Omelia del Santo Padre
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Nella Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, alle ore 9.30, nella Basilica Vaticana, il Santo Padre Francesco ha benedetto i Palli, presi dalla Confessione dell’Apostolo Pietro e destinati agli Arcivescovi Metropoliti nominati nel corso dell’anno. Il Pallio verrà poi imposto a ciascun Arcivescovo Metropolita dal Rappresentante Pontificio nella rispettiva Sede Metropolitana.
Dopo il rito di benedizione dei Palli, il Papa ha presieduto la Celebrazione Eucaristica con i Cardinali, con gli Arcivescovi Metropoliti e con i Vescovi Sacerdoti.
Come di consueto in occasione della Festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, Patroni della Città di Roma, è presente alla Santa Messa una Delegazione del Patriarcato Ecumenico guidata dall’Arcivescovo di Telmissos Job, Rappresentante del Patriarcato Ecumenico presso il Consiglio Ecumenico delle Chiese e co-presidente della Commissione mista internazionale per il Dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, accompagnato dal Vescovo di Alicarnassos Adrianos e dal Diacono Patriarcale Barnabas Grigoriadis.
Nel corso della Celebrazione Eucaristica, dopo la lettura del Vangelo, il Santo Padre ha pronunciato l’omelia che riportiamo di seguito:
Omelia del Santo Padre
La testimonianza dei due grandi Apostoli Pietro e Paolo rivive oggi nella Liturgia della Chiesa. Al primo, fatto incarcerare dal re Erode, l’angelo del Signore dice: «Alzati, in fretta» (At 12,7); il secondo, riassumendo tutta la sua vita e il suo apostolato dice: «Ho combattuto la buona battaglia» (2 Tm 4,7). Guardiamo a questi due aspetti – alzarsi in fretta e combattere la buona battaglia – e chiediamoci che cosa hanno da suggerire alla Comunità cristiana di oggi, mentre è in corso il processo sinodale.
Anzitutto, gli Atti degli Apostoli ci hanno raccontato della notte in cui Pietro viene liberato dalle catene della prigione; un angelo del Signore gli toccò il fianco mentre dormiva, «lo destò e disse: Alzati, in fretta» (12,7). Lo sveglia e gli chiede di alzarsi. Questa scena evoca la Pasqua, perché qui troviamo due verbi usati nei racconti della risurrezione: svegliare e alzarsi. Significa che l’angelo risvegliò Pietro dal sonno della morte e lo spinse ad alzarsi, cioè a risorgere, a uscire fuori verso la luce, a lasciarsi condurre dal Signore per superare la soglia di tutte le porte chiuse (cfr v. 10). È un’immagine significativa per la Chiesa. Anche noi, come discepoli del Signore e come Comunità cristiana siamo chiamati ad alzarci in fretta per entrare nel dinamismo della risurrezione e per lasciarci condurre dal Signore sulle strade che Egli vuole indicarci.
Sperimentiamo ancora tante resistenze interiori che non ci permettono di metterci in movimento, tante resistenze. A volte, come Chiesa, siamo sopraffatti dalla pigrizia e preferiamo restare seduti a contemplare le poche cose sicure che possediamo, invece di alzarci per gettare lo sguardo verso orizzonti nuovi, verso il mare aperto. Siamo spesso incatenati come Pietro nella prigione dell’abitudine, spaventati dai cambiamenti e legati alla catena delle nostre consuetudini. Ma così si scivola nella mediocrità spirituale, si corre il rischio di “tirare a campare” anche nella vita pastorale, si affievolisce l’entusiasmo della missione e, invece di essere segno di vitalità e di creatività, si finisce per dare un’impressione di tiepidezza e di inerzia. Allora, la grande corrente di novità e di vita che è il Vangelo – scriveva padre de Lubac – nelle nostre mani diventa una fede che «cade nel formalismo e nell’abitudine, […] religione di cerimonie e di devozioni, di ornamenti e di consolazioni volgari […]. Cristianesimo clericale, cristianesimo formalista, cristianesimo spento e indurito» (Il dramma dell’umanesimo ateo. L’uomo davanti a Dio, Milano 2017, 103-104).
Il Sinodo che stiamo celebrando ci chiama a diventare una Chiesa che si alza in piedi, non ripiegata su sé stessa, capace di spingere lo sguardo oltre, di uscire dalle proprie prigioni per andare incontro al mondo, con il coraggio di aprire le porte. Quella stessa notte, c’era un’altra tentazione (cfr At 12,12-17): quella ragazza spaventata, invece di aprire la porta, torna indietro a raccontare delle fantasie. Apriamo le porte. È il Signore che chiama. Non siamo come Rode che torna indietro.
Una Chiesa senza catene e senza muri, in cui ciascuno possa sentirsi accolto e accompagnato, in cui si coltivino l’arte dell’ascolto, del dialogo, della partecipazione, sotto l’unica autorità dello Spirito Santo. Una Chiesa libera e umile, che “si alza in fretta”, che non temporeggia, non accumula ritardi sulle sfide dell’oggi, non si attarda nei recinti sacri, ma si lascia animare dalla passione per l’annuncio del Vangelo e dal desiderio di raggiungere tutti e accogliere tutti. Non dimentichiamo questa parola: tutti. Tutti! Andate all’incrocio delle strade e portate tutti, ciechi, sordi, zoppi, ammalati, giusti, peccatori: tutti, tutti! Questa parola del Signore deve risuonare, risuonare nella mente e nel cuore: tutti, nella Chiesa c’è posto per tutti. E tante volte noi diventiamo una Chiesa dalle porte aperte ma per congedare gente, per condannare gente. Ieri uno di voi mi diceva: “Per la Chiesa questo non è il tempo dei congedi, è il tempo dell’accoglienza”. “Non sono venuti al banchetto…” – Andate all’incrocio. Tutti, tutti! “Ma sono peccatori…” – Tutti!
La seconda Lettura, poi, ci ha riportato le parole di Paolo che, ripercorrendo tutta la sua vita, afferma: «Ho combattuto la buona battaglia» (2 Tm 4,7). L’Apostolo si riferisce alle innumerevoli situazioni, talvolta segnate dalla persecuzione e dalla sofferenza, in cui non si è risparmiato nell’annunciare il Vangelo di Gesù. Ora, alla fine della vita, egli vede che nella storia è ancora in corso una grande “battaglia”, perché molti non sono disposti ad accogliere Gesù, preferendo andare dietro ai propri interessi e ad altri maestri, più comodi, più facili, più secondo la nostra volontà. Paolo ha affrontato il suo combattimento e, ora che ha terminato la corsa, chiede a Timoteo e ai fratelli della comunità di continuare questa opera con la vigilanza, l’annuncio, gli insegnamenti: ciascuno, insomma, compia la missione affidatagli e faccia la sua parte.
È una Parola di vita anche per noi, che risveglia la consapevolezza di come, nella Chiesa, ciascuno sia chiamato ad essere discepolo missionario e a offrire il proprio contributo. E qui mi vengono in mente due domande. La prima è: cosa posso fare io per la Chiesa? Non lamentarsi della Chiesa, ma impegnarsi per la Chiesa. Partecipare con passione e umiltà: con passione, perché non dobbiamo restare spettatori passivi; con umiltà, perché impegnarsi nella comunità non deve mai significare occupare il centro della scena, sentirsi migliori e impedire ad altri di avvicinarsi. Chiesa in processo sinodale significa: tutti partecipano, nessuno al posto degli altri o al di sopra degli altri. Non ci sono cristiani di prima e di seconda classe, tutti, tutti sono chiamati.
Ma partecipare significa anche portare avanti la “buona battaglia” di cui parla Paolo. Si tratta in effetti di una “battaglia”, perché l’annuncio del Vangelo non è neutrale – per favore, che il Signore ci liberi dal distillare il Vangelo per renderlo neutrale: non è acqua distillata il Vangelo –, non lascia le cose come stanno, non accetta il compromesso con le logiche del mondo ma, al contrario, accende il fuoco del Regno di Dio laddove invece regnano i meccanismi umani del potere, del male, della violenza, della corruzione, dell’ingiustizia, dell’emarginazione. Da quando Gesù Cristo è risorto, facendo da spartiacque della storia, «è iniziata una grande battaglia tra la vita e la morte, tra speranza e disperazione, tra rassegnazione al peggio e lotta per il meglio, una battaglia che non avrà tregua fino alla sconfitta definitiva di tutte le potenze dell’odio e della distruzione» (C. M. Martini, Omelia Pasqua di Risurrezione, 4 aprile 1999).
E allora la seconda domanda è: cosa possiamo fare insieme, come Chiesa, per rendere il mondo in cui viviamo più umano, più giusto, più solidale, più aperto a Dio e alla fraternità tra gli uomini? Non dobbiamo certamente chiuderci nei nostri circoli ecclesiali e inchiodarci a certe nostre discussioni sterili. State attenti a non cadere nel clericalismo, il clericalismo è una perversione. Il ministro che si fa clericale con atteggiamento clericale ha preso una strada sbagliata; peggio ancora sono i laici clericalizzati. Stiamo attenti a questa perversione del clericalismo. Aiutiamoci ad essere lievito nella pasta del mondo. Insieme possiamo e dobbiamo porre gesti di cura per la vita umana, per la tutela del creato, per la dignità del lavoro, per i problemi delle famiglie, per la condizione degli anziani e di quanti sono abbandonati, rifiutati e disprezzati. Insomma, essere una Chiesa che promuove la cultura della cura, della carezza, la compassione verso i deboli e la lotta contro ogni forma di degrado, anche quello delle nostre città e dei luoghi che frequentiamo, perché risplenda nella vita di ciascuno la gioia del Vangelo: questa è la nostra “battaglia”, questa è la sfida. Le tentazioni di rimanere sono tante; la tentazione della nostalgia che ci fa guardare altri sono stati tempi migliori, per favore non cadiamo nell’“indietrismo”, questo indietrismo di Chiesa che oggi è alla moda.
