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Viaggio Apostolico di Sua Santità Francesco in Kazakhstan – Preghiera in silenzio dei Leader religiosi, apertura e Sessione Plenaria del “VII Congress of Leaders of World and Traditional Religions”, 14.09.2022


Preghiera in silenzio dei Leader religiosi, apertura e Sessione Plenaria del “VII Congress of Leaders of World and Traditional Religions”

Discorso del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Traduzione in lingua araba

Traduzione in lingua russa

 Questa mattina, il Santo Padre Francesco ha lasciato la Nunziatura Apostolica e si è trasferito in auto al Palazzo dell’Indipendenza, dove – alle ore 10.00 (6.00 ora di Roma) - presso la Sala delle Conferenze ha avuto luogo la Preghiera in silenzio dei Leader religiosi.

Conclusa la preghiera ha avuto inizio il “VII Congress of Leaders of World and Traditional Religions” e si è tenuta la Sessione Plenaria.

Dopo l’intervento del Presidente della Repubblica del Kazakhstan, S.E. il Sig. Kassym-Jomart K. Tokayev, il Papa ha pronunciato il Suo discorso.

Al termine, il Santo Padre, insieme agli altri Leader, si è recato nell’atrio del Palazzo dell’Indipendenza. Dopo la foto di gruppo, Papa Francesco ha incontrato, in forma privata, alcuni Leader religiosi: Sig. Maulen Sagathanuly Ashimbayev, Presidente del Senato del Parlamento del Kazakhstan e Segretario Permanente del Segretariato del Congresso dei Leader delle Religioni Mondiali e Tradizionali; Ahmad Muhammad Almad al-Tayyeb, Grande Imam di Al-Azhar; Nauryzbay Kazhy Taganuly, Gran Mufti del Kazakhstan, Capo dell’Amministrazione Spirituale dei musulmani del Kazakhstan; David Baruch Lau, Rabbino Capo Ashkenazita d’Israele, e Yitzhak Yosef, Rabbino Capo Sefardita d’Israele; Arcivescovo Urmas Viilma, Capo della Delegazione della Federazione Luterana Mondiale (FLM) e Vice Presidente della FLM, Capo della Chiesa Evangelica Luterana in Estonia; Prof.ssa Azza Karam, Segreteria Generale, Religions for Peace; Mufti Sheikh Ravil Gaynutdin, Presidente del Consiglio Religioso dei Musulmani della Federazione Russa; Sua Beatitudine Teofilo III, Patriarca Ortodosso di Gerusalemme; Metropolita Antonij di Volokolamsk, Presidente del Dipartimento per le relazioni ecclesiastiche esterne del Patriarcato di Mosca e S.E. Miguel Ángel Moratinos, Alto Rappresentante del Segretario Generale dell’ONU per l’alleanza delle Civiltà.

Quindi il Papa si è congedato dai presenti ed è rientrato in auto alla Nunziatura Apostolica.

Pubblichiamo di seguito il discorso che il Santo Padre ha pronunciato all’apertura del Congresso dei Leader delle Religioni Mondiali e Tradizionali nel corso della Sessione Plenaria:

Discorso del Santo Padre

Fratelli e sorelle!

Permettetemi di rivolgermi a voi con queste parole dirette e familiari: fratelli e sorelle. Così desidero salutarvi, Capi religiosi e Autorità, membri del Corpo diplomatico e delle Organizzazioni internazionali, Rappresentanti di istituzioni accademiche e culturali, della società civile e di varie organizzazioni non governative, in nome di quella fratellanza che tutti ci unisce, in quanto figli e figlie dello stesso Cielo.

Di fronte al mistero dell’infinito che ci sovrasta e ci attira, le religioni ci ricordano che siamo creature: non siamo onnipotenti, ma donne e uomini in cammino verso la medesima meta celeste. La creaturalità che condividiamo instaura così una comunanza, una reale fraternità. Ci rammenta che il senso della vita non può ridursi ai nostri interessi personali, ma si inscrive nella fratellanza che ci contraddistingue. Cresciamo solo con gli altri e grazie agli altri. Cari Leader e Rappresentanti delle religioni mondiali e tradizionali, ci troviamo in una terra percorsa nei secoli da grandi carovane: in questi luoghi, anche attraverso l’antica via della seta, si sono intrecciate tante storie, idee, fedi e speranze. Possa il Kazakhstan essere ancora una volta terra d’incontro tra chi è distante. Possa aprire una nuova via di incontro, incentrata sui rapporti umani: sul rispetto, sull’onestà del dialogo, sul valore imprescindibile di ciascuno, sulla collaborazione; una via fraterna per camminare insieme verso la pace.

Ieri ho preso in prestito l’immagine della dombra; oggi allo strumento musicale vorrei associare una voce, quella del poeta più celebre del Paese, padre della sua moderna letteratura, l’educatore e compositore spesso raffigurato proprio insieme alla dombra. Abai (1845-1904), come popolarmente è chiamato, ci ha lasciato scritti impregnati di religiosità, nei quali traspare la migliore anima di questo popolo: una saggezza armoniosa, che desidera la pace e la ricerca interrogandosi con umiltà, anelando a una sapienza degna dell’uomo, mai chiusa in visioni ristrette e anguste, ma disposta a lasciarsi ispirare da molteplici esperienze. Abai ci provoca con un interrogativo intramontabile: «Qual è la bellezza della vita, se non si va in profondità?» (Poesia, 1898). Un altro poeta si chiedeva il senso dell’esistenza, mettendo sulle labbra di un pastore di queste sconfinate terre d’Asia una domanda altrettanto essenziale: «Ove tende questo vagar mio breve?» (G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia). Sono interrogativi come questi a suscitare il bisogno della religione, a ricordarci che noi esseri umani non esistiamo tanto per soddisfare interessi terreni e per tessere relazioni di sola natura economica, quanto per camminare insieme, come viandanti con lo sguardo rivolto al Cielo. Abbiamo bisogno di trovare un senso alle domande ultime, di coltivare la spiritualità; abbiamo bisogno, diceva Abai, di mantenere «desta l’anima e limpida la mente» (Parola 6).

Fratelli e sorelle, il mondo attende da noi l’esempio di anime deste e di menti limpide, attende religiosità autentica. È venuta l’ora di destarsi da quel fondamentalismo che inquina e corrode ogni credo, l’ora di rendere limpido e compassionevole il cuore. Ma è anche l’ora di lasciare solo ai libri di storia i discorsi che per troppo tempo, qui e altrove, hanno inculcato sospetto e disprezzo nei riguardi della religione, quasi fosse un fattore di destabilizzazione della società moderna. In questi luoghi è ben nota l’eredità dell’ateismo di Stato, imposto per decenni, quella mentalità opprimente e soffocante per la quale il solo uso della parola “religione” creava imbarazzo. In realtà, le religioni non sono problemi, ma parte della soluzione per una convivenza più armoniosa. La ricerca della trascendenza e il sacro valore della fraternità possono infatti ispirare e illuminare le scelte da prendere nel contesto delle crisi geopolitiche, sociali, economiche, ecologiche ma, alla radice, spirituali che attraversano molte istituzioni odierne, anche le democrazie, mettendo a repentaglio la sicurezza e la concordia tra i popoli. Abbiamo dunque bisogno di religione per rispondere alla sete di pace del mondo e alla sete di infinito che abita il cuore di ogni uomo.

Per questo, condizione essenziale per uno sviluppo davvero umano e integrale è la libertà religiosa. Fratelli, sorelle, siamo creature libere. Il nostro Creatore si è “fatto da parte per noi”, ha, per così dire, “limitato” la sua libertà assoluta per fare anche di noi delle creature libere. Come possiamo allora costringere dei fratelli in nome suo? «Mentre crediamo e adoriamo – insegnava Abai –, non dobbiamo dire che possiamo costringere gli altri a credere e adorare» (Parola 45). La libertà religiosa è un diritto fondamentale, primario e inalienabile, che occorre promuovere ovunque e che non può limitarsi alla sola libertà di culto. È infatti diritto di ogni persona rendere pubblica testimonianza al proprio credo: proporlo senza mai imporlo. È la buona pratica dell’annuncio, differente dal proselitismo e dall’indottrinamento, da cui tutti sono chiamati a tenersi distanti. Relegare alla sfera del privato il credo più importante della vita priverebbe la società di una ricchezza immensa; favorire, al contrario, contesti dove si respira una rispettosa convivenza delle diversità religiose, etniche e culturali è il modo migliore per valorizzare i tratti specifici di ciascuno, di unire gli esseri umani senza uniformarli, di promuoverne le aspirazioni più alte senza tarparne lo slancio.

Ecco dunque, accanto al valore immortale della religione, quello attuale, che il Kazakhstan mirabilmente promuove, ospitando da un ventennio questo Congresso di rilevanza mondiale. La presente edizione ci porta a riflettere sul nostro ruolo nello sviluppo spirituale e sociale dell’umanità durante il periodo post-pandemico.

La pandemia, tra vulnerabilità e cura, rappresenta la prima di quattro sfide globali che vorrei delineare e che richiamano tutti – ma in modo speciale le religioni – a una maggiore unità d’intenti. Il Covid-19 ci ha messo tutti sullo stesso piano. Ci ha fatto capire che, come diceva Abai, «non siamo demiurghi, ma mortali» (ibid.): tutti ci siamo sentiti fragili, tutti bisognosi di assistenza; nessuno pienamente autonomo, nessuno completamente autosufficiente. Ora, però, non possiamo dilapidare il bisogno di solidarietà che abbiamo avvertito andando avanti come se nulla fosse successo, senza lasciarci interpellare dall’esigenza di affrontare insieme le urgenze che riguardano tutti. A ciò le religioni non devono essere indifferenti: sono chiamate a stare in prima linea, ad essere promotrici di unità di fronte a prove che rischiano di dividere ancora di più la famiglia umana.

Nello specifico, sta a noi, che crediamo nel Divino, aiutare i fratelli e le sorelle della nostra epoca a non dimenticare la vulnerabilità che ci caratterizza: a non cadere in false presunzioni di onnipotenza suscitate da progressi tecnici ed economici, che da soli non bastano; a non farsi imbrigliare nei lacci del profitto e del guadagno, quasi fossero i rimedi a tutti i mali; a non assecondare uno sviluppo insostenibile che non rispetti i limiti imposti dal creato; a non lasciarsi anestetizzare dal consumismo che stordisce, perché i beni sono per l’uomo e non l’uomo per i beni. Insomma, la nostra comune vulnerabilità, emersa durante la pandemia, dovrebbe stimolarci a non andare avanti come prima, ma con più umiltà e lungimiranza.

Oltre a sensibilizzare sulla nostra fragilità e responsabilità, i credenti nel post-pandemia sono chiamati alla cura: a prendersi cura dell’umanità in tutte le sue dimensioni, diventando artigiani di comunione – ripeto la parola: artigiani di comunione –, testimoni di una collaborazione che superi gli steccati delle proprie appartenenze comunitarie, etniche, nazionali e religiose. Ma come intraprendere una missione così ardua? Da dove iniziare? Dall’ascolto dei più deboli, dal dare voce ai più fragili, dal farsi eco di una solidarietà globale che in primo luogo riguardi loro, i poveri, i bisognosi che più hanno sofferto la pandemia, la quale ha fatto prepotentemente emergere l’iniquità delle disuguaglianze planetarie. Quanti, oggi ancora, non hanno facile accesso ai vaccini, quanti! Stiamo dalla loro parte, non dalla parte di chi ha di più e dà di meno; diventiamo coscienze profetiche e coraggiose, facciamoci prossimi a tutti ma specialmente ai troppi dimenticati di oggi, agli emarginati, alle fasce più deboli e povere della società, a coloro che soffrono di nascosto e in silenzio, lontano dai riflettori. Quanto vi propongo non è solo una via per essere più sensibili e solidali, ma un percorso di guarigione per le nostre società. Sì, perché è proprio l’indigenza a permettere il dilagare di epidemie e di altri grandi mali che prosperano sui terreni del disagio e delle disuguaglianze. Il maggior fattore di rischio dei nostri tempi permane la povertà. A tale proposito Abai saggiamente si domandava: «Possono quanti hanno fame custodire una mente limpida […] e mostrare diligenza nell’apprendere? Povertà e liti […] generano […] violenza e avidità» (Parola 25). Fino a quando continueranno a imperversare disparità e ingiustizie, non potranno cessare virus peggiori del Covid: quelli dell’odio, della violenza, del terrorismo.

E questo ci porta alla seconda sfida planetaria che interpella in modo particolare i credenti: la sfida della pace. Negli ultimi decenni il dialogo tra i responsabili delle religioni ha riguardato soprattutto questa tematica. Eppure, vediamo i nostri giorni ancora segnati dalla piaga della guerra, da un clima di esasperati confronti, dall’incapacità di fare un passo indietro e tendere la mano all’altro. Occorre un sussulto e occorre, fratelli e sorelle, che venga da noi. Se il Creatore, a cui dedichiamo l’esistenza, ha dato origine alla vita umana, come possiamo noi, che ci professiamo credenti, acconsentire che essa venga distrutta? E come possiamo pensare che gli uomini del nostro tempo, molti dei quali vivono come se Dio non esistesse, siano motivati a impegnarsi in un dialogo rispettoso e responsabile se le grandi religioni, che costituiscono l’anima di tante culture e tradizioni, non si impegnano attivamente per la pace?

Memori degli orrori e degli errori del passato, uniamo gli sforzi, affinché mai più l’Onnipotente diventi ostaggio della volontà di potenza umana. Abai rammenta che “colui che permette il male e non si oppone al male non può essere considerato un vero credente ma, nel migliore dei casi, un credente tiepido” (cfr Parola 38). Fratelli e sorelle, è necessaria, per tutti e per ciascuno, una purificazione dal male. Il grande poeta kazako insisteva su questo aspetto, scrivendo che chi «abbandona l’apprendimento si priva di una benedizione» e «chi non è severo con sé stesso e non è capace di compassione non può essere considerato credente» (Parola 12). Fratelli e sorelle, purifichiamoci, dunque, dalla presunzione di sentirci giusti e di non avere nulla da imparare dagli altri; liberiamoci da quelle concezioni riduttive e rovinose che offendono il nome di Dio attraverso rigidità, estremismi e fondamentalismi, e lo profanano mediante l’odio, il fanatismo e il terrorismo, sfigurando anche l’immagine dell’uomo. Sì, perché «la fonte dell’umanità – ricorda Abai – è amore e giustizia, […] sono esse le corone della creazione divina» (Parola 45). Non giustifichiamo mai la violenza. Non permettiamo che il sacro venga strumentalizzato da ciò che è profano. Il sacro non sia puntello del potere e il potere non si puntelli di sacralità!

Dio è pace e conduce sempre alla pace, mai alla guerra. Impegniamoci dunque, ancora di più, a promuovere e rafforzare la necessità che i conflitti si risolvano non con le inconcludenti ragioni della forza, con le armi e le minacce, ma con gli unici mezzi benedetti dal Cielo e degni dell’uomo: l’incontro, il dialogo, le trattative pazienti, che si portano avanti pensando in particolare ai bambini e alle giovani generazioni. Esse incarnano la speranza che la pace non sia il fragile risultato di affannosi negoziati, ma il frutto di un impegno educativo costante, che promuova i loro sogni di sviluppo e di futuro. Abai, in tal senso, incoraggiava a espandere il sapere, a valicare il confine della propria cultura, ad abbracciare la conoscenza, la storia e la letteratura degli altri. Investiamo, vi prego, in questo: non negli armamenti, ma nell’istruzione!

Dopo quelle della pandemia e della pace, raccogliamo una terza sfida, quella dell’accoglienza fraterna. Oggi è grande la fatica di accettare l’essere umano. Ogni giorno nascituri e bambini, migranti e anziani vengono scartati. C’è una cultura dello scarto. Tanti fratelli e sorelle muoiono sacrificati sull’altare del profitto, avvolti dall’incenso sacrilego dell’indifferenza. Eppure ogni essere umano è sacro. «Homo sacra res homini», dicevano gli antichi (Seneca, Epistulae morales ad Lucilium, 95,33): è compito anzitutto nostro, delle religioni, ricordarlo al mondo! Mai come ora assistiamo a grandi spostamenti di popolazioni, causati da guerre, povertà, cambiamenti climatici, dalla ricerca di un benessere che il mondo globalizzato permette di conoscere, ma a cui è spesso difficile accedere. Un grande esodo è in corso: dalle aree più disagiate si cerca di raggiungere quelle più benestanti. Lo vediamo tutti i giorni, nelle diverse migrazioni nel mondo. Non è un dato di cronaca, è un fatto storico che richiede soluzioni condivise e lungimiranti. Certo, viene istintivo difendere le proprie sicurezze acquisite e chiudere le porte per paura; è più facile sospettare dello straniero, accusarlo e condannarlo piuttosto che conoscerlo e capirlo. Ma è nostro dovere ricordare che il Creatore, il quale veglia sui passi di ogni creatura, ci esorta ad avere uno sguardo simile al suo, uno sguardo che riconosca il volto del fratello. Il fratello migrante bisogna riceverlo, accompagnarlo, promuoverlo e integrarlo.

La lingua kazaka invita a questo sguardo accogliente: in essa “amare” letteralmente significa “avere uno sguardo buono su qualcuno”. Ma anche la cultura tradizionale di queste regioni afferma la medesima cosa attraverso un bel proverbio popolare: «Se incontri qualcuno, cerca di renderlo felice, forse è l’ultima volta che lo vedi». Se il culto dell’ospitalità della steppa ricorda il valore insopprimibile di ogni essere umano, Abai lo sancisce dicendo che «l’uomo dev’essere amico dell’uomo» e che tale amicizia si fonda su una condivisione universale, perché le realtà importanti della vita e dopo la vita sono comuni. E dunque, sentenzia, «tutte le persone sono ospiti l’una dell’altra» e «l’uomo stesso è un ospite in questa vita» (Parola 34). Riscopriamo l’arte dell’ospitalità, dell’accoglienza, della compassione. E impariamo pure a vergognarci: sì, a provare quella sana vergogna che nasce dalla pietà per l’uomo che soffre, dalla commozione e dallo stupore per la sua condizione, per il suo destino di cui sentirsi partecipi. È la via della compassione, che rende più umani e più credenti. Sta a noi, oltre che affermare la dignità inviolabile di ogni uomo, insegnare a piangere per gli altri, perché solo se avvertiremo come nostre le fatiche dell’umanità saremo veramente umani.

