Omelia del Santo Padre
Angelus
Ieri mattina, il Santo Padre Francesco è partito dall’eliporto del Vaticano per recarsi ad Asti, in visita privata, per incontrare i familiari in occasione del 90° compleanno di una sua cugina.
Dopo il pranzo in famiglia a Portocomaro, alle 15:30, Papa Francesco ha fatto visita a una casa di riposo e ospitalità per anziani poco distante. Quindi, si è recato a Tigliole, frazione San Carlo, per far visita a un’altra cugina.
Alle ore 11:00 di questa mattina, Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo, il Papa ha presieduto la Santa Messa nella Cattedrale di Asti, per incontrare la Comunità Diocesana dalla quale erano partiti i genitori per emigrare in Argentina e i giovani provenienti da tutta la regione in occasione della XXXVII Giornata Mondiale della Gioventù celebrata oggi nelle Chiese particolari.
Al termine della Celebrazione Eucaristica, il Santo Padre ha guidato la recita dell’Angelus con i fedeli e i pellegrini.
Dopo la recita dell’Angelus e la benedizione finale, il Santo Padre ha raggiunto l’Episcopio per il pranzo.
Nel pomeriggio si trasferisce in auto allo Stadio Comunale Censin Bosia di Asti, da dove – alle ore 16:00 circa – parte per far rientro in Vaticano.
Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa ha pronuncito dopo la proclamazione del Vangelo e le parole del Santo Padre alla recita dell’Angelus:
Omelia del Santo Padre
Testo in lingua italiana
Traduzione in lingua francese
Traduzione in lingua inglese
Traduzione in lingua tedesca
Traduzione in lingua spagnola
Traduzione in lingua portoghese
Traduzione in lingua polacca
Traduzione in lingua araba
Testo in lingua italiana
Abbiamo visto questo ragazzo, Stefano, che chiede di ricevere il ministero di accolito nel suo percorso verso il sacerdozio. Dobbiamo pregare per lui, perché vada avanti nella sua vocazione e sia fedele; ma anche dobbiamo pregare per questa Chiesa di Asti, perché il Signore invii vocazioni sacerdotali, perché come voi vedete la maggioranza sono vecchi, come me: ci vogliono preti giovani, come alcuni di qua che sono bravissimi. Preghiamo il Signore perché benedica questa terra.
E da queste terre mio padre è partito per emigrare in Argentina; e in queste terre, rese preziose da buoni prodotti del suolo e soprattutto dalla genuina laboriosità della gente, sono venuto a ritrovare il sapore delle radici. Ma oggi è ancora una volta il Vangelo a riportarci alle radici della fede. Esse si trovano nell’arido terreno del Calvario, dove il seme di Gesù, morendo, ha fatto germogliare la speranza: piantato nel cuore della terra ci ha aperto la via al Cielo; con la sua morte ci ha dato la vita eterna; attraverso il legno della croce ci ha portato i frutti della salvezza. Guardiamo dunque a Lui, guardiamo al Crocifisso.
Sulla croce appare una sola frase: «Costui è il re dei Giudei» (Lc 23,38). Ecco il titolo: Re. Però, osservando Gesù, la nostra idea di re viene ribaltata. Proviamo a immaginare visivamente un re: ci verrà in mente un uomo forte seduto su un trono con delle insegne preziose, uno scettro tra le mani e anelli luccicanti tra le dita, mentre proferisce ai sudditi parole solenni. Questa, grosso modo, è l’immagine che abbiamo in testa. Ma guardando Gesù, vediamo che è tutto il contrario. Egli non è seduto su un comodo trono, ma appeso ad un patibolo; il Dio che «rovescia i potenti dai troni» (Lc 1,52) opera come servo messo in croce dai potenti; ornato solo di chiodi e di spine, spogliato di tutto ma ricco di amore, dal trono della croce non ammaestra più le folle con la parola, non alza più la mano per insegnare. Fa di più: non punta il dito contro nessuno, ma apre le braccia a tutti. Così si manifesta il nostro Re: a braccia aperte, a brasa aduerte.
Solo entrando nel suo abbraccio noi capiamo: capiamo che Dio si è spinto fino a lì, fino al paradosso della croce, proprio per abbracciare tutto di noi, anche quanto di più distante c’era da Lui: la nostra morte – Lui ha abbracciato la nostra morte -, il nostro dolore, le nostre povertà, le nostre fragilità e le nostre miserie. E Lui ha abbracciato tutto questo. Si è fatto servo perché ciascuno di noi si senta figlio: ha pagato con la sua servitù la nostra figliolanza; si è lasciato insultare e deridere, perché in ogni umiliazione nessuno di noi sia più solo; si è lasciato spogliare, perché nessuno si senta spogliato della propria dignità; è salito sulla croce, perché in ogni crocifisso della storia vi sia la presenza di Dio. Ecco il nostro Re, Re di ognuno di noi, Re dell’universo perché ha valicato i confini più remoti dell’umano, è entrato nei buchi neri dell’odio, nei buchi neri dell’abbandono per illuminare ogni vita e abbracciare ogni realtà. Fratelli, sorelle, questo è il Re che oggi festeggiamo! Non è facile capirlo, ma è il nostro Re. E la domanda da farci è: questo Re dell’universo è il Re della mia esistenza? Io credo a Lui? Come posso celebrarlo Signore di ogni cosa se non diventa anche il Signore della mia vita? E tu che oggi incominci questa strada verso il sacerdozio non dimenticarti che questo è il tuo modello: non aggrapparti agli onori, no. Questo è il tuo modello; se tu non pensi di essere sacerdote come questo Re, meglio fermati lì.
Fissiamo però ancora gli occhi in Gesù Crocifisso. Vedi, Lui non osserva la tua vita per un momento e basta, non ti dedica uno sguardo fugace come spesso facciamo noi con Lui, ma Lui rimane lì, a brasa aduerte, a dirti nel silenzio che niente di te gli è estraneo, che vuole abbracciarti, rialzarti, salvarti così come sei, con la tua storia, le tue miserie, i tuoi peccati. Ma Signore, è vero? Con le mie miserie tu mi ami così? Ognuno in questo momento pensi alla propria povertà: “Ma, tu mi ami con queste povertà spirituali che ho, con queste limitazioni?”. E Lui sorride e ci fa capire che ci ama e ha dato la vita per noi. Pensiamo un po' ai nostri limiti, anche alle cose buone: Lui ci ama come noi siamo, come siamo adesso. Lui ci dà la possibilità di regnare nella vita, se ti arrendi al suo amore mite che si propone ma non s’impone - l’amore di Dio non si impone mai - al suo amore che sempre ti perdona. Noi tante volte ci stanchiamo di perdonare la gente e facciamo la croce, facciamo la sepoltura sociale. Lui non si stanca mai di perdonare, mai, mai: sempre ti rimette in piedi, sempre ti restituisce la tua dignità regale. Sì, la salvezza da dove viene? Dal lasciarci amare da Lui, perché solo così veniamo liberati dalla schiavitù del nostro io, dalla paura di essere soli, dal pensare di non farcela. Fratelli, sorelle, mettiamoci spesso davanti al Crocifisso, lasciamoci amare, perché quelle brasa aduerte dischiudono anche a noi il paradiso, come al “buon ladrone”. Sentiamo rivolta a noi quella frase, l’unica che Gesù dice oggi dalla croce: «Con me sarai nel paradiso» (Lc 23,43). Questo vuole e vuol dirci Dio, a tutti noi, ogni volta che ci lasciamo guardare da Lui. E allora capiamo di non avere un dio ignoto che sta lassù nei cieli, potente e distante, no: un Dio vicino, la vicinanza è lo stile di Dio: la vicinanza, con tenerezza e misericordia. Questo è lo stile di Dio. non ha un altro stile. Vicino, misericordioso e tenero. Tenero e compassionevole, le cui braccia aperte consolano e accarezzano. Ecco il nostro Re!
Fratelli, sorelle, dopo averlo guardato, che cosa possiamo fare? Il Vangelo oggi ci pone davanti a due strade. Di fronte a Gesù c’è chi fa da spettatore e chi si coinvolge. Gli spettatori sono molti, la maggioranza. Guardano, è uno spettacolo veder morire uno in croce. Infatti – dice il testo – «il popolo stava a vedere» (v. 35). Non era gente cattiva, tanti erano credenti, ma alla vista del Crocifisso restano spettatori: non fanno un passo in avanti verso Gesù, ma lo guardano da lontano, curiosi e indifferenti, senza interessarsi davvero, senza chiedersi che cosa poter fare. Avranno commentato, forse: “Ma guarda questo…” avranno espresso giudizi e pareri: “Ma è innocente, guarda questo così…” qualcuno si sarà lamentato, ma tutti sono rimasti a guardare con le mani in mano, a braccia conserte. Ma anche vicino alla croce ci sono degli spettatori: i capi del popolo, che vogliono assistere allo spettacolo cruento della fine ingloriosa di Cristo; i soldati, i quali sperano che l’esecuzione finisca presto, per andarsene a casa; uno dei malfattori, che scarica su Gesù la sua rabbia. Deridono, insultano, si sfogano.
E tutti questi spettatori condividono un ritornello, che il testo riporta tre volte: “Se sei re, salva te stesso!” (cfr vv. 35.37.39) Lo insultano così, lo sfidano! Salva te stesso, esattamente il contrario di quello che sta facendo Gesù, che non pensa a sé, ma a salvare loro, che lo insultano. Però il salva te stesso contagia: dai capi ai soldati alla gente, l’onda del male raggiunge quasi tutti. Ma pensiamo che il male è contagioso, ci contagia: come quando noi prendiamo una malattia infettiva, ci contagia subito e quella gente parla di Gesù ma non si sintonizza neanche un momento con Gesù. Prende la distanza e parla. È il contagio letale dell’indifferenza. Una brutta malattia l’indifferenza. “Questo non tocca me, non tocca me”. Indifferenza verso Gesù e indifferenza anche verso i malati, verso i poveri, verso i miseri della terra. A me piace domandare alla gente, e domando ad ognuno di voi; so che ognuno di voi dà l’elemosina ai poveri, e io vi domando: “Quando tu dai l’elemosina ai poveri, li guardi negli occhi? Sei capace di guardare agli occhi di quel povero o quella povera che ti chiede l’elemosina? Quando tu dai l’elemosina ai poveri, tu butti la moneta o gli tocchi la mano? Sei capace di toccare una miseria umana?”. Ognuno poi si dia la risposta oggi. Quella gente era nell’indifferenza. Quella gente parla di Gesù ma non sintonizza con Gesù. E questo è il contagio letale dell’indifferenza: che crea delle distanze con le miserie. L’onda del male si propaga sempre così: comincia dal prendere le distanze, dal guardare senza far nulla, dal non curarsi, poi si pensa solo a ciò che interessa e ci abitua a girarsi dall’altra parte. È questo è un rischio anche per la nostra fede, che appassisce se resta una teoria non diventa pratica, se non c’è coinvolgimento, se non ci si spende in prima persona, se non ci si mette in gioco. Allora si diventa cristiani all’acqua di rose – come io ho sentito dire a casa mia - che dicono di credere in Dio e di volere la pace, ma non pregano e non si prendono cura del prossimo e anche, a loro non interessa Dio, né la pace. Questi cristiani soltanto di parola, superficiali!
Questa era l’onda cattiva, che era lì al Calvario. Ma c’è anche l’onda benefica del bene. Tra tanti spettatori, uno si coinvolge, cioè il “buon ladrone”. Gli altri ridono del Signore, Lui gli parla e lo chiama per nome: “Gesù”; tanti gli gettano addosso la loro rabbia, lui confessa a Cristo i suoi sbagli; molti dicono “salva te stesso”, Lui prega: «Gesù, ricordati di me» (v. 42). Chiede soltanto questo al Signore. Bella preghiera questa. Se ognuno di noi la recita tutti i giorni è una bella strada: la strada della santità: “Gesù ricordati di me.” Così un malfattore diventa il primo santo: si fa vicino a Gesù per un istante e il Signore lo tiene con sé per sempre. Ora, il Vangelo parla del buon ladrone per noi, per invitarci a vincere il male smettendo di rimanere spettatori. Per favore, questo è peggio di fare il male, l’indifferenza. Da dove cominciare? Dalla confidenza, dal chiamare Dio per nome, proprio come ha fatto il buon ladrone, che alla fine della vita ritrova la fiducia coraggiosa dei bambini, che si fidano, chiedono, insistono. E nella confidenza ammette i suoi sbagli, piange ma non su sé stesso, bensì davanti al Signore. E noi, abbiamo questa fiducia, portiamo a Gesù quello che abbiamo dentro o ci mascheriamo davanti a Dio, magari con un po’ di sacralità e di incenso? Per favore, non fare la spiritualità del trucco: quella è noiosa. Davanti a Dio: acqua e sapone, soltanto, senza trucco, ma l’anima così com’è. E da lì viene la salvezza. Chi pratica la confidenza, come questo buon ladrone, impara l’intercessione, impara a portare a Dio quello che vede, le sofferenze del mondo, le persone che incontra; a dirgli, come il buon ladrone: “Ricordati, Signore!”. Non siamo al mondo solo per salvare noi stessi, no: ma per portare i fratelli e le sorelle nell’abbraccio del Re. Intercedere, ricordare al Signore, apre le porte del paradiso. Ma noi, quando preghiamo, intercediamo? “Ricordati Signore, ricordati di me, della mia famiglia, ricordati di questo problema, ricordati, ricordati….” Attirare l’attenzione del Signore.
Fratelli, sorelle, oggi il nostro Re dalla croce ci guarda a brasa aduerte. Sta a noi scegliere se essere spettatori o coinvolti. Sono spettatore o voglio essere coinvolto? Vediamo le crisi di oggi, il calo della fede, la mancanza di partecipazione... Che cosa facciamo? Ci limitiamo a fare teorie, ci limitiamo a criticare, o ci rimbocchiamo le maniche, prendiamo in mano la vita, passiamo dal “se” delle scuse al “sì” della preghiera e del servizio? Tutti pensiamo di sapere che cosa non va nella società, tutti; parliamo tutti i giorni di che cosa non va nel mondo e anche nella Chiesa: tante cose non vanno nella Chiesa. Ma poi facciamo qualcosa? Ci sporchiamo le mani come il nostro Dio inchiodato al legno o stiamo con le mani in tasca a guardare? Oggi, mentre Gesù, spogliato sulla croce, toglie ogni velo su Dio e distrugge ogni falsa immagine della sua regalità, guardiamo a Lui, per trovare il coraggio di guardare a noi stessi, di percorrere le vie della confidenza e dell’intercessione, di farci servi per regnare con Lui. “Ricordati Signore, ricordati”: Facciamo questa preghiera più spesso. Grazie.
