Sala Stampa

www.vatican.va

Sala Stampa Back Top Print Pdf
Sala Stampa


Udienza del Santo Padre alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, 21.12.2020


Discorso del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Questa mattina, nell’Aula della Benedizione, il Santo Padre Francesco ha ricevuto in Udienza i Cardinali e i Superiori della Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi.

Nel corso dell’incontro, il Papa ha rivolto alla Curia Romana il discorso che riportiamo di seguito:

Discorso del Santo Padre

Cari fratelli e sorelle,

1. Il Natale di Gesù di Nazaret è il mistero di una nascita che ci ricorda che «gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire, ma per rincominciare»,[1] come osserva in maniera tanto folgorante quanto incisiva Hannah Arendt, la filosofa ebrea che rovescia il pensiero del suo maestro Heidegger, secondo cui l’uomo nasce per essere gettato nella morte. Sulle rovine dei totalitarismi del novecento, Arendt riconosce questa verità luminosa: «Il miracolo che preserva il mondo, la sfera delle faccende umane, dalla sua normale, “naturale” rovina è in definitiva il fatto della natalità. […] È questa fede e speranza nel mondo che trova forse la sua più gloriosa ed efficace espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la “lieta novella” dell’avvento: “Un bambino è nato fra noi”».[2]

2. Davanti al Mistero dell’Incarnazione, accanto al Bambino adagiato in una mangiatoia (cfr Lc 2,16), come pure davanti al Mistero Pasquale, al cospetto dell’uomo crocifisso, troviamo il posto giusto solo se siamo disarmati, umili, essenziali; solo dopo aver realizzato nell’ambiente in cui viviamo – compresa la Curia Romana – il programma di vita suggerito da San Paolo: «Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo» (Ef 4,31-32); solo se “rivestiti di umiltà” (cfr 1 Pt 5,5), imitando Gesù «mite e umile di cuore» (Mt 11, 29); solo dopo essersi messi «all’ultimo posto» (Lc 14,10) ed essere diventati “servi di tutti” (cfr Mc 10,44). E a questo proposito, Sant’Ignazio nei suoi Esercizi arriva fino al punto di chiedere di immaginarci nella scena del presepe, «facendomi io – scrive – poverello e indegno servitorello che li guarda, li contempla e li serve nelle loro necessità» (114, 2).

Ringrazio il Cardinale Decano per le sue parole di accoglienza in questo Natale, che ha espresso il sentire di tutti. Grazie, Cardinale Re, grazie.

3. Questo Natale è il Natale della pandemia, della crisi sanitaria, della crisi economica sociale e persino ecclesiale che ha colpito ciecamente il mondo intero. La crisi ha smesso di essere un luogo comune dei discorsi e dell’establishment intellettuale per diventare una realtà condivisa da tutti.

Questo flagello è stato un banco di prova non indifferente e, nello stesso tempo, una grande occasione per convertirci e recuperare autenticità.

Quando il 27 marzo scorso, sul sagrato di San Pietro, davanti alla piazza vuota ma piena di un’appartenenza comune che ci unisce in ogni angolo della terra, quando lì ho voluto pregare per tutti e con tutti, ho avuto modo di dire ad alta voce il possibile significato della “tempesta” (cfr Mc 4,35-41) che si era abbattuta sul mondo: «La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità, lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità. La tempesta pone allo scoperto tutti i propositi di “imballare” e dimenticare ciò che ha nutrito l’anima dei nostri popoli; tutti quei tentativi di anestetizzare con abitudini apparentemente “salvatrici”, incapaci di fare appello alle nostre radici e di evocare la memoria dei nostri anziani, privandoci così dell’immunità necessaria per far fronte all’avversità. Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli».

4. La Provvidenza ha voluto che proprio in questo tempo difficile potessi scrivere Fratelli tutti, l’Enciclica dedicata al tema della fraternità e dell’amicizia sociale. E una lezione che ci viene dai Vangeli dell’infanzia, dove è narrata la nascita di Gesù, è quella di una nuova complicità – una nuova complicità! – e unione che si crea tra coloro che ne sono i protagonisti: Maria, Giuseppe, i pastori, i magi e tutti quelli che, in un modo o nell’altro, hanno offerto la loro fraternità, la loro amicizia affinché potesse essere accolto nel buio della storia il Verbo che si è fatto carne (cfr Gv 1,14).

Così scrivevo all’inizio di questa Enciclica: «Desidero tanto che, in questo tempo che ci è dato di vivere, riconoscendo la dignità di ogni persona umana, possiamo far rinascere tra tutti un’aspirazione mondiale alla fraternità. Tra tutti: “Ecco un bellissimo segreto per sognare e rendere la nostra vita una bella avventura. Nessuno può affrontare la vita in modo isolato […]. C’è bisogno di una comunità che ci sostenga, che ci aiuti e nella quale ci aiutiamo a vicenda a guardare avanti. Com’è importante sognare insieme! […] Da soli si rischia di avere dei miraggi, per cui vedi quello che non c’è; i sogni si costruiscono insieme”.[3] Sogniamo come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli!» (n. 8).

5. La crisi della pandemia è un’occasione propizia per una breve riflessione sul significato della crisi, che può aiutare ciascuno.

La crisi è un fenomeno che investe tutti e tutto. È presente ovunque e in ogni periodo della storia, coinvolge le ideologie, la politica, l’economia, la tecnica, l’ecologia, la religione. Si tratta di una tappa obbligata della storia personale e della storia sociale. Si manifesta come un evento straordinario, che causa sempre un senso di trepidazione, angoscia, squilibrio e incertezza nelle scelte da fare. Come ricorda la radice etimologica del verbo krino: la crisi è quel setacciamento che pulisce il chicco di grano dopo la mietitura.

Anche la Bibbia è popolata di persone che sono state “passate al vaglio”, di “personaggi in crisi” che però proprio attraverso di essa compiono la storia della salvezza.

La crisi di Abramo, che lascia la sua terra (cfr Gen 12,1-2) e che deve vivere la grande prova di dover sacrificare a Dio il suo unico figlio (cfr Gen 22,1-19), si risolve da un punto di vista teologale con la nascita di un nuovo popolo. Ma questa nascita non risparmia Abramo dal vivere un dramma dove la confusione e lo spaesamento non hanno avuto la meglio solo per la fortezza della sua fede.

La crisi di Mosè si manifesta nella sfiducia in sé stesso: «Chi sono io per andare dal faraone e far uscire gli Israeliti dall’Egitto?» (Es 3,11); «io non sono un buon parlatore, […] ma sono impacciato di bocca e di lingua» (Es 4,10); «ho le labbra incirconcise» (Es 6,12.30). Per questo, egli tenta di sottrarsi dalla missione affidatagli da Dio: “Signore, manda altri” (cfr Es 4,13). Ma, attraverso questa crisi, Dio fece di Mosè il suo servo, che guidò il popolo fuori dall’Egitto.

Elia, il profeta tanto forte da essere paragonato al fuoco (cfr Sir 48,1), in un momento di grande crisi desiderò persino la morte, ma poi sperimentò la presenza di Dio non nel vento impetuoso, non nel terremoto, non nel fuoco, ma in un “un filo di silenzio sonoro” (cfr 1 Re 19,11-12). La voce di Dio non è mai quella rumorosa della crisi, ma è la voce silenziosa che ci parla dentro la crisi stessa.

Giovanni Battista è attanagliato dal dubbio sull’identità messianica di Gesù (cfr Mt 11,2-6), perché non si presenta come il giustiziere che egli forse attendeva (cfr Mt 3,11-12); ma proprio l’incarcerazione di Giovanni è l’avvenimento in seguito al quale Gesù inizia a predicare il Vangelo di Dio (cfr Mc 1,14).

E infine la crisi teologica di Paolo di Tarso: scosso dal folgorante incontro con Cristo sulla via di Damasco (cfr At 9,1-19; Gal 1,15-16), viene spinto a lasciare le sue sicurezze per seguire Gesù (cfr Fil 3,4-10). San Paolo è stato davvero un uomo che si è lasciato trasformare dalla crisi, e per questo è stato artefice di quella crisi che ha spinto la Chiesa a uscire fuori dal recinto d’Israele per arrivare fino agli estremi confini della terra.

Potremmo prolungare l’elenco di personaggi biblici, e in esso ognuno di noi potrebbe trovare il proprio posto. Sono tanti.

Ma la crisi più eloquente è quella di Gesù. I Vangeli sinottici sottolineano che Egli inaugura la sua vita pubblica attraverso l’esperienza della crisi vissuta nelle tentazioni. Per quanto possa sembrare che il protagonista di questa situazione sia il diavolo con le sue false proposte, in realtà il vero protagonista è lo Spirito Santo; è Lui, infatti, che conduce Gesù in questo tempo decisivo per la sua vita: «Fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo» (Mt 4,1).

Gli Evangelisti sottolineano che i quaranta giorni vissuti da Gesù nel deserto sono segnati dall’esperienza della fame e della debolezza (cfr Mt 4,2; Lc 4,2). Ed è proprio al fondo di questa fame e di questa debolezza che il Maligno cerca di giocare la sua carta vincente, facendo leva sull’umanità stanca di Gesù. Ma in quell’uomo provato dal digiuno il Tentatore sperimenta la presenza del Figlio di Dio che sa vincere la tentazione mediante la Parola di Dio, non mediante la propria. Gesù mai dialoga con il diavolo, mai, e noi dobbiamo imparare da questo. Con il diavolo mai si dialoga: Gesù o lo caccia via, o lo obbliga a manifestare il suo nome; ma con il diavolo, mai si dialoga.

Successivamente Gesù affrontò una indescrivibile crisi nel Getsemani: solitudine, paura, angoscia, il tradimento di Giuda e l’abbandono degli Apostoli (cfr Mt 26,36-50). Infine, venne la crisi estrema sulla croce: la solidarietà con i peccatori fino a sentirsi abbandonato dal Padre (cfr Mt 27,46). Nonostante ciò, Egli con piena fiducia “consegnò il suo spirito nelle mani del Padre” (cfr Lc 23,46). E questo suo pieno e fiducioso abbandono aprì la via della Risurrezione (cfr Eb 5,7).

6. Fratelli e sorelle, questa riflessione sulla crisi ci mette in guardia dal giudicare frettolosamente la Chiesa in base alle crisi causate dagli scandali di ieri e di oggi, come fece il profeta Elia che, sfogandosi con il Signore, gli presentò una narrazione della realtà priva di speranza: «Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita» (1 Re 19,14). E quante volte anche le nostre analisi ecclesiali sembrano racconti senza speranza. Una lettura della realtà senza speranza non si può chiamare realistica. La speranza dà alle nostre analisi ciò che tante volte i nostri sguardi miopi sono incapaci di percepire. Dio risponde ad Elia che la realtà non è così come l’ha percepita lui: «Su, ritorna sui tuoi passi verso il deserto di Damasco; […] Io, poi, riserverò per me in Israele settemila persone, tutti i ginocchi che non si sono piegati a Baal e tutte le bocche che non l’hanno baciato» (1 Re 19,15.18). Non è vero che lui sia solo: è in crisi.

Dio continua a far crescere i semi del suo Regno in mezzo a noi. Qui nella Curia sono molti coloro che danno testimonianza con il lavoro umile, discreto, senza pettegolezzi, silenzioso, leale, professionale, onesto. Sono tanti tra voi, grazie. Anche il nostro tempo ha i suoi problemi, ma ha anche la testimonianza viva del fatto che il Signore non ha abbandonato il suo popolo, con l’unica differenza che i problemi vanno a finire subito sui giornali – questo è di tutti i giorni – invece i segni di speranza fanno notizia solo dopo molto tempo, e non sempre.

Chi non guarda la crisi alla luce del Vangelo, si limita a fare l’autopsia di un cadavere: guarda la crisi, ma senza la speranza del Vangelo, senza la luce del Vangelo. Siamo spaventati dalla crisi non solo perché abbiamo dimenticato di valutarla come il Vangelo ci invita a farlo, ma perché abbiamo scordato che il Vangelo è il primo a metterci in crisi.[4] E’ il Vangelo che ci mette in crisi. Ma se troviamo di nuovo il coraggio e l’umiltà di dire ad alta voce che il tempo della crisi è un tempo dello Spirito, allora, anche davanti all’esperienza del buio, della debolezza, della fragilità, delle contraddizioni, dello smarrimento, non ci sentiremo più schiacciati, ma conserveremo costantemente un’intima fiducia che le cose stanno per assumere una nuova forma, scaturita esclusivamente dall’esperienza di una Grazia nascosta nel buio. «Perché l’oro si prova con il fuoco e gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore» (Sir 2,5).

7. Infine, io vorrei esortarvi a non confondere la crisi con il conflitto: sono due cose diverse. La crisi generalmente ha un esito positivo, mentre il conflitto crea sempre un contrasto, una competizione, un antagonismo apparentemente senza soluzione fra soggetti divisi in amici da amare e nemici da combattere, con la conseguente vittoria di una delle parti.

La logica del conflitto cerca sempre i “colpevoli” da stigmatizzare e disprezzare e i “giusti” da giustificare per introdurre la consapevolezza – molte volte magica – che questa o quella situazione non ci appartiene. Questa perdita del senso di una comune appartenenza favorisce la crescita o l’affermarsi di certi atteggiamenti di carattere elitario e di “gruppi chiusi” che promuovono logiche limitative e parziali, che impoveriscono l’universalità della nostra missione. «Quando ci fermiamo nella congiuntura conflittuale, perdiamo il senso dell’unità profonda della realtà» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 226).

La Chiesa, letta con le categorie di conflitto – destra e sinistra, progressisti e tradizionalisti – frammenta, polarizza, perverte, tradisce la sua vera natura: essa è un Corpo perennemente in crisi proprio perché è vivo, ma non deve mai diventare un corpo in conflitto, con vincitori e vinti. Infatti, in questo modo diffonderà timore, diventerà più rigida, meno sinodale, e imporrà una logica uniforme e uniformante, così lontana dalla ricchezza e pluralità che lo Spirito ha donato alla sua Chiesa.

La novità introdotta dalla crisi voluta dallo Spirito non è mai una novità in contrapposizione al vecchio, bensì una novità che germoglia dal vecchio e lo rende sempre fecondo. Gesù usa un’espressione che esprime in maniera semplice e chiara questo passaggio: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24). L’atto di morire del seme è un atto ambivalente, perché nello stesso tempo segna la fine di qualcosa e l’inizio di qualcos’altro. Chiamiamo lo stesso momento morte-marcire e nascita-germogliare perché sono la medesima cosa: davanti ai nostri occhi vediamo una fine e allo stesso tempo in quella fine si manifesta un nuovo inizio.

In questo senso, tutte le resistenze che facciamo all’entrare in crisi lasciandoci condurre dallo Spirito nel tempo della prova ci condannano a rimanere soli e sterili, al massimo in conflitto. Difendendoci dalla crisi, noi ostacoliamo l’opera della Grazia di Dio che vuole manifestarsi in noi e attraverso di noi. Perciò, se un certo realismo ci mostra la nostra storia recente solo come la somma di tentativi non sempre riusciti, di scandali, di cadute, di peccati, di contraddizioni, di cortocircuiti nella testimonianza, non dobbiamo spaventarci, e neppure dobbiamo negare l’evidenza di tutto quello che in noi e nelle nostre comunità è intaccato dalla morte e ha bisogno di conversione. Tutto ciò che di male, di contraddittorio, di debole e di fragile si manifesta apertamente ci ricorda con ancora maggior forza la necessità di morire a un modo di essere, di ragionare e di agire che non rispecchia il Vangelo. Solo morendo a una certa mentalità riusciremo anche a fare spazio alla novità che lo Spirito suscita costantemente nel cuore della Chiesa. Padri della Chiesa erano consapevoli di questo, che chiamavano “la metanoia”.

8. Sotto ogni crisi c’è sempre una giusta esigenza di aggiornamento: è un passo avanti. Ma se vogliamo davvero un aggiornamento, dobbiamo avere il coraggio di una disponibilità a tutto tondo; si deve smettere di pensare alla riforma della Chiesa come a un rattoppo di un vestito vecchio, o alla semplice stesura di una nuova Costituzione Apostolica. La riforma della Chiesa è un’altra cosa.

Non si tratta di “rattoppare un abito”, perché la Chiesa non è un semplice “vestito” di Cristo, bensì è il suo corpo che abbraccia tutta la storia (cfr 1 Cor 12,27). Noi non siamo chiamati a cambiare o riformare il Corpo di Cristo – «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e per sempre!» (Eb 13,8) – ma siamo chiamati a rivestire con un vestito nuovo quel medesimo Corpo, affinché appaia chiaramente che la Grazia posseduta non viene da noi ma da Dio: infatti, «noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi» (2 Cor 4,7). La Chiesa è sempre un vaso di creta, prezioso per ciò che contiene e non per ciò che a volte mostra di sé. Alla fine, avrò il piacere di donarvi un libro, dono di Padre Ardura, dove si mostra la vita di un vaso di creta, che ha fatto risplendere la grandezza di Dio e le riforme della Chiesa. Questo è un tempo in cui sembra evidente che la creta di cui siamo impastati è scheggiata, incrinata, spaccata. Dobbiamo sforzarci affinché la nostra fragilità non diventi ostacolo all’annuncio del Vangelo, ma luogo in cui si manifesta il grande amore con il quale Dio, ricco di misericordia, ci ha amati e ci ama (cfr Ef 2,4). Se noi tagliassimo Dio, ricco di misericordia, dalla nostra vita, la nostra vita sarebbe una bugia, una menzogna.

Durante il periodo della crisi, Gesù ci mette in guardia da alcuni tentativi per uscirne fuori che sono destinati fin dall’inizio ad essere fallimentari, come colui che «strappa un pezzo da un vestito nuovo per metterlo su un vestito vecchio»; il risultato è prevedibile: si strapperà il nuovo, perché «al vecchio non si adatta il pezzo preso dal nuovo». Analogamente «nessuno versa vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo spaccherà gli otri, si spanderà e gli otri andranno perduti. Il vino nuovo bisogna versarlo in otri nuovi» (Lc 5,36-38).

Il comportamento giusto invece è quello dello «scriba, divenuto discepolo del Regno dei cieli», il quale «è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52). Il tesoro è la Tradizione che, come ricordava Benedetto XVI, «è il fiume vivo che ci collega alle origini, il fiume vivo nel quale sempre le origini sono presenti. Il grande fiume che ci conduce al porto dell’eternità» (Catechesi, 26 aprile 2006). Mi viene in mente la frase di quel grande musicista tedesco: “La tradizione è la salvaguardia del futuro e non un museo, custode delle ceneri”. Le “cose antiche” sono costituite dalla verità e dalla grazia che già possediamo. Le cose nuove sono i vari aspetti della verità che via via comprendiamo. Quella frase del secolo V: “Ut annis scilicet consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate”: questa è la tradizione, così cresce. Nessuna modalità storica di vivere il Vangelo esaurisce la sua comprensione. Se ci lasciamo guidare dallo Spirito Santo, ogni giorno ci avvicineremo sempre di più a «tutta la verità» (Gv 16,13). Al contrario, senza la grazia dello Spirito Santo, si può persino cominciare a pensare la Chiesa in una forma sinodale che però, invece di rifarsi alla comunione con la presenza dello Spirito, arriva a concepirsi come una qualunque assemblea democratica fatta di maggioranze e minoranze. Come un parlamento, per esempio: e questa non è la sinodalità. Solo la presenza dello Spirito Santo fa la differenza.

9. Che cosa fare durante la crisi? Innanzitutto, accettarla come un tempo di grazia donatoci per capire la volontà di Dio su ciascuno di noi e per la Chiesa tutta. Occorre entrare nella logica apparentemente contraddittoria che «quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Cor 12,10). Si deve ricordare l’assicurazione data da San Paolo ai Corinzi: «Dio è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere» (1 Cor 10,13).

Fondamentale è non interrompere il dialogo con Dio, anche se è faticoso. Pregare non è facile. Non dobbiamo stancarci di pregare sempre (cfr Lc 21,36; 1 Ts 5,17). Non conosciamo alcun’altra soluzione ai problemi che stiamo vivendo, se non quella di pregare di più e, nello stesso tempo, fare tutto quanto ci è possibile con più fiducia. La preghiera ci permetterà di “sperare contro ogni speranza” (cfr Rm 4,18).

10. Cari fratelli e sorelle, conserviamo una grande pace e serenità, nella piena consapevolezza che tutti noi, io per primo, siamo solo «servi inutili» (Lc 17,10), ai quali il Signore ha usato misericordia. Per questo, sarebbe bello se smettessimo di vivere in conflitto e tornassimo invece a sentirci in cammino, aperti alla crisi. Il cammino ha sempre a che fare con i verbi di movimento. La crisi è movimento, fa parte del cammino. Il conflitto, invece, è un finto cammino, è un girovagare senza scopo e finalità, è rimanere nel labirinto, è solo spreco di energie e occasione di male. E il primo male a cui ci porta il conflitto, e da cui dobbiamo cercare di stare lontani, è proprio il chiacchiericcio: stiamo attenti a questo! Non è una mania che io ho, parlare contro il chiacchiericcio; è la denuncia di un male che entra nella Curia; qui a Palazzo ci sono tante porte e finestre ed entra, e noi ci abituiamo a questo; il pettegolezzo, che ci chiude nella più triste, sgradevole e asfissiante autoreferenzialità, e trasforma ogni crisi in conflitto. Il Vangelo racconta che i pastori credettero all’annuncio dell’Angelo e si misero in cammino verso Gesù (cfr Lc 2,15-16). Erode invece si chiuse davanti al racconto dei Magi e trasformò questa sua chiusura in menzogna e violenza (cfr Mt 2,1-16).

Ognuno di noi, qualunque posto occupi nella Chiesa, si domandi se vuole seguire Gesù con la docilità dei pastori o con l’auto-protezione di Erode, seguirlo nella crisi o difendersi da Lui nel conflitto.

Permettetemi di chiedere espressamente a tutti voi che siete insieme con me a servizio del Vangelo il regalo di Natale: la vostra collaborazione generosa e appassionata nell’annuncio della Buona Novella soprattutto ai poveri (cfr Mt 11,5). Ricordiamo che conosce veramente Dio solo chi accoglie il povero che viene dal basso con la sua miseria, e che proprio in questa veste viene inviato dall’alto; non possiamo vedere il volto di Dio, possiamo però sperimentarlo nel suo volgersi verso di noi quando onoriamo il volto del prossimo, dell’altro che ci impegna con i suoi bisogni.[5] Il volto dei poveri. I poveri sono il centro del Vangelo. E mi viene in mente quello che diceva quel santo vescovo brasiliano: “Quando io mi occupo dei poveri, dicono di me che sono un santo; ma quando mi domando e domando: ‘Perché tanta povertà?’, mi dicono ‘comunista’”.

Non vi sia nessuno che ostacoli volontariamente l’opera che il Signore sta compiendo in questo momento, e chiediamo il dono dell’umiltà del servizio affinché Lui cresca e noi diminuiamo (cfr Gv 3,30).