Fratelli e sorelle, oggi, secondo una bella tradizione, ho benedetto i Palli per gli Arcivescovi Metropoliti di recente nomina, molti dei quali partecipano alla nostra celebrazione. In comunione con Pietro, essi sono chiamati ad “alzarsi in fretta”, non dormire, per essere sentinelle vigilanti del gregge e, alzati, “combattere la buona battaglia”, mai da soli, ma con tutto il santo Popolo fedele di Dio. E come buoni pastori devono stare davanti al popolo, in mezzo al popolo e dietro al popolo, ma sempre con il santo popolo fedele di Dio, perché loro sono parte del santo popolo fedele di Dio. E di cuore saluto la Delegazione del Patriarcato Ecumenico, inviata dal caro fratello Bartolomeo. Grazie! Grazie per la vostra presenza e del messaggio di Bartolomeo. Grazie, grazie di camminare insieme, perché solo insieme possiamo essere seme di Vangelo e testimoni di fraternità.
Pietro e Paolo intercedano per noi, intercedano per la città di Roma, intercedano per la Chiesa e per il mondo intero. Amen.
[01021-IT.02] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua francese
Le témoignage des deux grands Apôtres Pierre et Paul est vécu aujourd’hui dans la liturgie de l’Église. L’ange du Seigneur ditau premier, incarcéré par le roi Hérode : « Lève-toi vite » (Ac 12, 7). Le second, résumant toute sa vie et son apostolat, dit: « J’ai mené le bon combat » (2 Tm 4, 7). Regardons ces deux aspects - se lever à la hâte et mener le bon combat – et demandons-nous ce qu’ils suggèrent à la Communauté chrétienne d’aujourd’hui, alors que le processus synodal est en cours.
Tout d’abord, les Actes des Apôtres nous racontent la nuit où Pierre est libéré des chaînes de la prison ; un ange du Seigneur le touche au côté pendant qu’il dort, « il le réveille et dit: Lève-toi, vite » (12, 7). Il le réveille et lui demande de se lever. Cette scène rappelle Pâques en raison de deux verbes utilisés dans les récits de la résurrection: réveiller et se lever. Cela exprime que l’ange réveille Pierre du sommeil de la mort et le pousse à se lever - c’est-à-dire à ressusciter - à sortir dehors vers la lumière, à se laisser conduire par le Seigneur pour franchir le seuil de toutes les portes fermées (cf. v. 10). C’est une image qui a du sens pour l’Église. Nous aussi, comme disciples du Seigneur et comme Communauté chrétienne, nous sommes appelés à nous lever en hâte afin d’entrer dans le dynamisme de la résurrection et nous laisser conduire par le Seigneur sur les routes qu’Il veut nous indiquer.
Nous faisons encore l’expérience de nombreuses résistances intérieures qui nous empêchent de nous mettre en mouvement, tant de résistances. Parfois, en tant qu’Église, nous sommes submergés par la paresse et nous préférons rester assis à contempler les quelques choses sûres que nous possédons, au lieu de nous lever pour jeter le regard vers des horizons nouveaux, vers la mer ouverte. Nous sommes souvent enchaînés comme Pierre dans la prison de l’habitude, effrayés par les changements et liés aux chaînes de nos coutumes. Mais l’on glisse ainsi vers la médiocrité spirituelle, on court le risque de "vivoter" y compris dans la vie pastorale. L’enthousiasme de la mission s’affaiblit et, au lieu d’être signe de vitalité et de créativité, on finit par donner une impression de tiédeur et d’inertie. Alors, le grand courant de nouveauté et de vie qu’est l’Évangile - écrivait le père de Lubac - devient dans nos mains une foi qui « tombe dans le formalisme et dans l’habitude, [...] une religion de cérémonies et de dévotions, d’ornements et de consolations vulgaires [...]. Un christianisme clérical, un christianisme formaliste, un christianisme éteint et endurci» (Le drame de l’humanisme athée. L’homme devant Dieu, Milan 2017, 103-104).
Le Synode que nous sommes en train de célébrer nous appelle à devenir une Église qui se tient debout, et non pas repliée sur elle-même, capable de regarder au-delà, de sortir de ses prisons pour aller à la rencontre du monde avec le courage d’ouvrir les portes. Cette même nuit, il y a eu une autre tentation (cf. Ac 12, 12-17) : cette jeune fille effrayée, au lieu d'ouvrir la porte, est repartie en arrière pour raconter ses rêveries. Nous ouvrons les portes. C'est le Seigneur qui appelle. Nous ne sommes pas comme Rhodè qui retourne en arrière. Une Église sans chaînes et sans murs, dans laquelle chacun peut se sentir accueilli et accompagné, dans laquelle on cultive l’art de l’écoute, du dialogue, de la participation, sous l’unique autorité de l’Esprit Saint. Une Église libre et humble, qui "se lève en hâte", qui ne traîne pas, n’accumule pas de retards sur les défis actuels, ne s’attarde pas dans ses murs sacrés, mais qui se laisse animer par la passion pour l’annonce de l’Évangile et par le désir de rejoindre tout le monde et d’accueillir chacun. N'oublions pas ce mot : tous. Tout le monde ! Allez au carrefour des rues et amenez tout le monde, les aveugles, les sourds, les boiteux, les malades, les justes, les pécheurs : tout le monde, tout le monde ! cette parole du Seigneur doit résonner, résonner dans l'esprit et dans le cœur : tout le monde, dans l'Église, il y a de la place pour tout le monde. Hier, l'un d'entre vous m'a dit : "Pour l'Église, ce n'est pas le temps des renvois, c'est le temps de l'accueil. "Ils ne sont pas venus au banquet…" - Allez au carrefour. Tout le monde, tous ! "Mais ce sont des pécheurs..."- Tous !
La deuxième lecture nous a ensuite rapporté les paroles de Paul qui, repensant à toute sa vie, affirme: « J’ai mené le bon combat » (2 Tm 4, 7). L’Apôtre se réfère aux innombrables situations, parfois marquées par la persécution et la souffrance, dans lesquelles il n’a ménagé aucun effort pour annoncer l’Évangile de Jésus. Maintenant, à la fin de sa vie, il voit qu’une grande "bataille" est en cours dans l’histoire parce que beaucoup ne sont pas disposés à accueillir Jésus, préférant suivre leurs intérêts et d’autres maîtres plus confortables, plus faciles, plus conformes à leurs volontés. Paul a mené son combat et, maintenant qu’il a terminé la course, il demande à Timothée et aux frères de la communauté de continuer cette œuvre avec la vigilance, par l’annonce et les enseignements: en somme, que chacun accomplisse la mission qui lui est confiée et fasse sa part.
C’est aussi pour nous une Parole de vie, qui réveille la conscience de la façon dont, dans l’Église, chacun est appelé à être disciple missionnaire et à offrir sa contribution. Et ici, deux questions me viennent à l’esprit. La première : que puis-je faire, moi, pour l’Église? Ne pas se plaindre de l’Église, mais s’engager pour l’Église. Participer avec passion et humilité: avec passion, car nous ne devons pas rester des spectateurs passifs ; avec humilité, car s’engager dans la communauté ne doit jamais signifier occuper le centre de la scène, se sentir meilleur et empêcher aux autres de s’approcher. Église en processus synodal signifie: tous participent, personne à la place des autres ni au-dessus des autres. Il n'y a pas de chrétiens de première et de seconde classe, tout le monde, tout le monde est appelé.
Mais participer signifie aussi mener à bien le "bon combat" dont parle Paul. Il s’agit en effet d’un "combat", car l’annonce de l’Évangile n’est pas neutre, - par pitié, que le Seigneur nous délivre de la distillation de l'Évangile pour le rendre neutre : l'Évangile n'est pas de l'eau distillée - elle ne laisse pas les choses telles qu’elles sont, elle n’accepte pas de compromis avec les logiques du monde. Au contraire, elle allume le feu du Royaume de Dieu là où règnent les mécanismes humains du pouvoir, du mal, de la violence, de la corruption, de l’injustice, de la marginalisation. Depuis que Jésus Christ est ressuscité, marquant le tournant de l’histoire, « une grande bataille a commencé entre la vie et la mort, entre espérance et désespoir, entre résignation au pire et lutte pour le mieux, une bataille qui n’aura pas de répit jusqu’à la défaite définitive de toutes les puissances de haine et de destruction » (C. M. Martini, Homélie Pâques de Résurrection, 4avril1999).
Et alors, la deuxième question est: que pouvons-nous faire ensemble, en tant qu’Église, pour rendre le monde dans lequel nous vivons plus humain, plus juste, plus solidaire, plus ouvert à Dieu et à la fraternité entre les hommes ? Nous ne devons certainement pas nous enfermer dans nos cercles ecclésiaux et nous clouer à certaines de nos discussions stériles. Soyez attentifs à ne pas tomber dans le cléricalisme, le cléricalisme est une perversion. Le ministre qui se fait clérical avec une attitude cléricale a pris un mauvais virage ; pire encore, les laïcs cléricalisés. Soyons attentifs à cette perversion du cléricalisme. Aidons-nous à être du levain dans la pâte du monde. Ensemble, nous pouvons et nous devons poser des gestes d’attention pour la vie humaine, pour la protection de la création, pour la dignité du travail, pour les problèmes des familles, pour la condition des personnes âgées et de tous ceux qui sont abandonnés, rejetés et méprisés. En somme, être une Église qui promeut la culture du soin, la tendresse, la compassion envers les faibles et la lutte contre toute forme de dégradation, y compris celle de nos villes et des lieux que nous fréquentons, afin que la joie de l’Évangile resplendisse dans la vie de chacun: telle est notre "combat". C'est le défi, les tentations de rester ainsi sont nombreuses ; la tentation de la nostalgie qui nous fait regarder vers d'autres temps, meilleurs, s'il vous plaît, ne tombons pas dans le "retour en arrière", ce retour en arrière de l'Eglise qui est à la mode aujourd'hui.
Frères et sœurs, aujourd’hui, selon une belle tradition, j’ai béni les «Pallium» pour les Archevêques Métropolitains récemment nommés. Beaucoup d’entre eux participent à notre célébration. En communion avec Pierre, ils sont appelés à "se lever en hâte", non à dormir, pour être des sentinelles vigilantes du troupeau et à se lever, "combattre le bon combat", jamais seuls mais avec tout le saint Peuple fidèle de Dieu. Et comme de bons pasteurs, ils doivent être devant le peuple, au milieu du peuple et derrière le peuple, mais toujours avec le saint Peuple fidèle de Dieu, car ils font partie du saint Peuple fidèle de Dieu. Et je salue de tout cœur la Délégation du Patriarcat Œcuménique, envoyée par le cher frère Bartholomée. Merci! Merci de votre présence et pour le message de Bartholomée. Merci, Merci de cheminer ensemble, car ensemble seulement nous pouvons être semence d’Évangile et témoins de fraternité.
