Sala Stampa

www.vatican.va

Sala Stampa Back Top Print Pdf
Sala Stampa


Udienza del Santo Padre alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, 23.12.2021


Discorso del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Traduzione in lingua araba

Questa mattina, nell’Aula della Benedizione del Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Francesco ha ricevuto in Udienza i Cardinali e i Superiori della Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi.

Nel corso dell’incontro, il Papa ha rivolto alla Curia Romana il discorso che riportiamo di seguito:

Discorso del Santo Padre

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Come ogni anno, abbiamo occasione di incontrarci a pochi giorni dalla festa del Natale. È un modo per dire “ad alta voce” la nostra fraternità attraverso lo scambio degli auguri natalizi, ma è anche un momento di riflessione e di verifica per ciascuno di noi, perché la luce del Verbo che si fa carne ci mostri sempre meglio chi siamo e la nostra missione.

Tutti lo sappiamo: il mistero del Natale è il mistero di Dio che viene nel mondo attraverso la via dell’umiltà. Si è fatto carne: quella grande synkatabasis. Questo tempo sembra aver dimenticato l’umiltà, o pare l’abbia semplicemente relegata a una forma di moralismo, svuotandola della dirompente forza di cui è dotata.

Ma se dovessimo esprimere tutto il mistero del Natale in una parola, credo che la parola umiltà è quella che maggiormente ci può aiutare. I Vangeli ci parlano di uno scenario povero, sobrio, non adatto ad accogliere una donna che sta per partorire. Eppure il Re dei re viene nel mondo non attirando l’attenzione, ma suscitando una misteriosa attrazione nei cuori di chi sente la dirompente presenza di una novità che sta per cambiare la storia. Per questo mi piace pensare e anche dire che l’umiltà è stata la sua porta d’ingresso e ci invita, tutti noi, ad attraversarla. Mi viene in mente quel passo degli Esercizi: non si può andare avanti senza umiltà, e non si può andare avanti nell’umiltà senza umiliazioni. E Sant’Ignazio ci dice di chiedere le umiliazioni.

Non è facile capire cosa sia l’umiltà. Essa è il risultato di un cambiamento che lo Spirito stesso opera in noi attraverso la storia che viviamo, come ad esempio accadde a Naaman il Siro (cfr 2 Re 5). Questo personaggio godeva, all’epoca del profeta Eliseo, di una grande fama. Era un valoroso generale dell’esercito Arameo, che aveva mostrato in più occasioni il suo valore e il suo coraggio. Ma insieme con la fama, la forza, la stima, gli onori, la gloria, quest’uomo è costretto a convivere con un dramma terribile: è lebbroso. La sua armatura, quella stessa che gli procura fama, in realtà copre un’umanità fragile, ferita, malata. Questa contraddizione spesso la ritroviamo nelle nostre vite: a volte i grandi doni sono l’armatura per coprire grandi fragilità.

Naaman comprende una verità fondamentale: non si può passare la vita nascondendosi dietro un’armatura, un ruolo, un riconoscimento sociale: alla fine, fa male. Arriva il momento, nell’esistenza di ognuno, in cui si ha il desiderio di non vivere più dietro il rivestimento della gloria di questo mondo, ma nella pienezza di una vita sincera, senza più bisogno di armature e di maschere. Questo desiderio spinge il valoroso generale Naaman a mettersi in cammino alla ricerca di qualcuno che possa aiutarlo, e lo fa a partire dal suggerimento di una schiava, una ebrea prigioniera di guerra che racconta di un Dio che è capace di guarire simili contraddizioni.

Fatto rifornimento di argento e oro, Naaman si mette in viaggio e giunge così dinanzi al profeta Eliseo. Questi chiede a Naaman, come unica condizione per la sua guarigione, il semplice gesto di spogliarsi e lavarsi sette volte nel fiume Giordano. Niente fama, niente onore, oro né argento! La grazia che salva è gratuita, non è riducibile al prezzo delle cose di questo mondo.

Naaman resiste a questa richiesta, gli sembra troppo banale, troppo semplice, troppo accessibile. Sembra che la forza della semplicità non avesse spazio nel suo immaginario. Ma le parole dei suoi servi lo fanno ricredere: «Se il profeta ti avesse ordinato una cosa difficile, tu non l'avresti fatta? Quanto più ora che egli ti ha detto: “Lavati, e sarai guarito”?» (2 Re 5,13). Naaman si arrende, e con un gesto di umiltà “scende”, toglie la sua armatura, si cala nelle acque del Giordano, «e la sua carne tornò come la carne di un bambino; egli era guarito» (2 Re 5,14). La lezione è grande! L’umiltà di mettere a nudo la propria umanità, secondo la parola del Signore, ottiene a Naaman la guarigione.

La storia di Naaman ci ricorda che il Natale è un tempo in cui ognuno di noi deve avere il coraggio di togliersi la propria armatura, di dismettere i panni del proprio ruolo, del riconoscimento sociale, del luccichio della gloria di questo mondo, e assumere la sua stessa umiltà. Possiamo farlo a partire da un esempio più forte, più convincente, più autorevole: quello del Figlio di Dio, che non si sottrae all’umiltà di “scendere” nella storia facendosi uomo, facendosi bambino, fragile, avvolto in fasce e adagiato in una mangiatoia (cfr Lc 2,16). Tolte le nostre vesti, le nostre prerogative, i ruoli, i titoli, siamo tutti dei lebbrosi, tutti noi, bisognosi di essere guariti. Il Natale è la memoria viva di questa consapevolezza e ci aiuta a capirla più profondamente.

Cari fratelli e sorelle, se dimentichiamo la nostra umanità viviamo solo degli onori delle nostre armature, ma Gesù ci ricorda una verità scomoda e spiazzante: “A cosa serve guadagnare il mondo intero se poi perdi te stesso?” (cfr Mc 8,36).

Questa è la pericolosa tentazione – l’ho richiamato altre volte – della mondanità spirituale, che a differenza di tutte le altre tentazioni è difficile da smascherare, perché coperta da tutto ciò che normalmente ci rassicura: il nostro ruolo, la liturgia, la dottrina, la religiosità. Scrivevo nella Evangelii gaudium: «In questo contesto, si alimenta la vanagloria di coloro che si accontentano di avere qualche potere e preferiscono essere generali di eserciti sconfitti piuttosto che semplici soldati di uno squadrone che continua a combattere. Quante volte sogniamo piani apostolici espansionisti, meticolosi e ben disegnati, tipici dei generali sconfitti! Così neghiamo la nostra storia di Chiesa, che è gloriosa in quanto storia di sacrifici, di speranza, di lotta quotidiana, di vita consumata nel servizio, di costanza nel lavoro faticoso, perché ogni lavoro è “sudore della nostra fronte”. Invece ci intratteniamo vanitosi parlando a proposito di “quello che si dovrebbe fare” – il peccato del “si dovrebbe fare” – come maestri spirituali ed esperti di pastorale che danno istruzioni rimanendo all’esterno. Coltiviamo la nostra immaginazione senza limiti e perdiamo il contatto con la realtà sofferta del nostro popolo fedele» (n. 96).

L’umiltà è la capacità di saper abitare senza disperazione, con realismo, gioia e speranza, la nostra umanità; questa umanità amata e benedetta dal Signore. L’umiltà è comprendere che non dobbiamo vergognarci della nostra fragilità. Gesù ci insegna a guardare la nostra miseria con lo stesso amore e tenerezza con cui si guarda un bambino piccolo, fragile, bisognoso di tutto. Senza umiltà cercheremo rassicurazioni, e magari le troveremo, ma certamente non troveremo ciò che ci salva, ciò che può guarirci. Le rassicurazioni sono il frutto più perverso della mondanità spirituale, che rivela la mancanza di fede, di speranza e di carità, e diventano incapacità di saper discernere la verità delle cose. Se Naaman avesse continuato solo ad accumulare medaglie da mettere sulla sua armatura, alla fine sarebbe stato divorato dalla lebbra: apparentemente vivo, sì, ma chiuso e isolato nella sua malattia. Egli con coraggio cerca ciò che possa salvarlo e non ciò che lo gratifica nell’immediato.

Tutti sappiamo che il contrario dell’umiltà è la superbia. Un versetto del profeta Malachia, che mi ha toccato tanto, ci aiuta a comprendere per contrasto quale differenza vi sia tra la via dell’umiltà e quella della superbia: «Allora tutti i superbi e tutti coloro che commettono ingiustizia saranno come paglia; quel giorno venendo li incendierà – dice il Signore degli eserciti – in modo da non lasciar loro né radice né germoglio» (3,19).

Il Profeta usa un’immagine suggestiva che ben descrive la superbia: essa – dice – è come paglia. Allora, quando arriva il fuoco, la paglia diventa cenere, si brucia, scompare. E ci dice anche che chi vive facendo affidamento sulla superbia si ritrova privato delle cose più importanti che abbiamo: le radici e i germogli. Le radici dicono il nostro legame vitale con il passato da cui prendiamo linfa per poter vivere nel presente. I germogli sono il presente che non muore, ma che diventa domani, diventa futuro. Stare in un presente che non ha più radici e più germogli significa vivere la fine. Così il superbo, rinchiuso nel suo piccolo mondo, non ha più passato né futuro, non ha più radici né germogli e vive col sapore amaro della tristezza sterile che si impadronisce del cuore come «il più pregiato degli elisir del demonio».[1] L’umile vive invece costantemente guidato da due verbi: ricordare – le radici e generare, frutto dalle radici e dei germogli, e così vive la gioiosa apertura della fecondità.

Ricordare significa etimologicamente “riportare al cuore”, ri-cordare. La vitale memoria che abbiamo della Tradizione, delle radici, non è culto del passato, ma gesto interiore attraverso il quale riportiamo al cuore costantemente ciò che ci ha preceduti, ciò che ha attraversato la nostra storia, ciò che ci ha condotti fin qui. Ricordare non è ripetere, ma fare tesoro, ravvivare e, con gratitudine, lasciare che la forza dello Spirito Santo faccia ardere il nostro cuore, come ai primi discepoli (cfr Lc 24,32).

Ma affinché il ricordare non diventi una prigione del passato, abbiamo bisogno di un altro verbo: generare. L’umile – l’uomo umile, la donna umile ha a cuore anche il futuro, non solo il passato, perché sa guardare avanti, sa guardare i germogli, con la memoria carica di gratitudine. L’umile genera, invita e spinge verso ciò che non si conosce. Invece il superbo ripete, si irrigidisce – la rigidità è una perversione, è una perversione attuale – e si chiude nella sua ripetizione, si sente sicuro di ciò che conosce e teme il nuovo perché non può controllarlo, se ne sente destabilizzato… perché ha perso la memoria.

L’umile accetta di essere messo in discussione, si apre alla novità e lo fa perché si sente forte di ciò che lo precede, delle sue radici, della sua appartenenza. Il suo presente è abitato da un passato che lo apre al futuro con speranza. A differenza del superbo, sa che né i suoi meriti né le sue “buone abitudini” sono il principio e il fondamento della sua esistenza; perciò è capace di avere fiducia; il superbo non ne ha.

Tutti noi siamo chiamati all’umiltà perché siamo chiamati a ricordare e a generare, siamo chiamati a ritrovare il rapporto giusto con le radici e con i germogli. Senza di essi siamo ammalati, e destinati a scomparire.

Gesù, che viene nel mondo attraverso la via dell’umiltà, ci apre una strada, ci indica un modo, ci mostra una meta.

Cari fratelli e sorelle, se è vero che senza umiltà non si può incontrare Dio, e non si può fare esperienza di salvezza, è altrettanto vero che senza umiltà non si può incontrare nemmeno il prossimo, il fratello e la sorella che ci vivono accanto.

Lo scorso 17 ottobre abbiamo dato inizio al percorso sinodale che ci vedrà impegnati per i prossimi due anni. Anche in questo caso, solo l’umiltà può metterci nella condizione giusta per poterci incontrare e ascoltare, per dialogare e discernere, per pregare insieme, come indicava il Cardinale Decano. Se ognuno rimane chiuso nelle proprie convinzioni, nel proprio vissuto, nel guscio del suo solo sentire e pensare, è difficile fare spazio a quell’esperienza dello Spirito che, come dice l’Apostolo, è legata alla convinzione che siamo tutti figli di «un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,6).

“Tutti” non è una parola fraintendibile! Il clericalismo che come tentazione – perversa – serpeggia quotidianamente in mezzo a noi ci fa pensare sempre a un Dio che parla solo ad alcuni, mentre gli altri devono solo ascoltare ed eseguire. Il Sinodo è cerca di essere l’esperienza di sentirci tutti membri di un popolo più grande: il Santo Popolo fedele di Dio, e pertanto discepoli che ascoltano e, proprio in virtù di questo ascolto, possono anche comprendere la volontà di Dio, che si manifesta sempre in maniera imprevedibile. Sarebbe però sbagliato pensare che il Sinodo sia un evento riservato alla Chiesa come entità astratta, distante da noi. La sinodalità è uno stile a cui dobbiamo convertirci innanzitutto noi che siamo qui e che viviamo l’esperienza del servizio alla Chiesa universale attraverso il lavoro nella Curia romana.

E la Curia – non dimentichiamolo – non è solo uno strumento logistico e burocratico per le necessità della Chiesa universale, ma è il primo organismo chiamato alla testimonianza, e proprio per questo acquista sempre più autorevolezza ed efficacia quando assume in prima persona le sfide della conversione sinodale alla quale anch’essa è chiamata. L’organizzazione che dobbiamo attuare non è di tipo aziendale, ma di tipo evangelico.

Per questo, se la Parola di Dio ricorda al mondo intero il valore della povertà, noi, membri della Curia, per primi dobbiamo impegnarci in una conversione alla sobrietà. Se il Vangelo annuncia la giustizia, noi per primi dobbiamo cercare di vivere con trasparenza, senza favoritismi e cordate. Se la Chiesa percorre la via della sinodalità, noi per primi dobbiamo convertirci a uno stile diverso di lavoro, di collaborazione, di comunione. E questo è possibile solo attraverso la strada dell’umiltà. Senza umiltà non potremo fare questo.

Durante l’apertura dell’assemblea sinodale ho usato tre parole-chiave: partecipazione, comunione e missione. E nascono da un cuore umile: senza umiltà non si può fare né partecipazione, né comunione, né missione. Queste parole sono le tre esigenze che vorrei indicare come stile di umiltà a cui tendere qui nella Curia. Tre modi per rendere la via dell’umiltà una via concreta da mettere in pratica.

Innanzitutto la partecipazione. Essa dovrebbe esprimersi attraverso uno stile di corresponsabilità. Certamente nella diversità di ruoli e ministeri le responsabilità sono diverse, ma sarebbe importante che ognuno si sentisse partecipe, corresponsabile del lavoro senza vivere la sola esperienza spersonalizzante dell’esecuzione di un programma stabilito da qualcun altro. Rimango sempre colpito quando nella Curia incontro la creatività – mi piace tanto –, e non di rado essa si manifesta soprattutto lì dove si lascia e si trova spazio per tutti, anche a chi gerarchicamente sembra occupare un posto marginale. Ringrazio per questi esempi – li trovo, e mi piace –, e vi incoraggio a lavorare affinché siamo capaci di generare dinamiche concrete in cui tutti sentano di avere una partecipazione attiva nella missione che devono svolgere. L’autorità diventa servizio quando condivide, coinvolge e aiuta a crescere.

La seconda parola è comunione. Essa non si esprime con maggioranze o minoranze, ma nasce essenzialmente dal rapporto con Cristo. Non avremo mai uno stile evangelico nei nostri ambienti se non rimettendo Cristo al centro, e non questo partito o quell’altro, quell’opinione o quell’altra: Cristo al centro. Molti di noi lavorano insieme, ma ciò che fortifica la comunione è poter anche pregare insieme, ascoltare insieme la Parola, costruire rapporti che esulano dal semplice lavoro e rafforzano i legami di bene, legami di bene tra noi, aiutandoci a vicenda. Senza questo rischiamo di essere soltanto degli estranei che collaborano, dei concorrenti che cercando di posizionarsi meglio o, peggio ancora, lì dove si creano dei rapporti, essi sembrano prendere più la piega della complicità per interessi personali dimenticando la causa comune che ci tiene insieme. La complicità crea divisioni, crea fazioni, e crea nemici; la collaborazione esige la grandezza di accettare la propria parzialità e l’apertura al lavoro in gruppo, anche con quelli che non la pensano come noi. Nella complicità si sta insieme per ottenere un risultato esterno. Nella collaborazione si sta insieme perché si ha a cuore il bene dell’altro e, pertanto, di tutto il Popolo di Dio che siamo chiamati a servire: non dimentichiamo il volto concreto delle persone, non dimentichiamo le nostre radici, il volto concreto di coloro che sono stati i nostri primi maestri nella fede. Paolo diceva a Timoteo: “Ricorda tua mamma, ricorda tua nonna”.

La prospettiva della comunione implica, nello stesso tempo, di riconoscere la diversità che ci abita come dono dello Spirito Santo. Ogni volta che ci allontaniamo da questa strada e viviamo comunione e uniformità come sinonimi, indeboliamo e mettiamo a tacere la forza vivificante dello Spirito Santo in mezzo a noi. L’atteggiamento di servizio ci chiede, vorrei dire esige, la magnanimità e la generosità per riconoscere e vivere con gioia la ricchezza multiforme del Popolo di Dio; e senza umiltà questo non è possibile. A me fa bene rileggere l’inizio della Lumen gentium, quei numeri 8, 12…: il santo popolo fedele di Dio. È ossigeno per l’anima riprendere queste verità.

La terza parola è missione. Essa è ciò che ci salva dal ripiegarci su noi stessi. Chi è ripiegato su sé stesso «guarda dall’alto e da lontano, rifiuta la profezia dei fratelli, squalifica chi gli pone domande, fa risaltare continuamente gli errori degli altri ed è ossessionato dall’apparenza. Ha ripiegato il riferimento del cuore all’orizzonte chiuso della sua immanenza e dei suoi interessi e, come conseguenza di ciò, non impara dai propri peccati né è aperto al perdono. Questi sono i due segni di una persona “chiusa”: non impara dai propri peccati e non è aperta al perdono. È una tremenda corruzione con apparenza di bene. Bisogna evitarla mettendo la Chiesa in movimento di uscita da sé, di missione centrata in Gesù Cristo, di impegno verso i poveri» (Evangelii gaudium, 97). Solo un cuore aperto alla missione fa sì che tutto ciò che facciamo ad intra e ad extra sia sempre segnato dalla forza rigeneratrice della chiamata del Signore. E la missione sempre comporta passione per i poveri, cioè per i “mancanti”: coloro che “mancano” di qualcosa non solo in termini materiali, ma anche spirituali, affettivi, morali. Chi ha fame di pane e chi ha fame di senso è ugualmente povero. La Chiesa è invitata ad andare incontro a tutte le povertà, ed è chiamata a predicare il Vangelo a tutti perché tutti, in un modo o in un altro, siamo poveri, siamo mancanti. Ma anche la Chiesa va loro incontro perché essi ci mancano: ci manca la loro voce, la loro presenza, le loro domande e discussioni. La persona con cuore missionario sente che suo fratello le manca e, con l’atteggiamento del mendicante, va a incontrarlo. La missione ci rende vulnerabili – è bello, la missione ci rende vulnerabili –, ci aiuta a ricordare la nostra condizione di discepoli e ci permette di riscoprire sempre di nuovo la gioia del Vangelo.

Partecipazione, missione e comunione sono i caratteri di una Chiesa umile, che si mette in ascolto dello Spirito e pone il suo centro fuori da sé stessa. Diceva Henri de Lubac: «Agli occhi del mondo la Chiesa, come il suo Signore, ha sempre l’aspetto della schiava. Esiste quaggiù in forma di serva. […] Essa non è né un’accademia di scienziati, né un cenacolo di raffinati spirituali, né un’assemblea di superuomini. È anzi esattamente il contrario. S’affollano gli storpi, i deformi, i miserabili di ogni sorta, fanno ressa i mediocri […]; è difficile, o piuttosto impossibile, all’uomo naturale, fino a quando non sia intervenuto in lui una radicale trasformazione, riconoscere in questo fatto il compimento della kenosi salvifica, la traccia adorabile dell’umiltà di Dio» (Meditazioni sulla Chiesa, 352).

In conclusione desidero augurare a voi e a me per primo, di lasciarci evangelizzare dall’umiltà, dall’umiltà del Natale, dall’umiltà del presepe, della povertà ed essenzialità in cui il Figlio di Dio è entrato nel mondo. Persino i Magi, che certamente possiamo pensare venissero da una condizione più agiata di Maria e di Giuseppe o dei pastori di Betlemme, quando si trovano al cospetto del bambino si prostrano (cfr Mt 2,11). Si prostrano. Non è solo un gesto di adorazione, è un gesto di umiltà. I Magi si mettono all’altezza di Dio prostrandosi sulla nuda terra. E questa kenosi, questa discesa, questa synkatabasis è la stessa che Gesù compirà l’ultima sera della sua vita terrena, quando «si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugatoio di cui si era cinto» (Gv 13,4-5). Lo sgomento che suscita tale gesto provoca la reazione di Pietro, ma alla fine Gesù stesso dona ai suoi discepoli la chiave di lettura giusta: «Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,13-15).

Cari fratelli e sorelle, facendo memoria della nostra lebbra, rifuggendo le logiche della mondanità che ci privano di radici e di germogli, lasciamoci evangelizzare dall’umiltà del Bambino Gesù. Solo servendo e solo pensando al nostro lavoro come servizio possiamo davvero essere utili a tutti. Siamo qui – io per primo – per imparare a stare in ginocchio e adorare il Signore nella sua umiltà, e non altri signori nella loro vuota opulenza. Siamo come i pastori, siamo come i Magi, siamo come Gesù. Ecco la lezione del Natale: l’umiltà è la grande condizione della fede, della vita spirituale, della santità. Possa il Signore farcene dono a partire dalla primordiale manifestazione dello Spirito dentro di noi: il desiderio. Ciò che non abbiamo, possiamo cominciare almeno a desiderarlo. E chiedere al Signore la grazia di poter desiderare, di diventare uomini e donne di grandi desideri. E il desiderio è già lo Spirito all’opera dentro ciascuno di noi.

Buon Natale a tutti! E vi chiedo di pregare per me. Grazie!

Come ricordo di questo Natale, vorrei lasciare qualche libro… Ma per leggerlo, non per lasciarlo nella biblioteca, per i nostri che riceveranno l’eredità! Prima di tutto, uno di un grande teologo, sconosciuto perché troppo umile, un sottosegretario della Dottrina della Fede, mons. Armando Matteo, che pensa un po’ a un fenomeno sociale e a come provoca la pastoralità. Si chiama Convertire Peter Pan. Sul destino della fede in questa società dell’eterna giovinezza. È provocatorio, fa bene. Il secondo è un libro sui personaggi secondari o dimenticati della Bibbia, di padre Luigi Maria Epicoco: La pietra scartata, e come sottotitolo Quando i dimenticati si salvano. È bello. È per la meditazione, per l’orazione. Leggendo questo mi è venuta in mente la storia di Naaman il Siro di cui ho parlato. E il terzo è di un Nunzio Apostolico, mons. Fortunatus Nwachukwu, che voi conoscete bene. Lui ha fatto una riflessione sul chiacchiericcio, e mi piace quello che ha dipinto: che il chiacchiericcio fa sì che si “sciolga” l’identità. Vi lascio questi tre libri, e spero che ci aiutino tutti ad andare avanti. Grazie! Grazie per il vostro lavoro e la vostra collaborazione. Grazie.

E chiediamo alla Madre dell’umiltà che ci insegni a essere umili: “Ave o Maria…”

[Benedizione]

_________________________

[1] G. Bernanos, Journal d’un curé de campagne, Paris 1974, 135.

[01848-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Chers frères et sœurs, bonjour !

Comme chaque année, nous avons l'occasion de nous réunir quelques jours avant la fête de Noël. C'est une façon de dire “à haute voix” notre fraternité à travers l'échange des vœux, mais c'est aussi un temps de réflexion et de vérification pour chacun d'entre nous afin que la lumière du Verbe fait chair nous montre toujours mieux qui nous sommes et quelle est notre mission.

Nous le savons tous : le mystère de Noël c’est le mystère de Dieu qui vient dans le monde par le chemin de l'humilité. Il s’est fait chair : cette grande synkatabasis. Cette époque semble avoir oublié l'humilité, ou bien semble l'avoir simplement reléguée à une forme de moralisme, en la vidant de la force dérangeante dont elle est dotée.

Mais si nous devions exprimer tout le mystère de Noël en un seul mot, je crois que le mot humilité serait celui qui pourrait nous aider le plus. Les Évangiles évoquent un cadre pauvre et sobre, peu propice à l’accueil d’une femme sur le point de donner naissance. Et cependant le Roi des rois vient dans le monde non pas en attirant l'attention, mais en suscitant une mystérieuse attraction dans le cœur de ceux qui ressentent la présence bouleversante d'une nouveauté sur le point de changer l'histoire. C’est pourquoi il me plaît de penser et de dire que l'humilité a été sa porte d'entrée et il nous invite, nous tous, à la franchir. Ce passage des Exercices me vient à l’esprit : on ne peut aller de l’avant sans humilité, et on ne peut aller de l’avant, dans l’humilité, sans humiliations. Et saint Ignace nous dit de demander les humiliations.

