Testo in lingua italiana
Traduzione in lingua latina
Traduzione in lingua francese
Traduzione in lingua inglese
Traduzione in lingua tedesca
Traduzione in lingua spagnola
Traduzione in lingua portoghese
Traduzione in lingua polacca
Traduzione in lingua araba
Testo in lingua italiana
LETTERA APOSTOLICA
PATRIS CORDE
DEL SANTO PADRE FRANCESCO
IN OCCASIONE DEL 150° ANNIVERSARIO
DELLA DICHIARAZIONE DI SAN GIUSEPPE
QUALE PATRONO DELLA CHIESA UNIVERSALE
CON CUORE DI PADRE: così Giuseppe ha amato Gesù, chiamato in tutti e quattro i Vangeli «il figlio di Giuseppe».[1]
I due Evangelisti che hanno posto in rilievo la sua figura, Matteo e Luca, raccontano poco, ma a sufficienza per far capire che tipo di padre egli fosse e la missione affidatagli dalla Provvidenza.
Sappiamo che egli era un umile falegname (cfr Mt 13,55), promesso sposo di Maria (cfr Mt 1,18; Lc 1,27); un «uomo giusto» (Mt 1,19), sempre pronto a eseguire la volontà di Dio manifestata nella sua Legge (cfr Lc 2,22.27.39) e mediante ben quattro sogni (cfr Mt 1,20; 2,13.19.22). Dopo un lungo e faticoso viaggio da Nazaret a Betlemme, vide nascere il Messia in una stalla, perché altrove «non c’era posto per loro» (Lc 2,7). Fu testimone dell’adorazione dei pastori (cfr Lc 2,8-20) e dei Magi (cfr Mt 2,1-12), che rappresentavano rispettivamente il popolo d’Israele e i popoli pagani.
Ebbe il coraggio di assumere la paternità legale di Gesù, a cui impose il nome rivelato dall’Angelo: «Tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,21). Come è noto, dare un nome a una persona o a una cosa presso i popoli antichi significava conseguirne l’appartenenza, come fece Adamo nel racconto della Genesi (cfr 2,19-20).
Nel Tempio, quaranta giorni dopo la nascita, insieme alla madre Giuseppe offrì il Bambino al Signore e ascoltò sorpreso la profezia che Simeone fece nei confronti di Gesù e di Maria (cfr Lc 2,22-35). Per difendere Gesù da Erode, soggiornò da straniero in Egitto (cfr Mt 2,13-18). Ritornato in patria, visse nel nascondimento del piccolo e sconosciuto villaggio di Nazaret in Galilea – da dove, si diceva, “non sorge nessun profeta” e “non può mai venire qualcosa di buono” (cfr Gv 7,52; 1,46) –, lontano da Betlemme, sua città natale, e da Gerusalemme, dove sorgeva il Tempio. Quando, proprio durante un pellegrinaggio a Gerusalemme, smarrirono Gesù dodicenne, lui e Maria lo cercarono angosciati e lo ritrovarono nel Tempio mentre discuteva con i dottori della Legge (cfr Lc 2,41-50).
Dopo Maria, Madre di Dio, nessun Santo occupa tanto spazio nel Magistero pontificio quanto Giuseppe, suo sposo. I miei Predecessori hanno approfondito il messaggio racchiuso nei pochi dati tramandati dai Vangeli per evidenziare maggiormente il suo ruolo centrale nella storia della salvezza: il Beato Pio IX lo ha dichiarato «Patrono della Chiesa Cattolica»,[2] il Venerabile Pio XII lo ha presentato quale “Patrono dei lavoratori”[3] e San Giovanni Paolo II come «Custode del Redentore».[4] Il popolo lo invoca come «patrono della buona morte».[5]
Pertanto, al compiersi di 150 anni dalla sua dichiarazione quale Patrono della Chiesa Cattolica fatta dal Beato Pio IX, l’8 dicembre 1870, vorrei – come dice Gesù – che “la bocca esprimesse ciò che nel cuore sovrabbonda” (cfr Mt 12,34), per condividere con voi alcune riflessioni personali su questa straordinaria figura, tanto vicina alla condizione umana di ciascuno di noi. Tale desiderio è cresciuto durante questi mesi di pandemia, in cui possiamo sperimentare, in mezzo alla crisi che ci sta colpendo, che «le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. […] Quanta gente esercita ogni giorno pazienza e infonde speranza, avendo cura di non seminare panico ma corresponsabilità. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti».[6] Tutti possono trovare in San Giuseppe, l’uomo che passa inosservato, l’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta, un intercessore, un sostegno e una guida nei momenti di difficoltà. San Giuseppe ci ricorda che tutti coloro che stanno apparentemente nascosti o in “seconda linea” hanno un protagonismo senza pari nella storia della salvezza. A tutti loro va una parola di riconoscimento e di gratitudine.
1. Padre amato
La grandezza di San Giuseppe consiste nel fatto che egli fu lo sposo di Maria e il padre di Gesù. In quanto tale, «si pose al servizio dell’intero disegno salvifico», come afferma San Giovanni Crisostomo.[7]
San Paolo VI osserva che la sua paternità si è espressa concretamente «nell’aver fatto della sua vita un servizio, un sacrificio, al mistero dell’incarnazione e alla missione redentrice che vi è congiunta; nell’aver usato dell’autorità legale, che a lui spettava sulla sacra Famiglia, per farle totale dono di sé, della sua vita, del suo lavoro; nell’aver convertito la sua umana vocazione all’amore domestico nella sovrumana oblazione di sé, del suo cuore e di ogni capacità, nell’amore posto a servizio del Messia germinato nella sua casa».[8]
Per questo suo ruolo nella storia della salvezza, San Giuseppe è un padre che è stato sempre amato dal popolo cristiano, come dimostra il fatto che in tutto il mondo gli sono state dedicate numerose chiese; che molti Istituti religiosi, Confraternite e gruppi ecclesiali sono ispirati alla sua spiritualità e ne portano il nome; e che in suo onore si svolgono da secoli varie rappresentazioni sacre. Tanti Santi e Sante furono suoi appassionati devoti, tra i quali Teresa d’Avila, che lo adottò come avvocato e intercessore, raccomandandosi molto a lui e ricevendo tutte le grazie che gli chiedeva; incoraggiata dalla propria esperienza, la Santa persuadeva gli altri ad essergli devoti.[9]
In ogni manuale di preghiere si trova qualche orazione a San Giuseppe. Particolari invocazioni gli vengono rivolte tutti i mercoledì e specialmente durante l’intero mese di marzo, tradizionalmente a lui dedicato.[10]
La fiducia del popolo in San Giuseppe è riassunta nell’espressione “Ite ad Ioseph”, che fa riferimento al tempo di carestia in Egitto quando la gente chiedeva il pane al faraone ed egli rispondeva: «Andate da Giuseppe; fate quello che vi dirà» (Gen 41,55). Si trattava di Giuseppe figlio di Giacobbe, che fu venduto per invidia dai fratelli (cfr Gen 37,11-28) e che – stando alla narrazione biblica – successivamente divenne vice-re dell’Egitto (cfr Gen 41,41-44).
Come discendente di Davide (cfr Mt 1,16.20), dalla cui radice doveva germogliare Gesù secondo la promessa fatta a Davide dal profeta Natan (cfr 2 Sam 7), e come sposo di Maria di Nazaret, San Giuseppe è la cerniera che unisce l’Antico e il Nuovo Testamento.
2. Padre nella tenerezza
Giuseppe vide crescere Gesù giorno dopo giorno «in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52). Come il Signore fece con Israele, così egli “gli ha insegnato a camminare, tenendolo per mano: era per lui come il padre che solleva un bimbo alla sua guancia, si chinava su di lui per dargli da mangiare” (cfr Os 11,3-4).
Gesù ha visto la tenerezza di Dio in Giuseppe: «Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli che lo temono» (Sal 103,13).
Giuseppe avrà sentito certamente riecheggiare nella sinagoga, durante la preghiera dei Salmi, che il Dio d’Israele è un Dio di tenerezza,[11] che è buono verso tutti e «la sua tenerezza si espande su tutte le creature» (Sal 145,9).
La storia della salvezza si compie «nella speranza contro ogni speranza» (Rm 4,18) attraverso le nostre debolezze. Troppe volte pensiamo che Dio faccia affidamento solo sulla parte buona e vincente di noi, mentre in realtà la maggior parte dei suoi disegni si realizza attraverso e nonostante la nostra debolezza. È questo che fa dire a San Paolo: «Affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l'allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”» (2 Cor 12,7-9).