Que Pierre et Paul intercèdent pour nous, qu’ils intercèdent pour la ville de Rome, qu’ils intercèdent pour l’Église et pour le monde entier. Amen.
[01021-FR.02] [Texte original: Italien]
Traduzione in lingua inglese
The testimony given by the two great Apostles Peter and Paul today comes to life once more in the Church’s liturgy. Peter, imprisoned by King Herod, is told by an angel of the Lord: “Get up quickly” (Acts 12:7), while Paul, looking back on his entire life and apostolate says: “I have fought the good fight” (2 Tim 4:7). Let us reflect on these two phrases – “get up quickly” and “fight the good fight” – and ask what they have to say to today’s Christian community, engaged in the synodal process.
First, the Acts of the Apostles tell us of the night that Peter was freed from the chains of prison. An angel of the Lord tapped him on the side as he was sleeping, “and woke him, saying, ‘get up quickly’” (Acts 12:7). The angel awakens Peter and tells him to get up. The scene reminds us of Easter, because it contains two verbs present in the accounts of the resurrection: awaken and get up. In effect, the angel awakens Peter from the sleep of death and urges him to get up, to rise and set out towards the light, letting himself be guided by the Lord in passing through all the closed doors along the way (cf. v. 10). This image has great meaning for the Church. We too, as disciples of the Lord and the Christian community, are called to get up quickly, to enter into the mystery of the resurrection, and to let the Lord guide us along the paths that he wishes to point out to us.
Still, we experience many inward forms of resistance that prevent us from setting out. At times, as Church, we are overcome by laziness; we prefer to sit and contemplate the few sure things that we possess, rather than getting up and looking to new horizons, towards the open sea. Often we are like Peter in chains, imprisoned by our habits, fearful of change and bound to the chains of our routine. This leads quietly to spiritual mediocrity: we run the risk of “taking it easy” and “getting by”, also in our pastoral work. Our enthusiasm for mission wanes, and instead of being a sign of vitality and creativity, ends up appearing tepid and listless. Then, the great current of newness and life that is the Gospel becomes in our hands – to use the words of Father de Lubac – a faith that “falls into formalism and habit…, a religion of ceremonies and devotions, of ornaments and vulgar consolations… a Christianity that is clerical, formalistic, anemic and callous” (The Drama of Atheist Humanism).
The Synod that we are now celebrating calls us to become a Church that gets up, one that is not turned in on itself, but capable of pressing forward, leaving behind its own prisons and setting out to meet the world, with the courage to open doors. That same night, there was another temptation (cf. Act 12:12-17): that young girl so taken aback that, instead of opening the door, went back to tell what seemed like a dream. Let us open the door. The Lord calls. May we not be like Rhoda who turned back.
A Church without chains and walls, in which everyone can feel welcomed and accompanied, one where listening, dialogue and participation are cultivated under the sole authority of the Holy Spirit. The Church that is free and humble, that “gets up quickly” and does not temporize or dilly-dally before the challenges of the present time. A Church that does not linger in its sacred precincts, but is driven by enthusiasm for the preaching of the Gospel and the desire to encounter and accept everyone. Let us not forget that word: everyone. Everyone! Go to crossroads and bring everyone, the blind, the deaf, the lame, the sick, the righteous and the sinner: everyone! This word of the Lord should continue to echo in our hearts and minds: in the Church there is a place for everyone. Many times, we become a Church with doors open, but only for sending people away, for condemning people. Yesterday one of you said to me “This is no time for the Church to be sending away, it is the time to welcome”. “They did not come to the banquet…” – so go to the crossroads. Bring everyone, everyone! “But they are sinners…” – Everyone!
In the second reading, we hear the words of Paul who, looking back on his whole life, says: “I have fought the good fight” (2 Tim 4:7). The Apostle is referring to the countless situations, some marked by persecution and suffering, in which he did not spare himself in preaching the Gospel of Jesus. Now at the end of his life, he sees that a great “fight” is still taking place in history, since many are not disposed to accept Jesus, preferring to pursue their own interests and follow other teachers, more accommodating, easier, more to our liking. Paul has fought his own battles and, now that he has run his race, he asks Timothy and the brethren of the community to carry on his work with watchful care, preaching and teaching. Each, in a word, is to accomplish the mission he or she has received; each must do his or her part.
Paul’s exhortation is also a word of life for us; it makes us realize that, in the Church, all of us are called to be missionary disciples and to make our own contribution. Here two questions come to my mind. The first is: What can I do for the Church? Not complaining about the Church, but committing myself to the Church. Participating with passion and humility: with passion, because we must not remain passive spectators; with humility, because being committed within the community must never mean taking centre stage, considering ourselves better and keeping others from drawing near. That is what a synodal Church means: everyone has a part to play, no individual in the place of others or above others. There are no first or second class Christians; everyone has been called.
Participating also means carrying on “the good fight” of which Paul speaks. For it is a “fight”, since the preaching of the Gospel is never neutral – may the Lord free us from watering down the Gospel to make it neutral – it is never neutral, it does not leave things the way they are; it accepts no compromise with the thinking of this world, but instead lights the fire of the kingdom of God amid the reign of human power plays, evil, violence, corruption, injustice and marginalization. Ever since Jesus rose from the dead, and became the watershed of history, “there began a great fight between life and death, between hope and despair, between being resigned to the worst and struggling for the best. A fight that will know no truce until the definitive defeat of all the powers of hatred and destruction (C.M. MARTINI, Easter Homily, 4 April 1999).
So the second question is: What can we do together, as Church, to make the world in which we live more humane, just and solidary, more open to God and to fraternity among men? Surely we must not retreat into our ecclesial circles and remain pinned to some of our fruitless debates. Let us take care not to fall into clericalism, for clericalism is a perversion. A minister who is clerical, who has a clerical attitude, has taken the wrong road; even worse are clericalized lay people. Let us be on our guard against this perversion which is clericalism. Let us help one another to be leaven in the dough of this world. Together we can and must continue to care for human life, the protection of creation, the dignity of work, the problems of families, the treatment of the elderly and all those who are abandoned, rejected or treated with contempt. In a word, we are called to be a Church that promotes the culture of care, tenderness and compassion towards the vulnerable. A Church that fights all forms of corruption and decay, including those of our cities and the places we frequent, so that in the life of every people the joy of the Gospel may shine forth. This is our “fight”, and this is our challenge. The temptation to stand still is great; the temptation of that nostalgia which makes us look to look at other times as better. May we not fall into the temptation of “looking back”, which is becoming fashionable today in the Church.
Brothers and sisters today, according to a fine tradition, I have blessed the Pallia for the recently named Metropolitan Archbishops, many of whom are present at our celebration. In communion with Peter, they are called to “get up quickly”, not to sleep, and to serve as vigilant sentinels over the flock. To get up and “fight the good fight”, never alone, but together with all the holy and faithful people of God. And as good shepherds, to stand before the people, among the people, and behind the people, but always with the God’s holy and faithful people, since they themselves are also part of the holy and faithful People of God.
I cordially greet the Delegation of the Ecumenical Patriarchate sent by my dear brother Bartholomew. Thank you for your presence and for the message you have brought from Bartholomew! Thank you for walking together because only together can we be the seed of the Gospel and witnesses of fraternity.
May Peter and Paul intercede for us, for the city of Rome, for the Church and for our entire world. Amen.
[01021-EN.02] [Original text: Italian]
Traduzione in lingua tedesca
Das Zeugnis der beiden großen Apostel Petrus und Paulus lebt heute in der Liturgie der Kirche wieder auf. Zu dem einen, der von König Herodes eingekerkert wurde, sagt der Engel des Herrn: »Schnell, steh auf« (Apg 12,7); der andere spricht sein ganzes Leben und Apostolat zusammenfassend: »Ich habe den guten Kampf gekämpft« (2 Tim 4,7). Betrachten wir diese beiden Aspekte – schnell aufstehen und den guten Kampf kämpfen – und fragen wir uns, was sie uns als christlicher Gemeinschaft heute, während des synodalen Prozesses, zu sagen haben.
Zunächst erzählt die Apostelgeschichte von der Nacht, in der Petrus von seinen Gefängnisketten befreit wurde; ein Engel des Herrn stieß den schlafenden Petrus in die Seite, »weckte ihn und sagte: Schnell, steh auf!« (12,7). Er weckte ihn und forderte ihn auf, aufzustehen. Diese Szene erinnert an Ostern, denn hier finden wir zwei Verben, die in den Auferstehungsberichten verwendet werden: aufwecken und aufstehen. Das bedeutet, dass der Engel Petrus aus dem Todesschlaf erweckte und ihn zum Aufstehen aufforderte, d.h. zur Auferstehung, ins Licht hinauszugehen, sich vom Herrn führen zu lassen, um die Schwelle aller verschlossenen Türen zu überschreiten (vgl. V. 10). Dies ist ein bedeutsames Bild für die Kirche. Auch wir als Jünger des Herrn und als christliche Gemeinschaft sind aufgerufen, uns unverzüglich zu erheben, um in die Dynamik der Auferstehung einzutreten und uns vom Herrn auf die Wege führen zu lassen, die er uns zeigen will.
Wir erleben immer noch eine Menge innerer Widerstände, die es uns nicht erlauben, in Bewegung zu kommen, viele Widerstände. Manchmal überkommt uns als Kirche die Faulheit, und wir ziehen es vor, uns auf die wenigen sicheren Dinge, die wir besitzen, zu besinnen, anstatt aufzustehen und den Blick auf neue Horizonte, auf das weite Meer zu richten. Wir sind oft wie Petrus im Gefängnis der Gewohnheit gefangen, haben Angst vor Veränderungen und sind an die Kette unserer Angewohnheiten gebunden. Auf diese Weise rutscht man jedoch in die geistliche Mittelmäßigkeit ab, man läuft Gefahr, auch in der Pastoral „auf der Stelle zu treten“, der Enthusiasmus für die Mission lässt nach, und anstatt ein Zeichen von Vitalität und Kreativität zu sein, erweckt man schließlich den Eindruck von Lauheit und Trägheit. So wird der große Strom der Neuheit und des Lebens, der das Evangelium ist – schrieb Pater de Lubac – in unseren Händen zu einem Glauben, der „in Formalismus und Gewohnheit verfällt, [...] eine Religion der Zeremonien und Andachtsübungen, der Verzierungen und banalen Tröstungen [...]. Klerikales Christentum, formalistisches Christentum, erstarrtes, erloschenes Christentum« (vgl. Über Gott hinaus. Die Tragödie des atheistischen Humanismus. Einsiedeln 1984).
