Sala Stampa

www.vatican.va

Sala Stampa Back Top Print Pdf
Sala Stampa


Messaggio del Santo Padre per la XXXIII Giornata Mondiale del Malato (11 febbraio 2025), 27.01.2025


Messaggio del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Traduzione in lingua araba

Pubblichiamo di seguito il Messaggio del Santo Padre Francesco in occasione della XXXIII Giornata Mondiale del Malato che ricorre l’11 febbraio, memoria liturgica della Beata Vergine Maria di Lourdes, sul tema: «La speranza non delude» (Rm 5,5) e ci rende forti nella tribolazione:

Messaggio del Santo Padre

 

«La speranza non delude» (Rm 5,5)

e ci rende forti nella tribolazione

Cari fratelli e sorelle!

Celebriamo la XXXIII Giornata Mondiale del Malato nell’Anno Giubilare 2025, in cui la Chiesa ci invita a farci “pellegrini di speranza”. In questo ci accompagna la Parola di Dio che, attraverso San Paolo, ci dona un messaggio di grande incoraggiamento: «La speranza non delude» (Rm 5,5), anzi, ci rende forti nella tribolazione.

Sono espressioni consolanti, che però possono suscitare, specialmente in chi soffre, alcune domande. Ad esempio: come rimanere forti, quando siamo toccati nella carne da malattie gravi, invalidanti, che magari richiedono cure i cui costi sono al di là delle nostre possibilità? Come farlo quando, oltre alla nostra sofferenza, vediamo quella di chi ci vuole bene e, pur standoci vicino, si sente impotente ad aiutarci? In tutte queste circostanze sentiamo il bisogno di un sostegno più grande di noi: ci serve l’aiuto di Dio, della sua grazia, della sua Provvidenza, di quella forza che è dono del suo Spirito (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 1808).

Fermiamoci allora un momento a riflettere sulla presenza di Dio vicino a chi soffre, in particolare sotto tre aspetti che la caratterizzano: l’incontro, il dono e la condivisione.

1. L’incontro. Gesù, quando invia in missione i settantadue discepoli (cfr Lc 10,1-9), li esorta a dire ai malati: «È vicino a voi il regno di Dio» (v. 9). Chiede, cioè, di aiutare a cogliere anche nell’infermità, per quanto dolorosa e difficile da comprendere, un’opportunità d’incontro con il Signore. Nel tempo della malattia, infatti, se da una parte sentiamo tutta la nostra fragilità di creature – fisica, psicologica e spirituale –, dall’altra facciamo esperienza della vicinanza e della compassione di Dio, che in Gesù ha condiviso le nostre sofferenze. Egli non ci abbandona e spesso ci sorprende col dono di una tenacia che non avremmo mai pensato di avere, e che da soli non avremmo mai trovato.

La malattia allora diventa l’occasione di un incontro che ci cambia, la scoperta di una roccia incrollabile a cui scopriamo di poterci ancorare per affrontare le tempeste della vita: un’esperienza che, pur nel sacrificio, ci rende più forti, perché più consapevoli di non essere soli. Per questo si dice che il dolore porta sempre con sé un mistero di salvezza, perché fa sperimentare vicina e reale la consolazione che viene da Dio, fino a «conoscere la pienezza del Vangelo con tutte le sue promesse e la sua vita» (S. Giovanni Paolo II, Discorso ai giovani, New Orleans, 12 settembre 1987).

2. E questo ci porta al secondo spunto di riflessione: il dono. Mai come nella sofferenza, infatti, ci si rende conto che ogni speranza viene dal Signore, e che quindi è prima di tutto un dono da accogliere e da coltivare, rimanendo «fedeli alla fedeltà di Dio», secondo la bella espressione di Madeleine Delbrêl (cfr La speranza è una luce nella notte, Città del Vaticano 2024, Prefazione).

Del resto, solo nella risurrezione di Cristo ogni nostro destino trova il suo posto nell’orizzonte infinito dell’eternità. Solo dalla sua Pasqua ci viene la certezza che nulla, «né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio» (Rm 8,38-39). E da questa “grande speranza” deriva ogni altro spiraglio di luce con cui superare le prove e gli ostacoli della vita (cfr Benedetto XVI, Lett. enc. Spe salvi, 27.31). Non solo, ma il Risorto cammina anche con noi, facendosi nostro compagno di viaggio, come per i discepoli di Emmaus (cfr Lc 24,13-53). Come loro, anche noi possiamo condividere con Lui il nostro smarrimento, le nostre preoccupazioni e le nostre delusioni, possiamo ascoltare la sua Parola che ci illumina e infiamma il cuore e riconoscerlo presente nello spezzare del Pane, cogliendo nel suo stare con noi, pur nei limiti del presente, quell’“oltre” che facendosi vicino ci ridona coraggio e fiducia.

3. E veniamo così al terzo aspetto, quello della condivisione. I luoghi in cui si soffre sono spesso luoghi di condivisione, in cui ci si arricchisce a vicenda. Quante volte, al capezzale di un malato, si impara a sperare! Quante volte, stando vicino a chi soffre, si impara a credere! Quante volte, chinandosi su chi è nel bisogno, si scopre l’amore! Ci si rende conto, cioè, di essere “angeli” di speranza, messaggeri di Dio, gli uni per gli altri, tutti insieme: malati, medici, infermieri, familiari, amici, sacerdoti, religiosi e religiose; là dove siamo: nelle famiglie, negli ambulatori, nelle case di cura, negli ospedali e nelle cliniche.

Ed è importante saper cogliere la bellezza e la portata di questi incontri di grazia e imparare ad annotarseli nell’anima per non dimenticarli: conservare nel cuore il sorriso gentile di un operatore sanitario, lo sguardo grato e fiducioso di un paziente, il volto comprensivo e premuroso di un dottore o di un volontario, quello pieno di attesa e di trepidazione di un coniuge, di un figlio, di un nipote, o di un amico caro. Sono tutte luci di cui fare tesoro che, pur nel buio della prova, non solo danno forza, ma insegnano il gusto vero della vita, nell’amore e nella prossimità (cfr Lc 10,25-37).

Cari malati, cari fratelli e sorelle che prestate la vostra assistenza ai sofferenti, in questo Giubileo voi avete più che mai un ruolo speciale. Il vostro camminare insieme, infatti, è un segno per tutti, «un inno alla dignità umana, un canto di speranza» (Bolla Spes non confundit, 11), la cui voce va ben oltre le stanze e i letti dei luoghi di cura in cui vi trovate, stimolando e incoraggiando nella carità «la coralità della società intera» (ibid.), in una armonia a volte difficile da realizzare, ma proprio per questo dolcissima e forte, capace di portare luce e calore là dove più ce n’è bisogno.

Tutta la Chiesa vi ringrazia per questo! Anch’io lo faccio e prego per voi affidandovi a Maria, Salute degli infermi, attraverso le parole con cui tanti fratelli e sorelle si sono rivolti a Lei nel bisogno:

Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio.

Non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova,

e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta.

Vi benedico, assieme alle vostre famiglie e ai vostri cari, e vi chiedo, per favore, di non dimenticarvi di pregare per me.

Roma, San Giovanni in Laterano, 14 gennaio 2025

FRANCESCO

[00161-IT.01] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

«L’espérance ne déçoit pas» (Rm 5, 5)

et nous rend forts dans l’épreuve

Chers frères et sœurs,

nous célébrons la 33ème Journée mondiale du Malade de l’année jubilaire 2025 où l’Église nous invite à devenir des « pèlerins de l’espérance ». Nous sommes accompagnés en cela par la Parole de Dieu. Saint Paul nous donne un message très encourageant : «L’espérance ne déçoit pas » (Rm 5, 5), elle nous rend même forts dans les épreuves.