Un’ultima sfida globale ci interpella: la custodia della casa comune. Di fronte agli stravolgimenti climatici occorre proteggerla, perché non sia assoggettata alle logiche del guadagno, ma preservata per le generazioni future, a lode del Creatore. Scriveva Abai: «Che mondo meraviglioso ci ha dato il Creatore! Egli ci ha donato la sua luce con magnanimità e generosità. Quando la madre-terra ci ha nutriti al suo seno, il nostro Padre celeste con premura si è inclinato su di noi» (dalla poesia “Primavera”). Con cura amorevole l’Altissimo ha disposto una casa comune per la vita: e noi, che ci professiamo suoi, come possiamo permettere che venga inquinata, maltrattata e distrutta? Uniamo gli sforzi anche in questa sfida. Non è l’ultima per importanza. Essa, infatti, si ricollega alla prima, a quella pandemica. Virus come il Covid-19, che, pur microscopici, sono in grado di sgretolare le grandi ambizioni del progresso, spesso sono legati a un equilibrio deteriorato, in gran parte per causa nostra, con la natura che ci circonda. Pensiamo ad esempio alla deforestazione, al commercio illegale di animali vivi, agli allevamenti intensivi… È la mentalità dello sfruttamento a devastare la casa che abitiamo. Non solo: essa porta a eclissare quella visione rispettosa e religiosa del mondo voluta dal Creatore. Perciò è imprescindibile favorire e promuovere la custodia della vita in ogni sua forma.

Cari fratelli e sorelle, andiamo avanti insieme, perché il cammino delle religioni sia sempre più amichevole. Abai diceva che «un falso amico è come un’ombra: quando il sole splende su di te, non ti libererai di lui, ma quando le nuvole si addensano su di te, non si vedrà da nessuna parte» (Parola 37). Non ci capiti questo: l’Altissimo ci liberi dalle ombre del sospetto e della falsità; ci conceda di coltivare amicizie solari e fraterne, attraverso il dialogo frequente e la luminosa sincerità delle intenzioni. E vorrei ringraziare qui per lo sforzo del Kazakhstan su questo punto: cercare sempre di unire, cercare sempre di provocare il dialogo, cercare sempre di fare amicizia. Questo è un esempio che il Kazakhstan dà a tutti noi e dobbiamo seguirlo, assecondarlo. Non cerchiamo finti sincretismi concilianti – non servono –, ma custodiamo le nostre identità aperti al coraggio dell’alterità, all’incontro fraterno. Solo così, su questa strada, nei tempi bui che viviamo, potremo irradiare la luce del nostro Creatore. Grazie a tutti voi!

[01366-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Frères et sœurs!

Permettez-moi de m’adresser à vous avec ces paroles directes et familières: frères et sœurs. Je souhaite vous saluer, Chefs religieux et Autorités, membres du Corps diplomatique et des Organisations internationales, Représentants des institutions académiques et culturelles, de la société civile et de diverses organisations non gouvernementales, au nom de cette fraternité qui nous unit tous, en tant fils et filles du même Ciel.

Face au mystère de l’infini qui nous domine et qui nous attire, les religions nous rappellent que nous sommes des créatures: nous ne sommes pas tout-puissants, mais des femmes et des hommes en marche vers le même but céleste. Le fait d’être créature que nous partageons instaure une communauté, une fraternité réelle. Il nous rappelle que le sens de la vie ne peut se réduire à nos intérêts personnels, mais s’inscrit dans la fraternité qui nous caractérise. Nous grandissons seulement avec les autres et grâce aux autres. Chers Leaders et Représentants des religions mondiales et traditionnelles, nous nous trouvons sur une terre parcourue depuis des siècles par de grandes caravanes. En ces lieux, déjà à travers l’ancienne route de la soie, beaucoup d’histoires, d’idées, de croyances et d’espérances se sont entremêlées. Puisse le Kazakhstan être encore une fois terre de rencontre entre ceux qui sont loin. Puisse-t-il ouvrir une nouvelle route de rencontre, centrée sur les relations humaines: sur le respect, sur l’honnêteté du dialogue, sur la valeur essentielle de chacun, sur la collaboration; une voie fraternelle pour marcher ensemble vers la paix.

Hier j’ai emprunté l’image de la dombra. Aujourd’hui à l’instrument musical je voudrais associer une voix, celle du poète le plus célèbre du pays, père de sa littérature moderne, l’éducateur et le compositeur souvent représenté avec une dombra. Abai (1845-1904), comme on l’appelle familièrement, nous a laissé des écrits imprégnés de religiosité, dans lesquels transparaît l’âme meilleure de ce peuple: une sagesse harmonieuse, qui désire la paix et la recherche en s’interrogeant avec humilité, en aspirant à une sagesse digne de l’homme, jamais enfermée dans des visions étroites et exiguës, mais disposée à se laisser inspirer par de multiples expériences. Abai nous provoque avec une question perpétuelle: «Quelle est la beauté de la vie, si l’on ne va pas en profondeur?» (Poésie, 1898). Un autre poète se demandait le sens de l’existence, en mettant sur les lèvres d’un pasteur de ces terres infinies d’Asie une question tout aussi essentielle: «Où tend mon errance éphémère?» (G. Leopardi, Chant nocturne d’un Berger nomade de l’Asie). Ce sont des questions comme celles-ci qui suscitent le besoin de la religion, qui nous rappellent que nous, êtres humains, nous n’existons pas tant pour satisfaire des intérêts terrestres et pour tisser des relations de seule nature économique, que pour marcher ensemble, comme des voyageurs le regard tourné vers le Ciel. Nous devons trouver un sens aux questions ultimes, cultiver la spiritualité; nous devons maintenir «l’âme éveillée et l’esprit lucide» disait Abai (Parole 6).

Frères et sœurs, le monde attend de nous l’exemple d’âmes éveillées et d’esprits lucides, il attend une religiosité authentique. L’heure est venue de se réveiller de ce fondamentalisme qui pollue et corrode toutes les croyances, l’heure de rendre le cœur limpide et compatissant. Mais il est également temps de laisser seuls aux livres d’histoire les discours qui, trop longtemps, ici et ailleurs, ont inculqué suspicion et mépris à l’égard de la religion, comme s’il s’agissait d’un facteur de déstabilisation de la société moderne. En ces lieux, l’héritage de l’athéisme d’État, imposé pendant des décennies, est bien connu, cette mentalité oppressante et étouffante selon laquelle le seul usage du mot “religion ”créait de l’embarras. En réalité, les religions ne sont pas des problèmes, mais une partie de la solution pour une coexistence plus harmonieuse. La recherche de la transcendance et la valeur sacrée de la fraternité peuvent en effet inspirer et éclairer les choix à prendre dans le contexte des crises géopolitiques, sociales, économiques, écologiques mais, à la racine, spirituelles, qui traversent de nombreuses institutions d’aujourd’hui, même les démocraties, en mettant en péril la sécurité et la concorde entre les peuples. Nous avons donc besoin de religion pour répondre à la soif de paix du monde et à la soif d’infini qui habite le cœur de chaque homme.

C’est pourquoi la liberté religieuse est une condition essentielle pour un développement véritablement humain et intégral. Frères, sœurs, nous sommes des créatures libres. Notre Créateur s’est “effacé”, il a, pour ainsi dire, “limité” sa liberté absolue pour faire aussi de nous des créatures libres. Comment alors contraindre des frères en son nom? «Lorsque nous croyons et adorons – enseignait Abai –, nous ne devons pas dire que nous pouvons contraindre les autres à croire et à adorer» (Parole 45). La liberté religieuse est un droit fondamental, primaire et inaliénable, qu’il faut promouvoir partout et qui ne peut se limiter à la seule liberté de culte. Elle est en effet un droit de toute personne de témoigner publiquement de sa croyance: de la proposer sans jamais l’imposer. C’est la bonne pratique de l’annonce, différente du prosélytisme et de l’endoctrinement, dont tous sont appelés à se tenir éloignés. Reléguer à la sphère du privé la croyance la plus importante de la vie priverait la société d’une richesse immense. Favoriser, au contraire, des contextes où l’on respire une coexistence respectueuse des diversités religieuses, ethniques et culturelles est la meilleure façon de valoriser les traits spécifiques de chacun, d’unir les êtres humains sans les uniformiser, d’en promouvoir les aspirations les plus élevées sans en briser l’élan.

Voilà donc, à côté de la valeur immortelle de la religion, la valeur actuelle que le Kazakhstan promeut admirablement, en accueillant depuis vingt ans ce Congrès d’importance mondiale. Cette présente édition nous amène à réfléchir sur notre rôle dans le développement spirituel et social de l’humanité pendant la période post-pandémique.

La pandémie, entre vulnérabilité et soin, représente le premier des quatre défis mondiaux que je voudrais développer et qui appellent chacun – mais de manière particulière les religions – à une plus grande unité d’intention. Le Covid-19 nous a tous mis sur le même pied. Il nous a fait comprendre que, comme disait Abai, «nous ne sommes pas des démiurges, mais des mortels» (ibid.). Nous nous sommes tous sentis fragiles, tous dans le besoin d’assistance; personne n’était pleinement autonome, personne n’était complètement autosuffisant. Mais maintenant, nous ne pouvons pas dilapider le besoin de solidarité que nous avons ressenti en continuant comme si rien ne s’était passé, sans nous laisser interpeller par l’exigence d’affronter ensemble les urgences qui nous concernent tous. Les religions ne doivent pas être indifférentes à cela: elles sont appelées à être en première ligne, à être promotrices d’unité face à des épreuves qui risquent de diviser encore davantage la famille humaine.

En particulier, c’est à nous, qui croyons au Divin, d’aider les frères et sœurs de notre époque à ne pas oublier la vulnérabilité qui nous caractérise: à ne pas tomber dans de fausses présomptions de toute-puissance suscitées par des progrès techniques et économiques, qui ne suffisent pas à eux seuls; à ne pas se laisser entraîner dans les attaches du profit et du gain, comme s’ils étaient des remèdes à tous les maux; à ne pas céder à un développement insoutenable qui ne respecte pas les limites imposées par la création; à ne pas se laisser anesthésier par le consumérisme qui étourdit, car les biens sont pour l’homme et non pas l’homme pour les biens. En somme, notre vulnérabilité commune, apparue pendant la pandémie, devrait nous inciter à ne pas continuer comme avant, mais avec plus d’humilité et de clairvoyance.

En plus de sensibiliser sur notre fragilité et sur notre responsabilité, les croyants de l’après-pandémie sont appelés au soin: à prendre soin de l’humanité dans toutes ses dimensions, en devenant des artisans de communion – je répète le mot: artisans de communion –, témoins d’une collaboration qui dépasse les barrières de leurs appartenances communautaires, ethniques, nationales et religieuses. Mais comment entreprendre une mission aussi ardue? Par où commencer? En écoutant des plus faibles, en donnant la parole aux plus fragiles, en se faisant l’écho d’une solidarité globale qui les concerne en premier lieu, les pauvres, les nécessiteux qui ont le plus souffert de la pandémie qui a fait émerger avec force l’iniquité des inégalités planétaires. Combien, aujourd’hui encore, n’ont pas facilement accès aux vaccins, combien! Soyons de leur côté, non du côté de ceux qui ont plus et donnent moins; devenons des consciences prophétiques et courageuses, devenons proches de tous mais surtout des trop nombreux oubliés d’aujourd’hui, des marginalisés, des couches les plus faibles et les plus pauvres de la société, de ceux qui souffrent en secret et en silence, loin des projecteurs. Ce que je vous propose n’est pas seulement une voie pour être plus sensibles et solidaires, mais un chemin de guérison pour nos sociétés. Oui, parce que c’est l’indigence qui permet la propagation d’épidémies et d’autres grands maux qui prospèrent sur les terrains du malaise et des inégalités. Le plus grand facteur de risque de notre temps demeure la pauvreté. A ce sujet, Abai se demandait sagement: «Ceux qui ont faim peuvent-ils garder un esprit lucide […] et montrer du zèle à apprendre? La pauvreté et les luttes […] créent […] la violence et l’avidité» (Parole 25). Tant que les inégalités et les injustices persisteront, les virus pires du Covid ne pourront pas cesser: la haine, la violence, le terrorisme.

Et cela nous conduit au deuxième défi planétaire qui interpelle de manière particulière les croyants: le défi de la paix. Au cours des dernières décennies, le dialogue entre les responsables des religions a surtout concerné ce thème. Pourtant, nous voyons notre époque encore marquée par le fléau de la guerre, par un climat d’affrontements exacerbés, par l’incapacité de reculer et de tendre la main à l’autre. Un sursaut est nécessaire, et il faut, frères et sœurs, qu’il vienne de nous. Si le Créateur, auquel nous consacrons l’existence, a donné naissance à la vie humaine, comment pouvons-nous, nous qui nous déclarons croyants, consentir à ce qu’elle soit détruite? Et comment pouvons-nous penser que les hommes de notre temps, dont beaucoup vivent comme si Dieu n’existait pas, seront motivés à s’engager dans un dialogue respectueux et responsable si les grandes religions, qui constituent l’âme de tant de cultures et de traditions, ne s’engagent pas activement pour la paix?

En mémoire des horreurs et des erreurs du passé, unissons nos efforts pour que jamais plus le Tout-Puissant ne devienne otage de la volonté de puissance humaine. Abai rappelle que “celui qui permet le mal et ne s’oppose pas au mal ne peut pas être considéré comme un vrai croyant mais, dans le meilleur des cas, un croyant tiède” (cf. Parole 38). Frères et sœurs, pour tous et pour chacun, une purification du mal est nécessaire. Le grand poète kazakh insistait sur cet aspect, en écrivant que celui qui «abandonne l’apprentissage se prive d’une bénédiction» et «celui qui n’est pas sévère avec lui-même et qui n’est pas capable de compassion ne peut pas être considéré comme un croyant» (Parole 12). Frères et sœurs, purifions-nous donc de la présomption de nous sentir justes et de n’avoir rien à apprendre des autres. Libérons-nous de ces conceptions réductrices et destructrices qui offensent le nom de Dieu par les rigidités, les extrémismes et les fondamentalismes, et le profanent par la haine, le fanatisme et le terrorisme, défigurant également l’image de l’homme. Oui, car «la source de l’humanité – rappelle Abai – c’est l’amour et la justice, […] ce sont elles les couronnes de la création divine» (Parole 45). Ne justifions jamais la violence. Ne permettons pas que le sacré soit instrumentalisé par ce qui est profane. Que le sacré ne soit pas l’accessoire du pouvoir et que le pouvoir ne soit pas l’accessoire du sacré!

Dieu est paix et conduit toujours à la paix, jamais à la guerre. Engageons-nous donc, encore plus, à promouvoir et à renforcer la nécessité que les conflits se résolvent non pas avec les raisons infructueuses de la force, non pas avec ni les armes et les menaces, mais avec les seuls moyens bénis du Ciel et dignes de l’homme: la rencontre, le dialogue, les négociations patientes qu’on poursuit en pensant en particulier aux enfants et aux jeunes générations. Celles-ci incarnent l’espérance que la paix n’est pas le fragile résultat de négociations laborieuses, mais le fruit d’un engagement éducatif constant qui promeut leurs rêves de développement et d’avenir. Abai, en ce sens, encourageait à étendre le savoir, à franchir les frontières de sa propre culture, à embrasser la connaissance, l’histoire et la littérature des autres. Investissons, s’il vous plaît, dans cela: pas dans les armements, mais dans l’éducation!

Après les défis de la pandémie et de la paix, nous relevons un troisième défi, celui de l’accueil fraternel. Aujourd’hui, la difficulté d’accepter l’être humain est grande. Chaque jour, des enfants à naître et des enfants, des migrants et des personnes âgées sont rejetés. Il existe une culture du rejet. Beaucoup de frères et sœurs meurent sacrifiés sur l’autel du profit, enveloppés par l’encens sacrilège de l’indifférence. Pourtant, chaque être humain est sacré. «Homo sacra res homini», disaient les anciens (Seneca, Epistulae morales ad Lucilium, 95, 33): c’est notre devoir, le devoir des religions, de le rappeler au monde! Jamais comme aujourd’hui nous n’avons assisté à de grands déplacements de populations, causés par des guerres, la pauvreté, les changements climatiques, par la recherche d’un bien-être que le monde globalisé permet de connaître, mais auquel il est souvent difficile d’accéder. Un grand exode est en cours: des régions les plus défavorisées, on cherche à atteindre les plus riches. Nous le voyons tous les jours, dans les différentes migrations dans le monde. Ce n’est pas un fait divers, c’est un fait historique qui exige des solutions partagées et clairvoyantes. Certes, il est instinctif de défendre ses sécurités acquises et de fermer les portes par peur; il est plus facile de suspecter l’étranger, de l’accuser et de le condamner que de le connaître et de le comprendre. Mais il est de notre devoir de rappeler que le Créateur, qui veille sur les pas de chaque créature, nous exhorte à avoir un regard semblable au sien, un regard qui reconnaisse le visage du frère. Il faut recevoir le frère migrant, l’accompagner, le promouvoir et l’intégrer.

La langue kazakhe invite à ce regard accueillant: en elle “aimer” signifie littéralement “avoir un regard bon sur quelqu’un”. Mais la culture traditionnelle de ces régions affirme aussi la même chose à travers un beau proverbe populaire: «Si tu rencontres quelqu’un, essaye de le rendre heureux, c’est peut-être la dernière fois que tu le vois». Si le culte de l’hospitalité de la steppe rappelle la valeur irrépressible de tout être humain, Abai le consacre en disant que «l’homme doit être ami de l’homme» et que cette amitié se fonde sur un partage universel, parce que les réalités importantes de la vie et d’après la vie sont communes. Et il tranche: «Toutes les personnes sont des hôtes les unes des autres» et «l’homme lui-même est un hôte dans cette vie» (Parole 34). Redécouvrons l’art de l’hospitalité, de l’accueil, de la compassion. Et apprenons aussi à avoir honte: oui, à éprouver cette saine honte qui naît de la pitié pour l’homme qui souffre, de l’émotion et de la consternation pour sa condition, pour son destin auquel il faut se sentir participant. C’est la voie de la compassion, qui rend plus humain et plus croyant. C’est à nous, en plus d’affirmer la dignité inviolable de chaque homme, d’enseigner à pleurer pour les autres, car ce n’est que si nous percevons comme nôtres les fatigues de l’humanité que nous serons vraiment humains.

Un dernier défi mondial nous interpelle: la sauvegarde de la maison commune. Face aux bouleversements climatiques, il faut la protéger, afin qu’elle ne soit pas soumise aux logiques du gain, mais préservée pour les générations futures, à la louange du Créateur. Abai écrivait: «Quel monde merveilleux le Créateur nous a donné! Il nous a donné sa lumière avec magnanimité et générosité. Quand la terre-mère nous a nourris en son sein, notre Père céleste s’est penché sur nous avec tendresse» (de la poésie “Printemps”). Avec un soin rempli d’amour, le Très-Haut a établi une maison commune pour la vie: et nous, qui nous déclarons siens, comment pouvons-nous permettre qu’elle soit polluée, maltraitée et détruite? Unissons également nos efforts pour ce défi. Ce n’est pas le dernier par importance. En effet, il se rattache au premier, au défi de la pandémie. Des virus comme le Covid-19, qui, bien que microscopiques, sont capables d’effriter les grandes ambitions du progrès, sont souvent liés à un équilibre détérioré, en grande partie à cause de nous, avec la nature qui nous entoure. Pensons par exemple à la déforestation, au commerce illégal d’animaux vivants, aux élevages intensifs... C’est la mentalité de l’exploitation qui dévaste la maison que nous habitons. Pas seulement. Elle conduit à éclipser cette vision respectueuse et religieuse du monde voulue par le Créateur. Il est donc indispensable de favoriser et de promouvoir la protection de la vie sous toutes ses formes.