Il n'est pas facile de comprendre ce qu'est l'humilité. Elle est le résultat d'un changement que l'Esprit lui-même opère en nous à travers l'histoire que nous vivons, comme cela est arrivé par exemple à Naaman le Syrien (cf. 2 R, 5). À l'époque du prophète Élisée, cette personne jouissait d'une grande réputation. C'était un valeureux général de l'armée araméenne, qui avait montré sa vaillance et son courage à plusieurs reprises. Mais à côté de la célébrité, de la force, de l'estime, des honneurs et de la gloire, cet homme est contraint de vivre avec un terrible drame : il est lépreux. Son armure, celle-là même qui lui apporte la gloire, recouvre en réalité une humanité fragile, blessée, malade. Nous trouvons souvent cette contradiction dans nos propres vies : parfois, les grands dons sont une armure qui couvrent de grandes fragilités.

Naaman comprend une vérité fondamentale : on ne peut pas passer sa vie à se cacher derrière une charge, un rôle, une reconnaissance sociale : en fin de compte, ça fait mal. Il arrive un moment dans l'existence où chacun a le désir de ne plus vivre sous couvert de la gloire de ce monde, mais dans la plénitude d'une vie sincère, sans plus avoir besoin d'armures ni de masques. Ce désir pousse le vaillant général Naaman à partir à la recherche de quelqu'un qui puisse l'aider, et il le fait sur la suggestion d'une esclave, une juive prisonnière de guerre qui parle d'un Dieu capable de guérir de telles contradictions.

Après avoir fait des provisions d'argent et d'or, Naaman se met en route et se présente devant le prophète Elisée. Celui-ci demande à Naaman, comme seule condition à sa guérison, le simple geste de se dévêtir et de se laver sept fois dans le Jourdain. Ni gloire, ni honneur, ni or, ni argent ! La grâce qui sauve est gratuite, elle ne se réduit pas au prix des choses de ce monde.

Naaman résiste à cette demande, elle lui paraît trop banale, trop simple, trop accessible. Il semble que la force de la simplicité n’ait pas de place dans son imaginaire. Mais les paroles de ses serviteurs le font changer d'avis : « Si le prophète t’avait ordonné quelque chose de difficile, tu l’aurais fait, n’est-ce pas ? Combien plus, lorsqu’il te dit : “Baigne-toi, et tu seras purifié” » (2 R 5, 13). Naaman capitule et, dans un geste d'humilité, il “descend”, enlève son armure et entre dans les eaux du Jourdain, « alors sa chair redevient semblable à celle d’un petit enfant : il est purifié ! » (2 R 5, 14). La leçon est grande ! L'humilité de mettre à nu son humanité, selon la parole du Seigneur, apporte la guérison à Naaman.

L'histoire de Naaman nous rappelle que Noël est un moment où chacun de nous doit avoir le courage d'enlever son armure, de se débarrasser des vêtements de sa charge, de la reconnaissance sociale, de l'éclat de la gloire de ce monde, et d'assumer sa propre humilité. Nous pouvons le faire à partir d'un exemple plus fort, plus convaincant encore et faisant davantage autorité : celui du Fils de Dieu qui ne se dérobe pas à l'humilité de “descendre” dans l'histoire en se faisant homme, en devenant un enfant fragile, emmailloté et couché dans une mangeoire (cf. Lc 2, 16). Débarrassés de nos vêtements, de nos prérogatives, de nos rôles et de nos titres, nous sommes tous des lépreux, nous tous, ayant besoin d'être guéris. Noël est la mémoire vivante de cette prise de conscience et il nous aide à la comprendre plus profondément.

Chers frères et sœurs, si nous oublions notre humanité nous ne vivons que par les honneurs de nos armures. Or Jésus nous rappelle une vérité inconfortable et déconcertante : « Quel avantage, en effet, un homme a-t-il à gagner le monde entier si c’est au prix de sa vie ? » (Mc 8, 36).

C’est là la dangereuse tentation – je l'ai rappelée en d'autres occasions – de la mondanité spirituelle qui, à la différence de toutes les autres tentations, est difficile à démasquer parce qu'elle est recouverte de tout ce qui habituellement nous rassure : notre charge, la liturgie, la doctrine, la religiosité. J'écrivais dans Evangelii gaudium : « Dans ce contexte, se nourrit la vaine gloire de ceux qui se contentent d’avoir quelque pouvoir et qui préfèrent être des généraux d’armées défaites plutôt que de simples soldats d’un escadron qui continue à combattre. Combien de fois rêvons-nous de plans apostoliques, expansionnistes, méticuleux et bien dessinés, typiques des généraux défaits ! Ainsi nous renions notre histoire d’Église qui est glorieuse en tant qu’elle est histoire de sacrifices, d’espérance, de lutte quotidienne, de vie dépensée dans le service, de constance dans le travail pénible, parce que tout travail est accompli à la “sueur de notre front”. À l’inverse, nous nous attardons comme des vaniteux qui disent ce “qu’on devrait faire” – le péché du “on devrait faire” – comme des maîtres spirituels et des experts en pastorale qui donnent des instructions tout en restant en dehors. Nous entretenons sans fin notre imagination et nous perdons le contact avec la réalité douloureuse de notre peuple fidèle » (n. 96).

L'humilité est la capacité de savoir habiter sans désespoir, avec réalisme, joie et espérance notre humanité ; cette humanité aimée et bénie par le Seigneur. L'humilité consiste à comprendre que nous ne devons pas avoir honte de notre fragilité. Jésus nous apprend à regarder notre misère avec le même amour et la même tendresse que l'on porte à un petit enfant fragile qui a besoin de tout. Sans humilité, nous chercherons à nous rassurer, et nous y arriverons peut-être, mais nous ne trouverons certainement pas ce qui nous sauve, ce qui peut nous guérir. Vouloir se rassurer est le fruit le plus pervers de la mondanité spirituelle qui révèle un manque de foi, d'espérance et de charité, et devient une incapacité à discerner la vérité des choses. Si Naaman s’était contenté de continuer à accumuler des médailles pour les mettre sur son armure, il aurait fini par être dévoré par la lèpre : vivant en apparence, oui, mais enfermé et isolé dans sa maladie. Il recherche courageusement ce qui peut le sauver et non pas ce qui le gratifie dans l’immédiat.

Nous savons tous que le contraire de l'humilité est l'orgueil. Un verset du prophète Malachie, qui m’a beaucoup touché, nous aide à comprendre, par contraste, la différence entre la voie de l'humilité et celle de l'orgueil : « Tous les arrogants, tous ceux qui commettent l’impiété, seront de la paille. Le jour qui vient les consumera, – dit le Seigneur de l’univers –, il ne leur laissera ni racine ni branche. » (3, 19).

Le Prophète utilise une image évocatrice qui décrit bien l'orgueil : il est, dit-il, comme la paille. Quand le feu arrive, la paille devient cendre, elle brûle, elle disparaît. Et il nous dit également que ceux qui vivent en s'appuyant sur l'orgueil se retrouvent privés de ce que nous avons de plus important : les racines et les bourgeons. Les racines évoquent notre lien vital avec le passé dont nous tirons la sève pour pouvoir vivre le présent. Les bourgeons sont le présent qui ne meurt pas mais qui devient lendemain, avenir. Être dans un présent qui n'a plus ni racines ni bourgeons, c'est vivre la fin. Ainsi, l'orgueilleux, enfermé dans son petit monde n'a plus ni passé ni avenir, il n'a plus ni racines ni bourgeons, il vit avec le goût amer de la tristesse stérile qui envahit le cœur comme « le plus riche des élixirs du démon ».[1] Au contraire, la personne humble vit constamment guidée par deux verbes : se souvenir – les racineset engendrer, fruit des racines et des bourgeons, et elle vit ainsi l'ouverture joyeuse de la fécondité.

Se souvenir signifie étymologiquement “ramener au cœur”, [ri-cordare]. La mémoire vitale que nous avons de la Tradition, de nos racines, n'est pas un culte du passé mais un mouvement intérieur par lequel nous ramenons constamment au cœur ce qui nous a précédés, ce qui a traversé notre histoire, ce qui nous a conduits jusqu’à aujourd’hui. Se souvenir ne signifie pas répéter, mais tirer leçon, raviver et, avec gratitude, laisser la force de l'Esprit Saint enflammer notre cœur, comme les premiers disciples (cf. Lc 24, 32).

Mais pour que le souvenir ne devienne pas une prison du passé, nous avons besoin d'un autre verbe : engendrer. L’humble – l’homme humble, la femme humble – se soucie également de l'avenir, et non seulement du passé, parce qu'elle sait regarder en avant, elle sait voir les bourgeons, avec une mémoire pleine de gratitude. La personne humble engendre, invite et pousse vers ce qui est inconnu. L'orgueilleux, en revanche, se répète, se raidit – la rigidité est une perversion, c’est une perversion qui est d’actualité – et s'enferme dans sa répétition, il se sent sûr de ce qu'il connaît et craint la nouveauté parce qu'il ne peut pas la maîtriser. Il se sent déstabilisé par elle... parce qu'il a perdu la mémoire.

La personne humble accepte d'être remise en cause, elle s'ouvre à la nouveauté, et elle le fait parce qu'elle se sent forte de ce qui la précède, de ses racines, de son appartenance. Son présent est habité par un passé qui l'ouvre à l'avenir avec espérance. Contrairement à l'orgueilleux, elle sait que ni ses mérites ni ses “bonnes habitudes” ne sont le principe et le fondement de son existence ; elle est donc capable de faire confiance ; le superbe n’en a pas.

Nous sommes tous appelés à l'humilité car nous sommes appelés à nous souvenir et à engendrer, nous sommes appelés à redécouvrir notre juste relation avec les racines et les bourgeons. Sans eux, nous sommes malades et voués à disparaître.

Jésus, en venant dans le monde par la voie de l'humilité, ouvre un chemin. Il nous indique une manière de faire, il nous montre un but.

Chers frères et sœurs, s'il est vrai que sans humilité on ne peut rencontrer Dieu ni faire l'expérience du salut, il est également vrai que sans humilité on ne peut rencontrer le prochain, le frère et la sœur qui vivent à côté de nous.

Le 17 octobre dernier, nous avons entamé le parcours synodal qui nous engage pour les deux prochaines années. Là encore, seule l'humilité peut nous mettre en juste condition pour nous rencontrer et nous écouter, pour dialoguer et discerner, pour prier ensemble, comme l’indiquait le Cardinal Doyen. Si chacun reste enfermé dans ses propres convictions, dans son propre vécu, dans la coquille de son seul ressenti et de ses idées personnelles, il sera difficile de faire place à cette expérience de l'Esprit qui, comme le dit l'Apôtre, est liée à la conviction que nous sommes tous les enfants d’« un seul Dieu et Père de tous, au-dessus de tous, par tous, et en tous » (Ep 4, 6).

“Tous” n’est pas un mot difficile à comprendre ! Le cléricalisme, tel une tentation – perverse – qui s’insinue quotidiennement parmi nous, nous fait toujours penser à un Dieu qui parle seulement à certains, tandis que les autres doivent seulement écouter et exécuter. Le Synode cherche à être l’expérience de se sentir tous membres d’un peuple plus grand : le Saint Peuple fidèle de Dieu, et donc des disciples qui écoutent et, précisément en vertu de cette écoute, peuvent aussi comprendre la volonté de Dieu qui se manifeste toujours de manière imprévisible. Ce serait toutefois une erreur de penser que le Synode serait un événement réservé à l’Église comme entité abstraite et éloignée de nous. La synodalité est un style auquel nous devons nous convertir, surtout nous qui sommes ici et qui vivons l’expérience du service de l’Église universelle par le travail à la Curie romaine.

Et la Curie – ne l’oublions pas - n’est pas seulement un instrument logistique et bureaucratique pour les nécessités de l’Église universelle, mais elle est le premier organisme appelé au témoignage. C’est précisément pour cela qu’elle acquiert toujours plus d’autorité et d’efficacité lorsqu’elle assume elle-même les défis de la conversion synodale à laquelle elle est aussi appelée. L’organisation que nous devons mettre en place n’est pas sur le modèle de l’entreprise, mais sur un modèle évangélique.

C’est pourquoi, si la Parole de Dieu rappelle au monde entier la valeur de la pauvreté, nous, membres de la Curie, nous devons, les premiers, nous engager dans une conversion à la sobriété. Si l’Évangile annonce la justice, nous devons, les premiers, chercher à vivre avec transparence, sans favoritismes et sans copinages. Si l’Église parcourt la voie de la synodalité, nous devons les premiers nous convertir à un style de travail, de collaboration, de communion différent. Et cela n’est possible qu’à travers le chemin de l’humilité. Sans humilité nous ne pourrons pas faire cela.

Lors de l’ouverture de l’assemblée synodale, j’ai utilisé trois mots-clés : participation, communion et mission. Et ils naissent d’un cœur humble : sans humilité on ne peut faire ni participation, ni communion, ni mission. Ces mots sont les trois exigences que je voudrais indiquer comme style d’humilité auquel il faut tendre, ici, à la Curie. Trois façons pour faire du chemin de l’humilité, un chemin concret à mettre en pratique.

Tout d’abord, la participation. Elle devrait s’exprimer par un style de coresponsabilité. Certes, dans la diversité des rôles et des ministères, les responsabilités sont différentes, mais il serait important que chacun se sente impliqué, coresponsable du travail, sans vivre la seule expérience dépersonnalisante de l’exécution d’un programme établi par quelqu’un d’autre. Je suis toujours touché quand je rencontre au sein de la Curie de la créativité – j’aime vraiment – elle se manifeste souvent, surtout là où on laisse et où on trouve de la place pour chacun, même à ceux qui, hiérarchiquement, semblent occuper un poste marginal. Je vous remercie pour ces exemples – je les trouve, et j’aime ça– et je vous encourage à travailler pour que nous soyons capables de générer des dynamiques concrètes dans lesquelles tous sentent avoir une participation active dans la mission à accomplir. L’autorité devient service quand elle partage, implique et aide à grandir.

Le second mot est communion. Elle ne s’exprime pas en termes de majorités ou de minorités, mais elle naît fondamentalement de la relation avec le Christ. Nous n’aurons jamais un style évangélique dans nos milieux si ce n’est en remettant le Christ au centre et non ce parti ou cet autre, cette opinion ou cette autre: le Christ au centre. Nous sommes nombreux à travailler ensemble, mais ce qui fortifie la communion c’est de pouvoir aussi prier ensemble, d’écouter la Parole ensemble, de construire des relations qui ne relèvent pas du simple travail et qui renforcent de bons liens, de bons liens entre nous, en nous aidant les uns les autres. Sans cela, nous risquons de n’être que des étrangers qui collaborent, des concurrents cherchant à mieux se positionner. Pire encore, là où s’établissent des relations, celle-ci semblent prendre davantage la forme d’une complicité fondée sur des intérêts personnels, oubliant la raison commune qui nous rassemble. La complicité crée des divisions, crée des factions, crée des ennemis ; la collaboration exige la grandeur d’accepter notre partialité, ainsi que l’ouverture au travail en groupe même avec ceux qui ne pensent pas comme nous. Dans la complicité, on est ensemble en vue d’obtenir un résultat extérieur. Dans la collaboration, on est ensemble parce qu’on porte à cœur le bien de l’autre et, par conséquent, de tout le Peuple de Dieu que nous sommes appelés à servir : n’oublions pas le visage concret des personnes, n’oublions pas nos racines, le visage concret de ceux qui ont été nos premiers maîtres dans la foi. Paul disait à Timothée : “Souviens-toi de ta mère, souviens-toi de ta grand-mère ”.

La perspective de la communion implique, en même temps, de reconnaître la diversité qui nous habite comme un don de l'Esprit Saint. Chaque fois que nous nous écartons de cette voie et que nous confondons communion et uniformité, nous affaiblissons et réduisons au silence la force vivifiante de l'Esprit Saint au milieu de nous. L'attitude de service nous demande, je dirais même exige, la magnanimité et la générosité de reconnaître et de vivre joyeusement la richesse multiforme du peuple de Dieu ; et sans humilité, ce n'est pas possible. Ça me fait du bien de relire le début du Lumen gentium, ces numéros 8, 12... : le saint peuple fidèle de Dieu. Reprendre ces vérités est de l’oxygène pour l’âme.

Le troisième mot est mission. Elle est ce qui nous évite de nous replier sur nous-mêmes. Celui qui est replié sur lui-même « regarde de haut et de loin, il refuse la prophétie des frères, il élimine celui qui lui fait une demande, il fait ressortir continuellement les erreurs des autres et est obsédé par l’apparence. Il a réduit la référence du cœur à l’horizon fermé de son immanence et de ses intérêts et, en conséquence, il n’apprend rien de ses propres péchés et n’est pas authentiquement ouvert au pardon. Ce sont les deux signes d’une personne “fermée” : elle n’apprend pas de ses péchés et elle n’est pas ouverte au pardon. C’est une terrible corruption sous l’apparence du bien. Il faut l’éviter en mettant l’Église en mouvement de sortie de soi, de mission centrée en Jésus Christ, d’engagement envers les pauvres » (Evangelii Gaudium, n. 97). Seul un cœur ouvert à la mission garantit que tout ce que nous faisons ad intra et ad extra est toujours marqué par la force régénératrice de l'appel du Seigneur. Et la mission implique toujours une passion pour les pauvres, c'est-à-dire pour ceux qui sont "en manque" : ceux qui "manquent" de quelque chose, non seulement en termes matériels, mais aussi spirituels, affectifs et moraux. Qui a faim de pain et qui a faim de sens est également pauvre. L'Église est invitée à aller à la rencontre de toutes les pauvretés, elle est appelée à annoncer l'Évangile à tous parce que tous, d'une manière ou d'une autre, nous sommes pauvres, nous sommes en manque. Mais l'Église va aussi à leur rencontre parce que eux nous manquent : leur voix, leur présence, leurs questions et leurs discussions nous manquent. Celui qui a un cœur missionnaire sent que son frère lui manque et, avec l'attitude du mendiant, il va à sa rencontre. La mission nous rend vulnérables, – c’est beau, la mission nous rend vulnérables – elle nous aide à nous rappeler notre condition de disciples et nous permet toujours de redécouvrir la joie de l'Évangile.

Participation, mission et communion sont les caractéristiques d'une Église humble qui se met à l’écoute de l'Esprit et place son centre en dehors d'elle-même. Henri de Lubac disait : « Aux yeux du monde, l'Église, comme son Seigneur, a toujours l'aspect d'une esclave. Elle existe ici-bas sous la forme d'une servante. [...] Elle n'est ni une académie de scientifiques, ni un cénacle de spirituels raffinés, ni une assemblée de surhommes. Elle est exactement le contraire. Les infirmes, les difformes, les misérables de toute sorte s’y assemblent, les médiocres s'y bousculent [...] ; il est difficile, ou plutôt impossible, pour l'homme naturel, tant qu'une transformation radicale ne s'est pas opérée en lui, de reconnaître dans ce fait l'accomplissement de la kénose salvifique, la trace adorable de l'humilité de Dieu » (Méditations sur l'Église, p. 352).

En conclusion, je voudrais vous souhaiter, et à moi en premier, de nous laisser évangéliser par l'humilité, par l’humilité de Noël, par l’humilité de la crèche, de la pauvreté et de l’essentialité par lesquelles le Fils de Dieu est entré dans le monde. Même les Mages, dont on peut penser qu'ils étaient de condition plus aisée que Marie et Joseph ou que les bergers de Bethléem, se prosternent lorsqu'ils se trouvent devant l'Enfant (cf. Mt 2,11). Ils se prosternent. Ce n'est pas seulement un geste d'adoration, c'est un geste d'humilité. Les mages se mettent au niveau de Dieu en se prosternant sur la terre nue. Et cette kénose, cette descente, cette synkatabasis est la même que celle accomplie par Jésus au dernier soir de sa vie terrestre, quand il « se lève de table, dépose son vêtement, et prend un linge qu’il se noue à la ceinture ; puis il verse de l’eau dans un bassin. Alors il se met à laver les pieds des disciples et à les essuyer avec le linge qu’il a à la ceinture » (Jn 13, 4-5). L’effarement causé par ce geste provoque la réaction de Pierre, mais à la fin Jésus lui-même donne à ses disciples la juste clé de lecture : « Vous m’appelez "Maître" et "Seigneur", et vous avez raison, car vraiment je le suis. Si donc moi, le Seigneur et le Maître, je vous ai lavé les pieds, vous aussi, vous devez vous laver les pieds les uns aux autres. C’est un exemple que je vous ai donné afin que vous fassiez, vous aussi, comme j’ai fait pour vous" (Jn 13, 13-15).

Chers frères et sœurs, en nous souvenant de notre lèpre, en fuyant les logiques de la mondanité qui nous prive de racines et de bourgeons, laissons-nous évangéliser par l'humilité de l'Enfant Jésus. Ce n'est qu'en servant et en considérant notre travail comme un service que nous pouvons vraiment être utiles à tous. Nous sommes ici - moi le premier - pour apprendre à nous agenouiller et à adorer le Seigneur dans son humilité, et non d'autres seigneurs dans leur opulence vide. Nous sommes comme les bergers, nous sommes comme les Mages, nous sommes comme Jésus. Voilà la leçon de Noël : l'humilité est la grande condition de la foi, de la vie spirituelle, de la sainteté. Puisse le Seigneur nous en faire le don, à partir de la manifestation première de l'Esprit en nous : le désir. Ce que nous n'avons pas, nous pouvons au moins commencer à le désirer. Et demander au Seigneur la grâce de pouvoir désirer, de devenir des hommes et des femmes de grands désirs. Et le désir c’est déjà l'Esprit à l'œuvre en chacun de nous.

Joyeux Noël à tous ! Et je vous demande de prier pour moi. Merci !

En souvenir de ce Noël, j'aimerais laisser quelques livres... Mais pour les lire, pas pour les laisser dans la bibliothèque, pour nos proches qui recevront l'héritage ! Tout d'abord, celui d'un grand théologien, inconnu car trop humble, sous-secrétaire de la Doctrine de la Foi, Mgr. Armando Matteo, qui réfléchit un peu sur un phénomène social et à la manière dont il implique à la pastorale. Il s'appelle Convertir Peter Pan. Sur le sort de la foi dans cette société de l'éternelle jeunesse. C'est provocateur, cela fait du bien. Le second est un livre sur les personnages secondaires ou oubliés de la Bible, du Père Luigi Maria Epicoco : La pierre rejetée, et en sous-titre Quand les oubliés se sauvent. C'est beau. C'est pour la méditation, pour la prière. En le lisant, cela m’a rappelé l'histoire de Naaman le Syrien dont j'ai parlé. Et le troisième est d'un Nonce Apostolique, Mgr. Fortunatus Nwachukwu, que vous connaissez bien. Il a réfléchi aux ragots, et j'aime ce qu'il a présenté : que les ragots font « fondre » l'identité. Je vous laisse ces trois livres, et j'espère qu'ils nous aideront tous à avancer. Merci ! Merci pour votre travail et votre collaboration. Merci.

Et nous demandons à la Mère de l'humilité de nous apprendre à être humbles : « Je vous salue Marie... »

[Bénédiction]

[1] G. Bernanos, Journal d’un curé de campagne, Paris 1974, p. 135.

[01848-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

Dear brothers and sisters, good day!

As is the case every year, we have the chance to meet a few days before the feast of Christmas. It is a way to express our fraternity “out loud” through the exchange of Christmas greetings. Yet it is also a moment of reflection and assessment for each of us, so that the light of the Word made flesh can show us even better who we are and what our mission is.

We all know that the mystery of Christmas is the mystery of God who enters the world by the path of humility. He became flesh, that great synkatábasis. Our times seem either to have forgotten humility or to have relegated it to a form of moralism, emptying it of its explosive power.

Yet if we had to express the entire mystery of Christmas in a word, I believe that humility is the one most helpful. The Gospels portray a scene of poverty and austerity, unsuited to sheltering a woman about to give birth. Yet the King of kings enters the world not by attracting attention, but by causing a mysterious pull in the hearts of those who feel the thrilling presence of something completely new, something on the verge of changing history. That is why I like to think and also say that humility was its doorway, and invites us to enter through it. I think of that passage of the Exercises [that says that] one cannot advance without humility, and one cannot advance in humility without humiliations. Saint Ignatius tells us to ask for humiliations.

It is not easy to understand what humility is. It is the effect of a change that the Spirit himself brings about in us in our daily lives. Such was the case, for example, of Naaman the Syrian (cf. 2 Kings 5). In the days of the prophet Elisha, this man enjoyed great renown. He was a valiant general of the Syrian army who had on many occasions demonstrated his bravery and courage. Yet together with fame, power, esteem, honours and glory, Naaman was forced to live with a tragic situation: he had leprosy. His armour, that had won him renown, in reality covered a frail, wounded and diseased humanity. We often find this contradiction in our lives: sometimes great gifts are the armour that covers great frailties.

Naaman came to understand a fundamental truth: we cannot spend our lives hiding behind armour, a role we play, or social recognition; in the end, it hurts us. The moment comes in each individual’s life when he or she desires to set aside the glitter of this world’s glory for the fullness of an authentic life, with no further need for armour or masks. This desire impelled the valiant general Naaman to set out on a journey in search of someone who could help him, and he did this at the suggestion of a slave girl, a Jewish prisoner of war, who told him of a God able to bring healing to hopeless situations like his own.

