penosas e nos perigos da vida. Se o Ano Sacerdotal devesse ser uma glorificação do nosso serviço humano pessoal, teria ficado arruinado com estas vicissitudes. Mas, para nós, tratava-se precisamente do contrário: sentir-se agradecidos pelo dom de Deus, dom que se esconde em «vasos de argila» e que sem cessar, através de toda a fraqueza humana, concretiza neste mundo o seu amor. Assim consideramos tudo o que sucedeu como um serviço de purificação, um serviço que nos lança para o futuro e faz agradecer e amar muito mais o grande dom de Deus. Deste modo, o dom torna-se o compromisso de responder à coragem e à humildade de Deus com a nossa coragem e a nossa humildade. Nesta hora, a palavra de Cristo, que proclamámos no cântico de entrada desta liturgia, pode dizer-nos o que significa tornar-se e ser sacerdotes: «Tomai o meu jugo sobre vós e aprendei de Mim, que Eu sou manso e humilde de Coração» (Mt 11, 29).

Celebramos a festa do Sagrado Coração de Jesus e, com a liturgia, por assim dizer lançamos um olhar dentro do Coração de Jesus que, na morte, foi aberto pela lança do soldado romano. Sim, o seu Coração está aberto por nós e aos nossos olhos; e deste modo está aberto o Coração do próprio Deus. A liturgia dá-nos a interpretação da linguagem do Coração de Jesus, que fala sobretudo de Deus como pastor dos homens e, deste modo, manifesta-nos o sacerdócio de Jesus, que está radicado no íntimo do seu Coração; indica-nos assim o perene fundamento e também o critério válido de todo o ministério sacerdotal, que deve estar sempre ancorado no Coração de Jesus e ser vivido a partir dele. Hoje queria meditar principalmente sobre os textos com que a Igreja em oração responde à Palavra de Deus apresentada nas leituras. Nestes cânticos, compenetram-se palavra e resposta; por um lado, são tirados da Palavra de Deus, mas, por outro e simultaneamente, são já a resposta do homem à referida Palavra, resposta na qual a própria Palavra se comunica e entra na nossa vida. O mais importante destes textos na liturgia de hoje é o Salmo 22 (23) – «O Senhor é meu pastor» –; nele Israel acolheu em oração a auto-revelação de Deus como pastor e dela fez a orientação para a sua própria vida. «O Senhor é meu pastor, nada me falta»: neste primeiro versículo, exprimem-se alegria e gratidão pelo facto de Deus estar presente e Se ocupar de nós. A leitura tirada do Livro de Ezequiel começa com o mesmo tema: «Eu próprio tomarei cuidado das minhas ovelhas, Eu é que hei-de olhar por elas» (Ez 34, 11). Deus, pessoalmente, cuida de mim, de nós, da humanidade. Não fui deixado sozinho, perdido no universo e numa sociedade onde se fica cada vez mais desorientado. Ele cuida de mim. Não é um Deus distante, para Quem contaria muito pouco a minha vida. As religiões da Terra, por aquilo que nos é dado ver, sempre souberam que, em última análise, só há um Deus; mas este Deus era distante. Aparentemente, Ele deixava o mundo abandonado às outras potestades e forças, às outras divindades. Com estas, era preciso encontrar um acordo. O Deus único era bom, mas distante. Não constituía um perigo, mas tampouco oferecia uma ajuda. Assim, não era necessário ocupar-se d’Ele. Não era Ele que dominava. Por estranho que pareça, este pensamento ressurgiu no Iluminismo. Que o mundo pressupõe um Criador, ainda se compreendia. Este Deus teria construído o mundo, mas depois, evidentemente, retirou-se dele. Agora o mundo tinha um conjunto próprio de leis, segundo as quais se desenvolvia e nas quais Deus não intervinha, nem podia intervir. Deus era apenas uma origem remota. Muitos talvez não desejassem sequer que Deus cuidasse deles. Não queriam ser incomodados por Deus. Mas, sempre que a solicitude e o amor de Deus são sentidos como incómodo, o ser humano acaba subvertido. É bom e consolador saber que há uma pessoa que me ama e cuida de mim; mas muito mais decisivo é que exista um Deus que me conhece, me ama e Se preocupa comigo. «Conheço as minhas ovelhas, e elas conhecem-Me» (Jo 10, 14): diz a Igreja, antes do Evangelho, tomando uma palavra do Senhor. Deus conhece-me, preocupa-Se comigo: este pensamento deveria fazer-nos verdadeiramente felizes; deixemo-lo penetrar profundamente no nosso íntimo. Então compreenderemos também o que significa isto: Deus quer que nós, como sacerdotes, num pequenino ponto da história, compartilhemos as suas preocupações pelos homens. Como sacerdotes, queremos ser pessoas que, em comunhão com a sua solicitude pelos homens, cuidamos deles e lhes fazemos experimentar concretamente esta solicitude de Deus. E o sacerdote, no âmbito que lhe está confiado, deveria poder dizer juntamente com o Senhor: «Conheço as minhas ovelhas, e elas conhecem-me». O sentido deste «conhecer», na Sagrada Escritura, nunca é simplesmente o de um saber exterior, como quando se conhece o número do telefone de uma pessoa; mas «conhecer» significa estar interiormente próximo do outro, amá-lo. Nós havemos de procurar «conhecer» os homens por parte de Deus e em ordem a Deus; havemos de procurar caminhar com eles pela estrada da amizade de Deus.