Se questa è la prospettiva dell’economia della salvezza, dobbiamo imparare ad accogliere la nostra debolezza con profonda tenerezza.[12]
Il Maligno ci fa guardare con giudizio negativo la nostra fragilità, lo Spirito invece la porta alla luce con tenerezza. È la tenerezza la maniera migliore per toccare ciò che è fragile in noi. Il dito puntato e il giudizio che usiamo nei confronti degli altri molto spesso sono segno dell’incapacità di accogliere dentro di noi la nostra stessa debolezza, la nostra stessa fragilità. Solo la tenerezza ci salverà dall’opera dell’Accusatore (cfr Ap 12,10). Per questo è importante incontrare la Misericordia di Dio, specie nel Sacramento della Riconciliazione, facendo un’esperienza di verità e tenerezza. Paradossalmente anche il Maligno può dirci la verità, ma, se lo fa, è per condannarci. Noi sappiamo però che la Verità che viene da Dio non ci condanna, ma ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene, ci perdona. La Verità si presenta a noi sempre come il Padre misericordioso della parabola (cfr Lc 15,11-32): ci viene incontro, ci ridona la dignità, ci rimette in piedi, fa festa per noi, con la motivazione che «questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (v. 24).
Anche attraverso l’angustia di Giuseppe passa la volontà di Dio, la sua storia, il suo progetto. Giuseppe ci insegna così che avere fede in Dio comprende pure il credere che Egli può operare anche attraverso le nostre paure, le nostre fragilità, la nostra debolezza. E ci insegna che, in mezzo alle tempeste della vita, non dobbiamo temere di lasciare a Dio il timone della nostra barca. A volte noi vorremmo controllare tutto, ma Lui ha sempre uno sguardo più grande.
3. Padre nell’obbedienza
Analogamente a ciò che Dio ha fatto con Maria, quando le ha manifestato il suo piano di salvezza, così anche a Giuseppe ha rivelato i suoi disegni; e lo ha fatto tramite i sogni, che nella Bibbia, come presso tutti i popoli antichi, venivano considerati come uno dei mezzi con i quali Dio manifesta la sua volontà.[13]
Giuseppe è fortemente angustiato davanti all’incomprensibile gravidanza di Maria: non vuole «accusarla pubblicamente»,[14] ma decide di «ripudiarla in segreto» (Mt 1,19). Nel primo sogno l’angelo lo aiuta a risolvere il suo grave dilemma: «Non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti, il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,20-21). La sua risposta fu immediata: «Quando si destò dal sonno, fece come gli aveva ordinato l’angelo» (Mt 1,24). Con l’obbedienza egli superò il suo dramma e salvò Maria.
Nel secondo sogno l’angelo ordina a Giuseppe: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo» (Mt 2,13). Giuseppe non esitò ad obbedire, senza farsi domande sulle difficoltà cui sarebbe andato incontro: «Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode» (Mt 2,14-15).
In Egitto Giuseppe, con fiducia e pazienza, attese dall’angelo il promesso avviso per ritornare nel suo Paese. Appena il messaggero divino, in un terzo sogno, dopo averlo informato che erano morti quelli che cercavano di uccidere il bambino, gli ordina di alzarsi, di prendere con sé il bambino e sua madre e ritornare nella terra d’Israele (cfr Mt 2,19-20), egli ancora una volta obbedisce senza esitare: «Si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele» (Mt 2,21).
Ma durante il viaggio di ritorno, «quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno – ed è la quarta volta che accade – si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nazaret» (Mt 2,22-23).
L’evangelista Luca, da parte sua, riferisce che Giuseppe affrontò il lungo e disagevole viaggio da Nazaret a Betlemme, secondo la legge dell’imperatore Cesare Augusto relativa al censimento, per farsi registrare nella sua città di origine. E proprio in questa circostanza nacque Gesù (cfr 2,1-7), e fu iscritto all’anagrafe dell’Impero, come tutti gli altri bambini.
San Luca, in particolare, si preoccupa di rilevare che i genitori di Gesù osservavano tutte le prescrizioni della Legge: i riti della circoncisione di Gesù, della purificazione di Maria dopo il parto, dell’offerta a Dio del primogenito (cfr 2,21-24).[15]
In ogni circostanza della sua vita, Giuseppe seppe pronunciare il suo “fiat”, come Maria nell’Annunciazione e Gesù nel Getsemani.
Giuseppe, nel suo ruolo di capo famiglia, insegnò a Gesù ad essere sottomesso ai genitori (cfr Lc 2,51), secondo il comandamento di Dio (cfr Es 20,12).
Nel nascondimento di Nazaret, alla scuola di Giuseppe, Gesù imparò a fare la volontà del Padre. Tale volontà divenne suo cibo quotidiano (cfr Gv 4,34). Anche nel momento più difficile della sua vita, vissuto nel Getsemani, preferì fare la volontà del Padre e non la propria[16] e si fece «obbediente fino alla morte […] di croce» (Fil 2,8). Per questo, l’autore della Lettera agli Ebrei conclude che Gesù «imparò l’obbedienza da ciò che patì» (5,8).
Da tutte queste vicende risulta che Giuseppe «è stato chiamato da Dio a servire direttamente la persona e la missione di Gesù mediante l’esercizio della sua paternità: proprio in tal modo egli coopera nella pienezza dei tempi al grande mistero della Redenzione ed è veramente ministro della salvezza».[17]
4. Padre nell’accoglienza
Giuseppe accoglie Maria senza mettere condizioni preventive. Si fida delle parole dell’Angelo. «La nobiltà del suo cuore gli fa subordinare alla carità quanto ha imparato per legge; e oggi, in questo mondo nel quale la violenza psicologica, verbale e fisica sulla donna è evidente, Giuseppe si presenta come figura di uomo rispettoso, delicato che, pur non possedendo tutte le informazioni, si decide per la reputazione, la dignità e la vita di Maria. E nel suo dubbio su come agire nel modo migliore, Dio lo ha aiutato a scegliere illuminando il suo giudizio».[18]
Tante volte, nella nostra vita, accadono avvenimenti di cui non comprendiamo il significato. La nostra prima reazione è spesso di delusione e ribellione. Giuseppe lascia da parte i suoi ragionamenti per fare spazio a ciò che accade e, per quanto possa apparire ai suoi occhi misterioso, egli lo accoglie, se ne assume la responsabilità e si riconcilia con la propria storia. Se non ci riconciliamo con la nostra storia, non riusciremo nemmeno a fare un passo successivo, perché rimarremo sempre in ostaggio delle nostre aspettative e delle conseguenti delusioni.
La vita spirituale che Giuseppe ci mostra non è una via che spiega, ma una via che accoglie. Solo a partire da questa accoglienza, da questa riconciliazione, si può anche intuire una storia più grande, un significato più profondo. Sembrano riecheggiare le ardenti parole di Giobbe, che all’invito della moglie a ribellarsi per tutto il male che gli accade risponde: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?» (Gb 2,10).
Giuseppe non è un uomo rassegnato passivamente. Il suo è un coraggioso e forte protagonismo. L’accoglienza è un modo attraverso cui si manifesta nella nostra vita il dono della fortezza che ci viene dallo Spirito Santo. Solo il Signore può darci la forza di accogliere la vita così com’è, di fare spazio anche a quella parte contradditoria, inaspettata, deludente dell’esistenza.
La venuta di Gesù in mezzo a noi è un dono del Padre, affinché ciascuno si riconcili con la carne della propria storia anche quando non la comprende fino in fondo.
Come Dio ha detto al nostro Santo: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere» (Mt 1,20), sembra ripetere anche a noi: “Non abbiate paura!”. Occorre deporre la rabbia e la delusione e fare spazio, senza alcuna rassegnazione mondana ma con fortezza piena di speranza, a ciò che non abbiamo scelto eppure esiste. Accogliere così la vita ci introduce a un significato nascosto. La vita di ciascuno di noi può ripartire miracolosamente, se troviamo il coraggio di viverla secondo ciò che ci indica il Vangelo. E non importa se ormai tutto sembra aver preso una piega sbagliata e se alcune cose ormai sono irreversibili. Dio può far germogliare fiori tra le rocce. Anche se il nostro cuore ci rimprovera qualcosa, Egli «è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1 Gv 3,20).
Torna ancora una volta il realismo cristiano, che non butta via nulla di ciò che esiste. La realtà, nella sua misteriosa irriducibilità e complessità, è portatrice di un senso dell’esistenza con le sue luci e le sue ombre. È questo che fa dire all’apostolo Paolo: «Noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio» (Rm 8,28). E Sant’Agostino aggiunge: «anche quello che viene chiamato male (etiam illud quod malum dicitur)».[19] In questa prospettiva totale, la fede dà significato ad ogni evento lieto o triste.
Lungi da noi allora il pensare che credere significhi trovare facili soluzioni consolatorie. La fede che ci ha insegnato Cristo è invece quella che vediamo in San Giuseppe, che non cerca scorciatoie, ma affronta “ad occhi aperti” quello che gli sta capitando, assumendone in prima persona la responsabilità.
L’accoglienza di Giuseppe ci invita ad accogliere gli altri, senza esclusione, così come sono, riservando una predilezione ai deboli, perché Dio sceglie ciò che è debole (cfr 1 Cor 1,27), è «padre degli orfani e difensore delle vedove» (Sal 68,6) e comanda di amare lo straniero.[20] Voglio immaginare che dagli atteggiamenti di Giuseppe Gesù abbia preso lo spunto per la parabola del figlio prodigo e del padre misericordioso (cfr Lc 15,11-32).