Laden with silver and gold, Naaman set out on his journey and thus came to the prophet Elisha, who laid down for him, as the only condition for his healing, the simple gesture of disrobing and washing seven times in the Jordan River. Nothing to do with celebrity, honours, gold or silver! The grace that saves is free; it is not reducible to the price of this world’s goods.

Naaman resisted; the prophet’s demand seemed to him too ordinary, too simple, too easily attainable. It seems that the power of simplicity found no room in his imagination. Yet the words of his servants made him change his mind: “If the prophet had commanded you to do some great thing, would you not have done it? How much rather, then, when he says to you, ‘Wash and be clean?’” (2 Kings 5:13). Naaman gave in, and with a gesture of humility “descended”, took off his armour, went down into the waters of the Jordan “and his flesh was restored like the flesh of a little child, and he was clean” (2 Kings 5:14). A great lesson, this! The humility of exposing his own humanity, in accordance with the word of the Lord, gained healing for Naaman.

The story of Naaman reminds us that Christmas is a time when each of us needs to find the courage to take off our armour, discard the trappings of our roles, our social recognition and the glitter of this world and adopt the humility of Naaman. We can do this by starting from a more powerful, more convincing and more authoritative example: that of the Son of God who did not shrink from the humility of “descending” into history, becoming man, becoming a child, frail, wrapped in swaddling clothes and laid in a manger (cf. Lk 2:16). Once we strip ourselves of our robes, our prerogatives, positions and titles, all of us are lepers, all of us are in need of healing. Christmas is the living reminder of this realization and it helps us to understand it more deeply.

Dear brothers and sisters, if we forget our humanity, we live off the glitter of our armour. Jesus, however, reminds us of the uncomfortable and unsettling truth: “What will it profit you to gain the whole world and forfeit your life?” (cf. Mk 8:36).

This is the dangerous temptation – as I have said on other occasions – of a spiritual worldliness that, unlike all other temptations, is hard to unmask, for it is concealed by everything that usually reassures us: our role, the liturgy, doctrine, religious devotion. As I wrote in Evangelii Gaudium, such spiritual worldliness “also feeds the vainglory of those who are content to have a modicum of power and would rather be the general of a defeated army than a mere private in a unit which continues to fight. How often we dream up vast apostolic projects, meticulously planned, just like defeated generals! But this is to deny our history as a Church, which is glorious precisely because it is a history of sacrifice, of hopes and daily struggles, of lives spent in service and fidelity to work, tiring as it may be, for all work is the ‘sweat of our brow’. Instead, we waste time talking about ‘what needs to be done’ – in Spanish, we call this the sin of habriaqueísmo – like spiritual masters and pastoral experts who give instructions from on high. We indulge in endless fantasies and we lose contact with the real lives and difficulties of our people” (No. 96).

Humility is the ability to know how to “inhabit” our humanity, this humanity beloved and blessed by the Lord, and to do so without despair but with realism, joy and hope. Humility means recognizing that we should not be ashamed of our frailty. Jesus teaches us to look upon our poverty with the same love and tenderness with which we look upon a little child, vulnerable and in need of everything. Lacking humility, we will look for things that can reassure us, and perhaps find them, but we will surely not find what saves us, what can heal us. Seeking those kinds of reassurance is the most perverse fruit of spiritual worldliness, for it reveals a lack of faith, hope and love; it leads to an inability to discern the truth of things. If Naaman had continued only to accumulate medals to decorate his armour, in the end he would have been devoured by his leprosy: appearing to be alive, yet enclosed and isolated in his disease. Instead, Namaan had the courage to seek the thing that could save him, not what would bring him gratification in the short term.

We all know that the opposite of humility is pride. A verse from the prophet Malachi, which has struck me, can help us to understand the difference between the path of humility and the path of pride: “All the arrogant and all evildoers will be stubble; the day that comes shall burn them up, says the Lord of hosts, so that it will leave them neither root nor branch” (4:1).

The Prophet uses the evocative image of “stubble”, which describes pride in vivid terms, for once the fire starts, stubble immediately becomes ash; it burns up and disappears. Malachi also tells us that those who live by pride will find themselves deprived of the most important things in life: roots and branches. Roots represent our vital link to the past, from which we draw the sap that enables us to live in the present. Branches represent our present, which, far from dying, grows into tomorrow and becomes the future. To remain in a present that no longer has roots or branches means living our last hour. That is the way of the proud who, enclosed in their little world, have neither past nor future, roots or branches, and live with the bitter taste of a melancholy that weighs on their hearts as “the most precious of the devil’s potions”.[1] The humble, on the other hand, live their lives constantly guided by two verbs: to remember their roots and to give life. In this way, their roots and branches bear fruit, enabling them to live joyful and fruitful lives.

In Italian, the etymology of the verb remember [ricordare] is “to bring to heart”. Our living memory of Tradition, of our roots, is not worship of the past but an interior movement whereby we constantly bring to our hearts everything that preceded us, marked our history and brought us to where we are today. Remembering does not mean repeating, but treasuring, reviving and, with gratitude, allowing the power of the Holy Spirit to set our hearts on fire, like those of the first disciples (cf. Lk 24:32).

Yet, if our remembering is not to make us prisoners of the past, we need another verb: to give life, to “generate”. The humble – humble men or women – are those who are concerned not simply with the past, but also with the future, since they know how to look ahead, to spread their branches, remembering the past with gratitude. The humble give life, attract others and push onwards towards the unknown that lies ahead. The proud, on the other hand, simply repeat, grow rigid – rigidity is a perversion, a present-day perversion – and enclose themselves in that repetition, feeling certain about what they know and fearful of anything new because they cannot control it; they feel destabilized... because they have lost their memory.

The humble allow themselves to be challenged. They are open to what is new, since they feel secure in what has gone before them, firm in their roots and their sense of belonging. Their present is grounded in a past that opens them up to a hope-filled future. Unlike the proud, they know that their existence is not based on their merits or their “good habits”. As such, they are able to trust, unlike the proud.

All of us are called to humility, because all of us are called to remember and to give life. We are called to find a right relationship with our roots and our branches. Without those two things, we become sick, destined to disappear.

Jesus, who came into the world by the path of humility, has opened a way for us; he indicates a way and shows us a goal.

Dear brothers and sisters, without humility we cannot encounter God and experience salvation, yet it is equally true that without humility we cannot even encounter our neighbours, our brothers and sisters next door.

Last 17 October, we set out on the synodal journey that will occupy us for the next two years. In this too, humility alone can enable us to encounter and listen, to dialogue and discern, to pray together, as the Cardinal Dean said. If we remain enclosed in our convictions and experiences, the hard shell of our own thoughts and feelings, it will be difficult to be open to that experience of the Spirit, which, as the Apostle says, is born of the conviction that we are all children of “one God and Father of all, who is above all and through all and in all” (Eph 4:6).

That word – “all” – leaves no room for misunderstanding! The clericalism that, as a temptation, a perverse temptation, daily spreads in our midst, makes us keep thinking of a God who speaks only to some, while the others must only listen and obey. The Synod wants to be an experience of feeling ourselves all members of a larger people, the holy and faithful People of God, and thus disciples who listen and, precisely by virtue of this listening, can also understand God’s will, which is always revealed in unpredictable ways. Yet it would be wrong to think that the Synod is an event meant for the Church, as something abstract and distant from us. Synodality is a “style” to which we must be converted, especially those of us here present and all those who serve the universal Church by their work for the Roman Curia.

The Curia – let us not forget – is not merely a logistical and bureaucratic instrument for meeting the needs of the universal Church, but the first body called to bear witness. Precisely for this reason, it grows in prestige and effectiveness when it embraces in first person the challenges of that synodal conversion to which it too is called. The organization that we must adopt is not that of a business, but evangelical in nature.

For this reason, if the word of God reminds the whole world of the value of poverty, we, the members of the Curia, must be the first to commit ourselves to being converted to a style of sobriety. If the Gospel proclaims justice, we must be the first to try to live transparently, without favouritism or cliques. If the Church follows the path of synodality, we must be the first to be converted to a different style of work, of cooperation and communion. All this is possible only by following the path of humility. Without humility, we cannot do this.

During the opening of the synodal assembly, I used three key words: participation, communion and mission. These arise from a humble heart: without humility there can be neither participation, nor communion, nor mission. Those words are the three requirements that I would like to indicate as a style of humility at which we here in the Curia should aim. Three ways to make the path of humility a concrete path to follow in practice.

First, participation. This ought to be expressed through a style of co-responsibility. Certainly, in the diversity of our roles and ministries, responsibilities will differ, yet it is important that everyone feel involved, co-responsible for the work, without having the depersonalizing experience of implementing a programme devised by someone else. I am always impressed, and I like it, whenever I encounter creativity in the Curia. Not infrequently, this occurs especially where room is made and space found for everyone, even those who appear, hierarchically, to occupy a marginal place. I thank you for these examples – which I find and I like – and I encourage you to work so that we are capable of generating concrete dynamics in which all can sense that they have an active role to play in the mission they have to carry out. Authority becomes service when it shares, involves and helps people to grow.

The second word is communion. This does not have to do with majorities or minorities; essentially, it is based on our relationship with Christ. We will never have an evangelical style in our respective settings unless we put Christ back in the centre, not this or that party opinion: Christ at the centre. Many of us work together, but what builds communion is also the ability to pray together, to listen together to God’s word and to construct relationships that go beyond work and strengthen beneficial relations between us by helping one another. Otherwise, we risk being nothing more than strangers working in the same place, competitors looking to advance or, worse yet, forging relationships based on personal interests, forgetting the common cause that holds us together. This creates divisions, factions and enemies, whereas cooperation demands the magnanimity to accept our own partiality and to be open to working in a group, even with those who do not think as we do. In cooperation, people work together, not for some extraneous purpose, but because they have at heart the good of others and, consequently, of the entire People of God whom we are called to serve. Let us not forget the real faces of people. Let us not forget our roots and the concrete faces of those who were our first teachers in the faith. As Paul said to Timothy: “Remember your mother, remember your grandmother”.

Seeing things from the standpoint of communion also entails acknowledging our diversity as a gift of the Holy Spirit. Whenever we step back from this, and regard communion as a synonym of uniformity, we weaken and stifle the life-giving power of the Holy Spirit in our midst. An attitude of service requires, and indeed demands, a good and generous heart, in order to recognize and experience with joy the manifold richness present in the People of God. Without humility, this will not happen. I find it helpful to reread the beginning of Lumen Gentium, numbers 8 and 12, about the holy faithful people of God. Reflecting on these truths is oxygen for the soul.

The third word is mission. This is what saves us from falling back on ourselves. Those who are turned in on themselves “look from above and from afar, they reject the prophecy of their brothers and sisters, they discredit those who raise questions, they constantly point out the mistakes of others and they are obsessed by appearances. Their hearts are open only to the limited horizon of their own immanence and interests, and as a consequence they neither learn from their sins nor are they genuinely open to forgiveness. These are the two signs of “closed” persons: they do not learn from their sins and they are not open to forgiveness. This is a tremendous corruption disguised as a good. We need to avoid it by making the Church constantly go out from herself, keeping her mission focused on Jesus Christ, and her commitment to the poor” (Evangelii Gaudium, 97). Only a heart open to mission can ensure that everything we do, ad intra and ad extra, is marked by the regenerating power of the Lord’s call. Mission always involves passion for the poor, for those who are “in need”, not only of things material, but also spiritual, emotional and moral. Those who hunger for bread and those who hunger for meaning are equally poor. The Church is summoned to reach out to every form of poverty. The Church is called to preach the Gospel to everyone, since all of us are poor; all of us are, in one way or another, needy. But the Church also reaches out to the poor because we need them: we need their voice, their presence, their questions and criticisms. A person with a missionary heart feels the absence of his brother or sister, and, like a beggar, accosts him or her. Mission makes us vulnerable. This is beautiful, that mission makes us vulnerable. It helps remind us that we are disciples and it makes us rediscover ever anew the joy of the Gospel.

Participation, mission and communion are the characteristics of a humble Church, one attentive to voice of the Spirit and not self-centred. As Henri de Lubac wrote: “Like her master, the Church cuts in the eyes of the world the figure of a slave; on this earth she exists ‘in the form of a slave’… She is no cenacle of sublime spiritual geniuses or gathering of supermen, any more than she is an academy of the learned; in fact, she is the very opposite. The warped, the sham, and the wretched of very kind crowd into her, together with the whole host of the mediocre… It is hard, not to say entirely impossible, for the ‘natural man’ to find in such a phenomenon the consummation of the saving kenosis and the awe-inspiring traces of the ‘humility of God’ – that is, until his innermost thoughts have been radically changed” (The Splendour of the Church, 301).

In conclusion, my desire for you, and for myself, is that we may allow ourselves to be evangelized by the humility of Christmas and the humility of the manger, by the poverty and simplicity with which the Son of God entered into the world. Even the Magi, who were certainly of a higher social position than Mary and Joseph or the shepherds of Bethlehem, fell to their knees in the presence of the Child (cf. Mt 2:11). They fell to their knees. To do so is not only a gesture of adoration but also a gesture of humility. When they fell to the bare earth, the Magi put themselves at the same level as God. This kenosis, this descent, this synkatábasis, is the same that Jesus would make on the last evening of his earthly life, when he “rose from supper, laid aside his garments, and girded himself with a towel. Then he poured water into a basin, and began to wash the disciples’ feet, and to wipe them with the towel with which he was girded” (Jn 13:4-5). Peter’s response to that gesture was one of dismay, but Jesus himself showed his disciples the right way to interpret it: “You call me Teacher and Lord; and you are right, for so I am. If I then, your Lord and Teacher, have washed your feet, you also ought to wash one another’s feet. For I have given you an example, that you also should do as I have done to you” (Jn 13:13-15).

Dear brothers and sisters, mindful of our own leprosy, and shunning the worldly thinking that deprives us of our roots and branches, let us allow ourselves to be evangelized by the humility of the Child Jesus. Only by serving, and by seeing our work as service, can we be truly helpful to everyone. We are here – I myself before anyone else – to learn how to kneel and adore the Lord in his humility, not other lords in their empty trappings. We are like the shepherds, we are like the Magi; we are like Jesus. This is the lesson of Christmas: humility is the great condition for faith, for the spiritual life and for holiness. May the Lord grant it to us as a gift, starting with the primordial sign of the Spirit’s presence within us: desire. And to ask the Lord for the grace to wish to desire it, to become men and women of great desires. What we lack, we can at least begin to desire. And that desire is already the Spirit at work within each of us.

A happy Christmas to all! And I ask you to pray for me. Thank you!

As a Christmas gift this year, I would like to leave you a few books… Books to read, not to put on a bookshelf, for whoever will inherit our estate! First of all, a book by a great theologian, little known because he was too humble, an Undersecretary of the Doctrine of the Father, Monsignor Armando Matteo, who takes a look at one social phenomenon and how it calls for a pastoral response. It is called Converting Peter Pan. On the fate of faith in this society of eternal youth. It is provocative, and helpful. The second is a book on minor or forgotten characters of the Bible, by Father Luigi Maria Epicoco: The Rejected Cornerstone, with the subtitle When the Forgotten are Saved. It is beautiful. It is for meditation, for prayer. Reading it, I thought of the story of Naaman the Syrian whom I mentioned. The third is by an Apostolic Nuncio, Archbishop Fortunatus Nwachukwu, whom you know well. He wrote a reflection on gossip, and I like the picture he painted: that gossip leads to a “dissolution” of identity. I am leaving these three books for you, and I hope that they will help everyone to keep moving forward. Thank you for your work and your cooperation. Thank you.

Let us now ask the Mother of Humility to teach us how to be humble: “Hail Mary…” [Blessing]

________________

[1] G. Bernanos, Journal d’un curé de campagne, Paris, 1974, 135.

[01848-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Liebe Brüder und Schwestern, guten Morgen!

Wie jedes Jahr haben wir die Gelegenheit, einige Tage vor dem Weihnachtsfest zusammenzukommen. Auf diese Weise können wir durch den Austausch von guten Wünschen unsere Geschwisterlichkeit sichtbar zum Ausdruck zu bringen; aber es ist auch eine Zeit des Nachdenkens und der Gewissenserforschung für jeden von uns, damit das Licht des fleischgewordenen Wortes uns immer besser zeigen kann, wer wir sind und was unsere Sendung ist.

Wir alle wissen es: das Weihnachtsgeheimnis ist das Geheimnis Gottes, der auf dem Weg der Demut in die Welt kommt. Es ist Fleisch geworden: jene große synkatabasis. Diese unsere Zeit scheint die Demut vergessen zu haben oder sie einfach zu einer Form von Moralismus degradiert zu haben, und hat ihr damit ihre eigentliche Sprengkraft genommen.

Aber wenn wir das ganze Geheimnis von Weihnachten in einem Wort ausdrücken müssten, dann glaube ich, dass das Wort Demut uns am meisten helfen kann. In den Evangelien wird von einer ärmlichen, einfachen Umgebung berichtet, die für eine Frau, die gebären soll, nicht geeignet ist. Doch der König der Könige kommt nicht in die Welt, indem er Aufmerksamkeit erregt, sondern indem er eine geheimnisvolle Anziehungskraft auf die Herzen derer ausübt, die die überwältigende Gegenwart einer Neuheit spüren, die im Begriff ist, die Geschichte zu verändern. Daher gefällt es mir, mir vorzustellen und auch zu sagen, dass die Demut sein Eingangstor war, und er uns einlädt, uns alle, es zu durchschreiten. Mir kommt dabei jener Abschnitt der Exerzitien in den Sinn: man kommt nicht vorwärts ohne Demut, und man kann in der Demut nicht vorankommen ohne Demütigungen. Und der heilige Ignatius rät uns, um Demütigungen zu bitten.

Es ist nicht leicht zu verstehen, was Demut ist. Sie ist das Ergebnis einer Veränderung, die der Geist selbst in uns durch die Geschichte, die wir leben, bewirkt, wie es zum Beispiel bei Naaman, dem Syrer, der Fall war (vgl. 2 Kön 5). Zur Zeit des Propheten Elischa genoss diese Persönlichkeit ein hohes Ansehen. Er war ein tapferer General des aramäischen Heeres, der bei mehreren Gelegenheiten seine Tapferkeit und seinen Mut bewiesen hatte. Doch neben Ansehen, Stärke, Wertschätzung, Ehren und Ruhm muss dieser Mann auch mit einem schrecklichen Drama leben: Er ist aussätzig. Seine Rüstung, dieselbe Rüstung, die ihn berühmt macht, bedeckt in Wirklichkeit eine zerbrechliche, verwundete, kranke Menschennatur. Diesen Widerspruch finden wir oft in unserem eigenen Leben: Manchmal sind große Gaben der Panzer, der große Schwächen verdeckt.

Naaman begreift eine grundlegende Wahrheit: Man kann sich nicht sein Leben lang hinter einer Rüstung, einer Rolle, einer gesellschaftlichen Anerkennung verstecken: das schadet am Ende. Es kommt eine Zeit im Leben eines jeden Menschen, in der er den Wunsch verspürt, nicht mehr hinter dem Deckmantel des Ruhmes dieser Welt zu leben, sondern in der Fülle eines ehrlichen Lebens, das keine Rüstungen und Masken mehr benötigt. Dieser Wunsch treibt den tapferen Heerführer Naaman dazu an, sich auf die Suche nach jemandem zu machen, der ihm helfen kann, und er tut dies auf Anraten einer Sklavin, einer jüdischen Kriegsgefangenen, die von einem Gott erzählt, der in der Lage ist, solche Widersprüche zu heilen.

Nachdem er sich mit Silber und Gold eingedeckt hat, macht sich Naaman auf die Reise und kommt zu dem Propheten Elischa. Der Prophet verlangt von Naaman als einzige Bedingung für seine Genesung, dass er sich entkleidet und sieben Mal im Jordan wäscht. Kein Ansehen, keine Ehre, kein Gold und kein Silber! Die Gnade, die rettet, ist umsonst und kann nicht auf den Preis der Dinge dieser Welt reduziert werden.

Naaman wehrt sich gegen diese Bitte, sie erscheint ihm zu banal, zu einfach, zu leicht erfüllbar. Es scheint, dass die Kraft der Einfachheit keinen Platz in seiner Vorstellungswelt hatte. Aber die Worte seiner Diener bringen ihn dazu, seine Meinung zu ändern: »Wenn der Prophet etwas Schweres von dir verlangt hätte, würdest du es tun; wie viel mehr jetzt, da er zu dir nur gesagt hat: Wasch dich und du wirst rein« (2 Kön 5,13). Naaman ergibt sich, und mit einer Geste der Demut „steigt er herab“, legt seine Rüstung ab und steigt in das Wasser des Jordans, und »da wurde sein Leib gesund wie der Leib eines Kindes und er war rein« (2 Kön 5,14). Die Lehre daraus ist großartig! Die Demut, das eigene Menschsein zu entblößen, bringt Naaman nach dem Wort des Herrn Heilung.

Die Geschichte von Naaman erinnert uns daran, dass Weihnachten eine Zeit ist, in der jeder von uns den Mut haben muss, seine Rüstung abzulegen, die Kleider seiner Rolle, seiner gesellschaftlichen Anerkennung, des Glanzes dieser Welt abzulegen und die Haltung der Demut und Bescheidenheit einzunehmen. Wir können dabei von einem stärkeren, überzeugenderen und verbindlicheren Beispiel ausgehen: dem des Gottessohnes, der sich nicht der Demut entzieht, in die Geschichte „hinabzusteigen“, indem er Mensch wird, indem er ein Kind wird, zerbrechlich, in Windeln gewickelt und in eine Krippe gelegt (vgl. Lk 2,16). Ohne unsere Kleider, unsere Vorrechte, ohne die Rollen und Titel sind wir alle Aussätzige, wir alle, die der Heilung bedürfen. Weihnachten ist die lebendige Erinnerung an dieses Bewusstsein. Es hilft uns, das tiefer zu verstehen.

Liebe Brüder und Schwestern, wenn wir unsere Menschlichkeit vergessen, leben wir nur von den Ehren unserer Rüstung, aber Jesus erinnert uns an eine unbequeme und verstörende Wahrheit: „Was nützt es, die ganze Welt zu gewinnen, wenn du dich dabei selber verlierst?“ (vgl. Mk 8,36).

Das ist die gefährliche Versuchung - ich habe sie bei anderen Gelegenheiten in Erinnerung gerufen - der spirituellen Weltlichkeit, die im Gegensatz zu allen anderen Versuchungen schwer zu entlarven ist, weil sie von allem verdeckt wird, was uns normalerweise beruhigt: unsere Rolle, die Liturgie, die Lehre, die Religiosität. In Evangelii gaudium habe ich geschrieben: »In diesem Kontext wird die Ruhmsucht derer gefördert, die sich damit zufrieden geben, eine gewisse Macht zu besitzen, und lieber Generäle von geschlagenen Heeren sein wollen, als einfache Soldaten einer Schwadron, die weiterkämpft. Wie oft erträumen wir peinlich genaue und gut entworfene apostolische Expansionsprojekte, typisch für besiegte Generäle! So verleugnen wir unsere Kirchengeschichte, die ruhmreich ist, insofern sie eine Geschichte der Opfer, der Hoffnung, des täglichen Ringens, des im Dienst aufgeriebenen Lebens, der Beständigkeit in mühevoller Arbeit ist, denn jede Arbeit geschieht „im Schweiß unseres Angesichts“. Stattdessen unterhalten wir uns eitel und sprechen über „das, was man tun müsste“ – die Sünde des „man müsste tun“ – wie spirituelle Lehrer und Experten der Seelsorge, die einen Weg weisen, ihn selber aber nicht gehen. Wir pflegen unsere grenzenlose Fantasie und verlieren den Kontakt zu der durchlittenen Wirklichkeit unseres gläubigen Volkes« (Nr. 96).

Demut ist die Fähigkeit, unser Menschsein ohne Verzweiflung, mit Realismus, Freude und Hoffnung auszufüllen; dieses Menschsein, das vom Herrn geliebt und gesegnet wird. Demut bedeutet zu verstehen, dass wir uns unserer Schwäche nicht schämen müssen. Jesus lehrt uns, unser Elend mit der gleichen Liebe und Zärtlichkeit zu betrachten, mit der man ein kleines, zerbrechliches Kind ansieht, das alles braucht. Ohne Demut werden wir nach Bestätigungen suchen und sie vielleicht auch finden, aber wir werden gewiss nicht das finden, was uns rettet, was uns heilen kann. Die Bestätigungen sind die verdorbenste Frucht der spirituellen Weltlichkeit, die einen Mangel an Glauben, Hoffnung und Liebe offenbaren und zu einer Unfähigkeit werden, die Wahrheit der Dinge richtig zu erkennen und einzuordnen. Hätte Naaman nur weiter Medaillen für seine Rüstung gesammelt, wäre er schließlich von der Lepra verzehrt worden: scheinbar lebendig, ja, aber verschlossen und isoliert in seiner Krankheit. Er sucht mutig nach dem, was ihn retten kann, und nicht nach dem, was ihn unmittelbar zufriedenstellt.

