INTERVENTO DELL’EM.MO CARD. ANGELO SODANO, SEGRETARIO DI STATO, AL SIMPOSIO INTERNAZIONALE IUS ECCLESIARUM - VEHICULUM CARITATIS
Pubblichiamo di seguito l’intervento che l’Em.mo Card. Angelo Sodano, Segretario di Stato, ha rivolto ieri ai partecipanti al Simposio Internazionale Ius Ecclesiarum - vehiculum caritatis, promosso dalla Congregazione per le Chiese Orientali:
● DISCORSO DELL’EM.MO CARD. ANGELO SODANO
Nel X anniversario dell’entrata in vigore del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium
Venerati Signori Cardinali e Patriarchi,
Fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio,
Distinti studiosi del Diritto Canonico!
Sono lieto di prendere la parola davanti a questo vostro illustre Congresso, destinato a celebrare il decimo anniversario dell’entrata in vigore del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium.
A nome del Santo Padre, rivolgo il mio deferente e cordiale saluto a ciascuno dei presenti, cominciando dal Cardinale Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, Sua Beatitudine Ignace Moussa I Daoud. Saluto pure i due Vicepresidenti del Simposio, S.E. Mons. Julián Herranz, Presidente del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, e S.E. Mons. Emilio Eid, già Vicepresidente della Commissione che preparò il Codice, come tutti i Membri del Comitato scientifico e del Comitato tecnico-organizzativo.
1. Un cammino decennale
Da parte mia, ho seguito sempre con attenzione le vicende del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, la cui promulgazione avvenne nell’anno in cui io fui chiamato all'ufficio di Segretario di Stato. Potrei dire che siamo cresciuti insieme! In questo decennio ho potuto conoscere da vicino i sentimenti di profondo affetto che il Papa nutre verso le Chiese Orientali. Prendo, quindi, volentieri testimonianza della paterna sollecitudine con cui Egli ne promuove l’attiva presenza pastorale nel mondo di oggi. Proprio per questo, undici anni or sono, Egli trasse particolare gioia dalla promulgazione del nuovo Codice, in cui vedeva, e tuttora vede, uno strumento privilegiato per far crescere un’intesa armonica ed operosa tra le varie componenti di ogni Chiesa orientale. Con favore il Papa ha pertanto sottolineato il motto scelto come tema conduttore del presente Simposio: "Ius Ecclesiarum - vehiculum caritatis".
In realtà, se ogni cristiano è chiamato a recare un suo personale contributo alla crescita di questo amore all’interno della comunità ecclesiale, è chiaro che un contributo del tutto particolare è legittimo attendersi da chi, nella comunità, ha responsabilità più rilevanti. A questo proposito, ben conoscendo il pensiero del Santo Padre, vorrei qui soffermarmi sul ruolo centrale che, in questa "dinamica della carità", ha il Pastore di quella determinata porzione del Popolo di Dio che è l’"eparchia".
2. L'origine divina dell'Episcopato
Il Concilio Vaticano II specifica che il Vescovo governa l’eparchia come vicario e legato di Cristo, con potestà propria, ordinaria e immediata. Solo la suprema autorità della Chiesa può circoscrivere entro certi limiti l'esercizio di tale potestà, in vista dell’utilità della Chiesa e dei fedeli (cfr Lumen gentium, 27).
Si tratta di un'affermazione di grande rilievo dottrinale, che il Concilio formula per tutte le "Ecclesiae particulares", per le eparchie orientali come per le diocesi della Chiesa latina. E' significativo tuttavia che essa sia stata inserita, come canone a se stante (cfr can. 178), solo nel Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium. Ciò ha la sua ragione in quella "forma regiminis traditionalis", specifica dell'Oriente, che è costituita dalle Chiese patriarcali (cfr. Orientalium Ecclesiarum 11): in esse, infatti, il Vescovo, prima di essere ordinato, deve promettere obbedienza, oltre che al Romano Pontefice, anche al Patriarca nelle cose in cui gli è soggetto a norma del diritto (cfr can. 187, § 2).