5. Padre dal coraggio creativo
Se la prima tappa di ogni vera guarigione interiore è accogliere la propria storia, ossia fare spazio dentro noi stessi anche a ciò che non abbiamo scelto nella nostra vita, serve però aggiungere un’altra caratteristica importante: il coraggio creativo. Esso emerge soprattutto quando si incontrano difficoltà. Infatti, davanti a una difficoltà ci si può fermare e abbandonare il campo, oppure ingegnarsi in qualche modo. Sono a volte proprio le difficoltà che tirano fuori da ciascuno di noi risorse che nemmeno pensavamo di avere.
Molte volte, leggendo i “Vangeli dell’infanzia”, ci viene da domandarci perché Dio non sia intervenuto in maniera diretta e chiara. Ma Dio interviene per mezzo di eventi e persone. Giuseppe è l’uomo mediante il quale Dio si prende cura degli inizi della storia della redenzione. Egli è il vero “miracolo” con cui Dio salva il Bambino e sua madre. Il Cielo interviene fidandosi del coraggio creativo di quest’uomo, che giungendo a Betlemme e non trovando un alloggio dove Maria possa partorire, sistema una stalla e la riassetta, affinché diventi quanto più possibile un luogo accogliente per il Figlio di Dio che viene nel mondo (cfr Lc 2,6-7). Davanti all’incombente pericolo di Erode, che vuole uccidere il Bambino, ancora una volta in sogno Giuseppe viene allertato per difendere il Bambino, e nel cuore della notte organizza la fuga in Egitto (cfr Mt 2,13-14).
A una lettura superficiale di questi racconti, si ha sempre l’impressione che il mondo sia in balia dei forti e dei potenti, ma la “buona notizia” del Vangelo sta nel far vedere come, nonostante la prepotenza e la violenza dei dominatori terreni, Dio trovi sempre il modo per realizzare il suo piano di salvezza. Anche la nostra vita a volte sembra in balia dei poteri forti, ma il Vangelo ci dice che ciò che conta, Dio riesce sempre a salvarlo, a condizione che usiamo lo stesso coraggio creativo del carpentiere di Nazaret, il quale sa trasformare un problema in un’opportunità anteponendo sempre la fiducia nella Provvidenza.
Se certe volte Dio sembra non aiutarci, ciò non significa che ci abbia abbandonati, ma che si fida di noi, di quello che possiamo progettare, inventare, trovare.
Si tratta dello stesso coraggio creativo dimostrato dagli amici del paralitico che, per presentarlo a Gesù, lo calarono giù dal tetto (cfr Lc 5,17-26). La difficoltà non fermò l’audacia e l’ostinazione di quegli amici. Essi erano convinti che Gesù poteva guarire il malato e «non trovando da qual parte farlo entrare a causa della folla, salirono sul tetto e, attraverso le tegole, lo calarono con il lettuccio davanti a Gesù nel mezzo della stanza. Vedendo la loro fede, disse: “Uomo, ti sono perdonati i tuoi peccati”» (vv. 19-20). Gesù riconosce la fede creativa con cui quegli uomini cercano di portargli il loro amico malato.
Il Vangelo non dà informazioni riguardo al tempo in cui Maria e Giuseppe e il Bambino rimasero in Egitto. Certamente però avranno dovuto mangiare, trovare una casa, un lavoro. Non ci vuole molta immaginazione per colmare il silenzio del Vangelo a questo proposito. La santa Famiglia dovette affrontare problemi concreti come tutte le altre famiglie, come molti nostri fratelli migranti che ancora oggi rischiano la vita costretti dalle sventure e dalla fame. In questo senso, credo che San Giuseppe sia davvero uno speciale patrono per tutti coloro che devono lasciare la loro terra a causa delle guerre, dell’odio, della persecuzione e della miseria.
Alla fine di ogni vicenda che vede Giuseppe come protagonista, il Vangelo annota che egli si alza, prende con sé il Bambino e sua madre, e fa ciò che Dio gli ha ordinato (cfr Mt 1,24; 2,14.21). In effetti, Gesù e Maria sua Madre sono il tesoro più prezioso della nostra fede.[21]
Nel piano della salvezza non si può separare il Figlio dalla Madre, da colei che «avanzò nella peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce».[22]
Dobbiamo sempre domandarci se stiamo proteggendo con tutte le nostre forze Gesù e Maria, che misteriosamente sono affidati alla nostra responsabilità, alla nostra cura, alla nostra custodia. Il Figlio dell’Onnipotente viene nel mondo assumendo una condizione di grande debolezza. Si fa bisognoso di Giuseppe per essere difeso, protetto, accudito, cresciuto. Dio si fida di quest’uomo, così come fa Maria, che in Giuseppe trova colui che non solo vuole salvarle la vita, ma che provvederà sempre a lei e al Bambino. In questo senso San Giuseppe non può non essere il Custode della Chiesa, perché la Chiesa è il prolungamento del Corpo di Cristo nella storia, e nello stesso tempo nella maternità della Chiesa è adombrata la maternità di Maria.[23] Giuseppe, continuando a proteggere la Chiesa, continua a proteggere il Bambino e sua madre, e anche noi amando la Chiesa continuiamo ad amare il Bambino e sua madre.
Questo Bambino è Colui che dirà: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Così ogni bisognoso, ogni povero, ogni sofferente, ogni moribondo, ogni forestiero, ogni carcerato, ogni malato sono “il Bambino” che Giuseppe continua a custodire. Ecco perché San Giuseppe è invocato come protettore dei miseri, dei bisognosi, degli esuli, degli afflitti, dei poveri, dei moribondi. Ed ecco perché la Chiesa non può non amare innanzitutto gli ultimi, perché Gesù ha posto in essi una preferenza, una sua personale identificazione. Da Giuseppe dobbiamo imparare la medesima cura e responsabilità: amare il Bambino e sua madre; amare i Sacramenti e la carità; amare la Chiesa e i poveri. Ognuna di queste realtà è sempre il Bambino e sua madre.
6 Padre lavoratore
Un aspetto che caratterizza San Giuseppe e che è stato posto in evidenza sin dai tempi della prima Enciclica sociale, la Rerum novarum di Leone XIII, è il suo rapporto con il lavoro. San Giuseppe era un carpentiere che ha lavorato onestamente per garantire il sostentamento della sua famiglia. Da lui Gesù ha imparato il valore, la dignità e la gioia di ciò che significa mangiare il pane frutto del proprio lavoro.
In questo nostro tempo, nel quale il lavoro sembra essere tornato a rappresentare un’urgente questione sociale e la disoccupazione raggiunge talora livelli impressionanti, anche in quelle nazioni dove per decenni si è vissuto un certo benessere, è necessario, con rinnovata consapevolezza, comprendere il significato del lavoro che dà dignità e di cui il nostro Santo è esemplare patrono.
Il lavoro diventa partecipazione all’opera stessa della salvezza, occasione per affrettare l’avvento del Regno, sviluppare le proprie potenzialità e qualità, mettendole al servizio della società e della comunione; il lavoro diventa occasione di realizzazione non solo per sé stessi, ma soprattutto per quel nucleo originario della società che è la famiglia. Una famiglia dove mancasse il lavoro è maggiormente esposta a difficoltà, tensioni, fratture e perfino alla tentazione disperata e disperante del dissolvimento. Come potremmo parlare della dignità umana senza impegnarci perché tutti e ciascuno abbiano la possibilità di un degno sostentamento?
La persona che lavora, qualunque sia il suo compito, collabora con Dio stesso, diventa un po’ creatore del mondo che ci circonda. La crisi del nostro tempo, che è crisi economica, sociale, culturale e spirituale, può rappresentare per tutti un appello a riscoprire il valore, l’importanza e la necessità del lavoro per dare origine a una nuova “normalità”, in cui nessuno sia escluso. Il lavoro di San Giuseppe ci ricorda che Dio stesso fatto uomo non ha disdegnato di lavorare. La perdita del lavoro che colpisce tanti fratelli e sorelle, e che è aumentata negli ultimi tempi a causa della pandemia di Covid-19, dev’essere un richiamo a rivedere le nostre priorità. Imploriamo San Giuseppe lavoratore perché possiamo trovare strade che ci impegnino a dire: nessun giovane, nessuna persona, nessuna famiglia senza lavoro!
7. Padre nell’ombra
Lo scrittore polacco Jan Dobraczyński, nel suo libro L’ombra del Padre,[24] ha narrato in forma di romanzo la vita di San Giuseppe. Con la suggestiva immagine dell’ombra definisce la figura di Giuseppe, che nei confronti di Gesù è l’ombra sulla terra del Padre Celeste: lo custodisce, lo protegge, non si stacca mai da Lui per seguire i suoi passi. Pensiamo a ciò che Mosè ricorda a Israele: «Nel deserto […] hai visto come il Signore, tuo Dio, ti ha portato, come un uomo porta il proprio figlio, per tutto il cammino» (Dt 1,31). Così Giuseppe ha esercitato la paternità per tutta la sua vita.[25]
Padri non si nasce, lo si diventa. E non lo si diventa solo perché si mette al mondo un figlio, ma perché ci si prende responsabilmente cura di lui. Tutte le volte che qualcuno si assume la responsabilità della vita di un altro, in un certo senso esercita la paternità nei suoi confronti.