Wir alle wissen, dass das Gegenteil der Demut der Stolz ist. Ein Vers des Propheten Maleachi, der mich sehr berührt; dieser Vers hilft uns, den Unterschied zwischen dem Weg der Demut und dem Weg des Stolzes zu verstehen: »Da werden alle Überheblichen und alle Frevler zu Spreu und der Tag, der kommt, wird sie verbrennen, spricht der Herr der Heerscharen. Weder Wurzel noch Zweig wird ihnen dann bleiben« (3,19).

Der Prophet verwendet ein anschauliches Bild, das den Stolz gut beschreibt: Stolz, sagt er, ist wie Stroh. Wenn dann das Feuer kommt, wird das Stroh zu Asche, es verbrennt, es verschwindet. Und er sagt uns auch, dass diejenigen, die sich auf ihren Stolz verlassen, des Wichtigsten beraubt werden, was wir haben: die Wurzeln und die Sprosse. Die Wurzeln erzählen von unserer lebendigen Verbindung mit der Vergangenheit, aus der wir schöpfen, um in der Gegenwart zu leben. Die Sprosse sind die Gegenwart, die nicht stirbt, sondern zum Morgen, zur Zukunft wird. In einer Gegenwart zu sein, die keine Wurzeln und keine Sprosse mehr hat, bedeutet, das Ende zu erleben. So hat der Stolze, eingeschlossen in seiner eigenen kleinen Welt, keine Vergangenheit und keine Zukunft, keine Wurzeln und keine Sprosse mehr und lebt mit dem bitteren Geschmack der unfruchtbaren Traurigkeit, die sich des Herzens bemächtigt als »der köstlichste von des Teufels Tränken«.[1] Im Gegenteil dazu lässt sich der demütige Mensch in seinem Leben beständig von zwei Worten leiten: sich erinnern – die Wurzeln – und Neues hervorbringen, Frucht aus den Wurzeln und aus den Sprossen, und so erlebt er die freudige Öffnung für die Fruchtbarkeit.

Erinnern bedeutet etymologisch „ins Innere zurückholen“, „er – innern“. Die lebendige Erinnerung an die Tradition, an unsere Wurzeln, ist kein Kult der Vergangenheit, sondern eine innere Geste, durch die wir uns beständig das zu Herzen nehmen, was uns vorausgegangen ist, was unsere Geschichte durchschritten hat, was uns bis hierher gebracht hat. Erinnern heißt nicht wiederholen, sondern etwas beherzigen, aufleben lassen und in Dankbarkeit der Kraft des Heiligen Geistes erlauben, dass unsere Herzen entbrennen, wie bei den ersten Jüngern (vgl. Lk 24,32).

Damit das Erinnern aber nicht zu einem Gefängnis der Vergangenheit wird, brauchen wir ein weiteres Wort: Neues hervorbringen. Der demütige Mensch – der demütige Mann, die demütige Frau – sorgt sich auch um die Zukunft, nicht nur um die Vergangenheit, denn er weiß, wie man in die Zukunft blickt, wie man auf die Sprossen schaut, mit einem Gedächtnis voller Dankbarkeit. Der bescheidene Mensch bringt hervor, lädt ein und drängt auf das Unbekannte zu. Der Stolze hingegen wiederholt, verhärtet sich – die Verhärtung ist eine Perversion, eine Perversion dieser Zeit – und verschließt sich in seiner Wiederholung, er fühlt sich sicher in dem, was er kennt, und fürchtet das Neue, weil er es nicht kontrollieren kann, er fühlt sich dadurch aus dem Gleichgewicht gebracht ... denn er hat sein Gedächtnis verloren.

Der demütige Mensch lässt sich in Frage stellen, öffnet sich dem Neuen und tut dies, weil er sich stark fühlt durch das, was ihm vorausgeht, durch seine Wurzeln, durch seine Zugehörigkeit. Seine Gegenwart ist von einer Vergangenheit durchdrungen, die ihn hoffnungsvoll in die Zukunft blicken lässt. Im Gegensatz zu den Stolzen weiß er, dass weder seine Verdienste noch seine „guten Gewohnheiten“ der Anfang und die Grundlage seiner Existenz sind; deshalb ist er fähig zu vertrauen. Der Stolze kann das nicht.

Wir alle sind zur Demut aufgerufen, denn wir sind aufgerufen, uns zu erinnern und Neues hervorzubringen, wir sind aufgerufen, die richtige Beziehung zu den Wurzeln und den Sprossen wiederzuentdecken. Ohne sie sind wir krank und dem Untergang geweiht.

Jesus, der auf dem Weg der Demut in die Welt kommt, eröffnet uns eine Spur, zeigt uns einen Stil, zeigt uns ein Ziel.

Liebe Brüder und Schwestern, wenn es wahr ist, dass man ohne Demut Gott nicht begegnen und das Heil nicht erfahren kann, dann ist es ebenso wahr, dass man ohne Demut seinem Nächsten, dem Bruder und der Schwester, die an unserer Seite leben, nicht begegnen kann.

Am vergangenen 17. Oktober haben wir den synodalen Prozess eröffnet, der uns für die nächsten zwei Jahre beschäftigen wird. Auch hier kann uns nur die Demut in die Lage versetzen, uns zu begegnen und zuzuhören, Dialog zu führen und zu unterscheiden. Um gemeinsam zu beten, wie der Kardinaldekan aufgezeigt hat. Wenn jeder in seinen eigenen Überzeugungen, in seinen eigenen Erfahrungen, in der Schale seiner eigenen Gefühle und Gedanken verschlossen bleibt, ist es schwierig, jener Erfahrung des Geistes Raum zu geben, die, wie der Apostel sagt, mit der Überzeugung verbunden ist, dass wir alle Kinder sind von dem einen »Gott und Vater aller, der über allem und durch alles und in allem ist« (Eph 4,6).

„Alle“ ist kein missverständliches Wort! Der Klerikalismus, der sich als – perverse – Versuchung täglich unter uns schleicht, lässt uns immer an einen Gott denken, der nur zu einigen wenigen spricht, während die anderen nur zuhören und ausführen müssen. Die Synode sucht die Erfahrung zu machen, dass wir uns alle als Glieder eines größeren Volkes empfinden: das heilige, gläubige Volk Gottes und somit Jünger, die zuhören und gerade durch dieses Zuhören auch den Willen Gottes verstehen können, der sich immer auf unvorhersehbare Weise zeigt. Es wäre jedoch falsch zu denken, dass die Synode ein Ereignis ist, das der Kirche als abstrakter Größe vorbehalten ist, die weit von uns entfernt ist. Synodalität ist ein Stil, zu dem vor allem wir, die wir hier sind und durch unsere Arbeit in der Römischen Kurie einen Dienst an der Weltkirche leben, uns bekehren müssen.

Und die Kurie – vergessen wir es nicht – ist nicht nur ein logistisches und bürokratisches Werkzeug für die Bedürfnisse der Weltkirche, sondern sie ist der erste Organismus, der zum Zeugnis berufen ist, und gerade deshalb gewinnt sie immer mehr an Maßgeblichkeit und Wirksamkeit, wenn sie die Herausforderungen der synodalen Umkehr, zu der auch sie berufen ist, selbst annimmt. Die Organisation, die wir umsetzen müssen, ist nicht betrieblicher Art, sondern folgt einer dem Evangelium gemäßen Art. Wenn also das Wort Gottes die ganze Welt an den Wert der Armut erinnert, müssen wir, die Mitglieder der Kurie, die Ersten sein, die sich zu einer Umkehr zur Nüchternheit verpflichten. Wenn das Evangelium Gerechtigkeit verkündet, müssen wir als Erste versuchen, transparent zu leben, ohne Begünstigungen und Seilschaften. Wenn die Kirche den Weg der Synodalität einschlägt, müssen wir die Ersten sein, die sich auf einen anderen Arbeitsstil, auf Zusammenarbeit, auf Gemeinschaft umstellen. Und dies ist nur über den Weg der Demut möglich. Ohne Demut können wir das nicht tun.

Bei der Eröffnung der Synodenversammlung habe ich drei Schlüsselbegriffe verwendet: Teilhabe, Gemeinschaft und Sendung. Sie entspringen aus einem demütigen Herzen. Ohne Demut kann man weder Teilhabe, noch Gemeinschaft oder Sendung erreichen. Diese Begriffe geben die drei Anforderungen wieder, die ich als einen Stil der Demut bezeichnen möchte, den wir hier in der Kurie anstreben sollten. Drei Weisen, den Weg der Demut konkret in die Praxis umzusetzen.

Zunächst einmal die Teilhabe. Diese sollte durch einen Stil der Mitverantwortung zum Ausdruck gebracht werden. Natürlich sind die Zuständigkeiten bei der Vielfalt der Rollen und Ämter unterschiedlich, aber es wäre wichtig, dass jeder spüren kann, an der Arbeit teilzuhaben und dafür mitverantwortlich zu sein, und nicht nur die entpersönlichende Erfahrung zu machen, ein von jemand anderem aufgestelltes Programm auszuführen. Ich bin immer wieder erstaunt, wenn ich in der Kurie auf Kreativität stoße – ich finde sie, und das gefällt mir –, und nicht selten zeigt sie sich vor allem dort, wo Raum für alle gelassen und gefunden wird, auch für diejenigen, die hierarchisch einen Platz am Rand einzunehmen scheinen. Ich danke für diese Vorbilder und ermutige euch, daran zu arbeiten, dass wir eine konkrete Dynamik entwickeln können, bei der jeder wahrnimmt, dass er aktiv an der Sendung beteiligt ist, die er zu erfüllen hat. Die Autorität wird zum Dienst, wenn sie teilt, einbezieht und hilft zu wachsen.

Das zweite Wort ist Gemeinschaft. Sie drückt sich nicht durch Mehrheiten oder Minderheiten aus, sondern entsteht im Wesentlichen aus einer Beziehung zu Christus. Wir werden nie einen dem Evangelium gemäßen Stil in unserem Umfeld erreichen, wenn wir nicht Christus wieder in den Mittelpunkt stellen, und nicht diese Gruppierung oder jene andere, nicht diese Meinung und nicht jene andere: Christus im Mittelpunkt. Viele von uns arbeiten zusammen, aber was die Gemeinschaft stärkt, ist auch die Möglichkeit, gemeinsam zu beten, dem Wort Gottes zuzuhören, Beziehungen aufzubauen, die über die bloße Arbeit hinausgehen, und die Bande des Guten zu stärken – Bande des Guten unter uns –, indem man sich gegenseitig hilft. Andernfalls besteht die Gefahr, dass wir nur Fremde sind, die zusammenarbeiten, Konkurrenten, die versuchen, eine bessere Stellung für sich zu erlangen, oder, schlimmer noch, dass dort, wo Beziehungen entstehen, diese eher in Richtung Komplizenschaft zugunsten persönlicher Interessen gehen, wobei die gemeinsame Sache, die uns zusammenhält, in Vergessenheit gerät. Komplizenschaft schafft Spaltungen, schafft Parteiungen und schafft Feinde; Zusammenarbeit erfordert die Größe, die eigene Unvollständigkeit zu akzeptieren und offen zu sein für Teamarbeit, auch mit denen, die nicht so denken wie wir. In der Komplizenschaft steht man zusammen, um ein äußeres Ergebnis zu erzielen. In der Zusammenarbeit steht man zusammen, weil einem das Wohl des anderen am Herzen liegt und damit das Wohl des ganzen Volkes Gottes, dem zu dienen wir berufen sind: Vergessen wir nicht das konkrete Gesicht der Menschen, vergessen wir nicht unsere Wurzeln, das konkrete Gesicht derer, die unsere ersten Lehrer im Glauben waren. Paulus sagte zu Timotheus: „Erinnere dich an deine Mutter, erinnere dich an deine Großmutter“.

Die Perspektive der Gemeinschaft bringt gleichzeitig die Anerkennung der Vielfalt mit sich, die uns als Gabe des Heiligen Geistes innewohnt. Wann immer wir von diesem Weg abkommen und Gemeinschaft und Gleichförmigkeit als Synonyme leben, schwächen wir die lebensspendende Kraft des Heiligen Geistes unter uns und bringen sie zum Schweigen. Die Haltung des Dienens verlangt und, ich würde sagen, sie fordert von uns den Großmut und die Großzügigkeit, den vielgestaltigen Reichtum des Volkes Gottes anzuerkennen und freudig zu leben; und ohne Demut ist dies nicht möglich. Mir tut es gut, den Anfang von Lumen gentium zu lesen, jene Nummern 8, 12 …: das heilige Volk, das Gott treu ist. Diese Wahrheiten durchzulesen ist Sauerstoff für die Seele.

Das dritte Wort ist Sendung. Sie bewahrt uns davor, uns in uns selbst zurückzuziehen. Wer sich in sich selbst zurückzieht, »schaut von oben herab und aus der Ferne, weist die Prophetie der Brüder ab, bringt den, der ihn in Frage stellt, in Misskredit, hebt ständig die Fehler der anderen hervor und ist besessen vom Anschein. Er hat den Bezugspunkt des Herzens verkrümmt auf den geschlossenen Horizont seiner Immanenz und seiner Interessen, mit der Konsequenz, dass er nicht aus seinen Sünden lernt, noch wirklich offen ist für Vergebung. Das sind die Zeichen einer verschlossenen Persönlichkeit: sie lernt nichts aus ihren Sünden und ist nicht offen für die Vergebung. Es ist eine schreckliche Korruption mit dem Anschein des Guten. Man muss sie vermeiden, indem man die Kirche in Bewegung setzt, dass sie aus sich herausgeht, in eine auf Jesus Christus ausgerichtete Mission, in den Einsatz für die Armen» (Evangelii Gaudium, 97). Nur ein für die Mission offenes Herz gewährleistet, dass alles, was wir ad intra und ad extra tun, immer von der regenerierenden Kraft des Rufes des Herrn geprägt ist. Und die Mission bringt immer eine Leidenschaft für die Armen mit sich, d.h. für die, die bedürftig sind: diejenigen, die nicht nur in materieller Hinsicht bedürftig sind, sondern auch in geistlicher, emotionaler und moralischer Hinsicht. Diejenigen, die nach Brot hungern, und diejenigen, die nach Sinn hungern, sind gleichermaßen arm. Die Kirche ist aufgefordert, allen Armen entgegenzugehen und allen das Evangelium zu verkünden, weil wir alle auf die eine oder andere Weise arm sind, weil wir bedürftig sind. Aber auch die Kirche geht ihnen entgegen, weil wir ihrer bedürfen: Uns fehlt ihre Stimme, ihre Anwesenheit, ihre Fragen und Diskussionen. Derjenige, der ein missionarisches Herz hat, spürt, dass sein Bruder ihm fehlt, und macht sich in der Haltung eines Bettlers auf den Weg, um ihm zu begegnen. Die Sendung macht uns verwundbar – das ist schön, die Sendung macht uns verwundbar –, sie hilft uns, uns daran zu erinnern, dass wir Jünger sind und ermöglicht uns, die Freude des Evangeliums immer wieder neu zu entdecken.

Teilhabe, Mission und Gemeinschaft sind die Merkmale einer demütigen Kirche, die auf den Geist hört und ihren Mittelpunkt außerhalb ihrer selbst setzt. Henri de Lubac sagte: »Wie ihr Herr erscheint die Kirche der Welt als Sklavin. Hienieden lebt sie „in Sklavengestalt“. […] So wenig wie eine Gelehrtenakademie ist sie ein Kreis von durchaus Vergeistigten oder eine Versammlung von Übermenschen. Sie ist sogar ganz das Gegenteil. Hinkende, Krüppel und allerlei Armselige wimmeln da umher, dazu die Menge der Mittelmäßigen […] Dagegen ist es schwierig – für den naturgemäßen Menschen vor der Umkehr seines innersten Denkens sogar unmöglich –, in einem solchen Umstand die Vollendung der Heilskenose und die anbetungswürdige Spur der „Demut Gottes“ zu entdecken«.[2]

Abschließend möchte ich euch und allen voran mir wünschen, dass wir uns von der Demut der Weihnacht, von der Demut der Krippe, der Armut und der Besinnung auf das Wesentliche, mit der der Sohn Gottes in die Welt gekommen ist, evangelisieren lassen. Selbst die Sterndeuter, von denen wir mit Gewissheit annehmen können, dass sie aus wohlhabenderen Verhältnissen stammten als Maria und Josef oder die Hirten von Betlehem, werfen sich angesichts des Kindes nieder (vgl. Mt 2,11). Sie werfen sich nieder. Es ist nicht nur eine Geste der Anbetung, es ist eine Geste der Demut. Die Sterndeuter stellen sich auf eine Stufe mit Gott, indem sie sich auf die bloße Erde niederwerfen. Und diese Kenosis, dieser Abstieg, diese synkatabasis ist dieselbe, die Jesus am letzten Abend seines irdischen Lebens vollziehen wird: »Er stand vom Mahl auf, legte sein Gewand ab und umgürtete sich mit einem Leinentuch. Dann goss er Wasser in eine Schüssel und begann, den Jüngern die Füße zu waschen und mit dem Leinentuch abzutrocknen, mit dem er umgürtet war« (vgl. Joh 13,4-5). Die Bestürzung, die diese Geste auslöst, ruft die Reaktion des Petrus hervor, aber schließlich gibt Jesus selbst seinen Jüngern den richtigen Verständnisschlüssel: »Ihr sagt zu mir Meister und Herr und ihr nennt mich mit Recht so; denn ich bin es. Wenn nun ich, der Herr und Meister, euch die Füße gewaschen habe, dann müsst auch ihr einander die Füße waschen. Ich habe euch ein Beispiel gegeben, damit auch ihr so handelt, wie ich an euch gehandelt habe« (Joh 13,13-15).

Liebe Brüder und Schwestern, erinnern wir uns an unseren Aussatz, meiden wir die Logik der Weltlichkeit, die uns die Wurzeln und Sprosse raubt, und lassen wir uns von der Demut des Jesuskindes evangelisieren. Nur wenn wir dienen und unsere Arbeit als Dienst verstehen, können wir wirklich für alle nützlich sein. Wir sind hier - ich als Erster - um zu lernen, niederzuknien und den Herrn in seiner Demut anzubeten und nicht andere Herren in ihrem leeren Prunk. Wir sind wie die Hirten, wir sind wie die Heiligen Drei Könige, wir sind wie Jesus. Das ist die Lehre von Weihnachten: Die Demut ist die große Voraussetzung für den Glauben, für das geistliche Leben, für die Heiligkeit. Möge der Herr uns diese Gabe geben, ausgehend vom anfänglichen Zeichen des Geistes in uns: dem Verlangen. Was wir nicht haben, können wir zumindest anfangen zu verlangen. Und den Herrn um die Gnade bitten, verlangen zu können, Männer und Frauen zu werden mit großem Verlangen. Und das Verlangen ist bereits der Geist, der in jedem von uns wirkt.

Frohe Weihnachten an alle! Und bitte, betet für mich. Danke!

Als Erinnerung an dieses Weihnachtsfest möchte ich euch ein paar Bücher zurücklassen … Um sie zu lesen, nicht um sie in die Bibliothek zu stellen für unsere Angehörigen, die einmal unser Erbe erhalten! Als Erstes ist da ein Buch eines großen Theologen, der unbekannt ist, weil er viel zu demütig ist, ein Untersekretär der Glaubenskongregation, Monsignore Armando Matteo, der ein wenig über ein soziales Phänomen nachdenkt und wie man die Seelsorgetätigkeit anstoßen kann. Das Buch heißt Convertire Peter Pan. Sul destino della fede in questa società dell’eterna giovinezza („Peter Pan bekehren. Über das Schicksal des Glaubens in dieser Gesellschaft der ewigen Jugend“). Es ist provokativ, aber das tut gut. Das zweite Buch handelt von biblischen Personen, die als zweitrangig oder vergessen gelten. Es ist von Pater Luigi Maria Epicoco geschrieben und trägt den Titel La pietra scartata („Der verworfene Stein“) mit dem Untertitel Quando i dimenticati si salvano („Wann die Vergessenen erlöst werden“). Ein schönes Buch. Es eignet sich zum Meditieren und zum Beten. Als ich es las, kam mir die Geschichte von Naaman, dem Syrer, in den Sinn, die ich vorhin erwähnt habe. Und das dritte Buch ist von einem Apostolischen Nuntius, Erzbischof Fortunatus Nwachukwu, den ihr gut kennt. Er hat eine Reflexion über den „Klatsch und Tratsch“ geschrieben. Es gefällt mir das Bild, das er dabei zeichnet: dass das Gerede dazu führt, dass sich die Identität der Person „auflöst“. Ich lasse euch diese drei Bücher und hoffe, dass sie allen hilfreich sind, den Horizont zu erweitern. Danke! Danke für euren Einsatz und eure Mitarbeit. Danke.

Und bitten wir die Mutter der Demut, uns zu lehren, wie man demütig ist: „Gegrüßet seist Du Maria …“

[Segen]

_____________

[1] G. Bernanos, Tagebuch eines Landpfarrers, Einsiedeln 2007, S. 131.

[2] Betrachtung über die Kirche, Graz 1954, 211.

[01848-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

Queridos hermanos y hermanas: ¡Buenos días!

Como cada año, tenemos oportunidad de encontrarnos a pocos días de la Navidad. Es un modo para manifestar nuestra fraternidad “en voz alta” por medio de las felicitaciones navideñas, pero es también para cada uno de nosotros un momento de reflexión y de revisión, para que la luz del Verbo, que se hace carne, nos haga ver cada vez mejor quiénes somos y cuál es nuestra misión.

Todos lo sabemos: el misterio de la Navidad es el misterio de Dios que viene al mundo por el camino de la humildad. Se hizo carne: esa gran synkatábasis. Este tiempo parece haber olvidado la humildad, o haberla relegado a una forma de moralismo, vaciándola de la fuerza desbordante que posee.

Pero si tuviéramos que expresar todo el misterio de la Navidad en una palabra, creo que la palabra humildad es la que más podría ayudarnos. Los Evangelios nos hablan de un entorno pobre, sobrio, inapropiado para acoger a una mujer que está por dar a luz. Sin embargo, el Rey de reyes no viene al mundo llamando la atención, sino suscitando una misteriosa atracción en los corazones de quienes sienten la presencia desbordante de una novedad que está por cambiar la historia. Por eso me gusta pensar y también decir que la humildad ha sido su puerta de entrada y nos invita, a todos nosotros, a atravesarla. Me viene a la mente aquel pasaje de los Ejercicios: no se puede avanzar sin humildad, y no se puede avanzar en la humildad sin humillaciones. Y san Ignacio nos dice que pidamos las humillaciones.

No es fácil entender qué es la humildad. Esta es el resultado de un cambio que el mismo Espíritu obra en nosotros por medio de la historia que vivimos, como le ocurre por ejemplo a Naamán el sirio (cf. 2 Re 5). En la época del profeta Eliseo, este personaje gozaba de gran fama. Era un valiente general del ejército arameo, que había demostrado en varias ocasiones su valor y su audacia. Pero junto con la fama, la fuerza, la estima, los honores, la gloria, este hombre estaba obligado a convivir con un drama terrible: era leproso. Su armadura, la misma que le proporcionaba prestigio, en realidad cubría una humanidad frágil, herida, enferma. Esta contradicción a menudo la encontramos en nuestras vidas: a veces los grandes dones son la armadura para cubrir grandes fragilidades.

Naamán comprende una verdad fundamental: uno no puede pasar la vida escondiéndose detrás de una armadura, de un rol, de un reconocimiento social; al final, hace mal. Llega un momento, en la existencia de cada uno, en el que se siente el deseo de no vivir más detrás del revestimiento de la gloria de este mundo, sino en la plenitud de una vida sincera, sin más necesidad de armaduras y de máscaras. Este deseo impulsa al valiente general Naamán a ponerse en camino para buscar a alguien que pueda ayudarlo, y lo hace a partir del consejo de una esclava, una muchacha hebrea, prisionera de guerra, que habla de un Dios capaz de curar semejantes contradicciones.

Tomando consigo plata y oro, Naamán se puso en camino y llegó ante el profeta Eliseo. Este le pidió a Naamán, como única condición para su curación, el sencillo gesto de desvestirse y bañarse siete veces en el río Jordán. Nada de fama, nada de honor, oro ni plata. La gracia que salva es gratuita, no se reduce al precio de las cosas de este mundo.

Naamán se resistió a ese pedido; le pareció demasiado banal, demasiado sencillo, demasiado accesible. Pareciera que la fuerza de la sencillez no tenía espacio en su mente. Pero las palabras de sus servidores lo hicieron recapacitar: «Si el profeta te hubiese mandado una cosa difícil, ¿no lo habrías hecho? Cuánto más si te ha dicho: “Báñate y sanarás”» (2 Re 5,13). Naamán se rindió y con un gesto de humildad “descendió”, se quitó su armadura, se sumergió en las aguas del Jordán, «enseguida la carne de su cuerpo se renovó y quedó limpia como la carne de un niño pequeño» (2 Re 5,14). Es una gran lección. La humildad de dejar al descubierto la propia humanidad, según la palabra del Señor, llevó a Naamán a obtener la curación.