Auguri a tutti, a ciascuno di voi, alle vostre famiglie e ai vostri amici. E grazie, grazie per il vostro lavoro, grazie tante; e per favore, pregate sempre per me perché io abbia il coraggio di rimanere in crisi. Buon Natale! Grazie.

[Benedizione]

Mi sono dimenticato di dirvi che vi darò in dono due libri. Uno, la vita di Charles de Foucauld, un Maestro della crisi, che ci ha lasciato un dono, un’eredità bellissima. Questo è un dono fatto a me da padre Ardura: grazie. L’altro si chiama “Olotropia: i verbi della familiarità cristiana”. Sono per aiutare a vivere la nostra vita. È un libro che è uscito in questi giorni, fatto da un biblista, discepolo del Cardinale Martini; ha lavorato a Milano ma è della diocesi di Albenga - Imperia.

________________

[1] Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1994, 182.
[2]
Ibid..
[3]
Discorso nell’Incontro ecumenico e interreligioso con i giovani, Skopje – Macedonia del Nord (7 maggio 2019): L’Osservatore Romano, 9 maggio 2019, p. 9.
[4]
«Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: “Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?”. Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: “Questo vi scandalizza?”» (Gv 6,60-61). Ma è solo a partire da questa crisi che può nascere una professione di fede: «“Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna”» (Gv 6,68).
[5]
Cfr E. Lévinas, Totalité et infini, Paris 2000, 76; ed. it. Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Milano 1977, 76.

[01590-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Chers frères et sœurs,

1. La nativité de Jésus de Nazareth est le mystère d’une naissance qui nous rappelle que «les hommes, même s’ils doivent mourir, ne sont pas nés pour mourir, mais pour commencer»,[1] comme l’observe d’une manière aussi fulgurante qu’incisive Hanna Arendt. La philosophe juive renverse la pensée de son maître Heidegger selon lequel l’homme naît pour être jeté dans la mort. Sur les ruines des totalitarismes du XXème siècle, Arendt reconnaît cette vérité lumineuse: «Le miracle qui sauve le monde, le domaine des affaires humaines, de la ruine normale, “naturelle”, c’est, finalement, le fait de la natalité […] C’est cette espérance et cette foi dans le monde qui ont trouvé sans doute leur expression la plus succincte, la plus glorieuse dans la petite phrase des Evangiles annonçant leur “bonne nouvelle” : Un enfant nous est né”».[2]

2. Devant le mystère de l’incarnation, à côté de l’Enfant couché dans une mangeoire (cf. Lc 2, 16), et aussi devant le Mystère pascal, sous le regard de l’homme crucifié, nous trouvons la bonne place seulement si nous sommes désarmés, humbles, dépouillés; seulement si nous avons réalisé, dans le cadre dans lequel nous vivons – y compris celui de la Curie romaine –, le programme de vie suggéré par saint Paul: «Amertume, irritation, colère, éclats de voix ou insultes, tout cela doit être éliminé de votre vie, ainsi que toute espèce de méchanceté. Soyez entre vous pleins de générosité et de tendresse. Pardonnez-vous les uns aux autres, comme Dieu vous a pardonné dans le Christ » (Ep 4, 31-32); seulement si nous sommes “revêtus d’humilité” (cf. 1 P 5, 5), en imitant Jésus «doux et humble de cœur» (Mt 11, 29); seulement si nous nous sommes mis «à la dernière place» (Lc 14, 10) et sommes devenus les “serviteurs de tous” (cf. Mc 10, 44). Et à ce sujet, saint Ignace, dans ses Exercices, en arrive à demander que nous nous imaginions présents à la crèche, «nous faisant – écrit-il - pauvres et indignes serviteurs qui les regardons, les contemplons et les servons dans leurs besoins» (114, 2).

Je remercie le Cardinal Doyen pour ses paroles d’accueil en ce Noël, qui a exprimé les sentiments de chacun. Merci, Cardinal Re, merci.

3. Ce Noël est le Noël de la pandémie, de la crise sanitaire, de la crise économique, sociale et même ecclésiale qui a frappé aveuglément le monde entier. La crise a cessé d’être un lieu commun des discours et de l’establishment intellectuel pour devenir une réalité partagée par tous.

Ce fléau est une mise à l’épreuve qui n’est pas indifférente et, en même temps, une grande occasion de nous convertir et de retrouver une authenticité.

Lorsque le 27 mars dernier, sur le parvis de Saint-Pierre, devant une place vide mais remplie d’une appartenance commune qui nous unit de tous les coins du monde, quand j’ai voulu prier là pour tous et avec tous, et j’ai eu l’occasion de dire tout haut la signification possible de la “tempête” (cf. Mc 4, 35-41) qui s’était abattue sur le monde: «La tempête démasque notre vulnérabilité et révèle ces sécurités, fausses et superflues, avec lesquelles nous avons construit nos agendas, nos projets, nos habitudes et priorités. Elle nous démontre comment nous avons laissé endormi et abandonné ce qui alimente, soutient et donne force à notre vie ainsi qu’à notre communauté. La tempête révèle toutes les intentions d’"emballer" et d’oublier ce qui a nourri l’âme de nos peuples, toutes ces tentatives d’anesthésier avec des habitudes apparemment "salvatrices", incapables de faire appel à nos racines et d’évoquer la mémoire de nos anciens, en nous privant ainsi de l’immunité nécessaire pour affronter l’adversité. A la faveur de la tempête, est tombé le maquillage des stéréotypes avec lequel nous cachions nos "ego" toujours préoccupés de leur image ; et reste manifeste, encore une fois, cette appartenance commune (bénie), à laquelle nous ne pouvons pas nous soustraire : le fait d’être frères».

4. La Providence a voulu que, justement en ces temps difficiles, je puisse écrire Fratelli tutti, l’Encyclique consacrée au thème de la fraternité et de l’amitié sociale. Et une leçon qui nous vient des Evangiles de l’enfance, où est racontée la naissance de Jésus, est celle d’une nouvelle complicité - une nouvelle complicité - et d’une nouvelle union qui se créent entre ceux qui en sont les protagonistes: Marie, Joseph, les bergers, les mages et tous ceux qui ont offert d’une manière ou d’une autre leur fraternité, leur amitié, pour que le Verbe fait chair (cf. Jn 1, 14) puisse être accueilli dans l’obscurité de l’histoire. C’est pourquoi j’ai écrit au début de cette Encyclique: «Je forme le vœu qu’en cette époque que nous traversons, en reconnaissant la dignité de chaque personne humaine, nous puissions tous ensemble faire renaître un désir universel de fraternité. Tous ensemble : “Voici un très beau secret pour rêver et faire de notre vie une belle aventure. Personne ne peut affronter la vie de manière isolée. […] Nous avons besoin d’une communauté qui nous soutient, qui nous aide et dans laquelle nous nous aidons mutuellement à regarder de l’avant. Comme c’est important de rêver ensemble ! […] Seul, on risque d’avoir des mirages par lesquels tu vois ce qu’il n’y a pas ; les rêves se construisent ensemble”.[3] Rêvons en tant qu’une seule et même humanité, comme des voyageurs partageant la même chair humaine, comme des enfants de cette même terre qui nous abrite tous, chacun avec la richesse de sa foi ou de ses convictions, chacun avec sa propre voix, tous frères » (n. 8).

5. La crise de la pandémie est l’occasion propice d’une brève réflexion sur la signification de la crise, qui peut aider chacun.

La crise est un phénomène qui investit tout et chacun. Elle est présente partout et à toute époque de l’histoire, elle implique les idéologies, la politique, l’économie, la technique, l’écologie, la religion. Il s’agit d’une étape obligatoire de l’histoire personnelle et de l’histoire sociale. Elle se manifeste comme un événement extraordinaire qui cause toujours un sentiment d’appréhension, d’angoisse, de déséquilibre et d’incertitude dans les choix à faire. Comme le rappelle la racine étymologique du verbe krino: la crise est ce tamis qui nettoie le grain de blé après la moisson.

La Bible est aussi remplie de personnes qui sont “passées au crible”, de “personnages en crise” mais qui, justement à travers elle, accomplissent l’histoire du salut.

La crise d’Abraham, qui abandonne sa terre (cf. Gn 12, 1-2) et qui doit vivre la grande épreuve de devoir sacrifier à Dieu son fils unique (cf. Gn 22, 1-19), se résout du point de vue théologal avec la naissance d’un nouveau peuple. Mais cette naissance n’épargne pas à Abraham le fait de devoir vivre un drame où la confusion et le dépaysement n’ont pas le dessus grâce à la force de sa foi.

La crise de Moïse se manifeste dans le manque de confiance en lui-même: «Qui suis-je pour aller trouver Pharaon et pour faire sortir d’Egypte les fils d’Israël?» (Ex 3, 11); «Je n’ai jamais été doué pour la parole […] j’ai la bouche lourde et la langue pesante» (Ex 4, 10); «Je n’ai pas la parole facile » (Ex 6, 12.30). C’est pourquoi il tente de se soustraire à la mission que Dieu lui confie: « Envoie n’importe quel autre» (Ex 4, 13). Mais, à travers cette crise, Dieu fait de Moïse son serviteur qui guidera le peuple hors d’Egypte.

Elie, le prophète, fort au point d’être comparé au feu (cf. Si 48, 1), dans un moment de grande crise désire la mort. Mais il fait ensuite l’expérience de la présence de Dieu, non pas dans le vent impétueux, non pas dans le tremblement de terre, non pas dans le feu, mais dans «le murmure d’une brise légère» (1 R 19, 11-12). La voix de Dieu n’est jamais la voix bruyante de la crise, mais celle de la brise légère qui nous parle dans la crise même.

Jean Baptiste est tenaillé par le doute sur l’identité messianique de Jésus (cf. Mt 11, 2-6) parce que celui-ci ne se présente pas comme le justicier qu’il attendait peut-être (cf. Mt 3, 11-12). Mais l’incarcération de Jean est l’événement à la suite duquel Jésus commence à prêcher l’Evangile de Dieu (cf. Mc 1, 14).

Et enfin la crise théologique de Paul de Tarse: secoué par la rencontre fulgurante avec Jésus sur le chemin de Damas (cf. Ac 9, 1-19; Ga 1, 15-16), il est poussé à abandonner ses sécurités pour suivre Jésus (cf. Ph 3, 4-10). Saint Paul est vraiment un homme qui s’est laissé transformer par la crise, et c’est pourquoi il a été l’artisan de cette crise qui a poussé l’Eglise à sortir de l’enclos d’Israël pour aller jusqu’aux confins de la terre.

Nous pourrions prolonger la liste des personnages bibliques et chacun de nous pourrait y trouver sa place. Ils sont nombreux.

Mais la crise la plus éloquente est celle de Jésus. Les Evangiles synoptiques soulignent qu’il a inauguré sa vie publique par l’expérience de la crise qu’il a vécue dans les tentations. Bien qu’il semble que le protagoniste de cette situation soit le diable avec ses fausses propositions, le véritable protagoniste est en réalité l’Esprit Saint. C’est lui qui conduit en effet Jésus en ce moment décisif de sa vie: «Jésus fut conduit au désert par l’Esprit pour être tenté par le diable» (Mt 4, 1).

Les évangélistes soulignent que les quarante jours vécus par Jésus au désert sont marqués par l’expérience de la faim et de la faiblesse (cf. Mt 4, 2; Lc 4, 2). Et c’est précisément au plus profond de cette faim et de cette faiblesse que le Malin cherche à jouer sa carte maîtresse en s’appuyant sur l’humanité fatiguée de Jésus. Mais le tentateur, chez cet homme éprouvé par le jeûne, fait l’expérience de la présence du Fils de Dieu qui sait vaincre la tentation par la Parole de Dieu, non par la sienne propre. Jésus ne dialogue jamais avec le diable, jamais, et nous devons apprendre cela. Avec le diable on ne dialogue jamais. Jésus, ou bien il le chasse au loin, ou bien il l’oblige à manifester son nom; mais avec le diable, on ne dialogue jamais.

Jésus affronte ensuite une indescriptible crise à Gethsémani: solitude, peur, angoisse, la trahison de Juda et l’abandon des Apôtres (cf. Mt 26, 36-50). Vient enfin la crise extrême sur la croix: la solidarité avec les pécheurs au point de se sentir abandonné du Père (cf. Mt 27, 46). Malgré cela, en pleine confiance, il remet son esprit entre les mains du Père (cf. Lc 23, 46). Et son abandon, plein et confiant, ouvre la voie à la Résurrection (cf. He 5, 7).

6. Frères et sœurs, cette réflexion sur la crise met en garde de juger hâtivement l’Eglise sur la base des crises causées par les scandales d’hier et d’aujourd’hui, comme le fit le prophète Elie qui, s’épanchant sur le Seigneur, lui présenta un récit de la réalité dépourvu d’espérance: «J’éprouve une ardeur jalouse pour toi, Seigneur, Dieu de l’univers. Les fils d’Israël ont abandonné ton Alliance, renversé tes autels, et tué tes prophètes par l’épée ; moi, je suis le seul à être resté et ils cherchent à prendre ma vie» (1 R 19, 14). Et combien de fois nos analyses ecclésiales ont ressemblé aussi à des récits sans espérance. Une lecture de la réalité sans espérance ne peut être dite réaliste. L’espérance donne à nos analyses ce que, si souvent, notre regard myope est incapable de percevoir. Dieu répond à Elie que la réalité n’est pas comme il l’a perçue: «Repars vers Damas, par le chemin du désert. […] Je garderai en Israël un reste de sept mille hommes : tous les genoux qui n’auront pas fléchi devant Baal et toutes les bouches qui ne lui auront pas donné de baiser» (1 R 19, 15.18). Ce n’est pas vrai qu’il est seul: il est en crise.

Dieu continue de faire grandir les semences de son Royaume au milieu de nous. Ici, à la Curie, ceux qui rendent témoignage par le travail humble, discret, sans commérages, silencieux, loyal, professionnel, honnête, sont nombreux. Il y en a beaucoup parmi vous, merci. Notre époque aussi a ses problèmes, mais elle a aussi le témoignage vivant du fait que le Seigneur n’a pas abandonné son peuple. La seule différence est que les problèmes finissent immédiatement dans les journaux – et cela tous les jours - , alors que les signes d’espérance ne font l’actualité que longtemps après, et pas toujours.

Celui qui ne regarde pas la crise à la lumière de l’Evangile se contente de faire l’autopsie d’un cadavre: il regarde la crise, mais sans l’espérance de l’Evangile, sans la lumière de l’Evangile. Nous sommes effrayés par la crise non seulement parce que nous avons oublié de l’évaluer comme l’Evangile nous invite à le faire, mais aussi parce que nous avons oublié que l’Evangile est le premier à nous mettre en crise.[4] C’est l’Evangile qui nous met en crise. Mais si nous trouvons de nouveau le courage et l’humilité de dire à haute voix que le temps de la crise est un temps de l’Esprit, alors, même devant l’expérience de l’obscurité, de la faiblesse, de la fragilité, des contradictions, de l’égarement, nous ne nous sentirons plus écrasés. Nous garderons toujours l’intime confiance que les choses vont prendre une nouvelle tournure jaillie exclusivement de l’expérience d’une grâce cachée dans l’obscurité. En effet, «l’or est vérifié par le feu, et les hommes agréables à Dieu, par le creuset de l’humiliation » (Si 2, 5).

7. Enfin, je voudrais vous exhorter à ne pas confondre la crise avec le conflit. Ce sont deux choses différentes. La crise a généralement une issue positive alors que le conflit crée toujours une contradiction, une compétition, un antagonisme apparemment sans solution entre amis à aimer et ennemis à combattre, avec la victoire qui en découle d’une des parties.

La logique du conflit cherche toujours les “coupables” à stigmatiser et à mépriser et les “justes” à justifier pour introduire la conscience – très souvent magique – que telle ou telle situation ne nous appartient pas. Cette perte de sens d’une appartenance commune favorise le développement où l’affirmation de certaines attitudes à caractère élitiste et de “groupes clos” qui promeuvent des logiques limitatives et partielles, qui appauvrissent l’universalité de notre mission. «Quand nous nous arrêtons à une situation de conflit, nous perdons le sens de l’unité profonde de la réalité» (Exhort. ap. Evangelii gaudium, n. 226).

Lire l’Eglise selon les catégories du conflit – droite et gauche, progressistes et traditionnalistes – fragmente, polarise, pervertit et trahit sa véritable nature: elle est un corps toujours en crise justement parce qu’il est vivant, mais elle ne doit jamais devenir un corps en conflit avec des vainqueurs et des vaincus. Car, de cette manière, elle répandra la crainte, elle deviendra plus rigide, moins synodale et imposera une logique uniforme et uniformisante, bien loin de la richesse et de la diversité que l’Esprit a donné à son Eglise.

La nouveauté introduite par la crise voulue par l’Esprit n’est jamais une nouveauté en opposition à ce qui est ancien, mais une nouveauté qui germe de l’ancien et le rend toujours fécond. Jésus utilise une expression qui exprime de manière simple et claire ce passage: «Si le grain de blé tombé en terre ne meurt pas, il reste seul; mais s’il meurt, il porte beaucoup de fruit» (Jn 12, 24). L’acte de mourir de la semence est un acte ambivalent parce qu’il marque en même temps la fin de quelque chose et le début de quelque chose d’autre. Nous appelons le même moment mort-pourrir et naissance-germer car ils sont une même chose: nous voyons sous nos yeux une fin et, en même temps, dans cette fin se manifeste un nouveau commencement.

En ce sens, toutes les résistances que nous mettons à entrer dans la crise, en refusant de nous laisser conduire par l’Esprit durant le temps d’épreuve, nous condamnent à rester seuls et stériles, au mieux en conflit. En nous défendant de la crise, nous faisons obstacle à l’œuvre de la grâce de Dieu qui veut se manifester en nous et à travers nous. Par conséquent, si un certain réalisme nous montre notre histoire récente seulement comme la somme de tentatives pas toujours réussis, de scandales, de chutes, de péchés, de contradictions, de court-circuits dans le témoignage, nous ne devons pas nous effrayer. Et nous ne devons pas non plus nier l’évidence de tout ce qui en nous et dans nos communautés est affecté par la mort et a besoin de conversion. Tout le mal, le contradictoire, le faible et le fragile qui se manifestent ouvertement nous rappellent avec encore plus de force la nécessité de mourir à une manière d’être, de réfléchir et d’agir qui ne reflète pas l’Evangile. C’est seulement en mourant à une certaine mentalité que nous réussirons à faire place à la nouveauté que l’Esprit suscite constamment dans le cœur de l’Eglise. Les Pères de l’Eglise étaient conscients de cela, ce que nous appelons “la metanoia”.

8. Derrière toute crise se trouve toujours une juste exigence de mise à jour: un pas en avant. Mais si nous voulons vraiment une mise à jour, nous devons avoir le courage d’une disponibilité tous azimuts. Nous devons cesser de penser à la réforme de l’Eglise comme une pièce sur un vieux vêtement, ou à la simple rédaction d’une nouvelle Constitution Apostolique. La réforme de l’Eglise c’est autre chose.

Il ne s’agit pas de “rapiécer un vêtement” car l’Eglise n’est pas un simple “vêtement” du Christ, mais elle est son corps qui embrasse toute l’histoire (cf. 1 Co 12, 27). Nous ne sommes pas appelés à changer ou à réformer le Corps du Christ – «Jésus Christ, hier et aujourd’hui, est le même, il l’est pour l’éternité» (He 13, 8) – mais nous sommes appelés à revêtir d’un vêtement nouveau ce même corps pour qu’il apparaisse clairement que la grâce que nous possédons ne vient pas de nous mais de Dieu. En effet, «ce trésor, nous le portons comme dans des vases d’argile; ainsi, on voit bien que cette puissance extraordinaire appartient à Dieu et ne vient pas de nous» (2 Co 4, 7). L’Eglise est toujours un vase d’argile, précieux en raison de ce qu’il contient et non en raison de ce qu’il montre parfois de lui-même. A la fin, j’aurai le plaisir de vous donner un livre, un cadeau du Père Ardura, où l’on montre la vie d’un vase d’argile qui a fait resplendir la grandeur de Dieu et les réformes de l’Eglise. Ces temps-ci, il semble évident que l’argile dont nous sommes faits est ébréchée, fissurée, brisée. Nous devons nous efforcer à ce que notre fragilité ne devienne pas un obstacle à l’annonce de l’Evangile, mais le lieu où se manifeste le grand amour dont Dieu, riche en miséricorde, nous a aimés et nous aime (cf. Ep 2, 4). Si nous retranchions Dieu, riche en miséricorde, de notre vie, notre vie serait une tromperie, un mensonge.

Pendant le temps de la crise, Jésus nous met en garde contre certaines tentatives pour en sortir qui sont au départ destinées à échouer, comme celui qui «déchire un morceau à un vêtement neuf pour le coudre sur un vieux vêtement». Le résultat est prévisible: le neuf sera déchiré parce que «le morceau qui vient du neuf ne s’accordera pas avec le vieux». De la même manière, «personne ne met du vin nouveau dans de vieilles outres; autrement, le vin nouveau fera éclater les outres, il se répandra et les outres seront perdues. Mais on doit mettre le vin nouveau dans des outres neuves» (Lc 5, 36-38).

L’attitude juste, en revanche, est celle du «scribe devenu disciple du royaume des Cieux [qui] est comparable à un maître de maison qui tire de son trésor du neuf et de l’ancien» (Mt 13, 52). Le trésor c’est la Tradition qui, comme le rappelait Benoît XVI, «est le fleuve vivant qui nous relie aux origines, le fleuve vivant dans lequel les origines sont toujours présentes. Le grand fleuve qui nous conduit au port de l'éternité» (Catéchèse, 26 avril 2006). Il me vient à l’esprit la phrase de ce grand musicien allemand: “La tradition c’est la sauvegarde de l’avenir, et non pas un musée, gardien des cendres”. Ce qui est “ancien” est constitué de la vérité et de la grâce que nous possédons déjà. Ce qui est “neuf”, ce sont les différents aspects de la vérité que nous comprenons peu à peu. Cette parole du Vème siècle: “ Ut annis scilicet consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate”: c’est cela la tradition. Aucune manière historique de vivre l’Evangile n’en épuise la compréhension. Si nous nous laissons guider par l’Esprit, nous nous approcherons chaque jour davantage de la «vérité tout entière» (Jn 16, 13). Au contraire, sans la grâce de l’Esprit Saint, on peut bien commencer à penser l’Eglise sous forme synodale mais qui, au lieu de faire référence à la communion avec la présence de l’Esprit, en arrive à se concevoir comme une assemblée démocratique quelconque faite de majorités et de minorités. Comme un parlement, par exemple: et cela, ce n’est pas la synodalité. Seule la présence de l’Esprit Saint fait la différence.

9. Que faire pendant la crise? Avant tout, l’accepter comme un temps de grâce qui nous est donné pour comprendre la volonté de Dieu sur chacun de nous et pour toute l’Eglise. Il faut entrer dans la logique apparemment contradictoire du «lorsque je suis faible, c’est alors que je suis fort» (2 Co 12, 10). Il faut se souvenir de l’assurance donnée par saint Paul aux Corinthiens: «Dieu est fidèle: il ne permettra pas que vous soyez éprouvés au-delà de vos forces. Mais avec l’épreuve il donnera le moyen d’en sortir et la force de la supporter» (1 Co 10, 13).