Voltemos ao nosso Salmo. Lá se diz: «Ele me guia pelo caminho mais seguro para glória do seu nome. Passarei ravinas tenebrosas e não temo; Vós estais comigo, o vosso cajado me sossega» (22, 3-4). O pastor indica a estrada certa àqueles que lhe estão confiados. Vai à sua frente e guia-os. Por outras palavras: o Senhor mostra-nos como se realiza de modo justo o ser homens. Ensina-nos a arte de ser pessoa. Que devo fazer para não me afundar, para não desperdiçar a minha vida com o que não tem sentido? Esta é precisamente a pergunta que cada homem se deve colocar a si mesmo, válida em cada período da vida. E como é grande a escuridão à volta de tal pergunta, no nosso tempo! Vem-nos sempre de novo à mente aquela atitude de Jesus, que Se enchera de compaixão pelos homens, porque eram como ovelhas sem pastor. Senhor, tende piedade também de nós! Indicai-nos a estrada! A partir do Evangelho, sabemos isto: Ele mesmo é o caminho. Viver com Cristo, segui-Lo: isto significa encontrar o caminho certo, para que a nossa vida ganhe sentido e possamos dizer um dia: «Sim, foi bom viver». O povo de Israel sentia-se, e sente-se, agradecido a Deus, porque lhe indicou, nos Mandamentos, o caminho da vida. O longo Salmo 118 (119) é todo ele uma expressão de alegria por este facto: não titubeamos na escuridão. Deus mostrou-nos qual é o caminho, como podemos caminhar de modo certo. O que dizem os Mandamentos foi sintetizado na vida de Jesus e tornou-se um modelo vivo. Compreendemos assim que estas directrizes de Deus não são algemas, mas o caminho que Ele nos indica. Podemos alegrar-nos por elas, e exultar porque em Cristo nos aparecem como realidade vivida. Ele mesmo nos tornou felizes. Caminhando juntamente com Cristo, fazemos a experiência da alegria da Revelação, e, como sacerdotes, devemos comunicar às pessoas a alegria pelo facto de nos ter sido indicado o caminho certo da vida.

Aparece depois a palavra que nos fala de «ravinas tenebrosas», através das quais o homem é guiado pelo Senhor. O caminho de cada um de nós conduzir-nos-á um dia às ravinas tenebrosas da morte, onde ninguém pode acompanhar-nos. Mas Ele estará lá. O próprio Cristo desceu à noite escura da morte. Mesmo lá, Ele não nos abandona. Mesmo lá, Ele nos guia. «Se descer aos abismos, ali Vos encontrais»: diz o Salmo 138 (139). Sim, Vós estais presente mesmo no último transe; e assim o nosso Salmo Responsorial pode dizer: mesmo lá, nas ravinas tenebrosas, não temo mal algum. Mas, ao falar de ravinas tenebrosas, podemos pensar também nas ravinas tenebrosas da tentação, do desânimo, da provação, que cada pessoa humana tem de atravessar. Mesmo nestas ravinas tenebrosas da vida, Ele está presente. Sim, Senhor, nas trevas da tentação, nas horas de ofuscamento quando todas as luzes parecem apagar-se, mostrai-me que estais presente. Ajudai-nos, a nós sacerdotes, para podermos nessas noites escuras estar ao lado das pessoas que nos foram confiadas, para podermos mostrar-lhes a vossa luz.