[01806-IT.02] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua francese
Nous avons vu ce jeune homme, Stefano, qui demande à recevoir le ministère d’acolyte dans son parcours vers le sacerdoce. Nous devons prier pour lui, pour qu’il poursuive sa vocation et soit fidèle ; mais nous devons aussi prier pour cette Église d’Asti, pour que le Seigneur envoie des vocations sacerdotales, car comme vous le voyez, la majorité est âgée, comme moi : nous avons besoin de jeunes prêtres, comme certains ici qui sont très bons. Prions le Seigneur de bénir cette terre.
Et c’est de ces terres que mon père est parti pour émigrer en Argentine ; et sur ces terres, rendues précieuses par les bons produits du sol et surtout par l’authentique travail acharné des gens, je suis venu pour retrouver le goût des racines. Mais aujourd’hui, c’est encore l’Évangile qui nous ramène aux racines de la foi. Celles-ci se trouvent dans le sol aride du Calvaire, où la semence de Jésus, en mourant, a fait germer l’espérance: planté au cœur de la terre il nous a ouvert la voie au Ciel. Par sa mort, il nous a donné la vie éternelle. Par le bois de la croix, il nous a apporté les fruits du salut. Regardons donc vers Lui, regardons vers le Crucifié.
Une seule phrase figure sur la croix «Celui-ci est le roi des Juifs» (Lc 23, 38). Voici le titre : Roi. Cependant, en regardant Jésus, notre idée de roi est bouleversée. Essayons d'imaginer visuellement un roi : nous penserons à un homme fort assis sur un trône avec des insignes précieux, un sceptre dans les mains et des anneaux scintillants aux doigts, tandis qu'il adresse des paroles solennelles à ses sujets. C'est, en gros, l'image que nous avons en tête. Mais en regardant Jésus, nous voyons que c'est tout le contraire. Il n'est pas assis sur un trône confortable, mais suspendu à un gibet ; le Dieu qui «renverse les puissants de leurs trônes» (Lc 1, 52) agit comme un serviteur mis en croix par les puissants ; orné seulement de clous et d'épines, dépouillé de tout mais riche d'amour, du trône de la croix il n'enseigne plus les foules avec des mots, il ne lève plus la main pour enseigner. Il fait davantage : il ne montre personne du doigt, mais ouvre ses bras à tous. C'est ainsi que notre Roi se manifeste : les bras ouverts, a brasa aduerte.
Ce n'est qu'en entrant dans son étreinte que nous comprenons : nous comprenons que Dieu est allé si loin, jusqu'au paradoxe de la croix, précisément pour embrasser tout de nous, y compris ce qu’il y avait de plus distant de Lui : notre mort, - Il a embrassé notre mort -, notre souffrance, notre pauvreté, nos fragilités et nos misères. Et il a embrassé tout cela. Il s'est fait serviteur pour que chacun de nous se sente fils: il a payé notre filiation par sa servitude ; il s'est laissé insulter et ridiculiser pour qu’en toute humiliation aucun de nous ne soit plus seul ; il s'est laissé dépouiller pour que personne ne se sente dépouillé de sa dignité ; il est monté sur la croix pour qu’en chaque crucifié de l'histoire il y ait la présence de Dieu. Voici notre Roi, Roi de chacun d’entre nous, Roi de l'univers parce qu'il a franchi les frontières les plus lointaines de l'humain, il est entré dans les trous noirs de la haine, dans les trous noirs de l'abandon pour éclairer toute vie et embrasser toute réalité. Frères et sœurs, voilà le Roi que nous célébrons aujourd’hui ! Il n'est pas facile de le comprendre, mais il est notre Roi. Et la question à nous poser est la suivante: ce Roi de l'univers est-il le Roi de mon existence ? Est-ce que je crois en Lui? Comment puis-je le célébrer comme Seigneur de toute chose s'il ne devient pas aussi le Seigneur de ma vie ? Et toi qui commences aujourd'hui ce chemin vers le sacerdoce, n'oublies pas que c'est ton modèle : ne t’accroches pas aux honneurs, non. C'est ton modèle ; si tu ne penses pas être un prêtre comme ce Roi, mieux vaut t’arrêter là.
Fixons cependant à nouveau nos yeux sur Jésus Crucifié. Vois, Il n'observe pas ta vie un instant et c'est tout, Il ne t’accorde pas un regard fugitif comme nous le faisons souvent avec Lui, mais Lui, Il reste là, a brasa aduerte, pour te dire en silence que rien de toi ne lui est étranger, qu'Il veut t’étreindre, te relever, te sauver tel que tu es, avec ton histoire, tes misères, tes péchés. Mais Seigneur, est-ce vrai ? M'aimes-tu comme cela, avec mes misères ? Que chacun, en ce moment, pense à sa propre pauvreté : «Mais, est-ce que tu m'aimes avec ces pauvretés spirituelles que j'ai, avec ces limitations ?» Et Il sourit et nous fait comprendre qu'Il nous aime et a donné sa vie pour nous. Réfléchissons un peu à nos limites, aux bonnes choses aussi : Il nous aime tels que nous sommes, tels que nous sommes maintenant. Il nous donne la possibilité de régner sur la vie, si tu t'abandonnes à son doux amour qui se propose mais ne s'impose pas – l’amour de Dieu ne s’impose jamais – à son amour qui te pardonne toujours. Nous nous fatiguons si souvent à pardonner aux gens et nous faisons la croix, nous faisons l'enterrement social. Lui, Il ne se fatigue jamais de pardonner, jamais: Il te remet toujours sur pied, Il te rend toujours ta dignité royale. Oui, le salut d’où vient-il? Du fait de se laisser aimer par Lui, parce que c'est seulement ainsi que nous sommes libérés de l'esclavage de notre moi, de la peur d'être seul, de la pensée de ne pas y arriver. Frères et sœurs, mettons-nous souvent devant le Crucifix, laissons-nous aimer, car ces brasa aduerte nous ouvrent aussi le paradis, comme au "bon larron". Ecoutons cette phrase qui nous est adressée, la seule que Jésus prononce aujourd'hui depuis la croix : «Avec moi tu seras au paradis» (Lc 23, 43). C'est ce qu’Il veut et que Dieu veut nous dire, à nous tous, chaque fois que nous Le laissons nous regarder. Et nous comprenons alors que nous n'avons pas un Dieu inconnu là-haut dans le ciel, puissant et distant, non: un Dieu proche, la proximité est le style de Dieu : proximité, avec tendresse et miséricorde. C'est le style de Dieu. Il n'a pas d'autre style. Proche, miséricordieux et tendre. Tendre et compatissant, dont les bras ouverts réconfortent et caressent. Voilà notre Roi !
Frères et sœurs, après l'avoir regardé, que pouvons-nous faire ? L'Évangile d'aujourd'hui nous met devant deux chemins. Devant Jésus, il y a ceux qui sont spectateurs et ceux qui s'impliquent. Les spectateurs sont nombreux, la majorité. Ils regardent, c'est un spectacle de voir quelqu'un mourir sur la croix. En effet - dit le texte – «le peuple regardait» (v.35). Elles n'étaient pas de mauvaises personnes, beaucoup étaient croyants, mais à la vue du Crucifié, ils restent spectateurs : ils ne font pas un pas en avant vers Jésus mais le regardent de loin, curieux et indifférents, sans vraiment s'intéresser, sans se demander ce qu'ils pourraient faire. Ils auraient peut-être fait des commentaires, peut-être: «Mais regardez ça...», ils auraient peut-être exprimé des jugements et des opinions: «Mais il est innocent, regardez ça donc...», l’un ou l’autre se lamente, mais tous restent là à regarder sans rien faire, les bras croisés. Mais même près de la croix, il y a des spectateurs : les chefs du peuple qui veulent assister au spectacle cruel de la fin peu glorieuse du Christ ; les soldats, qui espèrent que l'exécution s’achève rapidement, pour rentrer à la maison ; un des malfaiteurs, qui décharge sa colère sur Jésus. Ils se moquent, ils insultent, ils se défoulent.
Et tous ces spectateurs partagent un refrain, que le texte répète trois fois: «Si tu es roi, sauve-toi toi-même !» (cf. vv. 35.37.39). Ils l'insultent comme ainsi, ils le défient ! Sauve-toi toi-même, exactement le contraire de ce que fait Jésus, qui ne pense pas à lui-même, mais à les sauver, eux qui l’insultent. Cependant, le Sauve-toi toi-même se répand : des chefs, aux soldats, au peuple, la vague du mal atteint presque tout le monde. Mais nous pensons que le mal est contagieux, il nous contamine : comme lorsque nous attrapons une maladie infectieuse, elle nous contamine tout de suite. Et ces gens parlent de Jésus mais ils ne sont pas un instant en accord avec Jésus. Ils prennent de la distance et ils parlent. C'est la contagion mortelle de l'indifférence. Une vilaine maladie, l'indifférence. «Cela ne me concerne pas, cela ne me concerne pas». Indifférence à l'égard de Jésus et indifférence aussi à l'égard des malades, des pauvres, des malheureux de la terre. J'aime demander aux gens, et je demande à chacun d'entre vous ; je sais que chacun d'entre vous fait l'aumône aux pauvres, et je vous demande : «Quand vous faites l'aumône aux pauvres, les regardez-vous dans les yeux ? Êtes-vous capable de regarder dans les yeux de ce pauvre homme ou de cette pauvre femme qui vous demande l'aumône ? Lorsque vous faites l'aumône aux pauvres, jetez-vous la pièce ou leur touchez-vous main ? Êtes-vous capable de toucher une misère humaine ?» Que chacun se donne alors la réponse aujourd'hui. Ces gens étaient dans l'indifférence. Ces personnes parlent de Jésus mais ne se mettent pas en accord avec Jésus. Et c'est là la contagion mortelle de l'indifférence : qui crée des distances avec la misère. La vague du mal se propage toujours de cette manière : elle commence par la prise de distance, par le fait de regarder sans rien faire, par le désintéressement, puis on ne pense plus qu'à ce qui nous intéresse et on s'habitue à se détourner. Et ça c’est aussi un risque pour notre foi qui s'étiole si elle reste une théorie, ne devient pas pratique, s'il n'y a pas d'implication, si l’on ne s’implique pas personnellement, si l’on ne se met pas en jeu. On devient alors des chrétiens à l'eau de rose - comme j'ai entendu dire chez moi - qui disent croire en Dieu et vouloir la paix, mais ne prient pas et ne se soucient pas du prochain et aussi, ils ne se soucient pas de Dieu, ni de la paix. Ces chrétiens seulement de paroles, superficiels.
C'était la vague du mal qu’il y avait là, au Calvaire. Mais il y a aussi la vague bénéfique du bien. Parmi tant de spectateurs, un seul s'implique, c’est-à-dire le "bon larron". Les autres se moquent du Seigneur, lui il Lui parle et l’appelle par son nom : "Jésus" ; beaucoup l’accablent de leur colère, lui il confesse au Christ ses erreurs; beaucoup disent "sauve-toi toi-même", lui il prie : «Jésus, souviens-toi de moi» (v. 42). Il ne demande que cela au Seigneur. Belle prière. Si chacun de nous la récite chaque jour, c'est un beau chemin: le chemin de la sainteté : «Jésus, souviens-toi de moi». C'est ainsi qu'un malfaiteur devient le premier saint : il se fait proche de Jésus pour un instant et le Seigneur le garde avec lui pour toujours. À présent, l'Évangile parle du bon larron pour nous, pour nous inviter à vaincre le mal en cessant d'être spectateurs. S'il vous plaît, l'indifférence, c’est pire que de faire le mal. Par où commencer ? Par la confiance, par le fait d'appeler Dieu par son nom, comme l'a fait le bon larron qui, à la fin de sa vie, retrouve la confiance courageuse des enfants qui font confiance, demandent, insistent. Et dans la confiance, il admet ses erreurs, il pleure, mais pas sur lui-même, mais plutôt sur le Seigneur. Et nous, avons-nous cette confiance, apportons-nous à Jésus ce que nous avons en nous, ou bien nous déguisons-nous devant Dieu, peut-être avec un peu de sacré et d'encens ? S'il vous plaît, ne faites pas de maquillage spirituel : c'est ennuyeux. Devant Dieu : de l'eau et du savon, seulement, pas de maquillage, mais l'âme telle qu'elle est. Et de là vient le salut. Celui qui pratique la confiance, comme ce bon larron, apprend l'intercession, il apprend à apporter à Dieu ce qu'il voit, les souffrances du monde, les personnes qu'il rencontre ; à lui dire, comme le bon larron : " Souviens-toi, Seigneur ! ". Nous ne sommes pas dans le monde seulement pour nous sauver nous-mêmes, mais pour amener nos frères et sœurs dans l'étreinte du Roi. Intercéder, se rappeler au Seigneur, ouvre les portes du ciel. Mais, nous, quand est-ce que nous prions, quand est-ce que nous intercédons? «Souviens-toi Seigneur, souviens-toi de moi, de ma famille, souviens-toi de ce problème, souviens-toi, souviens-toi....". Attirer l'attention du Seigneur.
Frères et sœurs, aujourd'hui, de la croix notre Roi nous regarde les brasa aduerte. C'est à nous de choisir d'être spectateurs ou impliqués. Suis-je spectateur ou je veux être impliqué? Nous voyons les crises d'aujourd'hui, le déclin de la foi, le manque de participation... Que faisons-nous ? Nous contentons-nous de théoriser, nous contentons-nous de critiquer, ou retroussons-nous les manches, prenons-nous la vie en main, passons-nous du "si" des excuses aux "oui" de la prière et du service ? Nous pensons tous savoir ce qui ne va pas dans la société, tous; Nous parlons tous les jours de ce qui ne va pas dans le monde, et même dans l'Église: beaucoup de choses ne vont pas dans l'Église. Mais ensuite, faisons-nous quelque chose ? Est-ce que nous nous salissons les mains comme notre Dieu cloué sur le bois, ou bien sommes-nous les mains dans les poches à regarder ? Aujourd'hui, alors que Jésus, dépouillé sur la croix, enlève tout voile sur Dieu et détruit toute fausse image de sa royauté, regardons-Le, pour trouver le courage de nous regarder, de marcher sur les chemins de la confiance et de l'intercession, de nous faire serviteurs pour régner avec lui. «Souviens-toi Seigneur, souviens-toi: Faisons cette prière plus souvent. Merci.
[01806-FR.02] [Texte original: Italien]
Traduzione in lingua inglese
We have seen this young man, Stefano, who has asked to receive the ministry of acolyte as part of his preparation for the priesthood. We should pray for him, so that he will persevere in his vocation and be faithful; but we should also pray for this Church of Asti, that the Lord will send priestly vocations, since, as you see, the majority are elderly, like myself: there is a need for young priests, like some of those here who are very fine. Let us ask the Lord to bless this land.