Chers frères et sœurs, avançons ensemble, afin que la marche des religions soit toujours plus amicale. Abai disait qu’ «un faux ami est comme une ombre: quand le soleil brille sur toi, tu ne te débarrasseras pas de lui, mais quand les nuages s’accumulent sur toi, tu ne le vois nulle part» (Parole 37). Que cela ne nous arrive pas: que le Très-Haut nous libère des ombres de la suspicion et de la fausseté; qu’il nous accorde de cultiver des amitiés solaires et fraternelles, à travers le dialogue fréquent et la sincérité lumineuse des intentions. Et je voudrais ici remercier pour l’effort du Kazakhstan sur ce point: chercher toujours à unir, chercher toujours à provoquer le dialogue, chercher toujours à tisser des liens d’amitié. C’est un exemple que le Kazakhstan nous donne à tous et nous devons le suivre, le soutenir. Ne cherchons pas de faux syncrétismes conciliants – ils sont inutiles –, mais gardons nos identités ouvertes au courage de l’altérité, à la rencontre fraternelle. Ce n’est qu’ainsi, sur cette voie, dans les temps sombres que nous vivons, que nous pourrons rayonner de la lumière de notre Créateur. Merci à vous tou

[01366-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

Dear brothers and sisters!

Let me address you in this direct and familiar way, as brothers and sisters. For that is how I would like to greet all of you – religious leaders and authorities, members of the diplomatic corps and of international organizations, representatives of academic and cultural institutions of civil society and various nongovernmental organizations – in the name of the fraternity that unites us as children of the same Heaven.

Before the mystery of the infinite that transcends and attracts us, the religions remind us that we are creatures; we are not omnipotent, but men and women journeying towards the same heavenly goal. Our shared nature as creatures thus gives rise to a common bond, an authentic fraternity. It makes us realize that the meaning of life cannot be reduced to our own individual interests, but is deeply linked to the fraternity that is part of our identity. We mature only with others and thanks to others. Dear leaders and representatives of world and traditional religions, we are meeting in a country traversed down the centuries by great caravans. In these lands, not least through the ancient silk route, many histories, ideas, faiths and hopes have intersected. May Kazakhstan be once more a land of encounter between those who come from afar. May it open a new route, centred on human relationships: on respect, sincere dialogue, respect for the inviolable dignity of each human being and mutual cooperation. A route that is fraternal, to be travelled together towards the goal of peace.

Yesterday I spoke using the image of the dombra; today I would like to associate a voice to that musical instrument: that of the country’s most renowned poet and the father of its modern literature, an educator and composer often portrayed with the dombra. Abai (1845-1904), as he is popularly known, has left us writings that are steeped in religious devotion and reflect the noble soul of this people: its sage discernment, its yearning for a peace found through humble questioning, and its pursuit of a genuinely humane wisdom, never closed-minded but open to being inspired by a variety of experiences. Abai challenges us by asking a timeless question: “What is the beauty of life, if one does not go deep?” (Poems, 1898). Another poet, pondering the meaning of life, placed on the lips of a shepherd in these vast lands of Asia an equally essential question: “Where will this, my brief wandering, lead?” (G. LEOPARDI, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia). Questions like these point to humanity’s need for religion; they remind us that we human beings do not exist so much to satisfy earthly interests or to weave purely economic relationships, as to walk together, as wayfarers, with our eyes raised to the heavens. We need to make sense of the ultimate questions, to cultivate a spirituality; we need, as Abai says, to keep “the soul alive and the mind clear” (Book of Words, Word 6).

Dear brothers and sisters, the world expects us to be examples of souls alive and minds clear; it looks to us for an authentic religiosity. It is time to realize that the fundamentalism defiles and corrupts every creed; time for open and compassionate hearts. It is also time to consign to the history books the kind of talk that for all too long, here and elsewhere, has led to distrust and contempt for religion, as if it were a destabilizing force in modern society. These lands are all too familiar with the legacy of decades of state-imposed atheism: that oppressive and stifling mentality for which the mere mention of the word “religion” was greeted with embarrassed silence. Religion is not a problem, but part of the solution for a more harmonious life in society. The pursuit of transcendence and the sacred value of fraternity can inspire and illumine the decisions that need to be made amid the geopolitical, social, economic, ecological, but fundamentally spiritual crises that many modern institutions, including democracies, are presently experiencing, to the detriment of security and concord among peoples. We need religion, in order to respond to the thirst for world peace and the thirst for the infinite that dwells in the heart of each man and woman.

For this reason, an essential condition for genuinely human and integral development is religious freedom. Brothers and sisters, we are free. Our Creator “stepped aside for us”; in a manner of speaking, he “limited” his absolute freedom in order to enable us, his creatures, to be free. How can we then presume to coerce our brothers and sisters in his name? “As believers and worshipers”, Abai once again tells us, “we must not claim that we can force others to believe and worship” (Word 45). Religious freedom is a basic, primary and inalienable right needing to be promoted everywhere, one that may not be restricted merely to freedom of worship. Each person has the right to render public testimony to his or her own creed, proposing it without ever imposing it. This is the correct method of preaching, as opposed to proselytism and indoctrination, from which all are called to step back. To relegate to the private sphere our most important beliefs in life would be to deprive society of an immense treasure. On the other hand, to work for a society marked by the respectful coexistence of religious, ethnic and cultural differences is the best way to enhance the distinctive features of each, to bring people together while respecting their diversity, and to promote their loftiest aspirations without compromising their vitality.

In this way, we see both the perennial importance of religion and its relevance for our own time, which Kazakhstan has impressively brought to the fore in the past two decades by hosting this worldwide Congress. The present meeting invites us to reflect on the role we are called to play in the spiritual and social development of humanity in this post-pandemic world.

The pandemic, between vulnerability and responsibility, represents the first of four global challenges that I would like to set forth. Those challenges call all of us – and in a special way the religions – to greater unity of purpose. Covid-19 put us all in the same boat. It made us realize, as Abai said, that “we are not demiurges but mortals” (ibid.). All of us felt vulnerable, all of us in need of help, none of us completely independent, none completely self-sufficient. Presently however, we are challenged not to squander the powerful sense of solidarity that we experienced by pressing on as if nothing happened, without acknowledging that we must confront together urgent needs that concern us all. The religions must not be indifferent to this: they are called to be present on the front lines, as promoters of unity amid the grave challenges that risk dividing our human family even further.

Specifically, it is up to us, who believe in the Divine, to help our brothers and sisters at the present time not to forget our vulnerability. Not to fall into illusions of omnipotence fostered by a technological and economic progress that is of itself insufficient. Not to let ourselves be entangled in the web of profits and earnings, as if they were the solution to every evil. Not to back an unsustainable development that fails to respect the limits imposed by creation. Not to let ourselves be taken in by the superficial allure of consumerism, since material goods are for man and not man for material goods. In a word, the sense of shared vulnerability that emerged during the pandemic should motivate us to move forward, not as we did before, but now with greater humility and foresight.

In addition to reminding us of our vulnerability and our responsibility, believers in a post-pandemic world are called to care: to care for humanity in all its aspects by becoming artisans of communion, witnesses of a cooperation that transcends the confines of our community, ethnic, national and religious affiliations. How do we embark upon so demanding a mission? Where do we begin? We begin by listening to the poor, by giving a voice to the voiceless, by bearing witness to a global solidarity concerned above all for them, the poor and the needy, who suffered most from the pandemic, which so forcefully brought out the injustice of global inequalities and imbalances. How many people, even today, lack ready access to vaccines! Let us be on their side, not on the side of those who have more and give less. Let us become prophetic and courageous voices of conscience. Let us show ourselves neighbours to all, but especially to those most neglected in our time: the disinherited, the poor and the helpless, and those who suffer in silence and general disregard. What I propose is not only a path to greater attentiveness and solidarity, but also a path to healing for our societies. For poverty is precisely what enables the spread of epidemics and other great evils that flourish on the terrain of poverty and inequality. Poverty continues to be the major factor of risk in our day. With great sagacity, Abai asked, “Can those who are hungry keep a clear mind… and show diligence in learning? Poverty and quarrels… breed violence and greed” (Word 25). As long as inequality and injustice continue to proliferate, there will be no end to viruses even worse than Covid: the viruses of hatred, violence and terrorism.

This brings us to the second global challenge, one that has a special claim on believers: the challenge of peace. In recent decades, dialogue among religious leaders has dealt primarily with this question. Yet, we look around us and see our time still plagued by the scourge of war, by a climate of hostility and confrontation, by an inability to step back and hold out a hand to the other. Brothers and sisters, a leap forward is required, and it needs to come from us. If the Creator, to whom we have devoted our lives, is the author of human life, how can we, who call ourselves believers, consent to the destruction of that life? And how can we imagine that the men and women of our time, many of whom live as if God did not exist, can be inspired to engage in respectful and responsible dialogue if the great religions, which are the soul of so many cultures and traditions, are not themselves actively committed to peace?

Mindful of the wrongs and errors of the past, let us unite our efforts to ensure that the Almighty will never again be held hostage to the human thirst for power. Abai observes that, “he who permits evil, and does not oppose it, cannot be regarded as a true believer. At best he is a half-hearted believer” (cf. Words 38). Dear brothers and sisters, each and every one of us needs to be purified of evil. The great Kazakh poet insists on this; in his words, “he who abandons learning deprives himself of a divine blessing”, and “a person who is not strict in his ways and is not capable of compassion cannot be considered a believer” (Word 12). So, brothers and sisters, let us purify ourselves of the presumption of feeling self-righteous, with no need to learn anything from anyone. Let us free ourselves of those reductive and destructive notions that offend the name of God by harshness, extremism and forms of fundamentalism, and profane it through hatred, fanaticism, and terrorism, disfiguring the image of man as well. As Abai says, “the source of humanity is love and justice… They are the crown of divine creation” (Word 45). May we never justify violence. May we never allow the sacred to be exploited by the profane. The sacred must never be a prop for power, nor power a prop for the sacred!

God is peace. He guides us always in the way of peace, never that of war. Let us commit ourselves, then, even more to insisting on the need for resolving conflicts not by the inconclusive means of power, with arms and threats, but by the only means blessed by heaven and worthy of man: encounter, dialogue and patient negotiations, which make progress especially when they take into consideration the young and future generations. For the young embody the hope that peace will come about, not as the fragile outcome of painstaking negotiations, but as the fruit of persevering commitment to an education that can support their aspirations for development and a serene future. Abai, in that sense, encourages the expansion of learning beyond the limits of one’s own culture, in order to embrace the knowledge, history and literature of others. Let us invest, I beg you, in this: not in more weapons, but in education!

In addition to the challenges of the pandemic and of peace, let us now turn to a third challenge, that of fraternal acceptance. Today we find it hard to accept the human being. Each day children, born and unborn, migrants and elderly persons, are cast aside, discarded. There exists a throwaway culture. Many of our brothers and sisters die sacrificed on the altar of profit, amid clouds of the sacrilegious incense of indifference. Yet every human being is sacred. “Homo sacra res homini”, the ancients said (cf. SENECA, Epistulae Morales ad Lucilium, 95, 33). It is above all our task, the task of the religions, to remind the world of this. Now, as never before, we are witnessing massive displacements of peoples due to war, poverty, climate change and the pursuit of a prosperity that our globalized world advertises, yet is often difficult to attain. A great exodus is taking place, as people from the most poverty-stricken areas of our world struggle to reach those that are more prosperous. We see this every day, in different migration movements in our world. This is not just another item on the daily news; it is an historic event demanding concordant and farsighted solutions. To be sure, we instinctively defend our own hard-won securities and close our doors out of fear; it is easier to suspect strangers, to accuse them and condemn them, than it is to get to know and understand them. Yet it is our duty to be mindful that the Creator, who watches over each of his creatures, exhorts us to regard others as he does, and in them to see the face of a brother or a sister. Our migrant brothers and sisters need to be accepted, accompanied, promoted and integrated.

The Kazakh language invites us to this welcoming gaze: in it, the verb “to love” literally means “to gaze kindly on someone”. The traditional culture of these lands makes the same point with a fine popular proverb: “When you encounter people, try to make them happy, for it may be the last time that you will ever see them”. The practice of hospitality typical of the steppe reflects the inviolable worth of each human being. Abai reaffirms this by stating that, “man should be a friend to man” and that such friendship is based on universal sharing, since the most important realities of life and the afterlife are held in common. He goes on to say that, “all people are guests of one another” and that, “man himself is a guest in this life” (Word 34). Let us rediscover the art of hospitality, of acceptance, of compassion. And let us learn also to be ashamed: yes, to experience that healthy shame born of compassion for those who suffer, sympathy and concern for their condition and for their fate, which we realize that we too share. This is the path of compassion, which makes us better human beings and better believers. It is up to us, not only to affirm the inviolable dignity of each human being, but also to teach how to weep for others. For only if we can sense the struggles of others as our own, will we be truly human.

One final global challenge facing us is that of care for our common home. Against extreme climate changes, we need to protect the natural environment, so that it will not fall prey to profiteering, but be preserved for future generations, to the praise of the Creator. In Abai’s words, “What a wonderful world the Creator has given us! He magnanimously and generously gave us his light, when mother-earth fed us from her breast, our Father in heaven thoughtfully inclined over us” (Poem, “Spring”). With loving care, the Most High provided a common home for all life. How can we, who claim to be his, allow it to be polluted, mistreated and devastated? Let us also join our efforts in meeting this challenge. It is not the least in importance. Indeed, it is connected to the first challenge, that of the pandemic. Viruses like Covid-19 that, albeit microscopic, have the power to shatter our grand dreams of progress, are often linked to a breakdown in the balance – that is in great part due to ourselves – with the natural environment. We think, for example, of deforestation, illegal commerce in living animals and intensive breeding. The mindset of exploitation is in fact destroying the home in which we live. And not only that. It is leading to an eclipse of the respectful and religious vision of the world willed by the Creator. It is essential, then, to encourage and promote the protection of life in every one of its forms.

Dear brothers and sisters, let us go forward together, so that the journey of the religions may be increasingly marked by friendship. Abai said that “a false friend is like a shadow: when the sun shines on you, you can’t get rid of him, but when clouds gather over you, he is nowhere to be seen” (Word 37). May this never happen with us! May the Almighty set us free from the shadows of suspicion and insincerity, and enable us to cultivate open and fraternal friendships through frequent dialogue and luminous sincerity of purpose. Here I would like to express my appreciation for the efforts that Kazakhstan is making in this regard: seeking always to unite, seeking always to foster dialogue, seeking always to build friendship. This is an example that Kazakhstan is giving to all of us and we ought to follow it and support it. May we never aim at artificial and conciliatory forms of syncretism, for these are useless, but instead firmly maintain our own identities, open to the courage of otherness and to fraternal encounter. Only in this way, along this path, in these dark times in which we live, will we be able to radiate the light of our Creator. Thank you, all of you!

[01366-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Brüder und Schwestern!

Gestattet mir, dass ich mich mit diesen direkten und vertrauten Worten an Euch wende: Brüder und Schwestern. Auf diese Weise möchte ich euch, die religiösen Führer und Autoritäten, die Mitglieder des diplomatischen Korps und der internationalen Organisationen, die Vertreter der akademischen und kulturellen Institutionen, der Zivilgesellschaft und der verschiedenen Nichtregierungsorganisationen, im Namen jener Geschwisterlichkeit grüßen, die uns alle als Kinder desselben Himmels vereint.

Angesichts des Geheimnisses des Unendlichen, das uns überragt und anzieht, erinnern uns die Religionen daran, dass wir Geschöpfe sind: Wir sind nicht allmächtig, sondern Frauen und Männer auf dem Weg zum selben Himmel. Die Geschöpflichkeit, die wir teilen, schafft also eine Gemeinsamkeit, eine echte Geschwisterlichkeit. Sie erinnert uns daran, dass sich der Sinn des Lebens nicht auf unsere persönlichen Interessen reduzieren kann, sondern in der Geschwisterlichkeit eingeschrieben ist, die uns auszeichnet. Wir wachsen nur mit den anderen und dank der anderen. Liebe Oberhäupter und Vertreter der Weltreligionen und der traditionellen Religionen, wir befinden uns in einem Land, das im Laufe der Jahrhunderte von großen Karawanen durchquert wurde: So viele Geschichten, Ideen, Glaubensrichtungen und Hoffnungen haben sich an diesen Orten miteinander verwoben. Möge Kasachstan wieder ein Land der Begegnung zwischen denen werden, die weit entfernt voneinander sind. Möge es eine neue Seidenstraße eröffnen, bei der es nicht um den Wert des Handels, sondern um die menschlichen Beziehungen geht: um den Respekt, um die Ehrlichkeit des Dialogs, um den unabdingbaren Wert eines jeden, um die Zusammenarbeit; ein geschwisterlicher Weg, der dazu dient, gemeinsam auf den Frieden zuzugehen.

Gestern habe ich das Bild der Dombra herangezogen; heute möchte ich dem Musikinstrument eine Stimme beigesellen, nämlich die des berühmtesten Dichters des Landes, des Vaters seiner modernen Literatur, des Pädagogen und Komponisten, der oft mit der Dombra dargestellt wird. Abai (1845-1904), wie er im Volksmund genannt wird, hat uns von Religiosität durchdrungene Schriften hinterlassen, in denen die beste Seite der Seele dieses Volkes durchscheint: eine harmonische Weisheit, die sich nach Frieden sehnt und ihn sucht, indem sie sich selbst in Demut hinterfragt, die sich nach einer menschenwürdigen Weisheit sehnt, die sich nie in enge und begrenzte Visionen verschließt, sondern bereit ist, sich von vielfältigen Erfahrungen inspirieren und provozieren zu lassen. Abai provoziert uns mit einer zeitlosen Frage: »Was ist die Schönheit des Lebens, wenn man nicht in die Tiefe geht?« (Poesie, 1898). Ein anderer Dichter fragte sich nach dem Sinn des Daseins und legte einem Hirten dieser unendlichen Weiten Asiens eine ebenso wichtige Frage in den Mund: »Wohin zielt mein kurzes Schweifen hier?« (G. Leopardi, Nachtgesang eines wandernden Hirten in Asien). Es sind Fragen wie diese, die das Bedürfnis nach Religion wecken, die uns daran erinnern, dass wir Menschen nicht so sehr existieren, um irdische Interessen zu befriedigen und Beziehungen rein wirtschaftlicher Art zu knüpfen, sondern um gemeinsam unterwegs zu sein, als Wanderer mit einem zum Himmel gerichtetem Blick. Wir müssen den letzten Fragen einen Sinn geben, eine Spiritualität pflegen; wir müssen, so Abai, »die Seele wach und den Geist klar« behalten (Wort 6).