La historia de Naamán nos recuerda que la Navidad es un tiempo en el que cada uno ha de tener la valentía de quitarse la propia armadura, de desprenderse de los ropajes del propio papel, del reconocimiento social, del brillo de la gloria de este mundo, y asumir su misma humildad. Podemos hacerlo a partir de un ejemplo más fuerte, más convincente, de autoridad: el del Hijo de Dios, que no se sustrajo a la humildad de “descender” en la historia haciéndose hombre, haciéndose niño, frágil, envuelto en pañales y acostado en un pesebre (cf. Lc 2,16). Todos, despojados de nuestros ropajes, de nuestras prerrogativas, cargos y títulos, somos leprosos, todos nosotros, necesitados de curación. La Navidad es la memoria viva de esta certeza y nos ayuda a comprenderla más profundamente.

Queridos hermanos y hermanas, si olvidamos nuestra humanidad vivimos sólo de los honores de nuestras armaduras, pero Jesús nos recuerda una verdad incómoda y desconcertante: “¿De qué le sirve a uno ganar el mundo entero si se pierde a sí mismo?” (cf. Mc 8,36).

Esta es la peligrosa tentación —lo he señalado otras veces— de la mundanidad espiritual, que a diferencia de todas las otras tentaciones es difícil de desenmascarar, porque está cubierta de todo lo que normalmente nos da seguridad: nuestro cargo, la liturgia, la doctrina, la religiosidad. Escribí en la Evangelii gaudium: «En este contexto, se alimenta la vanagloria de quienes se conforman con tener algún poder y prefieren ser generales de ejércitos derrotados antes que simples soldados de un escuadrón que sigue luchando. ¡Cuántas veces soñamos con planes apostólicos expansionistas, meticulosos y bien dibujados, propios de generales derrotados! Así negamos nuestra historia de Iglesia, que es gloriosa por ser historia de sacrificios, de esperanza, de lucha cotidiana, de vida desgastada en el servicio, de constancia en el trabajo que cansa, porque todo trabajo es “sudor de nuestra frente”. En cambio, nos entretenemos vanidosos hablando sobre “lo que habría que hacer” —el pecado del “habriaqueísmo”— como maestros espirituales y expertos pastorales que señalan desde afuera. Cultivamos nuestra imaginación sin límites y perdemos contacto con la realidad sufrida de nuestro pueblo fiel» (n. 96).

La humildad es la capacidad de saber habitar sin desesperación, con realismo, alegría y esperanza, nuestra humanidad; esta humanidad amada y bendecida por el Señor. La humildad es comprender que no tenemos que avergonzarnos de nuestra fragilidad. Jesús nos enseña a mirar nuestra miseria con el mismo amor y ternura con el que se mira a un niño pequeño, frágil, necesitado de todo. Sin humildad buscaremos seguridades, y quizás las encontraremos, pero ciertamente no encontraremos lo que nos salva, lo que puede curarnos. Las seguridades son el fruto más perverso de la mundanidad espiritual, que revelan la falta de fe, esperanza y caridad, y se convierten en incapacidad de saber discernir la verdad de las cosas. Si Naamán sólo hubiera seguido acumulando medallas para poner en su armadura, al final habría sido devorado por la lepra; aparentemente vivo, sí, pero cerrado y aislado en su enfermedad. Él buscó con valentía lo que podría salvarlo y no lo que lo gratificaría de forma inmediata.

Todos sabemos que lo contrario de la humildad es la soberbia. Un versículo del profeta Malaquías, que me ha impactado mucho, nos ayuda a comprender, por contraste, qué diferencia hay entre el camino de la humildad y el de la soberbia: «Todos los arrogantes y todos los malhechores serán como paja. El día que se acerca los quemará hasta no dejarles rama ni raíz —dice el Señor del universo—» (3,19).

El Profeta usa una imagen sugestiva que describe bien la soberbia: esta —dice— es como paja. Entonces, cuando llega el fuego, la paja se convierte en cenizas, se quema, desaparece. Y nos dice también que quien vive apoyándose en la soberbia se encuentra privado de las cosas más importantes que tenemos: las raíces y las ramas. Las raíces hablan de nuestra relación vital con el pasado del que tomamos la savia para poder vivir en el presente. Las ramas son el presente que no muere, sino que se convierte en el mañana, se vuelve futuro. Estar en un presente que no tiene más raíces ni ramas significa vivir el final. Así el soberbio, encerrado en su pequeño mundo, no tiene más pasado ni futuro, no tiene más raíces ni ramas y vive con el sabor amargo de la tristeza estéril que se adueña del corazón como «el más preciado de los elixires del demonio».[1] El humilde, en cambio, vive guiado constantemente por dos verbos: recordar —las raíces— y generar, fruto de las raíces y de las ramas, y de este modo vive la alegre apertura de la fecundidad.

Recordar significa etimológicamente “traer al corazón”, re-cordar. La memoria vital que tenemos de la Tradición, de las raíces, no es un culto del pasado, sino un gesto interior por medio del cual traemos constantemente al corazón aquello que nos ha precedido, aquello que ha atravesado nuestra historia, aquello que nos ha conducido hasta aquí. Recordar no es repetir, sino atesorar, reavivar y, con gratitud, dejar que la fuerza del Espíritu Santo haga arder nuestro corazón, como a los primeros discípulos (cf. Lc 24,32).

Pero para que recordar no se convierta en una prisión del pasado, necesitamos otro verbo: generar.

Al humilde —al hombre humilde, a la mujer humilde— no sólo le interesa el pasado, sino también el futuro, porque sabe mirar hacia adelante, sabe contemplar las ramas con la memoria llena de gratitud. El humilde genera, invita y empuja hacia aquello que no se conoce; el soberbio, en cambio, repite, se endurece —la rigidez es una perversión, una perversión actual— y se encierra en su repetición, se siente seguro de lo que conoce y teme a lo nuevo porque no puede controlarlo, lo hace sentir desestabilizado, porque ha perdido la memoria.

El humilde acepta ser cuestionado, se abre a la novedad y lo hace porque se siente fuerte gracias a lo que lo precede, a sus raíces, a su pertenencia. Su presente está habitado por un pasado que lo abre al futuro con esperanza. A diferencia del soberbio, sabe que ni sus méritos ni sus “buenas costumbres” son principio y fundamento de su existencia, por eso es capaz de tener confianza; el soberbio no la tiene.

Todos nosotros estamos llamados a la humildad porque estamos llamados a recordar y a generar, estamos llamados a volver a encontrar la relación justa con las raíces y con las ramas; sin ellas estamos enfermos y destinados a desaparecer.

Jesús, que viene al mundo por el camino de la humildad, nos abre una vía, nos indica un modo, nos muestra una meta.

Queridos hermanos y hermanas, si es cierto que sin humildad no podemos encontrar a Dios ni experimentar la salvación, también es cierto que sin humildad no podemos encontrar al prójimo, al hermano y a la hermana que viven a nuestro lado.

El pasado 17 de octubre iniciamos el camino sinodal, al que dedicaremos los próximos dos años. También aquí, sólo la humildad puede ponernos en condiciones de encontrarnos y escuchar, de dialogar y discernir, para rezar juntos, como indicaba el Cardenal Decano. Si cada uno se queda encerrado en sus propias convicciones, en sus propias experiencias, en la coraza de sus propios sentimientos y pensamientos, es difícil dar cabida a esa experiencia del Espíritu que, como dice el Apóstol, va unida a la convicción de que todos somos hijos de «un solo Dios y Padre de todos, que está sobre todos, actúa por medio de todos y habita en todos» (Ef 4,6).

¡“Todos” no es una palabra que pueda ser malinterpretada! El clericalismo, que como tentación —perversa— serpentea a diario entre nosotros, nos hace pensar siempre en un Dios que le habla sólo a algunos, mientras que los demás sólo deben escuchar y ejecutar. El Sínodo trata de ser la experiencia de sentirnos todos miembros de un pueblo más grande: el santo Pueblo fiel de Dios y, por tanto, discípulos que escuchan y, precisamente por esa escucha, pueden comprender también la voluntad de Dios, que se manifiesta siempre de manera imprevisible. Sin embargo, sería un error pensar que el Sínodo es un acontecimiento reservado a la Iglesia como entidad abstracta, alejada de nosotros. La sinodalidad es un estilo al que debemos convertirnos, sobre todo nosotros que estamos aquí y que vivimos la experiencia del servicio a la Iglesia universal a través de nuestro trabajo en la Curia romana.

Y la Curia —no lo olvidemos— no es sólo un instrumento logístico y burocrático para las necesidades de la Iglesia universal, sino que es el primer órgano llamado a dar testimonio, y por eso mismo adquiere más autoridad y eficacia cuando asume personalmente los retos de la conversión sinodal a la que también está llamada. La organización que debemos implementar no es de tipo corporativa, sino evangélica.

Por ello, si la Palabra de Dios le recuerda al mundo entero el valor de la pobreza, nosotros, miembros de la Curia, debemos ser los primeros en comprometernos a una conversión a la sobriedad. Si el Evangelio proclama la justicia, nosotros debemos ser los primeros en intentar vivir con transparencia, sin favoritismos ni grupos de influencia. Si la Iglesia sigue el camino de la sinodalidad, nosotros debemos ser los primeros en convertirnos a un estilo diferente de trabajo, de colaboración, de comunión; y esto sólo es posible a través de la senda de la humildad. Sin humildad no podremos hacer esto.

En la apertura de la asamblea sinodal utilicé tres palabras clave: participación, comunión y misión. Y nacen de un corazón humilde: sin humildad no se puede hacer ni participación, ni comunión, ni misión. Estas palabras son los tres requisitos que me gustaría indicar como un estilo de humildad al que hay que aspirar aquí en la Curia. Tres maneras para hacer de la humildad un itinerario concreto que podamos poner en práctica.

En primer lugar, la participación. Esta debería manifestarse mediante un estilo de corresponsabilidad. Por supuesto, en la diversidad de funciones y ministerios las responsabilidades son diferentes, pero sería importante que cada uno de nosotros se sintiera partícipe y corresponsable del trabajo, sin limitarse a vivir la experiencia despersonalizadora de llevar a cabo un programa establecido por otra persona. Siempre me quedo sorprendido cuando encuentro creatividad —me gusta mucho— en la Curia, y no pocas veces se manifiesta sobre todo allí donde se deja y se encuentra espacio para todos, incluso para aquellos que, jerárquicamente, parecen ocupar un lugar secundario. Doy las gracias por estos ejemplos —los encuentro, y me gusta— y los animo a que trabajen para que seamos capaces de generar dinámicas concretas en las que todos sientan que tienen una participación activa en la misión que realizan. La autoridad se convierte en servicio cuando comparte, involucra y ayuda a crecer.

La segunda palabra es comunión. No se expresa por mayorías o minorías, sino que nace esencialmente de la relación con Cristo. Nunca tendremos un estilo evangélico en nuestros ambientes si no ponemos a Cristo en el centro, y no este partido o el otro, esa opinión o la otra: Cristo en el centro. Muchos de nosotros trabajamos juntos, pero lo que fortalece la comunión es también poder rezar juntos, escuchar la Palabra juntos, construir relaciones que vayan más allá del mero trabajo y fortalezcan los vínculos de bien, vínculos de bien entre nosotros, ayudándonos mutuamente. Sin esto, corremos el riesgo de ser sólo extraños que trabajan juntos, rivales que intentan posicionarse mejor o, peor aún, allí donde se crean relaciones, éstas parecerían tomar el aspecto de la complicidad por intereses personales, olvidando la causa común que nos mantiene unidos. La complicidad crea divisiones, crea facciones, crea enemigos; la colaboración exige la grandeza de aceptar la propia parcialidad y la apertura al trabajo en equipo, incluso con aquellos que no piensan como nosotros. En la complicidad se está juntos para lograr un resultado externo. En la colaboración se permanece juntos porque nos interesa el bien del otro y, por tanto, el de todo el Pueblo de Dios al que estamos llamados a servir: no olvidemos el rostro concreto de las personas, no olvidemos nuestras raíces, el rostro concreto de quienes fueron nuestros primeros maestros en la fe. Pablo decía a Timoteo: “Recuerda a tu madre, recuerda a tu abuela”.

La perspectiva de la comunión implica, al mismo tiempo, reconocer la diversidad que habita en nosotros como un don del Espíritu Santo. Siempre que nos desviamos de este camino y vivimos la comunión y la uniformidad como sinónimos, debilitamos y silenciamos la fuerza vivificante del Espíritu Santo en medio de nosotros. La actitud de servicio nos pide, yo diría que nos exige, la magnanimidad y la generosidad de reconocer y vivir con alegría la riqueza multiforme del Pueblo de Dios; y sin humildad esto no es posible. A mí me hace bien releer el comienzo de la Lumen gentium, los números 8, 12: el santo Pueblo fiel de Dios. Recuperar estas verdades es oxígeno para el alma.

La tercera palabra es misión. Es la que nos salva de replegarnos sobre nosotros mismos. El que está replegado en sí mismo «mira de arriba y de lejos, rechaza la profecía de los hermanos, descalifica a quien lo cuestione, destaca constantemente los errores ajenos y se obsesiona por la apariencia. Ha replegado la referencia del corazón al horizonte cerrado de su inmanencia y sus intereses y, como consecuencia de esto, no aprende de sus pecados ni está auténticamente abierto al perdón. Estos son los dos signos de una persona “cerrada”: no aprende de los propios pecados y no está abierta al perdón. Es una tremenda corrupción con apariencia de bien. Hay que evitarla poniendo a la Iglesia en movimiento de salida de sí, de misión centrada en Jesucristo, de entrega a los pobres» (Exhort. ap. Evangelii gaudium, 97). Sólo un corazón abierto a la misión garantiza que todo lo que hacemos ad intra y ad extra esté siempre marcado por la fuerza regeneradora de la llamada del Señor. Y la misión siempre conlleva una pasión por los pobres, es decir, por los “carentes”: aquellos que “carecen” de algo no sólo en términos materiales, sino también en términos espirituales, emocionales y morales. Los que tienen hambre de pan y los que tienen hambre de sentido son igualmente pobres. La Iglesia está invitada a salir al encuentro de todas las pobrezas y está llamada a predicar el Evangelio a todos, porque todos, de un modo u otro, somos pobres, tenemos carencias. Pero la Iglesia también sale a su encuentro porque nos hacen falta: nos hace falta su voz, su presencia, sus preguntas y discusiones. La persona de corazón misionero siente que su hermano le hace falta y, con la actitud del mendigo, va a su encuentro. La misión nos hace vulnerables —es hermoso, la misión nos hace vulnerables—, nos ayuda a recordar nuestra condición de discípulos y nos permite descubrir la alegría del Evangelio una y otra vez.

Participación, misión y comunión son las características de una Iglesia humilde, que se pone a la escucha del Espíritu y coloca su centro fuera de sí misma. Henri de Lubac decía: «Al igual que su Maestro, la Iglesia a los ojos del mundo, hace papel de esclava. Vive aquí abajo “en forma de esclava”. [...] No es una academia de sabios, ni un cenáculo de intelectuales sublimes, ni una asamblea de superhombres. Sino que es precisamente todo lo contrario. Los cojos, los contrahechos y los miserables de toda clase se dan cita en la Iglesia y la legión de los mediocres [...]; resulta difícil, o por mejor decir, imposible al hombre natural, en tanto que sus pensamientos más íntimos no hayan sido transformados, descubrir en semejante hecho el cumplimiento de la Kenosis salvadora y el adorable vestigio de la “humildad de Dios”» (Meditación sobre la Iglesia, 292-293).

Para concluir quisiera desearles a ustedes, y a mí en particular, que nos dejemos evangelizar por la humildad, por la humildad de la Navidad, por la humildad del pesebre, de la pobreza y la esencialidad con la que el Hijo de Dios entró en el mundo. Incluso los magos de oriente, que evidentemente podemos pensar que provenían de una condición más acomodada que María y José o que los pastores de Belén, se postran cuando se encuentran en presencia del niño (cf. Mt 2,11). Se postran. No es sólo un gesto de adoración, es un gesto de humildad. Los Reyes magos se ponen a la altura de Dios postrándose rostro en tierra. Y esta kenosis, este descenso, esta synkatábasis es el mismo que hará Jesús en la última noche de su vida terrenal, cuando «se levantó de la mesa, se quitó el manto y, tomando una toalla, se la ató a la cintura. Luego echó agua en una palangana y comenzó a lavar los pies a los discípulos y a secárselos con la toalla que tenía a la cintura» (Jn 13,4-5). La consternación que causa este gesto, provoca la reacción de Pedro, pero al final el propio Jesús da a sus discípulos la clave adecuada para entenderlo: «Ustedes me llaman “Maestro” y “Señor”, y dicen bien, porque lo soy. Pues si yo, que soy su Señor y Maestro, les he lavado los pies, también ustedes deben lavarse los pies unos a otros. Les he dado ejemplo para que hagan lo mismo que yo hice con ustedes» (Jn 13,13-15).

Queridos hermanos y hermanas, recordando nuestra lepra, rehuyendo la lógica de la mundanidad que nos priva de las raíces y las ramas, dejémonos evangelizar por la humildad del Niño Jesús. Sólo sirviendo y pensando en nuestro trabajo como servicio podemos ser verdaderamente útiles a todos. Estamos aquí —yo el primero— para aprender a ponernos de rodillas y adorar al Señor en su humildad, y no a otros señores en su vacía opulencia. Seamos como los pastores, seamos como los magos de Oriente, seamos como Jesús. He aquí la lección de la Navidad: la humildad es la gran condición de la fe, de la vida espiritual, de la santidad. Quiera el Señor concedernos ese don a partir de la manifestación primordial del Espíritu dentro de nosotros: el deseo. Lo que no tenemos, podemos al menos empezar a desearlo. Y pedir al Señor la gracia de poder desear, de convertirnos en hombres y mujeres de grandes deseos. Y el deseo es ya el Espíritu actuando en cada uno de nosotros.

¡Feliz Navidad para todos! Y les pido que recen por mí. ¡Gracias!

Como recuerdo de esta Navidad, quisiera darles algunos libros. Pero para leerlos, no para dejarlos en la biblioteca, para que los nuestros los reciban en herencia. En primer lugar, uno de un gran teólogo, desconocido porque es demasiado humilde, un subsecretario de la Doctrina de la Fe, Mons. Armando Matteo, que reflexiona un poco en un fenómeno social y en cómo provoca la pastoralidad. Se llama Convertir a Peter Pan. Sobre el destino de la fe en esta sociedad de la eterna juventud. Es provocativo, hace bien. El segundo es un libro sobre los personajes secundarios u olvidados de la Biblia, del Padre Luigi Maria Epicoco: La piedra descartada, y como subtítulo Cuando los olvidados se salvan. Es hermoso. Es para la meditación, para la oración. Leyéndolo, me vino a la mente la historia de Naamán el Sirio, de quien les hablé. Y el tercero es de un Nuncio Apostólico, Mons. Fortunatus Nwachukwu, que ustedes conocen bien. Él hizo una reflexión sobre el chismorreo, y me gusta lo que ha retratado: que el chismorreo hace que se “disuelva” la identidad. Les dejo estos tres libros, y espero que nos ayuden a todos a seguir adelante. ¡Gracias! Gracias por su trabajo y su colaboración. Gracias.

Y pidamos a la Madre de la humildad que nos enseñe a ser humildes: “Ave María…”

[Bendición]

_______________

[1] G. Bernanos, Journal d’un curé de campagne, París 1974, 135.

[01848-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

Queridos irmãos e irmãs, bom dia!

Como acontece cada ano, temos hoje ocasião de nos encontrar alguns dias antes da festa do Natal; é um modo de expressar «em voz alta» a nossa fraternidade através da troca recíproca das boas festas natalícias, mas é também um momento de reflexão e exame de consciência para cada um de nós, a fim de que a luz do Verbo encarnado nos mostre cada vez melhor quem somos e qual é a nossa missão.

Como todos sabemos, o mistério do Natal é o mistério de Deus que vem ao mundo pelo caminho da humildade. Encarnou: aquela grande synkatabasis! Infelizmente o nosso tempo parece ter-se esquecido da humildade ou simplesmente tê-la limitado a uma forma de moralismo, esvaziando-a da força incisiva de que é dotada.

Mas, se tivéssemos de expressar todo o mistério do Natal numa palavra, creio que o termo que mais nos poderia ajudar é humildade. Os Evangelhos falam-nos dum cenário pobre, sóbrio, impróprio para acolher uma mulher que está para dar à luz. E, contudo, o Rei dos reis vem ao mundo, não dando nas vistas, mas suscitando uma atração misteriosa nos corações de quantos sentem a presença incisiva duma novidade que está prestes a mudar a história. Por isso apraz-me pensar e também dizer que a humildade foi a sua porta de entrada e convida-nos, a todos nós, a atravessá-la. Vem-me ao pensamento esta frase dos Exercícios: não se pode avançar sem humildade, nem se pode avançar na humildade sem humilhações. E Santo Inácio diz-nos para pedir humilhações.

Não é fácil compreender o que seja a humildade. Esta resulta duma mudança que o próprio Espírito realiza em nós através da história que vivemos, como acontece, por exemplo, ao sírio Naaman (cf. 2 Re 5). Gozava de grande fama, no tempo do profeta Eliseu. Era um general valoroso do exército arameu, que demonstrara o seu valor e coragem em várias ocasiões. Mas por trás da fama, da força, da estima, das honras, da glória, este homem vive um drama terrível: é leproso. A sua armadura, a mesma que lhe proporciona fama, na realidade cobre uma humanidade frágil, ferida, doente. Esta contradição, encontramo-la frequentemente na nossa vida: às vezes, os grandes dons constituem a armadura para encobrir grandes fragilidades.

Naaman compreende uma verdade fundamental: não se pode passar a vida escondendo-se atrás duma armadura, duma função, duma consideração social. No fim, magoa. Na história de cada um, chega o momento em que se tem o desejo de não viver mais atrás da capa da glória deste mundo, mas na plenitude duma vida sincera, sem precisar mais de armaduras nem de máscaras. Este desejo impele o valoroso general Naaman a sair à procura de alguém que o possa ajudar; e fá-lo partindo da sugestão duma escrava, uma judia prisioneira de guerra, que fala de um Deus capaz de curar tais contradições.

Munido de prata e ouro, Naaman põe-se a caminho e chega assim à porta do profeta Eliseu. Este pede a Naaman, como única condição para a sua cura, o gesto simples de se despir e banhar sete vezes no rio Jordão. Nada conta a fama, nada contam as honras, o ouro e a prata! A graça que salva é gratuita, não se pode reduzir ao preço das coisas deste mundo.

Naaman recebe com relutância tal pedido; parece-lhe banal, simples demais, demasiado terra a terra. Parece que, na sua imaginação, não havia lugar para a força da simplicidade. Mas as palavras dos seus servos fazem-no mudar de opinião: «Mesmo que o profeta te tivesse mandado uma coisa difícil, não a deverias fazer? Quanto mais agora, ao dizer-te: “Lava-te e ficarás curado?”» (2 Re 5, 13). Naaman rende-se… E, com um gesto de humildade, «desce», tira a sua armadura, mergulha nas águas do Jordão «e a sua carne tornou-se como a de uma criança e ficou limpo» (2 Re 5, 14). Grande lição aqui temos! A humildade de expor a própria humanidade, segundo a palavra do Senhor, obtém a Naaman a cura.

A história de Naaman lembra-nos que o Natal é um tempo em que cada um de nós deve ter a coragem de tirar a própria armadura, desfazer-se das importâncias do cargo, da consideração social, do brilho da glória deste mundo, e assumir a sua própria humildade. Podemos fazê-lo a partir dum exemplo mais forte, mais convincente, de maior autoridade: o do Filho de Deus, que não Se recusa à humildade de «descer» à história fazendo-Se homem, tornando-Se menino, frágil, envolto em panos e deitado numa manjedoura (cf. Lc 2, 7). Despojados das nossas roupas, das nossas prerrogativas, funções, títulos, todos, todos nós, somos leprosos que precisam de ser curados. O Natal é a memória viva desta certeza e ajuda-nos a compreendê-la mais profundamente.

Queridos irmãos e irmãs, se esquecermos a nossa humanidade, vivemos apenas das honras das nossas armaduras, mas Jesus lembra-nos uma verdade incómoda e desafiadora: «Que aproveita ao homem ganhar o mundo inteiro, se perder a sua vida?» (Mc 8, 36).

Esta é a tentação perigosa – já a lembrei outras vezes – do mundanismo espiritual, que, ao contrário de todas as outras tentações, é difícil de desmascarar, porque está encoberta por tudo aquilo que normalmente nos tranquiliza: a nossa função, a liturgia, a doutrina, a religiosidade. Como escrevi na Evangelii gaudium, «neste contexto, alimenta-se a vanglória de quantos se contentam com ter algum poder e preferem ser generais de exércitos derrotados antes que simples soldados dum batalhão que continua a lutar. Quantas vezes sonhamos planos apostólicos expansionistas, meticulosos e bem traçados, típicos de generais derrotados! Assim negamos a nossa história de Igreja, que é gloriosa por ser história de sacrifícios, de esperança, de luta diária, de vida gasta no serviço, de constância no trabalho fadigoso, porque todo o trabalho é “suor do nosso rosto”. Em vez disso, entretemo-nos vaidosos a falar sobre “o que se deveria fazer” – o pecado do “deveriaquismo” – como mestres espirituais e peritos de pastoral que dão instruções ficando de fora. Cultivamos a nossa imaginação sem limites e perdemos o contacto com a dolorosa realidade do nosso povo fiel» (n.º 96).