From these lands, my father set out as an immigrant to Argentina, and to these lands, rendered precious by the rich fruits of the soil and above all by the native industriousness of their people, I have now returned to rediscover and savour my roots. Today too, the Gospel brings us back to the roots of our faith. Those roots are planted in the barren soil of Calvary, where Jesus, like the seed that falls to the earth and dies, made hope spring up. Planted in the heart of the earth, he opened the way to heaven; by his death, he gave us eternal life; from the wood of the cross, he brought us the fruits of salvation. Let us then gaze upon him, the Crucified One.
On the cross, we see a single phrase: “This is the King of the Jews” (Lk 23:38). That is Jesus’ title: he is a king. Yet as we gaze upon him, our idea of a king is turned upside down. When we try to visualize a king, what comes to mind is a powerful man seated on a throne with magnificent insignia, a sceptre in his hand and precious rings on his fingers, speaking in solemn tones to his subjects. That, more or less, is what we imagine. Looking at Jesus, though, we see the complete opposite. He is not comfortably enthroned, but hanging on a gibbet. The God who “casts down the mighty from their thrones” (Lk 1:52) appears as a slave executed by those in power. Appareled only with nails and thorns, stripped of everything yet rich in love, from his throne on the cross he no longer teaches the crowds by his words; he no longer lifts his hands as a teacher. He does more: pointing a finger at no one, he opens his arms to all. That is how he shows himself to be our king: with open arms, a brasa aduerte.
Only by entering into his embrace do we understand: we come to realize that God went to this extreme, even to the paradox of the cross, in order to embrace every one of us, no matter how far distant we may be from him: he embraces our death, our pain, our poverty, our weakness. He embraced all of it. He became a slave so that each of us could become a son. By his becoming a slave, he purchased our sonship. He let himself be insulted and derided, so that whenever we are brought low, we will never feel alone. He let himself be stripped of his garments, so that no one would ever feel stripped of his or her rightful dignity. He ascended the cross, so that God would be present in every crucified man or woman throughout history. This is our king, the king of the universe, for he journeyed to the furthest confines of our human experience, entered into the black hole of hatred, the black hole of abandonment, in order to bring light to every life and to embrace all reality. My brothers and sisters, this is the king whom today we acclaim! His is not a kingship easy to understand. And the question we ought to be asking is this: Is this king of the universe also the king of my life? Do I believe in him. How can I celebrate him as the Lord of all creation, unless he also becomes the Lord of my life? And you (turning to Stefano), who are setting out on the path to priesthood, don’t forget that this is your model: don’t cling to honours. Unless you are planning to be a priest like this king, it is better to stop now.
So let us look once more upon the crucified Jesus. Let us look at him. He does not look at our life only for a brief moment, or give us the same kind of fleeting glance that we so often give him. No, he stays there, a brasa aduerte, to say to you in silence that nothing about you is foreign to him, that he wants to embrace you, to lift you up and to save you just as you are, with your past history, your failings and your sins. “But Lord, is this true, that you love me with all my failings?” Right now, let us think about our own personal poverty: “Lord, do you love me with this spiritual poverty and all these limitations?” And the Lord smiles and makes us understand that he loves us and gave his life for us.
Let us think of our own limitations, but also of the good things. He loves us as we are, as we are right now. He gives us a chance to reign in this life, if only you surrender to his meek love that proposes but never imposes, a love that always forgives you. So often we tire of forgiving; we make the sign of the cross and turn our backs on that person. Jesus never tires of forgiving, never. He always sets you on your feet; he always restores your royal dignity. Where does salvation come from? It comes from letting ourselves be loved by him, for only in this way are we freed from slavery to ourselves, from the fear of being alone, from thinking that we cannot succeed. My brothers and sisters, let us often stand before the crucified Lord and allow ourselves to be loved, because those brasa aduerte also open heaven to us, as they did to the good thief. Let us hear, addressed to us, the only words that Jesus today speaks from the cross: “Today you will be with me in paradise” (Lk 23:43). That is what God wants to tell us whenever we let him gaze upon us. Then we realize that ours is not an “unknown God”, up in the heavens, powerful and distant, but rather a God who is close: closeness is God’s “style”, closeness with tenderness and mercy. Tenderness and compassion; his open arms console and caress us. That is our king!
Brothers and sisters, once we have gazed upon him, what can we do? Today’s Gospel sets before us two paths: faced with Jesus, there are those who become onlookers and others who get involved. The onlookers are many, the majority. Seeing someone die on a cross was a spectacle. The text tells us this: “The people stood by, watching” (v. 35). They were not bad people: many of them were believers, but at the sight of the crucified Lord they remain onlookers: they do not take a step forward towards Jesus, but look upon him from afar, curious yet indifferent, without really being interested, without asking themselves what they could do. They would have made their comments, expressed their judgements and opinions; some of them would have grieved, others considered him innocent, but all of them stood by and looked on, hand-in-hand, arms linked. Yet closer to the cross there were other onlookers: the leaders of the people, there to watch the grim spectacle of the ignominious end of the Christ; the soldiers, who hoped that the execution would be over quickly so they could go home; and one of the criminals, who releases all his rage. They mock, they jeer, they vent their anger.
All these onlookers share a refrain that the text repeats three times: “If you are a king, then save yourself!” (cf. vv. 35, 37, 39). Save yourself! That is how they insult him; they challenge him! It is precisely the opposite of what Jesus is doing: he thinks not of saving himself, but of saving them. Yet those insulting words – “save yourself!” – are contagious; they spread from the leaders to the soldiers and then to the people; the ripple of evil reaches almost everyone there. Think about it: evil is contagious. Like an infectious disease, we catch it immediately. All those people talk about Jesus, but not for a second do they empathize with him. They stand apart and talk.
Such is the lethal infection of indifference. “This has nothing to do with me.” Indifference to Jesus, indifference to the sick, the poor, the destitute of the land. I like to ask people, and I would now ask each of you: when you give money to the poor, do you look them in the eye. Do you do that? Do you simply throw them a coin, or do you touch their outstretched hand? Are you capable of touching human pain? Today let each of us answer that question.
Those people were indifferent. They talk about Jesus, but they do not empathize with him. This is the lethal infection of indifference; it stands aloof from the misery of others. The wave of evil always swells like this: it starts with standing apart, watching without doing anything, being unconcerned; then we think only of what has to do with us and we grow used to turning aside. It is also a danger for our faith, which withers if it remains merely a theory and is not put into practice, if we remain detached, aloof and uninvolved. Then we become “rosewater Christians”, as we used to say at home. They say they believe in God and want peace, but neither pray nor care for their neighbor. Christians in name, shallow!
That was the evil way, there at Calvary. Yet there is another path: that of goodness. Amid all those onlookers, one person does get involved: the good thief. The others mock the Lord, but he turns to him and calls him by name: “Jesus”. That is all he asks of the Lord. A fine prayer that each of us can recite daily as a path to holiness. “Jesus, remember me!” Many jeer at Jesus, but he confesses his faults to Jesus. Many shout: “Save yourself!”, but he begs: “Jesus, remember me” (v. 42). In this way, a criminal becomes the first saint: he draws near to Jesus for an instant and the Lord keeps him at his side forever. The Gospel speaks of the good thief for our benefit: to invite us to overcome evil by refusing to remain as onlookers. Please, indifference is worse than evildoing. So where do we begin? With trust, with calling upon God by name, exactly as the good thief did. At the end of his life, he discovered anew the fearless confidence of children, who trust, and ask, and keep asking. In confidence and trust, he admits his faults; he weeps not for himself, but in the presence of the Lord. What about us? Do we have that same trust? Do we bring to Jesus what we hold in the depths of our hearts, or do we mask ourselves before God, perhaps even with a bit of ritual and incense? Please, this kind of “cosmetic” spirituality is tedious. Before God, our souls should be simple and unadorned, just the way they are; salvation comes from that. Those who practise confident trust, like the good thief, learn to intercede; they learn to bring to God what they see all around them, the sufferings of the world, the people they meet, and say to him, like the good thief: “Remember, Lord!” We are not in this world just to save ourselves, but to bring our brothers and sisters into the embrace of our king. Intercession, asking the Lord to remember, opens the gates of heaven. When we pray, do we intercede? “Lord, remember me, remember my family, remember this problem…” Attract the Lord’s attention.
Brothers, sisters, today, from the cross, our king looks upon us a brasa aduerte. It is up to us to choose whether we will be onlookers or involved. What will I be? We see the crises of the present time, the decline of faith, the lack of participation… What are we to do? Are we content to theorize and criticize, or do we roll up our sleeves, take life in hand, and pass from taking refuge in excuses to the commitment of prayer and service? All of us think we know what is wrong with society, with the world, and with the Church. We talk about it all day long, but then what do we do? Do we soil our hands like our God, nailed to the cross? Or do we stand with hands in our pockets, as mere onlookers? Today, as Jesus, naked on the cross, unveils God and destroys every false image of his kingship, let us look to him and thus find the courage to look at ourselves, to follow the path of confident trust and intercession, and to make servants of ourselves, in order to reign with him. “Remember, Lord! Remember!” Let us make this more often our prayer. Thank you.
[01806-EN.02] [Original text: Italian]
Traduzione in lingua tedesca
Wir haben diesen jungen Mann namens Stephano gesehen, der darum bittet, auf seinem Weg zum Priestertum die Beauftragung zum Dienstamt des Akolythen zu erhalten. Wir müssen für ihn beten, dass er auf dem Weg seiner Berufung weiter voranschreitet und treu ist; aber wir müssen auch für die Kirche in Asti beten, dass der Herr Priesterberufungen schenkt, denn, wie ihr seht, die Mehrheit hier ist schon etwas älter, so wie ich. Wir brauchen junge Priester, wie einige hier, die sehr gut sind. Bitten wir den Herrn, er möge diese Gegend hier segnen.
Und aus dieser Gegend ist mein Vater aufgebrochen, um nach Argentinien auszuwandern, und in diese Gegend, die durch gute Bodenprodukte und vor allem durch den echten Fleiß der Leute wertvoll ist, bin ich gekommen, um den Geschmack dieser meiner Wurzeln wiederzufinden. Aber heute ist es wieder einmal das Evangelium, das uns zu den Wurzeln des Glaubens zurückführt. Sie sind im spröden Boden von Golgota zu finden, wo das Samenkorn Jesu in seinem Sterben die Hoffnung zum Keimen brachte: eingepflanzt im Herzen der Erde, hat er uns den Weg zum Himmel geöffnet; durch seinen Tod hat er uns das ewige Leben geschenkt; durch das Holz des Kreuzes hat er uns die Früchte des Heils gebracht. Schauen wir also auf ihn, schauen wir auf den Gekreuzigten.
Am Kreuz steht nur ein einziger Satz: »Das ist der König der Juden« (Lk 23,38). Das ist also der Titel: König. Wenn wir jedoch auf Jesus schauen, wird unsere Vorstellung von einem König auf den Kopf gestellt. Versuchen wir, uns einen König bildlich vorzustellen: Wir denken dann wohl an einen starken Mann, der auf einem Thron sitzt, mit kostbaren Insignien, einem Zepter in der Hand und glitzernden Ringen an den Fingern, während er feierliche Worte an seine Untertanen richtet. Das ist in etwa das Bild, das wir im Kopf haben. Aber wenn wir Jesus anschauen, sehen wir, dass er das pure Gegenteil davon ist. Er sitzt nicht auf einem bequemen Thron, sondern hängt an einem Todeswerkzeug; der Gott, der „die Mächtigen vom Thron stürzt“ (vgl. Lk 1,52), wirkt als ein Knecht, der von den Mächtigen ans Kreuz gehängt wurde; nur mit Nägeln und Dornen geschmückt, von allem entblößt, aber reich an Liebe, lehrt er vom Thron des Kreuzes aus die Menge ohne Worte und ohne die Hand zu heben. Er tut mehr: Er zeigt auf niemanden mit dem Finger, sondern breitet seine Arme für alle aus. So zeigt sich unser König: mit offenen Armen, a brasa aduerte.
Nur wenn wir uns in seine Umarmung hineinbegeben, begreifen wir, dass Gott so weit gegangen ist, bis zum Paradox des Kreuzes, um wirklich alles von uns zu umarmen, auch das, was ihm am fernsten war: unseren Tod; er hat unseren Tod umarmt, unseren Schmerz, unsere Armut, unsere Zerbrechlichkeit und unser Elend. Und er hat all das umarmt. Er hat sich zum Knecht gemacht, damit sich jeder von uns als Sohn oder Tochter fühlen kann; unsere Kindschaft hat er mit seiner Knechtschaft bezahlt; er hat sich beschimpfen und verspotten lassen, damit niemand von uns in irgendeiner Demütigung mehr allein ist; er hat sich entkleiden lassen, damit sich niemand seiner Würde beraubt fühlt; er ist aufs Kreuz gestiegen, damit in jedem Gekreuzigten der Geschichte Gott gegenwärtig ist. Dies ist unser König, unser aller König, der König des Weltalls, denn er hat die äußersten Grenzen des Menschseins überschritten, er ist in die schwarzen Löcher des Hasses eingetreten, in die schwarzen Löcher der Verlassenheit, um jedes Leben zu erleuchten und alle Wirklichkeit zu umarmen. Brüder, Schwestern, das ist der König, den wir heute feiern! Es ist nicht einfach, das zu verstehen, aber er ist unser König. Und die Frage, die wir uns stellen müssen, lautet: Ist dieser König des Weltalls der König meines Lebens? Glaube ich an ihn? Wie kann ich ihn als Herrn aller Dinge feiern, wenn er nicht auch zum Herrn meines Lebens wird? Und du, der du heute diesen Weg Richtung Priestertum beginnst, vergiss nicht, dass dieser dein Vorbild ist: Klammere dich nicht an Ehrungen, nein. Dieser ist dein Vorbild; wenn du nicht denkst, dass du ein Priester nach der Art dieses Königs sein kannst, solltest du es besser lassen.