3. Il primato di Pietro
E’ questo un punto che, a mio giudizio, merita di essere ancor maggiormente approfondito: nella Chiesa di Cristo, infatti, non v’è alcuna potestà sopra-episcopale e, a maggior ragione, sopra-metropolitana, che non sia quella suprema, da Cristo affidata a Pietro e ai suoi successori. Pertanto, i Vescovi delle Chiese orientali, quando prestano obbedienza ai Patriarchi nelle cose nelle quali sono ad essi soggetti o obbediscono alle decisioni dei Sinodi delle Chiese patriarcali, sanno che questo è loro richiesto in quanto i Patriarchi ed i Sinodi delle Chiese patriarcali sono resi partecipi iure canonico della suprema autorità della Chiesa, la sola che possa, per istituzione di Gesù Cristo, circoscrivere l’esercizio della potestà dei Vescovi.
L’autorità suprema, peraltro, può estendere tale partecipazione a dimensioni anche molto ampie. E’ ciò che avviene nel Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, mediante il quale è stato realizzato l'auspicio del Concilio Vaticano II relativo alla restituzione delle Chiese patriarcali allo splendore del primo millennio (cfr Orientalium Ecclesiarum, 9). Con questa "norma iuris", volutamente molto vasta, viene determinata l'ampiezza della partecipazione dei Patriarchi e dei Sinodi delle Chiese patriarcali alla suprema autorità che Cristo ha stabilito nella Chiesa. E’ alla luce di questa norma che può adeguatamente apprezzarsi la grandezza della figura del Patriarca come "Pater et Caput" della sua Chiesa. Ciò ovviamente vale per tutti i Patriarchi indistintamente: per quelli che reggono le Chiese patriarcali di più antica istituzione come per quelli delle Chiese sui iuris, che la suprema autorità della Chiesa ha elevato o, seguendo l’esplicito auspicio del Concilio Vaticano II (cfr Orientalium Ecclesiarum, 11), voglia elevare al rango di Chiese patriarcali. A tale riguardo, conserva tutto il suo valore il famoso voto formulato dai Padri Conciliari, nel noto Decreto sulle Chiese Cattoliche Orientali, che suona così: "Siccome nelle Chiese Orientali l’istituzione patriarcale è la forma tradizionale di governo, il Santo ed Ecumenico Concilio desidera che, dove sia necessario, si erigano nuovi Patriarcati, la cui costituzione è riservata al Concilio Ecumenico o al Romano Pontefice" (Ibidem n. 11).
4. L'esercizio del Primato
Il desiderio del Successore di Pietro, come voi ben potete immaginare, è di fare quanto è possibile perché tutte le Chiese patriarcali rifulgano del più grande splendore. E’ necessario, infatti, che esse assolvano con nuovo e sempre maggiore vigore apostolico la missione loro affidata nel seno della Chiesa universale per la salvezza eterna delle anime (cfr Orientalium Ecclesiarum, 1).
Nella prospettiva or ora delineata, la partecipazione dei Patriarchi e dei Sinodi delle Chiese patriarcali alla suprema autorità della Chiesa, come contenuta nella "norma iuris" stabilita da questa medesima autorità è di fatto molto ampia. Nella sostanza, essa corrisponde a quella regolata nei canoni dei vari Concili, a cominciare da quello di Nicea dell’anno 325. I necessari adattamenti di tale "norma iuris" - auspicati dal Concilio Vaticano II (cfr Orientalium Ecclesiarum 9) - alla vita attuale della Chiesa non l'hanno diminuita, ma corroborata, soprattutto a causa della accresciuta possibilità di comunicazione con il Romano Pontefice, Capo del Collegio dei Vescovi, al cui governo pastorale sono affidate in egual modo le Chiese in Oriente come quelle in Occidente (cfr Orientalium Ecclesiarum, 3).