A humildade é a capacidade de saber habitar – sem desespero, com realismo, alegria e esperança – a nossa humanidade, esta humanidade amada e abençoada pelo Senhor. A humildade é compreender que não devemos envergonhar-nos da nossa fragilidade. Jesus ensina-nos a ver a nossa miséria, com o mesmo amor e ternura com que se olha uma criança pequena, frágil, necessitada de tudo. Sem humildade, buscaremos garantias e talvez as encontremos, mas certamente não encontraremos o que nos salva, o que nos pode curar. As garantias são o fruto mais perverso do mundanismo espiritual, que revela a falta de fé, esperança e caridade, e deixam a pessoa incapaz de saber discernir a verdade das coisas. Se Naaman tivesse continuado apenas a acumular medalhas para dependurar na sua armadura, acabaria por ser consumido pela lepra: aparentemente vivo, sim, mas fechado e isolado na sua doença. Mas não, procura corajosamente o que pode salvá-lo, e não o que o gratifica imediatamente.

Todos sabemos que o contrário da humildade é a soberba. Um versículo do profeta Malaquias (que muito em impressionou) ajuda-nos, por contraste, a compreender a diferença que há entre o caminho da humildade e o da soberba: «Todos os soberbos e todos os que cometem a iniquidade serão como a palha; este dia que vai chegar queimá-los-á – diz o Senhor do universo – e nada ficará deles: nem raiz, nem ramos» (3,19).

O profeta usa uma imagem sugestiva que descreve bem a soberba: esta – afirma ele – é como palha. Quando vem o fogo, a palha transforma-se em cinza, é queimada, desaparece. E acerca da pessoa que se deixa levar pela soberba afirma que se encontra privada do que temos de mais importante: as raízes e os ramos. As raízes falam da nossa ligação vital com o passado, donde recebemos a seiva para poder viver no presente. Por sua vez os ramos são o presente que não morre, mas torna-se amanhã, torna-se futuro. A permanência num presente que já não tem raízes nem ramos, significa viver o fim. Assim o soberbo, encerrado no seu pequeno mundo, já não tem passado nem futuro, já não tem raízes nem ramos e vive com o sabor amargo da tristeza estéril que se apodera do coração como «o mais precioso elixir do demónio».[1] Ao contrário, o humilde deixa-se guiar constantemente por dois verbos: recordar – as raízes – e gerar, fruto das raízes e dos ramos, vivendo assim a jubilosa abertura da fecundidade.

Recordar significa, etimologicamente, «trazer de novo ao coração», re-cordar. A memória viva que temos da Tradição, das raízes, não é culto do passado, mas gesto interior por meio do qual trazemos constantemente ao coração aquilo que nos precedeu, que atravessou a nossa história, que nos fez chegar até aqui. Recordar não é repetir, mas arrecadar, reavivar e, agradecidos, deixar que a força do Espírito Santo nos faça, como aos primeiros discípulos, arder o coração (cf. Lc 24, 32).

Mas, para que o recordar não se torne uma prisão do passado, precisamos doutro verbo: gerar. O humilde – o homem humilde, a mulher humilde – tem a peito também o futuro, e não só o passado, porque sabe olhar para diante, sabe contemplar os ramos com a memória repleta de gratidão. O humilde gera, convida e impele para o que não se conhece; ao passo que o soberbo repete, torna-se rígido – a rigidez é uma perversão; é uma perversão atual – e fecha-se na sua repetição, sente-se seguro daquilo que conhece e teme o novo porque não pode controlá-lo, sente-se desestabilizado... porque perdeu a memória.

O humilde aceita ser posto em questão, abre-se ao novo; e fá-lo porque se sente forte com aquilo que o precede, com as suas raízes, a sua filiação. O seu presente é habitado por um passado, que o abre para o futuro com esperança. Diversamente do orgulhoso, sabe que nem os seus méritos nem os seus «bons costumes» são o princípio e o fundamento da sua existência; por isso é capaz de ter confiança. O soberbo não a tem.

Todos nós somos chamados à humildade, porque somos chamados a recordar e a gerar, somos chamados a reencontrar a justa relação com as raízes e com os ramos. Sem eles, deterioramo-nos e estamos destinados a desaparecer.

Vindo ao mundo pela via da humildade, Jesus abre-nos um caminho, indica-nos um estilo de vida, mostra-nos uma meta.

Queridos irmãos e irmãs, se é verdade que, sem humildade, não se pode encontrar Deus nem é possível fazer experiência de salvação, é igualmente verdade que, sem humildade, não se pode sequer encontrar o próximo, o irmão e a irmã que vivem ao nosso lado.

No passado dia 17 de outubro, demos início ao percurso sinodal que nos ocupará nos próximos dois anos. Também neste caso, só a humildade é capaz de nos colocar na justa condição para nos podermos encontrar e ouvir, para dialogar e discernir, para rezar juntos, como indicava o Cardeal Decano. Se cada um permanece fechado nas próprias convicções, na própria experiência, na carapaça apenas do seu sentir e pensar, é difícil dar espaço àquela experiência do Espírito que – como diz o Apóstolo – está ligada à convicção de sermos filhos de «um só Deus e Pai de todos, que reina sobre todos, age por todos e permanece em todos» (Ef 4, 6).

«Todos» não é palavra que se preste a equívocos. O clericalismo, cuja tentação – perversa – se insinua diariamente entre nós, sempre nos faz pensar num Deus que fala apenas a alguns, enquanto os outros devem apenas escutar e cumprir. O Sínodo procura ser a experiência de nos sentirmos, todos, membros de um conjunto maior – o Santo Povo fiel de Deus – e, por conseguinte, discípulos que escutam e, precisamente em virtude desta escuta, podem também compreender a vontade de Deus, que sempre se manifesta de maneira imprevisível. Mas seria errado pensar que o Sínodo fosse um acontecimento reservado à Igreja como entidade abstrata, distante de nós. A sinodalidade é um estilo, ao qual, os primeiros a converter-se, devemos ser nós que estamos aqui e vivemos a experiência do serviço à Igreja universal através do trabalho na Cúria Romana.

E a Cúria – nunca o esqueçamos! – não é apenas um instrumento logístico e burocrático para as necessidades da Igreja universal, mas é o primeiro organismo chamado a dar testemunho; e por isso mesmo, na medida em que assume pessoalmente os desafios da conversão sinodal a que é chamada também ela, cresce a sua credibilidade e eficácia. A organização que devemos implementar não é de tipo empresarial, mas evangélico.

Assim, se a Palavra de Deus recorda ao mundo inteiro o valor da pobreza, nós, membros da Cúria, devemos ser os primeiros a comprometer-nos numa conversão à sobriedade. Se o Evangelho anuncia a justiça, nós devemos ser os primeiros a procurar viver com transparência, sem favoritismos nem partidarismos. Se a Igreja percorre o caminho da sinodalidade, nós devemos ser os primeiros a converter-nos a um estilo diferente de trabalho, colaboração, comunhão. E isto só é possível pelo caminho da humildade. Sem humildade, não o poderemos fazer.

Durante a abertura da assembleia sinodal, usei três palavras-chave: participação, comunhão e missão. E todas nascem dum coração humilde: sem humildade não se pode efetuar participação, nem comunhão, nem missão. Estas são as três exigências que gostaria de indicar como estilo de humildade a atingir aqui na Cúria. Três disposições para se colocar concretamente em prática o caminho da humildade.

Em primeiro lugar, a participação. Esta deveria expressar-se através dum estilo de corresponsabilidade. Com certeza que, na diversidade de funções e ministérios, as responsabilidades são diferentes, mas seria importante que cada um se sentisse envolvido, corresponsável no trabalho sem se limitar a viver a experiência despersonalizante da execução dum programa estabelecido por outrem. Fico sempre impressionado quando encontro na Cúria a criatividade – dá-me tanto prazer – e, não raro, esta manifesta-se sobretudo onde há e se encontra espaço para todos, mesmo para quem parece, hierarquicamente, ocupar um lugar marginal. Agradeço estes exemplos – encontro-os e me comprazo neles – e encorajo-vos a trabalhar para sermos capazes de gerar dinâmicas concretas onde todos sintam ter uma participação ativa na missão que devem desempenhar. A autoridade torna-se serviço, quando compartilha, envolve e ajuda a crescer.

A segunda palavra é comunhão. Esta não se expressa com maiorias ou minorias, mas nasce essencialmente da relação com Cristo. Jamais teremos um estilo evangélico nos nossos ambientes, se não colocarmos Cristo no centro; e não este partido ou aquele, esta opinião ou aqueloutra, mas Cristo no centro. Muitos de nós trabalham juntos, mas o que fortalece a comunhão é poder também rezar juntos, escutar juntos a Palavra, construir relações que vão além do simples trabalho e reforçar os laços bons – os laços bons entre nós –, ajudando-nos uns aos outros. Sem isto, corremos o risco de ser apenas estranhos que colaboram, concorrentes que procuram a melhor posição ou, pior ainda, as relações que se criam parecem assentar na cumplicidade ditada por interesses pessoais, esquecendo-se da causa comum que nos mantém unidos. A cumplicidade cria divisões, cria fações, cria inimigos; a colaboração exige a grandeza de se aceitar como parcela e abrir-se ao trabalho em grupo, mesmo com quem não pensa como nós. Na cumplicidade, está-se junto para obter um resultado externo. Na colaboração, está-se junto porque se tem a peito o bem do outro e consequentemente de todo o Povo de Deus, a quem somos chamados a servir: não esqueçamos o rosto concreto das pessoas, não esqueçamos as nossas raízes, o rosto concreto daqueles que foram os nossos primeiros mestres na fé. Paulo dizia a Timóteo: «Recorda-te da tua mãe, recorda-te da tua avó».

A perspetiva da comunhão implica, ao mesmo tempo, reconhecer a diversidade que nos habita como dom do Espírito Santo. Sempre que nos afastamos deste caminho e vivemos como sendo sinónimos comunhão e uniformidade, debilitamos e emudecemos a força vivificante do Espírito Santo no meio de nós. A atitude de serviço pede-nos – apetece-me dizer exige-nos – a magnanimidade e a generosidade para reconhecer e viver com alegria a multiforme riqueza do Povo de Deus; e isto, sem humildade, não é possível. Faz-me bem reler o início da Lumen gentium, aqueles números 8, 12... : o santo povo fiel de Deus; retomar estas verdades é como oxigénio para a alma.

A terceira palavra é missão. Esta salva-nos de nos fecharmos em nós mesmos. Quem se fecha em si mesmo, «olha de cima e de longe, rejeita a profecia dos irmãos, desqualifica quem o questiona, faz ressaltar constantemente os erros alheios e vive obcecado pela aparência. Circunscreveu os pontos de referência do coração ao horizonte fechado da sua imanência e dos seus interesses e, consequentemente, não aprende com os seus pecados nem está verdadeiramente aberto ao perdão. Estes são os dois sinais duma pessoa «fechada»: não aprende com os próprios pecados, nem está aberta ao perdão. É uma tremenda corrupção, com aparências de bem. Devemos evitá-lo, pondo a Igreja em movimento de saída de si mesma, de missão centrada em Jesus Cristo, de entrega aos pobres» (Evangelii gaudium, 97). Só um coração aberto à missão torna possível que tudo o que fazemos ad intra e ad extra esteja sempre marcado pela força regeneradora da chamada do Senhor. E a missão inclui sempre a paixão pelos pobres, isto é, pelos «carentes»: aqueles que «carecem» de qualquer coisa em termos não só materiais, mas também espirituais, afetivos, morais. Quem tem fome de pão e quem tem fome de sentido [para viver] são igualmente pobres. A Igreja é convidada a ir ao encontro de todas as pobrezas, sendo chamada a pregar o Evangelho a todos, porque todos nós, duma forma ou doutra, somos pobres, somos carentes. Mas também a Igreja vai ao seu encontro, porque se sente carecida deles: falta-nos a sua voz, a sua presença, as suas questões e disputas. A pessoa com coração missionário sente que lhe falta o seu irmão e, com a atitude do mendigo, vai encontrá-lo. A missão torna-nos vulneráveis – é bom a missão tornar-nos vulneráveis –, ajuda-nos a recordar a nossa condição de discípulos e permite-nos descobrir sempre de novo a alegria do Evangelho.

Participação, missão e comunhão são os traços duma Igreja humilde, que se coloca à escuta do Espírito e mantém o próprio centro fora de si mesma. Henri de Lubac deixou escrito: «Aos olhos do mundo a Igreja, à semelhança do seu Senhor, tem sempre o aspeto da escrava. Aqui na terra existe sob a forma de serva. (...) Não é uma academia de cientistas, nem um cenáculo de espirituais refinados, nem uma assembleia de super-homens. Antes, é exatamente o contrário. Aglomeram-se os aleijados, os deformados, os miseráveis de toda a espécie; sobrepõem-se os medíocres (...); ao homem natural, enquanto não acontecer nele uma transformação radical, é difícil, ou melhor impossível, reconhecer neste facto o cumprimento da kenose salvífica, o traço adorável da humildade de Deus» (Meditações sobre a Igreja, 352).

Para concluir, gostaria de desejar a vós e, primeiro, a mim mesmo a graça de nos deixarmos evangelizar pela humildade, pela humildade do Natal, pela humildade do presépio, da pobreza e essencialidade em que o Filho de Deus entrou no mundo. Até mesmo os Magos – que podemos, sem dúvida, imaginar vindos duma condição mais abastada do que a de Maria e José ou dos pastores de Belém –, quando se encontram diante do Menino, prostram-se (cf. Mt 2, 11). Prostram-se: não é apenas um gesto de adoração; é um gesto de humildade. Os Magos colocam-se à altura de Deus, prostrando-se na terra nua. E esta kenose, esta descida, esta synkatabasis é a mesma que Jesus efetuará na última noite da sua vida terrena, quando «Se levantou da mesa, tirou o manto, tomou uma toalha e atou-a à cintura. Depois deitou água na bacia e começou a lavar os pés aos discípulos e a enxugá-los com a toalha que atara à cintura» (Jo 13, 4-5). A perplexidade suscitada por tal gesto provoca a reação de Pedro, mas, no fim, o próprio Jesus dá aos seus discípulos a chave de justa interpretação: «Vós chamais-Me “o Mestre” e “o Senhor”, e dizeis bem, porque o sou. Ora, se Eu, o Senhor e o Mestre, vos lavei os pés, também vós deveis lavar os pés uns aos outros. Na verdade, dei-vos exemplo, para que, assim como Eu fiz, vós façais também» (Jo 13, 13-15).

Queridos irmãos e irmãs, lembrando-nos da nossa lepra, evitando as lógicas do mundanismo que nos privam de raízes e ramos, deixemo-nos evangelizar pela humildade do Menino Jesus. Só servindo e só concebendo o nosso trabalho como serviço é que podemos ser verdadeiramente úteis a todos. Estamos aqui – a começar por mim – para aprender a ajoelhar e adorar o Senhor na sua humildade, e não outros senhores na sua vã opulência. Sejamos como os pastores, sejamos como os Magos, sejamos como Jesus. Eis a lição do Natal: a humildade é a grande condição da fé, da vida espiritual, da santidade. Que o Senhor no-la conceda em dom a partir da primordial manifestação do Espírito em nós: o desejo. Aquilo que não temos, podemos ao menos começar a desejá-lo. Peçamos ao Senhor a graça de conseguir desejar, de nos tornarmos homens e mulheres de grandes desejos. E o desejo é já o Espírito a trabalhar dentro de cada um de nós.

Feliz Natal a todos! E peço-vos para rezardes por mim. Obrigado!

Como lembrança deste Natal, gostaria de vos deixar alguns livros... mas para se lerem, e não para os deixar na biblioteca para os nossos parentes que hão de receber a herança! Primeiro, o livro dum grande teólogo, desconhecido porque demasiado humilde, um Subsecretário da Doutrina da Fé, Mons. Armando Matteo, que se debruça um pouco sobre um fenómeno social e como provoca a ação pastoral. Intitula-se Converter Peter Pan. Sobre o destino da fé nesta sociedade da eterna juventude. É provocatório; faz-nos bem. O segundo é um livro sobre personagens secundárias ou esquecidas da Bíblia, do padre Luigi Maria Epicoco: A pedra descartada, e como subtítulo Quando os esquecidos se salvam. É lindo. Serve para a meditação, para a oração. Foi ao lê-lo que me veio ao pensamento a história do sírio Naaman, de que falei. E o terceiro é de um Núncio Apostólico, Mons. Fortunatus Nwachukwu, que vós bem conheceis. Fez uma reflexão sobre a coscuvilhice; gosto de como a retratou: a coscuvilhice faz com que se «derreta», se dissolva a identidade. Deixo-vos estes três livros, esperando que nos ajudem a todos nós a seguir em frente. Obrigado! Obrigado pelo vosso trabalho e a vossa colaboração. Obrigado!

E peçamos à Mãe da humildade que nos ensine a ser humildes: «Ave Maria...».

[Bênção].

___________________

[1] Georges Bernanos, Journal d’un curé de campagne (Paris 1974), 135.

[01848-PO.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

Drodzy bracia i siostry, dzień dobry!

Podobnie jak co roku, mamy okazję spotkać się na kilka dni przed świętami Bożego Narodzenia. Jest to sposób na wyrażenie otwarcie naszego braterstwa poprzez wymianę świątecznych życzeń, ale jest to także czas refleksji i weryfikacji dla każdego z nas, aby światło Słowa, które stało się ciałem, ukazało nam coraz lepiej, kim jesteśmy i jaka jest nasza misja.

Wszyscy wiemy: tajemnica Bożego Narodzenia jest tajemnicą Boga, który przychodzi na świat drogą pokory. Stało się ciałem: ta wielka synkatabasis. Można odnieść wrażenie, że czas obecny zapomniał o pokorze, albo też – jak się zdaje – zdegradował ją do formy moralizatorstwa, pozbawiając wstrząsającej mocy, jaką jest obdarzona.

Ale gdybyśmy mieli wyrazić całą tajemnicę Bożego Narodzenia jednym słowem, to sądzę, że najbardziej może nam pomóc słowo pokora. Ewangelie mówią nam o miejscu ubogim, skromnym, nieodpowiednim dla kobiety mającej urodzić. Jednak Król królów przychodzi na świat nie przyciągając uwagi, lecz rozbudzając tajemniczą fascynację w sercach tych, którzy odczuwają poruszającą obecność nowości, która ma zmienić historię. Dlatego myślę, i chcę powiedzieć, że pokora była jego bramą wejściową i zaprasza nas, nas wszystkich, abyśmy przez nią przeszli. Przychodzi mi na myśl ten fragment Ćwiczeń: nie można iść naprzód bez pokory i nie można iść naprzód w pokorze bez upokorzeń. I św. Ignacy mówi nam, by prosić o upokorzenia.

Niełatwo zrozumieć, czym jest pokora. Jest ona wynikiem przemiany, której dokonuje w nas sam Duch Święty poprzez historię, jaką przeżywamy, jak to miało miejsce na przykład w przypadku Naamana Syryjczyka (por. 2 Krl 5). W czasach proroka Elizeusza, osoba ta cieszyła się wielką sławą. Był dzielnym generałem armii aramejskiej, który wielokrotnie wykazał się męstwem i odwagą. Ale oprócz sławy, siły, poważania, zaszczytów i chwały, człowiek ten musiał żyć ze strasznym dramatem: był trędowaty. Jego zbroja, ta sama zbroja, która przynosiła mu sławę, okrywa w istocie kruche, zranione, chore człowieczeństwo. Często znajdujemy tę sprzeczność w naszym własnym życiu: czasami wielkie dary są zbroją, która przykrywa wielką słabość.

Naaman rozumie fundamentalną prawdę: nie można spędzić życia, chowając się za zbroją, spełnianą rolą, społecznym uznaniem – ostatecznie to szkodzi. Przychodzi taki czas w życiu każdego człowieka, kiedy ma on pragnienie, aby już nie żyć za osłoną chwały tego świata, lecz w pełni szczerego życia, bez potrzeby noszenia zbroi czy masek. To pragnienie pobudza dzielnego generała Naamana do wyruszenia na poszukiwanie kogoś, kto może mu pomóc, a czyni to dzięki sugestii niewolnicy, żydowskiej branki wojennej, która opowiada o Bogu zdolnym do leczenia takich sprzeczności.

Zaopatrzywszy się w srebro i złoto, Naaman wyrusza w swoją podróż i w ten sposób dociera do proroka Elizeusza. Prorok Elizeusz poprosił Naamana, jako jedyny warunek jego uzdrowienia, o prosty akt rozebrania się i obmycia siedem razy w rzece Jordan. Bez sławy, bez honoru, złota czy srebra! Łaska, która zbawia jest darmowa, nie można jej sprowadzić do ceny rzeczy tego świata.

Naaman opiera się tej prośbie, wydaje się nazbyt banalna, zbyt prosta, zbyt przystępna. Wydaje się, że siła prostoty nie miała miejsca w jego wyobraźni. Ale słowa jego sług sprawiają, że zmienia zdanie: „Gdyby prorok kazał ci spełnić coś trudnego, czy byś nie wykonał? O ileż więc bardziej, jeśli ci powiedział: Obmyj się, a będziesz czysty?” (2 Krl 5, 13). Naaman poddaje się i w geście pokory „zstępuje”, zdejmuje swoją zbroję i zanurza się w wodach Jordanu, „a ciało jego na powrót stało się jak ciało małego dziecka i został oczyszczony” (2 Krl 5, 14). Jest to wspaniała lekcja! Pokora obnażenia swojego człowieczeństwa, zgodnie ze słowem Pana, przynosi Naamanowi uzdrowienie.

Historia Naamana przypomina nam, że Boże Narodzenie to czas, w którym każdy z nas musi mieć odwagę, aby zdjąć swoją zbroję, zrzucić z siebie szaty pełnionej roli, uznania społecznego, blasku chwały tego świata i podjąć jego pokorę. Możemy to uczynić, wychodząc od przykładu mocniejszego, bardziej przekonującego, bardziej autorytatywnego: od Syna Bożego, który nie uchyla się od pokory „zstąpienia” w dzieje, stając się człowiekiem, stając się dzieckiem, kruchym, owiniętym w pieluszki i położonym w żłobie (por. Łk 2, 16). Zdjąwszy nasze szaty, nasze prerogatywy, role i tytuły, wszyscy jesteśmy trędowatymi, my wszyscy, potrzebującymi uzdrowienia. Święta Bożego Narodzenia są żywą pamięcią tej świadomości i pomagają nam głębiej ją zrozumieć.

Drodzy bracia i siostry, jeśli zapomnimy o naszym człowieczeństwie, żyjemy tylko zaszczytami naszych zbroi, ale Jezus przypomina nam prawdę niewygodną i niepokojącą: „Jaką korzyść stanowi zyskać cały świat, jeśli potem zatracisz samego siebie?” (por. Mk 8, 36).

Jest to niebezpieczna pokusa – a wspominałem o niej przy innych okazjach – duchowej światowości, która w przeciwieństwie do wszystkich innych pokus jest trudna do zdemaskowania, ponieważ jest przykryta tym wszystkim, co nas zazwyczaj uspokaja: naszą rolą, liturgią, doktryną, religijnością. Pisałem w Evangelii gaudium: „W tym kontekście umacnia się próżna chwała tych, którzy zadowalają się posiadaniem jakiejś władzy i wolą być raczej generałami pokonanych wojsk niż zwykłymi żołnierzami nadal walczącego oddziału. Ileż razy marzymy o planach apostolskich ekspansjonistycznych, drobiazgowych i dobrze nakreślonych, typowych dla przegranych generałów! W ten sposób przekreślamy naszą historię Kościoła, która jest chwalebna jako historia ofiar, nadziei, codziennej walki, życia spędzonego na służbie, wytrwałości w żmudnej pracy, ponieważ każda praca jest «potem naszego czoła». Tymczasem zabawiamy się chełpliwie, rozmawiając o tym, «co się powinno robić» – grzech «powinno się robić» – jako mistrzowie duchowi i eksperci duszpasterstwa, którzy dają instrukcje, pozostając na zewnątrz. Pobudzamy naszą wyobraźnię bez granic i tracimy kontakt z trudną rzeczywistością naszego wiernego ludu” (n. 96).

Pokora jest zdolnością przeżywania naszego człowieczeństwa bez rozpaczy, z realizmem, radością i nadzieją; to człowieczeństwo umiłowane i błogosławione przez Pana. Pokora to zrozumienie, że nie wolno nam wstydzić się naszej kruchości. Jezus uczy nas patrzeć na naszą nędzę z taką samą miłością i czułością, z jaką patrzy się na małe, kruche dziecko, które potrzebuje wszystkiego. Bez pokory będziemy szukali pocieszeń i być może je znajdziemy, ale na pewno nie znajdziemy tego, co nas zbawia, co może nas uzdrowić. Pocieszenia są najbardziej przewrotnym owocem światowości duchowej, która ujawnia brak wiary, nadziei i miłości, i staje się niezdolnością do rozeznawania prawdy o rzeczach. Gdyby Naaman kontynuował jedynie gromadzenie medali, aby założyć na swoją zbroję, to w końcu zostałby pożarty przez trąd: pozornie żywy, owszem, ale zamknięty i odizolowany w swojej chorobie. Odważnie poszukuje on tego, co może go ocalić, a nie tego, co go doraźnie zadowala.