Brüder und Schwestern, die Welt erwartet von uns das Beispiel aufrechter Seelen und klaren Verstandes, sie erwartet echte Religiosität. Die Stunde ist gekommen, um aus jenem Fundamentalismus zu erwachen, der jedes Bekenntnis beschmutzt und zersetzt, die Stunde, um das Herz rein und barmherzig zu machen. Aber es ist auch an der Zeit, jene Diskurse den Geschichtsbüchern zu überlassen, die hier und anderswo zu lange Misstrauen und Verachtung gegenüber der Religion gesät haben, so als sei sie ein destabilisierender Faktor in der modernen Gesellschaft. Hierzulande ist das Erbe eines jahrzehntelang aufgezwungenen staatlichen Atheismus wohlbekannt, jene bedrückende und erstickende Mentalität, bei der allein schon die Verwendung des Wortes „Religion“ Verlegenheit hervorrief. In Wirklichkeit sind die Religionen nicht ein Problem, sondern Teil der Lösung für ein harmonischeres Zusammenleben. Das Streben nach Transzendenz und der heilige Wert der Geschwisterlichkeit können in der Tat die Entscheidungen inspirieren und erhellen, die im Zusammenhang mit geopolitischen, sozialen, wirtschaftlichen, ökologischen – im Grunde jedoch geistlichen – Krisen zu treffen sind. Diese Krisen durchziehen viele der heutigen Institutionen, selbst die Demokratien, und gefährden die Sicherheit und Harmonie zwischen den Völkern. Deshalb brauchen wir die Religion, um auf den Durst der Welt nach Frieden zu antworten und auf den Durst nach dem Unendlichen, der im Herzen eines jeden Menschen wohnt.

Eine wesentliche Voraussetzung für eine wahrhaft menschliche und ganzheitliche Entwicklung ist daher die Religionsfreiheit. Brüder und Schwestern, wir sind freie Geschöpfe. Unser Schöpfer ist „für uns zur Seite getreten“, hat seine absolute Freiheit sozusagen „eingeschränkt“, um auch uns zu freien Geschöpfen zu machen. Wie können wir dann unsere Geschwister in seinem Namen zu etwas zwingen? »Wir glauben und beten an«, lehrte Abai, »aber wir dürfen nicht sagen, dass wir andere zum Glauben und zur Anbetung zwingen können« (Wort 45). Die Religionsfreiheit ist ein grundlegendes, primäres und unveräußerliches Recht, das überall gefördert werden muss und sich nicht nur auf die Freiheit der Religionsausübung beschränken darf. In der Tat hat jeder Mensch das Recht, den eigenen Glauben öffentlich zu bezeugen und als Angebot darzulegen, ohne ihn jemals anderen aufzuzwingen. Das ist die gute Praxis der Verkündigung, die sich von Proselytismus und Indoktrination unterscheidet, von denen sich alle fernhalten sollten. Das wichtigste Bekenntnis des Lebens in die Sphäre des Privaten zu verbannen, würde die Gesellschaft eines außerordentlichen Reichtums berauben; im Gegenteil, ein Umfeld zu begünstigen, in dem religiöse, ethnische und kulturelle Verschiedenheiten respektvoll zusammenleben, ist die beste Weise, um die spezifischen Merkmale eines jeden hervorzuheben, die Menschen zu vereinen, ohne sie zu vereinheitlichen, ihre höchsten Bestrebungen zu fördern, ohne ihren Elan zu dämpfen.

Das ist also neben dem unvergänglichen Wert der Religion ihre aktuelle Bedeutung, die Kasachstan in bewundernswerter Weise fördert, indem es seit zwanzig Jahren diesen Kongress von globaler Bedeutung ausrichtet. Das gegenwärtige Treffen veranlasst uns, über unsere Rolle in der geistigen und sozialen Entwicklung der Menschheit in der Zeit nach der Pandemie nachzudenken.

Die Pandemie, zwischen Verletzlichkeit und Fürsorge, stellt die erste von vier globalen Herausforderungen dar, die ich skizzieren möchte und die alle – insbesondere aber die Religionen – zu größerer Einigkeit auffordern. Covid-19 hat uns alle auf dieselbe Ebene gestellt. Es machte uns bewusst, dass wir, wie Abai sagte, »keine Demiurgen sind, sondern Sterbliche« (ebd.): Wir alle haben uns zerbrechlich gefühlt, hilfsbedürftig; keiner fühlte sich völlig autonom, keiner völlig autark. Jetzt dürfen wir jedoch das Bedürfnis nach Solidarität, das wir verspürt haben, nicht zunichtemachen, indem wir so weitermachen, als wäre nichts geschehen, ohne uns von der Notwendigkeit herausfordern zu lassen, gemeinsam die dringenden Probleme anzugehen, die alle betreffen. Die Religionen dürfen dem nicht gleichgültig gegenüberstehen. Sie sind dazu berufen, an vorderster Front zu stehen und die Einheit zu fördern angesichts von Prüfungen, die die Menschheitsfamilie noch weiter zu spalten drohen.

Insbesondere uns, die wir an einen Schöpfer glauben, ist es aufgegeben, den Brüdern und Schwestern unserer Zeit zu helfen, die Verletzlichkeit, die uns kennzeichnet, nicht zu vergessen: nicht in falsche Allmachtsphantasien zu verfallen, die durch technische und wirtschaftliche Fortschritte hervorgerufen werden, aber allein nicht ausreichen; sich nicht in den Fallstricken von Profit und Gewinn zu verheddern, so als ob sie das Heilmittel für alle Übel wären; eine nicht nachhaltige Entwicklung, die die von der Schöpfung gesetzten Grenzen überschreitet, nicht zu begünstigen; sich nicht von betäubendem Konsumverhalten benebeln zu lassen, weil die Güter für den Menschen da sind und nicht der Mensch für die Güter. Kurzum, unsere gemeinsame Verwundbarkeit, die während der Pandemie zutage getreten ist, sollte uns anspornen, nicht so weiterzumachen wie bisher, sondern mehr Demut und Weitsicht an den Tag zu legen.

Über das Sensibilisieren für unsere Zerbrechlichkeit und Verantwortung hinaus sind die Gläubigen in der Zeit nach der Pandemie zur Fürsorge aufgerufen: sich um die eine Menschheit zu kümmern, der alle angehören, und zu Handwerkern der Einheit werden – ich wiederhole den Ausdruck: Handwerker der Einheit –, zu Zeugen einer Zusammenarbeit, die die Grenzen der eigenen Gemeinschaft, der eigenen ethnischen, nationalen und religiösen Zugehörigkeit überschreitet. Aber wie kann man eine so schwierige Aufgabe angehen? Wo soll man anfangen? Damit, den Schwächsten zuzuhören, den Zerbrechlichsten eine Stimme zu geben, eine globale Solidarität zum Ausdruck zu bringen, die in erster Linie sie betrifft, die Armen, die Bedürftigen, die am meisten unter der Pandemie gelitten haben, welche die weltweite Ungleichheit und Ungerechtigkeit dramatisch ans Licht gebracht hat. Wie viele haben auch heute noch keinen einfachen Zugang zu Impfstoffen, wie viele! Lasst uns auf ihrer Seite stehen, nicht auf der Seite derer, die mehr haben und weniger geben; lasst uns prophetische und mutige Gewissen sein. Lasst uns allen Menschen nahe sein, besonders aber den allzu vielen Vergessenen von heute, den Ausgegrenzten, den schwächsten und ärmsten Schichten der Gesellschaft, denen, die im Verborgenen und im Stillen leiden, weit weg vom Scheinwerferlicht. Was ich hier vorschlage, ist nicht nur ein Weg zu mehr Sensibilität und Solidarität, sondern ein Weg der Heilung für unsere Gesellschaften. Ja, denn gerade das Elend ermöglicht die Ausbreitung von Epidemien und anderen großen Übeln, die auf dem Boden von Not und Ungleichheit gedeihen. Der größte Risikofaktor unserer Zeit bleibt die Armut. In diesem Zusammenhang fragte Abai weise: »Können diejenigen, die hungrig sind, einen klaren Verstand behalten [...] und Fleiß beim Lernen zeigen? Armut und Unfrieden [...] erzeugen [...] Gewalt und Gier« (Wort 25). Solange Ungleichheit und Ungerechtigkeit wüten, werden schlimmere Viren als Covid nicht aufhören: jene des Hasses, der Gewalt und des Terrorismus.

Und dies bringt uns zu der zweiten weltweiten Herausforderung, die die Gläubigen besonders betrifft: die Herausforderung des Friedens. In den letzten Jahrzehnten hat sich der Dialog zwischen den Religionsführern vor allem auf dieses Thema bezogen. Dennoch sind unsere Tage immer noch von der Geißel des Krieges, von einem Klima scharfer Konfrontationen und von der Unfähigkeit geprägt, einen Schritt zurückzutreten und dem anderen die Hand zu reichen. Es braucht einen Ruck, und dieser Ruck, Brüder und Schwestern, muss von uns kommen. Wenn der Schöpfer, dem wir uns geweiht haben, das menschliche Leben hervorgebracht hat, wie können wir, die wir uns als gläubig bezeichnen, seiner Zerstörung zustimmen? Und wie können wir meinen, dass die Menschen unserer Zeit, von denen viele so leben, als gäbe es Gott nicht, zu einem respektvollen und verantwortungsvollen Dialog motiviert seien, wenn sich die großen Religionen, die die Seele vieler Kulturen und Traditionen bilden, nicht aktiv für den Frieden einsetzen?

Bemühen wir uns gemeinsam, eingedenk der Schrecken und Irrtümer der Vergangenheit, dass der Allmächtige nie wieder zur Geisel menschlichen Machtstrebens wird. Abai erinnert uns daran, dass „derjenige, der das Böse zulässt und sich dem Bösen nicht widersetzt, nicht als wahrer Gläubiger betrachtet werden kann, sondern bestenfalls als ein halbherziger Gläubiger“ (vgl. Wort 38). Brüder und Schwestern, eine Reinigung vom Bösen ist für alle und jeden einzelnen notwendig. Abai betonte dies und schrieb, dass derjenige, der »das Lernen aufgibt, sich selbst eines Segens beraubt«, und weiter: »wer nicht streng mit sich selbst ist und kein Mitgefühl hat, kann nicht als Gläubiger betrachtet werden« (Wort 12). Brüder und Schwestern, läutern wir uns also von der Anmaßung, uns für gerecht zu halten und nichts von den anderen lernen zu können; befreien wir uns von jenen beschränkten und zerstörerischen Vorstellungen, die den Namen Gottes durch Starrheit, Verschlossenheit und Extremismen beleidigen und ihn durch Hass, Fanatismus und Terrorismus entweihen und damit auch das Bild des Menschen entstellen. Ja, denn »die Quelle der Menschlichkeit«, erinnert Abai, »sind Liebe und Gerechtigkeit, [...] sie sind die Kronen der göttlichen Schöpfung« (Wort 45). Rechtfertigen wir niemals Gewalt. Lassen wir nicht zu, dass das Heilige vom Profanen instrumentalisiert wird. Das Heilige darf nicht zur Stütze der Macht werden und die Macht darf sich nicht auf das Heilige stützen!

Gott ist Frieden und führt immer zum Frieden, niemals zum Krieg. Setzen wir uns daher noch mehr dafür ein, dass Konflikte nicht mit den untauglichen Mitteln der Gewalt, mit Waffen und Drohungen gelöst werden, sondern mit den einzigen vom Himmel gesegneten und des Menschen würdigen Mitteln: Begegnung, Dialog, geduldige Verhandlungen, die besonders mit Blick auf die Kinder und die junge Generation geführt werden. Sie verkörpern nämlich die Hoffnung, dass der Frieden nicht das zerbrechliche Ergebnis mühsamer Verhandlungen ist, sondern die Frucht beständiger Erziehungsarbeit, die ihre Entwicklungs- und Zukunftsträume fördern möge. In diesem Sinne ermutigte Abai dazu, die Kenntnis zu erweitern, die Grenze der eigenen Kultur zu überschreiten und sich das Wissen, die Geschichte und die Literatur der anderen zu eigen zu machen. Lasst uns bitte darin investieren: nicht in Rüstung, sondern in Bildung!

Nach der Pandemie und dem Frieden wollen wir uns einer dritten Herausforderung stellen, nämlich der der geschwisterlichen Annahme. Heute gibt es große Schwierigkeiten, den Menschen zu akzeptieren. Jeden Tag werden ungeborene Babys und Kinder, Migranten und alte Menschen entsorgt. Es gibt geradezu eine Kultur des Entsorgens. So viele Brüder und Schwestern sterben, geopfert auf dem Altar des Profits, umhüllt vom frevelhaften Weihrauch der Gleichgültigkeit. Doch jedes menschliche Leben ist heilig. »Homo sacra res homini«, sagten die Alten (Seneca, Epistulae morales ad Lucilium, 95,33). Es ist in erster Linie unsere Aufgabe, die der Religionen, die Welt daran zu erinnern! Noch nie haben wir so große Bevölkerungswanderungen erlebt aufgrund von Krieg, Armut, Klimawandel und dem Streben nach einem Wohlstand, den die globalisierte Welt zu kennen ermöglicht, der aber oft schwer zugänglich ist. Es findet eine große Abwanderung statt: Aus den am meisten benachteiligten Gebieten versuchen die Menschen, in die wohlhabenderen zu gelangen. Wir sehen das jeden Tag, an den verschiedenen Migrationsströmen auf der Welt. Dies ist keine Tagesnachricht, sondern eine historische Gegebenheit, die nach gemeinsamen und weitsichtigen Lösungen verlangt. Gewiss, instinktiv neigt man dazu, die eigenen erworbenen Sicherheiten zu verteidigen und die Türen aus Angst zu schließen; es ist einfacher, den Fremden zu verdächtigen, ihn zu beschuldigen und zu verurteilen, als ihn kennenzulernen und zu verstehen. Aber es ist unsere Pflicht, uns daran zu erinnern, dass der Schöpfer, der über die Schritte eines jeden Geschöpfes wacht, uns zu einem Blick auffordert, der dem seinen gleicht, zu einem Blick, der das Antlitz des Bruders und der Schwester erkennt. Wir müssen die migrierenden Geschwister aufnehmen, begleiten, fördern, integrieren.

Die kasachische Sprache lädt zu diesem annehmenden Blick ein: In ihr bedeutet „lieben“ wörtlich „jemanden mit einem guten Blick ansehen“. Aber auch die traditionelle Kultur hierzulande bestätigt dies mit einem schönen Sprichwort: „Wenn du jemanden triffst, versuche ihn glücklich zu machen, es könnte das letzte Mal sein, dass du ihn siehst“. Die besondere Gastfreundschaft in der Steppe erinnert an den unauslöschlichen Wert eines jeden Menschen. Abai stimmt dem zu, wenn er sagt, dass »der Mensch der Freund des Menschen sein muss« und dass diese Freundschaft auf einer universalen Teilhabe beruht, weil das, was im Leben und danach wichtig ist, allen gemeinsam ist. Daher erklärt er, dass »alle Menschen einander Gäste sind« und dass »der Mensch selbst ein Gast in diesem Leben ist« (Wort 34). Lasst uns die Kunst der Gastfreundschaft, des Willkommens und des Mitgefühls neu entdecken. Und lernen wir auch, uns zu schämen: ja, jene gesunde Scham zu empfinden, die aus dem Mitleid mit dem leidenden Menschen kommt, aus der Rührung und dem Erstaunen über seinen Zustand, über sein Schicksal, an dem wir teilhaben sollen. Es ist der Weg des Mitgefühls, der uns menschlicher und gläubiger macht. Uns kommt es zu, über die Bekräftigung der unantastbaren Würde eines jeden Menschen hinaus, auch zu lehren, um andere zu weinen, denn nur wenn wir die Mühsale der Menschheit als unsere eigenen empfinden, sind wir wirklich menschlich.

Eine letzte globale Herausforderung ist die Bewahrung des gemeinsamen Hauses. Angesichts des Klimawandels muss es geschützt werden, damit es nicht der Logik des Profits unterworfen wird, sondern zum Lob des Schöpfers für künftige Generationen erhalten bleibt. Abai schrieb: »Was für eine wunderbare Welt hat uns der Schöpfer gegeben! Großherzig und großzügig hat er uns sein Licht geschenkt. Als die Mutter Erde uns an ihrer Brust nährte, beugte sich unser himmlischer Vater fürsorglich über uns« (aus dem GedichtFrühling“). Mit liebevoller Fürsorge hat der Allerhöchste ein gemeinsames Haus für das Leben geschaffen; und wir, die wir uns als die Seinen bezeichnen, wie können wir zulassen, dass es verschmutzt, misshandelt und zerstört wird? Lasst uns auch bei dieser Herausforderung unsere Kräfte bündeln. Sie ist nicht die bedeutungsloseste. Sie ist in der Tat mit der ersten, der Pandemie, verbunden. Viren wie Covid-19 sind mikroskopisch klein, aber in der Lage, die großen Ambitionen des Fortschritts zu zerstören. Sie stammen oft aus der Tierwelt und entstammen einem gestörten Gleichgewicht, das zum großen Teil auf uns zurückzuführen ist. Denken wir zum Beispiel an die Abholzung der Wälder, den illegalen Handel mit lebenden Tieren, die Massentierhaltung... Es ist die Mentalität der Ausbeutung, welche das Haus, das wir bewohnen, zerstört. Und nicht nur das, sie führt auch dazu, dass sich die vom Schöpfer beabsichtigte respektvolle und religiöse Sicht der Welt verdunkelt. Deshalb ist es unerlässlich, die Bewahrung des Lebens in all seinen Formen zu fördern und zu unterstützen.

Liebe Brüder und Schwestern, lasst uns gemeinsam voranschreiten, damit der Weg der Religionen immer freundschaftlicher wird. Abai sagte: »Ein falscher Freund ist wie ein Schatten: Wenn die Sonne auf dich scheint, wirst du ihn nicht los, aber wenn sich die Wolken über dir zusammenziehen, ist er nicht mehr zu sehen« (Wort 37). Das soll uns nicht geschehen: Möge der Allerhöchste uns von den Schatten des Misstrauens und der Falschheit befreien; möge er uns gewähren, sonnige und geschwisterliche Freundschaften zu pflegen, durch häufigen Dialog und klare Aufrichtigkeit der Absichten. Ich möchte mich für die diesbezüglichen Bemühungen Kasachstans bedanken: Immer zu versuchen zusammenzuführen, immer zu versuchen für Dialog zu sorgen, immer zu versuchen Freundschaft zu schließen. Dies ist ein Beispiel, das Kasachstan uns allen gibt und wir müssen ihm folgen und es dabei unterstützen. Suchen wir nicht nach falschen, versöhnlichen Synkretismen – sie nützen nicht –, sondern bewahren wir unsere Identitäten in Offenheit für den Mut zum Anderssein und für die geschwisterliche Begegnung. Nur so, auf diesem Weg, können wir in den dunklen Zeiten, in denen wir leben, das Licht unseres Schöpfers ausstrahlen. Danke an euch alle!

[01366-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

Hermanos y hermanas:

Permítanme que me dirija a ustedes con estas palabras directas y familiares: hermanos y hermanas. De esta manera deseo saludarlos, Líderes religiosos y Autoridades, miembros del Cuerpo diplomático y de las Organizaciones internacionales, Representantes de instituciones académicas y culturales, de la sociedad civil y de diversas organizaciones no gubernamentales, en nombre de esa fraternidad que nos une a todos, como hijos e hijas del mismo cielo.