Nella società del nostro tempo, spesso i figli sembrano essere orfani di padre. Anche la Chiesa di oggi ha bisogno di padri. È sempre attuale l’ammonizione rivolta da San Paolo ai Corinzi: «Potreste avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri» (1 Cor 4,15); e ogni sacerdote o vescovo dovrebbe poter aggiungere come l’Apostolo: «Sono io che vi ho generato in Cristo Gesù mediante il Vangelo» (ibid.). E ai Galati dice: «Figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia formato in voi!» (4,19).
Essere padri significa introdurre il figlio all’esperienza della vita, alla realtà. Non trattenerlo, non imprigionarlo, non possederlo, ma renderlo capace di scelte, di libertà, di partenze. Forse per questo, accanto all’appellativo di padre, a Giuseppe la tradizione ha messo anche quello di “castissimo”. Non è un’indicazione meramente affettiva, ma la sintesi di un atteggiamento che esprime il contrario del possesso. La castità è la libertà dal possesso in tutti gli ambiti della vita. Solo quando un amore è casto, è veramente amore. L’amore che vuole possedere, alla fine diventa sempre pericoloso, imprigiona, soffoca, rende infelici. Dio stesso ha amato l’uomo con amore casto, lasciandolo libero anche di sbagliare e di mettersi contro di Lui. La logica dell’amore è sempre una logica di libertà, e Giuseppe ha saputo amare in maniera straordinariamente libera. Non ha mai messo sé stesso al centro. Ha saputo decentrarsi, mettere al centro della sua vita Maria e Gesù.
La felicità di Giuseppe non è nella logica del sacrificio di sé, ma del dono di sé. Non si percepisce mai in quest’uomo frustrazione, ma solo fiducia. Il suo persistente silenzio non contempla lamentele ma sempre gesti concreti di fiducia. Il mondo ha bisogno di padri, rifiuta i padroni, rifiuta cioè chi vuole usare il possesso dell’altro per riempire il proprio vuoto; rifiuta coloro che confondono autorità con autoritarismo, servizio con servilismo, confronto con oppressione, carità con assistenzialismo, forza con distruzione. Ogni vera vocazione nasce dal dono di sé, che è la maturazione del semplice sacrificio. Anche nel sacerdozio e nella vita consacrata viene chiesto questo tipo di maturità. Lì dove una vocazione, matrimoniale, celibataria o verginale, non giunge alla maturazione del dono di sé fermandosi solo alla logica del sacrificio, allora invece di farsi segno della bellezza e della gioia dell’amore rischia di esprimere infelicità, tristezza e frustrazione.
La paternità che rinuncia alla tentazione di vivere la vita dei figli spalanca sempre spazi all’inedito. Ogni figlio porta sempre con sé un mistero, un inedito che può essere rivelato solo con l’aiuto di un padre che rispetta la sua libertà. Un padre consapevole di completare la propria azione educativa e di vivere pienamente la paternità solo quando si è reso “inutile”, quando vede che il figlio diventa autonomo e cammina da solo sui sentieri della vita, quando si pone nella situazione di Giuseppe, il quale ha sempre saputo che quel Bambino non era suo, ma era stato semplicemente affidato alle sue cure. In fondo, è ciò che lascia intendere Gesù quando dice: «Non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste» (Mt 23,9).
Tutte le volte che ci troviamo nella condizione di esercitare la paternità, dobbiamo sempre ricordare che non è mai esercizio di possesso, ma “segno” che rinvia a una paternità più alta. In un certo senso, siamo tutti sempre nella condizione di Giuseppe: ombra dell’unico Padre celeste, che «fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45); e ombra che segue il Figlio.
*.*.*
«Alzati, prendi con te il bambino e sua madre» (Mt 2,13), dice Dio a San Giuseppe.
Lo scopo di questa Lettera Apostolica è quello di accrescere l’amore verso questo grande Santo, per essere spinti a implorare la sua intercessione e per imitare le sue virtù e il suo slancio.
Infatti, la specifica missione dei Santi è non solo quella di concedere miracoli e grazie, ma di intercedere per noi davanti a Dio, come fecero Abramo[26] e Mosè,[27] come fa Gesù, «unico mediatore» (1 Tm 2,5), che presso Dio Padre è il nostro «avvocato» (1 Gv 2,1), «sempre vivo per intercedere in [nostro] favore» (Eb 7,25; cfr Rm 8,34).
I Santi aiutano tutti i fedeli «a perseguire la santità e la perfezione del proprio stato».[28] La loro vita è una prova concreta che è possibile vivere il Vangelo.
Gesù ha detto: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29), ed essi a loro volta sono esempi di vita da imitare. San Paolo ha esplicitamente esortato: «Diventate miei imitatori!» (1 Cor 4,16).[29] San Giuseppe lo dice attraverso il suo eloquente silenzio.
Davanti all’esempio di tanti Santi e di tante Sante, Sant’Agostino si chiese: «Ciò che questi e queste hanno potuto fare, tu non lo potrai?». E così approdò alla conversione definitiva esclamando: «Tardi ti ho amato, o Bellezza tanto antica e tanto nuova!».[30]
Non resta che implorare da San Giuseppe la grazia delle grazie: la nostra conversione.
A lui rivolgiamo la nostra preghiera:
Salve, custode del Redentore,
e sposo della Vergine Maria.
A te Dio affidò il suo Figlio;
in te Maria ripose la sua fiducia;
con te Cristo diventò uomo.
O Beato Giuseppe, mostrati padre anche per noi,
e guidaci nel cammino della vita.
Ottienici grazia, misericordia e coraggio,
e difendici da ogni male. Amen.
Roma, presso San Giovanni in Laterano, 8 dicembre, Solennità dell’Immacolata Concezione della B.V. Maria, dell’anno 2020, ottavo del mio pontificato.
FRANCESCO
___________________
[1] Lc 4,22; Gv 6,42; cfr Mt 13,55; Mc 6,3.
[2] S. Rituum Congreg., Quemadmodum Deus (8 dicembre 1870): ASS 6 (1870-71), 194.
[3] Cfr Discorso alle ACLI in occasione della Solennità di San Giuseppe Artigiano (1 maggio 1955): AAS 47 (1955), 406.
[4] Esort. ap. Redemptoris custos (15 agosto 1989): AAS 82 (1990), 5-34.
[5] Catechismo della Chiesa Cattolica, 1014.
[6] Meditazione in tempo di pandemia (27 marzo 2020): L’Osservatore Romano, 29 marzo 2020, p. 10.
[7] In Matth. Hom, V, 3: PG 57, 58.
[8] Omelia (19 marzo 1966): Insegnamenti di Paolo VI, IV (1966), 110.
[9] Cfr Libro della vita, 6, 6-8.
[10] Tutti i giorni, da più di quarant’anni, dopo le Lodi, recito una preghiera a San Giuseppe tratta da un libro francese di devozioni, dell’ottocento, della Congregazione delle Religiose di Gesù e Maria, che esprime devozione, fiducia e una certa sfida a San Giuseppe: «Glorioso Patriarca San Giuseppe, il cui potere sa rendere possibili le cose impossibili, vieni in mio aiuto in questi momenti di angoscia e difficoltà. Prendi sotto la tua protezione le situazioni tanto gravi e difficili che ti affido, affinché abbiano una felice soluzione. Mio amato Padre, tutta la mia fiducia è riposta in te. Che non si dica che ti abbia invocato invano, e poiché tu puoi tutto presso Gesù e Maria, mostrami che la tua bontà è grande quanto il tuo potere. Amen».
[11] Cfr Dt 4,31; Sal 69,17; 78,38; 86,5; 111,4; 116,5; Ger 31,20.
[12] Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 88; 288: AAS 105 (2013), 1057; 1136-1137.
[13] Cfr Gen 20,3; 28,12; 31,11.24; 40,8; 41,1-32; Nm 12,6; 1 Sam 3,3-10; Dn 2; 4; Gb 33,15.
[14] In questi casi era prevista anche la lapidazione (cfr Dt 22,20-21).
[15] Cfr Lv 12,1-8; Es 13,2.
[16] Cfr Mt 26,39; Mc 14,36; Lc 22,42.
[17] S. Giovanni Paolo II, Esort. ap. Redemptoris custos (15 agosto 1989), 8: AAS 82 (1990), 14.
[18] Omelia nella S. Messa con Beatificazioni, Villavicencio – Colombia (8 settembre 2017): AAS 109 (2017), 1061.
[19] Enchiridion de fide, spe et caritate, 3.11: PL 40, 236.
[20] Cfr Dt 10,19; Es 22,20-22; Lc 10,29-37.
[21] Cfr S. Rituum Congreg., Quemadmodum Deus (8 dicembre 1870): ASS 6 (1870-71), 193; Pii IX, Inclytum Patriarcham (7 luglio 1871): l.c., 324-327.
[22] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, 58.
[23] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 963-970.
[24] Edizione originale: Cień Ojca, Warszawa 1977.
[25] Cfr S. Giovanni Paolo II, Esort. ap. Redemptoris custos, 7-8: AAS 82 (1990), 12-16.