Cette expression est consolante mais elle peut soulever des questions, en particulier chez les personnes qui souffrent. Par exemple, comment rester forts lorsque nous sommes touchés dans notre chair par des maladies graves, invalidantes, qui nécessitent peut-être des soins dont les coûts sont au-dessus de nos moyens ? Comment le rester quand, en plus de notre propre souffrance, nous voyons celle de ceux qui nous aiment et qui, tout en étant proches de nous, se sentent impuissants à nous aider ? Nous ressentons dans ces circonstances le besoin d’un soutien plus grand que nous : nous avons besoin du secours de Dieu, de sa grâce, de sa Providence, de cette force qu’est le don de son Esprit (cf. Catéchisme de l'Église catholique, 1808).

Arrêtons-nous donc un instant pour réfléchir sur la présence de Dieu auprès de ceux qui souffrent, en particulier sous trois aspects qui la caractérisent : la rencontre, le don et le partage.

1. La rencontre. Lorsque Jésus envoie les soixante-douze disciples en mission (cf. Lc 10, 1-9), il les exhorte à dire aux malades : « Le Royaume de Dieu est proche pour vous » (v. 9). Il leur demande, en d’autres termes, de les aider à saisir dans l’infirmité, même si elle est douloureuse et difficile à comprendre, une occasion de rencontrer le Seigneur. Dans la maladie, en effet, si d’une part nous ressentons toute notre fragilité de créatures - physique, psychologique et spirituelle -, nous faisons d’autre part l’expérience de la proximité et de la compassion de Dieu qui, en Jésus, a partagé notre souffrance. Il ne nous abandonne pas et nous surprend souvent par le don d’une ténacité que nous n’aurions jamais cru avoir et que nous n’aurions jamais trouvée par nous-mêmes.

La maladie devient alors l’occasion d’une rencontre qui nous change, la découverte d’un rocher inébranlable auquel nous pouvons nous accrocher pour affronter les tempêtes de la vie. C’est une expérience qui nous rend plus forts même dans le sacrifice parce que nous sommes davantage conscients de ne pas être seuls. C’est pourquoi l’on dit que la douleur porte toujours en elle un mystère de salut: elle nous fait expérimenter la proche et réelle consolation qui vient de Dieu, au point de « connaître la plénitude de l’Évangile avec toutes ses promesses et sa vie » (Saint Jean-Paul II, Discours aux jeunes, Nouvelle-Orléans, 12 septembre 1987).

2. Et cela nous amène à la deuxième piste de réflexion : le don. Jamais comme dans la souffrance nous ne nous rendons davantage compte que toute espérance vient du Seigneur, et qu’elle est avant tout un don à accueillir et à cultiver en restant, selon une belle expression de Madeleine Delbrêl, « fidèles à la fidélité de Dieu » (Cf. Nous autres, gens des rues, Livre de vie, 1966).

De plus, ce n’est que dans la résurrection du Christ que notre destin tout entier trouve sa place, dans l’horizon infini de l’éternité. Seule sa Pâque nous donne la certitude que rien, « ni la mort, ni la vie, ni les anges, ni les principautés, ni le présent, ni l’avenir, ni les puissances, ni la hauteur, ni la profondeur, ni aucune autre créature ne pourra jamais nous séparer de l’amour de Dieu » (Rm 8, 38-39). Toutes les sources de lumière qui permettent de surmonter les épreuves et les obstacles de la vie naissent de cette “grande espérance” (cf. Benoît XVI, Lett. enc. Spe salvi, 27.31). De plus, le Ressuscité marche avec nous, il se fait notre compagnon de route, comme pour les disciples d’Emmaüs (cf. Lc 24, 13-53). Comme eux, nous pouvons partager avec Lui notre désarroi, nos inquiétudes et nos déceptions, nous pouvons écouter sa Parole qui éclaire et enflamme nos cœurs. Nous pouvons le reconnaître présent dans la fraction du Pain en saisissant, dans le fait qu’il est avec nous même dans les limites du présent, cet “au- delà” qui nous redonne courage et confiance en se faisant proche.

3. Nous en arrivons ainsi au troisième aspect, celui du partage. Les lieux où l’on souffre sont souvent des lieux de partage, où l’on s’enrichit mutuellement. Combien de fois on apprend à espérer au chevet d’un malade ! Combien de fois on apprend à croire en se tenant près de ceux qui souffrent ! Combien de fois on découvre l’amour en se penchant sur ceux qui sont dans le besoin ! En d’autres termes, on se découvre être des “anges” de l’espérance, des messagers de Dieu les uns pour les autres, tous ensemble : malades, médecins, infirmières, membres de la famille, amis, prêtres, religieux et religieuses ; là où l’on se trouve : dans les familles, les cliniques, les centres de soins, les hôpitaux et les dispensaires.

Et il est important de savoir saisir la beauté et la portée de ces rencontres de grâce et d’apprendre à les inscrire dans notre âme pour ne pas les oublier : garder dans le cœur le sourire bienveillant d’un soignant, le regard reconnaissant et confiant d’un patient, le visage compréhensif et attentif d’un médecin ou d’un bénévole, celui, plein d’attente et d’inquiétude, d’un conjoint, d’un enfant, d’un petit-enfant, d’un ami très cher. Ce sont autant de lumières à garder précieusement qui, même dans l’obscurité de l’épreuve, non seulement donnent de la force mais enseignent le vrai goût de la vie, dans l’amour et la proximité (cf. Lc 10, 25-37).

Chers malades, chers frères et sœurs qui portez assistance à ceux qui souffrent, vous avez plus que jamais en ce Jubilé un rôle particulier à jouer. Votre marche avec les autres est un signe pour chacun, « un hymne à la dignité humaine, un chant d’espérance» (Bulle Spes non confundit, n. 11) dont la voix va bien au-delà des chambres et des lits des établissements de soins où vous êtes. Vous stimulez et encouragez dans la charité «l’agir harmonieux de toute la société » (ibid.), dans une symphonie parfois difficile à réaliser mais très douce et forte, précisément pour cette raison, capable d’apporter la lumière et la chaleur là où elle est le plus nécessaire.

Toute l’Église vous remercie ! Moi aussi, je vous remercie et je prie pour vous, en vous confiant à Marie, Santé des malades, à travers les paroles avec lesquelles tant de frères et de sœurs se sont adressés à elle dans le besoin :

Sous l’abri de ta miséricorde, nous nous réfugions, Sainte Mère de Dieu.
Ne méprise pas nos prières, alors que nous sommes dans l’épreuve,
mais de tous les dangers, délivre-nous toujours, Vierge glorieuse et bénie.

Je vous bénis, ainsi que vos familles et vos proches, et je vous demande, s'il vous plaît, de ne pas oublier de prier pour moi.

Rome, Saint-Jean-de-Latran, 14 janvier 2025

FRANÇOIS

[00161-FR.01] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

“Hope does not disappoint” (Rom 5:5),

but strengthens us in times of trial

Dear brothers and sisters,

We are celebrating the 33rd World Day of the Sick in the Jubilee Year 2025, in which the Church invites us to become “pilgrims of hope”. The word of God accompanies us and offers us, in the words of Saint Paul, an encouraging message: “Hope does not disappoint” (Rom 5:5); indeed, it strengthens us in times of trial.