Il est essentiel de ne pas interrompre le dialogue avec Dieu, même s’il est laborieux. Prier n’est pas facile. Nous ne devons pas nous fatiguer de prier sans cesse (cf. Lc 21, 36; 1 Th 5, 17). Nous ne connaissons pas d’autre solution aux problèmes que nous sommes en train de vivre, si non celle qui consiste à prier davantage et, en même temps, faire tout ce qui nous est possible avec plus de confiance. La prière nous permettra d’“espérer contre toute espérance” (cf. Rm 4, 18).

10. Chers frères et sœurs, gardons une grande paix et une grande sérénité, dans la pleine conscience que nous tous, moi le premier, sommes des «serviteurs inutiles» (Lc 17, 10) auxquels le Seigneur a fait miséricorde. C’est pourquoi il serait beau que nous cessions de vivre en conflit et que nous recommencions au contraire à nous sentir en chemin, ouverts à la crise. Le chemin est toujours en relation avec des verbes de mouvement. La crise est mouvement, elle fait partie du chemin. Le conflit, en revanche, est un faux chemin, il est un vagabondage sans but ni finalité, il signifie rester dans le labyrinthe, il est seulement gaspillage d’énergies et occasion de maux. Et le premier mal auquel nous conduit le conflit, et dont nous devons chercher à rester à distance, est le bavardage: soyons attentifs à cela! Ce n’est pas une manie que j’ai de parler contre le bavardage. C’est la dénonciation d’un mal qui entre dans la Curie. Ici, au Palais il y a beaucoup de portes et fenêtres, et il entre, et nous habituons à cela; le commérage qui nous enferme dans la plus triste, détestable et asphyxiante autoréférentialité, et qui transforme toute crise en conflit. L’Evangile raconte que les bergers ont cru à l’annonce de l’Ange et qu’ils se mirent en route vers Jésus (cf. Lc 2, 15-16). Hérode, en revanche, s’est fermé au récit des Mages et a transformé cette fermeture en mensonge et en violence (cf. Mt 2, 1-16).

Que chacun de nous, quel que soit la place qu’il occupe dans l’Eglise, se demande s’il veut suivre Jésus avec la docilité des bergers ou avec l’autoprotection d’Hérode, le suivre dans la crise ou se défendre de lui dans le conflit.

Permettez-moi de vous demander expressément, à vous tous qui êtes avec moi au service de l’Evangile, le cadeau Noël: votre collaboration généreuse et passionnée pour l’annonce de la Bonne Nouvelle, surtout aux pauvres (cf. Mt 11, 5). Souvenons-nous queseul connaît vraiment Dieu celui qui accueille le pauvre qui vient d’en bas avec sa misère, et qui, sous cette apparence, est envoyé d’en haut; nous ne pouvons pas voir le visage de Dieu, mais nous pouvons en faire l’expérience lorsqu’il se tourne vers nous, lorsque nous honorons le visage du prochain, de l’autre qui nous engage avec ses besoins.[6] Le visage des pauvres. Les pauvres sont le centre de l’Evangile. Et il me vient à l’esprit ce que disait ce saint évêque brésilien: “quand je m’occupe des pauvres, ils disent de moi que je suis un saint; mais je me demande et me demande: pourquoi tant de pauvreté, ils me disent «communiste”».

Que personne ne fasse volontairement obstacle à l’œuvre que le Seigneur est en train d’accomplir en ce moment, et demandons le don de l’humilité du service pour que lui grandisse et que nous nous diminuions (cf. Jn 3, 30).

Meilleurs vœux à chacun de vous, à vos familles et à vos amis. Et merci, merci pour votre travail, merci beaucoup; et, s’il vous plait, priez sans cesse pour moi afin que j’ai le courage de rester en crise. Bon Noël!

[Bénédiction]

J’ai oublié de vous dire que je vous donne deux livres. L’un, la vie de Charles de Foucauld, un Maître de la crise, qui nous a laissé un don, un très bel héritage. C’est un don que m’a fait le Père Ardura: Merci. L’autre s’appelle «Olortrooia: les mots de la familiarité chrétienne». Ils nous aident à vivre notre vie. C’est un livre qui est sorti ces jours-ci, fait par un bibliste disciple du Cardinal Martini; il a travaillé à Milan mais il est du diocèse d’Albenga – Imperia.

___________________

[1] Vie Active. Condition de l’homme moderne, Œuvres, Gallimard, p. 259).
[2]
Ibid.
[3]
Discours lors de la rencontre œcuménique et interreligieuse avec les jeunes, Skopje - Macédoine du Nord (7 mai 2019): L´Osservatore Romano, éd. en langue française (14 mai 2019), p. 12.
[4]
« Beaucoup de ses disciples, qui avaient entendu, déclarèrent : “Cette parole est rude ! Qui peut l’entendre ?” Jésus savait en lui-même que ses disciples récriminaient à son sujet. Il leur dit : “Cela vous scandalise ? ” » (Jn 6, 60-61). Mais c’est seulement à partir d cette crise que peut naître une profession de foi « Seigneur, à qui irions-nous ? Tu as les paroles de la vie éternelle » (Jn 6, 68).
[5]
Cf. E. Levinas, Totalité et infini, Paris, 2000, p. 76.

[01590-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

Dear brothers and sisters,

1. The birth of Jesus of Nazareth is the mystery of a birth which reminds us that “men, though they must die, are not born in order to die, but in order to begin”,[1] as the Jewish philosopher Hannah Arendt observed in a way as striking as it is incisive. Arendt inverted the thought of her teacher Heidegger, according to whom human beings are born to be hurled towards death. Amid the ruins of the totalitarian regimes of the twentieth century, Arendt acknowledged this luminous truth: “The miracle that saves the world, the realm of human affairs, from its normal, ‘natural’ ruin is ultimately the fact of natality… It is this faith in and hope for the world that found perhaps its most glorious and most succinct expression in the few words with which the Gospels announced their ‘glad tidings’: ‘A child has been born unto us’”.[2]

2. Contemplating the mystery of the Incarnation, before the child lying in a manger (cf. Lk 2:16), but also the Paschal Mystery, in the presence of the crucified one, we find our proper place only if we are defenceless, humble and unassuming. Only if we follow, wherever we live and work (including the Roman Curia), the programme of life set forth by Saint Paul: “Let all bitterness and wrath and anger and clamor and slander be put away from you, with all malice, and be kind to one another, tenderhearted, forgiving one another, as God in Christ forgave you” (Eph 4:31-32). Only if we are “clothed with humility” (cf. 1 Pet 5:5) and imitate Jesus, who is “gentle and lowly in heart” (Mt 11:29). Only after we put ourselves “in the lowest place” (Lk 14:10) and become “slaves of all” (cf. Mk 10:44). In this regard, Saint Ignatius, in his Spiritual Exercises, even asks us to imagine ourselves as part of the scene before the manger. “I will become”, he writes, “a poor, lowly and unworthy slave, and as though present, gaze upon them, contemplate them and serve them in their needs” (114, 2).

I thank the Cardinal Dean for his Christmas greetings on behalf of all. Thank you, Cardinal Re.

3. This is the Christmas of the pandemic, of the health, economic, social and even ecclesial crisis that has indiscriminately struck the whole world. The crisis is no longer a commonplace of conversations and of the intellectual establishment; it has become a reality experienced by everyone.

The pandemic has been a time of trial and testing, but also a significant opportunity for conversion and renewed authenticity.

On 27 March last, on the esplanade of Saint Peter’s Basilica, before an empty Square that nonetheless brought us together, in spirit, from every corner of the world, I wished to pray for, and with, everyone. I spoke clearly about the potential significance of the “storm” (cf. Mk 4:35-41) that struck our world: “The storm has exposed our vulnerability and uncovered those false and superfluous certainties around which we have constructed our daily schedules, our projects, our habits and priorities. It has shown us how we have allowed to become dull and feeble the very things that nourish, sustain and strengthen our lives and our communities. The tempest has laid bare all our prepackaged ideas and our forgetfulness of what nourishes our people’s souls; all those attempts to anesthetize us with ways of thinking and acting that supposedly “save” us, but instead prove incapable of putting us in touch with our roots and keeping alive the memory of those who have gone before us. We have lost the antibodies we needed to confront adversity. In this storm, the façade of those stereotypes with which we camouflaged our egos, always worrying about our image, has fallen away, uncovering once more that (blessed) common belonging, which we cannot evade: our belonging to one another as brothers and sisters”.

4. Providentially, it was precisely at that difficult time that I was able to write Fratelli Tutti, the Encyclical devoted to the theme of fraternity and social friendship. One lesson we learn from the Gospel accounts of Jesus’ birth is that of the solidarity linking those who were present: Mary, Joseph, the shepherds, the Magi and all who, in one way or another, offered their fraternity and friendship so that, amid the darkness of history, the Word made flesh (cf. Jn 1:14) could find a welcome. As I stated at the beginning of the Encylical: “It is my desire that, in this our time, by acknowledging the dignity of each human person, we can contribute to the rebirth of a universal aspiration to fraternity. Brotherhood between all men and women. ‘Here we have a splendid secret that shows us how to dream and to turn our life into a wonderful adventure. No one can face life in isolation… We need a community that supports and helps us, in which we can help one another to keep looking ahead. How important it is to dream together… By ourselves, we risk seeing mirages, things that are not there. Dreams, on the other hand, are built together’.[3] Let us dream, then, as a single human family, as fellow travelers sharing the same flesh, as children of the same earth which is our common home, each of us bringing the richness of his or her beliefs and convictions, each of us with his or her own voice, brothers and sisters all” (No. 8).

5. The crisis of the pandemic is a fitting time to reflect briefly on the meaning of a crisis, which can prove beneficial to us all.

A crisis is something that affects everyone and everything. Crises are present everywhere and in every age of history, involving ideologies, politics, the economy, technology, ecology and religion. A crisis is a necessary moment in the history of individuals and society. It appears as an extraordinary event that always creates a sense of trepidation, anxiety, upset and uncertainty in the face of decisions to be made. We see this in the etymological root of the verb krino: a crisis is the sifting that separates the wheat from the chaff after the harvest.

The Bible itself is filled with individuals who were “sifted”, “people in crisis” who by that very crisis played their part in the history of salvation.

The crisis of Abraham, who left his native land (Gen 21:1-2) and underwent the great test of having to sacrifice to God his only son (Gen 22:1-19), resulted, from a theological standpoint, in the birth of a new people. Yet this did not spare Abraham from experiencing a dramatic situation in which confusion and disorientation did not get the upper hand, due to the strength of his faith.

The crisis of Moses can be seen in his lack of self-confidence. “Who am I”, he says, “that I should go to Pharaoh and bring the Israelites out of Egypt?” (Ex 3:11); “I am not eloquent… I am slow of speech and of tongue” (Ex 4:10), “a man of uncircumcised lips” (Ex 6:12.30). For this reason, he tried to evade the mission entrusted to him by God: “Lord, please send someone else” (cf. Ex 4:13). Yet out of this crisis God was to make Moses the servant who would lead his people out of Egypt.

Elijah, the prophet whose strength was like that of fire (cf. Sir 48:1), at a moment of great crisis longed for death, but then experienced the presence of God, not in a rushing wind or an earthquake or fire, but in a “still small voice” (cf. 1 Kings 19:11-12). The voice of God is never the tumultuous voice of the crisis, but rather the quiet voice that speaks in the crisis.

John the Baptist was gripped by uncertainty about whether Jesus was the Messiah (cf. Mt 11.2-6) because he did not come as the harsh vindicator that John was perhaps expecting (cf. Mt 3:11-12). Yet John’s imprisonment set the stage for Jesus’ preaching of the Kingdom of God (cf. Mk 1:14).

Then there is the “theological” crisis experienced by Paul of Tarsus. Overwhelmed by his dramatic encounter with Christ on the way to Damascus (cf. Acts 9:1-19; Gal 1:15-16), he was moved to leave everything behind to follow Jesus (cf. Phil 3:4-10). Saint Paul was truly one open to being changed by a crisis. For this reason, he was to be the author of the crisis that led the Church to pass beyond the borders of Israel and go forth to the very ends of the earth.

We could continue with this list of biblical figures, in which each of us could find his or her own place. There are so many of them…

Yet the most eloquent crisis was that of Jesus. The Synoptic Gospels point out that he began his public life by experiencing the crisis of temptation. It might seem that the central character in this situation was the devil with his false promises, yet the real protagonist was the Holy Spirit. For he was guiding Jesus at this decisive moment in his life: “Jesus was led by the Spirit into the wilderness to be tempted by the devil” (Mt 4:1).

The Evangelists stress that the forty days Jesus spent in the desert were marked by the experience of hunger and weakness (cf. Mt 4:2; Lk 4:2). It was precisely from the depths of this hunger and weakness that the evil one sought to make his final move, taking advantage of Jesus’ human fatigue. Yet in that man weak from fasting the tempter experienced the presence of the Son of God who could overcome temptation by the word of God, and not his own. Jesus never enters into dialogue with the devil. We need to learn from this. There can be no dialogue with the devil. Jesus either casts him out or forces him to reveal his name. With the devil, there can be no dialogue.

Jesus was then to face an indescribable crisis in Gethsemane: solitude, fear, anguish, the betrayal of Judas and abandonment by his Apostles (cf. Mt 26:36-50). Finally, there was the extreme crisis on the cross: an experience of solidarity with sinners even to the point of feeling abandoned by the Father (cf. Mt 27:46). Yet with utter confidence he “commended his spirit into the hands of the Father” (cf. Lk 23:46). His complete and trusting surrender opened the way to the resurrection (cf. Heb 5:7).

6. Brothers and sisters, this reflection on crisis warns us against judging the Church hastily on the basis of the crises caused by scandals past and present. The prophet Elijah can serve as an example. Giving vent to his frustrations before the Lord, Elijah presented him with a tale of hopelessness: “I have been very zealous for the Lord, the God of hosts; for the Israelites have forsaken your covenant, thrown down your altars, and killed your prophets with the sword. I alone am left; and they are seeking my life, to take it away” (1 Kings 19:14). Often our own assessments of ecclesial life also sound like tales of hopelessness. Yet a hopeless reading of reality cannot be termed realistic. Hope gives to our assessments an aspect that in our myopia we are often incapable of seeing. God replied to Elijah by telling him that reality was other than what he thought: “Go, return on your way to the wilderness of Damascus… Yet I will leave seven thousand in Israel, all the knees that have not bowed to Baal, and every mouth that has not kissed him” (1 Kings 19:15.18). It was not true that Elijah was alone; he was in crisis.

God continues to make the seeds of his kingdom grow in our midst. Here in the Curia, there are many people bearing quiet witness by their work, humble and discreet, free of idle chatter, unassuming, faithful, honest and professional. So many of you are like that, and I thank you. Our times have their own problems, yet they also have a living witness to the fact that the Lord has not abandoned his people. The only difference is that problems immediately end up in the newspapers; this has always been the case, whereas signs of hope only make the news much later, if at all.

Those who fail to view a crisis in the light of the Gospel simply perform an autopsy on a cadaver. They see the crisis, but not the hope and the light brought by the Gospel. We are troubled by crises not simply because we have forgotten how to see them as the Gospel tells us to, but because we have forgotten that the Gospel is the first to put us in crisis.[4] If we can recover the courage and humility to admit that a time of crisis is a time of the Spirit, whenever we are faced with the experience of darkness, weakness, vulnerability, contradiction and loss, we will no longer feel overwhelmed. Instead, we will keep trusting that things are about to take a new shape, emerging exclusively from the experience of a grace hidden in the darkness. “For gold is tested in the fire and those found acceptable, in the furnace of humiliation” (Sir 2:5).

7. Finally, I would urge you not to confuse crisis with conflict. They are two different things. Crisis generally has a positive outcome, whereas conflict always creates discord and competition, an apparently irreconcilable antagonism that separates others into friends to love and enemies to fight. In such a situation, only one side can win.

Conflict always tries to find “guilty” parties to scorn and stigmatize, and “righteous” parties to defend, as a means of inducing an (often magical) sense that certain situations have nothing to do with us. This loss of the sense of our common belonging helps to create or consolidate certain elitist attitudes and “cliques” that promote narrow and partial mind-sets that weaken the universality of our mission. “In the midst of conflict, we lose our sense of the profound unity of reality” (Apostolic Exhortation Evangelii Gaudium, 226).

When the Church is viewed in terms of conflict – right versus left, progressive versus traditionalist – she becomes fragmented and polarized, distorting and betraying her true nature. She is, on the other hand, a body in continual crisis, precisely because she is alive. She must never become a body in conflict, with winners and losers, for in this way she would spread apprehension, become more rigid and less synodal, and impose a uniformity far removed from the richness and plurality that the Spirit has bestowed on his Church.

The newness born of crisis and willed by the Spirit is never a newness opposed to the old, but one that springs from the old and makes it continually fruitful. Jesus explains this process in a simple and clear image: “Unless a grain of wheat falls into the earth and dies, it remains just a single grain; but if it dies, it bears much fruit” (Jn 12:24). The dying of a seed is ambivalent: it is both an end and the beginning of something new. It can be called both “death and decay” and “birth and blossoming”, for the two are one. We see an end, while at the same time, in that end a new beginning is taking shape.

In this sense, our unwillingness to enter into crisis and to let ourselves be led by the Spirit at times of trial condemns us to remaining forlorn and fruitless, or even in conflict. By shielding ourselves from crisis, we hinder the work of God’s grace, which would manifest itself in us and through us. If a certain realism leads us to see our recent history only as a series of mishaps, scandals and failings, sins and contradictions, short-circuits and setbacks in our witness, we should not fear. Nor should we deny everything in ourselves and in our communities that is evidently tainted by death and calls for conversion. Everything evil, wrong, weak and unhealthy that comes to light serves as a forceful reminder of our need to die to a way of living, thinking and acting that does not reflect the Gospel. Only by dying to a certain mentality will we be able to make room for the newness that the Spirit constantly awakens in the heart of the Church. The Fathers of the Church were well aware of this, and they called it “metanoia”.

8. Every crisis contains a rightful demand for renewal and a step forward. If we really desire renewal, though, we must have the courage to be completely open. We need to stop seeing the reform of the Church as putting a patch on an old garment, or simply drafting a new Apostolic Constitution. The reform of the Church is something different.

It cannot be a matter of putting a patch here or there, for the Church is not just an item of Christ’s clothing, but rather his Body, which embraces the whole of history (cf. 1 Cor 12:27). We are not called to change or reform the Body of Christ – “Jesus Christ is the same yesterday, today and forever” (Heb 13:8) – but we are called to clothe that Body with a new garment, so that it is clear that the grace we possess does not come from ourselves but from God. Indeed, “we have this treasure in earthen vessels, to show that the transcendent power belongs to God and not to us” (2 Cor 4:7). The Church is always an earthen vessel, precious for what it contains and not for how it looks. Later, I will have the pleasure of giving you a book, a gift of Father Ardura, which shows the life of one earthen vessel that radiated the greatness of God and the reforms of the Church. These days it seems evident that the clay of which we are made is chipped, damaged and cracked. We have to strive all the more, lest our frailty become an obstacle to the preaching of the Gospel rather than a testimony to the immense love with which God, who is rich in mercy, has loved us and continues to love us (cf. Eph 2:4). If we cut God, who is rich in mercy, out of our lives, our lives would be a lie, a falsehood.

In times of crisis, Jesus warns us against certain attempts to emerge from it that are doomed from the start. If someone “tears a piece from a new garment to put it upon an old garment” the result is predictable: he will tear the new, because “the piece from the new will not match the old”. Similarly, “no one puts new wine into old wineskins; if he does, the new wine will burst the skins and it will be spilled, and the skins will be destroyed. New wine must be put into new wineskins” (Lk 5:36-38).

The right approach, on the other hand, is that of the “scribe, who has been trained for the kingdom of heaven”, who “is like a householder who brings out of his treasure what is new and what is old” (Mt 13:52). That treasure is Tradition, which, as Benedict XVI recalled, “is the living river that links us to the origins, the living river in which the origins are ever present, the great river that leads us to the gates of eternity” (Catechesis, 26 April 2006). I think of the saying of that great German musician: “Tradition is the guarantee of the future, not a museum, an urn of ashes”. The “old” is the truth and grace we already possess. The “new” are those different aspects of the truth that we gradually come to understand. No historical form of living the Gospel can exhaust its full comprehension. There are those words from the fifth century: “Ut annis scilicet consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate”: that is what tradition is, and how it grows. If we let ourselves be guided by the Holy Spirit, we will daily draw closer to “all the truth” (Jn 16:13). Without the grace of the Holy Spirit, on the other hand, we can even start to imagine a “synodal” Church that, rather than being inspired by communion with the presence of the Spirit, ends up being seen as just another democratic assembly made up of majorities and minorities. Like a parliament, for example: and this is not synodality. Only the presence of the Holy Spirit makes the difference.

9. What should we do during a crisis? First, accept it as a time of grace granted us to discern God’s will for each of us and for the whole Church. We need to enter into the apparent paradoxical notion that “when I am weak, then I am strong” (2 Cor 12:10). We should keep in mind the reassuring words of Saint Paul to the Corinthians: “God is faithful, and he will not let you be tempted beyond your strength, but with the temptation will also provide the way of escape, that you may be able to endure it” (1 Cor 10:13).

It is essential not to interrupt our dialogue with God, however difficult this may prove. Praying is not easy. We must not tire of praying constantly (cf. Lk 21:36; 1 Thess 5:17). We know of no other solution to the problems we are experiencing than that of praying more fervently and at the same time doing everything in our power with greater confidence. Prayer will allow us to “hope against all hope” (cf. Rom 4:18).

10. Dear brothers and sisters, let us maintain great peace and serenity, in the full awareness that all of us, beginning with myself, are only “unworthy servants” (Lk 17:10) to whom the Lord has shown mercy. For this reason, it would be good for us to stop living in conflict and feel once more that we are journeying together, open to crisis. Journeys always involve verbs of movement. A crisis is itself movement, a part of our journey. Conflict, on the other hand, is a false trail leading us astray, aimless, directionless and trapped in a labyrinth; it is a waste of energy and an occasion for evil. The first evil that conflict leads us to, and which we must try to avoid, is gossip. Let us be attentive to this! Talking about gossip is not an obsession of mine; it is the denunciation of an evil that enters the Curia. Here in the Palace, there are many doors and windows, and it enters and we get used to this. Gossip traps us in an unpleasant, sad and stifling state of self-absorption. It turns crisis into conflict. The Gospel tells us that the shepherds believed the angel’s message and set out on the path towards Jesus (cf. Lk 2:15-16). Herod, on the other hand, closed his heart before the story told by the Magi and turned that closed-heartedness to deceit and violence (cf. Mt 2:1-16).

Each of us, whatever our place in the Church, should ask whether we want to follow Jesus with the docility of the shepherds or with the defensiveness of Herod, to follow him amid crisis or to keep him at bay in conflict.