[26] Cfr Gen 18,23-32.
[27] Cfr Es 17,8-13; 32,30-35.
[28] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, 42.
[29] Cfr 1 Cor 11,1; Fil 3,17; 1 Ts 1,6.
[30] Confessioni, 8, 11, 27: PL 32, 761; 10, 27, 38: PL 32, 795.
[01509-IT.01] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua latina
Epistula Apostolica
Patris corde
Summi Pontificis
Francisci
CL anniversaria obveniente memoria
a die quo sanctus Ioseph declaratus est
Catholicae Ecclesiae Patronus
Patris corde: ita Ioseph amabat Iesum, qui in omnibus quattuor Evangeliis «filius Ioseph» vocatur.[1]
Duo Evangelistae qui eius figuram illustraverunt, nempe Matthaeus et Lucas, narraverunt parum, satis tamen ut intellegeretur cuius generis esset hic pater atque missio ipsi a Providentia concredita.
Novimus quod ille humilis faber fuit (cfr Mt 13,55), cui erat desponsata Maria (cfr Mt 1,18; Lc 1,27), «vir iustus» (Mt 1,19), semper paratus ad explendam voluntatem Dei in Lege ei manifestatam (cfr Lc 2,22.27.39) et saltem quattuor per somnia (cfr Mt 1,20; 2,13.19.22). Post longum arduumque iter de Nazareth in Bethlehem, vidit Christum natum in praesaepi, quia alibi «non erat eis locus» (Lc 2,7). Testis fuit adorationis pastorum (cfr Lc 2,8-20) atque Magorum (cfr Mt 2,1-12), qui personam gerebant alteri populi Israel alteri gentium.
Ille legalem paternitatem Iesu accipere non timuit, cui imposuit nomen revelatum ab angelo: «Vocabis nomen eius Iesum: ipse enim salvum faciet populum suum a peccatis eorum» (Mt 1,21). Ut notum est, nomen dare cuidam personae vel rei – sicut fecit Adam in narratione Genesis (cfr 2,19-20) – apud populos antiquos significabat illam ad se pertinere.
In Templo, quadraginta dies post nativitatem, una cum matre eius Ioseph obtulit Puerum Domino, et admiratione motus audivit prophetiam, quam Simeon dixit de Iesu et Maria (cfr Lc 2,22-35). Ad Iesum tuendum ab Herode, advena vitam degit in Aegypto (cfr Mt 2,13-18). Reversus in patriam, vixit in recessu parvi et ignoti oppidi Nazareth in Galilaea – unde, ut dicebatur, “propheta non surgit” et numquam “potest aliquid boni esse” (cfr Io 7,52; 1,46) – longe a Bethlehem, ubi natus erat, atque a Ierusalem, ubi erat Templum. Cum vero, ascendentibus ipsis in Ierusalem, Iesum duodecim annos natum amisissent, ipse et Maria requirebant eum turbati, et invenerunt eum in Templo cum doctoribus Legis disputantem (cfr Lc 2,41-50).
Post Mariam, Matrem Dei, nullus Sanctus tantum obtinet spatium in Magisterio pontificio quam Ioseph, eius sponsus. Decessores Nostri explicaverunt nuntium inclusum in paucis verbis relatis in Evangeliis ut magis ostenderent eius praecipuum munus in historia salutis: beatus Pius IX eum «Catholicae Ecclesiae Patronum» declaravit,[2] venerabilis Pius XII proposuit eum tamquam “Patronum opificum”[3] et sanctus Ioannes Paulus II uti «Redemptoris custodem».[4] Populus vero ei se committit uti «bonae mortis patrono».[5]
Itaque, CL transactis annis a quo ipse Catholicae Ecclesiae Patronus declaratus est a beato Pio IX die VIII mensis Decembris anno MDCCCLXX – ut ait Iesus – quia «ex abundantia cordis os loquitur» (Mt 12,34), cupimus vobiscum participare quasdam proprias considerationes de hoc singulari viro, tam proximo humanae condicioni cuiusque nostrum. Huiusmodi desiderium crevit his mensibus pandemiae, in quibus potuimus experiri, in discrimine quod nos afficit, quod «nostrae vitae intexuntur et sustentantur a humilibus hominibus (plerumque oblivione obrutis) qui non apparent in diurnalium et ephemeridum integumentis neque in magnis ostentationibus recentissimi moris sed, absque dubio, describunt hodie decretorios eventus nostrae historiae: medici, infirmorum ministri et ministrae, addicti amplis sedibus rerum venalium, munditiae operatores, senioribus assistentes, vectores, ministri tutelae prospicientes, voluntarii, sacerdotes, religiosi viri et mulieres et perquam plurimi alii qui intellexerunt neminem solum salvum fieri. [...] Quot homines exercent cotidie patientiam et infundunt spem, prospicientes ne serant panicum timorem, sed corresponsalitatem. Quot patres et matres, avi et aviae, magistri ostendunt nostris filiis, parvis et cotidianis gestibus, quomodo occurrere difficultati eamque transire possunt iterum accommodando consuetudines, oculos attollendo et incitando orationem. Quot personae precantur, offerunt et intercedunt pro bono omnium».[6] Cuncti in sancto Ioseph possunt invenire virum qui inobservatus transit, virum qui cotidie adest, discretum et absconditum, intercessorem, fulcimen et ductorem temporibus difficultatum. Sanctus Ioseph nos commonet omnes eos, qui videntur celari vel stare in “secunda serie”, in historia salutis incomparabiliter praecipuum locum obtinere. Quibus omnibus verba aestimationis et gratitudinis dicimus.
1. Pater amatus
Magnitudo sancti Ioseph stat in eo quod ipse sponsus fuit Mariae et pater Iesu. Quapropter «totius dispensationis minister effectus est», sicut affirmavit sanctus Ioannes Chrysostomus.[7]
Sanctus Paulus VI animadvertit eius paternitatem re manifestatam esse «in eo quod de sua vita fecit servitium, sacrificium, dicatum mysterio incarnationis et missioni redemptrici cum illo coniunctae; in eo quod usus est auctoritate legali, quae ad eum attinebat de sacra Familia, ad praebendum ei in totum donum sui ipsius, suae vitae, sui operis; in eo quod suam humanam ad amorem domesticum vocationem convertit in superhumanam oblationem sui ipsius, sui cordis et cuiusque facultatis in amore posito ad serviendum Christo germinato in domo eius».[8]
Propter hoc suum munus in historia salutis, sanctus Ioseph est pater qui semper amabatur a populo christiano, sicut patet ex eo quod toto in orbe ei dedicatae sunt plurimae ecclesiae; multa Instituta religiosa, Confraternitates et ecclesiales coetus spiritu eius incitantur eiusque nomen ferunt; itemque a saeculis varia sacra spectacula in eius honorem peragebantur. Plures Sancti et Sanctae ardenter eum coluerunt, inter quos sancta Teresia Abulensis, quae eum tamquam advocatum et intercessorem accepit, se ipsi multum committens atque cunctas gratias suscipiens quas ab eo postulabat; eo quod ipsamet iuvamen experta sit, Sancta alios hortabatur ut eum colerent.[9]
In omni manuali precationum invenitur aliqua oratio ad sanctum Ioseph. Praecipuae deprecationes ad eum convertuntur quaque feria quarta ac praesertim totum per mensem Martium, ex more ipsi dedicatum.[10]
Fiducia populi in sancto Ioseph posita brevi exprimitur in dicto “Ite ad Ioseph”, quod reducitur ad tempus famis in Aegypto, cum populus alimenta petivit a pharaone et ille respondit: «Ite ad Ioseph et, quidquid vobis dixerit, facite» (Gn 41,55). Agebatur de Ioseph, filio Iacob, qui ob invidiam venditus erat a fratribus (cfr Gn 37,11-28) et qui, secundum narrationem Bibliorum, deinde alter a pharaone in Aegypto factus est (cfr Gn 41,41-44).
Ut natus e progenie David (cfr Mt 1,16.20), e radice cuius erat oriturus Iesus secundum promissionem factam David a propheta Nathan (cfr 2 Sam 7), utque sponsus Mariae de Nazareth, sanctus Ioseph est verticulus qui coniungit Vetus et Novum Testamentum.
2. Pater in miseratione
De die in diem Ioseph vidit Iesum proficere «sapientia et aetate et gratia apud Deum et homines» (Lc 2,52). Quomodo Dominus fecit cum Israel, ita ille “dirigebat gressus eius, portabat eum in brachiis suis: fuit ei quasi pater qui elevat infantem ad maxillas suas, et declinavit ad eum ut vesceretur” (cfr Os 11,3-4).
In Ioseph Iesus vidit miserationem Dei: «Quomodo miseretur pater filiorum, misertus est Dominus timentibus se» (Ps 103,13).
Ioseph certe audiverat resonare in synagoga, in prece Psalmorum, Deum Israel esse Deum misericordiae[11], qui bonus est universis et «miserationes eius super omnia opera eius» (Ps 145,9).