These are comforting words, but they can also prove perplexing, especially for those who are suffering. How can we be strong, for example, when our bodies are prey to severe, debilitating illnesses that require costly treatment that we may not be able to afford? How can we show strength when, in addition to our own sufferings, we see those of our loved ones who support us yet feel powerless to help us? In these situations, we sense our need for a strength greater than our own. We realize that we need God’s help, his grace, his Providence, and the strength that is the gift of his Spirit (cf. Catechism of the Catholic Church, 1808).

Let us stop for a moment to reflect on how God remains close to those who are suffering in three particular ways: through encounter, gift and sharing.

1. Encounter. When Jesus sent the seventy-two disciples out on mission (cf. Lk 10:1-9), he told them to proclaim to the sick: “The kingdom of God has come near to you” (v. 9). He asks them, in other words, to help the sick to see their infirmity, however painful and incomprehensible it may be, as an opportunity to encounter the Lord. In times of illness, we sense our human frailty on the physical, psychological and spiritual levels. Yet we also experience the closeness and compassion of God, who, in Jesus, shared in our human suffering. God does not abandon us and often amazes us by granting us a strength that we never expected, and would never have found on our own.

Sickness, then, becomes an occasion for a transformative encounter, the discovery of a solid rock to which we can hold fast amid the tempests of life, an experience that, even at great cost, makes us all the stronger because it teaches us that we are not alone. Suffering always brings with it a mysterious promise of salvation, for it makes us experience the closeness and reality of God’s consoling presence. In this way, we come to know “the fullness of the Gospel with all its promise and life” (SAINT JOHN PAUL II, Address to Young People, New Orleans, 12 September 1987).

2. This brings us to the second way that God is close to the suffering: as gift. More than anything else, suffering makes us aware that hope comes from the Lord. It is thus, first and foremost, a gift to be received and cultivated, by remaining “faithful to the faithfulness of God”, in the fine expression of Madeleine Delbrêl (cf. La speranza è una luce nella notte, Vatican City 2024, Preface).

Indeed, only in Christ’s resurrection does our own life and destiny find its place within the infinite horizon of eternity. In Jesus’ paschal mystery alone do we attain the certainty that “neither death, nor life, nor angels, nor rulers, nor things present, nor things to come, nor powers,nor height, nor depth, nor anything else in all creation, will be able to separate us from the love of God” (Rom 8:38-39). This “great hope” is the source of all those small glimmers of light that help us to see our way through the trials and obstacles of life (cf. BENEDICT XVI, Spe Salvi, 27, 31). The risen Lord goes so far as to walk beside us as our companion on the way, even as he did with the disciples on the road to Emmaus (cf. Lk 24:13-53). Like them, we can share with him our anxieties, concerns and disappointments, and listen to his word, which enlightens us and warms our hearts. Like them too, we can recognize him present in the breaking of the bread and thus, even in the present, sense that “greater reality” which, by drawing near to us, restores our courage and confidence.

3. We now come to God’s third way of being close to us: through sharing. Places of suffering are frequently also places of sharing and mutual enrichment. How often, at the bedside of the sick, do we learn to hope! How often, by our closeness to those who suffer, do we learn to have faith! How often, when we care for those in need, do we discover love! We realize that we are “angels” of hope and messengers of God for one another, all of us together: whether patients, physicians, nurses, family members, friends, priests, men and women religious, no matter where we are, whether in the family or in clinics, nursing homes, hospitals or medical centres.

We need to learn how to appreciate the beauty and significance of these grace-filled encounters. We need to learn how to cherish the gentle smile of a nurse, the gratitude and trust of a patient, the caring face of a doctor or volunteer, or the anxious and expectant look of a spouse, a child, a grandchild or a dear friend. All these are rays of light to be treasured; even amid the dark night of adversity, they give us strength, while at the same time teaching us the deeper meaning of life, in love and closeness (cf. Lk 10:25-37).

Dear brothers and sisters who are ill or who care for the suffering, in this Jubilee you play an especially important part. Your journey together is a sign for everyone: “a hymn to human dignity, a song of hope” (Spes Non Confundit, 11). Its strains are heard far beyond the rooms and beds of health facilities, and serve to elicit in charity “the choral participation of society as a whole” (ibid.) in a harmony that is at times difficult to achieve, but for that very reason is so comforting and powerful, capable of bringing light and warmth wherever they are most needed.

The whole Church thanks you for this! I do as well, and I remember you always in my prayers. I entrust you to Our Lady, Health of the Sick, in the words that so many of our brothers and sisters have addressed to her in their hour of need:

We fly to your protection, O Holy Mother of God.

Do not despise our petitions in our necessities,

but deliver us always from all dangers, O glorious and blessed Virgin.

I bless you, along with your families and loved ones, and I ask you, please, not to forget to pray for me.

Rome, Saint John Lateran, 14 January 2025

FRANCIS

[00161-EN.01] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

»Die Hoffnung aber lässt nicht zugrunde gehen« (Röm 5,5)

und macht uns stark in der Bedrängnis

Liebe Brüder und Schwestern!

Wir begehen den 33. Welttag der Kranken im Jubiläumsjahr 2025, in dem die Kirche uns einlädt, „Pilger der Hoffnung“ zu werden. Dabei begleitet uns das Wort Gottes, das uns durch den heiligen Paulus eine sehr ermutigende Botschaft gibt: »Die Hoffnung aber lässt nicht zugrunde gehen« (Röm 5,5), ja, sie macht uns stark in der Bedrängnis.

Das sind tröstliche Worte, aber sie können einige Fragen aufkommen lassen, besonders bei denen, die leiden. Zum Beispiel: Wie sollen wir stark bleiben, wenn wir von schweren, beeinträchtigenden Krankheiten heimgesucht werden, die vielleicht eine Behandlung erfordern, deren Kosten unsere Mittel übersteigen? Wie schaffen wir das, wenn wir neben unserem eigenen Leiden auch das derjenigen sehen, die uns lieben und sich trotz aller Nähe hilflos fühlen? In all diesen Situationen spüren wir das Bedürfnis nach einer Unterstützung, die größer ist als wir: Wir brauchen die Hilfe Gottes, seiner Gnade, seiner Vorsehung, jener Kraft, die das Geschenk seines Heiligen Geistes ist (vgl. Katechismus der Katholischen Kirche, 1808).

Halten wir also einen Moment inne, um über die Gegenwart Gottes, der den Leidenden nahe ist, nachzudenken, und zwar anhand von drei charakteristischen Aspekten: Begegnung, Geschenk und Teilen.

1. Begegnung. Als Jesus die zweiundsiebzig Jünger aussendet (vgl. Lk 10,1-9), ersucht er sie, den Kranken zu sagen: »Das Reich Gottes ist euch nahe« (V. 9). Das heißt, er will, dass sie helfen, auch die Krankheit, so schmerzhaft und schwer verständlich sie sein mag, als eine Gelegenheit zur Begegnung mit dem Herrn zu erkennen. Auch wenn wir nämlich in der Zeit der Krankheit einerseits unsere ganze geschöpfliche Schwachheit – körperlich, seelisch und geistig – spüren, so erfahren wir doch andererseits die Nähe und das Mitleid Gottes, der in Jesus mit uns gelitten hat. Er lässt uns nicht im Stich und überrascht uns oft mit dem Geschenk einer Zähigkeit, die wir uns nie zugetraut hätten und zu der wir aus eigener Kraft nie gelangt wären.