Wszyscy wiemy, że przeciwieństwem pokory jest pycha. Werset z Księgi proroka Malachiasza, który mnie bardzo poruszył, pomaga nam zrozumieć przez kontrast różnicę między drogą pokory a drogą pychy: „a wszyscy pyszni i wszyscy czyniący nieprawość będą słomą, więc spali ich ten nadchodzący dzień, mówi Pan Zastępów, tak że nie pozostawi po nich ani korzenia, ani gałązki” (3, 19).

Prorok używa sugestywnego obrazu, który dobrze opisuje pychę: pycha – mówi – jest jak słoma. Potem, kiedy nadchodzi ogień, słoma staje się popiołem, pali się, znika. I mówi nam również, że ci, którzy żyją polegając na pysze, pozbawiają się tego, co najważniejsze: korzeni i gałęzi. Korzenie mówią o naszej żywotnej więzi z przeszłością, z której czerpiemy soki, aby żyć w teraźniejszości. Gałęzie są teraźniejszością, która nie umiera, ale staje się jutrem, staje się przyszłością. Być w teraźniejszości, która nie ma już korzeni i gałęzi, to przeżywać koniec. Tak więc pyszny, zamknięty w swoim własnym małym świecie, nie ma już przeszłości ani przyszłości, nie ma już korzeni ani kiełków i żyje gorzkim smakiem jałowego smutku, który opanowuje serce jak „najtęższy z eliksirów złego ducha”[1]. Pokorny żyje nieustannie kierując się dwoma czasownikami: pamiętać – korzenie – i rodzić, owocem korzeni i gałęzi, i w ten sposób żyje radosną otwartością owocowania.

Pamiętać oznacza etymologicznie „przywracać sercu”, ri-cordare. Życiodajna pamięć o Tradycji, o naszych korzeniach, nie jest kultem przeszłości, ale wewnętrznym gestem, poprzez który nieustannie przywołujemy do serca to, co nas poprzedziło, co przewinęło się przez naszą historię, co nas przywiodło aż do tego miejsca. Pamiętać nie znaczy powtarzać, lecz cenić, ożywiać i z wdzięcznością pozwolić, by moc Ducha Świętego rozpalała nasze serca, tak jak pierwszych uczniów (por. Łk 24, 32).

Jednak, żeby pamiętanie nie stało się więzieniem przeszłości, potrzebujemy jeszcze jednego czasownika: rodzić. Człowiek pokorny – pokorny mężczyzna, pokorna kobieta – troszczy się także o przyszłość, a nie tylko o przeszłość, bo umie patrzeć w przyszłość, umie patrzeć na gałązki, z pamięcią pełną wdzięczności. Osoba pokorna rodzi, zaprasza i popycha ku temu, co nieznane. Pyszny natomiast powtarza, sztywnieje – sztywność jest dewiacją, jest to dewiacja aktualna – i zamyka się w swojej powtarzalności, czuje się pewnie w tym, co zna, a boi się nowego, bo nie może nad nim zapanować, czuje się przez nie wytrącony z równowagi..., bo stracił pamięć.

Człowiek pokorny akceptuje podważanie jego zdania, otwiera się na nowości, a czyni to, ponieważ czuje się silny tym, co go poprzedza, swoimi korzeniami, przynależnością. Jego teraźniejszość jest opanowana przez przeszłość, która otwiera go na przyszłość z nadzieją. W przeciwieństwie do pysznych wie, że ani jego zasługi, ani jego „dobre nawyki” nie są początkiem i fundamentem jego istnienia; dlatego jest zdolny do zaufania; pyszny tego nie ma.

Wszyscy jesteśmy wezwani do pokory, ponieważ jesteśmy wezwani do pamiętania i do rodzenia, jesteśmy wezwani do ponownego odkrycia właściwej relacji z korzeniami i z gałęziami. Bez nich jesteśmy chorzy i skazani na zniknięcie.

Jezus, który przychodzi na świat drogą pokory, otwiera przed nami drogę, wskazuje nam drogę, ukazuje cel.

Drodzy bracia i siostry, jeśli prawdą jest, że bez pokory nie możemy spotkać Boga i nie możemy doświadczyć zbawienia, to prawdą jest również, że bez pokory nie możemy spotkać naszego bliźniego, brata i siostry, żyjących obok nas.

W dniu 17 października rozpoczęliśmy proces synodalny, w który będziemy zaangażowani przez następne dwa lata. Również w tym przypadku, jedynie pokora może nas właściwie usposobić, abyśmy mogli się spotkać i wysłuchać, prowadzić dialog i rozeznawać, aby modlić się razem, jak wskazywał Kardynał Dziekan. Jeśli każdy pozostaje zamknięty we własnych przekonaniach, we własnych doświadczeniach, w skorupie własnych uczuć i myśli, trudno uczynić miejsce dla tego doświadczenia Ducha, które – jak mówi Apostoł – wiąże się z przekonaniem, że wszyscy jesteśmy dziećmi „jednego Boga i Ojca wszystkich, który [jest i działa] ponad wszystkimi, przez wszystkich i we wszystkich” (Ef 4, 6).

„Wszyscy” nie jest słowem wieloznacznym! Klerykalizm, który jako pokusa – dewiacja – wdziera się codziennie między nas, zawsze każe nam myśleć o Bogu, który przemawia tylko do niektórych, podczas gdy inni muszą jedynie słuchać i wypełniać polecenia. Synod chce być doświadczeniem poczucia, że wszyscy jesteśmy członkami większego ludu: Świętego wiernego Ludu Bożego, a zatem uczniami, którzy słuchają i właśnie dzięki temu słuchaniu mogą zrozumieć wolę Bożą, która zawsze objawia się w sposób nieprzewidywalny. Błędem byłoby jednak myśleć, że Synod jest wydarzeniem zarezerwowanym dla Kościoła jako bytu abstrakcyjnego, dalekiego od nas. Synodalność jest stylem, do którego musimy się nawrócić przede wszystkim my, tu obecni,  doświadczający służby Kościołowi powszechnemu poprzez pracę w Kurii Rzymskiej.

Kuria – nie zapominajmy o tym – jest nie tylko narzędziem logistycznym i biurokratycznym dla potrzeb Kościoła powszechnego, ale pierwszym organem powołanym do dawania świadectwa, i dlatego zyskuje coraz większy autorytet i skuteczność, gdy osobiście podejmuje wyzwania nawrócenia synodalnego, do którego jest powołana także i ona. Organizacja, którą musimy wdrożyć, nie ma charakteru korporacyjnego, lecz ewangeliczny.

Dlatego, jeśli Słowo Boże przypomina całemu światu o wartości ubóstwa, to my, członkowie Kurii, musimy jako pierwsi zaangażować się w nawrócenie na umiarkowanie. Jeśli Ewangelia głosi sprawiedliwość, musimy być pierwszymi, którzy starają się żyć w sposób przejrzysty, bez protekcji i kumoterstwa. Jeśli Kościół podąża drogą synodalności, musimy być pierwszymi, którzy przestawią się na inny styl pracy, współpracy, komunii. A jest to możliwe jedynie na drodze pokory. Bez pokory nie możemy tego zrobić.

Podczas otwarcia zgromadzenia synodalnego użyłem trzech kluczowych słów: uczestnictwo, komunia i misja. I rodzą się z pokornego serca: bez pokory nie można zrealizować ani uczestnictwa, ani komunii, ani misji. Te słowa to trzy wymogi, które chciałbym wskazać jako styl pokory, do którego należy dążyć tutaj w Kurii. Trzy sposoby na to, by droga pokory stała się drogą konkretną, wprowadzaną w życie.

Po pierwsze, uczestnictwo. Powinno ono wyrażać się poprzez styl współodpowiedzialności. Oczywiście, w różnorodności ról i posług, obowiązki są różne, ale ważne byłoby, aby każdy czuł, że jest uczestnikiem, współodpowiedzialnym w pracy, a nie tylko przeżywał depersonalizujące doświadczenie realizacji programu ustanowionego przez kogoś innego. Zawsze jestem poruszony, gdy spotykam się z kreatywnością w Kurii – bardzo mi się podoba -, a nierzadko przejawia się ona przede wszystkim tam, gdzie pozostawia się i znajduje przestrzeń dla wszystkich, nawet tych, którzy hierarchicznie wydają się zajmować miejsce poboczne. Dziękuję za te wzorce i zachęcam do pracy, abyśmy byli w stanie wytworzyć konkretną dynamikę, w której wszyscy będą odczuwali, że aktywnie uczestniczą w misji, którą powinni wypełniać. Władza staje się służbą, gdy jest dzielona, gdy angażuje i pomaga w rozwoju.

Drugim słowem jest komunia. Nie wyraża się ona przez większości czy mniejszości, ale rodzi się w sposób istotny z relacji z Chrystusem. Nigdy nie będziemy mieli stylu ewangelicznego w naszych środowiskach, jeśli nie postawimy Chrystusa w centrum, a nie tę, czy inną partię, tę, czy inną opinię: Chrystus w centrum. Wielu z nas pracuje razem, ale to, co umacnia komunię, to także możliwość wspólnej modlitwy, wspólnego słuchania Słowa, budowania relacji, które wykraczają poza zwykłą pracę, i umacniania więzi dobra, więzi dobra między nami, poprzez pomaganie sobie nawzajem. Bez tego grozi nam, że będziemy po prostu ludźmi obcymi, pracującymi razem, konkurentami starającymi się zająć lepsze stanowisko lub, co gorsza, tam gdzie powstają relacje, wydadzą się one zmierzać bardziej w kierunku zmowy w celu osiągnięcia korzyści osobistych, zapominając o wspólnej sprawie, która nas łączy. Zmowa tworzy podziały, tworzy frakcje, tworzy wrogów. Współpraca wymaga wielkości, jaką jest akceptacja własnych ograniczeń i otwartość na pracę zespołową, nawet z tymi, którzy nie myślą tak jak my. W zmowie jesteśmy razem, aby osiągnąć rezultat zewnętrzny. We współpracy pozostajemy razem, ponieważ leży nam na sercu dobro drugiego człowieka, a zatem całego Ludu Bożego, któremu mamy służyć: nie zapominajmy o konkretnym obliczu osób, nie zapominajmy o naszych korzeniach, o konkretnym obliczu tych, którzy byli naszymi pierwszymi nauczycielami w wierze. Paweł mówił do Tymoteusza: „Pamiętaj o twojej mamie, pamiętaj o babci”.

Perspektywa komunii pociąga za sobą jednocześnie uznanie różnorodności, która w nas istnieje jako dar Ducha Świętego. Ilekroć zbaczamy z tej drogi i przeżywamy komunię i uniformizm jako synonimy, osłabiamy i uciszamy życiodajną moc Ducha Świętego obecnego pośród nas. Postawa służby wymaga od nas, powiedziałbym, że wręcz domaga się od nas, wielkoduszności i hojności, aby uznać i przeżywać z radością wielorakie bogactwo Ludu Bożego, a bez pokory nie jest to możliwe. Lubię odczytywać na nowo początek Lumen gentium, te numery 8, 12…: święty, wierny lud Boży. Powracanie do tych prawd, to tlen dla duszy.

Trzecim słowem jest misja. Jest ona tym, co ratuje nas przed zamknięciem się w sobie. Ten, kto jest zamknięty w sobie,  „spogląda z wysoka i z daleka, odrzuca proroctwo braci, dyskwalifikuje stawiającego mu pytania, podkreśla nieustannie błędy innych i jest obsesyjny na punkcie wyglądu. Skierował swe serce ku zamkniętemu horyzontowi swojej immanencji oraz swoich interesów i w rezultacie nie wyciąga nauki ze swoich grzechów ani nie jest prawdziwie otwarty na przebaczenie. To są dwa znaki osoby „zamkniętej”: nie uczy się na swoich grzechach i nie jest otwarta na przebaczenie. Jest to straszliwa korupcja pod pozorem dobra. Należy jej unikać, kierując Kościół na drogę wyjścia poza siebie, misji skoncentrowanej na Jezusie Chrystusie i zaangażowania na rzecz ubogich” (Evangelii gaudium, 97). Tylko serce otwarte na misję sprawia, że wszystko, co robimy ad intra i ad extra, jest zawsze naznaczone odnawiającą mocą powołania Pana. A misja zawsze wiąże się z umiłowaniem ubogich, to znaczy „wybrakowanych”: tych, którym „brakuje” czegoś nie tylko w sensie materialnym, ale także duchowym, uczuciowym i moralnym. Ci, którzy łakną chleba i ci, którzy łakną sensu, są tak samo ubodzy. Kościół jest zaproszony, by wyjść naprzeciw wszystkim biedom i jest wezwany do głoszenia Ewangelii wszystkim, ponieważ wszyscy, w taki czy inny sposób, jesteśmy ubodzy, czegoś nam brakuje. Ale Kościół wychodzi na spotkanie z nimi także dlatego, że nam ich brakuje: brakuje nam ich głosu, ich obecności, ich pytań i dyskusji. Osoba o sercu misjonarza czuje, że brakuje jej brata i z postawą żebraka idzie mu na spotkanie. Misja czyni nas delikatnymi – to ładne: misja czyni nas delikatnymi -, pomaga nam pamiętać o naszym statusie uczniów i pozwala nam wciąż na nowo odkrywać radość płynącą z Ewangelii.

Uczestnictwo, misja i komunia są cechami charakterystycznymi Kościoła pokornego, który słucha Ducha i umieszcza swoje centrum poza sobą. Henri de Lubac powiedział: „Kościół, podobnie jak jego Pan, traktowany jest przez świat jak sługa. I w «postaci sługi» istnieje tu na ziemi [...] Kościół nie jest akademią uczonych, kołem ludzi przebywających na wyżynnych uduchowienia, czy zgromadzeniem geniuszy. Wręcz przeciwnie – garną się do niego wszelkiego rodzaju chromi, ułomni, ubodzy oraz mnóstwo  ludzi przeciętnych [...]. Natomiast człowiek naturalny, nie «nawrócony» jeszcze w tajnikach swego wnętrza, może z trudem – jeśli w ogóle może – rozpoznać w podobnym fakcie spełnienie zbawczej Kenozy, i godny uwielbienia ślad «Bożej pokory»” (Medytacje o Kościele, Kraków 1997, s. 248).

Na zakończenie chciałbym życzyć wam, a przede wszystkim sobie samemu, abyśmy pozwolili się ewangelizować pokorą, pokorą Bożego Narodzenia, pokorą szopki, ubóstwem i prostotą, w jakiej Syn Boży przyszedł na świat. Nawet Magowie, którzy, jak można sądzić, pochodzili z bardziej zamożnych środowisk niż Maryja i Józef, czy pasterze betlejemscy, oddają pokłon, gdy znajdują się przed Dzieciątkiem (por. Mt 2, 11). Upadli na twarz. To nie jest tylko gest adoracji, jest to gest pokory. Magowie stają na wysokości Boga, padając na gołej ziemi. I ta kenoza, to zstąpienie, ta synkatabasis jest tym samym, którego Jezus dokona w ostatni wieczór swojego ziemskiego życia, kiedy  „wstał od wieczerzy i złożył szaty. A wziąwszy prześcieradło, nim się przepasał. Potem nalał wody do misy. I zaczął obmywać uczniom nogi i ocierać prześcieradłem, którym był przepasany” (J 13, 4-5). Konsternacja spowodowana tym gestem wywołuje reakcję Piotra, ale w końcu sam Jezus daje uczniom właściwy klucz do zrozumienia: „Wy Mnie nazywacie «Nauczycielem» i «Panem», i dobrze mówicie, bo nim jestem. Jeżeli więc Ja, Pan i Nauczyciel, umyłem wam nogi, to i wy powinniście sobie nawzajem umywać nogi. Dałem wam bowiem przykład, abyście i wy tak czynili, jak Ja wam uczyniłem” (J 13, 13-15).

Drodzy bracia i siostry, pamiętając o naszym trądzie, unikając logiki światowości, która pozbawia nas korzeni i gałęzi, pozwólmy się ewangelizować pokorze Dzieciątka Jezus. Jedynie służąc i jedynie myśląc o naszej pracy jako o służbie, możemy być naprawdę użyteczni dla wszystkich. Jesteśmy tutaj – ja jako pierwszy – aby nauczyć się klęczeć i wielbić Pana w Jego pokorze, a nie innych panów w ich pustym przepychu. Jesteśmy jak pasterze, jesteśmy jak Magowie, jesteśmy jak Jezus. Oto lekcja Bożego Narodzenia: pokora jest wspaniałym stanem wiary, życia duchowego, świętości. Niech Pan obdarzy nas tym darem, poczynając od pierwotnego przejawu Ducha w nas: pragnienia. Możemy przynajmniej zacząć pragnąć tego, czego nie mamy. I prosić Pana o łaskę pragnienia, o to, żeby stać się mężczyznami i kobietami wielkich pragnień. A pragnienie jest już Duchem działającym w każdym z nas.

Życzę wam wszystkim dobrych Świąt Bożego Narodzenia! I proszę, abyście się za mnie modlili. Dziękuję!

Na pamiątkę tych Świąt chciałbym zostawić jakąś książkę... Ale żeby ją przeczytać, a nie zostawiać w bibliotece, dla naszych tych, którzy otrzymają spadek! Przede wszystkim jedną wielkiego teologa, nieznanego, bo zbyt skromnego, podsekretarza Kongregacji Nauki Wiary, prałata Armando Matteo, która traktuje o zjawiskach społecznych i o tym, jak one prowokują duszpasterstwo. Nosi tytuł Nawrócić Piotrusia Pana. O losie wiary w tym społeczeństwie wiecznej młodości [Convertire Peter Pan. Sul destino della fede in questa società dell’eterna giovinezza]. To prowokacyjne, jest dobre. Druga, to książka o drugorzędnych lub zapomnianych postaciach Biblii, autorstwa ks. Luigiego Marii Epicoco: Kamień odrzucony [La pietra scartata], z podtytułem: Kiedy zapomniani są zbawieni [Quando i dimenticati si salvano]. To ładne. Do medytacji, do modlitwy. Gdy to czytałem, przyszła mi na myśl historia Naamana Syryjczyka, o której mówiłem. A trzecia jest autorstwa Nuncjusza Apostolskiego, Fortunatusa Nwachukwu, którego dobrze znacie. Podjął refleksję nad plotkarstwem i podoba mi się to, co ukazał: że plotkowanie powoduje „roztopienie się” tożsamości. Zostawiam wam te trzy książki i mam nadzieję, że pomogą nam wszystkim iść naprzód. Dziękuję! Dziękuję za waszą pracę i waszą współpracę. Dziękuję.

I prosimy Matkę pokory, aby nauczyła nas być pokornymi: "Zdrowaś Maryjo..."

[Błogosławieństwo]

____________

[1] G. Bernanos, „Pamiętnik wiejskiego proboszcza”, tłum. Wacław Rogowicz, Warszawa 1961, s. 112.

[01848-PL.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua araba

كلمة قداسة البابا فرنسيس

إلى الكوريا الرومانية

في مناسبة عيد الميلاد المجيد

الخميس 23 كانون الأوّل/ديسمبر 2021

أيّها الإخوة والأخوات الأعزاء، صباح الخير!

كما هو الحال في كلّ سنة، إنَّا نلتقي معًا يومين قبل عيد الميلاد. إنّها طريقة لنعبّر بها ”بصوت عالٍ“ عن أخُوّتنا، من خلال تبادل التهاني بالأعياد الميلادية، ولكنّها أيضًا لحظة تفكير ومراجعة لكلّ واحد منا، حتّى يبيّن لنا نور الكلمة المتجسّد بشكلٍ أفضل من نحن وما هي رسالتنا.

كلّنا نعلم أنّ: سرّ الميلاد المجيد هو سرّ الله الذي جاء إلى العالم متَّخذًا طريق التواضع. الله تجسّد: هذا التّنازُل الكبير. وفي هذا الوقت يبدو أنّ التواضع قد نُسي، أو يبدو أنّه صار يُنظَر إليه كأنّه شكل من أشكال التزمت الأخلاقي، وقد أُفرغ من القوّة المدويّة التي فيه.

لكن إن أردنا أن نعبّر عن سرّ عيد الميلاد كلّه في كلمة واحدة، أعتقد أنّ كلمة التواضع هي الكلمة المناسبة التي تساعدنا على ذلك. تكلّمنا الأناجيل على مشهد فقير، زاهد، غير مناسب لاستقبال امرأة على وشك أن تلد. ومع ذلك، فإنّ ملك الملوك جاء إلى العالم لا بطريقة تلفت الانتباه، لكن فيه قوّة جذب غامضة تحرّك قلوب الذين يشعرون بالحضور المدوّي لأمر جديد على وشك أن يغيّر التاريخ. لهذا يعجبني أن أفكّر وأقول أنّ التواضع هو الباب الذي دخل منه ويدعونا، كلّنا، إلى دخوله. تتبادر إلى ذهني تلك المرحلة من الرّياضة الروحيّة: لا يمكننا أن نمضي قدمًا من دون تواضع، ولا يمكننا أن نمضي قدمًا في التواضع من دون الذّلّ. وقال لنا القدّيس أغناطيوس أن نطلب الذّلّ.

ليس من السهل أن نفهم ما هو التواضع. إنّه نتيجة التغيير الذي يحدثه الرّوح نفسه فينا من خلال التاريخ الذي نعيشه، كما حدث مثلًا لنعمان السوري (راجع الملوك الثاني 5). كان هذا الشخص ذا شهرة واسعة في زمن النبي إليشع. كان قائدًا شجاعًا في الجيش الآرامي، وقد أظهر بسالته وشجاعته في مناسبات عديدة. ولكن مع الشهرة والقوّة والاحترام والتكريم والمجد، كان هذا الرجل مجبرًا على أن يعيش مأساة مروعة: كان أبرص. درعه، أساس سمعته، كان يخفي فيه في الواقع إنسانية ضعيفة وجريحة ومريضة. غالبًا ما نجد هذا التناقض في حياتنا: المواهب الكثيرة فينا هي الدرع الذي يغطي نقاط ضعف كثيرة.

فهم نعمان حقيقة أساسيّة وهي: لا يمكن أن يقضي حياته وهو مختبئ وراء درع أو مهمة أو شهرة في المجتمع، لأنّه في النّهاية يسبّب الألم. تأتي لحظة، في حياة كلّ واحد، لا يريد فيها أن يعيش بعد مختبئًا خلف مجد هذا العالم، بل يريد أن يعيش حياته كاملة صادقة، دون الحاجة إلى دروع وأقنعة. دفعت هذه الرغبة هذا القائد الشجاع نعمان لينطلق ويبحث عن شخص يمكنه أن يساعده، وقد فعل ذلك بناءً على اقتراح من عبدة، عبرانية أسيرة حرب، روت له عن إله قادر أن يشفي مثل هذه التناقضات.

تزود بالفضة والذهب، وانطلق في رحلته حتى وصل أمام النبي أليشع. وطلب أليشع من نعمان، شرطًا وحيدًا لشفائه، فقط أن يخلع ثيابه ويغتسل سبع مرات في نهر الأردن. لا سمعة ولا شرف ولا ذهب ولا فضة! نعمة الخلاص مجانية، ولا يمكن حصرها في أي شيء ثمين في هذا العالم.

رفض نعمان هذا الطلب، وبدا له تافهًا للغاية، وبسيطًا للغاية، وسهل المنال جدًّا. يبدو أن قوّة البساطة لم يكن لها مكان في مخيلته. لكن كلمات عبيده جعلته يغيّر رأيه، إذ قالوا له: "لَو أَمَرَكَ النَّبِيُّ بِأَمرٍ عَظِيم، أَما كُنتَ تَفعَلُه؟ فكَيفَ بِالأَحْرى وقد قالَ لَك: اِغتسِلْ وآطهُرْ" (الملوك الثاني 5، 13). استسلم نعمان، وتواضع و”نزل“، وخلع درعه، ونزل في مياه الأردن، "فعادَ لَحمُه كَلَحمِ صَبِيِّ صَغيرٍ وطَهُر" (الملوك الثاني 5، 14). الدرس كبير! تواضَعَ فكشف عن إنسانيته، بحسب كلام الله، وهذا ما جعل نعمان ينال الشفاء.

تذكرنا قصة نعمان أنّ عيد الميلاد هو الوقت الذي يجب أن يتحلّى فيه كلّ واحد منا بالشجاعة لخلع درعه، وللتجرّد من لفائف المناصب والمهام، وصورته في المجتمع، وبريق مجد هذا العالم، وأن يقبل بنفسه كما هو في تواضعه. يمكننا أن نقوم بذلك بناءً على مثال أبلغ وأكثر إقناعًا، ومن صاحب سلطان، وهو مثال ابن الله، الذي لم يتهرّب من التواضع بـ”نزوله“ في تاريخنا، فأصبح إنسانًا، وأصبح طفلاً، ضعيفًا، ملفوفًا بقُمُط ومُضجَعًا في مذود (راجع لوقا 2، 16). بعد أن نخلع ثيابنا وامتيازاتنا وأدوارنا وألقابنا، نصبح جميعًا بُرصًا، جميعنا، وبحاجة إلى شفاء. عيد الميلاد هو الذكرى الحيّة لهذا الوعي، وهو يساعدنا على أن ندركه بشكلٍ أعمق.