Richten wir unsere Augen wieder auf den gekreuzigten Jesus. Siehst du, er betrachtet dein Leben nicht nur einen Moment lang, er wirft dir nicht nur einen flüchtigen Blick zu, wie wir es oft mit ihm tun, sondern er bleibt da, a brasa aduerte, um dir in der Stille zu sagen, dass ihm nichts an dir fremd ist, dass er dich umarmen, aufrichten und retten will, so wie du bist, mit deiner Geschichte, deinem Elend, deinen Sünden. Aber Herr, ist das wahr? Liebst du mich so sehr – trotz meiner Armseligkeit? Jeder möge in diesem Moment einmal über seine eigene Armut nachdenken: „Liebst du mich mit dieser geistigen Armut, die ich habe, mit diesen Grenzen?“ Und er lächelt und gibt uns zu verstehen, dass er uns liebt und sein Leben für uns hingegeben hat. Lasst uns ein wenig über unsere Grenzen nachdenken, auch über die guten Dinge: Er liebt uns so, wie wir sind, so wie wir jetzt sind. Er gibt uns die Möglichkeit, im Leben zu herrschen, wenn du dich seiner sanften Liebe ergibst, die sich anbietet aber nicht aufdrängt – die Liebe Gottes drängt sich niemals auf – seiner Liebe, die dir immer verzeiht. Wir werden oft müde, den Menschen zu vergeben, und machen ein Kreuz, machen ein soziales Begräbnis. Er wird nie müde zu vergeben, niemals, niemals: immer hilft er dir wieder auf, immer gibt er dir deine königliche Würde zurück. Ja, das Heil, woher kommt es? Es wird uns dadurch zuteil, dass wir uns von ihm lieben lassen, denn nur so werden wir von der Sklaverei unseres Egos befreit, von der Angst, allein zu sein, von dem Gedanken, es nicht zu schaffen. Brüder, Schwestern, begeben wir uns oft vor das Kreuz und lassen wir uns lieben, denn jene brasa aduerte eröffnen auch uns das Paradies, wie dem „guten Schächer“. Hören wir den einzigen Satz, den Jesus heute vom Kreuz aus sagt, als an uns gerichtet: »Heute noch wirst du mit mir im Paradies sein« (Lk 23,43). Das ist es, was Gott uns jedes Mal sagen will, uns allen, wenn wir uns von ihm anschauen lassen. Und dann begreifen wir, dass wir keinen unbekannten Gott haben, der da oben im Himmel ist, mächtig und weit weg, nein: er ist ein naher Gott, die Nähe ist die Art Gottes, die Nähe, mit Zärtlichkeit und Barmherzigkeit. Dies ist die Art Gottes, er hat keine andere Art. Nahe, barmherzig und zärtlich. Zärtlich und mitfühlend, seine offenen Arme trösten und liebkosen. Das ist unser König!
Brüder und Schwestern, was können wir tun nachdem wir auf ihn geschaut haben? Das heutige Evangelium zeigt uns zwei Wege. Da gibt es diejenigen, die sich Jesus gegenüber als Zuschauer verhalten und diejenigen, die sich auf ihn einlassen. Die Zuschauer sind viele, sie sind in der Mehrheit. Sie schauen zu, es ist ein Spektakel jemanden am Kreuz sterben zu sehen. Tatsächlich sagt der Text: »das Volk schaute zu« (V. 35). Das waren keine schlechten Leute, viele waren gläubig, aber beim Anblick des Kreuzes blieben sie Zuschauer: Sie machen keinen Schritt auf Jesus zu, sondern schauen ihn von weitem an, neugierig und gleichgültig, ohne sich wirklich für ihn zu interessieren, ohne sich zu fragen, was sie tun können. Sie mögen vielleicht kommentiert haben: „Aber schau dir den an…“, sie mögen Urteile und Meinungen geäußert haben: „Aber er ist unschuldig, schau ihn an so…“, einige werden geklagt haben, aber sie alle standen mit ineinandergelegten Händen, mit verschränkten Armen da. Aber auch in der Nähe des Kreuzes gibt es Zuschauer: die Anführer des Volkes, die dem blutigen Schauspiel des unrühmlichen Endes Christi beiwohnen wollen; die Soldaten, die auf ein baldiges Ende der Hinrichtung hoffen, um nach Hause gehen zu können; einer der Schächer, der seine Wut an Jesus auslässt. Sie spotten, sie beschimpfen, sie reagieren sich ab.
Und alle diese Zuschauer verbindet ein Refrain, den der Text dreimal wiederholt: „Wenn du der König bist, dann rette dich selbst“ (vgl. V. 35.37.39). Sie beleidigen ihn auf diese Weise, sie fordern ihn heraus. Rette dich selbst, das ist genau das Gegenteil von dem, was Jesus tut, der nicht an sich selbst denkt, sondern daran, jene zu retten, die ihn beleidigen. Aber das rette dich selbst steckt an: von den Anführern über die Soldaten bis hin zu den Leuten erreicht die Welle des Bösen fast alle. Denken wir daran, dass das Böse ansteckend ist, dass es uns ansteckt: wie wenn wir uns eine ansteckende Krankheit einfangen, die uns sofort infiziert. Und diese Leute reden über Jesus, versetzen sich aber nicht mal für einen Augenblick in seine Lage. Sie gehen auf Distanz und reden. Das ist die tödliche Ansteckung durch Gleichgültigkeit. Eine hässliche Krankheit, die Gleichgültigkeit. „Das betrifft mich nicht, das geht mich nichts an“. Gleichgültigkeit gegenüber Jesus und Gleichgültigkeit auch gegenüber den Kranken, gegenüber den Armen, gegenüber den Notleidenden auf der Erde. Ich frage die Menschen gerne, und ich frage jeden von euch; ich weiß, dass jeder von euch den Armen Almosen gibt, und ich frage euch: „Wenn du den Armen Almosen gibst, schaust du ihnen dann in die Augen? Bist du in der Lage, dem armen Mann oder der armen Frau, die dich um ein Almosen bitten, in die Augen zu sehen? Wenn du den Armen ein Almosen gibst, wirfst du dann das Geldstück hin oder berührst du ihre Hand? Bist du fähig, ein menschliches Elend zu berühren?“ Jeder kann sich heute selbst die Antwort darauf geben. Diese Menschen waren gleichgültig. Diese Menschen reden über Jesus, aber sie lassen sich nicht auf Jesus ein. Und das ist die tödliche Ansteckung der Gleichgültigkeit: Sie schafft Distanz zwischen uns und dem Elend. Die Welle des Bösen breitet sich immer auf diese Weise aus: Sie beginnt damit, dass man Abstand hält, dass man zuschaut, ohne etwas zu tun, dass man sich nicht kümmert; dann denkt man nur an das, was einen interessiert und gewöhnt sich daran, sich abzuwenden. Und das ist auch ein Risiko für unseren Glauben, der verkümmert, wenn er Theorie bleibt, wenn er nicht in die Tat umgesetzt wird, wenn es keine Anteilnahme gibt, wenn man sich nicht persönlich hingibt und engagiert. Dann werden wir zu Rosenwasser-Christen, wie man bei mir zu Hause sagte, die behaupten, dass sie an Gott glauben und Frieden wollen, aber nicht beten und sich nicht um ihren Nächsten kümmern, und sie interessieren sich auch nicht für Gott oder den Frieden. Sie sind Christen nur den Worten nach, sie sind oberflächlich!
Das war die böse Welle, die es dort auf Golgota gab. Aber es gibt auch die heilsame Welle des Guten. Unter den vielen Schaulustigen nimmt einer Anteil, nämlich der „gute Schächer“. Die anderen verlachen den Herrn, doch er spricht ihn an und nennt ihn beim Namen: „Jesus“; viele schmettern ihm ihren Zorn entgegen, er bekennt Christus seine Fehler; viele sagen: „Rette dich selbst“, er bittet: »Jesus, denk an mich« (V. 42). Nur das erbittet er vom Herrn. Dieses Gebet ist schön. Wenn jeder von uns es jeden Tag betet, ist es ein schöner Weg, der Weg zur Heiligkeit: „Jesus, denk an mich.“ So wird ein Übeltäter zum ersten Heiligen: Er ist Jesus für einen Augenblick nahe und der Herr behält ihn für immer bei sich. Nun, das Evangelium erzählt von dem guten Schächer um unseretwillen, um uns einzuladen, das Böse zu überwinden, indem wir aufhören, bloße Zuschauer zu bleiben. Bitte, das ist schlimmer als Böses zu tun, die Gleichgültigkeit. Womit sollen wir anfangen? Bei der Vertrautheit, damit, Gott beim Namen zu nennen, genauso wie es der gute Schächer getan hat, der am Ende seines Lebens das mutige Vertrauen der Kinder wiedererlangt, die vertrauen, bitten, beharren. Und in der Vertrautheit gesteht er seine Fehler, er weint, aber nicht über sich selbst, sondern vor dem Herrn. Und wir, haben wir dieses Vertrauen, bringen wir das, was wir in uns tragen, zu Jesus, oder verstellen wir uns vor Gott, vielleicht mit ein wenig „Heiligkeit und Weihrauch“? Bitte keine Make-up-Spiritualität: die ist langweilig. Vor Gott nur Wasser und Seife, kein Make-up, sondern die Seele, so wie sie ist. Und von dort kommt die Erlösung. Wer sich in der Vertrautheit übt wie der gute Schächer, der lernt die Fürbitte, der lernt das vor Gott zu bringen, was er sieht, die Leiden der Welt, die Menschen, denen er begegnet; er lernt, ihm, wie der gute Schächer, zu sagen: „Gedenke, Herr!“ Wir sind nicht nur auf der Welt, um uns selbst zu retten, nein, sondern um unsere Brüder und Schwestern in die Umarmung des Königs zu bringen. Fürbitte einlegen beim Herrn, das öffnet die Pforten des Paradieses. Wie ist es mit uns? Legen wir, wenn wir beten, auch Fürsprache ein? „Gedenke, Herr, gedenke meiner, denk an meine Familie, erinnere dich an dieses Problem, gedenke, gedenke...“ Die Aufmerksamkeit des Herrn wecken.
Brüder, Schwestern, heute blickt unser König vom Kreuz mit brasa aduerte auf uns herab. Es liegt an uns, ob wir Zuschauer oder Beteiligte sein wollen. Bin ich Zuschauer oder will ich beteiligt sein? Wir sehen die Krisen von heute, den Rückgang des Glaubens, die fehlende Teilnahme... Was tun wir? Theoretisieren wir nur, kritisieren wir nur, oder krempeln wir die Ärmel hoch, packen wir die Aufgaben an, vor die uns das Leben stellt, gehen wir vom „Wenn“ der Ausreden zum „Ja“ des Gebetes und des Dienstes über? Wir alle glauben zu wissen, was in der Gesellschaft nicht geht, alle; wir reden jeden Tag darüber, was in der Welt und auch in der Kirche nicht geht: Vieles in der Kirche läuft nicht recht. Aber tun wir dann auch etwas? Machen wir uns die Hände schmutzig, wie unser an das Holz genagelter Gott, oder stehen wir mit den Händen in den Hosentaschen da und schauen zu? Heute, da Jesus, nackt am Kreuz, jeden Schleier von Gott wegnimmt und jedes falsche Bild von seinem Königtum zerstört, lasst uns auf ihn schauen, damit wir den Mut finden, uns selbst anzuschauen, die Wege der Vertrautheit und der Fürbitte zu gehen und zu Dienern zu werden, um mit ihm zu herrschen. „Gedenke, Herr, gedenke“: Sprechen wir häufiger dieses Gebet. Danke.
[01806-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]
Traduzione in lingua spagnola
Hemos visto a este joven, Stefano, que pide recibir el ministerio de acólito en su camino hacia el sacerdocio. Tenemos que rezar por él, para que siga adelante en su vocación y sea fiel; pero también tenemos que rezar por esta Iglesia de Asti, para que el Señor envíe vocaciones sacerdotales, porque como ustedes ven la mayoría son ancianos, como yo. Se necesitan sacerdotes jóvenes, como algunos de aquí que son muy buenos. Pidamos al Señor que bendiga esta tierra.
Y de estas tierras partió mi padre para emigrar a Argentina. Y en estas tierras, valiosas por sus buenos productos agrícolas y sobre todo por la auténtica laboriosidad de la gente, he venido a reencontrar el sabor de las raíces. Hoy el Evangelio nos lleva nuevamente a las raíces de la fe. Estas se encuentran en el árido terreno del Calvario, donde la semilla de Jesús, al morir, hizo germinar la esperanza, pues plantado en el corazón de la tierra nos abrió el camino al cielo. Con su muerte nos dio la vida eterna. Por medio del árbol de la cruz nos trajo los frutos de la salvación. Por eso mirémoslo a Él, miremos al Crucificado.
Sobre la cruz aparece una sola frase: «Este es el rey de los judíos» (Lc 23,38). He aquí el título: rey. Pero observando a Jesús, la idea que tenemos de un rey da un vuelco. Intentemos imaginar visualmente un rey. Nos vendrá a la mente un hombre fuerte sentado en un trono con espléndidas insignias, un cetro en las manos y anillos brillantes en los dedos, mientras dirige a sus súbditos discursos solemnes. Esta es, más o menos, la imagen que tenemos en la mente. Pero mirando a Jesús, vemos que Él es todo lo contrario. No está sentado en un cómodo trono, sino más bien colgado en un patíbulo. El Dios que «derribó a los poderosos de su trono» (Lc 1,52) se comporta como siervo crucificado por los poderosos. Está adornado sólo con clavos y espinas, despojado de todo mas rico en amor; desde el trono de la cruz ya no instruye a la multitud con palabras, ni levanta la mano para enseñar. Hace mucho más: en vez de apuntar el dedo contra alguien, extiende los brazos para todos. Así se manifiesta nuestro rey, con los brazos abiertos, a brasa aduerte.
Sólo entrando en su abrazo entendemos que Dios se aventuró hasta ahí, hasta la paradoja de la cruz, justamente para abrazar todo lo que es nuestro, aun aquello que estaba más lejos de Él: nuestra muerte —Él abrazó nuestra muerte—, nuestro dolor, nuestra pobreza, nuestras fragilidades y nuestras miserias. Él abrazó todo esto. Se hizo siervo para que cada uno de nosotros se sienta hijo, pagó con su servidumbre nuestra filiación. Se dejó insultar y que se burlaran de él, para que en cualquier humillación ninguno de nosotros esté ya solo. Dejó que lo desnudaran, para que nadie se sienta despojado de la propia dignidad. Subió a la cruz, para que en todo crucificado de la historia esté la presencia de Dios. Este es nuestro rey, rey de cada uno de nosotros, rey del universo, porque Él cruzó los más recónditos confines de lo humano; entró en la oscura inmensidad del odio, en la inmensa oscuridad del abandono para iluminar cada vida y abrazar cada realidad. Hermanos, hermanas, este es el rey que hoy festejamos. No es fácil entenderlo, pero es nuestro rey. Y las preguntas que deberíamos hacernos son: ¿Este rey del universo es el rey de mi existencia? ¿Yo creo en Él? ¿Cómo puedo celebrarlo como Señor de todas las cosas si no se convierte también en el Señor de mi vida? Y tú que hoy comienzas este camino hacia el sacerdocio no te olvides que este es tu modelo; no te aferres a los honores, no. Este es tu modelo; si tú no piensas ser sacerdote como este Rey, mejor detente ahí.