«O vosso cajado me sossega»: o pastor precisa de usar o cajado como um bastão contra os animais selvagens que querem irromper no meio do rebanho; contra os salteadores que procuram o seu botim. A par de bastão, o cajado serve também de apoio e ajuda para atravessar sítios difíceis. As duas coisas fazem parte também do ministério da Igreja, do ministério do sacerdote. Também a Igreja deve usar o bastão do pastor, o bastão com que protege a fé contra os falsificadores, contra as orientações que, na realidade, são desorientações. Por isso mesmo este uso do bastão pode ser um serviço de amor. Hoje vemos que não se trata de amor, quando se toleram comportamentos indignos da vida sacerdotal. E também não se trata de amor, se se deixa proliferar a heresia, a deturpação e o descalabro da fé, como se tivéssemos nós autonomamente inventado a fé; como se já não fosse dom de Deus, a pedra preciosa que não deixaremos arrebatar. Ao mesmo tempo, porém, o bastão deve continuar a ser o cajado do pastor, cajado que ajude os homens a poderem caminhar por sendas difíceis e a seguirem o Senhor.

A parte final do Salmo fala da mesa preparada, do óleo com que se unge a cabeça, do cálice transbordante, de poder habitar junto do Senhor. No Salmo, tudo isto exprime, antes de mais nada, a dimensão da alegria pela festa de estar com Deus no templo, ser hospedados e servidos por Ele mesmo, poder habitar junto d’Ele. Para nós, que rezamos este Salmo com Cristo e com o seu Corpo que é a Igreja, esta dimensão de esperança adquiriu uma amplidão e profundidade ainda maiores. Por assim dizer, vemos nestas palavras uma antecipação profética do mistério da Eucaristia, no qual Deus mesmo nos acolhe como seus comensais oferecendo-Se-nos a Si mesmo como alimento, como aquele pão e aquele vinho refinados que são os únicos capazes de constituir a derradeira resposta à fome e sede íntima do homem. Como não sentir-se feliz por poder cada dia ser hóspede à própria mesa de Deus, por habitar junto d’Ele? Como não sentir-se feliz pelo facto de Ele nos ter mandado: «Fazei isto em memória de Mim»? Felizes porque Ele nos concedeu preparar a mesa de Deus para os homens, dar-lhes o seu Corpo e o seu Sangue, oferecer-lhes o dom precioso da sua própria presença. Sim, com todo o coração podemos rezar juntos as palavras do Salmo: «A vossa bondade e misericórdia me acompanham no caminhar da minha vida» (22, 6).

Por último lancemos, ainda que brevemente, um olhar sobre os dois cânticos da comunhão propostos pela Igreja na sua liturgia de hoje. Em primeiro lugar, temos as palavras com que São João conclui a narração da crucifixão de Jesus: «Um dos soldados abriu o seu lado com uma lança e dele brotou sangue e água» (Jo 19, 34). O Coração de Jesus é trespassado pela lança. Aberto, torna-se uma fonte; a água e o sangue que saem remetem para os dois Sacramentos fundamentais de que vive a Igreja: o Baptismo e a Eucaristia. Do lado trespassado do Senhor, do seu Coração aberto brota a fonte viva que corre através dos séculos e faz a Igreja. O Coração aberto é fonte de um novo rio de vida; neste contexto, João certamente pensou também na profecia de Ezequiel que vê brotar do novo templo um rio que dá fecundidade e vida (cf. Ez 47): o próprio Jesus é o novo templo, e o seu Coração aberto a fonte da qual jorra um rio de vida nova, que se nos comunica no Baptismo e na Eucaristia.

Mas a liturgia da Solenidade do Sagrado Coração de Jesus prevê como cântico de comunhão ainda outra frase, ligada à primeira, tirada do Evangelho de João: «Se alguém tem sede, venha a Mim e beba, diz o Senhor. Se alguém acredita em Mim, do seu coração brotará uma fonte de água viva» (cf. Jo 7, 37-38). Na fé, por assim dizer bebemos da água viva da Palavra de Deus. Deste modo o próprio fiel torna-se uma fonte, dá à terra sequiosa da história água viva. Vemo-lo nos Santos. Vemo-lo em Maria que, como grande mulher de fé e de amor, se tornou ao longo dos séculos fonte de fé, amor e vida. Cada cristão e cada sacerdote deveriam, a partir de Cristo, tornar-se fonte que comunica vida aos outros. Devemos dar água da vida a um mundo sedento. Senhor, nós Vos agradecemos porque nos abristes o vosso Coração; porque, na vossa morte e na vossa ressurreição, Vos tornastes fonte de vida. Fazei que sejamos pessoas que vivem, que vivem da vossa fonte, e concedei-nos a possibilidade de sermos também nós fontes capazes de dar a este nosso tempo água da vida. Nós Vos agradecemos pela graça do ministério sacerdotal. Senhor, abençoai-nos a nós e abençoai todos os homens deste tempo que estão sedentos e andam à procura. Amen.

[00873-06.01] [Texto original: Português]

[B0385-XX.04]