Historia salutis perficitur «in spe contra spem» (Rom 4,18) per infirmitates nostras. Nimis saepe putamus Deum fiduciam ponere tantummodo in parte bona et vincente nostrum, cum revera maiore ex parte incepta eius efficiuntur per ac praeter infirmitatem nostram. Hac de causa sanctus Paulus dixit: «Propter quod, ne extollar, datus est mihi stimulus carni, angelus Satanae, ut me colaphizet, ne extollar. Propter quod ter Dominum rogavi, ut discederet a me; et dixit mihi: “Sufficit tibi gratia mea, nam virtus in infirmitate perficitur”» (2 Cor 12,7-9).
Si hic est oeconomiae salutis prospectus, necesse est ut discamus infirmitatem nostram accipere submissa miseratione.[12]
Malignus inducit nos ad infirmitatem nostram cum iudicio negativo aspiciendam, Spiritus autem miserens fert eam in lumen. Miseratio est optimus modus tangendi id quod est infirmum in nobis. Digitus directus et iudicium adhibitum contra alios persaepe signum est nos intus haud valere ipsum nostrum languorem ipsamque infirmitatem nostram accipere. Tantummodo miseratio nos salvos faciet ab opera Accusatoris (cfr Apc 12,10). Quapropter magni momenti est occurrere Misericordiae Dei, praesertim in Sacramento Reconciliationis, experiendo veritatem et miserationem. Inopinato etiam Malignus nobis veritatem dicere potest, sed si hoc facit, ad nos damnandum. Nos autem scimus Veritatem a Deo venientem nos non damnare, sed accipere, nos amplecti, nos sustinere, nobis ignoscere. Veritas apparet nobis semper veluti Pater misericors de parabola (cfr Lc 15,11-32): ad nos accurrit, nobis reddit dignitatem, nos sublevat, epulas dat pro nobis hac de ratione quod «hic filius meus mortuus erat et revixit, perierat et inventus est» (v. 24).
Etiam per angustias Ioseph transit voluntas Dei, historia et inceptum eius. Ita Ioseph nos docet quod fidem in Deo habere includit etiam credere Eum agere posse per nostros timores, nostras infirmitates nostrumque languorem. Et docet nos ne, inter vitae procellas, timeamus Deo gubernaculum nostrae navis relinquere. Nonnumquam nos omnia recognoscere velimus, sed Ipse semper ampliorem conspectum habet.
3. Pater in oboedientia
Similiter ac Deus fecit Mariae, cum ei manifestavit suum propositum salutis, itaque Ioseph patefecit sua consilia, idque fecit per somnia, quae in Bibliis, sicut apud omnes populos antiquos, considerata erant unus e modis quibus Deus voluntatem suam manifestabat.[13]
Ioseph fortiter turbatus est coram arcana praegnatione Mariae: at noluit «eam traducere»,[14] sed decrevit «occulte dimittere eam» (Mt 1,19). In primo somno angelus adiuvit eum solvere eius grave dilemma: «Noli timere accipere Mariam coniugem tuam. Quod enim in ea natum est, de Spiritu Sancto est; pariet autem filium, et vocabis nomen eius Iesum: ipse enim salvum faciet populum suum a peccatis eorum» (Mt 1,20-21). Responsio eius protinus secuta est: «Exsurgens autem Ioseph a somno fecit, sicut praecepit ei angelus» (Mt 1,24). Oboedientia ipse superavit aerumnam suam et salvam fecit Mariam.
In secundo somno angelus praecepit Ioseph: «Surge et accipe puerum et matrem eius et fuge in Aegyptum et esto ibi, usque dum dicam tibi; futurum est enim ut Herodes quaerat puerum ad perdendum eum» (Mt 2,13). Ioseph non haesitavit in oboediendo nec interrogationes sibi fecit de difficultatibus quibus occurreret: «Qui consurgens accepit puerum et matrem eius nocte et recessit in Aegyptum et erat ibi usque ad obitum Herodis» (Mt 2,14-15).
In Aegypto Ioseph exspectabat fiducialiter ac patienter nuntium ab angelo promissum Patriam regrediendi. Ut primum, nuntius divinus in tertio somno, postquam certiorem fecisset eum defunctos esse eos, qui quaerebant animam pueri, iussit Ioseph surgere et accipere puerum et matrem eius et redire in terram Israel (cfr Mt 2,19-20), ille rursum paruit sine haesitatione: «Surgens accepit puerum et matrem eius et venit in terram Israel» (Mt 2,21).
Sed dum rediebat, in itinere, «audiens quia Archelaus regnaret in Iudaea pro Herode patre suo, timuit illuc ire; et admonitus deinde in somnis – et quartum id evenit – secessit in partes Galilaeae et veniens habitavit in civitate, quae vocatur Nazareth» (Mt 2,22-23).
Evangelista Lucas autem rettulit Ioseph suscepisse longum et incommodum iter de Nazareth in Bethlehem, secundum legem census ab imperatore Caesare Augusto latam ut omnes profiterentur, singuli in sua civitate. In ipsis rerum adiunctis natus est Iesus (cfr 2,1-7), et sicut omnes alii pueri, in indicem anagraphicum Imperii inscriptus est.
Sanctus Lucas potissimum sollicite in luce posuit parentes Iesu omnia praecepta Legis observavisse: ritus circumcisionis Iesu, purificationis Mariae post partum, oblationis Deo primogeniti (cfr 2,21-24).[15]
In omnibus rerum adiunctis vitae suae Ioseph novit suum “fiat” dicere, sicut Maria in Annuntiatione et Iesus in Gethsemani.
Ioseph, munere fungens patris familias, docuit Iesum subditum esse parentibus (cfr Lc 2,51), secundum mandatum Dei (cfr Ex 20,12).
In recessu Nazareth absconditus, in schola Ioseph, Iesus didicit facere Patris voluntatem, quae cibus eius cotidianus facta est (cfr Io 4,34). Etiam difficillimo tempore vitae suae, in Gethsemani experto, maluit voluntatem Patris facere et non suam[16] et factus est «oboediens usque ad mortem […] crucis» (Phil 2,8). Quam ob rem in Epistula ad Hebraeos de Iesu dicitur: «Didicit ex his, quae passus est, oboedientiam» (5,8).
Ex omnibus his rebus apparet ut Ioseph «a Deo est arcessitus ut Iesu recta via munerique eius per suae paternitatis exsecutionem famularetur: eo ipso prorsus modo ille in temporis plenitudine magno Redemptionis mysterio adiutricem praestitit operam reque vera salutis minister exsistit».[17]
4. Pater in acceptione
Ioseph accepit Mariam, haud ponens praevias condiciones. Fisus est verbis angeli. «Nobilitas eius cordis effecit ut caritati submitteret quod de lege didicit; et hodie, in hoc mundo ubi vis psychologice, verbis et actis contra mulierem palam adhibetur, Ioseph apparet tamquam figura viri reverentis, lenis, qui, antequam haberet omnes notitias, optavit pro bona fama, dignitate et vita Mariae. Atque, eius in dubio, quomodo melius agendum esset, Deus adiuvit eum recte deligere, illuminans eius arbitrium».[18]
Totiens nostra in vita occurrunt eventus, quorum non intellegimus sensum. Prima nostra reactio est frustratio ac defectio. Ioseph seposuit suas ratiocinationes ut spatium praeberet illi quod eventurum erat, et quantumvis illud in eius oculis mysteriosum apparere posset, ipse id accepit, assumpsit de illo responsalitatem et sua cum historia conciliatus est. Nisi nos nostra cum historia conciliemus, neque valebimus progredi, quoniam semper manebimus obsides nostrarum exspectationum ac sequentium frustrationum.
Vita spiritualis quam Ioseph ostendit nobis non est via quae explanat, sed via quae accipit. Tantummodo incipiendo ex hac acceptione, ex hac conciliatione, etiam animo percipi potest historia maior et sensus altior. Resonare videntur ardentia verba Iob, qui hortationi uxoris ut in omni evenienti sibi malo deficeret, respondit: «Si bona suscepimus de manu Dei, mala quare non suscipiamus?» (Iob 2,10).
Ioseph non fuit vir passive tolerans. Ipse actor fuit animosus et fortis. Acceptio est modus per quem in vita nostra manifestatur donum fortitudinis quod nobis a Spiritu Sancto datur. Tantummodo Dominus potest dare nobis virtutem accipiendi vitam sicut est, et spatium faciendi quoque illi eius parti quae est contradictoria, inopinata et frustrans.
Iesu adventus inter nos est donum Patris, ut unusquisque concilietur sua cum historia, etiam cum prorsus eam non intellegit.
Sicut Deus dixit nostro Sancto: «Ioseph fili David, noli timere» (Mt 1,20), videtur nobis quoque iterare: “Nolite timere!”. Opus est rabiem et frustrationem deponere, et spatium facere, sine ulla mundana tolerantia, sed cum fortitudine spe repleta, illi quod non elegimus, attamen exsistit. Ita vitam accipere nos introducit in quendam sensum absconditum. Vita uniuscuiusque nostrum potest iterum mirabiliter proficere, si reperimus animum vivendi eam secundum id quod nobis ostendit Evangelium. Et nihil refert, si iam omnia videntur sinistre declinavisse etsi quaedam reverti iam nequeunt. Deus flores proferre potest inter saxa. Etiamsi cor nostrum reprehendit nos, Ipse «maior est corde nostro et cognoscit omnia» (1 Io 3,20).