Ante el misterio del infinito que nos sobrepasa y nos atrae, las religiones nos recuerdan que somos criaturas; no somos omnipotentes, sino mujeres y hombres en camino hacia la misma meta celestial. La condición de criaturas que compartimos instaura así una comunión, una auténtica fraternidad. Nos recuerda que el sentido de la vida no puede reducirse a nuestros intereses personales, sino que se inscribe en la hermandad que nos caracteriza. Sólo crecemos con los demás y gracias a los demás. Queridos Líderes y Representantes de las religiones mundiales y tradicionales, nos encontramos en una tierra transitada a lo largo de los siglos por grandes caravanas. En estos lugares, también por medio de la antigua ruta de la seda, se han entretejido muchas historias, ideas, creencias y esperanzas. Que Kazajistán pueda ser una vez más tierra de encuentro entre quienes están distanciados. Que pueda abrir una nueva ruta de encuentro, basada en las relaciones humanas: el respeto, la honestidad del diálogo, el valor imprescindible de cada uno, la colaboración; un camino para recorrer juntos hacia la paz.

Ayer tomé prestada la imagen del dombra; quisiera hoy asociar al instrumento musical una voz, la del poeta más célebre del país, padre de su literatura moderna, el educador y compositor que a menudo se representa precisamente junto al dombra. Abai (1845-1904), como se lo conoce popularmente, nos ha dejado escritos impregnados de religiosidad, en los que se refleja lo mejor del espíritu de este pueblo, una sapiencia armoniosa, que desea la paz y la busca interrogándose con humildad, anhelando una sabiduría digna del hombre, nunca encerrada en visiones limitadas y estrechas, sino dispuesta a dejarse inspirar por múltiples experiencias. Abai nos provoca con una pregunta imperecedera: «¿Cuál es la belleza de la vida, si no se va en profundidad?» (Poesía, 1898). Otro poeta se preguntaba el sentido de la existencia, poniendo en labios de un pastor de estas inconmensurables tierras de Asia una pregunta igualmente esencial: «¿Adónde tiende este vagar mío, tan breve?» (G. Leopardi, Canto nocturno de un pastor errante de Asia). Interrogantes como este son los que suscitan la necesidad de la religión, y nos recuerdan que nosotros seres humanos no existimos para satisfacer intereses terrenos y para establecer relaciones de naturaleza meramente económica, sino para caminar juntos, como peregrinos con la mirada dirigida al cielo. Necesitamos encontrar un sentido a las preguntas últimas, cultivar la espiritualidad; necesitamos, decía Abai, mantener «despierta el alma y clara la mente» (Palabra 6).

Hermanos y hermanas, el mundo espera de nosotros el ejemplo de almas despiertas y de mentes claras, espera una religiosidad auténtica. Ha llegado la hora de despertarse de ese fundamentalismo que contamina y corroe todo credo, la hora de hacer que el corazón se vuelva transparente y compasivo. Pero también es la hora de dejar sólo a los libros de historia los discursos que, por demasiado tiempo, aquí y en otros sitios, han inculcado sospechas y desprecio respecto a la religión, como si fuera un factor de desestabilización de la sociedad moderna. En este lugar es bien conocida la herencia del ateísmo de Estado, impuesto por decenios, esa mentalidad opresora y sofocante por la cual el simple uso de la palabra “religión” era incómodo. En realidad, las religiones no son un problema, sino parte de la solución para una convivencia más armoniosa. La búsqueda de la trascendencia y el valor sagrado de la fraternidad pueden, en efecto, inspirar e iluminar las decisiones a tomar en el contexto de las crisis geopolíticas, sociales, económicas y ecológicas —pero, en la raíz, espirituales— que atraviesan muchas instituciones en la actualidad, también las democracias, poniendo en peligro la seguridad y la concordia entre los pueblos. Por tanto, necesitamos la religión para responder a la sed de paz del mundo y a la sed de infinito que habita en el corazón de todo hombre.

Por eso, una condición esencial para un desarrollo verdaderamente humano e integral es la libertad religiosa. Hermanos, hermanas, somos criaturas libres. Nuestro Creador se ha “hecho a un lado por nosotros”, ha “limitado” su libertad absoluta —por así decirlo— para hacer también de nosotros unas criaturas libres. ¿Cómo podemos entonces obligar a algunos hermanos en su nombre? «Mientras creemos y adoramos —enseñaba Abai—, no debemos decir que podemos obligar a los demás a creer y adorar» (Palabra 45). La libertad religiosa es un derecho fundamental, primario e inalienable, que es necesario promover en todas partes y que no puede limitarse únicamente a la libertad de culto. De hecho, es un derecho de toda persona dar testimonio público de la propia fe; proponerla sin imponerla nunca. Es la buena práctica del anuncio, diferente del proselitismo y del adoctrinamiento, de los que todos están llamados a mantener distancia. Relegar a la esfera de lo privado el credo más importante de la vida privaría a la sociedad de una riqueza inmensa; favorecer, por el contrario, ambientes donde se respire una respetuosa convivencia de las diversidades religiosas, étnicas y culturales es el mejor modo para valorar las características específicas de cada uno, de unir a los seres humanos sin uniformarlos, de promover sus aspiraciones más altas sin cortar su impulso.

Por tanto, he aquí el valor actual, junto al valor inmortal de la religión, que Kazajistán promueve admirablemente, acogiendo desde hace una veintena de años este Congreso de relevancia mundial. La presente edición nos lleva a reflexionar sobre nuestro rol en el desarrollo espiritual y social de la humanidad durante el período pospandémico.

La pandemia, entre vulnerabilidad y cuidados, representa el primero de cuatro desafíos globales que quisiera indicar y que llaman a todos —aunque de manera especial a las religiones— a una mayor unidad de propósitos. El Covid-19 nos ha puesto a todos en igualdad de condiciones. Nos ha hecho entender que, como decía Abai, «no somos demiurgos, sino mortales» (ibíd.). Todos nos hemos sentido frágiles, todos necesitados de asistencia; ninguno plenamente autónomo, ninguno completamente autosuficiente. Pero ahora no podemos dilapidar la necesidad de solidaridad que hemos percibido siguiendo adelante como si no hubiera ocurrido nada, sin dejarnos interpelar por la exigencia de afrontar juntos las urgencias que conciernen a todos. Las religiones no deben ser indiferentes a esto; están llamadas a ir al frente, a ser promotoras de unidad ante las pruebas que amenazan con dividir aún más la familia humana.

Específicamente, nos corresponde a nosotros, que creemos en la Divinidad, ayudar a los hermanos y las hermanas de nuestra época a no olvidar la vulnerabilidad que nos caracteriza, a no caer en falsas presunciones de omnipotencia suscitadas por los progresos técnicos y económicos, que en sí mismos no bastan; a no dejarse enredar por los lazos del beneficio y la ganancia, como si fueran los remedios a todos los males; a no secundar un desarrollo insostenible que no respete los límites impuestos por la creación; a no dejarse anestesiar por el consumismo que aturde, porque los bienes son para el hombre y no el hombre para los bienes. Es decir que nuestra común vulnerabilidad, que se manifestó durante la pandemia, debería estimularnos a no seguir adelante como antes, sino con mayor humildad y amplitud de miras.

Los creyentes en la pospandemia, además de sensibilizarse sobre nuestra fragilidad y responsabilidad, están llamados al cuidado; a hacerse cargo de la humanidad en todas sus dimensiones, volviéndose artesanos de comunión —repito la palabra, artesanos de comunión—, testigos de una colaboración que supere los cercos de las propias pertenencias comunitarias, étnicas, nacionales y religiosas. Pero, ¿cómo emprender una misión tan ardua? ¿Por dónde comenzar? Por escuchar a los más débiles, por dar voz a los más frágiles, por hacerse eco de una solidaridad global que, en primer lugar, se refiera a ellos, a los pobres, a los necesitados que más han sufrido la pandemia, la cual ha hecho emerger prepotentemente la iniquidad de las desigualdades en el planeta. ¡Cuántos, todavía hoy, no tienen fácil acceso a las vacunas! ¡Cuántos! Estamos de su parte, no de la parte del que tiene más y da menos; seamos conciencias proféticas y valientes, hagámonos prójimos a todos, pero especialmente a los tantos olvidados de hoy, a los marginados, a los sectores más débiles y pobres de la sociedad, a aquellos que sufren a escondidas y en silencio, lejos de los reflectores. Lo que les propongo no es sólo un camino para ser más sensibles y solidarios, sino un itinerario de sanación para nuestra sociedad. Sí, porque es precisamente la indigencia la que permite que se propaguen las epidemias y otros grandes males que prosperan en el ámbito de las necesidades y las desigualdades. El mayor factor de riesgo de nuestro tiempo sigue siendo la pobreza. A este respecto, Abai se preguntaba sabiamente: «Los que tienen hambre, ¿pueden conservar una mente clara […] y mostrar diligencia en el aprendizaje? Pobreza y litigios […] generan […] violencia y avidez» (Palabra 25). Mientras sigan haciendo estragos la desigualdad y las injusticias, no cesarán virus peores que el Covid: los del odio, la violencia y el terrorismo.

Y esto nos lleva al segundo desafío global que interpela de modo particular a los creyentes: el desafío de la paz. En las últimas décadas, el diálogo entre los responsables de las religiones se ha centrado sobre todo en esta temática. Sin embargo, vemos que nuestros días están aún marcados por el flagelo de la guerra, por un clima de discusiones exasperadas, por la incapacidad de dar un paso atrás y tender la mano al otro. Se necesita un sacudón y se necesita, hermanos y hermanas, que venga de nosotros. Si el Creador, a quien dedicamos la existencia, ha dado origen a la vida humana, ¿cómo podemos nosotros, que nos profesamos creyentes, consentir que ésta sea destruida? Y, ¿cómo podemos pensar que los hombres de nuestro tiempo —muchos de los cuales viven como si Dios no existiera— estén motivados a comprometerse en un diálogo respetuoso y responsable, si las grandes religiones, que constituyen el alma de tantas culturas y tradiciones, no se comprometen activamente por la paz?

Recordando los horrores y los errores del pasado, unamos los esfuerzos, para que nunca más el Omnipotente se vuelva rehén de la voluntad de poder humano. Abai recuerda que “aquel que permite el mal y no se opone al mal no puede ser considerado un verdadero creyente sino, en el mejor de los casos, un creyente tibio” (cf. Palabra 38). Hermanos, hermanas, es necesaria, para todos y para cada uno, una purificación del mal. El gran poeta kazajo insistía en este aspecto, escribiendo que quien «abandona el aprendizaje se priva de una bendición» y «quien no es severo consigo mismo y no es capaz de compasión no puede ser considerado creyente» (Palabra 12). Por tanto, hermanos y hermanas, purifiquémonos de la presunción de sentirnos justos y de no tener nada que aprender de los demás; liberémonos de esas concepciones reductivas y ruinosas que ofenden el nombre de Dios por medio de la rigidez, los extremismos y los fundamentalismos, y lo profanan mediante el odio, el fanatismo y el terrorismo, desfigurando también la imagen del hombre. Sí, porque «la fuente de la humanidad —recuerda Abai— es amor y justicia, […] estas son las coronas de la creación divina» (Palabra 45). No justifiquemos nunca la violencia. No permitamos que lo sagrado sea instrumentalizado por lo que es profano. ¡Que lo sagrado no sea apoyo del poder y el poder no se apoye en la sacralidad!

Dios es paz y conduce siempre a la paz, nunca a la guerra. Comprometámonos, por tanto, aún más, a promover y reforzar la necesidad de que los conflictos se resuelvan no con las ineficaces razones de la fuerza, con las armas y las amenazas, sino con los únicos medios bendecidos por el cielo y dignos del hombre: el encuentro, el diálogo, las tratativas pacientes, que se llevan adelante pensando especialmente en los niños y en las jóvenes generaciones. Estos encarnan la esperanza de que la paz no sea el frágil resultado de negociaciones escabrosas, sino el fruto de un compromiso educativo constante, que promueva sus sueños de desarrollo y de futuro. Abai, en ese sentido, animaba a ampliar el saber, a cruzar el confín de la propia cultura, a abrazar el conocimiento, la historia y la literatura de los demás. Les ruego que invirtamos en esto, no en los armamentos, sino en la instrucción.

Después de los desafíos de la pandemia y de la paz, recabamos un tercer desafío, el de la acogida fraterna. Hoy es grande la dificultad de aceptar al ser humano. Cada día bebés por nacer y niños, migrantes y ancianos son descartados. Hay una cultura del descarte. Numerosos hermanos y hermanas mueren sacrificados en el altar del lucro, envueltos en el incienso sacrílego de la indiferencia. Y, sin embargo, todo ser humano es sagrado. «Homo sacra res homini», decían los antiguos (Séneca, Epistulae morales ad Lucilium, 95,33). Es sobre todo tarea nuestra, de las religiones, recordarlo al mundo. Nunca como ahora presenciamos grandes movimientos de poblaciones, causados por las guerras, la pobreza, los cambios climáticos, en la búsqueda de un bienestar que el mundo globalizado permite conocer, pero al que a menudo es difícil acceder. Un gran éxodo está en curso, desde las regiones más necesitadas se busca alcanzar aquellas con mayor bienestar. Lo vemos todos los días, en las diversas migraciones en el mundo. No es un dato de crónica, es un hecho histórico que requiere soluciones compartidas y amplitud de miras. Ciertamente, defender las propias seguridades adquiridas y cerrar las puertas por miedo viene de manera instintiva; es más fácil sospechar del extranjero, acusarlo y condenarlo antes que conocerlo y entenderlo. Pero es nuestro deber recordar que el Creador, que vela los pasos de toda criatura, nos exhorta a tener una mirada semejante a la suya, una mirada que reconozca el rostro del hermano. Al hermano migrante es necesario recibirlo, acompañarlo, promoverlo e integrarlo.

La lengua kazaja invita a tener esta mirada acogedora; en ella “amar” significa literalmente “tener una mirada buena sobre alguien”. Pero también la cultura tradicional de estas regiones afirma la misma cosa por medio de un hermoso proverbio popular: «Si encuentras a alguien, intenta hacerlo feliz, quizá sea la última vez que lo veas». Si el culto de la hospitalidad esteparia recuerda el valor irrenunciable de todo ser humano, Abai lo establece diciendo que «el hombre debe ser amigo del hombre» y que dicha amistad se funda en un intercambio universal, porque las realidades importantes de la vida y después de la vida son comunes. Y, por tanto, sentencia, «todas las personas son huéspedes unas de otras» y «el mismo hombre es un huésped en esta vida» (Palabra 34). Redescubramos el arte de la hospitalidad, de la acogida, de la compasión. Y aprendamos también a avergonzarnos; sí, a experimentar esa sana vergüenza que nace de la piedad por el hombre que sufre, de la conmoción y del asombro por su condición, por su destino, del cual nos sentimos partícipes. El camino de la compasión es el que nos hace más humanos y más creyentes. Depende de nosotros, además de afirmar la dignidad inviolable de todo hombre, enseñar a llorar por los demás, porque sólo seremos verdaderamente humanos si percibimos como nuestras las fatigas de la humanidad.

Nos interpela un último desafío global: el cuidado de la casa común. Frente a los cambios climáticos es necesario protegerla, para que no sea sometida a las lógicas de las ganancias, sino preservada para las generaciones futuras, para alabanza del Creador. Escribía Abai: «¡Qué mundo maravilloso nos ha dado el Creador! Él nos dio su luz con magnanimidad y generosidad. Cuando la madre tierra nos albergó en su seno, nuestro Padre celestial se inclinó sobre nosotros con solicitud» (de la poesía “Primavera”). El Altísimo ha dispuesto con cuidado amoroso una casa común para la vida. Y nosotros, que nos profesamos suyos, ¿cómo podemos permitir que se contamine, se maltrate y se destruya? También en este desafío unamos esfuerzos. No es el último por importancia, sino que se une al primero, al de la pandemia. Virus como el Covid-19, que, aun siendo microscópicos, son capaces de erosionar las grandes ambiciones del progreso, a menudo están vinculados a un equilibrio deteriorado —en gran parte por nuestra causa— con la naturaleza que nos rodea. Pensemos por ejemplo en la deforestación, en el comercio ilegal de animales vivos, en los criaderos intensivos. Es la mentalidad de la explotación que devasta la casa que habitamos. No sólo eso; lleva a eclipsar esa visión respetuosa y religiosa del mundo querida por el Creador. Por eso es imprescindible favorecer y promover el cuidado de la vida en todas sus formas.

Queridos hermanos y hermanas, sigamos adelante juntos, para que el camino de las religiones sea cada vez más amistoso. Abai decía que «un falso amigo es como una sombra, cuando el sol resplandece sobre ti, no te liberarás de él, pero cuando las nubes se condensan sobre ti, no se verá por ninguna parte» (Palabra 37). Que no nos suceda esto, que el Altísimo nos libre de las sombras de la sospecha y de la falsedad, que nos conceda cultivar amistades luminosas y fraternas, por medio del diálogo asiduo y la franca sinceridad de las intenciones. Y quisiera agradecer aquí por el esfuerzo que hace Kazajistán en relación a este tema: siempre tratando de unir, siempre intentando que se propicie el diálogo, siempre procurando que se entablen lazos de amistad. Este es un ejemplo que nos da Kazajistán a todos nosotros y debemos seguirlo, secundarlo. No busquemos falsos sincretismos conciliadores —no sirven—, sino más bien conservemos nuestras identidades abiertas a la valentía de la alteridad, al encuentro fraterno. Sólo así, por este camino, en los tiempos oscuros que vivimos, podremos irradiar la luz de nuestro Creador. ¡Gracias a todos!

[01366-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

Irmãos e irmãs!

Permiti que vos trate assim com estas palavras diretas e familiares: «irmãos e irmãs». É deste modo que vos desejo saudar, Líderes religiosos e Autoridades, membros do Corpo Diplomático e das Organizações Internacionais, Representantes de instituições académicas e culturais, da sociedade civil e de várias organizações não-governamentais, em nome daquela fraternidade que a todos nos une enquanto filhos e filhas do mesmo Céu.

Frente ao mistério do infinito que nos sobrepuja e atrai, as religiões lembram-nos que somos criaturas: não somos omnipotentes, mas mulheres e homens em caminho para a mesma meta celeste. Assim a dimensão de criatura que partilhamos estabelece uma comunhão, uma real fraternidade. Recorda-nos que o sentido da vida não se pode reduzir aos nossos interesses pessoais, mas inscreve-se na fraternidade que nos carateriza. Só crescemos com os outros e graças aos outros. Amados Líderes e Representantes das religiões mundiais e tradicionais, encontramo-nos numa terra que, ao longo dos séculos, foi percorrida por grandes caravanas: nestes lugares, incluindo através da antiga rota da seda, entrelaçaram-se tantas histórias, ideias, crenças e esperanças. Possa o Cazaquistão continuar a ser uma terra de encontro entre quem está distante. Possa abrir uma nova rota de encontro, centrada sobre as relações humanas: no respeito, na honestidade do diálogo, no valor imprescindível de cada um, na colaboração; uma rota fraterna para caminhar juntos rumo à paz.