Allow me to ask expressly of all of you, who join me in the service of the Gospel, for the Christmas gift of your generous and whole-hearted cooperation in proclaiming the Good News above all to the poor (cf. Mt 11:5). Let us remember that they alone truly know God who welcome the poor, who come from below in their misery, yet as such are sent from on high. We cannot see God’s face, but we can experience it in his turning towards us whenever we show respect for our neighbour, for others who cry out to us in their need.[5] For the poor, who are the centre of the Gospel. I think of what that saintly Brazilian bishop used to say: “When I am concerned for the poor, they call me a saint; but when I keep asking why such great poverty exists, they call me a communist”.

Let no one willfully hinder the work that the Lord is accomplishing at this moment, and let us ask for the gift to serve in humility, so that he can increase and we decrease (cf. Jn 3:30).

I offer my best wishes to each and all of you, and to your families and friends. Thank you, thank you for your work, thank you so very much. And please, continue to pray for me, so that I can have the courage to remain in crisis. Happy Christmas! Thank you.

[Blessing]

I forgot to tell you that I am going to give you the gift of two books. One is the life of Charles de Foucauld, a teacher of crisis, who left us a beautiful legacy. It is a gift I received from Father Ardura, whom I thank. The other is called [in Italian] “Olotropia: The Words of Christian Familiarity”, words which help us live our life. The book was just published and was written by a biblical scholar and disciple of Cardinal Martini; he worked in Milan but is a priest of the Diocese of Albenga-Imperia.

________________________

[1] The Human Condition, Chicago, University of Chicago Press, 1958, p. 246.
[2]
Ibid., p. 247.
[3]
Address at the Ecumenical and Interreligious Meeting with Young People, Skopje, North Macedonia (7 May 2019): L’Osservatore Romano, 9 May 2019, p. 9.
[4]
“Many of his disciples, when they heard it, said, ‘This is a hard saying; who can listen to it?’ But Jesus, knowing in himself that his disciples murmured at it, said to them, ‘Do you take offense at this?’” (Jn 6:60-61). Yet it was only on the basis of that crisis that a profession of faith could spring up: “Lord, to whom shall we go? You have the words of eternal life” (Jn 6:68).
[5]
Cf. E. LEVINAS, Totalité et infini, Paris, 2000, 76.

[01590-EN.01] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Liebe Brüder und Schwestern,

1. Die Geburt Jesu von Nazaret, das Geheimnis seiner Geburt, erinnert uns daran, dass wir »nicht geboren werden, um zu sterben, sondern im Gegenteil, um etwas Neues anzufangen«,[1] wie die jüdische Philosophin Hanna Arendt eindrucksvoll und prägnant bemerkt, und damit das Denken ihres Lehrers Heidegger umkehrt, wonach der Mensch geboren wird, um in den Tod geworfen zu werden. Auf dem Hintergrund der Trümmer der Totalitarismen des zwanzigsten Jahrhunderts erkennt Arendt diese lichte Wahrheit: »Das Wunder, das den Lauf der Welt und den Gang menschlicher Dinge immer wieder unterbricht und von dem Verderben rettet, das als Keim in ihm sitzt und als „Gesetz“ seine Bewegung bestimmt, ist schließlich die Tatsache der Natalität, das Geborensein […]. Dass man in der Welt Vertrauen haben und dass man für die Welt hoffen darf, ist vielleicht nirgends knapper und schöner ausgedrückt als in den Worten, mit denen die Weihnachtsoratorien „die frohe Botschaft“ verkünden: „Uns ist ein Kind geboren“«.[2]

2. Dem Geheimnis der Menschwerdung, dem Kind, das in einer Krippe liegt (vgl. Lk 2,16), wie auch dem Ostergeheimnis, der Gegenwart des Gekreuzigten, begegnen wir nur dann in rechter Weise, wenn wir unsere Waffen ablegen und demütig und wesentlich sind; nur dann, wenn wir in der Umgebung, in der wir leben – auch in der römischen Kurie –, das vom heiligen Paulus vorgeschlagene Lebensprogramm verwirklicht haben: »Jede Art von Bitterkeit und Wut und Zorn und Geschrei und Lästerung mit allem Bösen verbannt aus eurer Mitte! Seid gütig zueinander, seid barmherzig, vergebt einander, wie auch Gott euch in Christus vergeben hat (Eph 4,31-32); nur dann, wenn wir einander in Demut begegnen (vgl. 1 Petr 5,5) und Jesus nachahmen, der »gütig und von Herzen demütig« ist (Mt 11,29); nur dann, wenn wir »den untersten Platz« eingenommen haben (Lk 14,10) und »Diener aller« geworden sind (vgl. Mk 10,44). Und diesbezüglich geht der heilige Ignatius in seinen Exerzitien so weit, dass er uns auffordert, uns in die Krippenszene hineinzuversetzen. Er schreibt: »Ich mache mich zu einem kleinen Armen und einem unwürdigen Knechtlein, indem ich sie anschaue, sie betrachte und ihnen in ihren Nöten diene« (114,2).

Ich danke dem Dekan des Kardinalkollegiums für seine Begrüßungsworte zu diesen Weihnachten, mit denen er die Empfindungen aller zum Ausdruck gebracht hat. Danke, Kardinal Re.

3. Dieses Weihnachtsfest ist das Weihnachtsfest in der Pandemie, der gesundheitlichen Krise, der sozialökonomischen Krise, aber auch der kirchlichen Krise, die die ganze Welt unterschiedslos getroffen hat. Die Krise ist nicht mehr nur ein Allgemeinplatz des Diskurses und des intellektuellen Establishments, sie ist zu einer Realität geworden, die alle betrifft.

Diese Geißel war eine beachtliche Bewährungsprobe und zugleich eine große Chance, uns zu bekehren und wieder authentisch zu werden.

Als ich am 27. März diesen Jahres auf dem leeren Petersplatz – der dennoch erfüllt war von einer allgemeinen Zusammengehörigkeit, die bis in den letzten Winkel der Erde reicht und uns alle vereint – als ich dort für alle und mit allen beten wollte, hatte ich Gelegenheit, die mögliche Bedeutung des „Sturms“ (vgl. Mk 4,35-41), der die Welt heimgesucht hatte, laut auszusprechen: »Der Sturm legt unsere Verwundbarkeit bloß und deckt jene falschen und unnötigen Gewissheiten auf, auf die wir bei unseren Plänen, Projekten, Gewohnheiten und Prioritäten gebaut haben. Er macht sichtbar, wie wir die Dinge vernachlässigt und aufgegeben haben, die unser Leben und unsere Gemeinschaft nähren, erhalten und stark machen. Der Sturm entlarvt all unsere Vorhaben, was die Seele unserer Völker ernährt hat, „wegzupacken“ und zu vergessen; all die Betäubungsversuche mit scheinbar „heilbringenden“ Angewohnheiten, die jedoch nicht in der Lage sind, sich auf unsere Wurzeln zu berufen und die Erinnerung unserer älteren Generation wachzurufen, und uns so der Immunität berauben, die notwendig ist, um den Schwierigkeiten zu trotzen. Mit dem Sturm sind auch die stereotypen Masken gefallen, mit denen wir unser „Ego“ in ständiger Sorge um unser eigenes Image verkleidet haben; und es wurde wieder einmal jene (gesegnete) gemeinsame Zugehörigkeit offenbar, der wir uns nicht entziehen können, dass wir nämlich alle Brüder und Schwestern sind.«

4. Die Vorsehung wollte es, dass ich gerade in dieser schwierigen Zeit die Enzyklika Fratelli tutti schreiben konnte, die dem Thema der Geschwisterlichkeit und der sozialen Freundschaft gewidmet ist. Und eine Lehre aus den Kindheitsevangelien, in denen die Geburt Jesu erzählt wird, ist die eines neuen Zusammenwirkens – sozusagen einer neuen Komplizenschaft! – und einer neu entstehenden Einheit zwischen den Hauptpersonen: Maria, Josef, die Hirten, die Sterndeuter und all jene, die auf die eine oder andere Weise ihre geschwisterliche Verbundenheit, ihre Freundschaft angeboten haben, damit das fleischgewordene Wort im Dunkel der Geschichte Aufnahme finden konnte (vgl. Joh 1,14). Am Anfang dieser Enzyklika habe ich geschrieben: »Ich habe den großen Wunsch, dass wir in dieser Zeit, die uns zum Leben gegeben ist, die Würde jedes Menschen anerkennen und bei allen ein weltweites Streben nach Geschwisterlichkeit zum Leben erwecken. Bei allen: „Dies ist ein schönes Geheimnis, das es ermöglicht, zu träumen und das Leben zu einem schönen Abenteuer zu machen. Niemand kann auf sich allein gestellt das Leben meistern [...]. Es braucht eine Gemeinschaft, die uns unterstützt, die uns hilft und in der wir uns gegenseitig helfen, nach vorne zu schauen. Wie wichtig ist es, gemeinsam zu träumen! [...] Allein steht man in der Gefahr der Illusion, die einen etwas sehen lässt, das gar nicht da ist; zusammen jedoch entwickelt man Träume.“[3] Träumen wir als eine einzige Menschheit, als Weggefährten vom gleichen menschlichen Fleisch, als Kinder der gleichen Erde, die uns alle beherbergt, jeden mit dem Reichtum seines Glaubens oder seiner Überzeugungen, jeden mit seiner eigenen Stimme, alle Brüder und Schwestern!« (Nr. 8).

5. Die Krise der Pandemie ist eine gute Gelegenheit für eine kurze und allgemein hilfreiche Reflexion über die Bedeutung von Krisen.

Die Krise ist ein Phänomen, das alles und jeden angeht. Sie kommt überall und in jeder Epoche der Geschichte vor und betrifft Ideologien, Politik, Wirtschaft, Technologie, Ökologie und Religion. Sie ist eine unumgängliche Phase der persönlichen Geschichte und der sozialen Geschichte. Sie manifestiert sich als ein außerordentliches Ereignis, das immer ein Gefühl von Beklemmung, Angst, Unausgewogenheit und Unsicherheit bei den zu treffenden Entscheidungen hervorruft. Daran erinnert auch die etymologische Wurzel des Verbs krino: Die Krise ist das Sieben, das das Weizenkorn nach der Ernte reinigt.

Auch die Bibel ist voll von Menschen, die solch einen „Sieb“ durchlaufen haben, von „Krisengestalten“, die aber gerade dadurch Heilsgeschichte schrieben.

Die Krise Abrahams, der sein Land verlässt (Gen 12,1-2) und vor der schweren Prüfung steht, seinen einzigen Sohn Gott opfern zu müssen (Gen 22,1-19), findet in heilsgeschichtlicher Perspektive in der Geburt eines neuen Volkes ihre Auflösung. Diese Verheißung bewahrt Abraham jedoch nicht vor jenem Drama, in dem Verwirrung und Fassungslosigkeit nur aufgrund seines starken Glaubens nicht die Oberhand gewannen.

Die Krise des Mose wird an seinem mangelnden Selbstvertrauen sichtbar: »Wer bin ich, dass ich zum Pharao gehen und die Israeliten aus Ägypten herausführen könnte?« (Ex 3,11); »Ich bin keiner, der gut reden kann, [...]. Mein Mund und meine Zunge sind nämlich schwerfällig« (Ex 4,10); ich bin »ungeschickt im Reden« (Ex 6,12.30). Aus diesem Grund versucht er, sich der ihm von Gott übertragenen Aufgabe zu entziehen: Herr, sende andere (vgl. Ex 4,13). Aber durch diese Krise machte Gott Moses zu seinem Diener, der das Volk aus Ägypten herausführte.

Elia, der Prophet, der so stark war, dass er mit dem Feuer verglichen wurde (vgl. Sir 48,1), sehnte sich in einer tiefen Krise sogar nach dem Tod. Dann aber erfuhr er Gottes Gegenwart nicht im stürmischen Wind, nicht im Erdbeben, nicht im Feuer, sondern in »einem sanften leisen Säuseln (vgl. 1 Könige 19,11-12). Die Stimme Gottes ist niemals das Toben der Krise, sondern die ruhige Stimme, die gerade in der Krise zu uns spricht.

Johannes den Täufer plagen Zweifel, ob Jesus der Messias sei (vgl. Mt 11,2-6), weil er nicht als der Rächer auftrat, den er vielleicht erwartet hatte (vgl. Mt 3,11-12); aber direkt nach der Gefangennahme des Johannes beginnt Jesus; das Evangelium Gottes zu verkündigen.

Und schließlich ist da die theologische Krise des Paulus von Tarsus: Erschüttert durch die umwerfende Begegnung mit Christus auf dem Weg nach Damaskus (vgl. Apg 9,1-19; Gal 1,15-16), gibt er seine Gewissheiten auf und folgt Jesus nach (vgl. Phil 3,4-10). Der heilige Paulus war in der Tat ein Mann, der sich von der Krise verwandeln ließ, und aus diesem Grund wurde er zum Architekten jener Krise, welche die Kirche über die Grenzen Israels hinausdrängte und bis an die Enden der Erde gelangen ließ.

Wir könnten die Liste der biblischen Gestalten noch fortführen, und jeder von uns könnte darin seinen eigenen Platz finden. Es sind viele.

Am aussagekräftigsten jedoch ist die Krise Jesu. Die synoptischen Evangelien machen deutlich, dass er sein öffentliches Leben mit der Krisenerfahrung der Versuchungen beginnt. Auch wenn es den Anschein haben mag, dass bei dieser Begebenheit der Teufel mit seinen falschen Versprechungen die Hauptrolle spielt, so ist in Wirklichkeit der Heilige Geist der eigentliche Protagonist; er ist es nämlich, der Jesus in dieser für sein Leben entscheidenden Zeit geleitet: »Dann wurde Jesus vom Geist in die Wüste geführt; dort sollte er vom Teufel versucht zu werden« (Mt 4,1).

Die Evangelisten betonen, dass die vierzig Tage, die Jesus in der Wüste lebte, von Hunger und Schwäche geprägt waren (vgl. Mt 4,2; Lk 4,2). Und auf eben diesem Hintergrund des Hungers und der Schwäche versucht der Böse seine Trümpfe auszuspielen, indem er bei der erschöpften menschlichen Natur Jesu ansetzt. Aber in diesem Menschen, der durch das Fasten geprüft war, erfährt der Versucher die Gegenwart des Sohnes Gottes, der die Versuchung durch das Wort Gottes zu überwinden weiß, nicht durch das eigene. Jesus hält nie Zwiesprache mit dem Teufel, niemals; daraus sollten wir etwas lernen: Mit dem Teufel diskutiert man nicht. Jesus treibt ihn entweder aus oder er zwingt ihn, zu sagen, wer er ist; aber mit dem Teufel sollte man nie diskutieren.

Später, in Gethsemane, befand sich Jesus in einer unbeschreiblichen Krise: Einsamkeit, Angst, Qualen, der Verrat des Judas und die Erfahrung, von den Aposteln verlassen worden zu sein (vgl. Mt 26,36-50). Schließlich dann die äußerste Krise am Kreuz: Solidarität mit den Sündern bis hin zu dem Gefühl, vom Vater verlassen worden zu sein (vgl. Mt 27,46). Trotzdem legte er seinen Geist voll Vertrauen in die Hände des Vaters (vgl. Lk 23,46). Und diese vollständige und vertrauensvolle Hingabe eröffnete den Weg zur Auferstehung (vgl. Hebr 5,7).

6. Brüder und Schwestern, diese Reflexion über die Krise warnt uns davor, die Kirche vorschnell nach den Krisen zu beurteilen, die durch die Skandale von gestern und heute verursacht wurden. Das tat der Prophet Elija, als er dem Herrn gegenüber sein Herz ausschüttete und dabei ein hoffnungsloses Bild der Wirklichkeit zeichnet: »Mit Leidenschaft bin ich für den Herrn, den Gott der Heerscharen, eingetreten, weil die Israeliten deinen Bund verlassen, deine Altäre zerstört und deine Propheten mit dem Schwert getötet haben. Ich allein bin übriggeblieben und nun trachten sie auch mir nach dem Leben« (1 Kön 19,14). Und wie oft scheint auch unseren kirchlichen Analysen die Hoffnung zu fehlen. Ein hoffnungsloser Blick auf die Wirklichkeit kann nicht als realistisch bezeichnet werden. Die Hoffnung gibt unseren Analysen das, was unsere kurzsichtigen Augen so oft nicht wahrnehmen können. Gott antwortet Elija, dass die Wirklichkeit nicht so ist, wie er sie wahrgenommen hat: »Geh deinen Weg durch die Wüste zurück und begib dich nach Damaskus; [...] Ich werde in Israel siebentausend übriglassen, alle, deren Knie sich vor dem Baal nicht gebeugt und deren Mund ihn nicht geküsst hat« (1 Kön 19,15.18). Es ist nicht wahr, dass Elija allein ist: er ist in der Krise.

Gott lässt auch weiterhin den Samen seines Reiches in unserer Mitte gedeihen. Hier in der Kurie gibt es viele, die mit der bescheidenen, der diskreten – ohne Klatsch und Tratsch –, mit der stillen, loyalen, professionellen und ehrlichen Arbeit Zeugnis ablegen. Es sind viele unter euch, danke! Auch unsere Zeit hat ihre Probleme, aber ebenso gibt es das lebendige Zeugnis dafür, dass der Herr sein Volk nicht im Stich gelassen hat. Der einzige Unterschied ist, dass die Probleme sofort in den Zeitungen landen – dies erleben wir jeden Tag –, während die Zeichen der Hoffnung erst nach langer Zeit Schlagzeilen machen und das auch nicht immer.

Wer die Krise nicht im Licht des Evangeliums betrachtet, beschränkt sich darauf, die Autopsie einer Leiche durchzuführen: er betrachtet die Krise ohne die Hoffnung des Evangeliums, ohne das Licht des Evangeliums.  Die Krise ist nicht nur deswegen so erschreckend für uns, weil wir verlernt haben, sie so zu sehen, wie das Evangelium es uns nahelegt, sondern weil wir vergessen haben, dass allem voran das Evangelium selbst uns in eine Krise bringt.[4] Es ist das Evangelium, das uns in die Krise führt. Wenn wir aber wieder den Mut und die Demut finden, laut auszusprechen, dass die Zeit der Krise eine Zeit des Heiligen Geistes ist, dann werden wir uns auch angesichts der Erfahrung von Dunkelheit, Schwäche, Zerbrechlichkeit, Widersprüchen und Verwirrung nicht mehr niedergeschlagen fühlen, sondern immer ein inniges Vertrauen darauf bewahren, dass die Dinge gerade eine neue Form annehmen, die allein aus der Erfahrung einer im Dunklen verborgenen Gnade entsprang. »Denn im Feuer wird Gold geprüft, und die anerkannten Menschen im Schmelzofen der Erniedrigung« (Sir 2,5).

7. Schließlich möchte ich euch dringend bitten, eine Krise nicht mit einem Konflikt zu verwechseln. Das sind zwei verschiedene Dinge! Die Krise hat im Allgemeinen einen positiven Ausgang, während ein Konflikt immer Auseinandersetzung, Wettstreit und einen scheinbar unlösbaren Antagonismus hervorbringt, bei dem die Menschen in liebenswerte Freunde und zu bekämpfende Feinden eingeteilt werden, wobei am Schluss nur eine der Parteien als Siegerin hervorgehen kann.

Die Logik des Konflikts sucht immer nach „Schuldigen“, die man stigmatisiert und verachtet, und nach „Gerechten“, über die man nichts kommen lässt, um das – oft magische – Bewusstsein zu schaffen, dass man mit dieser oder jener Situation nichts zu tun hat. Dieser Verlust eines Zusammengehörigkeitsgefühls begünstigt das Wachsen oder die Verhärtung bestimmter elitärer Haltungen und „geschlossener Gruppen“, die begrenzende und partielle Denkweisen fördern, die die Universalität unserer Mission verarmen lassen. »Wenn wir im Auf und Ab der Konflikte verharren, verlieren wir den Sinn für die tiefe Einheit der Wirklichkeit« (Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium, 226).

Interpretiert man die Kirche nach den Kategorien des Konflikts – rechts und links, progressiv und traditionalistisch – fragmentiert, polarisiert, pervertiert man sie; man verrät ihr wahres Wesen: Sie ist ein Leib, der fortwährend in der Krise ist, gerade weil er lebendig ist, aber sie darf niemals zu einem Leib werden, der in einem Konflikt mit Siegern und Besiegten steht. In der Tat wird sie auf diese Weise Angst verbreiten; sie wird starrer und weniger synodal werden und eine einheitliche und vereinheitlichende Logik durchsetzen, die so weit von dem Reichtum und der Pluralität entfernt ist, die der Geist seiner Kirche geschenkt hat.

Die Neuheit, die durch die vom Geist gewollte Krise eingeführt wurde, ist niemals eine Neuheit, die im Widerspruch zum Alten steht, sondern eine Neuheit, die aus dem Alten hervorgeht und es fortwährend fruchtbar macht. Jesus verwendet einen Ausdruck, der diesen Übergang auf einfache und klare Weise ausdrückt: »Wenn das Weizenkorn nicht in die Erde fällt und stirbt, bleibt es allein; wenn es aber stirbt, bringt es reiche Frucht« (Joh 12,24). Das Absterben des Samens ist ein ambivalenter Akt, denn er markiert gleichzeitig das Ende von etwas und den Anfang von etwas Anderem. Wir nennen den gleichen Moment Tod/Vergehen Geburt/Aufkeimen, weil beide ein und dasselbe sind: wir sehen mit unseren Augen ein Ende und zugleich zeigt sich in diesem Ende ein neuer Anfang.

In diesem Sinne verdammen uns alle Widerstände, die wir beim Eintreten in die Krise aufbringen, wo wir uns in der Zeit der Prüfung vom Geist leiten lassen, dazu, dass wir allein und steril bleiben und höchstens in einen Konflikt geraten. Indem wir uns gegen die Krise wehren, behindern wir das Werk der Gnade Gottes, die sich in uns und durch uns manifestieren will. Wenn uns also ein gewisser Realismus unsere jüngste Geschichte nur als die Summe von nicht immer geglückten Versuchen, Skandalen, Stürzen, Sünden, Widersprüchen und Kurzschlüssen beim Zeugnisgeben darstellt, sollten wir weder erschrecken, noch sollten wir die Evidenz all dessen leugnen, was in uns und in unseren Gemeinschaften vom Tod betroffen ist und der Bekehrung bedarf. Alles, was böse, widersprüchlich, schwach und zerbrechlich ist und sich offen zeigt, erinnert uns noch stärker an die Notwendigkeit, alles Denken und Tun, das dem Evangelium nicht entspricht, in uns absterben zu lassen. Nur wenn wir eine bestimmte Mentalität absterben lassen, wird es uns auch gelingen, Platz für das Neue zu schaffen, das der Geist ständig im Herzen der Kirche weckt. Die Kirchenväter waren sich dessen bewusst. Sie nannten es die „metanoia“.