Denuo redit realismus christianus, qui nihil horum quae exsistunt reicit. Rerum veritas, in sua arcana constantia et implicatione, fert sensum exsistentiae una cum eius lucibus et umbris. Hoc inducit apostolum Paulum ut dicat: «Scimus autem quoniam diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum» (Rom 8,28). Et sanctus Augustinus addit: «Etiam illud quod malum dicitur».[19] In hoc universali prospectu, fides cuique eventui laeto vel tristi sensum praebet.
Absit ergo nobis ut putemus quod credere sibi velit faciles consolationis solutiones reperire. Fides quam Christus nos docuit est autem fides, quam videmus apud sanctum Ioseph, qui non querit vias compendiarias, sed “apertis oculis” occurrit sibi accidentibus, ipsemet de iis assumens responsalitatem.
Acceptio Ioseph nos hortatur ad accipiendum alios, sine exclusione, sicut sunt, reservando infirmis praecipuam dilectionem, quia infirma eligit Deus (cfr 1 Cor 1,27), qui est «pater orphanorum et iudex viduarum» (Ps 68,6) et praecipit amare peregrinos.[20] Volumus opinari ex Ioseph moribus Iesum hausisse inceptum parabolae de filio prodigo patreque misericordi (cfr Lc 15, 11-32).
5. Pater cum animo efficiendi
Si primus gradus omnis verae sanationis interioris est propriam historiam accipere, id est intus nostri spatium facere iis quae non elegimus in vita nostra, oportet tamen addere aliam magni momenti notam: animum efficiendi. Qui apparet praesertim tempore difficultatibus occurrendi. Nam in conspectu cuiusdam difficultatis possumus desistere et campum deserere, vel aliquo modo ingenio uti. Ipsae difficultates nonnumquam sunt quae extrahunt ex unoquoque nostrum opes, quas habere minime putabamus.
Multoties, legendo “Evangelia infantiae”, quaestio oritur cur Deus tunc non interveniret directe et clare? Sed Deus intervenit per eventus et homines. Ioseph fuit vir per quem Deus curavit initia historiae redemptionis. Ipse fuit verum “miraculum” quo Deus salvum fecit Puerum et matrem eius. Caelum intervenit confidans animo efficiendi huius viri qui Bethlehem perveniens et nullum in deversorio inveniens locum ubi Maria parere posset, accommodavit stabulum ac denuo composuit illud ut, quantum fieri posset, aptus locus evaderet Dei Filio venienti in mundum (cfr Lc 2,6-7). In conspectu instantis periculi Herodis, qui voluit interficere Puerum, Ioseph iterum in somno monitus est ad Puerum tuendum, et media nocte fugam paravit in Aegyptum (cfr Mt 2,13-14).
In levi lectione harum narrationum, semper videtur mundus esse in arbitrio fortium et potentium, sed “bona notitia” Evangelii est in eo quod ostendatur, non obstante praepollentia et violentia dominatorum terrestrium, quomodo Deus semper inveniat rationem efficiendi suum consilium salutis. Vita etiam nostra aliquando videtur esse in arbitrio fortium potestatum, sed Evangelium dicit nobis Deum semper salvum facere posse id quod valet, si nos eodem animo efficiendi utimur ac faber tignarius de Nazareth, qui potest res adversas in opportunitatem convertere, anteponens semper fiduciam in Providentia.
Si aliquando Deus videtur nos non adiuvare, id non significat nos ab eo derelictos esse, sed potius eum confidere nobis, rebus quas concipere, excogitare et reperire possumus.
Agitur de eodem animo efficiendi, demonstrato ab amicis paralytici qui, ut eum inferrent ad Iesum, summiserunt eum de tecto (cfr Lc 5,17-26). Difficultas non detinuit audaciam et obstinationem horum amicorum. Ipsi persuasum habuerunt Iesum aegrum sanare posse, «et non invenientes qua parte illum inferrent prae turba, ascenderunt supra tectum et per tegulas summiserunt illum cum lectulo in medium ante Iesum. Quorum fidem ut vidit, dixit: “Homo, remittuntur tibi peccata tua”» (vv. 19-20). Iesus agnovit fidem efficiendi qua illi viri conati sunt amicum suum aegrum ad eum portare.
Evangelium non refert notitias pertinentes ad tempus quod Ioseph, Maria et Puer degerunt in Aegypto. Quippe quibus autem oportebat vesci, habitationem et operam invenire. Non est opus multum imaginari ad complendum Evangelii silentium de his rebus. Sacrae Familiae occurrendum erat realibus necessitatibus sicut agunt cunctae aliae familiae, sicut agunt plurimi nostri fratres migrantes qui adhuc hodie vita periclitantur rebus adversis et fame coacti. Hoc sensu censemus sanctum Ioseph revera praecipuum patronum esse his omnibus qui relinquere debent terram suam propter bella, odium, persecutiones et egestatem.
In fine cuiusque eventus qui habet Ioseph veluti actorem praecipuum, Evangelium annotat eum surgere, accipere Puerum et matrem eius et facere quod Deus praecepit ei (cfr Mt 1,24; 2,14.21). Re quidem vera, Iesus et Maria, Mater eius, sunt fidei nostrae thesaurus pretiosissimus.[21]
In consilio salutis Filius a Matre disiungi nequit, scilicet ab ea quae «in peregrinatione fidei processit, suamque unionem cum Filio fideliter sustinuit usque ad crucem».[22]
Necesse est nos ipsos semper interrogemus si cunctis nostris viribus custodiamus Iesum et Mariam, qui arcano consilio commendati sunt nostrae responsalitati, nostrae curae et custodiae. Omnipotentis Filius in mundum venit assumens condicionem magnae infirmitatis. Factus est indigens Ioseph ut defenderetur, custodiretur, curaretur et aleretur. Deus fisus est huic viro, sicut fecit et Maria, quae in Ioseph invenit eum qui non solum voluit vitam eius salvam facere, sed ei et Puero semper providere. Hoc sensu sanctus Ioseph non potest Custos Ecclesiae non esse, quia Ecclesia est continuatio Corporis Christi in historia, et eodem tempore in Ecclesiae maternitate est adumbrata maternitas Mariae.[23] Continuans custodire Ecclesiam, Ioseph continuat custodire Puerum et matrem eius, et nos quoque diligendo Ecclesiam, continuamus Puerum et matrem eius diligere.
Hic Puer est Ille qui deinde dixit: «Quamdiu fecistis uni de his fratribus meis minimis, mihi fecistis» (Mt 25,40). Sic omnis egens, omnis pauper, omnis patiens, omnis moribundus, omnis advena, omnis carcere clausus, omnis aegrotus sunt “Puer” quem Ioseph custodire continuat. Ecce qua de causa sanctus Ioseph invocatur veluti patronus miserorum, egentium, exsulum, afflictorum, pauperum moribundorumque. Et hanc ob rem Ecclesia non potest non diligere potissimum postremos, quia Iesus praetulit eos, se ipsum in iis profecto agnoscens. Ab Ioseph discere debemus eandem curam et responsalitatem: Puerum et matrem eius amare; Sacramenta et caritatem colere; Ecclesiam et pauperes diligere. Quaeque ex his realitatibus est semper Puer et mater eius.
6. Pater opifex
Indoles quae sanctum Ioseph illustrat quaeque a temporibus primarum litterarum encyclicarum socialium Rerum novarum Leonis XIII in luce posita est, ad eius spectat cum opere necessitudinem. Sanctus Ioseph carpentarius erat qui probe est operatus ut suam familiam sustentaret. Ab eo Iesus didicit pondus, dignitatem et laetitiam quae e sensu proveniunt manducandi panem fructum proprii operis.
Hoc nostro tempore in quo opus videtur rursum urgentem socialem quaestionem significare et coacta operis vacatio nonnumquam gradus assequitur qui animum movent, etiam his in Nationibus ubi per decennia gens in certa prosperitate vixit, necesse est renovata conscientia sensus operis intellegatur qui dignitatem praebet cuiusque noster Sanctus exemplaris est patronus.
Opus navandum fit participatio ipsam operam salutis, occasio ad Regni adventum accellerandum, ad proprias facultates dotesque augendas, eas in famulatu collocando societatis et communionis; opus fit occasio ad complendum non solum nobis ipsis, sed potissimum illi nucleo primitivo societatis quem constituit familia. Familia in qua opus deest, magis ad difficultates exponitur, ad contentiones, divisiones et etiam ad desperatam desperantemque dissolutionis temptationem. Quomodo loqui possumus de dignitate humana nisi conatus efficiamus ut omnes et singuli dignam sustentationem adipisci valeant?