Ontem tomei, emprestada, a imagem da dombra; hoje, quero associar ao instrumento musical uma voz, a do poeta mais famoso do país, pai da sua literatura moderna, o educador e compositor muitas vezes representado precisamente junto com a dombra. Abai (1845-1904) – como é conhecido popularmente – deixou-nos escritos impregnados de religiosidade, nos quais transparece a alma melhor deste povo: uma sabedoria harmoniosa, que deseja a paz e procura-a interrogando-se com humildade, anelando por uma sabedoria digna do homem, nunca fechada em visões restritas e apertadas, mas pronta a deixar-se inspirar pelas mais variadas experiências. Abai provoca-nos com um interrogativo atemporal: «Que beleza pode ter a vida, se não se vai em profundidade?» (Poesia, 1898). Outro poeta interrogava-se sobre o sentido da existência, colocando nos lábios dum pastor destas terras infindas da Ásia uma pergunta igualmente essencial: «Para onde tende este meu breve vagar?» (G. Leopardi, Canto noturno dum pastor errante da Ásia). São questões como estas que suscitam a necessidade da religião, que nos lembram que nós, seres humanos, não existimos tanto para satisfazer interesses terrenos e tecer relações apenas de natureza económica, como sobretudo para caminhar juntos como viandantes com o olhar voltado para o Céu. Precisamos de encontrar um sentido para as questões últimas, cultivar a espiritualidade; temos necessidade – dizia Abai – de manter «desperta a alma e límpida a mente» (Palavra 6).

Irmãos e irmãs, o mundo espera de nós o exemplo de almas despertas e mentes límpidas, espera uma religiosidade autêntica. Chegou a hora de despertar daquele fundamentalismo que polui e corrói toda a crença, chegou a hora de tornar límpido e compassivo o coração. Mas é hora também de deixar apenas aos livros de história os discursos que por demasiado tempo, aqui e noutras partes, inculcaram suspeitas e desprezo a respeito da religião, como se esta fosse um fator desestabilizador da sociedade moderna. Nestes lugares, é bem conhecida a herança do ateísmo de Estado, imposto durante decénios, aquela mentalidade opressiva e sufocante para a qual o mero uso da palavra «religião» já gerava embaraço. Na realidade, as religiões não são problema, mas parte da solução para uma convivência mais harmoniosa. Com efeito a busca da transcendência e o valor sagrado da fraternidade podem inspirar e iluminar as opções a tomar no contexto das crises geopolíticas, sociais, económicas, ecológicas, mas – na sua raiz – espirituais, que atravessam muitas instituições de hoje, incluindo as democracias, comprometendo a segurança e a concórdia entre os povos. Portanto precisamos de religião para responder à sede de paz do mundo e à sede de infinito que habita o coração de cada homem.

Por isso, condição essencial para um desenvolvimento verdadeiramente humano e integral é a liberdade religiosa. Irmãos, irmãs, somos criaturas livres. O nosso Criador «pôs-Se de lado por nós», «limitou» por assim dizer a sua liberdade absoluta para fazer também de nós criaturas livres. Então como podemos coagir irmãos em nome d’Ele? «Enquanto acreditamos e adoramos – ensinava Abai –, não devemos dizer que podemos constranger os outros a crer e a adorar» (Palavra 45). A liberdade religiosa constitui um direito fundamental, primário e inalienável, que é preciso promover em todos os lugares e que não se pode limitar apenas à liberdade de culto. De facto, é direito de cada pessoa prestar testemunho público da sua própria crença: propô-lo, sem nunca o impor. É a prática correta do anúncio, diferente daquele proselitismo e doutrinamento de que todos são chamados a manter-se distantes. Relegar para a esfera privada a crença mais importante da vida privaria a sociedade duma riqueza imensa; ao contrário, favorecer contextos onde se respira uma convivência respeitosa das diversidades religiosas, étnicas e culturais é a forma melhor de valorizar os traços específicos de cada um, de unir os seres humanos sem os uniformizar, de promover as suas aspirações mais altas sem cortar as asas ao seu impulso.

Uma vez afirmado o valor imortal da religião, vejamos na atualidade o seu valor, que o Cazaquistão admiravelmente promove, hospedando há vinte anos este Congresso de relevância mundial. A presente edição leva-nos a refletir sobre o nosso papel no desenvolvimento espiritual e social da humanidade durante este período pós-pandémico.

Por entre vulnerabilidade e tratamento, a pandemia representa o primeiro de quatro desafios globais que quero delinear convocando a todos – mas de modo especial as religiões – para uma maior unidade de intentos. A Covid-19 colocou-nos a todos no mesmo plano. Fez-nos compreender que «não somos demiurgos – como dizia Abai –, mas mortais» (Ibid.): todos nos sentíamos frágeis, todos necessitados de assistência; ninguém plenamente autónomo, ninguém completamente autossuficiente. Mas agora não podemos delapidar aquela necessidade de solidariedade que sentíamos, prosseguindo como se nada tivesse acontecido, sem nos deixarmos interpelar pela exigência de enfrentar juntos as urgências que a todos dizem respeito. A isto, não devem ficar indiferentes as religiões: são chamadas a estar na vanguarda, a ser promotoras de unidade face às provas que arriscam a família humana a dividir-se ainda mais.

Especificamente cabe a nós, que acreditamos no Divino, ajudar os irmãos e irmãs do nosso tempo a não esquecer a vulnerabilidade que nos carateriza para não cair em falsas presunções de omnipotência suscitadas por progressos técnicos e económicos, que por si sós não bastam; não se deixar enrodilhar nos laços do proveito e do lucro, como se fossem remédio para todos os males; não favorecer um progresso insustentável que não respeite os limites impostos pela criação; não se deixar anestesiar pelo consumismo que estonteia, porque os bens são para o homem e não o homem para os bens. Em suma, a nossa vulnerabilidade comum, que veio ao de cima durante a pandemia, deveria estimular-nos a continuar, não como antes, mas com mais humildade e clarividência.

Além de sensibilizar para a nossa fragilidade e responsabilidade, os crentes na pós-pandemia são chamados ao cuidado: a cuidar da humanidade em todas as suas dimensões, tornando-se artesãos de comunhão – repito a expressão: artesãos de comunhão –, testemunhas duma colaboração que supere as barreiras da própria pertença comunitária, étnica, nacional e religiosa. Mas como empreender uma missão tão árdua? Donde começar? Da escuta dos mais vulneráveis, de dar voz aos mais frágeis, de fazer-se eco duma solidariedade global que diga respeito em primeiro lugar a eles, aos pobres, aos necessitados que mais sofreram com a pandemia, tendo esta posto prepotentemente a descoberto a iniquidade das desigualdades no planeta. Quantos não têm, ainda hoje, fácil acesso às vacinas! Tantos… Estejamos da sua parte, e não da parte de quem tem mais e dá menos; tornemo-nos consciências proféticas e corajosas, façamo-nos próximo a todos, mas especialmente aos demasiado esquecidos de hoje, aos marginalizados, às camadas mais vulneráveis e pobres da sociedade, àqueles que sofrem escondidos e em silêncio, longe dos holofotes. Aquilo que vos proponho não é apenas um caminho para ser mais sensíveis e solidários, mas um percurso de cura para as nossas sociedades. Sim, porque é precisamente a indigência que permite a propagação de epidemias e os outros grandes males que prosperam no terreno das contrariedades e desigualdades. O maior fator de risco do nosso tempo continua a ser a pobreza. A propósito e sabiamente, Abai perguntava-se: «Poderão quantos têm fome guardar uma mente límpida (...) e mostrar diligência em aprender? Pobreza e lites (…) geram (…) violência e ganância» (Palavra 25). Enquanto continuarem a assolar disparidades e injustiças, não poderão cessar os vírus piores do que a Covid, ou seja, os do ódio, da violência, do terrorismo.

E isto leva-nos ao segundo desafio planetário, que interpela de maneira particular os crentes: o desafio da paz. Nas últimas décadas, o diálogo entre os responsáveis das religiões incidiu principalmente sobre esta temática. No entanto, vemos os nossos dias ainda marcados pelo flagelo da guerra, por um clima de confrontos exasperados, pela incapacidade de recuar um passo e estender a mão ao outro. É preciso, irmãos e irmãs, um abanão da nossa parte. Se o Criador, a quem dedicamos a existência, deu origem à vida humana, como podemos nós – que nos professamos crentes – consentir que a mesma seja destruída? E como podemos pensar que os homens do nosso tempo – muitos dos quais vivem como se Deus não existisse – estejam motivados para se comprometer num diálogo respeitoso e responsável, se as grandes religiões, que constituem a alma de tantas culturas e tradições, não se empenham ativamente pela paz?

Recordados dos horrores e erros do passado, unamos os esforços para que o Omnipotente nunca mais acabe refém da vontade de potência humana. Abai lembra que «aquele que permite o mal e não se opõe ao mal, não pode ser considerado um verdadeiro crente, mas, no melhor dos casos, um crente tíbio» (cf. Palavra 38). Irmãos e irmãs, há necessidade, para todos e cada um, duma purificação do mal. O grande poeta cazaque insistia neste aspeto, escrevendo que quem «abandona a aprendizagem priva-se duma bênção» e «quem não é severo consigo mesmo e não é capaz de compaixão, não pode ser considerado crente» (Palavra 12). Irmãos e irmãs, purifiquemo-nos, pois, da presunção de nos sentir justos e de não ter nada a aprender dos outros; libertemo-nos das conceções redutoras e ruinosas que ofendem o nome de Deus com rigidezes, extremismos e fundamentalismos, e o profanam por meio do ódio, do fanatismo e do terrorismo, desfigurando inclusive a imagem do homem. Sim, porque «a fonte da humanidade – lembra Abai – é amor e justiça, (...) são eles as coroas da criação divina» (Palavra 45). Nunca justifiquemos a violência. Não permitamos que o sagrado seja instrumentalizado por aquilo que é profano. O sagrado não seja suporte do poder, e o poder não se valha de suportes de sacralidade!

Deus é paz, e sempre conduz à paz, nunca à guerra. Por isso empenhemo-nos ainda mais a promover e reforçar a necessidade de que os conflitos sejam resolvidos não com as razões inconclusivas da força, com as armas e as ameaças, mas com os únicos meios abençoados pelo Céu e dignos do homem: o encontro, o diálogo, as negociações pacientes, que se levam por diante a pensar particularmente nas crianças e nas jovens gerações. Elas encarnam a esperança de que a paz não seja o frágil resultado de frenéticas negociações, mas o fruto dum constante empenho educativo que promova os seus sonhos de progresso e de futuro. Neste sentido, Abai encorajava a expandir o saber, ultrapassar a fronteira da própria cultura, abraçar o conhecimento, a história e a literatura dos outros. Invistamos, por favor, nisto! Não nos armamentos, mas na instrução.

Depois dos desafios da pandemia e da paz, abracemos um terceiro desafio: o do acolhimento fraterno. Hoje sente-se grande fadiga para aceitar o ser humano. Todos os dias são descartados nascituros e crianças, migrantes e idosos. Existe uma cultura do descarte. Muitos irmãos e irmãs morrem sacrificados no altar do lucro, envolvidos pelo incenso sacrílego da indiferença. E contudo é sacro todo o ser humano. «Homo sacra res homini»: diziam os antigos (Séneca, Epistulae morales ad Lucilium, 95, 33). É tarefa primária nossa, isto é, das religiões, recordá-lo ao mundo. Nunca antes tínhamos assistido, como agora, a tão grandes deslocamentos de populações, causados por guerras, pobreza, alterações climáticas, pela busca dum bem-estar que o mundo globalizado permite conhecer, mas se revela frequentemente de difícil acesso. Está em curso um grande êxodo: das áreas mais desfavorecidas procura-se chegar às mais abastadas. Vemo-lo todos os dias no mundo inteiro, nas diferentes migrações. Não é notícia dos jornais, mas é um facto histórico que requer soluções partilhadas e clarividentes. Certamente, é instintivo defender as próprias certezas adquiridas e fechar as portas por medo; é mais fácil suspeitar do estrangeiro, acusá-lo e condená-lo do que conhecê-lo e compreendê-lo. Mas é nosso dever lembrar que o Criador, que vela sobre os passos cada criatura, nos exorta a ter um olhar semelhante ao d’Ele, um olhar que reconheça o rosto do irmão. Ao irmão migrante, é preciso recebê-lo, acompanhá-lo, promovê-lo e integrá-lo.

A língua cazaque convida a este olhar acolhedor: nela, o termo «amar» significa literalmente «ter um olhar bom sobre alguém». E a cultura tradicional destas regiões afirma a mesma coisa através dum lindo provérbio popular: «Se encontras alguém, procura fazê-lo feliz; talvez seja a última vez que o vês». Se o culto da hospitalidade, nestas estepes, lembra o valor insuprível de cada ser humano, Abai sanciona isso mesmo dizendo que «o homem deve ser amigo do homem» e que tal amizade se baseia numa partilha universal, porque as realidades importantes da vida e para além da vida são comuns. E coerentemente declara: «todas as pessoas são hóspedes umas das outras» e «o próprio homem é um hóspede nesta vida» (Palavra 34). Redescubramos a arte da hospitalidade, do acolhimento, da compaixão. E aprendamos também a corar: sim, a sentir aquela saudável vergonha que nasce da piedade pelo homem que sofre, da comoção e estupefação pela sua condição, pelo seu destino de que nos sentimos parte. É o caminho da compaixão, que nos torna mais humanos e mais crentes. Cabe a nós, além de afirmar a dignidade inviolável de todo o homem, ensinar a chorar pelos outros, porque só seremos verdadeiramente humanos, se sentirmos como nossas as fadigas da humanidade.

Há um último desafio global que nos interpela: a custódia da casa comum. À vista das convulsões climáticas, é preciso protegê-la, para que não fique sujeita às lógicas do lucro, mas seja preservada para as gerações futuras, em louvor do Criador. Escrevia Abai: «Que mundo maravilhoso nos deu o Criador! Com magnanimidade e generosidade nos deu a sua luz. Quando a mãe-terra nos alimentava ao seu seio, era o nosso Pai celeste que Se inclinava carinhosamente sobre nós» (Poesia «Primavera»). Com amoroso cuidado, o Altíssimo providenciou uma casa comum para a vida. E como podemos nós, que nos professamos Seus, permitir que aquela seja poluída, maltratada e destruída? Unamos esforços também neste desafio. Não é o último, em importância. Na verdade está ligado ao primeiro, ao pandémico. Vírus como a Covid-19 que, apesar de microscópicos, são capazes de esfrangalhar as grandes ambições do progresso, frequentemente estão relacionados com um equilíbrio deteriorado, em grande parte por nossa causa, na natureza que nos rodeia. Pensemos por exemplo na desflorestação, no comércio ilegal de animais vivos, nas explorações agropecuárias intensivas; é a mentalidade da exploração a devastar a casa onde habitamos. Mais: leva a eclipsar aquela visão respeitosa e religiosa do mundo desejada pelo Criador. Por isso, é imprescindível favorecer e promover a custódia da vida em todas as suas formas.

Queridos irmãos e irmãs, avancemos juntos, para que seja cada vez mais amistoso o caminho das religiões. Abai dizia que «o falso amigo é como uma sombra: quando o sol brilha sobre ti, não te livrarás dele, mas quando as nuvens se acumularem sobre ti, não se fará ver em parte alguma» (Palavra 37). Que isso não aconteça connosco! O Altíssimo liberte-nos das sombras da suspeita e da falsidade; conceda-nos cultivar amizades ensolaradas e fraternas, através do diálogo frequente e da sinceridade luminosa das intenções. E desejo agradecer aqui o esforço do Cazaquistão neste ponto: sempre procura unir, sempre procura incentivar o diálogo, sempre procura construir a amizade. Isto é um exemplo que o Cazaquistão dá a todos nós e devemos segui-lo, apoiá-lo. Não procuremos falsos sincretismos conciliatórios – não servem –, mas guardemos as nossas identidades abertas à coragem da alteridade, ao encontro fraterno. Só assim, por este caminho, nos tempos sombrios que vivemos, poderemos irradiar a luz do nosso Criador. A todos vós, obrigado!

[01366-PO.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

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[01366-PL.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua araba

الزيارة الرسوليّة إلى كازاخستان

كلمة قداسة البابا فرنسيس

في افتتاح المؤتمر السّابع لقادة الديانات العالميّة والتّقليديّة

في نور سلطان

الأربعاء 14 أيلول/سبتمبر 2022

أيّها الإخوة والأخوات،

اسمحوا لي أن أخاطبكم بهذه الكلمات المباشرة والبسيطة. كذلك أودّ أن أحيّيكم، القادة الدينيّين والسُّلطات، وأعضاء السّلك الدبلوماسيّ والمنظمات الدوليّة، وممثّلي المؤسّسات الأكاديميّة والثقافيّة، والمجتمع المدني ومختلف المنظمات غير الحكوميّة، باسم الأُخُوّة التي توحِّدنا جميعًا، أبناءَ وبنات السّماء نفسها.

أمام سِرّ اللامتناهي الذي يهيمن علينا ويجذبنا، تذكِّرُنا الأديان أنّنا خلائق: لا نقدر على كلّ شيء، لكنّا نساءٌ ورجالٌ في طريقنا إلى نفس الهدف السّماوي. نشترك في كونِنَا خلائق، وهذا يجعل بيننا طابعًا مشتركًا، وأخُوّة حقيقيّة. ويذكِّرُنا أنّ معنى الحياة لا يمكن اختزاله في اهتماماتنا الشّخصيّة، بل هو منقوش في الأخُوّة التي تميِّزنا. نحن ننمو فقط مع الآخرين وبفضل الآخرين. القادة الأعزّاء وممثّلي الأديان العالميّة والتقليديّة، نحن في أرض اجتازتها عبر القرون قوافل كبيرة من الشّعوب: في هذه الأماكن، حتّى عبر طريق الحرير القديم، تشابكت قصّص عديدة، وأفكار ومعتقدات وآمال. ليَكُن كازاخستان مرة أخرى أرضَ لقاء بين المتباعدين. ليَكُن فاتحَ طريق لقاء جديد، يتمحوّر على العلاقات الإنسانيّة: على الاحترام، والحوار الصّادق، وقيمة الإنسان التي لا يمكن الاستغناء عنها، والتعاون. ليَكُن طريقَ أُخُوَّة للسير معًا نحو السّلام.