8. In jeder Krise gibt es immer ein begründetes Bedürfnis nach einem aggiornamento: das ist ein Schritt vorwärts. Aber wenn wir wirklich eine solche Aktualisierung wollen, müssen wir den Mut zu einer umfassenden Bereitschaft haben; wir müssen aufhören, die Reform der Kirche als das Flicken eines alten Kleides zu betrachten oder als schlichte Abfassung einer neuen Apostolischen Konstitution. Die Reform der Kirche ist etwas Anderes.

Es geht nicht darum, „ein Gewand zu flicken“, denn die Kirche ist kein einfaches „Gewand“ Christi, sondern sein Leib, der die ganze Geschichte umfasst (vgl. 1 Kor 12,27). Wir sind nicht aufgerufen, den Leib Christi zu verändern oder zu reformieren – »Jesus Christus ist derselbe gestern und heute und in Ewigkeit«! (Hebr 13,8) – aber wir sind aufgerufen, denselben Leib mit einem neuen Gewand zu bekleiden, damit klar ersichtlich wird, dass die Gnade, die wir besitzen, nicht von uns, sondern von Gott kommt; denn »diesen Schatz tragen wir in zerbrechlichen Gefäßen; so wird deutlich, dass das Übermaß der Kraft von Gott und nicht von uns kommt« (2 Kor 4,7). Die Kirche ist immer ein zerbrechliches Gefäß, wertvoll aufgrund ihres Inhaltes, und nicht aufgrund dessen, was sie manchmal von sich zeigt. Am Schluss will ich euch gerne ein Buch mitgeben, ein Geschenk von Pater Ardura, in dem das Leben eines Gefäßes aus Lehm beschrieben wird, das die Größe Gottes widergespiegelt hat und die Reformen der Kirche. Heute leben wir in einer Zeit, in der es evident erscheint, dass der Ton, aus dem wir gebildet sind, angeschlagen, rissig und zerbrochen ist. Wir müssen uns darum bemühen, dass unsere Zerbrechlichkeit nicht zu einem Hindernis für die Verkündigung des Evangeliums wird, sondern zu einem Ort, an dem sich die große Liebe offenbart, mit der Gott, reich an Barmherzigkeit, uns geliebt hat und weiterhin liebt (vgl. Eph 2,4). Wenn wir Gott, der reich an Barmherzigkeit ist, aus unserem Leben herausschneiden würden, wäre dieses Leben nur eine Lüge, ein Trugschluss.

Für die Zeit der Krise warnt uns Jesus vor einigen Lösungsversuchen, die von Anfang an zum Scheitern verurteilt sind. »Niemand schneidet ein Stück von einem neuen Gewand ab und setzt es auf ein altes Gewand.« Das Ergebnis wäre absehbar: Das Neue wäre zerschnitten, denn »zum dem alten würde das Stück von dem neuen nicht passen«. Entsprechend »füllt niemand jungen Wein in alte Schläuche. Sonst würde ja der junge Wein die Schläuche zerreißen; er läuft aus und die Schläuche sind unbrauchbar. […] Jungen Wein muss man in neue Schläuche füllen« (Lk 5,36-38).

Das richtige Verhalten hingegen ist das des »Schriftgelehrten, der ein Jünger des Himmelreiches geworden ist«, und der »einem Hausherrn [gleicht], der aus seinem Schatz Neues und Altes hervorholt« (Mt 13,52). Der Schatz ist die Tradition, wie Benedikt XVI. in Erinnerung rief, sie ist »der lebendige Fluss, der uns mit den Ursprüngen verbindet, der lebendige Fluss, in dem die Ursprünge stets gegenwärtig sind, der große Fluss, der uns zum Hafen der Ewigkeit führt« (Katechese, 26. April 2006). Es kommt mir der Ausspruch jenes großen deutschen Musikers in den Sinn: „Die Tradition ist die Wahrung der Zukunft und kein Museum, keine Hüterin der Asche“. Das „Alte“ ist die Wahrheit und Gnade, die wir bereits besitzen. Das Neue sind die verschiedenen Aspekte der Wahrheit, die wir allmählich verstehen. Jenes Wort aus dem fünften Jahrhundert: „Ut annis scilicet consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate“: das ist die Tradition, so wächst sie. Keine geschichtliche Weise, das Evangelium zu leben, gelangt je zu einem erschöpfenden Verständnis desselben. Wenn wir uns vom Heiligen Geist leiten lassen, werden wir »der ganzen Wahrheit« (Joh 16,13) Tag für Tag näherkommen. Ohne die Gnade des Heiligen Geistes, selbst wenn man beginnt, die Kirche synodal zu denken, wird sie sich, anstatt sich auf die Gemeinschaft in der Gegenwart des Geistes zu beziehen, als eine beliebige demokratische Versammlung verstehen, die sich aus Mehrheiten und Minderheiten zusammensetzt. Wie ein Parlament, zum Beispiel: und das ist nicht die Synodalität. Allein die Gegenwart des Heiligen Geistes macht den Unterschied.

9. Was ist in der Krise zu tun? Zunächst einmal sollte man sie als eine Zeit der Gnade annehmen, die uns gegeben ist, um Gottes Willen für jeden von uns und für die ganze Kirche zu verstehen. Wir müssen uns auf diese scheinbar widersprüchliche Logik einlassen, die uns sagt: »Wenn ich schwach bin, dann bin ich stark« (2 Kor 12,10). Wir müssen uns an die Zusicherung erinnern, die der heilige Paulus den Korinthern gegeben hat: »Gott ist treu; er wird nicht zulassen, dass ihr über eure Kraft hinaus versucht werdet. Er wird euch mit der Versuchung auch einen Ausweg schaffen, sodass ihr sie bestehen könnt« (1 Kor 10,13).

Von grundlegender Bedeutung ist es, den Dialog mit Gott nicht zu unterbrechen, auch dann nicht, wenn es mühsam ist. Beten ist nicht leicht. Wir dürfen nicht müde werden, allezeit zu beten (vgl. Lk 21,36; 1 Thess 5,17). Wir kennen keine andere Lösung für die Probleme, mit denen wir konfrontiert sind, als mehr zu beten und gleichzeitig mit mehr Vertrauen alles zu tun, was uns möglich ist. Das Gebet wird uns befähigen, entgegen aller Erwartungen dennoch zu hoffen (vgl. Röm 4,18).

10.  Liebe Brüder und Schwestern, lasst uns großen Frieden und Gelassenheit bewahren, in dem vollen Bewusstsein, dass wir alle, ich zuerst, nur »unnütze Knechte« (Lk 17,10) sind, denen der Herr Barmherzigkeit erwiesen hat. Aus diesem Grund wäre es schön, wenn wir aufhören würden, im Konflikt zu leben, und uns stattdessen wieder bewusst würden, dass wir unterwegs sind, offen für die Krisen. Der Weg hat immer mit Verben der Bewegung zu tun. Die Krise ist Bewegung, sie ist Teil des Weges. Der Konflikt hingegen ist ein scheinbarer Weg, ein Herumbummeln ohne Ziel und Zweck, ein Verweilen im Labyrinth, eine reine Energieverschwendung und eine Gelegenheit für das Böse. Und das erste Übel, zu dem der Konflikt uns führt und von dem wir versuchen sollten uns fernzuhalten, ist eben das Geschwätz: Passen wir hier auf! Das ist keine Manie, die ich habe, wenn ich gegen das Geschwätz rede. Es ist die Anklage gegen ein Übel, das in die Kurie eindringt. Hier im Palast gibt es viele Türen und Fenster, in die es eindringt. Und wir gewöhnen uns daran. Dann der Klatsch, der uns in der traurigsten, unangenehmsten und erstickendsten Selbstbezogenheit verschließt und jede Krise in einen Konflikt verwandelt. Das Evangelium sagt uns, dass die Hirten der Verkündigung des Engels glaubten und sich auf den Weg zu Jesus machten (vgl. Lk 2,15-16). Herodes hingegen verschloss sich der Erzählung der Sterndeuter und seine Verschlossenheit verwandelte sich in Lüge und Gewalt (vgl. Mt 2,1-16).

Jeder von uns, unabhängig von seinem Platz in der Kirche, möge sich fragen, ob er Jesus mit der Folgsamkeit der Hirten oder mit der Selbstbehauptung des Herodes folgen will, ob er ihm in die Krise folgen oder sich im Konflikt vor ihm verteidigen will.

Erlaubt mir, euch alle, die ihr mit mir im Dienst des Evangeliums steht, ausdrücklich um ein Weihnachtsgeschenk zu bitten: Eure großzügige und leidenschaftliche Mitarbeit bei der Verkündigung der Frohen Botschaft vor allem an die Armen (vgl. Mt 11,5). Denken wir daran, dass nur der Gott wirklich kennt, der den Armen aufnimmt, der von unten mit seinem Elend zu uns kommt, und der gerade in diesem Gewand von oben gesandt ist; wir können das Antlitz Gottes nicht sehen, aber wir können ihn in seiner Hinwendung zu uns erfahren, wenn wir das Antlitz unseres Nächsten ehren, des anderen, der uns mit seinen Nöten in Anspruch nimmt.[5] Das Gesicht der Armen. Die Armen sind die Mitte des Evangeliums. Mir kommt in den Sinn, was jener heilige brasilianische Bischof gesagt hat: „Wenn ich mich den Armen widme, sagen sie über mich, ich sei ein Heiliger; aber wenn ich mich frage und die Frage stelle ‚Warum so viel Armut?‘, sagen sie mir: ‚Du Kommunist‘.

Niemand möge das Werk, das der Herr in diesem Augenblick tut, aus freien Stücken behindern. Bitten wir um die Gabe dienender Demut, auf dass er wachse, wir aber abnehmen (vgl. Joh 3,30).

Ich wünsche jedem einzelnen von euch, euren Familien und Freunden frohe und gesegnete Weihnachten! Und danke, vielen Dank für eure Arbeit. Und bitte, betet immer für mich, dass ich den Mut habe, in der Krise auszuhalten. Frohe Weihnachten! Danke.

[Segen]

Ich habe vergessen, euch zu sagen, dass ich euch zwei Bücher schenken werde. Eines ist das Leben des heiligen Charles de Foucault, ein Meister der Krise, der uns ein Geschenk, ein sehr schönes Erbe hinterlassen hat. Dieses Buch ist ein Geschenk, das Pater Ardura mir gemacht hat: Danke! Das andere Buch nennt sich „Holotropia: Die Verben der christlichen Familiarität“. Sie sollen uns helfen, unser Leben zu leben. Dieses Buch ist vor kurzem erschienen. Es ist von einem Biblisten, einem Schüler des Kardinales Martini. Er hat in Mailand gearbeitet, aber er ist aus der Diözese Albenga-Imperia.

__________________

[1] Hannah Arendt, Vita activa oder Vom tätigen Leben. München 1996, 316.
[2]
Ebd. 317.
[3]
Ansprache beim Ökumenischen und Interreligiösen Treffen mit den Jugendlichen, Skopje - Nordmazedonien (7. Mai 2019): L'Osservatore Romano (dt.), Jg. 49 (2019), Nr. 20/21 (17. Mai 2019), S. 10.
[4]
»Viele seiner Jünger, die ihm zuhörten, sagten: Diese Rede ist hart! Wer kann sie hören? Jesus erkannte, dass seine Jünger darüber murrten, und fragte sie: Daran nehmt ihr Anstoß?« (Joh 6,60-61). Aber erst aus dieser Krise entstand dann das gläubige Bekenntnis: »Herr, zu wem sollen wir gehen? Du hast Worte des ewigen Lebens« (Joh 6,68).
[5]
Vgl.: Emanuel Levinas, Totalité et infini, Paris 2000, 76.

[01590-DE.01] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

Queridos hermanos y hermanas:

1. La Navidad es el misterio del nacimiento de Jesús de Nazaret que nos recuerda que «los hombres, aunque han de morir, no han nacido para eso sino para comenzar»,[1] como observa de modo tan brillante e incisivo Hanna Arendt, la filósofa hebrea que desmonta el pensamiento de su maestro Heidegger, según el cual el hombre nace para ser arrojado a la muerte. Sobre las ruinas de los totalitarismos del siglo veinte, Arendt reconoce esta verdad luminosa: «El milagro que salva al mundo, a la esfera de los asuntos humanos, de su ruina normal y “natural” es en último término el hecho de la natalidad. […] Esta fe y esperanza en el mundo encontró tal vez su más gloriosa y sucinta expresión en las pocas palabras que en los evangelios anuncian la gran alegría: “Les ha nacido hoy un Salvador”».[2]

2. Ante el Misterio de la Encarnación, junto al Niño acostado en un pesebre (cf. Lc 2,16), así como frente al Misterio Pascual, en presencia del hombre crucificado, encontramos el lugar adecuado sólo si somos inermes, humildes, esenciales; sólo después de haber puesto en práctica en el ambiente en el que vivimos —incluyendo la Curia Romana— el programa de vida sugerido por san Pablo: «Desaparezca de ustedes toda amargura, ira, enojo, insulto, injurias y cualquier tipo de maldad. Sean bondadosos unos con otros, sean compasivos y perdónense mutuamente, así como Dios los perdonó en Cristo» (Ef 4,31-32); sólo “revestidos de humildad” (cf. 1 P 5,5), imitando a Jesús «manso y humilde de corazón» (Mt 11, 29); sólo después de habernos colocado «en el último puesto» (Lc 14,10) y habernos hecho “siervos de todos” (cf. Mc 10,44). Y a este propósito, san Ignacio en sus Ejercicios llega hasta el punto de pedir que nos imaginemos estar en la escena del nacimiento, «haciéndome yo —escribe— un pobrecito y esclavito indigno, mirándolos, contemplándolos y sirviéndolos en sus necesidades» (114).

Agradezco al cardenal Decano su amable saludo en esta Navidad, que ha manifestado los sentimientos de todos. Gracias, cardenal Re, gracias.

3. Esta Navidad es la Navidad de la pandemia, de la crisis sanitaria, de la crisis socioeconómica e incluso eclesial que ha lacerado cruelmente al mundo entero. La crisis ha dejado de ser un lugar común del discurso y del establishment intelectual para transformarse en una realidad compartida por todos.

Este flagelo ha sido una prueba importante y, al mismo tiempo, una gran oportunidad para convertirnos y recuperar la autenticidad.

Cuando el pasado 27 de marzo, en la Plaza de San Pedro, ante la plaza vacía pero llena de una pertenencia común que nos une con cada rincón de la tierra, cuando allí quise rezar por todos y con todos; tuve la oportunidad de decir en voz alta el significado posible de la “tempestad” (cf. Mc 4,35-41) que había golpeado al mundo: «La tempestad desenmascara nuestra vulnerabilidad y deja al descubierto esas falsas y superfluas seguridades con las que habíamos construido nuestras agendas, nuestros proyectos, rutinas y prioridades. Nos muestra cómo habíamos dejado dormido y abandonado lo que alimenta, sostiene y da fuerza a nuestra vida y a nuestra comunidad. La tempestad pone al descubierto todos los intentos de encajonar y olvidar lo que nutrió el alma de nuestros pueblos; todas esas tentativas de anestesiar con aparentes rutinas “salvadoras”, incapaces de apelar a nuestras raíces y evocar la memoria de nuestros ancianos, privándonos así de la inmunidad necesaria para hacerle frente a la adversidad. Con la tempestad, se cayó el maquillaje de esos estereotipos con los que disfrazábamos nuestros egos siempre pretenciosos de querer aparentar; y dejó al descubierto, una vez más, esa (bendita) pertenencia común de la que no podemos ni queremos evadirnos; esa pertenencia de hermanos».

4. La Providencia quiso que en este tiempo difícil haya podido escribir Fratelli tutti, la Encíclica dedicada al tema de la fraternidad y de la amistad social. Y una lección nos llega de los Evangelios de la infancia, donde se narra el nacimiento de Jesús, es la de una nueva complicidad —una nueva complicidad— y unión que se crea entre los protagonistas: María, José, los pastores, los magos y todos aquellos que, de un modo u otro, ofrecieron su fraternidad, su amistad para que el Verbo que se hizo carne fuera acogido en las tinieblas de la historia (cf. Jn 1,14). Esto escribí al principio de esta Encíclica: «Anhelo que en esta época que nos toca vivir, reconociendo la dignidad de cada persona humana, podamos hacer renacer entre todos un deseo mundial de hermandad. Entre todos: “He ahí un hermoso secreto para soñar y hacer de nuestra vida una hermosa aventura. Nadie puede pelear la vida aisladamente. […] Se necesita una comunidad que nos sostenga, que nos ayude y en la que nos ayudemos unos a otros a mirar hacia delante. ¡Qué importante es soñar juntos! […] Solos se corre el riesgo de tener espejismos, en los que ves lo que no hay; los sueños se construyen juntos”.[3] Soñemos como una única humanidad, como caminantes hechos de la misma carne humana, como hijos de esta misma tierra que nos cobija a todos, cada uno con la riqueza de su fe o de sus convicciones, cada uno con su propia voz, todos hermanos» (n. 8).

5. La crisis de la pandemia es una buena oportunidad para hacer una breve reflexión sobre el significado de la crisis, que puede ayudar a todos.

La crisis es un fenómeno que afecta a todo y a todos. Está presente en todas partes y en todos los períodos de la historia, abarca las ideologías, la política, la economía, la tecnología, la ecología, la religión. Es una etapa obligatoria en la historia personal y en la historia social. Se manifiesta como un acontecimiento extraordinario, que siempre causa una sensación de inquietud, ansiedad, desequilibrio e incertidumbre en las decisiones que se deben tomar. Como recuerda la raíz etimológica del verbo krino: la crisis es esa criba que limpia el grano de trigo después de la cosecha.

Incluso la Biblia está llena de personas que han sido “tamizadas”, de “personajes en crisis” que, sin embargo, a través de estas cumplen la historia de la salvación.

La crisis de Abrahán, que abandonó su tierra (cf. Gn 12,1-2) y tuvo que vivir la gran prueba de tener que sacrificar su único hijo a Dios (cf. Gn 22,1-19), se resolvió desde el punto de vista teológico con el nacimiento de un nuevo pueblo. Pero este nacimiento no evitó que Abrahán viviera un drama en el que la confusión y el desconcierto no prevalecieran sólo gracias a la fuerza de su fe.

La crisis de Moisés se manifestó en la desconfianza de sí mismo: «¿Quién soy yo para ir al faraón y sacar a los israelitas de Egipto?» (Ex 3,11); «yo nunca he sido un hombre con facilidad de palabra, […] pues soy torpe de boca y de lengua» (Ex 4,10); «no sé hablar» (Ex 6,12.30). Por eso trató de escapar de la misión que Dios le había confiado: “Señor, envía a otros” (cf. Ex 4,13). Pero a través de esa crisis, Dios hizo a Moisés su siervo, que guio al pueblo fuera de Egipto.

Elías, el profeta tan fuerte que era comparado con el fuego (cf. Sir 48,1), en un momento de gran crisis incluso anheló la muerte, pero luego experimentó la presencia de Dios no en el viento impetuoso, ni en el terremoto, ni en el fuego, sino en “el susurro de una brisa suave” (cf. 1 R 19,11-12). La voz de Dios nunca está en el ruido de la crisis, sino en la voz silenciosa que nos habla dentro de la crisis misma.

A Juan el Bautista le asaltó la duda sobre la identidad mesiánica de Jesús (cf. Mt 11,2-6), porque no se presentaba como el libertador que tal vez esperaba (cf. Mt 3,11-12); sin embargo, fue precisamente el encarcelamiento de Juan el evento que llevó a Jesús a comenzar la predicación del Evangelio de Dios (cf. Mc 1,14).

Y finalmente, la crisis teológica de Pablo de Tarso: sacudido por el deslumbrante encuentro con Cristo en el camino de Damasco (cf. Hch 9,1-19; Ga 1,15-16), se vio obligado a dejar sus seguridades para seguir a Jesús (cf. Flp 3,4-10). San Pablo fue en efecto un hombre que se dejó transformar por la crisis y, por esta razón, fue el artífice de aquella crisis que llevó a la Iglesia fuera del recinto de Israel para llegar a los confines de la tierra.

Podríamos ampliar la lista de personajes bíblicos, y en ella cada uno de nosotros podría encontrar su lugar. Son muchos.

Pero la crisis más elocuente fue la de Jesús. Los Evangelios sinópticos enfatizan que Él inauguró su vida pública a través de la experiencia de la crisis vivida en las tentaciones. Aunque pareciera que el protagonista de esa situación fuera el diablo con sus falsas propuestas, en realidad el verdadero protagonista era el Espíritu Santo. De hecho, Él era quien conducía a Jesús en ese momento decisivo de su vida: «Enseguida, el Espíritu llevó a Jesús al desierto para ser puesto a prueba por el Diablo» (Mt 4,1).

Los evangelistas subrayan que los cuarenta días que Jesús pasó en el desierto estuvieron marcados por la experiencia del hambre y de la debilidad (cf. Mt 4,2; Lc 4,2). Y es precisamente en el trasfondo de esa hambre y debilidad donde el Maligno intentó jugar su mejor carta, aprovechándose de la humanidad cansada de Jesús. Pero, en ese hombre probado por el ayuno, el Tentador experimentó la presencia del Hijo de Dios que supo cómo vencer la tentación a través de la Palabra de Dios, no a través de la suya. Jesús nunca dialogó con el diablo, nunca; y nosotros debemos aprender esto: con el diablo nunca se dialoga. Jesús o lo expulsaba, o lo obligaba a manifestar su nombre. Pero con el diablo nunca se dialoga.

Más tarde, Jesús se enfrentó a una crisis indescriptible en Getsemaní: soledad, miedo, angustia, la traición de Judas y el abandono de los Apóstoles (cf. Mt 26,36-50). Por último, llegó la crisis extrema en la Cruz: la solidaridad con los pecadores hasta el punto de sentirse abandonado por el Padre (cf. Mt 27,46). A pesar de ello, Él, con confianza total, “entregó su espíritu en las manos del Padre” (cf. Lc 23,46). Y su abandono pleno y confiado abrió el camino a la Resurrección (cf. Hb 5,7).

6. Hermanos y hermanas: esta reflexión sobre la crisis nos pone en guardia ante el peligro de juzgar precipitadamente a la Iglesia por las crisis que causaron los escándalos de ayer y de hoy, como lo hizo el profeta Elías que, al desahogarse con el Señor, le presentó una narración desesperanzadora de la realidad: «¡Me consumo de celo por el Señor, Dios del universo, porque los israelitas han abandonado tu Alianza, han derribado tus altares y han matado a tus profetas por la espada: he quedado yo solo y buscan también quitarme la vida!» (1 R 19,14). Y con qué frecuencia incluso nuestros análisis eclesiales parecen historias sin esperanza. Una lectura desesperada de la realidad no se puede llamar realista. La esperanza da a nuestros análisis lo que nuestra mirada miope es tan a menudo incapaz de percibir. Dios responde a Elías que la realidad no es como la percibió: «Regresa por tu camino hacia el desierto de Damasco. […] He dejado en Israel siete mil personas, todas las rodillas que no se doblaron ante Baal y todas las bocas que no lo besaron» (1 R 19,15.18). No es verdad que él estuviera solo: está en crisis.