Dann wird die Krankheit zur Gelegenheit einer Begegnung, die uns verändert, zur Entdeckung eines unerschütterlichen Felsens, an dem wir uns festklammern können, um den Stürmen des Lebens zu trotzen: eine Erfahrung, die uns, wenngleich unter Opfern, stärker macht, weil wir uns bewusster werden, dass wir nicht allein sind. Deshalb heißt es, dass der Schmerz immer ein Heilsgeheimnis in sich birgt, weil er uns den Trost, der von Gott kommt, ganz nah und real erfahren lässt, so sehr, dass wir »die Fülle des Evangeliums mit all seinen Verheißungen und seinem Leben erkennen« (Hl. Johannes Paul II., Ansprache an die Jugend, New Orleans, 12. September 1987).

2. Und damit kommen wir zum zweiten Gedanken: das Geschenk. Niemals wird uns nämlich so bewusst wie im Leiden, dass alle Hoffnung vom Herrn kommt und sie also in erster Linie ein Geschenk ist, das wir annehmen und hegen müssen, indem wir »der Treue Gottes treu bleiben«, wie es Madeleine Delbrêl so schön ausdrückt (vgl. La speranza è una luce nella notte, Città del Vaticano 2024, Vorwort).

Und nur in der Auferstehung Christi findet jedes unserer Schicksale seinen Platz im unendlichen Horizont der Ewigkeit. Nur aus seinem Tod und seiner Auferstehung erwächst uns die Gewissheit, dass nichts, »weder Tod noch Leben, weder Engel noch Mächte, weder Gegenwärtiges noch Zukünftiges noch Gewalten, weder Höhe noch Tiefe noch irgendeine andere Kreatur […] uns scheiden [können] von der Liebe Gottes« (Röm 8,38-39). Und aus dieser „großen Hoffnung“ kommt jeder andere Lichtschimmer, mit dem wir die Prüfungen und Hindernisse des Lebens überwinden können (vgl. Benedikt XVI., Enzyklika Spe salvi, 27.31). Und nicht nur das, der Auferstandene geht auch mit uns und wird zu unserem Weggefährten, wie bei den Emmausjüngern (vgl. Lk 24,13-53). Wie sie können auch wir mit ihm unsere Verlorenheit, unsere Sorgen und unsere Enttäuschungen teilen, wir können auf sein Wort hören, das uns erleuchtet und unsere Herzen entzündet, und ihn beim Brechen des Brotes als gegenwärtig erkennen, indem wir in seinem Mit-uns-Sein, wenn auch in den Grenzen der Gegenwart, dieses „Jenseits“ erkennen, das uns durch seine Nähe wieder Mut und Zuversicht schenkt.

3. Und damit kommen wir zum dritten Aspekt, dem des Teilens. Die Orte, wo wir leiden, sind oft Orte des Teilens, der gegenseitigen Bereicherung. Wie oft lernt man am Bett eines Kranken zu hoffen! Wie oft lernt man glauben, wenn man den Leidenden beisteht! Wie oft begegnet man der Liebe, wenn man sich über die Bedürftigen beugt! Wir erkennen, dass wir „Engel“ der Hoffnung sind, Boten Gottes füreinander, alle miteinander: die Kranken, die Ärzte, die Krankenschwestern und Krankenpfleger, die Familienangehörigen, die Freunde, die Priester, die Ordensmänner und Ordensfrauen ... wo immer wir sind: in den Familien, in den Praxen, in den Pflegeheimen, in den Krankenhäusern und Kliniken.

Und es ist wichtig, die Schönheit und Bedeutung dieser gnadenhaften Begegnungen erfassen zu können und zu lernen, sie in der Seele zu verankern, um sie nicht zu vergessen. Es geht darum, das freundliche Lächeln des medizinischen Personals, den dankbaren und vertrauensvollen Blick eines Patienten, das verständnisvolle und fürsorgliche Gesicht eines Arztes oder eines ehrenamtlichen Mitarbeiters, das erwartungsvolle und besorgte Gesicht eines Ehepartners, eines Kindes, eines Enkels oder eines lieben Freundes im Herzen zu bewahren. Sie alle sind wertvolle Lichter, die uns selbst in der Dunkelheit der Prüfung Kraft geben und uns darüber hinaus durch ihre Liebe und Nähe den wahren Geschmack des Lebens lehren (vgl. Lk 10,25-37).

Liebe Kranke, liebe Brüder und Schwestern, die ihr euch der Leidenden annehmt, in diesem Heiligen Jahr kommt euch mehr denn je eine besondere Rolle zu. Euer gemeinsamer Weg ist in der Tat ein Zeichen für alle, »ein Lobgesang auf die Menschenwürde, ein Lied der Hoffnung« (Bulle Spes non confundit, 11), das weit über die Zimmer und Betten der Pflegestätten, in welchen ihr euch befindet, hinausklingt und das »Zusammenspiel der ganzen Gesellschaft« (ebd.) in der Liebe anregt und fördert, in einer Harmonie, die manchmal schwer zu verwirklichen, aber gerade deshalb wunderschön und stark ist und Licht und Wärme dorthin zu bringen vermag, wo es am nötigsten ist.

Die ganze Kirche dankt euch dafür! Auch ich tue das und bete für euch, indem ich euch Maria, dem Heil der Kranken, anvertraue – mit den Worten, mit denen sich schon so viele Brüder und Schwestern in ihrer Not an sie gewandt haben:

Unter deinen Schutz und Schirm fliehen wir,

o heilige Gottesmutter.

Verschmähe nicht unser Gebet in unseren Nöten,

sondern erlöse uns jederzeit von allen Gefahren,

o du glorreiche und gebenedeite Jungfrau.

Ich segne euch und eure Familien und alle, die euch nahestehen, und ich bitte euch, nicht zu vergessen, für mich zu beten.

Rom, Sankt Johannes im Lateran, 14. Januar 2025

FRANZISKUS

[00161-DE.01] [Original sprache: Italien]

Traduzione in lingua spagnola

«La esperanza no defrauda» (Rm 5,5)

y nos hace fuertes en la tribulación

Queridos hermanos y hermanas:

Celebramos la XXXIII Jornada Mundial del Enfermo en el Año Jubilar 2025, en el que la Iglesia nos invita a hacernos “peregrinos de esperanza”. En esto nos acompaña la Palabra de Dios que, por medio de san Pablo, nos da un gran mensaje de aliento: «La esperanza no defrauda» (Rm 5,5), es más, nos hace fuertes en la tribulación.

Son expresiones consoladoras, pero que pueden suscitar algunos interrogantes, especialmente en los que sufren. Por ejemplo: ¿cómo permanecer fuertes, cuando sufrimos en carne propia enfermedades graves, invalidantes, que quizás requieren tratamientos cuyos costos van más allá de nuestras posibilidades? ¿Cómo hacerlo cuando, además de nuestro sufrimiento, vemos sufrir a quienes nos quieren y que, aun estando a nuestro lado, se sienten impotentes por no poder ayudarnos? En todas estas situaciones sentimos la necesidad de un apoyo superior a nosotros: necesitamos la ayuda de Dios, de su gracia, de su Providencia, de esa fuerza que es don de su Espíritu (cf. Catecismo de la Iglesia Católica, 1808).

Detengámonos pues un momento a reflexionar sobre la presencia de Dios que permanece cerca de quien sufre, en particular bajo tres aspectos que la caracterizan: el encuentro, el don y el compartir.