Die gegenwärtige Synode ruft uns dazu auf, eine Kirche zu werden, die aufsteht, die nicht auf sich selbst bezogen ist, die fähig ist, ihren Blick über sich hinaus zu richten, die aus ihren eigenen Gefängnissen herauskommt, um auf die Welt zuzugehen, mutig, die Tore zu öffnen. In ebendieser Nacht gab es eine andere Versuchung (vgl. Apg 12,12-17): jenes Mädchen kehrt erschrocken zurück und, anstatt das Tor zu öffnen, erzählt es Fantasiegeschichten. Öffnen wir die Tore. Es ist der Herr, der ruft. Seien wir nicht wie Rhode, die zurückkehrt.
Eine Kirche ohne Ketten und ohne Mauern, in der sich jeder willkommen und begleitet fühlen kann, in der die Kunst des Zuhörens, des Dialogs und der Teilnahme gepflegt wird, unter der alleinigen Autorität des Heiligen Geistes. Eine Kirche, die frei und demütig ist, die „schnell aufsteht“, die nicht zögert, die die Herausforderungen von heute nicht aufschiebt, die nicht in den heiligen Hallen verweilt, sondern sich von der Leidenschaft für die Verkündigung des Evangeliums und dem Wunsch beseelen lässt, alle zu erreichen und alle anzunehmen. Vergessen wir dieses Wort nicht: alle. Alle! Geht auf die Wegkreuzungen und bringt alle herbei, die Blinden, Tauben, Lahmen, Kranken, Gerechten und Sünder: alle, alle! Dieses Wort des Herrn muss ertönen, im Geist und im Herzen ertönen: alle, in der Kirche ist Platz für alle. Und oftmals werden wir zu einer Kirche mit offenen Türen, aber um Menschen abzustoßen, um Menschen zu verurteilen. Gestern sagte einer von euch zu mir: „Für die Kirche ist dies nicht die Zeit des Abweisens, sondern die Zeit der Aufnahme“. „Sie kamen nicht zum Festmahl...“ - Geht zur Kreuzung. Alle, alle! „Aber sie sind Sünder...“ - Alle!
Die Zweite Lesung gibt dann die Worte des Paulus wieder, der im Rückblick auf sein ganzes Leben sagt: »Ich habe den guten Kampf gekämpft« (2 Tim 4,7). Der Apostel bezieht sich damit auf die zahllosen, mitunter von Verfolgung und Leiden geprägten Situationen, in denen er sich in der Verkündigung des Evangeliums Jesu nicht geschont hat. Jetzt, am Ende seines Lebens, sieht er, dass in der Geschichte immer noch ein großer „Kampf“ im Gange ist, weil viele nicht bereit sind, Jesus anzunehmen und es vorziehen, ihren eigenen Interessen und anderen Lehrmeistern hinterherzulaufen, die bequemer, einfacher, mehr unserem Willen angepasst sind. Paulus hat seinen Kampf geführt und jetzt, da er seinen Lauf vollendet hat, bittet er Timotheus und die Brüder der Gemeinde, dieses Werk wachsam in Lehre und Verkündigung fortzusetzen: jeder soll die ihm anvertraute Aufgabe erfüllen und seinen Teil dazu beitragen.
Auch für uns ist dies ein Wort des Lebens, das uns bewusstmacht, wie jeder in der Kirche dazu gerufen ist, ein missionarischer Jünger zu sein und seinen Beitrag zu leisten. Und hier kommen mir zwei Fragen in den Sinn. Die erste lautet: Was kann ich für die Kirche tun? Nicht über die Kirche klagen, sondern sich für die Kirche einsetzen. Sich mit Leidenschaft und Demut beteiligen: mit Leidenschaft, weil wir nicht passive Zuschauer bleiben dürfen; mit Demut, weil ein Engagement in der Gemeinschaft niemals bedeuten darf, sich in den Mittelpunkt zu stellen, sich für etwas Besseres zu halten und andere daran zu hindern, dazuzukommen. Kirche im synodalen Prozess bedeutet: Alle nehmen teil, keiner anstelle der anderen oder über den anderen. Es gibt keine Christen erster oder zweiter Klasse, alle, alle sind gerufen.
Sich beteiligen bedeutet aber auch, den „guten Kampf“ weiterzuführen, von dem Paulus spricht. Es ist in der Tat ein „Kampf“, denn die Verkündigung des Evangeliums ist nicht neutral – bitte, der Herr möge uns davor bewahren, das Evangelium zu destillieren, um es neutral zu machen: das Evangelium ist kein destilliertes Wasser -, es lässt die Dinge nicht so, wie sie sind, es akzeptiert keine Kompromisse mit dem Denken der Welt, sondern entfacht im Gegenteil das Feuer des Reiches Gottes überall dort, wo die menschlichen Machtmechanismen, das Böse, die Gewalt, die Korruption, die Ungerechtigkeit und die Ausgrenzung herrschen. Mit der Auferstehung Jesu Christi, diesem Wendepunkt der Geschichte, »hat ein großer Kampf zwischen Leben und Tod, zwischen Hoffnung und Verzweiflung, zwischen Kapitulation vor dem Schlimmsten und dem Kampf für das Beste begonnen, ein Kampf, der bis zur endgültigen Niederlage aller Mächte des Hasses und der Zerstörung nicht zur Ruhe kommen wird« (C. M. MARTINI, Osterpredigt, 4. April 1999).
Und so lautet die zweite Frage: Was können wir als Kirche gemeinsam tun, um die Welt, in der wir leben, menschlicher, gerechter, solidarischer, offener für Gott und für die Geschwisterlichkeit unter den Menschen zu machen? Wir dürfen uns ganz bestimmt nicht in unseren kirchlichen Kreisen verschließen und uns auf bestimmte sterile Diskussionen fixieren. Gebt Acht, nicht dem Klerikalismus zu verfallen, der Klerikalismus ist eine Perversion. Der geweihte Amtsträger, der sich mit einer klerikalen Haltung klerikalisiert, hat einen falschen Weg eingeschlagen; schlimmer noch sind die klerikalisierten Laien. Hüten wir uns vor dieser Perversion des Klerikalismus. Helfen wir einander dabei, Sauerteig in der Welt zu sein. Gemeinsam können und müssen wir Gesten der Sorge für das menschliche Leben, für die Bewahrung der Schöpfung, für die Würde der Arbeit, für die Probleme der Familien, für die Lebensbedingungen der Alten und der Verlassenen, der Abgelehnten und Verachteten setzen. Kurz gesagt, wir können und müssen eine Kirche sein, die sich für eine Kultur der Fürsorge, der Liebkosung einsetzt, die Mitgefühl für die Schwachen weckt und gegen alle Verfallserscheinungen kämpft, auch in unseren Städten und an den Orten, an denen wir uns aufhalten, damit die Freude des Evangeliums im Leben eines jeden Menschen aufleuchtet: Das ist unser „Kampf“, dies ist die Herausforderung. Es gibt viele Versuchungen, um zurückzubleiben; die Versuchung der Nostalgie, die uns auf frühere Zeiten als bessere blicken lässt, bitte verfallen wir nicht der Rückwärtsgewandtheit, dieser kirchlichen Rückwärtsgewandtheit, die heute in Mode ist.
Brüder und Schwestern, heute habe ich, einer schönen Tradition gemäß, die Pallien für die neu ernannten Erzbischöfe Metropoliten gesegnet, viele von ihnen nehmen an unserer Feier teil. In Gemeinschaft mit Petrus sind sie dazu gerufen, „schnell aufzustehen“, nicht zu schlafen, um aufmerksame Wächter der Herde zu sein und nach dem Aufstehen „den guten Kampf zu kämpfen“, niemals allein, sondern mit dem ganzen heiligen, gläubigen Volk Gottes. Und als gute Hirten müssen sie vor dem Volk stehen, inmitten des Volkes und hinter dem Volk, aber immer mit dem heiligem, gläubigen Volk Gottes, weil sie Teil des heiligem, gläubigen Volkes Gottes sind. Und von Herzen grüße ich die Delegation des Ökumenischen Patriarchats, die von unserem lieben Bruder Bartholomäus entsandt wurde. Danke! Danke für eure Anwesenheit und für die Botschaft von Bartholomäus! Danke, danke, dass wir gemeinsam gehen, denn nur zusammen können wir Samen des Evangeliums und Zeugen der Brüderlichkeit sein.
Petrus und Paulus mögen für uns, für die Stadt Rom, für die Kirche und für die ganze Welt Fürsprache einlegen. Amen.
[01021-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]
Traduzione in lingua spagnola
El testimonio de los dos grandes apóstoles Pedro y Pablo revive hoy en la liturgia de la Iglesia. Al primero, a quien hizo encarcelar el rey Herodes, el ángel del Señor le dijo: «¡Levántate rápido!» (Hch 12,7); el segundo, resumiendo toda su vida y su apostolado, dijo: «He peleado el buen combate» (2 Tm 4,7). Consideremos estos dos aspectos —levantarse rápido y pelear el buen combate— y preguntémonos qué nos sugieren a las comunidades cristianas de hoy, mientras está en curso el proceso sinodal.
En primer lugar, los Hechos de los Apóstoles nos han relatado lo que sucedió la noche en que Pedro fue liberado de las cadenas de la prisión; un ángel del Señor lo sacudió mientras dormía y «lo hizo levantar, diciéndole: “¡Levántate rápido!”» (12,7). Lo despertó y le pidió que se levantara. Esta escena evoca la Pascua, pues aquí encontramos dos verbos usados en los relatos de la resurrección: despertar y levantarse. Significa que el ángel despertó a Pedro del sueño de la muerte y lo instó a levantarse, es decir, a resurgir, a salir fuera hacia la luz, a dejarse conducir por el Señor para atravesar el umbral de todas las puertas cerradas (cf. v. 10). Es una imagen significativa para la Iglesia. También nosotros, como discípulos del Señor y como comunidad cristiana, estamos llamados a levantarnos rápidamente para entrar en el dinamismo de la resurrección y dejarnos guiar por el Señor en los caminos que Él quiere mostrarnos.