5. Il principio di territorialità
Cade qui opportuno un richiamo al cosiddetto "principio di territorialità", mantenuto con fermezza da tutti i Concili ecumenici, compreso il Concilio Vaticano II (cfr Orientalium Ecclesiarum, 7), alla cui luce il santo Padre ha voluto che fosse elaborato il Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium. Questo mostrarono di aver perfettamente capito i membri della Commissione che preparò il Codice, tra i quali primeggiavano i sei Patriarchi orientali, quando nella loro Assemblea Plenaria del novembre 1988 desistettero, dopo un richiamo del Santo Padre, da una mozione firmata da quindici membri, nella quale si mirava ad ottenere l’estensione della giurisdizione patriarcale a tutto il mondo. Il Papa aveva infatti chiesto che Gli fosse presentato un progetto di Codice in tutto conforme sia alle tradizioni orientali sia alle decisioni conciliari, tra le quali anche quelle del Concilio Vaticano II, che non aveva accolto la richiesta di estendere tale giurisdizione fuori dei confini legittimamente stabiliti della Chiesa patriarcale. I lavori dell’Assemblea si svolsero da allora in modo sereno e proficuo. Infatti era evidente a tutti che il progetto del Codice che stava sul tavolo dell’Assemblea, frutto di quasi venti anni di assiduo lavoro, compiuto con la collaborazione di tutto l’Episcopato orientale, era conforme, anche sul tema della territorialità, alle tradizioni orientali e alle decisioni conciliari.
In quella stessa occasione, tuttavia, il Papa aggiunse che, per le Chiese aventi fedeli fuori del proprio territorio, sarebbe stato lieto di "considerare, a Codice promulgato, le proposte elaborate nei Sinodi con chiaro riferimento alle norme del Codice, che si ritenesse opportuno specificare con uno ius speciale e ad tempus" (cfr "Nunzia", n. 29, p. 27). Questa disponibilità Egli riaffermò anche in occasione della promulgazione del Codice, quando presentò al Sinodo dei Vescovi il nuovo testo giuridico (cfr n. 12: AAS 83 [1991] 492).
Voi sapete, peraltro, che il Codice prevede anche l'eventualità di una revisione dei confini territoriali di una Chiesa patriarcale. Il can. 146, § 2 indica con chiarezza la via da seguire in tale fattispecie: spetta al Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale approfondire la questione, dopo aver ascoltato la superiore autorità amministrativa di ciascuna Chiesa sui iuris che vi sia interessata. Il Sinodo deve poi presentare la proposta, corredata della necessaria documentazione, al Romano Pontefice. Evidentemente, si suppone che si tratti di proposte non miranti ad un capovolgimento del principio di territorialità sancito dai Concili ecumenici, ma soltanto a cambiamenti di confine motivati da ragioni di carattere particolare.
6. Fiducia nell'avvenire
Terminando, vorrei richiamare le parole conclusive della Costituzione apostolica Sacri canones, con cui fu promulgato il Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium. In quel solenne documento il Papa rivolgeva a tutti l'invito ad accogliere il Codice "con animo sereno e con la fiducia che la sua osservanza attirerà su tutte le Chiese orientali quelle grazie celesti che le faranno prosperare sempre di più in tutto il mondo" (AAS 82 [1990] 1044).
In particolare, per quanto concerne la delimitazione della giurisdizione territoriale, nel già citato discorso davanti alla VIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi il Papa ribadì: le norme riguardanti tale giurisdizione "sono state ripetutamente al centro della mia attenzione e finalmente decise così come stanno nel Codice, perché il Sommo Pontefice le ritiene necessarie per il bene della Chiesa universale e per salvaguardare il suo retto ordine e i diritti fondamentali ed imprescindibili dell'uomo redento da Cristo" (n. 11: AAS 83 [1991] 492). "Vogliate aver fede, Egli allora concluse, che il ‘Signore dei signori’ e il ‘Re dei re’ non permetterà mai che la diligente osservanza di tali leggi venga a nuocere al bene delle Chiese orientali" (ivi, n. 12, p. 492).
A me sembra che questo atto di fede richiesto allora dal Papa, diventi sempre più necessario, e così con l’aiuto di Dio e grazie al generoso impegno di tutti, il Codice, giunto felicemente al suo decimo anno di vita, potrà sempre più diventare per tutti un "vehiculum caritatis". Si avvererà così il voto che già esprimeva milleseicento anni fa il grande Patriarca di Costantinopoli, S. Giovanni Crisostomo: "Chi dice Chiesa non dice divisione, ma unione e concordia" (In I Cor, PG 61,13)
[01909-01.01] [Testo originale: Italiano]