Por tanto, fijemos de nuevo la mirada en Jesús Crucificado. Date cuenta, Él no mira tu vida sólo un momento y ya, no te dedica una mirada fugaz como frecuentemente hacemos nosotros con Él, sino que Él permanece ahí, a brasa aduerte, para decirte en silencio que nada de lo tuyo le es ajeno, que quiere abrazarte, volverte a levantar, salvarte, así como eres, con tu historia, con tus miserias, con tus pecados. Pero, Señor, ¿es verdad? ¿Con mis miserias me amas de este modo? Cada uno piense en este momento en su propia pobreza: “Pero, ¿tú me amas con esta pobreza espiritual que tengo, con estas limitaciones?”. Y Él sonríe y nos hace comprender que nos ama y ha dado la vida por nosotros. Pensemos un poco en nuestros límites, también en las cosas buenas: Él nos ama como somos, como somos ahora. Él nos da la posibilidad de reinar en la vida, si te rindes ante la mansedumbre de su amor, que se propone pero no se impone —el amor de Dios nunca se impone—; a su amor que siempre te perdona. Nosotros tantas veces nos cansamos de perdonar a la gente y les hacemos la cruz, les hacemos la sepultura social. Él no se cansa nunca de perdonar, nunca, nunca; siempre te vuelve a poner en pie, siempre te restituye tu dignidad real. Sí, la salvación, ¿de dónde viene? Nos viene al dejarnos amar por Él, porque sólo así somos liberados de la esclavitud de nuestro yo, del miedo de estar solos, de pensar que no lo lograremos. Hermanos, hermanas, pongámonos constantemente ante el Crucificado, dejémonos amar, pues esos brasa aduerte nos abren también a nosotros el paraíso, como al “buen ladrón”. Sintamos como dirigida a nosotros la frase que Jesús hoy, en el Evangelio, pronuncia desde la cruz: «Estarás conmigo en el paraíso» (Lc 23,43). Esto es lo que quiere y quiere decirnos Dios, a todos nosotros, cada vez que nos dejamos mirar por Él. Y entonces entendemos que no tenemos un dios desconocido que está allá arriba en el cielo, poderoso y distante, no, sino un Dios cercano, la cercanía es el estilo de Dios, la cercanía, con ternura y misericordia. Este es el estilo de Dios. Cercano, misericordioso y tierno. Tierno y compasivo, cuyos brazos abiertos consuelan y acarician. ¡Ese es nuestro rey!
Hermanos, hermanas, después de haberlo mirado, ¿qué podemos hacer? Hoy el Evangelio nos pone ante dos caminos. Frente a Jesús hay quien se queda de espectador y quien se involucra. Los espectadores son muchos, la mayoría. Miran, ver morir a alguien en la cruz es un espectáculo. De hecho —dice el texto— «el pueblo permanecía allí y miraba» (v. 35). No era gente mala, muchos eran creyentes, pero al ver al Crucificado se quedan como espectadores. No dan un paso adelante hacia Jesús, sino que lo ven desde lejos, curiosos e indiferentes, sin interesarse verdaderamente, sin preguntarse qué podrían hacer. Habrán comentado, quizá: “Pero mira este”, habrán expresado juicios y opiniones: “Pero es inocente, mira este así”, alguno se habrá lamentado, pero todos se quedaron mirando sin hacer nada, con los brazos cruzados. Pero también cerca de la cruz hay espectadores: los jefes del pueblo, que quieren asistir al espectáculo cruento del final ignominioso de Cristo; los soldados, que esperan que la ejecución termine pronto, para irse a su casa; uno de los malhechores, que descarga sobre Jesús su rabia. Se burlan, insultan, se desahogan.
Todos estos espectadores tienen en común una frase recurrente: “Si eres rey, ¡sálvate a ti mismo!” (cf. vv. 35.37.39). Así lo insultan, lo desafían. Sálvate a ti mismo, exactamente lo contrario de lo que está haciendo Jesús, que no piensa en sí mismo, sino en salvarlos a ellos, que lo insultan. Pero ese sálvate a ti mismo es contagioso, de los jefes a los soldados y a la gente, la ola del mal alcanza a casi todos. Pensemos que el mal es contagioso, nos contagia; como cuando a nosotros nos llega una enfermedad infecciosa, nos contagia enseguida. Y aquella gente habla de Jesús pero no sintoniza ni un solo momento con Él. Toma distancia y habla. Es el contagio letal de la indiferencia. Es una fea enfermedad la indiferencia. “Esto a mí no me concierne, no me toca”. Indiferencia hacia Jesús e indiferencia también hacia los enfermos, hacia los pobres, hacia los miserables de la tierra. A mí me gusta preguntarle a la gente, y les pregunto a cada uno de ustedes: “Cuanto tú le das limosna a los pobres, ¿los miras a los ojos? ¿Eres capaz de mirar a los ojos de ese pobre o de esa pobre que te pide limosna? Cuando tú das limosna a los pobres, ¿les tiras la moneda o les tocas la mano? ¿Eres capaz de tocar una miseria humana?”. Después que cada uno se dé las respuestas. Aquella gente era indiferente. Aquella gente hablaba de Jesús, pero no sintonizaba con Él. Y este es el contagio letal de la indiferencia, que crea distancia con la miseria. La ola del mal se propaga siempre así: comienza tomando distancia, mirando sin hacer nada, sin dar importancia, y luego se piensa sólo en los propios intereses y se acostumbra a mirar hacia otro lado. Y esto es un riesgo también para nuestra fe, que se marchita si se queda en una teoría, si no se hace práctica, si no hay compromiso, si no se da en primera persona, si no se arriesga. Entonces nos convertimos en cristianos “al agua de rosas” —como escuché decir en mi casa—, que dicen creer en Dios y querer la paz, pero que no rezan ni se preocupan por el prójimo e incluso no les interesa Dios, ni la paz. Estos son cristianos sólo de palabra, superficiales.
Esta era la ola del mal que había allí, en el Calvario. Pero también está la ola benéfica del bien. Entre los muchos espectadores, uno se involucra, me refiero al “buen ladrón”. Los otros se ríen del Señor. Él le habla y lo llama por su nombre, “Jesús”. Muchos descargan sobre Él su rabia; él confiesa a Cristo sus faltas. Muchos dicen «sálvate a ti mismo»; él ruega: «Jesús, acuérdate de mí» (v. 42). Sólo pide eso al Señor. Esta es una hermosa oración. Si cada uno de nosotros la recita todos los días va por buen camino, el camino de la santidad: “Jesús, acuérdate de mí”. Es así que un malhechor se convierte en el primer santo. Se acerca a Jesús por un instante y el Señor lo tiene consigo para siempre. El Evangelio habla del buen ladrón por nosotros, para invitarnos a vencer el mal dejando de ser espectadores. Por favor, la indiferencia es peor que hacer el mal. ¿Por dónde comenzar? Por la confianza, por llamar a Dios por su nombre, tal como lo hizo el buen ladrón, que al final de la vida vuelve a encontrar la confianza valiente que caracteriza a los niños, que se fían, piden, insisten. Y con esa confianza admite sus fallas, llora, pero no compadeciéndose de sí mismo, sino poniéndose delante del Señor. Y nosotros, ¿tenemos esta confianza, le llevamos a Jesús todo lo que tenemos en nuestro interior, o nos disfrazamos frente a Dios, quizás con un poco de sacralidad y de incienso? Por favor, no vivan la espiritualidad del maquillaje, es aburrida. Ante Dios agua y jabón, nada más, sin maquillajes, el alma tal cual es. Y de ahí viene la salvación. Aquel que pone en práctica la confianza, como este buen ladrón, aprende la intercesión, aprende a presentar ante Dios lo que ve, los sufrimientos del mundo, las personas que encuentra. Aprende a decirle, como el buen ladrón, “¡acuérdate, Señor!”. No estamos en el mundo únicamente para salvarnos a nosotros mismos, no, sino para llevar a los hermanos y hermanas al abrazo del Rey. Interceder, recordarle al Señor, abre las puertas del paraíso. Pero nosotros, cuando rezamos, ¿intercedemos? “Acuérdate Señor, acuérdate de mí, de mi familia, acuérdate de este problema, acuérdate, acuérdate”. Llamar la atención del Señor.
Hermanos, hermanas, hoy nuestro rey nos mira desde la cruz a brasa aduerte. Depende de nosotros decidir si ser espectadores o involucrarnos. ¿Soy espectador o quiero involucrarme? Vemos las crisis de hoy, la disminución de la fe, la falta de participación. ¿Qué hacemos? ¿Nos limitamos a elaborar teorías, nos limitamos a criticar, o nos ponemos manos a la obra, tomamos las riendas de nuestra vida, pasamos del “si” de las excusas a los “sí” de la oración y del servicio? Todos creemos saber qué es lo que no está bien en la sociedad, todos; hablamos todos los días de lo que no va en el mundo, incluso en la Iglesia, tantas cosas no van en la Iglesia. Pero luego, ¿hacemos algo? ¿Nos ensuciamos las manos como nuestro Dios clavado al madero o estamos con las manos en los bolsillos mirando? Hoy, mientras Jesús, que está despojado en la cruz, levanta el velo sobre Dios y destruye toda imagen falsa de su realeza, mirémoslo a Él, para encontrar el valor de mirarnos a nosotros mismos; de recorrer las vías de la confianza y de la intercesión; de hacernos siervos para reinar con Él. “Acuérdate, Señor, acuérdate”, hagamos esta oración más seguido. Gracias.
[01806-ES.02] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua portoghese
Vimos este jovem, o Stéfano, pedir para receber o ministério de Acólito no seu percurso rumo ao sacerdócio. Temos de rezar por ele, para que continue para diante na sua vocação e seja fiel; mas devemos rezar também por esta Igreja de Asti, para que o Senhor envie vocações sacerdotais, porque, como vedes, a maioria são idosos como eu: precisamos de sacerdotes jovens, como alguns aqui que são muito bons. Rezemos ao Senhor para que abençoe esta terra.
E daqui, destas terras, emigrou o meu pai para a Argentina; e vim a estas terras, preciosas pelos bons produtos do solo e sobretudo pela genuína laboriosidade da gente, para reencontrar o sabor das raízes. Entretanto, hoje, podemos ver mais uma vez como o Evangelho nos leva às raízes da fé. Estas, encontramo-las no terreno árido do Calvário, onde a semente que é Jesus, ao morrer, fez germinar a esperança: plantada no coração da terra, abriu-nos o caminho para o Céu; com sua morte, deu-nos a vida eterna; por meio do madeiro da cruz, trouxe-nos os frutos da salvação. Por isso, fixemos o nosso olhar n’Ele, fixemos o olhar no Crucificado.
Na cruz, aparece uma única frase: «Este é o rei dos judeus» (Lc 23, 38). Eis o seu título: Rei. Mas, observando Jesus, inverte-se a ideia que temos de um rei. Tentando visualizá-lo, pensaremos num homem forte sentado num trono com preciosas insígnias, um cetro na mão e anéis brilhantes nos dedos, enquanto solenemente fala aos súditos. Tal seria, em linhas gerais, a imagem dum rei que temos na cabeça. Mas fixando Jesus, vemos que é completamente diferente. Não está sentado num trono confortável, mas pendurado num patíbulo; o Deus que «derruba os poderosos de seus tronos» (Lc 1, 52), comporta-Se como servo cravado na cruz pelos poderosos; adornado apenas com cravos e espinhos, despojado de tudo mas rico de amor. Do trono da cruz, já não ensina as multidões com a palavra, nem levanta a mão para ensinar; faz mais: não aponta o dedo contra ninguém, mas abre os braços a todos. Assim Se manifesta o nosso Rei: de braços abertos – a brasa aduerte.
E só entrando no seu abraço é que compreendemos que Deus Se deixou levar até àquele ponto, até ao paradoxo da cruz, precisamente para abraçar tudo em nós, incluindo quanto havia de mais distante d'Ele: a nossa morte (Ele abraçou a nossa morte), o nosso sofrimento, as nossas pobrezas, as nossas fragilidades e as nossas misérias. Ele abraçou tudo isto. Fez-Se servo para que cada um de nós se sentisse filho (com a sua servidão pagou a nossa filiação); deixou-Se insultar e escarnecer, para que, em qualquer humilhação, já ninguém de nós estivesse sozinho; deixou-Se despojar, para que ninguém se sentisse despojado da sua dignidade; subiu à cruz, para que, em cada crucificado da história, houvesse a presença de Deus. Eis o nosso Rei, Rei de cada um de nós, Rei do universo, porque atravessou os confins mais remotos do humano, entrou nos buracos negros do ódio, nos buracos negros do abandono para iluminar cada vida e abraçar toda a realidade. Irmãos, irmãs, tal é o Rei que hoje festejamos! Não é fácil de compreender, mas é o nosso Rei. Eis a pergunta que devemos pôr-nos: mas este Rei do universo é o Rei da minha existência? Eu creio n’Ele? Como posso celebrá-Lo Senhor de tudo, se não Se torna também o Senhor da minha vida? E tu, Stéfano, que hoje inicias este caminho para o sacerdócio, não esqueças que Ele é o teu modelo: não te prendas às honras, não. Ele é o teu modelo; se não pensas ser sacerdote como este Rei, é melhor parares por aqui.
Mas fixemos de novo os olhos em Jesus Crucificado. Vê! Ele não observa a tua vida apenas durante um momento, não te dedica só um olhar fugaz, como fazemos nós muitas vezes com Ele, mas permanece ali a brasa aduerte a dizer-te no silêncio que nada de ti Lhe é estranho, que te quer abraçar, levantar, salvar assim como és, com a tua história, as tuas misérias, os teus pecados. Mas, Senhor, isto é verdade? Com as minhas misérias… Tu amas-me assim? Neste momento, cada um pense na sua própria pobreza: «Mas, Tu amas-me com toda esta pobreza espiritual que sou, com estas limitações?». Ele sorri e faz-nos compreender que nos ama e deu a vida por nós. Pensemos um pouco nos nossos limites, e também nas coisas boas: Ele ama-nos como somos, como somos agora. Ele dá-te a possibilidade de reinares na vida, se te abandonares ao seu amor cheio de mansidão, que se propõe mas não se impõe (o amor de Deus nunca se impõe), ao seu amor que sempre te perdoa. Nós muitas vezes cansamo-nos de perdoar às pessoas e, sobre elas, como que pomos o sinal da cruz, fazemos o seu enterro social. Ele nunca Se cansa de perdoar… nunca, nunca: sempre te põe de pé, sempre te devolve a tua dignidade real. Pensa: a nossa salvação, donde vem? Vem do facto de nos deixarmos amar por Ele, porque só assim somos libertos da escravidão do nosso egoísmo, do medo de estar sozinho e pensar que não vamos conseguir. Com frequência, irmãos, irmãs, coloquemo-nos diante do Crucificado, deixemo-nos amar, para que aqueles brasa aduerte nos abram, também a nós, o Paraíso, como ao «bom ladrão». Sintamos como que dirigida a nós aquela frase, a única que ouvimos hoje Jesus dizer na cruz: «Estarás comigo no Paraíso» (Lc 23, 43). Isto é o que Deus quer para nós, e no-lo quer dizer a todos nós, sempre que nos demoramos sob o seu olhar. E então compreendemos que não temos um deus desconhecido, lá em cima nos céus, poderoso e distante. Não! Mas um Deus próximo. A proximidade é o estilo de Deus: proximidade, com ternura e misericórdia. Tal é o estilo de Deus, e não tem outro: próximo, vizinho e terno; terno e compassivo, cujos braços abertos consolam e acariciam. Eis o nosso Rei!