بالأمس استعرت صورة ”الدومبرا“. وأوَدُّ اليوم أن أضيف إلى الآلة الموسيقيّة صوتًا، صوت أشهر شاعر في البلاد، أبي الأدب الحديث، المربِّي، والملحِّن، والذي يُصوَّر غالبًا مع ”الدومبرا“. لقد ترك لنا ”آباي“ (1845-1904)، كما يُسَمَّى شعبيًّا، كتابات مُشبَعة بالتديُّن، تتألّق فيها روح هذا الشّعب على أفضل وجه: فيها حكمة منسجمة، ورغبة في السّلام، يبحث عنه متسائِلًا بتواضع، ويتوق إلى حكمة جديرة بالإنسان، غير منغلقة في رُؤًى محصورة وضيقة، لكنّها على استعداد دائم لتستلهم من تجارب متعددة. يتحدّانا آباي بسؤال أبدي: "ما هو جمال الحياة، إن لم ندخل في عمقها؟" (شعر، 1898). تساءل شاعر آخر عن معنى الوجود، فوضع على شفاه راعٍ في هذه الأراضيّ الأسيويّة الشّاسعة: "إلى أين تسير رحلتي هذه القصيرة؟" (ج. ليوباردي، أغنية ليلية لراعٍ متجوِّل في آسيا). أسئلة مثل هذه تثير الحاجة إلى الدين، وتذكِّرُنا بأنّنا نحن البشر لا نوجد فقط لإرضاء مصالح أرضيّة ونسج علاقات ذات طبيعة اقتصاديّة فقط، بل للسير معًا، مثل مسافرين، ونظرُهم متَّجِهٌ إلى السّماء. نحن بحاجة إلى وجود معنى للأسئلة عن الأواخر، ولتنمية الرّوح فينا. قال آباي، نحن بحاجة إلى إبقاء "الرّوح مستيقظة والذهن صافيًا" (كلمة 6).

أيّها الإخوة والأخوات، العالم ينتظر منا مثالَ نفوسٍ يقظة وأذهانٍ صافية، وينتظر تديُّنًا حقيقيًّا. لقد حان وقت الاستيقاظ من الأصولية التي تلوِّث كلّ عقيدة وتفسدها. حان الوقت لجعل القلب صافيًا ورحيمًا. ولكن حان الوقت أيضًا لأن نترك فقط لكتب التاريخ الخطابات التي ظلّت مدّة فترة طويلة جدًا، هنا وفي أماكن أخرى، تغرس الشّك والازدراء بالدين، كما لو كان عاملًا مزعزعًا للاستقرار في المجتمع الحديث. في هذه الأماكن، من المعروف جيّدًا إرث إلحاد الدولة، الذي فُرض مدى عقود، تلك العقليّة القمعيّة والخانقة، حيث كان مجرد استخدام كلمة ”دين“ يسبِّب الإحراج. في الواقع، الأديان ليست هي المشكلة، لكنّها جزء من الحلّ، من أجل عيشٍ معًا فيه مزيد من الانسجام. طلبُ التعالي ما فوق أنفسنا، والقيمة المقدّسة للأخُوّة، يمكن في الواقع أن يلهم وينير الخيارات التي يجب اتخاذها في سياق الأزمات الجيوسياسيّة والاجتماعيّة والاقتصاديّة والبيئيّة، وهي في الأصل أيضًا أزمات روحيّة، التي تجتاز اليوم مؤسّسات كثيرة، بما في ذلك الديمقراطيّات، فتعرِّض للخطر الأمن والوئام بين الشّعوب. لذلك نحن بحاجة إلى الدين للاستجابة لعطش العالم إلى السّلام، وللعطش إلى اللامحدود الذي يسكن قلب كلّ إنسان.

لهذا السبب، فإنّ الحريّة الدينيّة هي الشّرط الأساسيّ لتنميةٍ إنسانيّة حقيقيّة ومتكاملة. أيّها الإخوة والأخوات، نحن خلائق حرّة. لقد ”وقف خالقنا جانبًا من أجلنا“، وإن جاز التعبير، ”حدَّ“ من حريته المطلقة حتّى يجعلنا نحن أيضًا خلائق حرّة. فكيف يمكننا أن نلجأ إلى الإكراه في التعامل مع إخوتنا باسمه؟ يقول آباي: "عندما نؤمن نحن ونعبد، لا يجوز أن نقول إنّه يمكننا إجبار الآخرين على الإيمان والعبادة" (كلمة 45). الحريّة الدينيّة هي حقّ أساسيّ وأولّي، وغير قابل التصرّف، ويجب تعزيزه في كلّ مكان، ولا يمكن حصره في حريّة العبادة وحدها. في الواقع، من حقّ كلّ إنسان أن يشهد علنًا لعقيدته، من دون أن يفرضها، أبدًا. إنّها الممارسة السّليمة لحمل البشرى السّارّة، التي تختلف عن البحث عن أتباع وعن غسل الأدمغة، وهذه أمور يُدعَى الكلّ إلى الابتعاد عنها. إنّ عزل أهمّ عقيدة في الحياة إلى المجال الخاص من شأنه أن يحرم المجتمع من ثروة هائلة. بينما إيجاد مجالات يتنفس فيها الإنسان جوًّا من العيش معًا، فيه احترام للتنوّع الدينيّ، والعرقيّ والثقافيّ، هو أفضل طريقة لتعزيز الميزات الخاصّة لكلّ فرد، ولتوحيد البشر دون جعلهم متساوين متشابهين، ولتعزيز أسمى تطلعاتهم دون إيقاف انطلاقها.

وهنا إذن، إلى جانب قيمة الدين الخالدة، القيمة الحاليّة التي تروِّج لها كازاخستان بصورة عجيبة، باستضافته هذا المؤتمر العالميّ منذ عشرين سنة. يدعونا مؤتمر هذه السّنة إلى التفكير في دورنا في تنميّة البشريّة الرّوحيّة والاجتماعيّة، في فترة ما بعد الجائحة.

تمثّل الجائحة، بين الضّعف والعلاج، التحدّي الأوّل من أربعة تحديات عالميّة، أودّ تحديدها، وهي تدعو الجميع - وخاصّة الأديان - إلى مزيد من الوَحدة في مقاصدنا. لقد وضعَنا ”الكوفيد 19“ جميعًا على قدم المساواة. وجعلنا نفهم، كما قال آباي، أنّنا "لسنا أنصافَ آلهة، بل نحن بشرٌ مائتون" (المرجع نفسه): شعرنا جميعًا بالهشاشة، وكلّنا بحاجة إلى المساعدة، لا أحد مستقل استقلالًا كاملًا، ولا أحد مكتفٍ بذاته بصّورة كاملة. ولذلك، لا يمكننا الآن تبديد هذه الحاجة إلى التضامن التي شعرنا بها، فنتابع تقدُّمَنا وكأنّ شيئًا لم يحدث، دون أن نسمح لأنفسنا بأن نستجيب لكلّ المتطلّبات التي تنادينا لمواجهة الظروف الملّحة التي تهمّ الجميع معًا. وهنا، لا يجوز أن تكون الأديان لا مبالية: فهي مدعُوّة إلى أن تكون في الطليعة، لتعزِّز الوَحدة أمام المحن التي تهدِّد الأسرة البشريّة بمزيد من التقسيم.

على وجه التحديد، علينا نحن الذين نؤمن بالله تعالى مساعدة الإخوة والأخوات في عصرنا كي لا ننسى الضّعف الذي يميِّزنا: يجب ألّا نقع في ادِّعاءات زائفة أنَّ لنا قدرةً مطلقة، بسبب التقدّم التقنيّ والاقتصاديّ الذي حقَّقْناه،- هذا وحده لا يكفي. ويجب ألّا نترك أنفسنا نقع في أشراك الرّبح والكسب، كما لو كانا علاجًا لجميع العلل. ولا نصير مؤيِّدين لتنميّة غير مستدامة لا تحترم الحدود التي يفرضها الخلق، ولا نسمح لأنفسنا بأن يخدِّرَنا الاستهلاك الذي يُفقِدُنا الرشد، لأنّ الخيرات هي للإنسان وليس الإنسان للخيرات. وباختصار، فإنّ ضعفنا المشترك، الذي ظهر في أثناء الجائحة، يجب أن يشجِّعَنا على عدم الاستمرار كما كنَّا من قبل، بل نسير بمزيد من التواضع وبُعد النظر.

بالإضافة إلى رفع مستوى الوعي بضعفنا ومسؤوليتنا، فإنّ المؤمنين في مرحلة ما بعد الجائحة مدعُوُّون إلى: الاهتمام بالإنسانيّة بكلّ أبعادها، وإلى أن يصبحوا صانعي شركة ووَحدة – أكرّر هذه الكلمة: صانعي شركة ووَحدة -، وشهودًا لتعاون يتغلَّب على أسوار انتماءاتهم الجماعيّة، والعرقيّة، والقوميّة، والدينيّة. كيف يمكن القيام بمثل هذه المهمّة الشّاقة؟ ومن أين نبدأ؟ من الاستماع إلى الأضعفين، وبأن نكون صوتًا لأشدّهم ضعفًا، وصدًى للتضامن العالميّ الذي يهُمُّه أوّلًا وقبل كلّ شيء، الفقراء والمحتاجون الذين عانوا أكثر من غيرهم من الجائحة، والتي أظهرت، بقوّة، خطيئة عدم المساواة على كوكب الأرض. كثيرون هم الذين لا يزالون حتى اليوم لا يقدرون أن يصلوا إلى اللقاح، كثيرون! لنقف إلى جانبهم، وليس إلى جانب من له أكثر ويُعطي أقل. لنصبِحْ ضمائر نبويّة وشجاعة، ولْنَكُنْ قريبين من الجميع ولا سيّما المنسيين العديدين اليوم، والمهمّشين، وأضعف وأفقر شرائح المجتمع، والذين يعانون في الخفاء وفي صمت، بعيدًا عن الأضواء. ما أقترحه عليكم ليس مجرّد طريقة لتكون أكثر حساسيّة وتضامنًا، بل هي مسيرة شفاء لمجتمعاتنا. نعم، لأنّ الفقر بالتحديد هو الذي يسمح بانتشار الأوبئة وغيرها من الشّرّور الجسيمة التي تزدهر في بلاد الشّدّة وعدم المساواة. ما زال الفقر أكبرَ عاملِ خطَرٍ في عصرنا. في هذا الصّدّد، تساءل آباي بحكمته: "هل يستطيع الجياع أن يحافظوا على ذهن صافٍ [...] ويبذلوا جهودًا في التعلُّم؟ يَلِدُ الفقر والنزاعات [...] العنفَ والجشع" (كلمة 25). طالما ظلّت التفاوتات والمظالم تتفاقم، فإنّ الفيروسات الأسوأ من كوفيد لن تتوقّف: الفيروسات التي تنجم عن الكراهية والعنف والإرهاب.

ويقودنا هذا إلى التحدّي الثانيّ على كوكب الأرض، وهو يتحدَّى المؤمنين خاصّة: تحدِّي السّلام. وقد اهتمّ الحوار بين قادة الأديان بشكل أساسيّ بهذا الموضوع، في العقود الأخيرة. ومع ذلك، فإنّنا نرى أيامنا هذه ما زالت تتَّسِم بآفة الحرب، وبمناخ مواجهات مستعرة، وبعدم القدرة على التراجع ومدِّ اليد إلى الطرف الآخر. لا بدَّ من هزَّةٍ، ولا بدَّ من أن تأتـيَ منّا، أيّها الإخوة والأخوات. إن كان الخالق، الذي نكرّس وجودنا له، هو مبدئ الحياة البشريّة، فكيف لنا، نحن الذين نُعلن أنّنا مؤمنون، أن نوافق على تدميرها؟ وكيف يمكننا أن نعتقد أنّ الناس في زمننا، والكثيرون منهم يعيشون وكأنّ الله غير موجود، يمكن أن يندفعوا في حوار فيه احترام ومسؤوليّة، إن كانت الأديان الكبرى، التي تشكِّل روح الثقافات والتّقاليد العديدة، لم تفعل ذلك ولم تلتزم التزامًا نَشِطًا من أجل السّلام؟

وإذ نضع في اعتبارنا أهوال الماضيّ وأخطاءه، لنُوحِّدْ الجهود حتى لا يصبح الله القدّير مرّة أخرى رهينة إرادة القوة البشريّة. يذكِّر آباي أنّ ”من يسمح بالشّرّ ولا يعارض الشّرّ لا يمكن اعتباره مؤمنًا حقيقيًا، قد يكون، في أفضل الأحوال، مؤمنًا فاترًا“ (راجع كلمة 38). أيّها الإخوة والأخوات، لا بدّ للجميع ولكلّ واحد من أن ينقِّيَ نفسه من الشّرّ. أصرَّ شاعر كازاخستان الكبير على هذا الجانب، فكتب أنّ الذي "يتخلَّى عن التعلُّم يحرِم نفسه من البركة" و "الذي ليس شديدًا مع نفسه، وغير قادر على الرّحمة، لا يمكن اعتباره مؤمنًا" (كلمة 12). أيّها الإخوة والأخوات، لنطهِّرْ أنفسنا، إذن، من الادِّعاء والشّعور بأنّنا أبرار، وأنّنا لسنا بحاجة إلى أن نتعلَّم شيئًا من غيرنا. لنحرِّرْ أنفسنا من المفاهيم المختزِلة الإقصائيّة والمدمِّرة التي تهين اسم الله، بالتزمّت، والتطرّف، والأصوليّة، وتدنِّسُه بالكراهية والتعصب والإرهاب، وفي الوقت نفسه تشوِّه حتى صورة الإنسان. نعم، لأنّ "مصدر الإنسانيّة - كما يقول آباي - هو المحبّة والعدل، [...] هما إكليل الخليقة الإلهيّة" (كلمة 45). نحن لا نبرِّرُ العنف أبدًا. ولا نسمح للمقدَّسات بأن يستغلَّها المدنِّسون. لا يكُنْ ما هو مقدَّسٌ أداةً للسُّلطة، ولا السُّلطة أداةً لما هو مقدَّس.

الله سلام ويقود دائمًا إلى السّلام، لا إلى الحرب، أبدًا. لذلك دعونا نزداد التزامًا بتعزيز وتقوية الحاجة إلى حلّ النزاعات، لا بتعليلات القوّة التي لا تؤدي إلى نتيجة، ولا بالأسلحة والتهديدات، لكن بالوسائل الوحيدة التي باركتها السّماء والجديرة بالإنسان: اللقاء والحوار، والمفاوضات الصّابرة، التي تُجرَى مع التفكير بشكل خاص في الأطفال والأجيال الشّابة. إنّها تجسّد الأمل في أنّ السّلام لن يكون نتيجة هشة لمفاوضات مملّة، بل ثمرة التزام تربوي دائم، يعزِّز أحلامهم في التنميّة وفي المستقبل. شجَّع آباي، بهذا المعنى، على نشر المعرفة، وعلى تجاوز حدود الثقافة الخاصّة، لمعانقة معرفة الآخرين وتاريخهم وأدبهم. لنستثمر، أرجوكم، في هذا: لا في التسلّح، بل في التّعليم!

بعد تحدي الجائحة والسّلام، التحدي الثالث هو الترحيب الأخوي. اليوم قبول الإنسان يقتضي جَهدًا كبيرًا. كلّ يوم، يتمّ التخلّص من الذين لم يولدوا بعد، ومن الأطفال والمهاجرين وكبار السّن. هناك ثقافة الإقصاء والتخلّص. إخوة وأخوات يموتون ويُضحَّى بهم على مذبح الربح، محاطين ببخور اللامبالاة الدنس. ومع ذلك، فإنّ كلّ كائن بشري مقدّس. قال القدّماء "الإنسان للإنسان مقدَّس" (سينكا، الرسائل الأدبية إلى لوتشيلس، 95، 33 - Seneca, Epistulae morales ad Lucilium, 95,33). إنّها قبل كلّ شيء مهمّتنا، مهمّة الأديان، أن نذكِّر العالم بذلك! لم نشهد من قبل عمليات نزوح سكان كبيرة، بسبب الحروب والفقر وتغير المناخ، وبسبب البحث عن رفاهية يسمح العالم المعولم بمعرفتها، لكن يصعب الوصول إليها في كثير من الأحيان. هناك نزوح جماعي كبير اليوم: من المناطق الأكثر حرمانًا يحاولون الوصول إلى المناطق الأكثر ثراءً. ونرى ذلك كلّ يوم، في مختلف الهجرات في العالم. هذا ليس خبرًا من الأخبار، هذه حقيقة تاريخيّة تتطلّب حلولًا مشتركة وبعيدة النظر. بالطبع، إنّه أمر غريزي أن يدافع الإنسان عن مكتسباته في الأمن، فيغلق الأبواب خوفًا من الغير. ومن الأسهل الشّك في الغريب واتهامه وإدانته بدل معرفته وفهمه. إنّه واجبنا أن نتذكّر أنّ الخالق، الذي يسهر على خطوات كلّ مخلوق، يحُثُّنا على أن ننظر إلى المخلوقات نظرة شبيهة بنظرته، نظرة تتعرّف على وجه الأخ. يجب أن نستقبل الأخ المهاجر، ونرافقه، وندعمه ونساعده على أن يندمج.

تدعونا لغة الكازاخستان إلى هذه النظرة الترحيبيّة: ففيها كلمة ”المحبّة“ تعني حرفيًا ”النظر إلى الآخر نظرة مودة“. والثقافة التقليديّة أيضًا في هذه المناطق تؤكّد الشيء نفسه، في مَثَلٍ شعبي جميل: "إذا قابلت شخصًا ما، حاول أن تجعله سعيدًا، لربما هذه آخر مرّة تراه". تُذَكِّر ممارسة الضّيافة في سهوب الصّحراء بكرامة كلّ إنسان، كرامة لا يمكن إلغاؤها. ويؤكّد آباي على ذلك بقوله إنّ "الإنسان يجب أن يكون صديقًا للإنسان" وأنّ هذه الصّداقة تقوم على مشاركة كونية، لأنّ الواقع المهم للحياة وبعد الحياة، هو مشترك. ولذلك يُعلن أنّ "كلّ الناس ضيوف بعضهم لبعض"، و "الإنسان نفسه في هذه الحياة ضيف" (كلمة 34). نعيد هنا اكتشاف فن الضّيافة والتّرحيب والرّحمة. ونتعلّم أيضًا أن نخجل من أنفسنا: نعَم، للشعور بالخجل السّليم الذي يولد من الشّفقة على الإنسان المتألّم، ومن الانفعال والذهول أمام حالته، ومن مصيره، فنشعر بأنّنا شركاء له. إنّها طريق الشّفقة التي تجعل الإنسان أكثر إنسانيّة وأكثر إيمانًا. وعلينا، بالإضافة إلى التأكيد على كرامة كلّ إنسان والتي لا يجوز الاعتداء عليها، أن نعلِّم البكاء من أجل الآخرين، لأنّنا إذا نظرنا إلى آلام الإنسانيّة كأنّها آلامنا، صِرْنا حقًّا إنسانيين.