1. El encuentro. Jesús, cuando envió en misión a los setenta y dos discípulos (cf. Lc 10,1-9), los exhortó a decir a los enfermos: «El Reino de Dios está cerca de ustedes» (v. 9). Les pidió concretamente ayudarles a comprender que también la enfermedad, aun cuando sea dolorosa y difícil de entender, es una oportunidad de encuentro con el Señor. En el tiempo de la enfermedad, en efecto, si por una parte experimentamos toda nuestra fragilidad como criaturas —física, psicológica y espiritual—, por otra parte, sentimos la cercanía y la compasión de Dios, que en Jesús ha compartido nuestros sufrimientos. Él no nos abandona y muchas veces nos sorprende con el don de una determinación que nunca hubiéramos pensado tener, y que jamás hubiéramos hallado por nosotros mismos.

La enfermedad entonces se convierte en ocasión de un encuentro que nos transforma; en el hallazgo de una roca inquebrantable a la que podemos aferrarnos para afrontar las tempestades de la vida; una experiencia que, incluso en el sacrificio, nos vuelve más fuertes, porque nos hace más conscientes de que no estamos solos. Por eso se dice que el dolor lleva siempre consigo un misterio de salvación, porque hace experimentar el consuelo que viene de Dios de forma cercana y real, hasta «conocer la plenitud del Evangelio con todas sus promesas y su vida» (S. Juan Pablo II, Discurso a los jóvenes, Nueva Orleans, 12 septiembre 1987).

2. Y esto nos conduce al segundo punto de reflexión: el don. Ciertamente, nunca como en el sufrimiento nos damos cuenta de que toda esperanza viene del Señor, y que por eso es, ante todo, un don que hemos de acoger y cultivar, permaneciendo “fieles a la fidelidad de Dios”, según la hermosa expresión de Madeleine Delbrêl (cf. La speranza è una luce nella notte, Ciudad del Vaticano 2024, Prefacio).

Por lo demás, sólo en la resurrección de Cristo nuestros destinos encuentran su lugar en el horizonte infinito de la eternidad. Sólo de su Pascua nos viene la certeza de que nada, «ni la muerte ni la vida, ni los ángeles ni los principados, ni lo presente ni lo futuro, ni los poderes espirituales, ni lo alto ni lo profundo, ni ninguna otra criatura podrá separarnos jamás del amor de Dios» (Rm 8,38-39). Y de esta “gran esperanza” deriva cualquier otro rayo de luz que nos permite superar las pruebas y los obstáculos de la vida (cf. Benedicto XVI, Carta enc. Spe salvi, 27.31). No sólo eso, sino que el Resucitado también camina con nosotros, haciéndose nuestro compañero de viaje, como con los discípulos de Emaús (cf. Lc 24,13-53). Como ellos, también nosotros podemos compartir con Él nuestro desconcierto, nuestras preocupaciones y nuestras desilusiones, podemos escuchar su Palabra que nos ilumina y hace arder nuestro corazón, y nos permite reconocerlo presente en la fracción del Pan, vislumbrando en ese estar con nosotros, aun en los límites del presente, ese “más allá” que al acercarse nos devuelve valentía y confianza.

3. Y llegamos así al tercer aspecto, el del compartir. Los lugares donde se sufre son a menudo lugares de intercambio, de enriquecimiento mutuo. ¡Cuántas veces, junto al lecho de un enfermo, se aprende a esperar! ¡Cuántas veces, estando cerca de quien sufre, se aprende a creer! ¡Cuántas veces, inclinándose ante el necesitado, se descubre el amor! Es decir, nos damos cuenta de que somos “ángeles” de esperanza, mensajeros de Dios, los unos para los otros, todos juntos: enfermos, médicos, enfermeros, familiares, amigos, sacerdotes, religiosos y religiosas; y allí donde estemos: en la familia, en los dispensarios, en las residencias de ancianos, en los hospitales y en las clínicas.

Y es importante saber descubrir la belleza y la magnitud de estos encuentros de gracia y aprender a escribirlos en el alma para no olvidarlos; conservar en el corazón la sonrisa amable de un agente sanitario, la mirada agradecida y confiada de un paciente, el rostro comprensivo y atento de un médico o de un voluntario, el semblante expectante e inquieto de un cónyuge, de un hijo, de un nieto o de un amigo entrañable. Son todas luces que atesorar pues, aun en la oscuridad de la prueba, no sólo dan fuerza, sino que enseñan el sabor verdadero de la vida, en el amor y la proximidad (cf. Lc 10,25-37).

Queridos enfermos, queridos hermanos y hermanas que asisten a los que sufren, en este Jubileo ustedes tienen más que nunca un rol especial. Su caminar juntos, en efecto, es un signo para todos, «un himno a la dignidad humana, un canto de esperanza» (Bula Spes non confundit, 11), cuya voz va mucho más allá de las habitaciones y las camas de los sanatorios donde se encuentren, estimulando y animando en la caridad “el concierto de toda la sociedad” (cf. ibíd.), en una armonía a veces difícil de realizar, pero precisamente por eso, muy dulce y fuerte, capaz de llevar luz y calor allí donde más se necesita.

Toda la Iglesia les está agradecida. También yo lo estoy y rezo por ustedes encomendándolos a María, Salud de los enfermos, por medio de las palabras con las que tantos hermanos y hermanas se han dirigido a ella en las dificultades:

Bajo tu amparo nos acogemos, Santa Madre de Dios;

no deseches las súplicas que te dirigimos en nuestras necesidades,

antes bien, líbranos de todo peligro,

¡oh siempre Virgen, gloriosa y bendita!

Los bendigo, junto con sus familias y demás seres queridos, y les pido, por favor, que no se olviden de rezar por mí.

Roma, San Juan de Letrán, 14 de enero de 2025

FRANCISCO

[00161-ES.01] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

«A esperança não engana» (Rm 5, 5)

e fortalece-nos nas tribulações

Queridos irmãos e irmãs!

Estamos a celebrar o XXXIII Dia Mundial do Doente no Ano Jubilar de 2025, durante o qual a Igreja convida a tornarmo-nos “peregrinos de esperança”. Nisto, somos acompanhados pela Palavra de Deus que, através de São Paulo, nos transmite uma mensagem de grande encorajamento: «A esperança não engana» (Rm 5, 5), aliás, fortalece-nos nas tribulações.

São expressões reconfortantes, mas que podem levantar algumas questões, sobretudo em quem sofre. Por exemplo: como é que nos mantemos fortes quando somos feridos na carne por doenças graves, que nos incapacitam, que talvez exijam tratamentos cujos custos vão para além das nossas possibilidades? Como fazê-lo quando, não obstante o nosso próprio sofrimento, vemos o daqueles que nos amam e que, embora próximos de nós, se sentem impotentes para nos ajudar? Em todas estas circunstâncias, sentimos a necessidade de um apoio maior do que nós: precisamos da ajuda de Deus, da sua graça, da sua Providência, daquela força que é dom do seu Espírito (cf. Catecismo da Igreja Católica, 1808).

Detenhamo-nos, pois, por momentos, a refletir sobre a presença de Deus junto dos que sofrem, particularmente nos três aspetos que a caracterizam: o encontro, o dom e a partilha.

1. O encontro. Quando Jesus envia os setenta e dois discípulos em missão (cf. Lc 10, 1-9), exorta-os a dizer aos doentes: «O Reino de Deus já está próximo de vós» (v. 9). Ou seja, pede-lhes que os ajudem a aproveitar a oportunidade de encontro com o Senhor, mesmo na doença, por muito que seja dolorosa e difícil de compreender. Com efeito, no momento da doença, se por um lado sentimos toda a nossa fragilidade – física, psíquica e espiritual – de criaturas, por outro lado experimentamos a proximidade e a compaixão de Deus, que em Jesus participou do nosso sofrimento. Ele não nos abandona e, muitas vezes, surpreende com o dom de uma tenacidade que nunca pensámos possuir e que, sozinhos, não teríamos encontrado.