Experimentamos todavía muchas resistencias interiores que no nos permiten ponernos en marcha. Muchas resistencias. A veces, como Iglesia, nos abruma la pereza y preferimos quedarnos sentados a contemplar las pocas cosas seguras que poseemos, en lugar de levantarnos para dirigir nuestra mirada hacia nuevos horizontes, hacia el mar abierto. A menudo estamos encadenados como Pedro en la prisión de la costumbre, asustados por los cambios y atados a la cadena de nuestras tradiciones. Pero de este modo nos deslizamos hacia la mediocridad espiritual, corremos el riesgo de “sólo tratar de arreglárnoslas” incluso en la vida pastoral, el entusiasmo por la misión disminuye y, en lugar de ser un signo de vitalidad y creatividad, acabamos dando una impresión de tibieza e inercia. En consecuencia, la gran corriente de novedad y vida que es el Evangelio —escribía el padre de Lubac— se convierte, en nuestras manos, en una fe que «cae en el formalismo y la costumbre, […] religión de ceremonias y de devociones, de ornamentos y de consuelos vulgares […]. Cristianismo clerical, cristianismo formalista, cristianismo apagado y endurecido» (El drama del humanismo ateo).
El Sínodo que estamos celebrando nos llama a convertirnos en una Iglesia que se levanta, que no se encierra en sí misma, sino que es capaz de mirar más allá, de salir de sus propias prisiones al encuentro del mundo. Con la valentía de abrir las puertas. Esa misma noche hubo otra tentación (cf. Hch 12,12-17), esa joven asustada, en vez de abrir la puerta, regresó a contar fantasías. Abramos las puertas, es el Señor quien llama. No seamos como Rosa que volvió hacia atrás. Una Iglesia sin cadenas y sin muros, en la que todos puedan sentirse acogidos y acompañados, en la que se cultive el arte de la escucha, del diálogo, de la participación, bajo la única autoridad del Espíritu Santo. Una Iglesia libre y humilde, que “se levanta rápido”, que no posterga, que no acumula retrasos ante los desafíos del ahora, que no se detiene en los recintos sagrados, sino que se deja animar por la pasión del anuncio del Evangelio y el deseo de llegar a todos y de acoger a todos. No nos olvidemos de esta palabra, todos. ¡Todos! Vayan a los cruces de los caminos y traigan a todos: ciegos, sordos, cojos, enfermos, justos, pecadores, ¡a todos, a todos! Esta palabra del Señor debe resonar en la mente y en el corazón, todos, en la Iglesia hay lugar para todos. Muchas veces nosotros nos convertimos en una Iglesia de puertas abiertas, pero para despedir y para condenar a la gente. Ayer uno de ustedes me decía: “Para la Iglesia este no es el tiempo de las despedidas, es el tiempo de la acogida”. “Pero no vinieron al banquete” — Vayan al cruce de los caminos y traigan a todos, a todos — “Pero son pecadores” — ¡Traigan a todos!
Posteriormente, la segunda lectura nos propuso las palabras de Pablo que, haciendo un repaso de toda su vida, decía: «He peleado el buen combate» (2 Tm 4,7). El Apóstol se refería a las innumerables situaciones, a veces marcadas por la persecución y el sufrimiento, en las que no escatimó esfuerzos para anunciar del Evangelio de Jesús. En ese momento final de su vida, él veía que en la historia sigue habiendo un gran “combate”, porque muchos no están dispuestos a acoger a Jesús, prefiriendo ir tras sus propios intereses y otros maestros, más cómodos, más fáciles, más conformes a nuestra voluntad. Pablo ha afrontado su combate y, ahora que ha terminado su carrera, le pide a Timoteo y a los hermanos de la comunidad que continúen esta labor con la vigilancia, el anuncio, la enseñanza: que cada uno, en definitiva, cumpla la misión encomendada y haga su parte.
Para nosotros es también una Palabra de vida, que despierta nuestra conciencia de cómo, en la Iglesia, todos estamos llamados a ser discípulos misioneros y a aportar nuestra propia contribución. Y aquí me vienen en mente dos preguntas. La primera es, ¿qué puedo hacer por la Iglesia? No quejarnos de la Iglesia, sino comprometernos con la Iglesia. Participar con pasión y humildad. Con pasión, porque no debemos permanecer como espectadores pasivos; con humildad, porque participar en la comunidad nunca debe significar ocupar el centro del escenario, sentirnos mejores que los demás e impedir que se acerquen. Iglesia en proceso sinodal significa que todos participan, ninguno en el lugar de los otros o por encima de los demás. No hay cristianos de primera o de segunda clase, todos están llamados.
Pero participar también significa llevar adelante el “buen combate” del que habla Pablo. De hecho, es una “batalla” porque el anuncio del Evangelio no es neutro —por favor, que el Señor nos libre de diluir el Evangelio para hacerlo neutro, el Evangelio no es agua destilada—, no deja las cosas como están, no acepta el compromiso con la lógica del mundo, sino que, por el contrario, enciende el fuego del Reino de Dios allá donde, en cambio, reinan los mecanismos humanos del poder, del mal, de la violencia, de la corrupción, de la injusticia y de la marginación. Desde que Jesucristo resucitó, convirtiéndose en línea divisoria de la historia, “comenzó una gran batalla entre la vida y la muerte, entre la resignación ante lo peor y la lucha por lo mejor, una batalla que no cesará hasta la derrota definitiva de todas las fuerzas del odio y de la destrucción” (cf. C. M. Martini, Homilía Pascua de Resurrección, 4 abril 1999).
Por eso la segunda pregunta es: ¿qué podemos hacer juntos, como Iglesia, para que el mundo en el que vivimos sea más humano, más justo, más solidario, más abierto a Dios y a la fraternidad entre los hombres? Es evidente que no debemos encerrarnos en nuestros círculos eclesiales y quedarnos atrapados en ciertas discusiones estériles. Estén atentos a no caer en el clericalismo, el clericalismo es una perversión. El ministro que asume una actitud clericalista ha tomado un camino equivocado, y peor aún son los laicos clericalizados. Estemos muy atentos a esta perversión del clericalismo. Ayudémonos a ser levadura en la masa del mundo. Juntos podemos y debemos establecer gestos de cuidado por la vida humana, por la protección de la creación, por la dignidad del trabajo, por los problemas de las familias, por la situación de los ancianos y de los abandonados, rechazados y despreciados. En definitiva, ser una Iglesia que promueve la cultura del cuidado, de la caricia, la compasión por los débiles y la lucha contra toda forma de degradación, incluida la de nuestras ciudades y de los lugares que frecuentamos, para que la alegría del Evangelio brille en la vida de cada uno: este es nuestro “combate”, este es nuestro desafío. Las tentaciones de quedarnos son muchas, la tentación de la nostalgia que nos hace pensar que otros fueron los tiempos mejores. Por favor, no caigamos en la tentación de “retroceder”, que hoy está de moda en la Iglesia.
Hermanos y hermanas, hoy, según una hermosa tradición, he bendecido los palios para los arzobispos metropolitanos nombrados recientemente, muchos de los cuales participan en nuestra celebración. En comunión con Pedro, ellos están llamados a “levantarse rápidamente”, a no dormir, para ser centinelas vigilantes del rebaño y, levantados, a “pelear el buen combate”, nunca solos, sino con todo el santo Pueblo fiel de Dios. Y como buenos pastores tienen que estar delante del pueblo, en medio del pueblo y detrás del pueblo, siempre con el santo pueblo fiel de Dios, porque ellos mismos son parte del santo pueblo fiel de Dios. Y saludo de corazón a la Delegación del Patriarcado Ecuménico, enviada por el querido hermano Bartolomé. ¡Gracias! Gracias por vuestra presencia aquí y por el mensaje de Bartolomé. Gracias, gracias por caminar juntos, porque sólo juntos podemos ser semilla del Evangelio y testigos de la fraternidad.
Que Pedro y Pablo intercedan por nosotros, intercedan por la ciudad de Roma, intercedan por la Iglesia y por el mundo entero. Amén.
[01021-ES.02] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua portoghese
Revive, hoje, na Liturgia da Igreja o testemunho dos dois grandes Apóstolos Pedro e Paulo. O primeiro, que o rei Herodes metera na prisão, ouve o anjo do Senhor dizer-lhe: «Ergue-te depressa» (At 12, 7); o segundo, resumindo toda a sua vida e apostolado, diz: «combati a boa batalha» (2 Tm 4, 7). Tendo diante dos olhos estes dois aspetos – erguer-se depressa e combater a boa batalha –, perguntemo-nos que podem eles sugerir à Comunidade Cristã de hoje, empenhada no processo sinodal em curso.
Antes de mais nada, os Atos dos Apóstolos falam-nos da noite em que Pedro foi libertado das correntes da prisão; um anjo do Senhor tocou-lhe o lado enquanto dormia, despertou-o e disse: «Ergue-te depressa!» (12, 7). Desperta-o e pede-lhe para se erguer. Esta cena evoca a Páscoa, porque aqui encontramos dois verbos usados nas narrações da ressurreição: despertar e erguer-se. Significa que o anjo despertou Pedro do sono da morte e o impeliu a erguer-se, isto é, a ressurgir, a sair para a luz, a deixar-se conduzir pelo Senhor para superar o limiar de todas as portas fechadas (cf. At 12, 10). É uma imagem significativa para a Igreja. Também nós, como discípulos do Senhor e como Comunidade Cristã, somos chamados a erguer-nos depressa para entrar no dinamismo da ressurreição e deixar-nos conduzir pelo Senhor ao longo dos caminhos que Ele nos quiser indicar.