Irmãos, irmãs, depois de O termos contemplado, que mais podemos fazer? O Evangelho de hoje coloca à nossa frente dois caminhos: diante de Jesus, temos quem se comporta como espetador e quem se envolve. Os espetadores são muitos; é a maioria. Olham; ver morrer alguém na cruz é um espetáculo. De facto – diz o texto – «o povo permanecia, ali, a observar» (23, 35). Não era má gente, muitos eram crentes, mas à vista do Crucificado, permanecem espetadores: não movem um passo na direção de Jesus, mas olham-No de longe, curiosos e indiferentes, sem verdadeiramente se interessar nem perguntar que podem fazer. Terão comentado («mas olha este…»), terão formulado juízos e opiniões («mas é inocente… e termina assim?»), alguém tê-Lo-á até lamentado, mas todos ficaram a olhar sem nada fazer, de braços cruzados. E até há espetadores perto da cruz: os chefes do povo, que querem assistir ao espetáculo cruento do fim inglorioso de Cristo; os soldados, que esperam que termine rapidamente a execução a fim de voltar para casa; um dos malfeitores, que descarrega o seu ódio sobre Jesus. Escarnecem, insultam, dizem da sua justiça.
Todos estes espetadores compartilham um refrão, que o texto repete três vezes: «Se és rei, salva-Te a Ti mesmo» (cf. 23, 35.37.39). Insultam-No assim, desafiam-No! Salva-Te a Ti mesmo! Exatamente o contrário daquilo que está a fazer Jesus, que pensa não em Si, mas em salvá-los a eles que O insultam. E aquele dito «salva-Te a Ti mesmo» propaga-se como que por contágio: desde os chefes passando pelos soldados e chegando à gente, a onda do mal atinge quase todos. Pensemos como é contagioso o mal! Contagia-nos como quando apanhamos uma doença infeciosa, que nos contagia imediatamente. Aquela gente fala de Jesus, mas não se sintoniza com Jesus nem um momento sequer. Põe-se à distância e fala. É o contágio letal da indiferença. A indiferença é uma doença ruim: «isto não me diz respeito, não tem a ver comigo». Indiferença para com Jesus e indiferença também para com os doentes, os pobres, os miseráveis da terra. Gosto de perguntar às pessoas e faço-o também aqui a cada um de vós. Sei que cada um de vós dá esmola aos pobres, e eu pergunto: «Quando tu dás esmola aos pobres, olha-os nos olhos? És capaz de olhar nos olhos aquele pobre, homem ou mulher, que te pede esmola? Quando dás esmola aos pobres, atiras a moeda ou tocas-lhe a mão? És capaz de tocar uma miséria humana?» Depois cada um dê a resposta, hoje. Aquela gente vivia na indiferença. Fala de Jesus, mas não sintoniza com Ele. E este é o contágio letal da indiferença, que cria distâncias relativamente às misérias. A onda do mal espalha-se sempre assim: começa-se por se colocar à distância, observar sem nada fazer e não se importar, depois pensamos só naquilo que nos interessa e habituamo-nos a virar a cara para o outro lado. Isto é um risco que corre também a nossa fé, que definha se permanecer uma teoria sem se fazer vida prática, se não houver envolvimento, se não nos gastarmos pessoalmente, se não nos comprometermos. Então tornamo-nos cristãos de fachada (cristãos tipo “água-de-colónia”, como ouvia dizer na minha casa), que dizem acreditar em Deus e querer a paz, mas não rezam nem cuidam do próximo. Não interessa Deus nem a paz, a estes cristãos apenas de língua, superficiais.
Esta era a onda má, que se encontrava no Calvário. Mas há também a onda benfazeja do bem. Entre muitos espetadores há um que se envolve, isto é, o «bom ladrão». Os outros zombam do Senhor, ele fala-Lhe e chama-O pelo nome: «Jesus»; muitos descarregam sobre Ele o seu ódio, ele confessa a Cristo os seus erros; muitos dizem «salva-Te a Ti mesmo», ele reza: «Jesus, lembra-Te de mim» (23, 42). Pede apenas isto ao Senhor. É uma linda oração! Se cada um de nós a rezasse todos os dias, estaria na boa estrada: a estrada da santidade: «Jesus, lembra-Te de mim». Assim um malfeitor torna-se o primeiro santo: aproxima-se de Jesus por um instante, e o Senhor estreita-o a Si para sempre. Ora, o Evangelho fala-nos do bom ladrão para nos convidar a vencer o mal, deixando de ser espetadores. Por favor! A indiferença é pior do que fazer o mal. E donde havemos de começar? Da confidência, de chamar a Deus pelo nome, precisamente como fez o bom ladrão, que, no fim da vida, reencontra aquela confidência corajosa das crianças que confiam, pedem, insistem. E, na confidência, admite os seus erros, chora não por si mesmo, mas diante do Senhor. E nós, temos esta confiança, trazemos a Jesus aquilo que somos dentro ou maquilhamo-nos diante de Deus, talvez com um toque de sacralidade e de incenso? Por favor, não viver a espiritualidade da maquilhagem: é fastidiosa. Diante de Deus, apenas água e sabão! Sem maquilhagem, mas a alma apresenta-se assim como ela é. E daqui vem a salvação. Quem pratica a confidência, como este bom ladrão, aprende a intercessão, aprende a levar a Deus aquilo que vê, os sofrimentos do mundo, as pessoas que encontra; aprende a dizer-Lhe, como o bom ladrão: «Lembra-Te, Senhor!» Não estamos no mundo apenas para nos salvar a nós mesmos. Não; mas para levar os irmãos e as irmãs ao abraço do Rei. O facto de interceder, de lembrar ao Senhor, abre as portas do Paraíso. Mas nós, quando rezamos, intercedemos? «Lembra-Te, Senhor! Lembra-Te de mim, da minha família, lembra-Te deste problema… lembra-Te… lembra-Te…» Devemos atrair a atenção do Senhor.
Irmãos, irmãs, hoje o nosso Rei olha-nos da cruz a brasa aduerte. Cabe a nós escolher se sermos espetadores ou envolvidos. Sou espetador ou quero envolver-me? Vemos as crises de hoje, o declínio da fé, a falta de participação... E que fazemos? Limitamo-nos a fazer teorias, limitamo-nos a criticar, ou arregaçamos as mangas, comprometemo-nos na vida, passamos do «se» das desculpas ao «sim» da oração e do serviço? Todos pensamos saber o que está errado na sociedade. Todos! Falamos todos os dias do que está errado no mundo e também na Igreja. Tantas coisas erradas na Igreja! Mas, depois, fazemos alguma coisa? Metemos as mãos na massa, como o nosso Deus pregado no madeiro, ou ficamos a olhar com as mãos nos bolsos? Hoje, enquanto Jesus, despido na cruz, tira todo o véu sobre Deus e destrói toda a falsa imagem da sua realeza, olhemos para Ele a fim de encontrar a coragem de olhar para nós mesmos, percorrer os caminhos da confidência e da intercessão e fazer-nos servos para reinarmos com Ele. «Lembra-Te, Senhor, lembra-Te»: façamos esta oração com maior frequência! Obrigado.
[01806-PO.02] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua polacca
Widzieliśmy tego młodzieńca, Stefano, który prosi o udzielenie mu posługi akolity na jego drodze do kapłaństwa. Musimy się za niego modlić, aby rozwijał swoje powołanie i był wierny. Ale musimy też modlić się za ten Kościół w Asti, aby Pan zesłał powołania kapłańskie, bo jak widzicie, większość to starcy, jak ja: potrzebni są młodzi kapłani, jak niektórzy tutaj, którzy są bardzo dobrzy. Módlmy się do Pana, aby pobłogosławił tę ziemię.
I z tej ziemi wyruszył mój ojciec, by wyemigrować do Argentyny; i do tej krainy, cennej dzięki dobrym produktom ziemi, a przede wszystkim dzięki autentycznej pracowitości ludzi, przybyłem, aby odkryć na nowo smak korzeni. Ale dziś jeszcze raz, to Ewangelia prowadzi nas do korzeni wiary. Znajdują się one w jałowej glebie Kalwarii, gdzie ziarno Jezusa, umierając, sprawiło, iż zrodziła się nadzieja: zasiane w sercu ziemi, otworzyło nam drogę do nieba. Przez swoją śmierć dało nam życie wieczne; poprzez drzewo krzyża przyniosło nam owoce zbawienia. Spójrzmy zatem na Niego, spójrzmy na Ukrzyżowanego.
Na krzyżu pada tylko jedno zdanie: „To jest Król żydowski” (Łk 23, 38). Oto tytuł: król. Jednak patrząc na Jezusa, nasze wyobrażenie o królu ulega odwróceniu. Spróbujmy wizualnie wyobrazić sobie króla: przyjdzie nam na myśl mocarz, siedzący na tronie z drogocennymi insygniami, z berłem w ręku i błyszczącymi pierścieniami na palcach, wypowiadający uroczyste słowa do swoich poddanych. Taki, mniej więcej, obraz mamy w głowie. Ale patrząc na Jezusa, widzimy, że jest zupełnie odwrotnie. Nie siedzi na wygodnym tronie, lecz wisi na krzyżu; Bóg, który „strąca władców z tronu” (Łk 1, 52), wypełnia swe dzieło jako sługa przybity przez możnych do krzyża; przyozdobiony jedynie gwoździami i cierniami, ogołocony ze wszystkiego, ale bogaty w miłość, z tronu krzyża nie naucza już tłumów słowami, nie podnosi już więcej ręki, by nauczać. Czyni coś więcej: nie wskazuje nikogo palcem, lecz otwiera ramiona dla wszystkich. Tak właśnie objawia się nasz Król: z rozpostartymi ramionami, a brasa aduerte.
Tylko zgadzając się na Jego uścisk rozumiemy: rozumiemy, że Bóg posunął się aż do tego stopnia, aż do paradoksu krzyża, właśnie po to, aby wziąć w ramiona wszystkich nas, nawet to, co było od Niego najdalsze: naszą śmierć – przyjął naszą śmierć - nasze cierpienie, nasze ubóstwo, nasze słabości i nasze nędze. Przyjął to wszystko. Stał się sługą, aby każdy z nas mógł poczuć się synem, zapłacił za nasze synostwo swoim poddaństwem; pozwolił, by Go znieważano i wyśmiewano, aby w każdym poniżeniu nikt z nas nie był już więcej sam; pozwolił, by Go ogołocono, żeby nikt nie czuł się odarty z godności; wstąpił na krzyż, aby w każdym ukrzyżowanym człowieku na przestrzeni dziejów, była obecność Boga. Oto nasz Król, król każdego z nas, Król wszechświata, przekroczył bowiem najdalsze granice tego, co ludzkie, wszedł w czarne dziury nienawiści i czarne dziury opuszczenia, aby rzucić światło na każde istnienie i ogarnąć każdą rzeczywistość. Bracia, siostry, to jest Król, którego uroczystość dziś obchodzimy! Nie łatwo to zrozumieć, ale On jest naszym Królem. A pytanie, jakie musimy sobie zadać, brzmi: czy ten Król wszechświata jest Królem mojego istnienia? Czy Jemu wierzę? Jak mogę Go czcić jako Pana wszystkich rzeczy, jeśli nie stanie się On również Panem mojego życia? A ty, który dzisiaj rozpoczynasz tę drogę do kapłaństwa, nie zapominaj, że to jest twój wzór: nie lgnij do zaszczytów, nie. To jest twój wzór; jeśli nie chcesz być kapłanem jak ten Król, lepiej na tym poprzestań.
Skierujmy zatem nasze oczy ponownie na Jezusa Ukrzyżowanego. Spójrz, On nie obserwuje twojego życia przez chwilę, i na tym koniec, nie rzuca ci przelotnego spojrzenia, jak to często robimy wobec Niego, ale pozostaje tam, aby a brasa aduerte, powiedzieć ci w milczeniu, że nic w tobie nie jest Mu obce, że chce cię wziąć w ramiona, podnieść i zbawić właśnie takim, jakim jesteś, z twoją historią, twoimi nędzami, twoimi grzechami. Ale Panie, czy to prawda? Czy z moimi nędzami tak bardzo mnie kochasz? Niech każdy w tym momencie pomyśli o swojej nędzy: „Ale, czy Ty mnie kochasz z tymi duchowymi biedami, które mam, z tymi ograniczeniami?”. A On uśmiecha się i uświadamia nam, że nas miłuje i oddał za nas swoje życie. Pomyślmy trochę o naszych ograniczeniach, a także o dobrych rzeczach: On nas miłuje takimi, jakimi jesteśmy, jakimi jesteśmy teraz. On daje ci szansę królowania w życiu, jeśli poddasz się Jego łagodnej miłości, która proponuje, ale się nie narzuca – miłość Boga nigdy się nie narzuca – Jego miłości, która zawsze ci przebacza. Tak często trudno nam przebaczyć ludziom i stawiamy krzyż, robimy pochówek społeczny. On niestrudzenie przebacza, niestrudzenie, zawsze stawia cię na nogi, zawsze przywraca ci królewską godność. Tak, skąd się bierze zbawienie? Z przyzwolenia na to, byśmy byli przez Niego miłowani, bo tylko w ten sposób uwalniamy się z niewoli naszego „ja”, z lęku przed samotnością, z myślenia, że nie damy sobie rady. Bracia, siostry, stawajmy często przed Krucyfiksem i pozwólmy się miłować, bo te brasa aduerte otwierają nam także raj, jak „dobremu łotrowi”. Usłyszmy to zdanie skierowane do nas, jedyne, które Jezus wypowiada dziś z krzyża: „będziesz ze Mną w raju” (Łk 23, 43). To właśnie chce nam powiedzieć Bóg, nam wszystkim, za każdym razem, gdy pozwalamy, aby na nas patrzył. A wtedy rozumiemy, że nie mamy nieznanego Boga, który jest daleko w niebie, potężnego i dalekiego, nie - Boga, który jest blisko. Bliskość to styl Boga: bliskość, wraz z czułością i miłosierdziem. To jest styl Boga, On nie ma innego stylu. Jest bliski, miłosierny, z czuły, Czuły i współczujący, którego otwarte ramiona pocieszają i otaczają czułością. Oto nasz Król!