A doença torna-se então a oportunidade para um encontro que nos transforma, a descoberta de uma rocha firme na qual descobrimos que podemos ancorar-nos para enfrentar as tempestades da vida: uma experiência que, mesmo no sacrifício, nos torna mais fortes, porque mais conscientes de não estarmos sós. Por isso se diz que a dor traz sempre consigo um mistério de salvação, porque nos faz experimentar, de forma próxima e real, a consolação que vem de Deus, a ponto de «conhecer a plenitude do Evangelho com todas as suas promessas e a sua vida» (São João Paulo II, Discurso aos jovens, Nova Orleães, 12 de setembro de 1987).

2. E isto leva-nos ao segundo ponto de reflexão: o dom. Efetivamente, em nenhuma outra ocasião como no sofrimento, nos damos conta que toda a esperança vem do Senhor e que, assim sendo, é antes de mais um dom a acolher e a cultivar, permanecendo «fiéis à fidelidade de Deus», segundo a linda expressão de Madeleine Delbrêl (cf. A esperança é uma luz na noite, Cidade do Vaticano 2024, Prefácio).

Além disso, só na ressurreição de Cristo é que cada um dos nossos destinos encontra o seu lugar no horizonte infinito da eternidade. Só da sua Páscoa nos vem a certeza de que nada, «nem a morte nem a vida, nem os anjos nem os principados, nem o presente nem o futuro, nem as potestades, nem a altura, nem o abismo, nem qualquer outra criatura poderá separar-nos do amor de Deus» (Rm 8, 38-39). E desta “grande esperança” derivam todos os outros raios de luz com que se podem ultrapassar as provações e os obstáculos da vida (cf. Bento XVI, Carta enc. Spe salvi, 27.31). E não apenas isso, porque o Ressuscitado também caminha connosco, fazendo-se nosso companheiro de viagem, como aconteceu com os discípulos de Emaús (cf. Lc 24, 13-53). À semelhança destes, também nós podemos partilhar com Ele as nossas perturbações, preocupações e desilusões, podemos escutar a sua Palavra que nos ilumina e faz arder o coração, e reconhecê-Lo presente ao partir o Pão, recolhendo do seu estar connosco, apesar dos limites do tempo presente, aquele “mais além” que, ao aproximar-se, nos restitui a coragem e a confiança.

3. E assim chegamos ao terceiro aspeto, o da partilha. Os lugares onde se sofre são frequentemente espaços de partilha, nos quais nos enriquecemos uns aos outros. Quantas vezes se aprende a esperar à cabeceira de um doente! Quantas vezes se aprende a crer ao lado de quem sofre! Quantas vezes descobrimos o amor inclinando-nos sobre quem tem necessidades! Ou seja, apercebemo-nos de que todos juntos somos “anjos” de esperança, mensageiros de Deus, uns para os outros: doentes, médicos, enfermeiros, familiares, amigos, sacerdotes, religiosos e religiosas. E isto, onde quer que estejamos: nas famílias, nos ambulatórios, nas unidades de cuidados, nos hospitais e nas clínicas.

É importante saber captar a beleza e o alcance destes encontros de graça, e aprender a anotá-los na alma para não os esquecermos: guardar no coração o sorriso amável de um profissional de saúde, o olhar agradecido e confiante de um doente, o rosto compreensivo e atencioso de um médico ou de um voluntário, o rosto expetante e trepidante de um cônjuge, de um filho, de um neto, de um querido amigo. Todos eles são raios de luz que é preciso valorizar e que, mesmo durante a escuridão das provações, não só dão força, mas dão o verdadeiro sabor da vida, no amor e na proximidade (cf. Lc 10, 25-37).

Queridos doentes, queridos irmãos e irmãs que cuidais de quem sofre, neste Jubileu, mais do que nunca, vós desempenhais um papel especial. Na verdade, o vosso caminhar juntos é um sinal para todos, «um hino à dignidade humana, um canto de esperança» (Bula Spes non confundit, 11), cuja voz vai muito além dos quartos e das camas dos lugares de assistência em que vos encontrais, estimulando e encorajando na caridade «a sincronização de toda a sociedade» (ibid.), numa harmonia por vezes difícil de alcançar, mas por isso mesmo dulcíssima e forte, capaz de levar luz e calor aonde é mais necessário.

Toda a Igreja vos agradece por isso! Também eu o faço e rezo por vós, confiando-vos a Maria, Saúde dos Enfermos, através das palavras com que tantos irmãos e irmãs, nas suas necessidades, se dirigiram a Ela:

À vossa proteção nos acolhemos, Santa Mãe de Deus.

Não desprezeis as nossas súplicas em nossas necessidades,

mas livrai-nos de todos os perigos, ó Virgem gloriosa e bendita.

A todos vós, juntamente com as vossas famílias e entes queridos, vos abençoo e peço, por favor, que não vos esqueçais de rezar por mim.

Roma – São João de Latrão, 14 de janeiro de 2025

FRANCISCO

[00161-PO.01] [Texto original: Italiano]

 

Traduzione in lingua polacca

„Nadzieja zawieść nie może” (Rz 5, 5)

i umacnia nas w ucisku

Drodzy Bracia i Siostry!

Obchodzimy XXXIII Światowy Dzień Chorego w Roku Jubileuszowym 2025, w którym Kościół zaprasza nas, abyśmy stali się „pielgrzymami nadziei”. Towarzyszy nam w tym Słowo Boże, które za pośrednictwem Św. Pawła przekazuje nam przesłanie wielkiej zachęty: „Nadzieja zawieść nie może” (Rz 5, 5), co więcej umacnia nas w ucisku.

Są to słowa pocieszające, ale mogą jednak rodzić pewne pytania, zwłaszcza w tym, kto cierpi. Na przykład: jak pozostać mocnym, gdy jesteśmy dotknięci poważnymi chorobami, powodującymi kalectwo, wymagającymi być może leczenia, którego koszty przekraczają nasze możliwości? Jak to uczynić, gdy oprócz naszego cierpienia widzimy cierpienie tego, kto nas kocha, i który choć jest blisko nas, czuje się bezsilny, aby nam pomóc? We wszystkich tych okolicznościach odczuwamy potrzebę wsparcia większego od nas: potrzebujemy pomocy Boga, Jego łaski, Jego Opatrzności, tej siły, która jest darem Jego Ducha (por. Katechizm Kościoła Katolickiego, n. 1808).

Zatrzymajmy się więc na chwilę, aby zastanowić się nad obecnością Boga blisko tych, którzy cierpią, szczególnie w trzech aspektach, które ją charakteryzują: spotkanie, dar i dzielenie się.

1. Spotkanie. Kiedy Jezus wysyła siedemdziesięciu dwóch uczniów na misję (por. Łk 10, 1-9), zachęca ich, aby mówili chorym: „Przybliżyło się do was królestwo Boże” (w. 9). To znaczy, prosi ich, aby pomogli im znajdować nawet w słabości, jakkolwiek bolesnej i trudnej do zrozumienia, szansę do spotkania z Panem. Rzeczywiście, w czasie choroby, jeśli z jednej strony odczuwamy całą naszą kruchość stworzenia – fizyczną, psychiczną i duchową – to z drugiej strony doświadczamy bliskości i współczucia Boga, który w Jezusie podzielił nasze cierpienia. On nas nie opuszcza i często zaskakuje nas darem wytrwałości, o której nigdy byśmy nie pomyśleli, a której sami nigdy byśmy nie zdobyli.