أيّها الإخوة والأخوات الأعزّاء، إذا نسينا إنسانيتنا، فإنّنا نعيش فقط من مجد ”دروعنا“، لكن يسوع يذكّرنا بحقيقة مزعجة ومقلقة وهي: ”ماذا يَنفَعُ أن تربح العالَمَ كُلَّه إذا خَسِرت نَفْسَك؟“ (راجع مرقس 8، 36).

هذه هي التجربة الخطيرة - التي ذكرتها في مناسبات أخرى – ”روحيّة دنيوية“، وهي، عكس كلّ التجارب الأخرى، يصعب كشفها، لأنّها مغطاة بكلّ ما يجب أن نقوم به عادة: وظيفتنا ودورنا، والليتورجيا، والعقيدة، والتديّن. كنت قد كتبت في الإرشاد الرسولي، فرح الانجيل: «في هذا السياق، يتغذّى المجد الباطل لهؤلاء الذين يكتفون ببعض السلطة ويفضّلون أن يكونوا قوّاد جيوش مهزومة، أكثر من أن يكونوا جنودًا بسطاء في فيلق يتابع المعركة. كم مرة حلمنا بخطط رسوليّة، توسُّعيّة، وُضِعت بدقة، على مثال خطط الجنرالات المهزومين! وهكذا ننكر تاريخنا الكنسي المجيد، أنّه تاريخ تضحيات ورجاء وجهاد يومي، وحياة مبذولة في الخدمة، ومثابرة على العمل الشاق، لأنّ كلّ عمل يُنجز بعرق الجبين. بدل ذلك، نقف مغرورين ونتكلّم على ”ما كان يجب أن يُعمل“ – هذه الخطيئة: ”ما كان يجب أن يُعمل“ – ونتكلّم كمعلمين روحيين ومختصين في العمل الراعوي، نوزع تعليماتنا فيما نبقى خارجًا. نغذّي مخيّلتنا، إلى ما لا نهاية، ونفقد التواصل مع الواقع الصّعب الذي يوجد فيه شعبنا الأمين" (رقم 96).

التواضع هو القدرة على المعرفة كيف نعيش إنسانيتنا دون يأس، وبواقعية وفرح ورجاء، أن نعيش إنسانيتا هذه التي أحبّها الله وباركها. التواضع هو أن نفهم أنّنا ينبغي ألّا نخجل من ضعفنا. علّمنا يسوع أن ننظر إلى بؤسنا بنفس الحبّ والحنان اللذَين ننظر بهما إلى طفل صغير ضعيف يحتاج إلى كلّ شيء. بدون التواضع سنبحث عن الطمأنينة، وربما سنجدها، لكنّنا بالتأكيد لن نجد ما يخلصنا، ما يمكن أن يشفينا. التطمينات هي أكثر الثمار فسادًا في ”روحيّة دنيويّة“، إنّها تكشف عن نقص في الإيمان والرجاء والمحبّة، وتصبح عجزًا فينا فلا نقدر أن نميّز حقيقة الأشياء. لو استمر نعمان في جمع الميداليات فقط ليضعها على درعه، لكان مرض البرص قد التهمه في النهاية: في الظاهر كان حيًّا، نعم، لكنّه كان منغلقًا ومعزولًا في مرضه. لكنّه بحث بشجاعة عما يمكن أن يخلصه وليس عما يزيد مجده الآني.

نَعلم جميعًا أنّ الكبرياء هي نقيض التواضع. آية النبي ملاخي، والتي أثّرت بي كثيرًا، تساعدنا لنفهم الفرق بين طريق التواضع وطريق الكبرياء: "فيَكونُ جَميع المُتَكَبِّرينَ وجَميعُ صانِعي الشَّرِّ قشّاً، فيُحرِقهمُ اليَومُ الآتي، قالَ رَبُّ القُوَّات، حتَّى لا يُبقِيَ لَهم أَصلاً ولا غُصناً" (3، 19).

استخدم النبي صورة ملهمة تصف الكبرياء جيدًّا: تقول الآية إنّ الكبرياء مثل القش. وعندما تأتي النار، يصبح القش رمادًا، ويحترق، ويختفي. وتقول لنا أيضًا إنّ الذين يعيشون معتمدين على الكبرياء يجدون أنفسهم محرومين من أهم الأشياء فيهم وهي: الجذور والبراعم. الجذور هي ارتباطنا الحيوي بالماضي الذي منه نأخذ ماوية الحياة لنكون قادرين أن نعيش في الحاضر. أمّا البراعم فهي الحاضر الذي لا يموت، بل تصبح الغد، وتصبح المستقبل. البقاء في حاضر لا جذور له ولا براعم يعني أنّنا نعيش النهاية. وهذا هو المتكبّر، المنغلق في عالمه الصغير، لم يعد له ماضٍ ولا مستقبل، ولم يعد له جذور ولا براعم ويعيش مرارة الحزن العقيم الذي يسيطر على القلب "وهو أفضل إكسير للشيطان"[1]. من ناحية أخرى، يعيش المتواضع مسترشدًا بصورة ثابتة من فعلين: يتذكّر - الجذور - ويلد، ثمار الجذور والبراعم، وبالتالي يعيش انفتاح الخصوبة الفرح.

أن نتذكّر: اللفظة الإيطالية ”Ricordare“ تعني ”العودة إلى القلب“، أن نتذكّر. إنّ الذاكرة الحية للتقليد والجذور، ليست عبادة للماضي، ولكنّها حركة في داخل النفس تعيد بصورة ثابتة إلى القلب ما سبقنا، وما مرَّ به تاريخنا، وما أتى بنا إلى هنا. أن نتذكّر لا يعني أن نكرّر، بل أن نثمِّن، ونُحيِي، وأن نسمح ونشكر لقوّة الرّوح القدس أن يضرم قلوبنا، كما أضرم قلوب التلاميذ الأوائل (راجع لوقا 24، 32).

وحتّى لا يصبح التذكّر سجنًا في الماضي، نحن بحاجة إلى فعل آخر وهو: وَلَدَ. المتواضع – الرجل المتواضع، والمرأة المتواضعة - يهتم أيضًا للمستقبل، وليس للماضي فقط، لأنّه يعرف أن ينظر إلى الأمام، ويعرف أن ينظر إلى البراعم، بذاكرة مليئة بالشكر. المتواضع يلِد ويدعو ويدفع نحو المجهول. عكس ذلك المتكبّر، فهو يكرّر ويتصلّب – التصلّب هو رذيلة، رذيلة آنية - وينغلق في تكراره، فهو يشعر بالاطمئنان والأمان في ما يعرفه، ويخشى الجديد لأنّه لا يستطيع أن يسيطر عليه، ويشعر بالاضطراب أمامه... لأنّه فقد ذاكرته.

المتواضع يقبل المناقشة، وينفتح على ما هو جديد ويفعل ذلك لأنّه يشعر بنفسه أنّه قويّ بما سبقه، بجذوره وانتمائه. حاضره يَسكُنُه ماضٍ يفتحه على المستقبل وعلى الرجاء. وعلى عكس المتكبّر، فهو يعرف أنّه لا استحقاقاته ولا ”عاداته الحسنة“ هي مبدأ حياته وأساسها، لذلك فهو قادر أن يثق، بينما المتكبّر غير قادر أن يثق.

نحن جميعًا مدعوون إلى التواضع لأنّنا مدعوون إلى أن نتذكّر وأن نلِد، ونحن مدعوون إلى أن نجد من جديد العلاقة الصحيحة مع الجذور والبراعم. وبدونها نحن مرضى ومصيرنا أن نختفي.

يسوع، الذي جاء إلى العالم بطريق التواضع، فتح لنا طريقًا، ودلَّنا على أسلوب حياة، وبيّن لنا هدفًا.

أيّها الإخوة والأخوات الأعزّاء، إذا كان صحيحًا أنّه بدون التواضع لا يمكن أن نلتقي بالله، ولا يمكن أن نختبر الخلاص، فمن الصحيح أيضًا أنّه بدون التواضع لا يمكن حتى أن نلتقي بالقريب وبالأخ وبالأخت الذين يعيشون بجوارنا.

في 17 تشرين الأوّل/أكتوبر الماضي، بدأنا المسيرة السينوديّة التي ستَشغَلُنا في السنتين القادمتين. في هذه الحالة أيضًا، يمكن أن يضعنا التواضع في الوضع المناسب لنكون قادرين على أن نلتقي ونصغي، وأن نتحاور ونميّز بين الأمور، وأن نصلّي معًا، مثلما أشار الكاردينال عميد مجمع الكرادلة. إن بقِيَ كلّ واحد منغلقًا في قناعاته الخاصة، وفي خبرته الخاصة، وفي ما يعيشه هو وحده، وفي غلاف إحساساته وتفكيره، فمن الصعب أن نفسح المجال لاختبار الرّوح المرتبط، بحسب قول الرسول، بقناعتنا بأنّنا جميعًا أبناء "إِلهٍ واحِدٍ أَبٍ لِجَميعِ الخَلْقِ وفوقَهم جَميعًا، يَعمَلُ بِهم جَميعًا وهو فيهِم جَميعًا" (أفسس 4، 6).

كلمة ”جميعًا“ ليست كلمة لا نقدر أن نفهمها! لكن روح التسلط الإكليريكي - الرّذيلة - التي تتغلغل فينا يوميًّا وتجرّبنا، تجعلنا نفكّر دائمًا في إلهٍ يتكلّم إلى بعض الأشخاص فقط، بينما يجب على الآخرين فقط الاستماع والتّنفيذ. يريد السّينودس أن يكون الخبرة التي تجعلنا نشعر بأنّنا جميعًا أعضاء في شعب أكبر: شعب الله المقدّس الأمين، ومن ثمّ تلاميذ يصغون، وبفضل هذا الإصغاء بالتّحديد، يمكنهم أيضًا أن يفهموا إرادة الله، التي تظهر دائمًا بطريقة غير متوقّعة. ولهذا، من الخطأ أن نعتقد أنّ السّينودس هو حدث مخصّص للكنيسة، باعتبارها شيئًا تجريديًا، وبعيدًا عنّا. السّينوديّة هي أسلوب يتطلب منا أن نبدّل أنفسنا ونجعله أسلوب حياتنا، خصوصًا نحن الموجودين هنا ونعيش خبرة الخدمة في الكنيسة الجامعة من خلال العمل في الكوريا الرومانية.

ولا ننسَ أنّ الكوريا ليست أداة لوجستيّة وبيروقراطيّة لاحتياجات الكنيسة الجامعة فقط، بل هي أوّل هيئة مدعوّة إلى الشهادة، ولهذا بالتّحديد تكتسب المزيد من السُّلطة والفعّاليّة، عندما تواجه شخصيًّا تحدّيات التحوّل السّينودي التي هي أيضًا مدعوّة إليه. المنظّمة التي علينا أن نحقّقها ليست ذات طبيعة تجاريّة، بل ذات طبيعة إنجيليّة.

لهذا، إن كانت كلمة الله تذكِّر العالم كلّه بقيمة الفقر، يجب علينا، نحن أعضاء الكوريا، أن نكون أوّل من يلتزم بالفقر والارتداد إلى حياة قانعة. وإن أعلن الإنجيل العدالة، فيجب علينا أن نكون أوّل من يحاول أن يعيشها بشفافيّة، من دون محسوبيّات وتجمُّعات. وإذا كانت الكنيسة تتبع طريق السّينوديّة، فيجب علينا أن نكون أوّل من يتحوّل إلى أسلوب مختلف من العمل، والتّعاون، والشّركة. وهذا ممكن فقط إن سلكنا طريق التّواضع. ومن دون التواضع لا يمكننا أن نفعل هذا.

خلال افتتاح السّينودس، استخدمت ثلاث كلمات-مفتاح للسّينودس وهي: شركة، ومشاركة، ورسالة. ونشأوا من قلب متواضع: فمن دون التواضع لا يمكننا أن نفعل شركة، ولا مشاركة ولا رسالة. هذه الكلمات هي أمور ثلاثة ضرورية أودّ أن أقدّمها لتكون نهجًا للتواضع الذي يجب أن نسعى إلى تحقيقه هنا في الكوريا. ثلاثة أساليب تجعل طريق التّواضع طريقًا عمليًّا يجب تطبيقه.

أوّلًا الشّركة. يجب أن نعبّر عنها من خلال أسلوب المسؤوليّة المشتركة. بالتّأكيد، تختلف المسؤوليّات بتنوّع الوظائف والخِدمات، لكن من المهمّ أن يشعر كلّ واحدٍ أنّه مشارك في المسؤوليّة عن العمل، لكن من دون أن نصل إلى خبرة إلغاء المسؤولية الشخصيّة في تنفيذ برنامج حدّده شخص آخر. أُفاجَأ دائمًا عندما أجد إبداعًا في الكوريا – يُعجبني جدًّا -، وليس من النادر أن يظهر ذلك، خصوصًا حيث يُترك المجال للجميع، ويوجد في الواقع مجال للجميع، حتّى للذين يبدو أنّهم يشغلون مكانًا هامشيًّا، بحسب الترتيب الوظيفي. أشكركم على هذه الأمثلة – أنا أجدها، وهي تُعجبني -، وأشجّعكم على العمل، حتّى نتمكّن من إيجاد ديناميّات عمليّة، فيها يشعر الجميع أنّهم مشاركون فاعلون في الرّسالة التي عليهم القيام بها. تصبح السُّلطة خدمة، عندما يكون فيها تقاسُم ومشاركة ومساعدة على النّمو.

الكلمة الثّانية هي المشاركة. ولا يُعبَّر عنها بالأكثريّة أو الأقلّيّة، فهي تولد أساسًا من العلاقة مع المسيح. لن يكون لدينا أبدًا أسلوب إنجيلي في كلّ أعمالنا، إن لم يكن المسيح هو محور كلّ شيء، وليس هذا الحزب أو ذاك، أو هذا الرّأي أو ذاك، بل المسيح هو محور كلّ شيء. يعمل كثيرون منّا معًا، ولكن ما يقوّي المشاركة هو أيضًا قدرتنا على أن نصلّي معًا، ونصغي إلى الكلمة معًا، ونبني علاقات تتجاوز العمل وحده وتقوّي أواصر الخير، أواصر الخير بيننا، بمساعدة بعضنا البعض. من دون هذا، نجازف أن نكون فقط غرباء يتعاونون، ومتنافسين يحاولون تثبيت أنفسهم بشكل أفضل، أو أسوأ من ذلك، إن نشأت علاقات تميل بالأحرى إلى التواطؤ من أجل المصالح الشّخصيّة، وننسى القضيّة المشتركة التي تجمعنا معًا. يخلق التواطؤ انقسامات، وتحزبات وأعداء. ويتطلّب التعاون أن نكون كبارًا في القلب فندرك التحيّز في أنفسنا ونتجاوزه بالانفتاح على العمل الجماعي، حتّى على الذين لا يفكّرون مثلنا. في التواطؤ نكون معًا حتّى نحصل على نتيجة خارجيّة. وفي التّعاون نكون معًا لأنّنا نهتمّ بخير الآخر، وبخير شعب الله كلّه الذي نحن مدعوّون إلى خدمته. لا ننسَ الوجه المحسوس للأشخاص، ولا ننسَ جذورنا، ولا الوجه المحسوس للذين كانوا أوّل معلّمين لنا في الإيمان. قال بولس الرّسول لطيموتاوس: ”تذكّر أمّكَ، وتذكّر جدّتك“.

يقتضي منظور المشاركة، في الوقت نفسه، أن نعترف بالتّنوع الذي فينا وهو هبة من الرّوح القدس. وفي كلّ مرّة نبتعد فيها عن هذا الطريق ونعيش المشاركة والتسوية (أي إزالة الفروق الشخصيّة) على أنّها مرادفات، فإنّنا نُضعف ونُسكِت قوّة الرّوح القدس المُحيي في وسطنا. موقف الخدمة يطلب منا، بل يفرض علينا، السّماحة والسّخاء فنعترف بِغِنَى شعب الله المتعدّد الأشكال ونعيش هذا التعدّد بفرح. وهذا غير ممكن من دون تواضع. يفيدني جدًّا أن أعيد قراءة بداية الدّستور العقائدي نور الأمم، من الفقرات 8، 12...: شعب الله المقدّس والأمين. إنّه أوكسجين للنّفس أن نستعيد هذه الحقائق.

الكلمة الثّالثة هي الرّسالة. إنّها الكلمة التي تخلصنا من الانطواء على أنفسنا. من ينطوي على نفسه "يتطلّع من علُ ومن بعيد، إنّه يرفض نبوءة الإخوة، ويزدري من يطرح عليه سؤالًا، ويركّز باستمرار على أخطاء الآخرين، وهو مهووس بالمظاهر. ولقد قلّص مرجعيّة القلب إلى أفق مغلقة لذاته ولمصالحه، وبالتّالي، فإنّه لا يتعلّم من خطاياه ولا ينفتح حقًّا على الغفران. هاتان هما العلامتان للشّخص المنغلق على نفسه: لا يتعلّم من خطاياه ولا ينفتح حقًّا على الغفران. إنّه فسادٌ كبير ظاهره صلاح. من الواجب تجنّب ذلك، بوضع الكنيسة في حركة خروج من الذات، وفي حركة إرساليّة مركّزة على يسوع المسيح، والتزام نحو الفقراء" (راجع الإرشاد الرّسولي، فرح الإنجيل، 97). القلب المنفتح على الرّسالة فقط، يجعل كلّ ما نعمله في الدّاخل وفي الخارج يتميّز دائمًا بالقوّة المتجدّدة لدعوة الرّبّ يسوع. وتتضمّن الرّسالة دائمًا حبًّا مندفعًا إلى الفقراء، أي الذين يفتقرون إلى شيء ما: ليس فقط من النّاحية الماديّة، ولكن أيضًا من النّاحية الرّوحيّة، والعاطفيّة، والأخلاقيّة. الجياع إلى الخبز والجياع إلى معنى الحياة هم فقراء على حدٍّ سواء. الكنيسة مدعوّة إلى الذهاب لملاقاة جميع أشكال الفقر، ومدعوّة إلى أن تعظ الجميع بالإنجيل، لأنّنا جميعًا فقراء بطريقة أو بأخرى، وينقصنا شيء ما. وتذهب الكنيسة أيضًا إلى لقائهم، لأنّنا نفتقدهم: نفتقد صوتهم، وحضورهم، وأسئلتهم ومناقشاتهم. الإنسان الذي يحمل الرسالة في قلبه يشعر بغياب أخيه، فيذهب إلى لقائه بموقف المتسوّل. الرّسالة تجعلنا ضعافًا – هذا جميل، الرّسالة تجعلنا ضعافًا -، وتساعدنا على أن نتذكّر حالتنا أنّنا تلاميذ، وتسمح لنا بأن نكتشف دائمًا فرح الإنجيل.

المشّاركة والرّسالة والشركة هي سمات كنيسة متواضعة، تصغي إلى الرّوح القدس، وتضع مركزها خارج ذاتها. قال هنري دي لوباك: "في نظر العالم، الكنيسة، مثل الرّبّ يسوع، لها دائمًا مظهر العبد. إنّها هنا على الأرض في هيئة خادم. [...] وهي ليست أكاديميا للعلماء، ولا منتدىً لنخبة من الرّوحانيّين، ولا جمعيّة لأناس نوابغ. بل هي العكس تمامًا. يحتشد فيها المخلَّعون، والمشوّهون، والبائسون من كلّ الفئات، ويزدحم فيها الفاترون [...]، من الصّعب، بل من المستحيل، للإنسان الطّبيعي، ما لم يَحدُث فيه تحوّل جذري، أن يرى أنّ هذا الواقع هو اكتمال لإخلاء الذّات الخلاصي (kenosi)، الأثر الرائع لتواضع الله" (تأمّلات في الكنيسة، 352).

أريد في الختام أن أتمنّى لكم ولي أوّلاً، أن نسمح لأنفسنا بأن نقبل إنجيل التواضع، تواضع عيد الميلاد المجيد، وتواضع المغارة، والفقر والصورة الجوهريّة التي بها دخل ابن الله إلى العالم. حتّى المجوس، الذين يمكننا أن نفكّر بالتّأكيد، أنّهم جاؤوا من حالة ميسورة أكثر من مريم ويوسف أو من رعاة بيت لحم، سجدوا عندما وجدوا أنفسهم في حضرة الطّفل (راجع متّى 2، 11). سجدوا. وليس سجودهم مجرّد فعل عبادة، بل هو فعل تواضع. وضع المجوس أنفسهم أمام الله فسجدوا على الأرض الجرداء. وإخلاء الذات هذا (kenosi)، وهذا النزول، هو نفسه الذي سيقوم به يسوع أيضًا في آخر ليلة من حياته على الأرض، عندما "قامَ عنِ العَشاءِ فخَلَعَ ثِيابَه، وأَخَذَ مِنديلاً فَائتَزَرَ بِه، ثُمَّ صَبَّ ماءً في مَطهَرَةٍ وأَخَذَ يَغسِلُ أَقدامَ التَّلاميذ، ويَمسَحُها بِالمِنديلِ الَّذي ائْتَزَرَ بِه" (يوحنّا 13، 4-5). الذهول الذي تثيره هذه الحركة أثار مقاومة بطرس، ولكن في النّهاية يسوع نفسه أعطى تلاميذه التّفسير الصحيح، قال: "أَنتُم تَدعونَني «المُعَلِّمَ والرَّبّ» وأَصَبتُم في ما تَقولون، فهكذا أَنا. فإِذا كُنتُ أَنا الرَّبَّ والمُعَلِّمَ قد غَسَلتُ أَقدامَكم، فيَجِبُ علَيكُم أَنتُم أَيضًا أَن يَغسِلَ بَعضُكم أَقدامَ بَعْض. فقَد جَعَلتُ لَكُم مِن نَفْسي قُدوَةً لِتَصنَعوا أَنتُم أَيضًا ما صَنَعتُ إِلَيكم" (يوحنّا 13، 13-15).

أيّها الإخوة والأخوات الأعزّاء، لنتذكّرْ مرض البرص فينا، ولننبذ منطق العالم الذي يحرمنا من الجذور والبراعم، ولنسمح لأنفسنا بأن نقبل إنجيل تواضع الطفل يسوع. بالخدمة فقط، وبرؤيّة عملنا أنّه خدمة، يمكننا حقًا أن نكون مفيدين للجميع. نحن هنا - وأنا أوّلًا - لنتعلّم أن نركع ونسجد لله في تواضعه، وليس لأسياد آخرين في فخامتهم الفارغة. نحن مثل الرعاة، نحن مثل المجوس، نحن مثل يسوع. هذا هو درس عيد الميلاد: التواضع هو الشرط الأوّل للإيمان وللحياة الرّوحيّة وللقداسة. ليمنحنا إياه الله، وليمنحنا أوّل ظهور للرّوح فينا وهو: أن نريد. فما ليس لدينا، يمكننا على الأقل أن نبدأ فنريده ونرغب فيه. وأن نطلب من الرّبّ يسوع النّعمة لنستطيع أن نرغب، وأن نصير رجالًا ونساءً لديهم رغبات كبيرة. الرغبة هي حقًا الرّوح الذي يعمل في داخل كلّ واحد منا.

عيد ميلاد مجيد للجميع! وأطلب منكم أن تصلّوا من أجلي. شكرًا!

أودّ أن أترك لكم بعض الكتب، تذكارًا لعيد الميلاد المجيد... ولكن حتّى تقرأوهم، وليس لتتركوهم في المكتبة، للذين سيرثوننا! أوّلًا، الكتاب الأوّل هو للاهوتيّ كبير، وهو غير معروف لأنّه متواضع جدًّا، وهو وكيل في مجمع العقيدة والإيمان، المونسنيور أرماندو ماتّيو، الذي فكّر قليلًا في ظاهرة اجتماعيّة وكيف يمكنها أن تحرّض على الأمور الرعويّة. اسم الكتاب هو: اهتداء بيتر بان، في مصير الإيمان في هذا المجتمع من الشّباب الدائم. إنّه عنوان استفزازيّ، وهو جيّد. الكتاب الثّاني هو كتاب عن شخصيّات ثانويّة أو منسيّة في الكتاب المقدّس، وهو للأب لويجي ماريّا أبيكوكو. اسم الكتاب هو: الصخرة المهملة، والعنوان الثانوي هو: عندما يخلص المنسيّون. إنّه جميل. وهو للتأمّل، وللصّلاة. عندما كنتت أقرأ هذا الكتاب، تبادرت إلى ذهني قصّة نعمان السوري الذي تكلّمت عليه. والكتاب الثّالث هو للسّفير البابوي، سيادة المطران فورتوناتوس نواشوكوا، وأنتم تعرفونه جيّدًا. لقد قدّم تأمّلًا في موضوع الثّرثرة، وأعجبني ما قد وصفه، وهو: أنّ الثّرثرة تجعل الهويّة ”تنصهر“. أترك لكم هذه الكتب الثّلاثة، وأتمنّى أن تساعدنا كلّنا في المضي قدمًا. شكرًا! شكرًا لعملكم ولتعاونكم. شكرًا.

ولنطلب من مريم أمّ التواضع أن تعلّمنا أن نكون متواضعين. ”السّلام عليكِ يا مريم...“

[البركة الختاميّة]

______________

[1] G. Bernanos, Journal d’un curé de campagne, Paris 1974, 135.

[01848-AR.02] [Testo originale: Italiano]

 

[B0875-XX.02]