Sentimos ainda tantas resistências interiores que não nos deixam pôr em marcha. Tantas resistências! Às vezes, como Igreja, somos dominados pela preguiça e preferimos ficar sentados a contemplar as poucas coisas seguras que possuímos, em vez de nos erguermos a fim de lançar o olhar para horizontes novos, para o mar alto. Muitas vezes estamos acorrentados como Pedro no cárcere do ramerrão, assustados pelas mudanças e presos à corrente das nossas habitudes. Mas, assim, cai-se na mediocridade espiritual, corre-se o risco de «ir sobrevivendo» mesmo na vida pastoral, esmorece o entusiasmo da missão e, em vez de ser sinal de vitalidade e criatividade, a impressão que se dá é de tibieza e inércia. Então, como escrevia Padre Henri de Lubac, a grande corrente de novidade e de vida, que é o Evangelho nas nossas mãos, torna-se uma fé que «cai no formalismo e na habitude, (...) religião de cerimónias e devoções, de ornamentos e vulgares consolações (...). Cristianismo clerical, cristianismo formalista, cristianismo mortiço e endurecido» (O drama do humanismo ateu. O homem diante de Deus, Milão 2017, 103-104).
O Sínodo, que estamos a celebrar, chama-nos a ser uma Igreja que se ergue em pé, não dobrada sobre si mesma, capaz de olhar mais além, de sair das suas prisões para ir ao encontro do mundo, com a coragem de abrir portas. Naquela mesma noite, insidiava outra tentação (cf. At 12, 12-17): aquela jovem assustada, em vez de abrir a porta, volta para trás contando algo que, para os presentes, só podia ser obra da sua fantasia. Abramos as portas. É o Senhor que chama. Não sejamos como Rode que voltara para trás...
Uma Igreja sem correntes nem muros, onde cada qual se possa sentir acolhido e acompanhado, onde se cultive a arte da escuta, do diálogo, da participação, sob a única autoridade do Espírito Santo. Uma Igreja livre e humilde, que «se ergue depressa», que não adia, não acumula atrasos face aos desafios de hoje, não se demora nos recintos sagrados, mas deixa-se animar pela paixão do anúncio do Evangelho e pelo desejo de chegar a todos, e a todos acolher. Não esqueçamos esta palavra: todos. Todos! Ide pelas encruzilhadas e trazei todos, cegos, surdos, coxos, doentes, justos, pecadores: todos, todos! Esta palavra do Senhor deve ressoar… ressoar na mente e no coração: todos! Na Igreja, há lugar para todos. E muitas vezes tornamo-nos uma Igreja de portas abertas, mas para despedir as pessoas, para condenar as pessoas. Ontem dizia-me um de vós: «Para a Igreja, este não é o tempo dos despedimentos, mas o tempo do acolhimento». «Não vieram ao banquete...» – Ide pelas encruzilhadas. Todos, todos! «Mas são pecadores!» – Todos.
Depois, a segunda Leitura propôs-nos as palavras de Paulo que, repassando toda a sua vida, afirma: «combati a boa batalha» (2 Tm 4, 7). O Apóstolo refere-se às inúmeras situações, às vezes marcadas pela perseguição e a tribulação, em que não se poupou a anunciar o Evangelho de Jesus. Agora, no final da vida, vê que, na história, está ainda em curso uma grande «batalha», porque muitos não estão dispostos a acolher Jesus, preferindo correr atrás dos seus próprios interesses e doutros mestres mais condescendentes, mais facilitadores, mais conformes à nossa vontade. Paulo enfrentou o seu combate e, agora que terminou a corrida, pede a Timóteo e aos irmãos da comunidade para continuarem esta obra com a vigilância, o anúncio, o ensino; enfim, cada um cumpra a missão que lhe foi confiada e faça a própria parte.
É uma Palavra de vida, também para nós, despertando a consciência de que, na Igreja, cada um é chamado a ser discípulo-missionário e a prestar a sua contribuição. Aqui vêm-me ao pensamento duas perguntas. A primeira: Que posso fazer eu pela Igreja? Não lamentar-me da Igreja, mas empenhar-me em prol da Igreja. Participar com paixão e humildade: com paixão, porque não devemos ficar espectadores passivos; com humildade, porque envolver-se na comunidade nunca deve significar ocupar o centro do palco, nem sentir-se o melhor impedindo aos outros de se aproximarem. Igreja em processo sinodal significa isto: todos participam, mas ninguém no lugar dos outros ou acima dos outros. Não há cristãos de primeira e segunda classe; mas todos, todos são chamados.
Entretanto participar significa também continuar aquela «boa batalha» de que fala Paulo. Trata-se realmente duma «batalha», porque o anúncio do Evangelho não é neutral – por favor! Que o Senhor nos livre de destilar o Evangelho para o tornar neutral: o Evangelho não é água destilada –, não deixa as coisas como estão, não aceita a cedência às lógicas do mundo, mas acende o fogo do Reino de Deus lá onde, ao contrário, reinam os mecanismos humanos do poder, do mal, da violência, da corrupção, da injustiça, da marginalização. Desde que Jesus Cristo ressuscitou, agindo como linha divisória da história, «começou uma grande batalha entre a vida e a morte, entre esperança e desespero, entre resignação ao pior e luta pelo melhor, uma batalha que não conhecerá tréguas até à derrota definitiva de todas as forças do ódio e da destruição» (C. M. Martini, Homilia na Páscoa da Ressurreição, 04/IV/1999).
Vimos a primeira pergunta; agora a segunda: Que podemos fazer juntos, como Igreja, para tornar o mundo em que vivemos mais humano, mais justo, mais solidário, mais aberto a Deus e à fraternidade entre os homens? Certamente não devemos fechar-nos nos nossos círculos eclesiais nem perder-nos em certas discussões estéreis. Cuidado para não cairdes no clericalismo; o clericalismo é uma perversão. O ministro que se faz clerical adotando atitudes clericais, embocou um caminho errado; pior ainda são os leigos clericalizados. Estejamos atentos a esta perversão que é o clericalismo. Ajudemo-nos a ser fermento na massa do mundo. Juntos, podemos e devemos fazer gestos cuidadores a bem da vida humana, da tutela da criação, da dignidade do trabalho, dos problemas das famílias, da condição dos idosos e de quantos se veem abandonados, rejeitados e desprezados. Enfim, ser uma Igreja que promove a cultura do cuidado, da ternura, a compaixão pelos frágeis e a luta contra toda a forma de degradação, incluindo a das nossas cidades e dos lugares que frequentamos, para resplandecer na vida de cada um a alegria do Evangelho: esta é a nossa «batalha», este é o nosso desafio. As tentações para ficar no passado são muitas; a tentação da nostalgia que nos faz olhar para outros tempos como sendo melhores. Por favor, não caiamos no saudosismo, neste saudosismo de Igreja que está na moda hoje.
Irmãos e irmãs, hoje, segundo uma bela tradição, benzi os Pálios para os Arcebispos Metropolitas recém-nomeados, muitos dos quais participam na nossa celebração. Em comunhão com Pedro, são chamados a «erguer-se depressa», não dormir, para ser sentinelas vigilantes do rebanho. Levanta-te para «combater a boa batalha», nunca sozinhos, mas com todo o santo Povo fiel de Deus. E como bons pastores devem estar à frente do povo, no meio do povo e atrás do povo, mas sempre com o santo povo fiel de Deus, porque fazem parte do santo povo fiel de Deus. De coração, saúdo a Delegação do Patriarcado Ecuménico, enviada pelo querido irmão Bartolomeu. Obrigado! Obrigado pela vossa presença e pela mensagem de Bartolomeu! Obrigado! Obrigado por caminhar juntos, porque, só juntos, podemos ser semente de Evangelho e testemunhas de fraternidade.
Pedro e Paulo intercedam por nós, intercedam pela cidade de Roma, intercedam pela Igreja e pelo mundo inteiro. Amen.
[01021-PO.02] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua polacca
W liturgii Kościoła ożywia się dzisiaj świadectwo dwóch wielkich apostołów Piotra i Pawła. Do pierwszego, uwięzionego przez króla Heroda, anioł Pański mówi: „Wstań, szybko” (Dz 12, 7); drugi, podsumowując całe swoje życie i apostolstwo, powie: „W dobrych zawodach wystąpiłem” (2 Tm 4, 7). Przyjrzyjmy się tym dwóm aspektom – powstania w pośpiechu i prowadzenia dobrych zmagań - i zastanówmy się, co mają one do zaproponowania wspólnocie chrześcijańskiej dzisiaj, w czasie procesu synodalnego.
Po pierwsze, Dzieje Apostolskie opowiadają nam o nocy, podczas której Piotr został uwolniony z więziennych kajdan; kiedy spał, anioł Pański dotknął jego boku, „obudził i powiedział: «Wstań szybko!»” (12, 7). Budzi go i każde mu wstać. Scena ta przywołuje na myśl Paschę, ponieważ znajdujemy tutaj dwa czasowniki, które zostały użyte w relacjach o zmartwychwstaniu, to znaczy zbudzić i powstać. Oznacza to, że anioł obudził Piotra ze snu śmierci i wezwał go, aby powstał, to znaczy podniósł się, wyszedł ku światłu, dał się prowadzić Panu, aby przekraczał progi wszystkich zamkniętych drzwi (por. w. 10). Dla Kościoła jest to znaczący obraz. Także i my, jako uczniowie Pana i jako Wspólnota chrześcijańska, jesteśmy wezwani do szybkiego powstania, aby wejść w dynamiczną rzeczywistość zmartwychwstania i pozwolić się prowadzić Panu po drogach, które chce nam wskazać.
Wciąż doświadczamy wielu wewnętrznych oporów, które nie pozwalają nam ruszyć z miejsca, wiele oporów. Czasami, jako Kościół, jesteśmy ogarnięci lenistwem i wolimy siedzieć i kontemplować nieliczne pewne rzeczy, jakie posiadamy, zamiast wstać, by skierować wzrok ku nowym perspektywom, ku otwartemu morzu. Często, jak Piotr, jesteśmy zniewoleni w więzieniu przyzwyczajeń, boimy się zmian i jesteśmy przywiązani do łańcucha naszych nawyków. Przez to jednak popadamy w duchową przeciętność, grozi nam, że nawet w życiu duszpasterskim będziemy „szli po linii najmniejszego oporu”, osłabnie entuzjazm dla misji i zamiast być znakiem żywotności i kreatywności, będziemy sprawiać wrażenie letniości i bezwładu. Wówczas, jak pisał o. Henri de Lubac, wielki nurt nowości i życia, jakim jest Ewangelia stanie się w dla nas wiarą, która „popada w formalizm i rutynę, [...] religią ceremonii i dewocji, ornamentu i pospolitych pocieszeń [...]. Chrześcijaństwem klerykalnym, chrześcijaństwem formalistycznym, chrześcijaństwem przygasłym i zastygłym” (Dramat humanizmu ateistycznego, przekł. Arkadiusz Ziernicki, Kraków 2005, s. 144-145).