Choroba staje się więc okazją do spotkania, które nas przemienia, do odkrycia niewzruszonej skały, do której możemy się zakotwiczyć, aby stawić czoła burzom życia. Jest to doświadczenie, które nawet w wyrzeczeniu czyni nas silniejszymi, ponieważ jesteśmy bardziej świadomi, że nie jesteśmy sami. Z tego powodu mówi się, że cierpienie zawsze niesie ze sobą tajemnicę zbawienia, ponieważ pozwala doświadczyć bliskiego i realnego pocieszenia pochodzącego od Boga, aż do „poznania pełni Ewangelii ze wszystkimi jej obietnicami i życiem” (Św. Jan Paweł II, Przemówienie do młodzieży, Nowy Orlean, 12 września 1987 r.).

2. I to prowadzi nas do drugiego punktu refleksji: do daru. Istotnie, nigdy, tak bardzo jak w cierpieniu, nie uświadamiamy sobie, że wszelka nadzieja pochodzi od Pana, a zatem jest przede wszystkim darem, który należy przyjąć i pielęgnować, pozostając „wiernymi wierności Boga”, według pięknego wyrażenia Madeleine Delbrêl (por. La speranza è una luce nella notte, Città del Vaticano 2024, Prefazione).

Ponadto, tylko w zmartwychwstaniu Chrystusa wszelki nasz los znajduje swoje miejsce w nieskończonym horyzoncie wieczności. Jedynie z Jego Paschy pochodzi pewność, że „ani śmierć, ani życie, ani aniołowie, ani Zwierzchności, ani rzeczy teraźniejsze, ani przyszłe, ani Moce, ani co [jest] wysoko, ani co głęboko, ani jakiekolwiek inne stworzenie nie zdoła nas odłączyć od miłości Boga” (Rz 8, 38-39). A z tej „wielkiej nadziei” wypływa każdy inny promyk światła, dzięki któremu można przezwyciężyć życiowe próby i przeszkody (por. Benedykt XVI, Enc. Spe salvi, 27.31). Nie tylko to, ale Zmartwychwstały idzie także z nami, stając się naszym towarzyszem podróży, jak dla uczniów z Emaus (por. Łk 24,13-53). Podobnie jak oni, my również możemy podzielić się z Nim naszym zagubieniem, naszymi niepokojami i naszymi rozczarowaniami, możemy słuchać Jego Słowa, które nas oświeca i rozpala nasze serce, i rozpoznać Go obecnego w łamaniu Chleba, dostrzegając w Jego przebywaniu z nami – pomimo granic teraźniejszości – owo „ponad”, które stając się bliskie, przywraca nam odwagę i ufność.

3. I tak dochodzimy do trzeciego aspektu – do dzielenia się. Miejsca, w których cierpimy, są często miejscami dzielenia się, gdzie wzajemnie się ubogacamy. Ileż razy, przy łóżku chorego uczymy się nadziei! Ileż razy, stojąc blisko tych, którzy cierpią, uczymy się wierzyć! Ileż razy, pochylając się nad potrzebującymi, odkrywamy miłość! A więc, uświadamiamy sobie, że jesteśmy „aniołami” nadziei, posłańcami Boga, jedni dla drugich, wszyscy razem: chorzy, lekarze, pielęgniarki, członkowie rodzin, przyjaciele, kapłani, zakonnicy i zakonnice; tam gdzie jesteśmy: w rodzinach, przychodniach, domach opieki, w szpitalach i w klinikach.

I ważne jest, abyśmy potrafili uchwycić piękno i znaczenie tych spotkań łaski i nauczyli się zapisywać je w duszy, aby o nich nie zapomnieć: aby zachować w sercu życzliwy uśmiech pracownika służby zdrowia, wdzięczne i ufne spojrzenie pacjenta, wyrozumiałą i troskliwą twarz lekarza lub wolontariusza, pełną oczekiwania i zatroskania twarz małżonka, dziecka, wnuka lub drogiego przyjaciela. To wszystko są światła, które warto docenić, które nawet w ciemnościach próby nie tylko dają siłę, ale uczą prawdziwego smaku życia, w miłości i w bliskości (por. Łk 10, 25-37).

Drodzy chorzy, drodzy bracia i siostry, którzy służycie pomocą cierpiącym, w tym Roku Jubileuszowym odgrywacie bardziej niż kiedykolwiek szczególną rolę. Wasze podążanie razem jest bowiem znakiem dla wszystkich, „hymnem na cześć ludzkiej godności, pieśnią nadziei” (Bulla Spes non confundit, 11), której głos wykracza daleko poza sale i łóżka miejsc opieki, w których się znajdujecie, pobudzając i zachęcając do miłości „zgodny chór całego społeczeństwa” (tamże), w harmonii niekiedy trudnej do osiągnięcia, ale właśnie dlatego najbardziej słodkiej i mocnej, zdolnej wnieść światło i serdeczność tam, gdzie ich najbardziej potrzeba.

Cały Kościół dziękuje wam za to! Ja również to czynię i modlę się za was, powierzając was Maryi, Uzdrowieniu Chorych, poprzez słowa, z którymi wielu braci i sióstr zwracało się do Niej w potrzebie:

Pod Twoją obronę uciekamy się, Święta Boża Rodzicielko,

naszymi prośbami racz nie gardzić w potrzebach naszych,ale od wszelakich złych przygód racz nas zawsze wybawiać,

Panno chwalebna i błogosławiona.

Błogosławię was wraz z waszymi rodzinami i bliskimi i proszę, abyście nie zapomnieli modlić się za mnie.

Rzym, u Świętego Jana na Lateranie, dnia 14 stycznia 2025 r.

FRANCISZEK

[00161-PL.01] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua araba

"الرَّجاء لا يُخَيِّبُ" (رومة 5، 5)

ويجعلنا أقوياء في الشِّدَّة

أيّها الإخوة والأخوات الأعزّاء،

نحتفل باليوم العالميّ الثّالث والثّلاثين للمريض في سنة اليوبيل 2025، حيث تدعونا الكنيسة إلى أن نكون ”حجَّاج رجاء“. وكلمة الله ترافقنا في ذلك، وتقدِّم لنا على فم القدّيس بولس رسالة تشجيع كبيرة: "الرَّجاء لا يُخَيِّبُ" (رومة 5، 5)، بل يجعلنا أقوياء في الشِّدَّة.

إنّها تعابير تعزية، لكنّها قد تثير بعض الأسئلة، خاصّة في المتألّمين. مثلًا: كيف نبقى أقوياء عندما نُصاب بأمراض خطيرة أو معوِّقة، وقد تتطلَّب علاجات تتجاوز تكلفتها إمكانياتنا؟ كيف نبقى أقوياء عندما نرى، بالإضافة إلى آلامنا، آلام من يحبّوننا، والذين يشعرون بأنفسهم ضعيفين عاجزين عن مساعدتنا، رغم قربهم منّا؟ في جميع هذه الظّروف، نشعر بالحاجة إلى سندٍ أكبر منّا: نحتاج إلى عَون الله، وإلى نعمته، وإلى عنايته الإلهيّة، وإلى تلك القوّة التي هي عطيّة من روحه (راجع التّعليم المسيحيّ للكنيسة الكاثوليكيّة، 1808).

لنتوقَّف لحظةً لنتأمّل في حضور الله القريب من المتألّمين، خاصّة في الأوجه الثّلاثة التي تميِّز قرب الله منّا: اللقاء، والعطاء، والمشاركة.