Dios sigue haciendo germinar las semillas de su Reino entre nosotros. Aquí en la Curia hay muchos que dan testimonio con el trabajo humilde, discreto, sin chismorreos, silencioso, leal, profesional y honesto. Son muchos entre ustedes, gracias. Nuestra época también tiene sus problemas, pero también tiene el testimonio vivo del hecho de que el Señor no ha abandonado a su pueblo, con la única diferencia de que los problemas aparecen inmediatamente en los periódicos —esto está al orden del día—, en cambio los signos de esperanza son noticia sólo después de mucho tiempo, y no siempre.

Quienes no miran la crisis a la luz del Evangelio, se limitan a hacer la autopsia de un cadáver: miran la crisis, pero sin la esperanza del Evangelio, sin la luz del Evangelio. La crisis nos asusta no sólo porque nos hemos olvidado de evaluarla como nos invita el Evangelio, sino porque nos hemos olvidado de que el Evangelio es el primero que nos pone en crisis.[4] Es el Evangelio el que nos pone en crisis. Pero si volvemos a encontrar el valor y la humildad de decir en voz alta que el tiempo de crisis es un tiempo del Espíritu, entonces, incluso ante la experiencia de la oscuridad, la debilidad, la fragilidad, las contradicciones, el desconcierto, ya no nos sentiremos agobiados, sino que mantendremos constantemente una confianza íntima de que las cosas van a cambiar, que surge exclusivamente de la experiencia de una Gracia escondida en la oscuridad. «Porque el oro se purifica con el fuego, y los que agradan a Dios, en el horno de la humillación» (Si 2,5).

7.Por último, quisiera exhortarlos a no confundir la crisis con el conflicto: son dos realidades diferentes. La crisis generalmente tiene un resultado positivo, mientras que el conflicto siempre crea un contraste, una rivalidad, un antagonismo aparentemente sin solución, entre sujetos divididos en amigos para amar y enemigos contra los que pelear, con la consiguiente victoria de una de las partes.

La lógica del conflicto siempre busca “culpables” a quienes estigmatizar y despreciar y “justos” a quienes justificar, para introducir la conciencia —muchas veces mágica— de que esta o aquella situación no nos pertenece. Esta pérdida del sentido de pertenencia común favorece el crecimiento o la afirmación de ciertas actitudes de carácter elitista y de “grupos cerrados” que promueven lógicas limitadoras y parciales, que empobrecen la universalidad de nuestra misión. «Cuando nos detenemos en la coyuntura conflictiva, perdemos el sentido de la unidad profunda de la realidad» (Exhort. ap. Evangelii gaudium, 226).

La Iglesia, entendida con las categorías de conflicto —derecha e izquierda, progresista y tradicionalista—, fragmenta, polariza, pervierte y traiciona su verdadera naturaleza. La Iglesia es un Cuerpo perpetuamente en crisis, precisamente porque está vivo, pero nunca debe convertirse en un Cuerpo en conflicto, con ganadores y perdedores. En efecto, de esta manera difundirá temor, se hará más rígida, menos sinodal, e impondrá una lógica uniforme y uniformadora, tan alejada de la riqueza y la pluralidad que el Espíritu ha dado a su Iglesia.

La novedad introducida por la crisis que desea el Espíritu no es nunca una novedad en oposición a lo antiguo, sino una novedad que brota de lo antiguo y que siempre la hace fecunda. Jesús usa una expresión que explica este pasaje de un modo sencillo y claro: «Si el grano de trigo no cae en tierra y muere, queda infecundo; pero si muere, da mucho fruto» (Jn 12,24).El acto de morir de la semilla es un acto ambivalente, porque al mismo tiempo marca el final de algo y el comienzo de otro. Llamamos al mismo momento muerte-descomponerse y nacimiento-germinar porque son la misma realidad. Ante nuestros ojos vemos un final y al mismo tiempo en ese final se manifiesta un comienzo nuevo.

En este sentido, toda la resistencia que ponemos cuando entramos en crisis, a la que nos conduce el Espíritu en el momento de la prueba, nos condena a permanecer solos y estériles, al máximo en conflicto. Al defendernos de la crisis, obstruimos la obra de la Gracia de Dios que quiere manifestarse en nosotros y a través de nosotros. Por lo tanto, si un cierto realismo nos muestra nuestra historia reciente sólo como la suma de intentos fallidos, de escándalos, de caídas, de pecados, de contradicciones, de cortocircuitos en el testimonio, no debemos temer, ni negar la evidencia de todo lo que en nosotros y en nuestras comunidades está afectado por la muerte y necesita conversión. Todo lo que de mal, contradictorio, débil y frágil se manifiesta abiertamente nos recuerda aún más fuertemente la necesidad de morir a una forma de ser, de razonar y de actuar que no refleja el Evangelio. Sólo muriendo a una cierta mentalidad se logrará también dar espacio a la novedad que el Espíritu suscita constantemente en el corazón de la Iglesia.Los Padres de la Iglesia eran conscientes de esto, que llamaron “metanoia”.

8. De cada crisis emerge siempre una adecuada necesidad de renovación: es un paso adelante. Pero si realmente queremos una renovación, debemos tener la valentía de estar dispuestos a todo; debemos dejar de pensar en la reforma de la Iglesia como un remiendo en un vestido viejo, o la simple redacción de una nueva Constitución apostólica. La reforma de la Iglesia es algo diferente.

No se trata de “remendar un vestido”, porque la Iglesia no es simplemente el “vestido” de Cristo, sino su cuerpo que abarca toda la historia (cf. 1 Co 12,27). Nosotros no estamos llamados a cambiar o reformar el Cuerpo de Cristo —«Jesucristo es el mismo ayer, hoy y siempre» (Hb 13,8)—, sino que estamos llamados a vestir ese mismo Cuerpo con un vestido nuevo, para que se manifieste claramente que la Gracia que se posee no viene de nosotros sino de Dios: porque «llevamos este tesoro en vasijas de barro, para que quede claro que ese poder tan extraordinario proviene de Dios y no de nosotros» (2 Co 4,7). La Iglesia es siempre una vasija de barro, preciosa por lo que contiene y no por lo que a veces muestra de sí misma. Al final, tendré el gusto de darles un libro, regalo del padre Ardura, donde se muestra la vida de una vasija de barro, que ha hecho resplandecer la grandeza de Dios y las reformas de la Iglesia. Este es un momento en el que parece evidente que el barro del que estamos modelados está desportillado, agrietado, roto. Debemos esforzarnos para que nuestra fragilidad no se convierta en un obstáculo para el anuncio del Evangelio, sino en un lugar donde se manifieste el gran amor con el que Dios, rico en misericordia, nos ha amado y nos ama (cf. Ef 2,4). Si quitáramos a Dios, que es rico de misericordia, de nuestras vidas, nuestras vidas serían una mentira, una mentira.

Durante el período de la crisis, Jesús nos advierte sobre algunos intentos para salir de ella que están destinados desde el principio a ser infructuosos, como el que «corta un pedazo de un vestido nuevo para remendar uno viejo»; el resultado es predecible: romperás el nuevo, porque «el remiendo no quedará bien en el vestido nuevo». Análogamente, «nadie echa vino nuevo en odres viejos. Si hace así, el vino nuevo reventará los odres viejos, el vino se derramará y los odres se echarán a perder. ¡El vino nuevo se echa en odres nuevos!» (Lc 5,36-38).

El comportamiento correcto es el del «maestro de la ley que se ha convertido en discípulo del Reino de los cielos», que «se parece al dueño de una casa que saca de su tesoro cosas nuevas y antiguas» (Mt 13,52). El tesoro es la Tradición que, como recordaba Benedicto XVI, «es el río vivo que se remonta a los orígenes, el río vivo en el que los orígenes están siempre presentes. El gran río que nos lleva al puerto de la eternidad» (Catequesis, 26 abril 2006). Me viene a la mente la frase de aquel gran músico alemán: “La tradición es la salvaguarda del futuro y no un museo, guardián de las cenizas”. Las “cosas antiguas” las constituyen la verdad y la gracia que ya poseemos. Las cosas nuevas las forman los diferentes aspectos de la verdad que vamos comprendiendo gradualmente. Aquella frase del siglo V: “Ut annis scilicet consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate”. Esta es la tradición, así crece. Ninguna forma histórica de vivir el Evangelio agota su comprensión. Si nos dejamos guiar por el Espíritu Santo, cada día nos acercaremos más a «toda la verdad» (Jn 16,13). Por el contrario, sin la gracia del Espíritu Santo, podemos incluso comenzar a pensar en la Iglesia de modo sinodal, pero, en lugar de hacer referencia a la comunión con la presencia del Espíritu, se la concibe como una asamblea democrática cualquiera, formada por mayorías y minorías. Como un parlamento, por ejemplo; y esta no es sinodalidad. Sólo la presencia del Espíritu Santo hace la diferencia.

9. ¿Qué hacer durante la crisis? En primer lugar, aceptarla como un tiempo de gracia que se nos ha dado para descubrir la voluntad de Dios para cada uno de nosotros y para toda la Iglesia. Es necesario entrar en la lógica aparentemente contradictoria de que «cuando soy débil, ¡entonces soy fuerte!» (2 Co 12,10). Se debe recordar la garantía que dio san Pablo a los de corinto: «Dios es fiel, y él no permitirá que sean probados por encima de sus fuerzas, sino que junto con la prueba hará que encuentren el modo de sobrellevarla» (1 Co 10,13).

Es fundamental no interrumpir el diálogo con Dios, aunque sea agotador. Rezar no es fácil. No debemos cansarnos de rezar siempre (cf. Lc 21,36; 1 Ts 5,17). No conocemos otra solución a los problemas que estamos experimentando que rezar más y, al mismo tiempo, hacer todo lo que podemos con mayor confianza. La oración nos permitirá “esperar contra toda esperanza” (cf. Rm 4,18).

10. Queridos hermanos y hermanas: Conservemos una profunda paz y serenidad, con la plena certeza de que todos nosotros, y yo en primer lugar, somos solamente «servidores a los que nada hay que agradecer» (Lc 17,10), de los que el Señor ha tenido misericordia. Por eso sería bueno que dejáramos de vivir en conflicto y volviéramos en cambio a sentirnos en camino, abiertos a la crisis. El camino siempre tiene que ver con verbos de movimiento. La crisis es movimiento, es parte del camino. El conflicto, en cambio, es un camino falso, es un vagar sin objetivo ni finalidad, es quedarse en el laberinto, es sólo una pérdida de energía y una oportunidad para el mal. Y el primer mal al que nos lleva el conflicto, y del que debemos tratar de alejarnos, es propiamente la murmuración. ¡Tengamos cuidado con esto! No es una manía que tengo de hablar contra el chismorreo; es la denuncia de un mal que entra en la Curia; aquí en el Palacio hay tantas puertas y ventanas y entra, y nos acostumbramos a esto. El chismorreo nos encierra en la más triste, desagradable y sofocante autorreferencia, y convierte cada crisis en un conflicto. El Evangelio nos dice que los pastores creyeron en el anuncio del ángel y se pusieron en camino hacia Jesús (cf. Lc 2,15-16). Herodes, por el contrario, se cerró ante el relato de los magos y transformó su cerrazón en mentiras y violencia (cf. Mt 2,1-16).

Cada uno de nosotros, cualquiera que sea nuestro puesto en la Iglesia, debe preguntarse si quiere seguir a Jesús con la docilidad de los pastores o con la autoprotección de Herodes, seguirlo en la crisis o defendernos de Él en el conflicto.

Permítanme que les pida expresamente a todos los que, junto conmigo, están al servicio del Evangelio el regalo de Navidad: Su colaboración generosa y apasionada en el anuncio de la Buena Nueva, especialmente a los pobres (cf. Mt 11,5). Recordemos que conoce verdaderamente a Dios quien solamente acoge al pobre que viene de abajo con su miseria, y que en esta misma capacidad es enviado desde arriba; no podemos ver el rostro de Dios, pero podemos experimentarlo en su vuelta hacia nosotros cuando honramos el rostro de nuestro prójimo, del otro que nos compromete con sus necesidades.[5] El rostro de los pobres. Los pobres están en el centro del Evangelio. Me viene a la mente lo que decía aquel santo obispo brasileño: “Cuando me ocupo de los pobres, dicen de mí que soy un santo; pero cuando me cuestiono y pregunto: ‘¿Por qué hay tanta pobreza?’, me dicen ‘comunista’”.

Que no haya nadie que voluntariamente obstaculice la obra que el Señor está realizando en este momento, y pidamos el don de la humildad en el servicio para que Él crezca y nosotros disminuyamos (cf. Jn 3,30).

Felicidades a todos, a cada uno de ustedes, a sus familias y a sus amigos. Y gracias, gracias por vuestro trabajo. Muchas gracias. Y, por favor, recen siempre por mí, para que tenga la valentía de permanecer en crisis. Feliz Navidad. Gracias.

[Bendición]

Olvidé decirles que les regalaré dos libros. Uno, la vida de Carlos de Foucauld, un maestro de la crisis, que nos dejó un regalo, un hermoso legado. Este es un regalo que me dio el padre Ardura: gracias. El otro se llama “Olotropía: los verbos de la familiaridad cristiana”. Son para ayudarnos a vivir nuestras vidas. Es un libro que se ha publicado en estos días, realizado por un biblista, discípulo del cardenal Martini; ha trabajado en Milán, pero es de la diócesis de Albenga - Imperia.

____________________

[1] H. Arendt, La condición humana, ed. Paidós, Barcelona 2012, 264.
[2]
Ibíd.
[3]
Discurso en el encuentro ecuménico e interreligioso con los jóvenes, Skopie – Macedonia del Norte (7 mayo 2019): L’Osservatore Romano, ed. semanal en lengua española (10 mayo 2019), p. 13.
[4]
«Muchos discípulos de Jesús que lo habían oído decían: “¡Es dura esta enseñanza! ¿Quién puede aceptarla?”. Dándose cuenta de que sus discípulos murmuraban, Jesús les preguntó: “¿Esto los escandaliza?”» (Jn 6,60-61). Pero, sólo desde esta crisis puede brotar una profesión de fe: «“Señor, ¿a quién iremos? Tú tienes palabras de vida eterna”» (Jn 6,68).
[5]
Cf. E. Levinas, Totalité et infini, París 2000, 76.

[01590-ES.01] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

Queridos irmãos e irmãs!

1. O Natal de Jesus de Nazaré é o mistério dum nascimento que nos recorda que «os homens, embora tenham de morrer, não nasceram para morrer, mas para recomeçar», como observa de maneira clarividente e incisiva Hanna Arendt, a filósofa judia que inverte o pensamento do seu mestre Heidegger, segundo o qual o homem nasce para ser lançado na morte. Sobre as ruínas dos totalitarismos do século XX, Arendt reconhece esta verdade luminosa: «O milagre que preserva o mundo, a esfera das vicissitudes humanas, da sua ruína normal, “natural”, é em última instância o facto da natalidade. (…) É esta fé e esperança no mundo que encontra a sua expressão talvez mais gloriosa e eficaz nas poucas palavras com que o Evangelho anunciou a “feliz notícia” do advento: “Um menino nasceu para nós”».[1]

2. Perante o mistério da Encarnação, junto do Menino deitado numa manjedoura (cf. Lc 2, 16), bem como diante do Mistério Pascal, na presença do homem crucificado, só encontramos o lugar certo se nos apresentarmos desarmados, humildes, essenciais; só depois de termos realizado no meio onde vivemos – incluindo a Cúria Romana – o programa de vida sugerido por São Paulo: «Toda a espécie de azedume, raiva, ira, gritaria e injúria desapareça de vós, juntamente com toda a maldade. Sede, antes, bondosos uns para com os outros, compassivos; perdoando-vos mutuamente como também Deus vos perdoou em Cristo» (Ef 4, 31-32); só se estivermos «revestidos de humildade» (cf. 1 Ped 5, 5), imitando Jesus «manso e humilde de coração» (Mt 11, 29); só depois de nos termos colocado «no último lugar» (Lc 14, 10) e feito «servo de todos» (cf. Mc 10, 44). E a este respeito, nos seus Exercícios, Santo Inácio chega ao ponto de pedir que nos imaginemos no cenário do presépio, «fazendo-me eu – escreve – pobre e indigno servo que olha para eles, contempla-os e serve-os nas suas necessidades» (114, 2).

Agradeço ao Cardeal Decano as suas palavras de saudação neste Natal, nelas expressando os sentimentos de todos. Cardeal Re, obrigado!

3. Este Natal fica marcado pela pandemia, pela crise sanitária, pela crise económica, social e até eclesial que atingiu, sem distinções, o mundo inteiro. A crise deixou de ser um lugar-comum dos discursos e da elite intelectual para se tornar uma realidade partilhada por todos.

Este flagelo foi um teste considerável e, ao mesmo tempo, uma grande ocasião para nos convertermos e recuperarmos a autenticidade.

Em 27 de março passado, no Adro de São Pedro com a Praça aparentemente vazia mas na realidade estava cheia graças à pertença fraterna que nos acomuna nos vários cantos da terra, quando lá quis rezar por todos e com todos, tive ocasião de referir em voz alta o possível significado da «tempestade» (cf. Mc 4, 35-41) que se abatera sobre o mundo: «A tempestade desmascara a nossa vulnerabilidade e deixa a descoberto as falsas e supérfluas seguranças com que construímos os nossos programas, os nossos projetos, os nossos hábitos e prioridades. Mostra-nos como deixamos adormecido e abandonado aquilo que nutre, sustenta e dá força à nossa vida e à nossa comunidade. A tempestade põe a descoberto todos os propósitos de “empacotar” e esquecer o que alimentou a alma dos nossos povos; todas as tentativas de anestesiar com hábitos aparentemente “salvadores”, incapazes de fazer apelo às nossas raízes e evocar a memória dos nossos idosos, privando-nos assim da imunidade necessária para enfrentar as adversidades. Com a tempestade, caiu a maquilhagem dos estereótipos com que mascaramos o nosso “eu” sempre preocupado com a própria imagem; e ficou a descoberto, uma vez mais, aquela (abençoada) pertença comum a que não nos podemos subtrair: a pertença como irmãos».

4. Precisamente neste tempo difícil, quis a Providência dar-me a possibilidade de escrever a encíclica Fratelli tutti, dedicada ao tema da fraternidade e da amizade social. E dos «evangelhos da infância», onde se narra o nascimento de Jesus, vem-nos uma lição, ou seja, a de uma nova cumplicidade – uma nova cumplicidade! – e união que se cria entre quantos são os seus protagonistas: Maria, José, os pastores, os magos e todos aqueles que, duma forma ou doutra, ofereceram a sua fraternidade, a sua amizade, para poder ser acolhido na escuridão da história o Verbo que Se fez carne (cf. Jo 1, 14).

Assim deixei escrito na referida encíclica: «Desejo ardentemente que, neste tempo que nos cabe viver, reconhecendo a dignidade de cada pessoa humana, possamos fazer renascer, entre todos, um anseio mundial de fraternidade. Entre todos: Aqui está um ótimo segredo para sonhar e tornar a nossa vida uma bela aventura. Ninguém pode enfrentar a vida isoladamente (...); precisamos duma comunidade que nos apoie, que nos auxilie e dentro da qual nos ajudemos mutuamente a olhar em frente. Como é importante sonhar juntos! (...) Sozinho, corres o risco de ter miragens, vendo aquilo que não existe; é juntos que se constroem os sonhos. Sonhemos como uma única humanidade, como caminhantes da mesma carne humana, como filhos desta mesma terra que nos alberga a todos, cada qual com a riqueza da sua fé ou das suas convicções, cada qual com a própria voz, mas todos irmãos» (Fratelli tutti, 8).

5. A crise da pandemia é ocasião propícia para uma breve reflexão sobre o significado da crise em si mesma, que nos possa ajudar a cada um.

A crise é um fenómeno que afeta tudo e todos. Presente por todo o lado e em cada período da história, envolve as ideologias, a política, a economia, a técnica, a ecologia, a religião. Trata-se duma etapa obrigatória da história pessoal e da história social. Manifesta-se como um facto extraordinário, que provoca sempre um sentimento de trepidação, angústia, desequilíbrio e incerteza nas opções a tomar. Como lembra a raiz etimológica do verbo krino, a crise é aquele crivo que limpa o grão de trigo depois da ceifa.

A própria Bíblia está povoada por pessoas que foram «passadas pelo crivo», por «personagens em crise», mas que, precisamente através dela, realizam a história da salvação.

A crise de Abraão, que deixa a sua terra (Gn 12, 1-2) e vive a grande prova de dever sacrificar a Deus o seu único filho (Gn 22, 1-19), é resolvida, do ponto de vista teologal, com o nascimento dum novo povo. Mas este nascimento não poupa Abraão de viver um drama onde a confusão e o desorientamento só não prevaleceram graças à fortaleza da sua fé.

A crise de Moisés manifesta-se na falta de confiança em si mesmo: «Quem sou eu para ir ter com o faraó e fazer sair os filhos de Israel do Egito?» (Ex 3, 11); «eu não sou um homem dotado para falar (…), tenho a boca e a língua pesadas» (Ex 4, 10); «sou incircunciso de lábios» (Ex 6, 12.30). Por isso, tenta evitar a missão que Deus lhe confia: «Senhor, envia a mensagem pela mão de outro» (Ex 4, 13). Mas, por meio desta crise, Deus fez de Moisés o seu servo, que guiou o povo para fora do Egito.

Elias, o profeta tão forte que foi comparado ao fogo (cf. Sir 48, 1), num momento de grande crise até desejou a morte, mas depois experimentou a presença de Deus, não no vento impetuoso, nem no tremor de terra, nem no fogo, mas no «murmúrio duma brisa suave» (cf. 1 Rs 19, 11-12). A voz de Deus nunca é a voz rumorosa da crise, mas é o murmúrio que nos fala dentro da própria crise.

João Baptista sente-se acabrunhado pela dúvida sobre a identidade messiânica de Jesus (cf. Mt 11, 2-6), porque não Se apresenta como o justiceiro que ele talvez esperasse (cf. Mt 3, 11-12); mas é precisamente depois do facto da prisão de João que Jesus começa a pregar o Evangelho de Deus (cf. Mc 1, 14).

E ainda a crise teológica de Paulo de Tarso: abalado pelo deslumbrante encontro com Cristo no caminho de Damasco (cf. At 9, 1-19; Gal 1, 15-16), é impelido a deixar as suas seguranças para seguir Jesus (cf. Flp 3, 4-10). São Paulo foi verdadeiramente um homem que se deixou transformar pela crise e, por isso, foi o artífice daquela crise que impeliu a Igreja a sair do recinto de Israel para chegar aos confins da terra.

Poderíamos prolongar a lista de personagens bíblicos – há tantos – e cada um de nós poderia encontrar nela o seu lugar.

Mas a crise mais eloquente é a de Jesus: os evangelhos sinópticos destacam que inaugura a sua vida pública com a experiência da crise vivida nas tentações. Embora o protagonista desta situação possa parecer o diabo com as suas falsas propostas, todavia o verdadeiro protagonista é o Espírito Santo; é Ele, de facto, quem conduz Jesus neste momento decisivo da sua vida: «O Espírito conduziu Jesus ao deserto, a fim de ser tentado pelo diabo» (Mt 4, 1).