التحدي العالميّ الأخير الذي يواجهنا هو حماية بيتنا المشترك. في مواجهة الاضطرابات المناخيّة، يجب حمايته، حتى لا يُخضَعَ لمنطق الكسب، بل يُحفَظ للأجيال القادمة، ولتسبيح لخالق. كتب آباي: "يا له من عالم عجيب أعطانا إياه الخالق! لقد أعطانا نوره بشهامة وكرم. ولمّا غذّتنا أُمُّنا الأرض في حضنها، انحنى أبونا السّماوي علينا بحنان" (من قصيدة الربيع). أعدَّ العلِيُّ لنا بحُبٍّ بيتًا مشتركًا للحياة. ونحن، الذين نعترف بأنّه بيتنا، كيف يمكننا السماح بتلويثه والإساءة إليه وتدميره؟ لنوحِّد الجهود أيضًا في هذا التحدي. وهو ليس التحدي الأخير من حيث الأهمية. في الواقع، إنّه مرتبط بالأوّل، بالجائحة. فيروسات مثل ”الكوفيد 19“ مع صغرها وعدم رؤيتها إلّا تحت المجهر، قادرة على تدمير طموحات التقدّم الكبيرة، ومرتبطة عادة بتوازنٍ أصابَهُ خلَل، وذلك إلى حدّ كبير بسبَبِنا، مع الطبيعة التي تحيط بنا. لنفكّر على سبيل المثال في إبادة الغابات، والاتجار غير المشروع بالحيوانات الحية، وتربية الحيوانات المكثفة... إنّها عقليّة الاستغلال التي تدمّر البيت الذي نعيش فيه. ليس هذا فقط: بل يؤدِّي كلّ هذا إلى تجاوز الرؤيّة الدينيّة التي تحترم العالم الذي يريده الخالق. لذلك من الضّروريّ دعم وتعزيز حماية الحياة بجميع أشكالها.

أيّها الإخوة والأخوات الأعزّاء، لنَسِرْ معًا، حتّى تزداد مسيرة الأديان دائمًا مودة وصداقة. قال آباي: "الصّديق الكاذب كالظل: عندما تشرق الشّمس عليك لن تتخلّص منه، لكن عندما تتلبَّد الغيوم فوقك، لن يُرى له أثَر في أي مكان" (كلمة 37). أرجو ألّا يحدث هذا لنا: ليحرِّرْنا العليُّ من ظلال الشّك والباطل. ليمنَحْنا أن نغذِّي صداقات شمسيّة وأخويّة، بالحوار الكثير وصِدق النوايا المضيئة. وأودّ هنا أن أشكر دولة كازاخستان على الجّهود التي بذلتها في هذا الخصوص: فهي تحاول دائمًا أن توحّد، وتحثّ على الحوار، وتكوّن صداقات. هذا هو المثال الذي يعطيه كازاخستان لنا جميعًا ويجب أن نتبعه وندعمه. لا نبحَثْ عن مواقفَ توفيقية وهمية – لا فائدة منها -، لكن لنحافِظْ على هوياتنا، منفتحةً على شجاعة قبول الآخر، واللقاء الأخوي. بهذه الطريقة فقط، وعلى هذا الطّريق، في الأوقات المظلمة التي نعيشها، نتمكن من أن نُشِعَّ نور الخالق. شكرًا لكم جميعًا!

[01366-AR.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua russa

ВЫСТУПЛЕНИЕ СВЯТЕЙШЕГО ОТЦА

на Открытии VII Съездa лидеров 

мировых и традиционных религий

Нур-Султан, 14 сентября 2022

Братья и сестры!

Позвольте обратиться к вам со словами искренности и дружбы: братья и сестры. Именно так мне хотелось бы поприветствовать вас, Главы религий и представители власти, члены дипломатического Корпуса и международных Организаций, Представители академических и культурных учреждений, гражданского общества и различных неправительственных организаций, - во имя братства, которое связывает нас всех, ибо мы сыновья и дочери одного Неба.

Перед тайной бесконечности, которая нас превосходит и притягивает, религии напоминают нам, что мы – творения: мы не всемогущие, а женщины и мужчины, которые движутся к одной и той же небесной цели. Благодаря тварности, что нас объединяет, устанавливается общность, настоящее братство. Оно напоминает нам, что смысл жизни нельзя свести к нашим личным интересам, поскольку он вписан в братстве, которое является нашей характерной чертой. Мы совершенствуемся только вместе с другими и благодаря другим. Дорогие Лидеры и Представители мировых и традиционных религий, мы находимся на земле, через которую на протяжение многих веков проходили большие караваны; в этих местах, в том числе благодаря древнему шелковому пути, переплелось множество историй, идей, верований и чаяний. Пусть Казахстан еще раз станет землей встречи между теми, кто находится на расстоянии друг от друга. Пусть благодаря ему откроется новый путь для встречи, в основе которой человеческие отношения: уважение, чистосердечие в диалоге, непреложное достоинство каждого человека, сотрудничество. Новый путь братства, по которому мы пойдем к миру.

Вчера я заимствовал образ домбры, сегодня с музыкальным инструментом я хотел бы связать голос – голос самого знаменитого поэта этой земли, отца ее современной литературы, воспитателя и композитора, который часто изображается именно с домброй. Абай (1845-1904), как его называют в народе, оставил после себя творения, пропитанные религиозностью, в которых выражено лучшее, что есть в душе этого народа: гармоничная мудрость, которая жаждет мира и стремится к нему, смиренно вопрошая, всей душой желая мудрости достойной человека, которая не заключает себя в закоснелых и удушливых видениях, но готова вдохновляться разнообразным опытом. Абай ставит перед нами извечный вопрос: «в чем красота жизни, не в том ли чтоб погружаться в глубину?» (Стихи, 1898). Еще один поэт вопрошал себя о смысле существования, вкладывая в уста пастуха из этих бескрайних азиатских степей не менее существенный вопрос: «куда клонится мой краткий путь?» (Дж. Леопарди, Ночная песнь пастуха, кочующего в Азии). Эти вопросы пробуждают потребность в религии, напоминают нам, что мы, люди, существуем ни столько для того, чтобы удовлетворять земные потребности и устанавливать отношения исключительно экономического характера, сколько для того, чтобы вместе странствовать по жизни, обращая свой взор к Небу. Нам нужно найти ответ на самые важные вопросы, культивировать духовность; нам нужно, как пишет Абай, сохранять «живой душу и ясным ум» (см. Слово 6).

Братья и сестры, мир ждет от нас примеры живых душ и ясных умов, ждет подлинную религиозность. Пришел час пробудиться от фундаментализма, что извращает и разрушает любую веру, час сделать сердце ясным и сострадательным. Пришел также час отложить в сторону книги по истории и оставить разговоры, которые слишком долгое время, как здесь, так и в других местах, внушали подозрение и пренебрежение к религии, будто она способствует дестабилизации современного общества. Здесь хорошо известно, что такое наследие государственного атеизма, насаждавшегося десятилетиями, гнетущий и удушливый образ мыслей, когда произнесенное слово «религия» уже могло стать проблемой. На самом деле, религия – не проблема, напротив это часть того, что способствует более гармоничной жизни в обществе. Поиск трансцендентности и священная ценность братства могут поистине вдохновлять и освещать решения, что принимаются в условиях геополитического, социального, экономического и экологического кризиса, однако в основе это кризис духовный, который сегодня переживают многие институты, в том числе демократии, ставя под угрозу безопасность и согласие между народами. Поэтому мы нуждаемся в религии, чтобы утолить жажду мира в мире, равно как жажду бесконечности, которая живет в сердце каждого человека.

Поэтому главное условие для настоящего человеческого и целостного развития – религиозная свобода. Братья, сестры, мы свободные создания. Наш Творец «ради нас отошел в сторону», если так можно сказать, «ограничил» Свою абсолютную свободу, чтобы мы тоже стали свободными. Как мы можем тогда ограничивать своих братьев в свободе ради Его имени? «Веруя и поклоняясь сами, – учит Абай –, мы не вправе сказать, что можем заставить верить и поклоняться других» (Слово 45). Религиозная свобода – фундаментальное, первостепенное и неотъемлемое право, которое следует защищать повсеместно, и которое нельзя сводить только к свободе культа. Поистине, право каждого человека – публично исповедовать свою веру, предлагать её другим, но никогда не насаждать. Прекрасным способом является провозглашение, далёкое от прозелитизма и натаскивания в идеологии, от которых мы все должны стараться держаться как можно дальше. Считать веру, самое важное, что есть в жизни, исключительно личным делом – такой подход может лишить общество огромного богатства; напротив, содействовать формированию условий, в которых различные религии, этнические и культурные группы живут во взаимном уважении – лучший способ обратить внимание на особенный характер каждого человека, объединить людей при этом не пытаясь сделать их одинаковыми, способствовать реализации самых возвышенных желаний, не ограничивая их порыв.

Казахстан, способствует сохранению этой ценности, как и вечной ценности религии: уже двадцать лет на его земле собирается этот Съезд – значимый для всего мира. Встреча этого года заставляет нас задуматься над тем, какова наша роль в духовном и общественном развитии человечества в пост-пандемический период.

Пандемия, вместе с уязвимостью и заботой, является главной среди четырёх мировых проблем, на которую мне хотелось бы обратить внимание, и она требует от всех - но особенно от религий – максимального единства намерений. Ковид-19 уравнял нас всех. Он заставил нас понять, что как пишет Абай «мы не создатели, а смертные» (ibid.): все мы почувствовали свою уязвимость, нуждались в помощи; оказалось никто не может быть полностью автономным, самодовлеющим. Поэтому сейчас мы не можем забыть о потребности в солидарности, которую мы остро ощутили, и идти дальше словно ничего не произошло, не обращая внимание на то, что мы должны сообща решать срочные проблемы, касающиеся нас всех. К этому религии не должны проявлять безразличие, их призвание – идти впереди, поддерживать единство перед лицом испытаний, которые могут еще больше разделить человеческую семью.

Именно мы, верующие в Божественное, должны помочь братьям и сестрам нашего времени не забывать о том, что характерная черта человека – уязвимость; не попадать в сеть амбиций всевластия, порождаемых техническим и экономическим прогрессом – недостаточно только их; не запутаться в сетях прибыли и денег, словно они могут избавить от любого зла; не содействовать несостоятельному прогрессу, который не принимает границы, установленные творением; не позволять отупляющему потребительству превратить себя в бездушное существо, потому как блага для человека, а не человек для благ. Одним словом – наша общая уязвимость, проявившаяся во время пандемии, должна побуждать нас идти вперед не как раньше, а с большим смирением и дальновидностью.

Верующие в эпоху пост – пандемии призваны не только думать об ответственности и несовершенстве человеческого существования, но еще о заботе – заботе о человечестве во всех его проявлениях, становясь творцами общения, - повторяю слово: творцами общения -, свидетелями сотрудничества, которое преодолевает границы общинной, этнической, национальной и религиозной принадлежности. Но как начать столь трудную миссию? С чего? Прежде всего, нужно слушать самых слабых, предоставить голос самым уязвимым, содействовать всеобщей солидарности, которая, в первую очередь, должна касаться их – бедных, нуждающихся, тех, кто больше других пострадал от пандемии, которая продемонстрировала всю несправедливость неравенства на нашей планете. Сегодня еще немало тех, кому трудно получить вакцину! Сколько таких! Мы на их стороне, а не с теми, у кого есть много, но кто дает мало, давайте будем пророческой и храброй совестью, будем близки ко всем, но особенно к оставленным, маргиналам, к самым слабым и бедным слоям общества, к тем, кто скрыто и молча страдает. То, что я предлагаю вам – не только способ стать более чувствительными и участливыми, но еще и путь исцеления для нашего общества. Да, именно из-за нищеты распространяются эпидемии и прочие большие несчастья, которые множатся среди лишений и неравенства. Но самый большой фактор риска сегодня, по-прежнему, бедность. По этому поводу Абай мудро замечал: «Могут ли те, кто голодает сохранять ясный ум […] и выказывать усердие в учебе? Бедность и распри […] порождают […] насилие и жадность» (Слово 25). Пока свирепствуют неравенство и несправедливость, невозможно остановить вирусы худшие, чем Ковид: ненависть, насилие, терроризм.

Это приводит нас к еще одной проблеме планетарного масштаба, которая особым образом касается верующих – проблема мира. В последние десятилетия это главная тема диалога между религиозными главами. И все же мы видим, что и наши дни отмечены язвой войны, атмосферой безнадежных конфликтов, неспособностью сделать шаг назад и протянуть руку другому. Нужен толчок, и он, братья и сестры, должен исходить от нас. Коль скоро Творец, Которому мы посвящаем свое существование, положил начало человеческой жизни, как можем мы, те, кто исповедует себя верующими, допустить, чтобы эта жизнь был загублена? И как можем себе представить, что люди нашего времени, многие из которых живут так, будто Бог не существует, могут быть заинтересованными в диалоге, основанном на уважении и ответственности, если великие религии, что представляют собой душу многих культур и традиций, не поддерживать активно мир?

Памятуя ужасы и ошибки прошлого, объединим наши усилия, чтобы никогда больше Всевышний не оказался заложником воли земной власти. Абай напоминает: “кто допускает зло, не препятствуя ему, тот не может считаться истинным верующим. Или же он верующий наполовину” (см. Слово 38). Братья, сестры, всем и каждому нужно очиститься от зла. Великий казахский поэт настаивал на этом. Он пишет: «если кто, не завершив учебу, оставляет ее, тот лишает себя благословения» и «кто небрежен, не соблюдает себя в строгости, не умеет сострадать, того нельзя считать верующим» (Слово 12). Братья и сестры, посему очистимся от желания чувствовать себя правыми, такими, кому нечему научиться у других; освободимся от ограниченных и губительных представлений, которые оскорбляют Божие имя – жестокости, экстремизма и фундаментализма - и порочат его – ненависти, фанатизма, терроризма, в том числе искажая образ человека. Это действительно так. Абай напоминает: «начало человечности — любовь и справедливость, […] это — венец творения Всевышнего» (Слово 45). Ни в каком случае нельзя оправдывать насилие. Не допустим, чтобы мирское использовало в своих корыстных целях священное. Священное не должно служить опорой власти, а власть не должна опираться на священное!

Бог – мир и ведет Он всегда к миру, никогда к войне. Поэтому давайте с еще большей силой посвятим себя содействию и укреплению необходимости того, чтобы конфликты разрешались не никчемными доводами силы, оружием и угрозами, но лишь теми средствами, которые благословляет Небо, достойными человека: встреча, диалог, терпеливые переговоры, проводимые с особой заботой о детях и молодых поколениях. В них живет надежда, что мир – это не хрупкий итог мучительных переговоров, но плод постоянного усердного воспитания, которое приближает их мечты о прогрессе и будущем к исполнению. Абай, в связи с этим, призывал расширять знания, выйти за пределы своей культуры, принять познания, историю и литературу других. Прошу вас, давайте будем вкладываться в образование, а не в оружие!

Кроме проблемы пандемии и мира, есть еще третья – братское принятие. Сегодня человека принимают с большим трудом. Каждый день отвергаются еще нерожденные младенцы, дети, мигранты и пожилые люди. Существует культура выбрасывания.  Сколько братьев и сестер приносят в жертву на алтарь выгоды, окаждая кощунственным ладаном безразличия. Но ведь каждый человек священен. «Homo sacra res homini», говорили древние (Seneca, Epistulae morales ad Lucilium, 95,33): именно религии должны напоминать об этом миру! Никогда еще из-за войны не было таких перемещений людей как сегодня, такой бедности; не было таких климатических изменений – и все это следствие стремления к благосостоянию, о котором глобализированный мир позволяет узнавать, но к которому часто трудно подступиться. Из регионов, в которых царит бедственное положение идет постоянный исход в регионы благополучные. Мы видим это каждый день, в различных миграциях в мире. Это не данные хроники, а исторический факт, который требует совместных и дальновидных решений. Конечно, инстинктивно защищаешь свое с трудом добытое благополучие и из страха закрываешь двери перед бедностью. Гораздо проще подозревать чужого, осуждать и обвинять его вместо того, чтобы узнать и понять. Но наша обязанность – напоминать, что Творец, который заботиться о каждом шаге Своих творений, призывает нас видеть так же, как видит Он – в каждом человеке видеть брата. Брат-мигрант должен быть принят, сопровождаться, поддерживаться и интегрироваться.

В самом казахском языке есть призыв к тому, чтобы смотреть на другого с радушием. Слово «любить» в нем буквально означает «смотреть на кого-то хорошим взглядом». Традиционная культура этого региона это подтверждает прекрасной народной пословицей: «Если встретишь кого-то, старайся сделать его счастливым, быть может ты видишь его в последний раз». Коль скоро культ гостеприимства степи указывает на непреложную ценность каждого человека, Абай подтверждает это своими словами «человек человеку друг» и то, что такая дружба зиждется на вселенском общении, потому что самые важный реальности в жизни и после нее общие. Поэтому он утверждает еще и следующее «все люди гостят друг у друга» и «сам человек — гость в этой жизни» (Слово 34). Давайте заново учиться искусству гостеприимства, радушия, сострадания. А еще научимся стыду: именно стыду, научимся испытывать здоровый стыд, который рождается от сочувствия к человеку, который страдает, от волнения и изумления, которые переживаешь, видя его состояние, его судьбу, которую ты разделяешь в чувствах. Более человечными и религиозными нас делает сострадание. Мы должны не только утверждать непреложное достоинство каждого человека, но еще учить плакать о других: если мы примем страдания других людей как свои, станем по - настоящему человечными. 

Перед нами еще одна, последняя проблема – защита общего дома. В виду серьезных климатических изменений мы должны беречь его, чтобы в нем не преобладала логика наживы, сохранять его для будущих поколений, во славу Творца. Абай пишет: «Землю очень искусно украсил Творец! Дарит свет - благодать наших теплых сердец. Мать – земля, когда люди сосут твою грудь, то на них смотрит с нежностью Небо, Отец» (из стихотворения «Весна»). Всевышний с нежной заботой украсил наш общий дом. Мы, коль скоро исповедуем, что принадлежим Ему, как можем допускать, чтобы его загрязняли, разрушали, плохо вели себя в нем? Давайте вместе решать и эту проблему. Она не последняя по важности. На самом деле, она имеет прямую связь с первой проблемой, пандемией. Вирусы, вроде Ковид-19, микроскопичны по размеру, но способны разрушить самые грандиозные амбиции прогресса, часто их распространение связано с нарушением равновесия в природе, в большинстве случаев по нашей вине. Задумаемся над такими примерами как хищническая вырубка лесов, незаконная торговля живыми животными, интенсивное животноводство … Эксплуататорское мышление разрушает наш общий дом. И не только: оно затмевает почтительное и религиозное видение мира, угодное Творцу. Поэтому содействовать защите жизни во всех ее формах, поддерживать ее – наша непреложная обязанность.

Дорогие братья и сестры, пойдем дальше вместе, чтобы путь религий всегда становился все более дружным. Абай говорит: «плохой друг — все равно что тень, когда солнце над головой, от нее не избавиться, когда тучи сгущаются, ее не сыщешь» (Слово 37). Пусть с нами такого никогда не случится. Пусть Всевышний освободит нас от тени подозрений и фальши, пошлет нам умение поддерживать дружбу солнечной и братской, с помощью частого диалога и благодаря светлой искренности намерений. И я хотел бы поблагодарить здесь за усилия Казахстана в этом вопросе: всегда стараться объединяться, всегда стараться провоцировать диалог, всегда стараться заводить друзей. Это пример, который Казахстан дает всем нам, и мы должны ему следовать, поддерживать. Не будем стремиться к притворному уступчивому синкретизму, он не нужен, но будем сохранять свою идентичность, всегда готовые к принятию другого, к братской встрече. Только так, на этой дороге, в темное время, в которое мы живем, мы сможем излучать свет нашего Творца. Спасибо всем вам!

[01366-RU.02] [Testo originale: Italiano]

[B0678-XX.02]