Synod, który przeżywamy, wzywa nas, abyśmy stali się Kościołem, który powstaje, nie zamyka się w sobie, potrafi spojrzeć szerzej, wydostać z własnych więzień, aby wyjść na spotkanie światu, by odważnie otworzyć bramy. Tej samej nocy była inna pokusa (por. Dz 12, 12-17): ta dziewczyna przestraszona zamiast otworzyć drzwi, wraca do opowiadania fantazji. Otwórzmy drzwi! To Pan, który wzywa. Nie bądźmy jak Rode, która cofa się wstecz. Kościołem bez łańcuchów i bez murów, w którym każdy może czuć się akceptowany i wspierany, w którym pielęgnuje się sztukę słuchania, dialogu, uczestnictwa, pod wyłącznym kierownictwem Ducha Świętego. Kościołem wolnym i pokornym, który „powstaje szybko”, który nie zwleka, nie odkłada na później wyzwań dnia dzisiejszego, nie odgradza się sakralnymi murami, ale daje się ożywiać zapałowi głoszenia Ewangelii i pragnieniem dotarcia do wszystkich i przyjęcia wszystkich. Nie zapominajmy tego słowa: do wszystkich. „Idźcie więc na rozstajne drogi i zaproście na ucztę wszystkich” (Mt 22,9): ślepych, głuchych, chromych, chorych, sprawiedliwych, grzeszników – wszystkich, wszystkich. To słowo Pana powinno rozbrzmiewać w umyśle i w sercu: wszystkich. W Kościele jest miejsce dla wszystkich. A wiele razy stajemy się Kościołem o bramach otwartych, po to jednak, aby pożegnać się z ludźmi, by ludzi potępiać. Wczoraj jeden z was powiedział mi: „Dla Kościoła czas obecny nie jest okresem pożegnań. Jest to czas gościnnego przyjmowania”. „Nie przyszli na ucztę”, to idźcie na rozstajne drogi: wszyscy, wszyscy. „Ale są grzesznikami!” - wszyscy.
Natomiast drugie czytanie przywołuje słowa Pawła, który, podsumowując całe swoje życie, mówi: „w dobrych zawodach wystąpiłem”(2 Tm 4, 7). Apostoł odwołuje się do niezliczonych sytuacji, niekiedy naznaczonych prześladowaniami i cierpieniem, w których nie oszczędzał się w głoszeniu Ewangelii Jezusa. Teraz, u kresu swego życia, widzi, że w historii nadal toczy się wielka „bitwa”, ponieważ wielu nie chce przyjąć Jezusa, wybierając podążanie za własnymi interesami i innymi „nauczycielami”, wygodniejszymi, łatwiejszymi, bardziej zgodnymi z naszą wolą. Paweł stoczył swoją walkę, a teraz, gdy ukończył bieg, prosi Tymoteusza i braci ze wspólnoty, aby kontynuowali to dzieło, czuwając, głosząc, nauczając: krótko mówiąc, aby każdy wypełniał powierzoną mu misję i wykonywał swoje zadanie.
Również dla nas jest to Słowo życia, które budzi świadomość, że w Kościele każdy jest powołany do bycia uczniem-misjonarzem i do wniesienia swego wkładu. I tu nasuwają się dwa pytania. Pierwsze z nich brzmi: co ja mogę uczynić dla Kościoła? Nie narzekać na Kościół, ale angażować się na rzecz Kościoła. Uczestniczyć z zapałem i pokorą: z zapałem, ponieważ nie możemy pozostać biernymi widzami; z pokorą, ponieważ zaangażowanie we wspólnotę nigdy nie może oznaczać zajmowania miejsca centralnego, poczucia, że jest się lepszym i uniemożliwiania innym przybliżenia się. Kościół przeżywający proces synodalny oznacza: wszyscy uczestniczą, nikt nie zajmuje miejsca innych ani nie jest ponad innymi. Nie ma chrześcijan pierwszej czy drugiej kategorii, wszyscy są wezwani.
Uczestnictwo oznacza jednak także prowadzenie „dobrych zawodów”, o których mówi Paweł. Jest to rzeczywiście „walka”, ponieważ głoszenie Ewangelii nie jest neutralne. Niech Pan nas uwolni od destylowania Ewangelii, by uczynić ją neutralną. Ewangelia nie jest wodą destylowaną. Przepowiadanie Ewangelii nie jest neutralne i nie pozostawia rzeczy takimi, jakimi są, nie godzi się na kompromis z logiką świata, ale przeciwnie, rozpala ogień królestwa Bożego tam, gdzie panują ludzkie mechanizmy władzy, zła, przemocy, korupcji, niesprawiedliwości i marginalizacji. Odkąd Jezus Chrystus zmartwychwstał, stając się punktem zwrotnym historii, „rozpoczęła się wielka bitwa między życiem a śmiercią, między nadzieją a rozpaczą, między pogodzeniem się z najgorszym a walką o to, co najlepsze, bitwa, która uspokoi się aż do chwili ostatecznego pokonania wszystkich sił nienawiści i zniszczenia” (C. M. MARTINI, Omelia Pasqua di Risurrezione, 4 aprile 1999).
A zatem drugie pytanie brzmi: co możemy uczynić razem, jako Kościół, aby świat, w którym żyjemy, był bardziej ludzki, bardziej sprawiedliwy, bardziej solidarny, bardziej otwarty na Boga i na braterstwo między ludźmi? Z pewnością nie możemy zamykać się w naszych kręgach kościelnych i przykuwać się do pewnych jałowych dyskusji. Uważajcie, by nie popaść w klerykalizm. Klerykalizm jest wynaturzeniem. Szafarz, który poprzez swoją klerykalną postawę staje się klerykalny obrał błędną drogę. Co gorsza są też sklerykalizowani ludzie świeccy. Uważajmy na to wynaturzenie klerykalizmu. Pomagajmy sobie nawzajem, byśmy stawali się zaczynem w cieście świata. Razem możemy i powinniśmy troszczyć się o życie ludzkie, o ochronę stworzenia, o godność pracy, o problemy rodzin, o trudną sytuację osób starszych i tych, którzy są opuszczeni, odrzuceni i wzgardzeni. Krótko mówiąc, powinniśmy być Kościołem, który promuje kulturę troski, utulenia, współczucia dla słabszych i walki z wszelkimi formami degradacji, także naszych miast i miejsc, w których przebywamy, tak aby radość Ewangelii zajaśniała w życiu każdego z nas. To są nasze „zawody”, oto wyzwanie. Jest wiele pokus, by się zatrzymać; pokusa nostalgii, która każe nam postrzegać inne czasy jako lepsze. Proszę was, nie popadajmy w uwstecznienie, to modne dziś kościelne uwstecznienie.
Bracia i siostry, dziś, zgodnie z piękną tradycją, poświęciłem paliusze dla niedawno mianowanych arcybiskupów metropolitów, z których wielu uczestniczy w naszej celebracji. W jedności z Piotrem są wezwani, aby „wstawać szybko”, by nie spać, aby być czujnymi strażnikami owczarni i powstawszy „występować w dobrych zawodach”, nigdy sami, ale z całym świętym wiernym ludem Bożym. I jako dobrzy pasterze muszą stać przed ludem, pośród ludu i za ludem, ale zawsze ze świętym ludem Bożym, ponieważ są oni częścią świętego ludu Bożego. Serdecznie pozdrawiam też delegację Patriarchatu Ekumenicznego, posłaną przez naszego drogiego brata Bartłomieja. Dziękuję, dziękuję za Waszą obecność i za przesłanie Bartłomieja! Dziękuję za to, że podążamy razem, bo tylko wspólnie możemy być zasiewem Ewangelii i świadkami braterstwa.
Niech Piotr i Paweł wstawiają się za nami, za miastem Rzym, za Kościołem i za całym światem. Amen.
[01021-PL.02] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua araba
عظة قداسة البابا فرنسيس
في القدّاس الإلهيّ
في مناسبة عيد القديسَين بطرس وبولس
الأربعاء 29 يونيو/حزيران 2022
بازيليكا القدّيس بطرس
شهادة الرّسولَين الكبيرّين بطرس وبولس نراها حية اليوم من جديد في ليتورجيا الكنيسة. قال ملاك الرّبّ لبطرس، الذي أمر الملك هيرودس بإلقائه في السجن: "قُمْ على عَجَل" (أعمال الرّسل 12، 7)، وبولس، لخصّ حياته كلّها ورسالته الرّسوليّة بهذه الكلمة: "جاهَدتُ جِهادًا حَسَنًا" (2 طيموتاوس 4، 7). لنلقِ نظرة على هذَين الجانبَين - قُمْ على عَجَل وجاهَدتُ الجِهاد الحَسَن – ولنتساءل: ماذا يقول هاذان الرّسولان للجماعة المسيحيّة اليوم، وهي تقوم بالمسيرة السينوديّة.
أوّلًا، روى لنا سفر أعمال الرسل عن الليلة التي تحرّر فيها بطرس من قيود السجن. لمس ملاك الرّبّ جنبه وهو نائم، "فأَيقَظَه وقالَ له: قُمْ على عَجَل" (12، 7). أيقظه وطلب منه أن يقوم. هذا المشهد يعيد إلى الذاكرة الفصح، لأنّنا هنا نجد فعلَين مستخدمَين في حدث القيامة: نهض وقام. هذا يعني أنّ الملاك أيقظ بطرس من نوم الموت ودفعه ليقوم، أي أن يقوم مرة أخرى، ويخرج إلى النور، ويسمح للرّبّ يسوع أن يقوده ليجتاز عتبة جميع الأبواب المغلقة (راجع الآية 10). إنّها صورة معبّرة للكنيسة. نحن أيضًا، بكوننا تلاميذ الرّبّ يسوع وجماعة مسيحيّة، مدعوّون إلى أن نقوم سريعًا للدخول في ديناميكيّة القيامة وللسماح للرّبّ يسوع بأن يقودنا على الطرق التي يريد أن يَدُلَّنا عليها.