Os evangelistas evidenciam que os quarenta dias vividos por Jesus no deserto estão marcados pela experiência da fome e da fragilidade (cf. Mt 4, 2; Lc 4, 2). E é precisamente no mais fundo desta fome e desta fragilidade que o maligno tenta jogar o seu trunfo, aproveitando-se da humanidade cansada de Jesus. Mas, naquele homem provado pelo jejum, o Tentador experimenta a presença do Filho de Deus que sabe vencer a tentação por meio da Palavra de Deus, não com a palavra própria. Jesus nunca dialoga com o diabo, nunca! E isto é uma lição para nós: com o diabo nunca se dialoga. Jesus expulsa-o ou obriga-o a manifestar o seu nome; mas com o diabo, nunca se dialoga.

Depois Jesus enfrentou uma crise indescritível no Getsémani: solidão, medo, angústia, a traição de Judas e o abandono dos Apóstolos (cf. Mt 26, 36-50). Por fim, vem a crise extrema na cruz: a solidariedade com os pecadores até ao ponto de Se sentir abandonado pelo Pai (cf. Mt 27, 46). Apesar disso, é com plena confiança que entregou o seu espírito nas mãos do Pai (cf. Lc 23, 46). E este seu abandono total e confiante abriu o caminho da ressurreição (cf. Heb 5, 7).

6. Irmãos e irmãs, esta reflexão sobre a crise alerta para não julgarmos precipitadamente a Igreja com base nas crises causadas pelos escândalos de ontem e de hoje, como fez o profeta Elias que, desabafando com o Senhor, Lhe apresentou uma descrição da realidade sem esperança: «Ardo em zelo pelo Senhor, Deus do universo, porque os filhos de Israel abandonaram a tua aliança, derrubaram os teus altares e mataram os teus profetas. Só eu escapei; mas agora também me querem matar a mim» (1 Rs 19, 14). E quantas vezes também as nossas análises eclesiais parecem descrições sem esperança. Uma leitura da realidade sem esperança não se pode chamar realista. A esperança dá às nossas análises aquilo que muitas vezes o nosso olhar míope é incapaz de captar. Deus responde a Elias que a realidade não é assim como ele a percebeu: «Vai e volta pelo caminho do deserto em direção a Damasco (…), deixarei com vida em Israel sete mil homens que não ajoelharam perante Baal e cujos lábios o não beijaram» (1 Rs 19, 15.18). Não é verdade que o profeta está esteja sozinho: está em crise.

Deus continua a fazer germinar as sementes do seu Reino no meio de nós. Aqui, na Cúria, muitos são os que dão testemunho com o trabalho humilde, discreto, sem murmurações, silencioso, leal, profissional, honesto. São muitos, no vosso meio... Obrigado! O nosso tempo também tem os seus problemas, mas possui igualmente o testemunho vivo de que o Senhor não abandonou o seu povo, com a única diferença de que os problemas vão parar imediatamente aos jornais –sucede isto todos os dias –, enquanto os sinais de esperança fazem notícia só depois de muito tempo e… nem sempre.

Quem não olha a crise à luz do Evangelho limita-se a fazer a autópsia dum cadáver: olha a crise, mas sem a esperança do Evangelho, sem a luz do Evangelho. Estamos assustados com a crise não só porque nos esquecemos de a avaliar como o Evangelho nos convida a fazê-lo, mas também porque olvidamos que o Evangelho é o primeiro a colocar-nos em crise.[2] É o Evangelho que nos coloca em crise. Mas, se reencontrarmos a coragem e a humildade de dizer em voz alta que o tempo da crise é um tempo do Espírito, então, mesmo no meio da experiência da escuridão, da fraqueza, da fragilidade, das contradições, da confusão, já não nos sentiremos esmagados, mas conservaremos sempre a confiança íntima de que as coisas estão prestes a assumir uma forma nova, nascida exclusivamente da experiência duma graça escondida na escuridão. «Porque no fogo se prova o ouro; e os eleitos de Deus, no cadinho da humilhação» (Sir 2, 5).

7. Por fim, gostaria de vos exortar a não confundir a crise com o conflito. São duas coisas distintas… A crise geralmente tem um desfecho positivo, enquanto o conflito cria sempre um contraste, uma competição, um antagonismo aparentemente sem solução, entre sujeitos que se dividem em amigos a amar e inimigos a combater, com a consequente vitória de uma das partes.

A lógica do conflito sempre busca os «culpados» a estigmatizar e desprezar e os «justos» a justificar, a fim de introduzir a noção – muitas vezes mágica – de que esta ou aquela situação nada tem a ver connosco. Esta perda do sentido duma pertença comum favorece o crescimento ou a afirmação de certas atitudes elitistas e de «grupos fechados» que promovem lógicas restritivas e parciais, que empobrecem a universalidade da nossa missão. «Quando paramos na conjuntura conflitual, perdemos o sentido da unidade profunda da realidade» (Francisco, Exort. ap. Evangelii gaudium, 226).

Lida com as categorias de conflito – direita e esquerda, progressista e tradicionalista –, a Igreja divide-se, polariza-se, perverte-se e atraiçoa a sua verdadeira natureza: é um Corpo perenemente em crise, precisamente porque está vivo, mas não deve tornar-se jamais um Corpo em conflito com vencedores e vencidos, pois deste modo semeará temor, tornar-se-á mais rígida, menos sinodal, e imporá uma lógica uniforme e uniformizadora, muito distante da riqueza e pluralidade que o Espírito deu à sua Igreja.

A novidade introduzida pela crise querida pelo Espírito nunca é uma novidade em contraposição ao antigo, mas uma novidade que germina do antigo e o torna sempre fecundo. Jesus usa uma frase que expressa esta passagem de forma simples e clara: «Se o grão de trigo, lançado à terra, não morrer, fica ele só; mas, se morrer, dá muito fruto» (Jo 12, 24). O ato de morrer da semente é ambivalente, porque assinala simultaneamente o fim dalguma coisa e o início doutra. Ao mesmo momento chamamos morte-apodrecer e nascimento-germinar, porque são a mesma coisa: diante dos nossos olhos, vemos um fim e, ao mesmo tempo, naquele fim manifesta-se um novo início.

Neste sentido, todas as resistências que fazemos ao entrar em crise, deixando-nos conduzir pelo Espírito no tempo da prova, condenam-nos a ficar sós e estéreis, no máximo em conflito. Defendendo-nos da crise, obstaculizamos a obra da graça de Deus, que quer manifestar-se em nós e por meio de nós. Por isso, se um certo realismo nos mostra a nossa história recente apenas como a soma de tentativas, nem sempre bem-sucedidas, de escândalos, quedas, pecados, de contradições, de curtos-circuitos no testemunho, não devemos assustar-nos, nem negar a evidência de tudo aquilo que em nós e nas nossas comunidades é afetado pela morte e precisa de conversão. Tudo aquilo que de mau, contraditório, fraco e frágil se manifesta abertamente, lembra-nos ainda mais intensamente a necessidade de morrer para um modo de ser, raciocinar e agir que não reflete o Evangelho. Só morrendo para uma certa mentalidade é que conseguiremos também abrir espaço à novidade que o Espírito suscita constantemente no coração da Igreja. Bem cientes disto estavam os Padres da Igreja, apelando continuamente à metanoia.

8. Subjacente a cada crise, há sempre uma justa exigência de atualização: é um passo em frente. Mas se quisermos de verdade uma atualização, devemos ter a coragem duma disponibilidade sem limites; há que deixar de pensar na reforma da Igreja como remendo dum vestido velho ou mera redação duma nova constituição apostólica. A reforma da Igreja é outra coisa.

Não se trata de «remendar uma peça de vestuário», porque a Igreja não é simples «vestido» de Cristo, mas o seu Corpo que abraça a história inteira (cf. 1 Cor 12, 27). Somos chamados, não a mudar ou reformar o Corpo de Cristo – «Jesus Cristo é o mesmo ontem, hoje e pelos séculos» (Heb 13, 8) –, mas a revestir com um vestido novo aquele mesmo Corpo, a fim de que resulte claramente que a graça possuída não vem de nós, mas de Deus: de facto, «trazemos este tesouro em vasos de barro, para que se veja que este extraordinário poder é de Deus e não é nosso» (2 Cor 4, 7). A Igreja é sempre um vaso de barro, precioso pelo que contém e não pelo que às vezes mostra de si mesma. No fim, terei o prazer de vos dar um livro, um presente de Padre Ardura, onde se mostra a vida dum vaso de barro, que fez brilhar a grandeza de Deus e as reformas da Igreja. Este é um tempo em que parece evidente que o barro de que fomos feitos está lascado, rachado, partido. Temos de esforçar-nos por que a nossa fragilidade não se torne obstáculo ao anúncio do Evangelho, mas lugar onde se manifeste o grande amor com que Deus, rico em misericórdia, nos amou e continua a amar (cf. Ef 2, 4). Se riscássemos Deus, rico em misericórdia, da nossa vida, esta seria uma farsa, uma mentira.

Durante o período da crise, Jesus acautela-nos dalgumas tentativas de sair dela que, à partida, estão condenadas ao fracasso, como aquela que «recorta um bocado de roupa nova para o deitar em roupa velha»; o resultado é previsível: ficará rasgada a nova e, «à roupa velha, não se ajustará bem o remendo que vem da nova». Da mesma forma, «ninguém deita vinho novo em odres velhos; se o fizer, o vinho novo rompe os odres e derrama-se, e os odres ficarão perdidos. Mas deve deitar-se o vinho novo em odres novos» (Lc 5, 36-38).

O comportamento correto é o do «doutor da Lei instruído acerca do Reino dos céus [que] é semelhante a um pai de família, que tira coisas novas e antigas do seu tesouro» (Mt 13, 52). O tesouro é a Tradição; esta, como recordava Bento XVI, «é o rio vivo que nos liga às origens, o rio vivo no qual as origens estão sempre presentes. O grande rio que nos conduz ao porto da eternidade (Catequese, 26/IV/2006). Isto traz-me ao pensamento a frase daquele grande musicista alemão: «A tradição é a salvaguarda do futuro e não um museu, guardião das cinzas». São «coisas antigas» a verdade e a graça que já possuímos. As «coisas novas» são os vários aspetos da verdade que pouco a pouco vamos compreendendo. Aquela frase do século V «ut annis scilicet consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate – fortalece-se com o decorrer dos anos, desenvolve-se com o andar dos tempos, cresce através das idades» define o que é a tradição; por isso cresce. Nenhuma modalidade histórica de viver o Evangelho esgota a sua compreensão. Se nos deixarmos guiar pelo Espírito Santo, iremos dia após dia aproximando-nos cada vez mais da «Verdade completa» (Jo 16, 13). Ao contrário, sem a graça do Espírito Santo, pode-se até começar a conceber a Igreja de forma sinodal, mas, em vez de se referir à comunhão com a presença do Espírito Santo, chega a ser concebida como qualquer assembleia democrática composta por maiorias e minorias, por exemplo, como um Parlamento; e a sinodalidade não é isto. Só a presença do Espírito Santo fará a diferença.

9. Como comportar-nos na crise? Antes de mais nada, aceitá-la como um tempo de graça que nos foi dado para compreender a vontade de Deus sobre cada um de nós e a Igreja inteira. É preciso entrar na lógica, aparentemente contraditória, de que, «quando sou fraco, então é que sou forte» (2 Cor 12, 10). Tenha-se presente a garantia dada por São Paulo aos Coríntios: «Deus é fiel e não permitirá que sejais tentados acima das vossas forças, mas, com a tentação, vos dará os meios de sair dela e a força para a suportar» (1 Cor 10, 13).

Ponto fundamental é não interromper o diálogo com Deus, mesmo que seja cansativo. Rezar não é fácil. Não devemos cansar-nos de rezar sempre (cf. Lc 21, 36; 1 Ts 5, 17). Não conhecemos outra solução para os problemas que estamos a viver, senão a de rezar mais e, ao mesmo tempo, fazer tudo o que nos for possível com mais confiança. A oração permitir-nos-á ter «esperança, para além do que se podia esperar» (Rm 4, 18).

10. Amados irmãos e irmãs, conservemos uma grande paz e serenidade, plenamente conscientes de que todos nós, a começar por mim, somos apenas «servos inúteis» (Lc 17, 10), com quem usou de misericórdia o Senhor. Por isso, seria bom se deixássemos de viver em conflito e voltássemos a sentir-nos a caminho, abertos à crise. O caminho sempre tem a ver com os verbos de movimento. A crise é movimento, faz parte do caminho. Ao contrário, o conflito é um caminho fictício, é um girovagar sem motivo nem finalidade, é permanecer no labirinto, é só desperdício de energias e ocasião de mal. E o primeiro mal a que nos leva o conflito e do qual devemos procurar fugir, é a murmuração. Tenhamos cuidado com isto! Falar contra a murmuração não é uma mania minha; é a denúncia dum mal que entra na Cúria; aqui, no Palácio, há muitas portas e janelas que lhe dão entrada e habituamo-nos a isto, à maledicência, que nos fecha na mais triste, desagradável e sufocante autorreferencialidade e transforma toda a crise em conflito. Narra o Evangelho que os pastores acreditaram no anúncio do Anjo e puseram-se a caminho para ir ver Jesus (cf. Lc 2, 15-16). Ao contrário, Herodes fecha-se diante da narração dos Magos e transformou este seu fechamento em mentira e violência (cf. Mt 2, 1-16).

Cada um de nós, independentemente do lugar que ocupa na Igreja, interrogue-se se quer seguir Jesus com a docilidade dos pastores ou com a autoproteção de Herodes, segui-Lo na crise ou defender-se d’Ele no conflito.

Permiti que vos peça expressamente, a todos vós que me acompanhais no serviço do Evangelho, esta prenda de Natal: a vossa colaboração generosa e apaixonada no anúncio da Boa Nova sobretudo aos pobres (cf. Mt 11, 5). Lembremo-nos que só conhece verdadeiramente a Deus quem acolhe o pobre que vem de baixo com a sua miséria e que, precisamente nestas vestes, é enviado do Alto; não podemos ver o rosto de Deus, mas podemos experimentá-lo ao olhar para nós quando honramos o rosto do próximo, do outro que nos ocupa com as suas necessidades.[3] O rosto dos pobres. Os pobres são o centro do Evangelho. E recordo o que dizia aquele santo bispo brasileiro: «Quando me ocupo dos pobres, dizem de mim que sou um santo; mas, quando me pergunto e lhes pergunto: “Porquê tanta pobreza?”, chamam-me “comunista”».

Não haja ninguém que dificulte voluntariamente a obra que o Senhor está a realizar neste momento, e peçamos o dom da humildade do serviço a fim de que Ele cresça e nós diminuamos (cf. Jo 3, 30).

Boas-festas a todos, a cada um de vós, às vossas famílias e aos vossos amigos. E obrigado! Obrigado pelo vosso trabalho. Muito obrigado! E, por favor, rezai sempre por mim, para que tenha a coragem de permanecer em crise. Feliz Natal! Obrigado!

[Bênção]

Esqueci-me de dizer que vos darei, de prenda, dois livros. Um é a vida de Carlos de Foucauld, um Mestre da crise, que nos deixou um dom, um legado belíssimo. Trata-se duma oferta que me fez o Padre Ardura: obrigado! O outro intitula-se «Holotropia: os verbos da familiaridade cristã»; servem para ajudar a viver a nossa vida. É um livro publicado nestes dias, escrito por um biblista, discípulo do Cardeal Martini; trabalhou em Milão, mas é da diocese de Albenga-Imperia.

__________________

[1] Hanna Arendt, The Human Condition (Universidade de Chicago 1958), traduzido em italiano: Vita activa. La condizione umana (Bompiani – Milão 1994), 182.
[2]
«Depois de O ouvirem, muitos dos seus discípulos disseram: “Que palavras insuportáveis! Quem pode entender isto?” Mas Jesus, sabendo no seu íntimo que os seus discípulos murmuravam a respeito disto, disse-lhes: “Isto escandaliza-vos?”» (Jo 6, 60-61). Mas somente a partir desta crise é que pôde nascer esta profissão de fé: «A quem iremos nós, Senhor? Tu tens palavras de vida eterna» (Jo 6, 68).
[3]
Cf. E. Levinas, Totalité et infini (Paris 2000), 76.

[01590-PO.01] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

Drodzy Bracia i Siostry

1. Narodzenie Jezusa z Nazaretu jest tajemnicą narodzin, która nam przypomina, że „ludzie, chociaż muszą umrzeć, nie rodzą się, by umrzeć, ale by rozpoczynać[1], jak zauważa w sposób równie błyskotliwy, co zdecydowany, żydowska filozof Hannah Arendt, która odwraca myśl swojego nauczyciela Heideggera, według którego człowiek rodzi się, by stać się „byciem-ku-śmierci”. Na ruinach totalitaryzmów XX wieku Arendt uznaje tę świetlaną prawdę: „Cudem, który ocala świat, dziedzinę spraw ludzkich, od «normalnego», naturalnego upadku, jest ostatecznie fakt narodzin […]. To właśnie owa wiara w świat i nadzieja dla świata znalazła wyraz, najwspanialszy może i najtreściwszy, w kilku słowach, jakimi Ewangelie ogłosiły swą «dobrą nowinę»: «Narodziło się nam dziecię»”[2].

2. W obliczu tajemnicy Wcielenia, u boku Dzieciątka leżącego w żłobie (por. Łk 2, 16), a także wobec Tajemnicy Paschalnej, stając przed Ukrzyżowanym, znajdujemy właściwe miejsce tylko wówczas, jeśli jesteśmy bezbronni, pokorni, skoncentrowani na tym co istotne; dopiero po zrealizowaniu w środowisku, w którym żyjemy – także w Kurii Rzymskiej – programu życia zaproponowanego przez św. Pawła: „Niech zniknie spośród was wszelka gorycz, uniesienie, gniew, wrzaskliwość, znieważenie – wraz z wszelką złością. Bądźcie dla siebie nawzajem dobrzy i miłosierni! Przebaczajcie sobie, tak jak i Bóg nam przebaczył w Chrystusie” (Ef 4, 31-32); tylko będąc „przyobleczonymi w pokorę” (por. 1 P 5, 5), naśladując Jezusa „cichego i pokornego sercem” (Mt 11, 29); tylko wtedy, gdy zajmiemy „ostatnie miejsce” (Łk 14, 10) i staniemy się „sługami wszystkich” (por. Mk 10, 44). W tym względzie św. Ignacy w swoich Ćwiczeniach posuwa się tak daleko, że prosi, abyśmy wyobrazili sobie siebie w scenie żłóbka: „stawszy się służką ubożuchnym i niegodnym, patrząc na nich, kontemplując ich i służąc im w ich potrzebach” (114, 2) - pisze.

Dziękuję Kardynałowi Dziekanowi za jego słowa pozdrowienia na to Boże Narodzenie, którymi wyraził uczucia wszystkich. Dziękuję, Kardynale Re, dziękuję.

3. Te Święta, to Boże Narodzenie pandemii, kryzysu sanitarnego, kryzysu gospodarczego, społecznego, a nawet kościelnego, który na oślep zadał cios całemu światu. Kryzys przestał być banałem przemówień i establishmentu intelektualnego, aby stać się rzeczywistością wspólną dla wszystkich.

Ta plaga była nie lada sprawdzianem, a jednocześnie wielką szansą na nawrócenie i odzyskanie autentyczności.

Kiedy 27 marca na dziedzińcu Bazyliki św. Piotra, przed placem pustym, ale pełnym wspólnej przynależności, która jednoczy nas w każdym zakątku ziemi, pragnąłem modlić się za wszystkich i ze wszystkimi, miałem okazję powiedzieć głośno o jednym ze znaczeń „burzy” (por. Mk 4, 35-41), która uderzyła w świat: „Burza odsłania naszą słabość i obnaża fałszywe i zbędne pewniki, z którymi tworzyliśmy nasze plany, projekty, zwyczaje i priorytety. Pokazuje nam, że zostawiliśmy w stanie uśpienia i opuszczenia to, co zasila i podtrzymuje nasze życie i naszą wspólnotę, i daje im siłę. Burza odkrywa wszystkie usiłowania, żeby «opakować» i zapomnieć wszystko to, co posilało dusze naszych ludów; wszystkie te próby znieczulenia pozornie «zbawczymi» zwyczajami, które nie potrafią odwoływać się do naszych korzeni i przywoływać pamięć o naszych starszych, pozbawiając nas tym samym odporności potrzebnej, by stawić czoło przeciwnościom. Kiedy przyszła burza, opadła zasłona stereotypów, którymi przykrywaliśmy nasze «ja», wiecznie zatroskane o własny obraz; odsłoniła się na nowo owa (błogosławiona) wspólna przynależność, od której nie możemy się uchylać – przynależność jako bracia”.

4. Opatrzność zechciała, abym właśnie w tych trudnych czasach mógł napisać Fratelli tutti, encyklikę poświęconą tematom braterstwa i przyjaźni społecznej. To lekcja, która pochodzi z Ewangelii dzieciństwa, w której opisane są narodziny Jezusa. Jest to lekcja o nowym współudziale – nowym współudziale! – i zjednoczeniu, które tworzy się pomiędzy tymi, którzy są ich czynnymi uczestnikami: Maryją, Józefem, pasterzami, Magami i tymi wszystkimi, którzy w taki czy inny sposób ofiarowali swoje braterstwo, swą przyjaźń, aby Słowo, które stało się ciałem, mogło zostać przyjęte w mrokach dziejów (por. J 1, 14). Na początku tej encykliki napisałem: „Bardzo pragnę, abyśmy w tym czasie, w którym przyszło nam żyć, uznając godność każdej osoby ludzkiej, byli w stanie na nowo ożywić wśród wszystkich światowe pragnienie braterstwa. Wśród wszystkich: «Oto piękna tajemnica, aby marzyć i uczynić nasze życie piękną przygodą. Nikt nie może stawić czoła życiu w sposób odosobniony. [...] Potrzebujemy wspólnoty, która by nas wspierała, która pomogłaby nam i w której pomoglibyśmy sobie nawzajem patrzeć w przyszłość. Jak to ważne, by marzyć razem! [...] Gdy jesteśmy sami, grozi nam, że będziemy mieli złudzenia, a więc widzisz to, czego nie ma; razem buduje się marzenia»[3]. Snujmy marzenia jako jedna ludzkość, jako wędrowcy stworzeni z tego samego ludzkiego ciała, jako dzieci tej samej ziemi, która wszystkich nas gości, każdego z bogactwem jego wiary czy jego przekonań, każdego z jego własnym głosem, wszystkich jako braci!” (n. 8).

5. Kryzys pandemii jest dobrą okazją do krótkiej refleksji nad znaczeniem kryzysu, która może pomóc każdemu.

Kryzys jest zjawiskiem, które dotyczy wszystkich i wszystkiego. Jest obecny wszędzie i w każdym okresie dziejów; obejmuje ideologie, politykę, ekonomię, technologię, ekologię i religię. Jest to nieunikniony etap losów osobistych i losów społecznych. Ukazuje się on jako wydarzenie nadzwyczajne, które zawsze wywołuje poczucie obawy, niepokoju, braku równowagi i niepewności co do decyzji, jakie trzeba podjąć. Jak przypomina nam etymologiczny korzeń czasownika krino: kryzys jest tym przesiewaniem, które oczyszcza ziarno pszenicy po żniwach.