Bracia, siostry, spojrzawszy na Niego, cóż możemy zrobić? Dzisiejsza Ewangelia stawia przed nami dwie drogi. Przed Jezusem są ci, którzy występują jako gapie i ci, którzy się angażują. Gapiów jest wielu, stanowią większość. Patrzą, to spektakl, gdy ktoś umiera na krzyżu. Istotnie, jak mówi tekst – „lud stał i patrzył” (w. 35). Nie byli to źli ludzie, wielu z nich to wierzący, ale widząc krzyż pozostali widzami: nie uczynili kroku w kierunku Jezusa, ale patrzyli na Niego z daleka, zaciekawieni i obojętni, bez prawdziwego zainteresowania, bez zastanawiania się, co mogą uczynić. Mogli komentować, może: „Popatrz na niego…”, mogli wyrażać sądy i opinie: „Ależ jest niewinny, popatrz na tego, w takim stanie…”, niektórzy mogli narzekać, ale wszyscy stali z boku, bezczynnie, z założonymi rękami. Ale także blisko krzyża są gapie: przywódcy ludu, którzy chcą być świadkami krwawego widowiska haniebnego końca Chrystusa; żołnierze, którzy mają nadzieję, że egzekucja wkrótce się skończy, by mogli sobie pójść do domu; jeden ze złoczyńców, który wyładowuje swój gniew na Jezusie. Wyśmiewają, obrażają, wyładowują się.
I wszystkich tych gapiów łączy ten sam refren, powtarzany w tekście trzykrotnie: „Jeśli Ty jesteś Królem, wybaw sam siebie!” (por. w. 35.37.39). Tak go obrażają, rzucają mu wyzywanie! Wybaw sam siebie, dokładnie odwrotnie niż to, co czyni Jezus, który nie myśli o sobie, lecz o tym, żeby ich zbawić, tych którzy Go znieważają. Jednak „wybaw sam siebie” zaraża: od przywódców, przez żołnierzy, po lud, fala zła dociera niemal do wszystkich. Pomyślmy jednak, że zło jest zaraźliwe, zaraża nas: tak jak w przypadku złapania choroby zakaźnej, która natychmiast nas zaraża. A ci ludzie mówią o Jezusie, ale nie dostrajają się ani na chwilę do Jezusa. Nabierają dystansu i rozmawiają. Jest to śmiertelne zarażenie obojętnością. Okropna choroba obojętności. „To mnie nie dotyczy, to mnie nie dotyczy”. Obojętność wobec Jezusa i obojętność także wobec chorych, wobec ubogich, wobec nędzarzy ziemi. Lubię pytać ludzi, i stawiam to pytanie każdemu z was; wiem, że każdy z was daje jałmużnę ubogim, i pytam was: „Kiedy dajecie jałmużnę ubogim, czy patrzycie im w oczy? Czy potraficie spojrzeć w oczy tego biedaka lub kobiety, którzy proszą cię o jałmużnę? Kiedy dajesz jałmużnę ubogim, rzucasz monetę czy dotykasz ich dłoni? Czy potrafisz dotknąć ludzkiego nieszczęścia?”. Niech każdy odpowie dzisiaj sobie sam. Ci ludzie trwali w obojętności. Ci ludzie mówią o Jezusie, ale nie dostrajają się do Jezusa. I to jest śmiertelne zarażenie obojętnością, która tworzy dystanse z nędzami. Fala zła zawsze rozprzestrzenia się w ten sposób: zaczyna się od nabrania dystansu, od bezczynnego przyglądania się, od nie przejmowania się, potem pomyśli się jedynie o tym, co nas interesuje i przyzwyczajamy się do odwracania się w inną stronę. I jest to również zagrożeniem dla naszej wiary, która usycha, jeśli pozostaje teorią, a nie staje się praktyką, jeśli nie ma zaangażowania, jeśli nie poświęcamy się osobiście, nie wkraczamy do gry. Wtedy stajemy się chrześcijanami wody różanej – jak to słyszałem, gdy mówiono w moim domu - , którzy mówią, że wierzą w Boga i chcą pokoju, ale nie modlą się i nie troszczą się o bliźniego, a także, nie dbają o Boga ani o pokój. Ci chrześcijanie są tylko w słowach, powierzchowni!
To ta zła fala, która była na Kalwarii. Ale jest też dobroczynna fala dobra. Wśród tylu gapiów jeden się angażuje – czyli „dobry łotr”. Inni wyśmiewają Pana, a on mówi do Niego i przyzywa Go po imieniu: „Jezu”; wielu ciska w Niego swój gniew, a on wyznaje swoje grzechy Chrystusowi; wielu mówi „wybaw sam siebie” , a on się modli: „Jezu, wspomnij na mnie” (w. 42). Prosi Pana tylko o to. Jakże piękna jest ta modlitwa. Jeśli każdy z nas odmawia ją codziennie, to jest to piękna droga: droga do świętości: „Jezu, wspomnij na mnie”. W ten sposób złoczyńca staje się pierwszym świętym: na chwilę staje się bliski Jezusowi, a Pan zatrzymuje go przy sobie na zawsze. Teraz Ewangelia mówi o dobrym łotrze dla nas, aby zaprosić nas do przezwyciężenia zła poprzez zaniechanie bycia gapiami. Proszę was, obojętność, to gorsze, niż czynienie zła. Od czego zacząć? Od zaufania, od wzywania Boga po imieniu, tak jak to uczynił dobry łotr, który pod koniec życia odkrywa na nowo odważną ufność dzieci, które pokładają ufność, proszą, nalegają. I w zaufaniu przyznaje się do swoich błędów, płacze, ale nie nad sobą samym, lecz przed Panem. A my, czy mamy to zaufanie, czy przynosimy do Jezusa to, co nosimy w sobie, czy ukrywamy się przed Bogiem, może z odrobiną sacrum i kadzidła? Proszę, nie uprawiajcie duchowości upiększania się: to nudne. Przed Bogiem potrzebna jest tylko woda i mydło, żadnego makijażu, ale dusza taka, jaka jest. I stamtąd przychodzi zbawienie. Ten, kto praktykuje ufność, jak ów dobry łotr, ten uczy się wstawiennictwa, uczy się przynoszenia do Boga tego, co widzi, cierpienia świata, spotykanych osób; mówienia Jemu, jak dobry łotr: „wspomnij na mnie Panie!”. Nie jesteśmy na świecie tylko po to, aby sami się zbawić, nie, ale aby zaprowadzić naszych braci i siostry w objęcia Króla. Wstawianie się, pamiętanie o Panu, otwiera bramy nieba. Ale czy my, modląc się, wstawiamy się za innymi? „Pamiętaj Panie, pamiętaj o mnie, o mojej rodzinie, pamiętaj o tym problemie, pamiętaj, pamiętaj....” Przyciąganie uwagi Pana.
Bracia, siostry, dziś nasz Król spogląda na nas z krzyża a brasa aduerte. Do nas należy wybór, czy chcemy być widzami, czy zaangażowanymi. Czy jestem widzem, czy chcę być zaangażowany? Widzimy kryzysy współczesności, upadek wiary, brak uczestnictwa... Co robimy? Czy ograniczamy się jedynie do teoretyzowania, czy ograniczamy się do krytykowania, czy też zakasujemy rękawy, bierzemy życie w swoje ręce, przechodzimy od „jeśli”, od wymówek do „tak” modlitwy i posługi? Wszyscy myślimy, że wiemy, co jest złe w społeczeństwie, wszyscy, mówimy każdego dnia o tym, co jest złe świecie, także w Kościele; w Kościele jest wiele rzeczy niewłaściwych. Ale czy coś z tym robimy? Czy brudzimy sobie ręce jak nasz Bóg przybity do drzewa, czy stoimy z rękami w kieszeniach i patrzymy? Dziś, gdy Jezus, ogołocony na krzyżu, usuwa wszelką zasłonę przed Bogiem i niszczy wszelki fałszywy obraz Jego królewskości, spójrzmy na Niego, by znaleźć odwagę spojrzenia na samych siebie, by pójść drogami zaufania i wstawiennictwa, by stać się sługami, by królować wraz z Nim. „Wspomnij Panie, pamiętaj”: odmawiajmy tę modlitwę częściej. Dziękuję.
[01806-PL.02] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua araba
عظة قداسة البابا فرنسيس
في القدّاس الإلهيّ
في مناسبة عيد يسوع الملك
يوم الأحد 20 تـشرين الثّاني/نوفمبر 2022
كاتدرائيّه أستي - إيطاليا
لقد رأينا هذا الشّاب، إسطفانوس، الذي طلب أن يتلقّى رُتبة خادم الهيكل، خلال مسيرته نحو الكهنوت. علينا أن نصلّي من أجله، حتّى يتقدّم في دعوته ويكون أمينًا، وعلينا أيضًا أن نصلّي من أجل كنيسة أستي هذه، حتّى يرسل الرّبّ يسوع دعوات كهنوتيّة، لأنّه كما تَرَون، الأغلبيّة هُم مسنّين، مِثلِي: لهذا نحن بحاجة إلى كهنة شباب، مثل البعض الموجودين هنا، الذين هُم رائعين. لنصلِّ إلى الرّبّ يسوع أن يبارك هذه الأرض.
ومن هذه الأراضي غادر والدي ليهاجر إلى الأرجنتين. وفي هذه الأراضي، التي صارت عزيزة بفضل منتجات التّربة الجيّدة، وقبلّ كل شيء بفضل جهود الناس العفويّة، جئت أُعيد تذوق طعم الجذور. ولكن اليوم، مرّة أخرى، الإنجيل هو الذي يعيدنا إلى جذور الإيمان. إنّها في تربة الجُلجُثَة القاحلة، حيث زرع يسوع، وهو يموت، وأنبت الرّجاء: زَرع في قلب الأرض، ففَتَحَ لنا الطّريق إلى السّماء. بموته منحنا الحياة الأبدية. وبخشبة الصّليب حمل لنا ثمار الخلاص. لذلك لننظر إليه، لننظر إلى المصلوب.
على الصّليب جملة واحدة فقط: "هذا مَلِكُ اليَهود" (لوقا 23، 38). هذا هو اللقب: ملك. ولكن عندما ننظر إلى يسوع، ينقلب مفهومنا عن الملك. لنحاول أن نتخيّل ملكًا في ذهننا: سنفكّر في رجل قوي يجلس على عرش، تبدو عليه علامات العِزة، صولجان بين يديه وخواتم متلألئة في أصابعه، وينطق بكلمات مهيبة لرعاياه. هذه هي، تقريبًا، الصّورة التي لدينا في رؤوسنا. لكن إن نظرنا إلى يسوع، نجد العكس تمامًا. فهو ليس جالسًا على عرش مريح، بل هو معلّق على مشنقة. الإله الذي "حَطَّ الأَقوِياءَ عنِ العُروش" (لوقا 1، 52) صار خادمًا علّقه الأقوياء على الصّليب، زينته هي المسامير والأشواك فقط. معرّى من كلّ شيء، لكنّه غنيّ بالمحبّة. مِن عرش الصّليب لم يَعُدْ يُرشد الجموع بالكلام، ولم يَعُدْ يرفع يده ليعلّم، لكنّه يفعل أكثر من ذلك: لا يُشِيرْ بإصبع الاتهام إلى أحد، بل يفتح ذراعيه للجميع. هكذا أظهر ملكنا نفسه: بذراعَين مفتوحتَين.
إن عانقناه فقط، نحن نفهم: نفهم أنّ الله تنازل حتّى هذا الحد، حتّى تناقض الصّليب، ليعانقنا جميعًا، ليعانق كلّ ما كان بعيدًا عنه: ليعانق موتنا – هو عانقَ موتنا -، وآلامنا، وفقرنا، وضعفنا وبُؤسنا. وهو عانقَ كلّ ذلك. صار خادمًا حتى يشعر كلّ واحد منّا أنّه ابن: لقد دفع بخدمته ثمن بنوّتنا. وسمح لنفسه أن يتعرّض للإهانة والسّخريّة، حتّى لا يبقى أحدٌ منّا وحده في أيّة مذلة تصيبه. تركهم يعرّوه حتّى لا يشعر أحدٌ منّا أنّه معرّى من كرامته. وصعد على الصّليب، حتّى يكون الله حاضرًا في كلّ مصلوب في التاريخ. هذا هو ملكنا، ملك كلّ واحدٍ منّا، وملك الكون لأنّه عبر أبعد الحدود عن الإنسان، ودخل في مهاوي الكراهية السّوداء وفي مهاوي الخذلان السّوداء، ليُنير كلّ حياة وليعانق كلّ واقع. أيّها الإخوة والأخوات، هذا هو الملك الذي نحتفل به اليوم! ليس سهلًا أن نفهمه، لكنّه ملكنا. والسّؤال الذي يجب أن نطرحه على أنفسنا، هو: هل ملك الكون هذا هو ملك حياتي؟ هل أنا أؤمن به؟ كيف يمكن أن أحتفل به ربًّا لكلّ شيء إن لم يكُنْ أيضًا ربّ حياتي؟ وأنت الذي تبدأ اليوم مسيرتك نحو الكهنوت، لا تنسَ أنّه هو مَثَلُكَ، ولا تتعلّق بكلّ ما يزيدك من سمعة، لا. هذا هو مَثَلُكَ، وإذا لم تفكّر في أن تكون كاهنًا مثل هذا الملك، فمن الأفضل أن تتوقّف عند هذا الحد.