1. اللقاء. عندما أرسل يسوع الاثنين والسّبعين تلميذًا يحملون الرّسالة (راجع لوقا 10، 1-9)، أوصاهم أن يقولوا للمرضى: "قَدِ اقتَرَبَ مِنكُم مَلَكوتُ الله" (آية 9). أي أنّه يطلب أن نساعد المريض أن يدرك حتّى في المرض، مهما كان مؤلمًا وصعبًا للفهم، أنّه يمكن أن يكون فرصة للقاء مع الله. في الواقع، في وقت المرض، إن كنّا نشعر من جهة بكلّ هشاشتنا كمخلوقات– جسديًّا ونفسيًّا وروحيًّا – فإنّنا من جهة أخرى نختبر قرب الله ورأفته، الذي في يسوع شاركنا في آلامنا. فهو لا يتركنا، ويفاجئنا مرارًا بعطيّة الصّبر والتّحمّل التي لم نكن نظن قط أنّنا نمتلكها، والتي لم نكن لنجدها قط بمفردنا.

إذّاك يصير المرض فرصة للقاء يغيِّرنا، واكتشاف صخرة ثابتة يمكننا أن نرتكز عليها لمواجهة عواصف الحياة: إنّها خبرة، ولو في العذاب، تجعلنا أقوى، لأنّها تجعلنا ندرك أنّنا لسنا وحدنا. لهذا يُقال إنّ الألم يحمل دائمًا معه سرّ الخلاص، لأنّه يجعلنا نختبر التّعزية القريبة والحقيقيّة التي تأتي من الله، حتّى: "نعرف كمال الإنجيل بكلّ وعوده وحياته" (القدّيس يوحنّا بولس الثّاني، كلمة إلى الشّباب، New Orleans، 12 أيلول/سبتمبر 1987).

2. وهذا يقودنا إلى الوجه الثّاني في تأمّلنا: العطاء. في الواقع، في الألم فقط يمكننا أن ندرك أنّ كلّ رجاءٍ يأتي من الرّبّ يسوع، فهو قبل كلّ شيء عطيّة يجب علينا أن نقبلها وننمّيها، فنبقى "أوفياء لأمانة الله" وفقًا للتعبير الجميل لمادلين ديلبرل (راجع الرّجاء نورٌ في الليل، حاضرة الفاتيكان 2024، المقدّمة).

وفي كلّ حال، في قيامة المسيح من بين الأموات فقط، يجد مصيرنا مكانه في أُفق الأبديّة اللامتناهي. ومن فصحه فقط، تصل إلينا الحقيقة بأنّ لا شيء، "لا مَوتٌ ولا حَياة، ولا مَلائِكَةٌ ولا أَصحابُ رِئاسة، ولا حاضِرٌ ولا مُستَقبَل، ولا قُوَّات، ولا عُلُوٌّ ولا عُمْق، ولا خَليقَةٌ أُخْرى، بِوُسعِها أَن تَفصِلَنا عن مَحبَّةِ اللهِ" (رومة 8، 38-39). ومن هذا ”الرّجاء الكبير“ يأتي كلّ أفقٍ آخر من النّور الذي به نتجاوز تجارب الحياة وعقباتها (راجع بندكتس السّادس عشر، رسالة عامّة بابويّة، بالرّجاء مخلَّصون، 27. 31). ليس ذلك فقط، بل إنّ الرّبّ يسوع القائم من بين الأموات يسير معنا أيضًا، ويصير رفيق رحلتنا، كما حدث مع تلميذَي عِموَاس (راجع لوقا 24، 13-53). مثلهما، نحن أيضًا يمكننا أن نشاركه ضياعنا وقلقنا وخيبات أملنا، ويمكننا أن نصغي إلى كلمته التي تنيرنا وتُضرم قلبنا، فنعترف بحضوره في كسر الخبز، ونُدرك أنّه معنا، وفي حدود حاضرنا، ندرك ”ذلك البعيد“ عنّا، والذي يقترب منّا، ويُعيد إلينا الشّجاعة والثّقة.

3. ونأتي إلى الوجه الثّالث، وهو المُشاركة. الأماكن التي يتألّم النّاس فيها هي غالبًا أماكن مُشارَكة، فيها يغتنون بتبادل الخبرات. كَم مرّة نتعلَّم أن يزداد رجاؤنا، ونحن بجانب مريضٍ! كَم مرّة نتعلَّم أن نؤمن، ونحن بقُرب المتألّمين! كَم مرّة نكتشف المحبّة، عندما ننحني على المحتاجين! أي إنّنا نُدرك كيف نكون ”ملائكة“ الرّجاء، ورُسل الله، بعضنا لبعض، وكلّنا معًا: المرضى، والأطبّاء، والممرّضين، والعائلات، والأصدقاء، والكهنة، والرّهبان والرّاهبات، هناك حيثما كنَّا: في العائلات، وفي المستوصفات، وفي دور الرّعاية، وفي المستشفيات والعيادات.

ومهمٌّ أن نعرف ونقبل جمال وأهمّيّة لقاءات النّعمة هذه، ونتعلَّم أن نحفظها في نفوسنا كي لا ننساها: نحتفظ في قلبنا الابتسامة الجميلة لعاملٍ في مجال الصّحّة، ونظرة الشُّكر والثّقة لدى مريض، ووجه طبيب أو متطوّع مليء بالتّفهّم والاهتمام، ووجه زوجَين، أو ابن، أو حفيد، أو صديق عزيز، مليء بالانتظار والتّرقّب. كلّها أنوار يجب علينا أن نقدّرها، وهي لا تمنحنا القوّة فقط، حتّى في ظُلمة المحنة، بل تعلِّمنا طعم الحياة الحقيقيّ، في المحبّة والقُرب (راجع لوقا 10، 25-37).

أيّها المرضى الأعزّاء، وأيّها الإخوة والأخوات الأعزّاء الذين تقدِّمون مساعدتكم للمتألّمين، أنتم لكم دورٌ خاصّ في هذا اليوبيل أكثر من أيّ وقت مضى. في الواقع، سَيرُكم معًا هو علامة للجميع، "نشيدٌ للكرامة الإنسانيّة، ونشيدُ رجاء" (مرسوم الدّعوة إلى اليوبيل العادي، الرَّجاءُ لا يُخَيِّبُ، 11)، صوته يتجاوز الغُرف وأَسِرَّة الرّعاية حيث تتواجدون، ويحفّز ويشجّع في المحبّة "انضمام المجتمع كلّه إليه" (المرجع نفسه)، في انسجامٍ يصعبُ تحقيقه أحيانًا، ولهذا هو غاية في العذوبة والقوّة، وقادر على أن ينشر النّور والدّفء حيث تكون الحاجة إليه أشدّ.

الكنيسة كلّها تشكركم على ذلك! وأنا أيضًا أشكركم وأصلّي من أجلكم، وأُوكلكم إلى مريم العذراء، شفاء المرضى، بالكلام الذي وجّهه إليها الإخوة والأخوات الكثيرون في وقت الحاجة:

تحتَ ظلِّ حمايَتِكِ نلتَجِئ يا والدةَ الله القدّيسة.

فلا تَغفَلي عن طلباتِنا عند احتياجِنا إليكِ،

لكن نجّينا دائمًا من جميعِ المَخاطِر،

أيّتها العذراءُ المجيدة المُبارَكة.

أُبارككم، مع عائلاتكم وأحبّائكم، وأطلب منكم من فضلكم، ألّا تنسَوْا أن تصلّوا من أجلي.

روما، بازيليكا القدّيس يوحنّا في اللاتران، يوم 14 كانون الثّاني/يناير 2025.

فرنسيس

[00161-AR.01] [Testo originale: Italiano]