Także Biblia pełna jest osób, które zostały „przesiane”, „postaci przeżywających kryzys”, które jednak właśnie poprzez niego realizują historię zbawienia.

Kryzys Abrama, który opuszcza swoją ziemię (por. Rdz 12, 1-2) i musi doświadczyć wielkiej próby ofiarowania Bogu swego jedynego syna (por. Rdz 22, 1-19), zostaje rozwiązany z teologicznego punktu widzenia wraz ze zrodzeniem się nowego ludu. Ale te narodziny nie oszczędzają Abrahamowi przeżywania dramatu, w którym jedynie ze względu na siłę jego wiary, zamieszanie i dezorientacja nie zwyciężyły

Kryzys Mojżesza objawia się w jego nieufności wobec samego siebie: „Kimże jestem, bym miał iść do faraona i wyprowadzić Izraelitów z Egiptu?” (Wj 3, 11); „nie jestem wymowny, [...] ociężały usta moje i język mój zesztywniał” (Wj 4, 10); „mówienie sprawia mi trudność?” (Wj 6, 12, 29). Z tego powodu stara się uchylać od misji powierzonej mu przez Boga: „Panie, poślij kogo innego” (por. Wj 4, 13). Ale poprzez ten kryzys, Bóg uczynił Mojżesza swoim sługą, który wyprowadził lud z Egiptu.

Eliasz, prorok tak silny, że został przyrównany do ognia (por. Syr 48, 1), w chwili wielkiego kryzysu pragnął nawet śmierci, ale potem doświadczył obecności Boga nie w porywczym wietrze, nie w trzęsieniu ziemi, nie w ogniu, ale w „szmerze łagodnego powiewu” (por. 1 Krl 19, 11-12). Głos Boga nigdy nie jest krzykliwym głosem kryzysu, ale jest cichym głosem, który przemawia do nas pośród samego kryzysu.

Jana Chrzciciela ogarnia zwątpienie w mesjańską tożsamość Jezusa (por. Mt 11, 2-6), ponieważ nie przedstawia się On jako mściciel, którego mógł się spodziewać (por. Mt 3, 11-12); ale to właśnie uwięzienie Jana jest wydarzeniem, po którym Jezus rozpoczyna głoszenie Ewangelii Bożej (por. Mk 1, 14).

I wreszcie kryzys teologiczny Pawła z Tarsu: wstrząśnięty swoim olśniewającym spotkaniem z Chrystusem na drodze do Damaszku (por. Dz 9, 1-19; Ga 1, 15-16), został popchnięty do porzucenia swoich pewników, aby pójść za Jezusem (por. Flp 3, 4-10). Święty Paweł był prawdziwie człowiekiem, który pozwolił się przemienić przez kryzys i z tego powodu stał się architektem tego kryzysu, który doprowadził Kościół do wyjścia poza obręb Izraela i dotarcia aż po krańce ziemi.

Moglibyśmy wydłużyć listę postaci biblijnych, a w niej każdy z nas mógłby odnaleźć swoje miejsce. Jest ich wiele.

Ale najbardziej wymownym kryzysem jest kryzys Jezusa. Ewangelie synoptyczne podkreślają, że rozpoczyna On swoje życie publiczne poprzez doświadczenie kryzysu przeżywanego w czasie kuszenia. Choć może się wydawać, że bohaterem tej sytuacji jest diabeł ze swymi fałszywymi propozycjami, w rzeczywistości głównym bohaterem jest Duch Święty; to On w istocie prowadzi Jezusa w tym czasie, decydującym dla Jego życia: „Duch wyprowadził Jezusa na pustynię, aby był kuszony przez diabła” (Mt 4, 1).

Ewangeliści podkreślają, że czterdzieści dni spędzonych przez Jezusa na pustyni naznaczone jest doświadczeniem głodu i słabości (por. Mt 4, 2; Łk 4, 2). I to właśnie w sytuacji tego głodu i słabości, Zły usiłuje wyciągać swą kartę przetargową, odwołując się do znużonego człowieczeństwa Jezusa. Ale w tym człowieku doświadczonym postem, Kusiciel doświadcza obecności Syna Bożego, który Słowem Bożym – nie swoim – potrafi przezwyciężyć pokusy. Jezus nigdy nie dyskutuje z diabłem, nigdy, a my musimy się tego nauczyć. Z diabłem nigdy się nie dyskutuje: Jezus albo go przegania, albo zmusza do objawienia swego imienia; ale z diabłem nigdy nie prowadzi się dialogu.

Później Jezus stanął w obliczu niewymownego kryzysu w Getsemani: samotności, strachu, udręki, zdrady Judasza i opuszczenia przez apostołów (por. Mt 26, 36-50). Wreszcie nadszedł krańcowy kryzys na krzyżu: solidarność z grzesznikami, aż do poczucia opuszczenia przez Ojca (por. Mt 27, 46). Mimo to, z ufnością „powierzył swego ducha w ręce Ojca” (por. Łk 23, 46). I to jego pełne i ufne zawierzenie otworzyło drogę do Zmartwychwstania (por. Hbr 5, 7).

6. Bracia i siostry, ta refleksja nad kryzysem ostrzega nas, aby nie sądzić Kościoła pochopnie na podstawie kryzysów wywołanych skandalami dnia wczorajszego i dzisiejszego, tak jak to uczynił prorok Eliasz, który wyładowując swą złość na Pana, przedstawił mu opis rzeczywistości pozbawiony nadziei: „Żarliwością rozpaliłem się o chwałę Pana, Boga Zastępów, gdyż Izraelici opuścili Twoje przymierze, rozwalili Twoje ołtarze i Twoich proroków zabili mieczem. Tak że ja sam tylko zostałem, a oni godzą jeszcze i na moje życie” (1 Krl 19, 14). Ileż to razy także nasze analizy kościelne zdają się być opowieściami pozbawionymi nadziei. Odczytywanie rzeczywistości bez nadziei nie może być nazwane realistycznym. Nadzieja daje naszym analizom to, czego tak często nie są w stanie dostrzec nasze krótkowzroczne spojrzenia. Bóg odpowiada Eliaszowi, że rzeczywistość nie jest taka, jak ją postrzegał: „Idź, wracaj twoją drogą ku pustyni Damaszku; [...] Zostawię jednak w Izraelu siedem tysięcy takich, których kolana nie ugięły się przed Baalem i których usta go nie ucałowały” (1 Krl 19, 15.18). To nieprawda, że jest sam: jest w kryzysie.

Bóg nadal daje wzrost ziaren swojego rólestwa pośród nas. Tu, w Kurii, jest wielu, którzy dają świadectwo pokorną, dyskretną, bez plotek, cichą, lojalną, profesjonalną, uczciwą pracą. Wielu jest takich pośród was, dziękuję. Również nasz czas ma swoje problemy, ale ma też żywe świadectwo tego, że Pan nie opuścił swego ludu, z tą tylko różnicą, że problemy natychmiast trafiają do gazet – tak jest każdego dnia –, podczas gdy znaki nadziei odnotowuje się dopiero po długim czasie, i to nie zawsze.

Ten, kto nie patrzy na kryzys w świetle Ewangelii, ogranicza się do dokonania autopsji zwłok: patrzy na kryzys, ale bez ewangelicznej nadziei, bez światła Ewangelii. Jesteśmy przerażeni tym kryzysem nie tylko dlatego, że zapomnieliśmy ocenić go tak, jak zachęca nas do tego Ewangelia, ale dlatego, że zapomnieliśmy, że Ewangelia jako pierwsza stawia nas w sytuacji kryzysowej[4]. To Ewangelia stawia nas w sytuacji kryzysowej. Jeśli jednak ponownie odnajdziemy odwagę i pokorę, by powiedzieć głośno, że czas kryzysu jest czasem Ducha Świętego, to nawet w obliczu doświadczenia ciemności, słabości, kruchości, sprzeczności i zagubienia, nie będziemy już czuli się przygnieceni, ale będziemy stale zachowywali wewnętrzną pewność, że rzeczy przybierają nową formę, wypływającą wyłącznie z doświadczenia Łaski ukrytej w ciemności. „Bo w ogniu doświadcza się złoto, a ludzi miłych Bogu – w piecu utrapienia” (Syr 2,5).

7. Wreszcie chciałbym was zachęcić, by nie mylić kryzysu z konfliktem: to dwie różne rzeczy. Kryzys ma zazwyczaj rezultat pozytywny, podczas gdy konflikt zawsze tworzy spór, rywalizację, antagonizmy na pozór bez rozwiązania, między osobami podzielonymi na przyjaciół, których należy miłować, i wrogów, których trzeba zwalczać, mające prowadzić do zwycięstwa jednej ze stron.

Logika konfliktu zawsze szuka „winnych”, których należy napiętnować i którymi trzeba pogardzać oraz „sprawiedliwych”, których trzeba usprawiedliwiać, aby wprowadzić świadomość – często magiczną – że ta czy inna sytuacja jest od nas niezależna. Ta utrata poczucia wspólnej przynależności sprzyja wzrostowi lub afirmacji pewnych postaw o charakterze elitarnym oraz „grup zamkniętych”, które promują logikę ograniczającą i stronniczą, zubażającą powszechność naszej misji. „Gdy zatrzymujemy się na konflikcie, tracimy poczucie głębokiej jedności rzeczywistości” (Adhort. apost. Evangelii gaudium, 226).

Kościół, odczytywany w kategoriach konfliktu – prawicy i lewicy, postępowców i tradycjonalistów – rozdrabnia, polaryzuje, wypacza i zdradza swoją prawdziwą naturę: jest on Ciałem wiecznie znajdującym się w kryzysie właśnie dlatego, że żyje, ale nigdy nie może stać się ciałem pozostającym w konflikcie, ze zwycięzcami i przegranymi. W ten sposób będzie on bowiem szerzył lęk, stanie się bardziej surowy, mniej synodalny i narzuci logikę jednakową i ujednolicającą, tak daleką od bogactwa i pluralizmu, jakie Duch dał swojemu Kościołowi.

Nowość wprowadzona przez kryzys, którego pragnie Duch, nigdy nie jest nowością w opozycji do tego, co stare, ale nowością, która kiełkuje ze starego i czyni je zawsze owocnym. Jezus używa sformułowania, które wyraża to w prosty i jasny sposób: „Jeżeli ziarno pszenicy wpadłszy w ziemię nie obumrze, zostanie tylko samo, ale jeżeli obumrze, przynosi plon obfity” (J 12, 24). Akt obumierania ziarna jest aktem ambiwalentnym, ponieważ jednocześnie oznacza koniec czegoś i początek czegoś innego. Nazywamy to wydarzenie śmiercią – uwiądem i narodzinami – rozkwitaniem, ponieważ są tym samym: przed naszymi oczyma ukazuje się pewien kres, a jednocześnie w tym samym czasie ukazuje się nowy początek.

W tym znaczeniu cały opór przed tym, by – wchodząc w kryzys – dać się prowadzić Duchowi Świętemu w czasie próby, skazuje nas na pozostanie samotnymi i bezowocnymi, co najwyżej w konflikcie. Broniąc się przed kryzysem, utrudniamy działanie Bożej łaski, która chce objawić się w nas i poprzez nas. Dlatego też, jeśli pewne realistyczne podejście ukazuje nam naszą najnowszą historię jedynie jako sumę prób, które nie zawsze się udawały, skandali, upadków, grzechów, sprzeczności, zgrzytu w świadectwie, nie powinniśmy się bać, nie powinniśmy też zaprzeczać dowodom na to wszystko, co w nas i w naszych wspólnotach jest dotknięte śmiercią i potrzebuje nawrócenia. To wszystko, co jest złe, sprzeczne, słabe i kruche, ukazując się jawnie, jeszcze bardziej przypomina nam o potrzebie umierania dla pewnego sposobu bycia, rozumowania i działania, który nie odzwierciedla Ewangelii. Tylko umierając dla pewnej mentalności uda nam się uczynić miejsce dla nowości, którą Duch nieustannie wzbudza w sercu Kościoła. Ojcowie Kościoła byli tego w pełni świadomi, gdy nawoływali do „metanoi”.

8. Za każdym kryzysem kryje się zawsze słuszna potrzeba dostosowania do wymogów czasu: to jeden krok naprzód. Jeśli jednak naprawdę chcemy unowocześniania, musimy mieć odwagę by stać się wszechstronnie otwartymi; musimy przestać myśleć o reformie Kościoła jako o łataniu starego ubioru, albo jedynie opracowaniu nowej Konstytucji Apostolskiej. Reforma Kościoła to coś zupełnie innego.

Nie chodzi tu o „załatanie szaty”, ponieważ Kościół jest nie tylko „szatą” Chrystusa, ale jest Jego Ciałem, które obejmuje całą historię (por. 1 Kor 12, 27). Nie jesteśmy powołani do zmieniania czy reformy Ciała Chrystusa – „Jezus Chrystus wczoraj i dziś, ten sam także na wieki” (Hbr 13, 8) - ale jesteśmy powołani, aby przyoblec to samo Ciało nową szatą, aby wyraźnie okazało się, że otrzymana łaska nie pochodzi od nas, ale od Boga: istotnie, „przechowujemy zaś ten skarb w naczyniach glinianych, aby z Boga była owa przeogromna moc, a nie z nas” (2 Kor 4, 7). Kościół jest zawsze naczyniem glinianym, cennym ze względu na to, co zawiera, a nie ze względu na to, jak niekiedy się ukazuje. Na zakończenie będę miał przyjemność ofiarować wam książkę, dar O. Ardury, w której przedstawia życie glinianego dzbana, dzięki któremu mogła zabłysnąć wielkość Boga i reformy Kościoła. Jest to czas, w którym wydaje się oczywiste, że glina, z której jesteśmy wyrobieni, jest obtłuczona, porysowana, popękana. Musimy starać się, aby nasza kruchość nie stała się przeszkodą w głoszeniu Ewangelii, ale miejscem, gdzie objawia się wielka miłość, z jaką Bóg, bogaty w miłosierdzie, nas umiłował i miłuje (por. Ef 2, 4). Jeśli wyłączymy wyłączylibyśmy Boga bogatego w miłosierdzie, nasze życie, nasze życie byłoby kłamstwem, oszustwem.

W czasie kryzysu Jezus przestrzega nas przed pewnymi próbami wyjścia z niego, które od początku są skazane na niepowodzenie, tak, jak człowiek, który „przyszywa do starego ubrania jako łatę to, co oderwie od nowego”; wynik jest przewidywalny: nowe się podrze, a „łata z nowego nie nada się do starego”. Podobnie, „nikt młodego wina nie wlewa do starych bukłaków; w przeciwnym razie młode wino rozerwie bukłaki i samo wycieknie, i bukłaki się zepsują. Lecz młode wino należy lać do nowych bukłaków” (Łk 5, 36-38).

Właściwa jest natomiast postawa „uczonego w Piśmie, który stał się uczniem Królestwa Niebieskiego”, a który „podobny jest do ojca rodziny, który ze swego skarbca wydobywa rzeczy nowe i stare” (Mt 13,52). Skarbem jest Tradycja, która, jak przypomniał Benedykt XVI, jest „żywą rzeką, łączącą nas ze źródłem – żywa rzeka, w której źródło jest zawsze obecne. To wielka rzeka prowadząca nas do portu wieczności” (Katecheza, 26 kwietnia 2006: L’Osservatore Romano, wyd. polskie, n. 8 (285)/2006, s. 39). Przychodzi mi na myśl zdanie tego wielkiego muzyka niemieckiego: ”Tradycja jest troską o przyszłość, a nie muzeum, strażnikiem popiołów”. „Rzeczy stare” stanowią prawda i łaska, które już posiadamy. Rzeczy nowe to różne aspekty prawdy, które stopniowo pojmujemy. To zdanie z piątego wieku: „Ut annis scilicet consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate”: to jest tradycja, tak wzrasta. Żaden historyczny sposób życia Ewangelią nie wyczerpuje jej zrozumienia. Jeśli pozwolimy się prowadzić Duchowi Świętemu, każdego dnia będziemy coraz bliżej „pełni prawdy” (J 16, 13). W przeciwnym razie, bez łaski Ducha Świętego, owszem można nawet zacząć myśleć o Kościele w formie synodalnej, która jednak, zamiast odnosić się do komunii w obecności Ducha, staje się rozumiana jak każde zgromadzenie demokratyczne, składające się z większości i mniejszości. Jak jakiś parlament, na przykład – a to nie jest synodalność. Tylko obecność Ducha Świętego stanowi różnicę.

9. Co czynić w czasie kryzysu? Przede wszystkim należy przyjąć go jako czas łaski dany nam, byśmy zrozumieli wolę Bożą względem każdego z nas i względem całego Kościoła. Musimy wejść w pozornie sprzeczną logikę, że „ilekroć niedomagam, tylekroć jestem mocny” (2 Kor 12, 10). Należy pamiętać o zapewnieniu św. Pawła danym Koryntianom: „Wierny jest Bóg i nie dozwoli was kusić ponad to, co potraficie znieść, lecz zsyłając pokusę, równocześnie wskaże sposób jej pokonania abyście mogli przetrwać” (1 Kor 10, 13).

Zasadniczą sprawą jest nie przerywanie naszego dialogu z Bogiem, nawet jeśli jest on wymagający. Nie jest łatwo modlić się. Musimy niestrudzenie zawsze się modlić (por. Łk 21, 36; 1 Tes 5, 17). Nie znamy żadnego innego rozwiązania problemów, których doświadczamy, jak tylko więcej się modlić, a jednocześnie czynić wszystko, co w naszej mocy, z większą ufnością. Modlitwa pozwoli nam „wbrew nadziei uwierzyć nadziei” (por. Rz 4, 18).

10. Drodzy bracia i siostry, zachowajmy wielki spokój i pogodę ducha, mając pełną świadomość, że wszyscy jesteśmy, a ja jako pierwszy, „nieużytecznymi sługami” (Łk 17, 10), którym Pan okazał miłosierdzie. Z tego powodu dobrze byłoby, gdybyśmy przestali żyć w konflikcie, a na nowo poczuli się pielgrzymami otwartymi na kryzys. Pielgrzymowanie ma zawsze związek z czasownikami dotyczącymi poruszania się. Kryzys jako poruszenie, stanowi część pielgrzymowania. Konflikt natomiast jest fałszywą drogą, jest błąkaniem się bez przyczyny i bez celu, jest trwaniem w labiryncie, jest jedynie marnowaniem energii i okazją do złego. A pierwszym złem, do którego prowadzi nas konflikt i od którego musimy starać się trzymać z daleka, jest właśnie obgadywanie: bądźmy uważni w tym względzie! To nie jest moja mania sprzeciwiania się obgadywaniu; to jest skarga na zło, które wchodzi do Kurii; tu w Pałacu jest wiele drzwi i okien, i wchodzi, a my się do tego przyzwyczajamy; plotkowanie, które zamyka nas w najsmutniejszym, najbardziej niepożądanym i dusznym egocentryzmie, i zamienia każdy kryzys w konflikt. Ewangelia mówi nam, że pasterze uwierzyli w zapowiedź Anioła i udali się do Jezusa (por. Łk 2, 15-16). Herod natomiast zamknął się na słowa Mędrców i przekształcił to swe zamknięcie w kłamstwo i przemoc (por. Mt 2, 1-16).

Niech każdy z nas, niezależnie od miejsca, jakie zajmuje w Kościele, zada sobie pytanie, czy chce iść za Jezusem z posłuszeństwem pasterzy, czy też z samo-ochroną Heroda, pójść za Nim w kryzysie, czy też bronić się przed Nim w konflikcie.

Pozwólcie, że wyraźnie poproszę was wszystkich, którzy wraz ze mną służcie Ewangelii, o dar Bożonarodzeniowy: waszą szczodrą i pełną pasji współpracę w głoszeniu Dobrej Nowiny zwłaszcza ubogim (por. Mt 11, 5). Pamiętajmy, że prawdziwie zna Boga tylko ten, kto przyjmuje ubogiego przychodzącego z nizin ze swoją nędzą, i który właśnie w tej postaci został posłany z wysoka. Nie możemy widzieć oblicza Boga, ale możemy go doświadczyć w jego zwróceniu się ku nam, gdy oddajemy cześć obliczu naszego bliźniego, tego drugiego, który nas angażuje ze swoimi potrzebami[5]. Oblicze ubogich. Ubodzy są w centrum Ewangelii. I przychodzi mi na myśl to, co mówił ów święty biskup brazylijski: „Kiedy zajmuję się ubogimi, mówią o mnie, że jestem świętym; ale kiedy się pytam i pytam: «Skąd tyle ubóstwa?», mówią o mnie «komunista»”.

Niech nie będzie nikogo, kto dobrowolnie stawiałby przeszkody dziełu, którego Pan dokonuje w tym czasie, i prośmy o dar pokory w służbie, aby On wzrastał, a my byśmy się umniejszali (por. J 3, 30).

Najlepsze życzenia dla wszystkich i dla każdego z was, dla waszych rodzin i przyjaciół. I dziękuję, dziękuję za wszą pracę, bardzo dziękuję; i, proszę was, zawsze za mnie się módlcie, abym miał odwagę pozostawać w kryzysie. Dobrego Bożego Narodzenia! Dziękuję.

[Błogosławieństwo]

Zapomniałem wam powiedzieć, że podaruję wam dwie książki. Jedna, biografia Karola de Foucauld, Mistrza kryzysu, który pozostawił nam dar, piękną spuściznę. To jest prezent, który zrobił mi O. Ardura: dziękuję. Druga zatytułowana jest „Olotopia: i verbi della familiarità cristiana”. Mają pomóc przeżywać nasze życie. Jest to książka, która ukazała się w tych dniach, opracowana przez biblistę, ucznia kardynała Martiniego; pracował w Mediolanie, ale jest z diecezji Albenga – Imperia.

______________________

[1] Hannah Arendt, Kondycja ludzka, przeł. Anna Łagodzka, Warszawa 2000, s. 268.
[2]
Tamże.
[3]
Przemówienie podczas spotkania ekumenicznego i międzyreligijnego z młodzieżą, Skopje – Macedonia Północna (7 maja 2019): L’Osservatore Romano, wyd. polskie, n. 6/(413)2019, s. 26.
[4]
„Spośród Jego uczniów, którzy to usłyszeli, wielu mówiło: «Trudna jest ta mowa. Któż jej może słuchać?» Jezus jednak świadom tego, że uczniowie Jego na to szemrali, rzekł do nich: «To was gorszy?»” (J 6, 60-61). Jedynie jednak wychodząc od tego kryzysu może się zrodzić wyznanie wiary: „Panie, do kogóż pójdziemy? Ty masz słowa życia wiecznego” (J 6, 68).
[5]
Por. Emanuel Levinas, Totalité et infini, Paris 2000, 76.

[01590-PL.01] [Testo originale: Italiano]

[B0679-XX.02]