ما زلنا نواجه معارضات كثيرة داخليّة لا تسمح لنا بالتحرّك، معارضات كثيرة. أحيانًا، بكوننا كنيسة، يغمرنا الكسل ونفضل أن نبقى جالسين ونحن نفكّر في الأشياء القليلة الآمنة التي نملكها، بدلًا من أن ننهض لإلقاء نظرة على آفاق جديدة، نحو البحر الفسيح. وأحيانًا كثيرة نُقيَّد بالسّلاسل مثل بطرس في سجن العادات، خائفين من التغيّير ومُقيّدين بسلسلة عاداتنا. ولكن بهذه الطريقة ننزلق إلى حياة روحيّة مترديّة، ونوشك أحيانًا بالقبول بالجمود والبقاء حيث نحن، حتى في الحياة الرّعويّة، فيتلاشى حماس الرّسالة فينا، وبدلًا من أن نكون علامة على الحيويّة والإبداع، ينتهي بنا الأمر إلى إعطاء انطباع بالفتور والخمول. إذاك، تيار التّجديد والحياة الذي هو الإنجيل، كما كتب الأب دي لوباك، يصبح بين أيدينا إيمانًا "يقع في الشكليّات والعوائد، [...] يصبح ديانة احتفالات وعبادات، وزخارف، وتعزية مبتذلة" […]. تصبح مسيحيّة تسلُّط إكليريكيّ، وشكليّات، ومسيحيّة انطفأت وتجمدت" (مأساة المذهب الإنسانيّ الملحد. الإنسان أمام الله، ميلانو2017، 103-104).
السّينودس الذي نحتفل به يدعونا إلى أن نصبح كنيسة تقف على أرجلها، غير منطوية على نفسها، قادرة على التطلّع إلى ما هو أبعد، وقادرة على الخروج من سجونها حتى تذهب للقاء العالم، وتفتح أبوابها بشجاعة. في تلك الليلة نفسها، كانت هناك تجربة أخرى (راجع أعمال الرّسل 12، 12-17): تلك الفتاة الخائفة، بدلًا من أن تفتح الباب، عادت لتقول بعض الأوهام إلى الجماعة. لنفتح الأبواب. الرّبّ يسوع هو الذي يدعو. نحن لسنا مثل الفتاة رَوْضَة التي تعود إلى الوراء.
كنيسة بلا سلاسل وأسوار، يشعر فيها كلّ واحد بأنّه مرحَّبٌ به ومُرافَق، ويتمّ فيها تنمية فن الإصغاء والحوار والمشاركة، تحت سلطة الرّوح القدس الواحدة. كنيسة حرّة متواضعة، ”تقوم على عجل“، لا تؤجِّل، ولا تراكم الزمن أمام تحديّات اليوم، ولا تبقى في الحرم المقدّس، بل تسمح لنفسها بأن تندفع بحماس لإعلان الإنجيل وبالرّغبة في الوصول إلى الجميع، والتّرحيب بالجميع. لا ننسَ هذه الكلمة: الجميع. الجميع! اذهبوا إلى مفترق الطرقات واحضروا الجميع، العميان والصمّ والعُرج والمرضى والصّدّيقين والخاطئين: الجميع، الجميع! يجب أن تدوّي كلمة الرّبّ يسوع هذه، أن تدوي في العقل والقلب كلمة: الجميع، ففي الكنيسة هناك مكان للجميع. وأحيانًا نصبح كنيسة ذات أبواب مفتوحة لكن لصرف الناس وإدانتهم. بالأمس قال لي واحد منكم: ”ليس هذا هو وقت الكنيسة لتصرف الناس، بل لترحّب بهم“. ”لم يأتوا إلى المأدبة...“ – لذلك اذهبوا إلى مفترق الطرقات واحضروا الجميع، الجميع! ”لكنّهم خطأة...“ - احضروا الجميع!
أعادت القراءة الثانيّة علينا كلمات بولس الذي نظر إلى كلّ حياته وقال: "جاهَدتُ جِهادًا حَسَنًا" (2 طيموتاوس 4، 7). أشار الرّسول إلى المواقف التي لا تُعد ولا تُحصى، والتي تميّزت أحيانًا بالاضطهاد والآلام، والتي لم يدخّر فيها وُسعًا ليعلن إنجيل يسوع. والآن، في نهاية حياته، رأى أنّ ”معركة“ كبيرة لا تزال جارية في التاريخ، لأنّ الكثيرين غير مستعدّين لقبول يسوع، ويفضّلون اتباع مصالحهم الخاصّة ومعلّمين آخرين. لقد واجه بولس معركته، والآن بعد أن أنهى جهاده، طلب من طيموتاوس والإخوة في الجماعة أن يواصلوا هذا العمل بالسّهر والبشارة والتّعاليم: باختصار، ليقم كلّ واحد بإتمام الرّسالة الموكولة إليه. ليقم كلّ واحد بما يُطلَب منه.
إنّها كلمة حياة لنا أيضًا. إنّها توقظ وعينا لنعلم أنّ كلّ واحد في الكنيسة مدعوٌ إلى أن يكون تلميذًا ومُرسَلًا، وإلى أن يقدّم مساهمته الخاصّة. وهنا يتبادر إلى ذهنيّ سؤالان. السّؤال الأوّل: ماذا أستطيع أن أعمل للكنيسة؟ لا تشكو من الكنيسة، بل التزم في الكنيسة. وشارك باندفاع شديد وتواضع: باندفاع شديد، لأنّه يجب ألّا نبقى متفرجّين سلبيّين، وبتواضع، لأنّ الالتزام في الجماعة يجب ألّا يعني أبدًا أن نحتلّ مركز الصّدارة، ونشعر بأنّنا الأفضل ونمنع الآخرين من الاقتراب منا. الكنيسة في المسيرة السينوديّة تعني: الجميع يشاركون، ولا أحد يضع نفسه مكان الآخرين أو فوق الآخرين. لا يوجد مسيحيّون من الدرجة الأولى والثانيّة، فالجميع مدعوّون.
لكن المشاركة تعني أيضًا الاستمرار في ”الجهاد الحسن“ الذي تكلّم عليه بولس. إنّه في الحقيقة ”معركة“، لأنّ إعلان الإنجيل ليس أمرًا حياديًا، ولا يترك الأمور كما هي، ولا يقبل التنازل أمام منطق العالم، بل على العكس، إعلان الإنجيل يُشعل نار ملكوت الله حيث تسود آليات القوى البشريّة والشّرّ والعنف والفساد والظلم والتهميش. منذ أن قام يسوع المسيح من بين الأموات، لأنّه نقطة فاصلة في التاريخ، "بدأت معركة كبيرة بين الحياة والموت، وبين الأمل واليأس، وبين الاستسلام للأسوأ والنضال من أجل الأفضل، معركة لن تكون فيها فترة هدنة حتى الهزيمة النهائيّة لجميع قوى الكراهية والدمار "كارلو ماريا مارتيني، عظة عيد القيامة، 4 نيسان/أبريل 1999).
ثمّ السّؤال الثاني هو: ماذا يمكننا أن نفعل معًا، بكوننا كنيسة، لنجعل العالم الذي نعيش فيه أكثر إنسانيّة، وأكثر عدلًا، وأكثر تضامنًا، وأكثر انفتاحًا على الله والأخوّة بين الناس؟ يجب علينا بالتأكيد ألّا ننغلق على أنفسنا في دوائرنا الكنسيّة ونتسمّر في بعض مناقشاتنا العقيمة. احذروا من الوقوع في روح التسلُّط الإكليريكي، فهي ضلال. خادم أسرار الله المقدّسة الذي لدية روح التسلُّط الإكليريكي وموقف التسلُّط الإكليريكي يكون قد سلك طريقًا خاطئًا. والأسوأ من ذلك هم العلمانيّون الذين يمارسون روح التسلُّط الإكليريكي هذه. لنتنبّه من روح التسلُّط الإكليريكي المضلّلة. ولنساعد بعضنا بعضًا لنكون خميرةً في عجينة العالم. معًا يمكننا بل يجب علينا أن نقوم بأعمال رعاية واهتمام بالحياة البشريّة، وحماية الخليقة، وكرامة العمل، ومشاكل العائلات، وظروف كبار السّنّ المتروكين، وجميع المنبوذين والمرذولين. باختصار، أن نكون كنيسة تروّج لثقافة الرّعايّة والملاطفة والرّحمة للضعفاء وتكافح ضد كلّ أشكال الانحلال، بما في ذلك الانحلال في مدننا والأماكن التي نتردّد عليها، حتى يَسطع فرح الإنجيل في حياة كلّ واحد: هذه هي ”معركتنا“، وهذا هو التحّدي.
أيّها الإخوة والأخوات، اليوم، وفقًا لتقليدٍ جميل، باركت ”الباليوم“ لرؤساء الأساقفة المعيّنين جديدًا، الذين يشارك الكثير منهم في احتفالنا هذا. علامة الشّركة مع بطرس، فإنّهم مدعوّون إلى ”القيام على عجل“ وليس إلى النوم، ليكونوا حُرّاسًا متيقظّين للقطيع وإلى ”أن يجاهدوا الجهاد الحسن“، ليس وحدهم أبدًا، بل مع كلّ شعب الله المقدّس والأمين. وبكونهم رعاة صالحين، يجب أن يبقوا أمام الشّعب، وفي وسطهم وخلفهم، ولكن أن يبقوا دائمًا مع شعب الله المقدّس والأمين، لأنّهم جزء منه. ومن كلّ قلبي أحيّي وفد البطريركيّة المسكونيّة، الذي أرسله الأخ العزيز برثلماوس. شكرًا! شكرًا لحضوركم ولرسالة الأخ برثلماوس! شكرًا، شكرًا على السّير معًا، لأنّنا فقط معًا يمكننا أن نكون بذار الإنجيل وشهودًا للأخوّة.
ليشفع بطرس وبولس لنا، ولمدينة روما، وللكنيسة وللعالم أجمع. آمين.
[01021-AR.02] [Testo originale: Italiano]
[B0500-XX.02]