لذلك لنركّز عيوننا مرّة أخرى على يسوع المصلوب. كما ترى، إنّه لا ينظر إليك للحظة فقط، لا ينظر إليك نظرة عابرة كما نفعل نحن غالبًا معه، بل هو هناك دائمًا، بذراعَين مفتوحتَين، ليقول لك في الصّمت أنّه لا شيء فيك غريب عنه، فهو يريد أن يعانقك، وأن يقيمك من جديد وأن يخلّصك كما أنت، بتاريخك وبؤسك وخطاياك. أيّها الرّبّ يسوع، هل هذا صحيح؟ هل تحبّني هكذا مع بؤسي؟ ليفكّر كلّ واحدٍ في هذه اللحظة بفقره، وليقُل: ”هل أنت تحبّني بفقري الرّوحي هذا، وبمحدوديّاتي هذه؟“. وهو يبتسم ويجعلنا نفهم أنّه يحبّنا وأنّه بذل حياته من أجلنا. لنفكّر قليلاً في محدوديّاتنا، وفي الأمور الجيّدة أيضًا: هو يحبّنا كما نحن، كما نحن الآن. هو يريد أن يمنحك الفرصة لتملك في الحياة، إن استسلمت لحبّه الوديع الذي يعرضه عليك ولا يفرضه – محبّة الله لا تُفرض أبدًا -، لحبّه الذي يغفر لك دائمًا. أحيانًا نحن نتعب من أن نغفر للنّاس، فنرسم عليهم إشارة الصّليب، ونقوم بدفنهم اجتماعيًّا. بينما هو لا يتعب أبدًا من أن يغفر، أبدًا، ويوقفك دائمًا على قدميك، ويعيد لك دائمًا كرامتك. نَعَم، من أين يأتي الخلاص؟ يأتي بأن نسمح لأنفسنا بأن يحبّنا، لأنّنا بهذه الطريقة فقط يمكننا أن نتحرّر من عبوديّة ”الأنا“، ومن الخوف من أن نكون وحدنا، ومن التّفكير في أنّنا لا نستطيع القيام بذلك. أيّها الإخوة والأخوات، لنضع أنفسنا مرارًا أمام الصّليب، ولنتركه يحبّنا، لأنّ هاتَين الذراعَين المفتوحتَين تفتح لنا الفردوس أيضًا، كما حدث مع ”لص اليمين“. لنصغِ إلى هذه العبارة الموجّهة إلينا، وهي العبارة الوحيدة التي قالها يسوع اليوم من على الصّليب: "سَتكونُ اليَومَ مَعي في الفِردَوس" (لوقا 23، 43). هذا ما يريد الله وما يريد أن يقوله لنا، لنا كلّنا، في كلّ مرّة نسمح له بأن ينظر إلينا. ثمّ نفهم أنّه ليس لدينا إله مجهول موجود فوق في السّماء، إله قدير وبعيد، لا، بل لدينا إله قريب، والقُرب هو أسلوب الله: القُرب بحنان ورحمة. هذا هو أسلوب الله، وليس لديه أسلوب آخر. إنّه قريب ورحيم وحنون. حنون ورحيم، تلاطفنا وتعزينا ذراعَاه المفتوحتَان. هذا هو ملكنا!
أيّها الإخوة والأخوات، بعد أن نظرنا إليه، ماذا يمكننا أن نعمل؟ الإنجيل يقدّم لنا اليوم طريقَين. أمام يسوع هناك من يقوم بدور المتفرّج أو من يقوم بدور المُشارك. المتفرّجون كثيرون، وهم الأغلبيّة. هُم ينظرون، إنّه عرض مدهش أن نرى أحدًا يموت على الصّليب. في الواقع - قال النصّ - "وقَفَ الشَّعْبُ هُناكَ يَنظُر" (الآية 35). لم يكونوا أناسًا سيّئين، وكثيرون منهم كانوا مؤمنين، لكنّهم بَقُوا متفرّجين عندما رَأُوا المصلوب: لم يَخطُوا خطوة إلى الأمام نحو يسوع، بل نظروا إليه من بعيد، مُستغربين وغير مُبالين، ومن دون أن يهتمّوا حقًّا، ومن دون أن يسألوا أنفسهم ماذا يمكنهم أن يفعلوا. قد يكونون علّقوا على الحدث، قائلين: ”انظر إلى هذا...“، وعبّروا عن أحكامهم وآرائهم، قائلين: ”إنّه بريء، انظر إلى هذا...“، وقد يكون أحدٌ منهم تذمّر أو شكا، لكن كلّهم بَقُوا واقفين ينظرون مكتوفي الأيدي. وبالقرب من الصّليب أيضًا هناك متفرّجون: قادة الشّعب، الذين أرادوا أن يشاهدوا العرض المروّع لنهاية المسيح المهزوم، والجنود الذين كانوا يأملون أن تنتهي عمليّة الصّلب بسرعة، لكي يذهبوا إلى بيوتهم، وأَحَد المجرمَين الذي أفرغ غضبه على يسوع. هَزِؤا به وأهانوه وأشبعوا سخطهم.
وكلّ هؤلاء المتفرّجين يكررِّون في ما بينهم "لازمة"، كرّرها النصّ ثلاث مرّات: "إِن كُنتَ مَلِكَ اليَهود فخَلِّصْ نَفْسَكَ" (راجع الآيات 35. 37. 39). أهانوه بهذه الطّريقة وتحدّوه! خَلِّصْ نَفْسَكَ، وهو عكس ما فعله يسوع تمامًا، الذي لم يفكّر في نفسه، بل في أن يخلّصهم، هُم الذين أهانوه. لكن عبارة خَلِّصْ نَفْسَكَ مُعدية: من القادة إلى الجنود وإلى النّاس، وصلت موجة الشّرّ إلى الجميع تقريبًا. لنفكّر أنّ الشّرّ معدٍ، وهو يعدينا: مثلما يحدث عندما نصاب بمرضٍ معدٍ، فهو يُعدينا مباشرة. وهؤلاء النّاس كانوا يتكلّمون على يسوع، لكنّهم لا يشعرون معه ولا حتّى لحظة واحدة. كانوا يأخذون مسافة منه ويتكلّمون. إنّها عدوى اللامبالاة القاتلة. اللامبالاة مرض سيّء. قد يقول قائلٌ: ”هذا الأمر لا يعنيني، لا يعنيني“. اللامبالاة تجاه يسوع واللامبالاة أيضًا تجاه المرضى، والفقراء، ومساكين الأرض. أُحبُّ أن أسأل النّاس، وأن أسأل كلّ واحدٍ منكم، وأعلم أنّ كلّ واحدٍ منكم يعطي صدقة للفقراء، وأنا أسألكم: ”عندما تعطي الصّدقة إلى الفقراء، هل تنظر في أعينهم؟ هل أنت قادر على أن تنظر في عَينَي ذلك الفقير أو تلك الفقيرة الذي يطلب منك الصّدقة؟ عندما تعطي الصّدقة إلى الفقراء، هل ترمي لهم النّقود أم تلمس أيديهم؟ هل أنت قادر على أن تلمس البؤس الإنساني؟“. ثمّ، لِيُعطِ كلّ واحدٍ الجواب لنفسه اليوم. هؤلاء النّاس كانوا في اللامبالاة. هؤلاء النّاس كانوا يتكلّمون على يسوع، لكنّهم لا يشعرون مع يسوع. وهذه هي عدوى اللامبالاة القاتلة: التي تخلق المسافات مع البؤس. موجة الشّرّ تنتشر دائمًا على هذا النحو: تبدأ بالابتعاد، ثمّ ننظر دون أن نفعل أيّ شيء، ثمّ عدم الاهتمام، ثمّ نفكّر فقط في ما يهمّنا، ونتعوّد أن نَلتَفِت إلى الجانب الآخر. إنّه خطر على إيماننا أيضًا، الذي قد يذبل إن بقي نظريّة ولم يصبح ممارسة، وإن لم يكن هناك إشراك للآخرين، وإن لم نبذل أنفسنا أوّلًا، وإن لم نلتزم. وهكذا نصير مسيحيّين بطعم ماء الورد – مثلما سمعته يُقال في بلدي -، يقولون إنّهم يؤمنون بالله ويريدون السّلام، لكنّهم لا يصلّون ولا يهتمّون بالقريب، وأيضًا، لا يهمّهم الله، ولا السّلام. هؤلاء هم مسيحيّون بالكلام فقط، وهم سطحيّون!
هذه كانت الموجة السيّئة، التي كانت هناك في الجُلجُثَة. هناك أيضًا موجة الخير الصّالحة. من بين المتفرّجين الكثيرين، واحدٌ اشترك، هو، ”لصّ اليمين“. ضَحِكَ الآخرون على الرّبّ يسوع، بينما هو كلّمه ودعاه باسمه: ”يسوع“. ألقى الكثيرون غضبهم على يسوع، أمّا هو فاعترف بأخطائه إلى المسيح. قال له الكثيرون ”خَلِّصْ نَفْسَكَ“، أمّا هو فصلّى قائلًا: "أُذكُرْني يا يسوع" (الآية 42). طلب هذا فقط من الرّبّ يسوع. إنّها صلاة جميلة. إن ردّدها كلّ واحدٍ منّا، كلّ يوم، ستكون طريقًا جيّدًا: طريقًا إلى القداسة: ”أُذكُرْني يا يسوع“. وهكذا أصبح المجرم أوّل قدّيس: اقترب من يسوع للحظة، فأبقاه الرّبّ يسوع معه إلى الأبد. الآن يتكلّم الإنجيل على لصّ اليمين، لكي يدعونا لأن نتغلّب على الشّرّ ونتوقّف عن أن نبقى متفرّجين. من فضلكم، اللامبالاة هي أسوأ من أن نعمل الشّرّ. من أين نبدأ؟ من الثّقة، ولننادِ الله باسمه، كما فعل لصّ اليمين، الذي وجد من جديد في نهاية حياته، ثقة الأطفال الشّجاعة، الذين يثقون ويسألون ويُصرّون. وبثقة اعترف بأخطائه، وبكى، لا على نفسه، بل أمام الرّبّ يسوع. ونحن، هل لدينا هذه الثّقة، وهل نقدّم ليسوع ما في داخلنا، أم نضع القناع أمام الله، ربّما بقليلٍ من التعبد والبخّور؟ من فضلكم، لا نعمل روحانيّة التنكّر: إنّها مُملّة. أمام الله: علينا أن نستخدم الماء والصّابون، فقط، من دون تنكّر، بل النّفس هكذا كما هي. ومن هناك يأتي الخلاص. مَن تعلّم الثّقة، مثل لصّ اليمين، تعلّم الشّفاعة، وتعلّم أن يقدّم لله ما يراه، وآلام العالم، والأشخاص الذين يقابلهم، وقال مثل لص اليمين: ”اذكرني يا ربّ!“. نحن لسنا في هذا العالم لنخلّص أنفسنا فقط، لا، بل لنحمل الإخوة والأخوات إلى عناق الملك. لنتشفّع، ولنذكّر الرّبّ يسوع بأن يفتح أبواب الفردوس. لكن نحن، عندما نصلّي، هل نتشفّع؟ ونقول: ”أيّها الرّبّ يسوع، اذكرني، واذكر عائلتي، واذكر هذه المشكلة، واذكر، واذكر...“ ونُلفت انتباه الرّبّ يسوع.
أيّها الإخوة والأخوات، اليوم ملكنا من على الصّليب ينظر إلينا بذراعَين مفتوحتَين. علينا نحن أن نختار أن نكون إمّا متفرّجين أو مشاركين. هل أنا متفرّج، أم أريد أن أكون مُشاركًا؟ نحن نرى أزمات اليوم، وتدهور الإيمان، وقلّة المشاركة... ماذا نفعل؟ هل نكتفي بأن نُطلق النظريّات، والانتقادات، أم نشمّر عن سواعدنا، ونأخذ حياتنا وقدرنا بيدنا، وننتقل من ”لو“ ومن الاعتذارات إلى قول ”نَعم“ وإلى الصّلاة والخدمة؟ كلّنا نفكّر أنّنا نعرف ما هو الأمر الذي لا يسير على ما يرام في المجتمع، كلّنا، ونتكلّم كلّ يوم على ما الذي لا يسير على ما يرام في العالم، وفي الكنيسة أيضًا: أمورٌ كثيرة لا تسير على ما يرام في الكنيسة. ولكن، بعد ذلك، هل نفعل شيئًا؟ هل نوسّخ أيدينا مثل إلهنا الذي سُمِّرَ على الخشبة، أم نقف وننظر وأيدينا في جيوبنا؟ اليوم، بينما يسوع، عاريًا على الصّليب، يزيل كلّ حجاب عن الله ويدمّر كلّ صورة زائفة عن ملوكيّته، لننظر إليه، حتّى نجد الشّجاعة لكي ننظر إلى أنفسنا، ولكي نسير في طُرُقِ الثّقة والشّفاعة، ونصير خدّامًا لكي نملك معه. لنقُل هذه الصّلاة مرارًا: ”اذكرني يا ربّ، اذكرني!“. شكرًا.
[01806-AR.02] [Testo originale: Italiano]
Angelus
Al termine di questa Celebrazione desidero esprimere la mia riconoscenza alla Diocesi, alla Provincia e alla Città di Asti: grazie per l’accoglienza calorosa che mi avete riservato! Sono tanto grato alle Autorità civili e religiose anche per i preparativi che hanno reso possibile questa desiderata visita. A tutti voi vorrei dire che a la fame propri piasi’ encuntreve! [mi ha fatto piacere incontrarvi]; e augurarvi: ch’a staga bin! [state bene!]
Un pensiero e un abbraccio speciale vorrei rivolgere ai giovani – grazie di essere venuti così numerosi –. Dallo scorso anno, proprio nella Solennità di Cristo Re si celebra nelle Chiese particolari la Giornata Mondiale della Gioventù. Il tema, lo stesso della prossima GMG di Lisbona, a cui rinnovo l’invito a partecipare, è «Maria si alzò e andò in fretta» (Lc 1,39). La Madonna fece questo quand’era giovane, e ci dice che il segreto per rimanere giovani sta proprio in quei due verbi, alzarsi e andare. A me piace pensare alla Madonna che andò in fretta, andò proprio di fretta, andò in fretta e tante volte io la prego, la Madonna: “Ma, affrettati a risolvere questo problema!”. Alzarsi e andare: non restare fermi a pensare a sé stessi, sprecando la vita a inseguire le comodità o l’ultima moda, ma puntare verso l’Alto, mettersi in cammino, uscire dalle proprie paure per tendere la mano a chi ha bisogno. E oggi ci vogliono giovani veramente “trasgressivi”, non conformisti, che non siano schiavi di un cellulare, ma cambino il mondo come Maria, portando Gesù agli altri, prendendosi cura degli altri, costruendo comunità fraterne con gli altri, realizzando sogni di pace!
Il nostro tempo sta vivendo una carestia di pace: stiamo vivendo una carestia di pace. Pensiamo a tanti luoghi del mondo flagellati dalla guerra, in particolare alla martoriata Ucraina. Diamoci da fare e continuiamo a pregare per la pace! Preghiamo anche per le famiglie delle vittime del grave incendio avvenuto nei giorni scorsi in un campo di rifugiati a Gaza, in Palestina, dove sono morti anche diversi bambini. Il Signore accolga in cielo quanti hanno perso la vita e consoli quella popolazione così provata da anni di conflitto. E invochiamo ora la Regina della pace, la Madonna, a cui è dedicata questa bella Cattedrale. A lei affido le nostre famiglie, i malati e ciascuno di voi, con le preoccupazioni e le buone intenzioni che portate nel cuore.
[01807-IT.02] [Testo originale: Italiano]
[B0865-XX.02]