Qui operatur, quodcumque sit eius munus, consociatam operam cum Deo ipso adimplet, quodammodo fit creator mundi qui nos circumdat. Discrimen nostri temporis, quod discrimen est oeconomicum, sociale, culturale et spirituale, omnibus adhortationem praebere potest ad iterum detegendum bonum, pondus et necessitatem operis ad ortum praebendum novae “normali aetati”, in qua nemo excludatur. Opus sancti Ioseph memorat nobis quod ipse Deus, homo factus, opus nullo modo contempsit. Ammissio operis quae tot fratres sororesque attingit quaeque postremis temporibus ob pandemiam Covid-19 appellatam est aucta, oportet adhortationem constituat ad praegressus nostros revisendos. Sanctum Ioseph opificem imploremus ut vias invenire valeamus quae nos obstringant dicere: nullus iuvenis, nulla persona, nulla familia sit sine opere!
7. Pater in umbra
Scriptor Polonus Ioannes Dobraczyński suo in libro Umbra Patris[24] in forma commenticiae fabulae vitam sancti Ioseph narravit. Amoena imagine umbrae figuram definivit Ioseph, qui erga Iesum in terra erat umbra Patris Caelestis: custodivit eum, protexit eum numquam ab eo recessit ut eius sequeretur passus. Cogitemus de eo quod Moyses in memoriam redegit Israel: «In solitudine – ipse vidisti – portavit te Dominus Deus tuus, ut solet homo gestare parvulum filium suum, in omni via» (Dt 1,31). Ita Ioseph per totam vitam suam paternitatem exercuit.[25]
Pater non nascitur, sed fit. Et non fit tantum quia filium generat, sed quia curam de eo responsaliter suscipit. Quotiescumque aliquis vir responsalitatem de vita alterius assumit, quodammodo paternitatem erga eum exercet.
In societate nostrae aetatis, saepe filii patre orbati esse videntur. Etiam Ecclesia hodie patribus eget. Semper pondus suum habet admonitio a sancto Paulo ad Corinthios scripta: «Nam si decem milia paedagogorum habeatis in Christo, sed non multos patres» (1 Cor 4,15); et unusquisque sacerdos vel episcopus debet sicut Apostolus addere: «Nam in Christo Iesu per evangelium ego vos genui» (ibid.). Et ad Galatos dicit: «Filioli mei, quos iterum parturio, donec formetur Christus in vobis!» (4,19).
Patris est filium in vitae experientiam, in rerum veritatem introducere. Ille non est tenendus, non claudendus, non possidendus, sed reddendus idoneus ad arbitria, libertatem, profectiones. Forsitan hanc ob rem, praeter appellationem patris, traditio vocavit Ioseph etiam “castissimum”. Non est notio tantum affectiva, sed summarium significat habitus qui possessioni est contrarius. Castitas est libertas a possessione in omnibus vitae ambitibus. Tantummodo cum amor castus est, verus amor est. Amor qui possidere vult, in fine semper periculosus fit, claudit, suffocat, infelices reddit. Deus ipse hominem amore casto dilexit, eum liberum relinquens etiam errandi atque adversus Ipsum se ponendi. Ratio amoris semper ratio libertatis est, et Ioseph novit modo eximie libero amare. Numquam se ipsum in medium locum posuit. Novit se de medio removere, in medium locum vitae suae Mariam et Iesum collocare.
Felicitas Ioseph non est in ratione sacrificii sui ipsius, sed doni sui ipsius. Numquam hoc in viro frustratio animadvertitur, sed sola fiducia. Eius permanens silentium non continet lamentationes, sed semper veros gestus fiduciae. Mundus patribus eget, patronos recusat, illos videlicet recusat qui alterius possessione uti volunt ad suum vacuum implendum; illos recusat qui auctoritatem cum auctoritatis excessu permiscent, ministerium cum deformi obsequio, comparationem cum oppressione, caritatem cum curandi fictione, vigorem cum destructione. Unaquaeque vera vocatio a dono sui ipsius oritur, quod fit cum simplex sacrificium maturescit. Etiam in sacerdotio et in vita consecrata huiusmodi genus maturitatis postulatur. Ubi quaedam vocatio, matrimonialis, caelibataria vel virginalis, doni sui ipsius maturitatem non assequitur, tantum in ratione sacrificii restans, tunc potius quam signum pulchritudinis fieri et amoris laetitiae, in vicem periclitatur infelicitatem, tristitiam et frustrationem exprimere.
Paternitas quae temptationi renuntiat vivendi vitam filiorum, semper spatia rei ineditae patefacit. Unusquisque filius secum semper mysterium affert, rem ineditam quae tantum revelari potest adiuvante patre qui eius libertatem servat, qui est pater conscius suam operam educationis adimplendi et paternitatem plene vivendi sollummodo cum se ipsum “inutilem” reddidit, cum videt filium autonomum fieri et in semitis vitae solum deambulare, cum se ipsum in condicionem Ioseph ponit, qui semper novit illum Infantem eius non fuisse, sed simpliciter eius curis concreditum esse. Revera hoc est quod Iesus significat cum dicit: «Et “patrem” nolite vocare vobis super terram, unus enim est Pater vester, caelestis» (Mt 23,9).
Quotiescumque paternitatem exercemus, semper nobis memorandum est numquam hoc possessionis exercitationem constituere, sed “signum” quod ad paternitatem altiorem adducit. Quodammodo omnes semper in condicione Ioseph sumus: umbra unius Patris caelestis, qui «solem suum oriri facit super malos et bonos et pluit super iustos et iniustos» (Mt 5,45); et umbra quae Filium sequitur.
* * *
«Surge et accipe puerum et matrem eius» (Mt 2,13), dicit Deus sancto Ioseph.
Propositum huius Epistulae Apostolicae est augere amorem erga hunc magnum Sanctum, ut compellamur ad poscendam eius intercessionem et imitemur eius virtutes eiusque ardorem.
Nam peculiaris missio Sanctorum non est tantum concedere miracula et gratias, sed intercedere pro nobis apud Deum, sicut fecerunt Abraham[26] et Moyses,[27] sicut facit Iesus, «unus mediator» (1 Tim 2,5), quem habemus apud Deum nostrum “advocatum” (1 Io 2,1), semper viventem ad interpellandum pro nobis (cfr Heb 7,25; Rom 8,34).
Sancti adiuvant omnes fideles «ad sanctitatem et proprii status perfectionem prosequendam».[28] Eorum vita est certum signum nos secundum Evangelium vivere posse.
Iesus dixit: «Discite a me, quia mitis sum et humilis corde» (Mt 11,29), ipsique vicissim sunt exemplaria vitae imitanda. Sanctus Paulus palam hortatus est: «Imitatores mei estote!» (1 Cor 4,16).[29] Sanctus Ioseph idem dicit per suum eloquens silentium.
In conspectu tot Sanctorum virorum et mulierum exempli sanctus Augustinus se interrogabat: «Tu non poteris quod isti, quod istae?». Itaque ad maturam conversionem pervenit, exclamans: «Sero te amavi, pulchritudo tam antiqua et tam nova!».[30]
Imploremus denique a sancto Ioseph gratiam gratiarum: nostram conversionem.
Ad eum nostram dirigamus orationem:
Salve, Redemptoris custos
et sponsus Mariae Virginis.
Tibi Deus suum Filium commisit;
in te Maria fiduciam suam reposuit;
tecum Christus vir factus est.
O beate Ioseph, etiam nobis monstra te esse patrem,
atque duc nos in vitae itinere.
Impetra nobis gratiam, misericordiam et animum,
et tuere nos ab omni malo. Amen.
Romae, Laterani, die VIII mensis Decembris, in Immaculata Conceptione BMV, anno MMXX, Pontificatus Nostri octavo.
Franciscus
_____________
[1] Lc 4,22; Io 6,42; cfr Mt 13,55; Mc 6,3.
[2] S. Rituum Congreg., Quemadmodum Deus (8 Decembris 1870): ASS 6 (1870-71), 194.
[3] Cfr Allocutio ad adscriptos Societatibus Christianis Operariorum Italicorum (ACLI) ex Italiae Dioecesibus Romae coadunatos (1 Maii 1955): AAS 47 (1955), 406.
[4] Adhort. ap. Redemptoris custos (15 Augusti 1989): AAS 82 (1990), 5-34.
[5] Catechismus Catholicae Ecclesiae, 1014.
[6] Meditatio tempore pandemiae (27 Martii 2020): L’Osservatore Romano, 29 Martii 2020, p. 10.
[7] In Matth. hom., V,3: PG 57, 58.
[8] Homilia (19 Martii 1966): Insegnamenti di Paolo VI, IV [1966], 110.
[9] Cfr Liber vitae, 6,6-8.
[10] Singulis diebus, iam a plus quam quadraginta annis, post Laudes Nos dicimus orationem ad sanctum Ioseph, sumptam de quodam libro devotionum, saeculo XIX lingua Gallica edito a Congregatione Sororum Iesu et Mariae, quae exprimit pietatem, fiduciam certamque provocationem sancti Ioseph: «Gloriose Patriarcha Sancte Ioseph, cuius potestas impossibilia valet possibilia efficere, veni in auxilium meum his temporibus angustiarum et difficultatum. Accipe sub tuam protectionem tam graves et difficiles condiciones, quas tibi committo, ut felicem solutionem contingant. Pater mi dilecte, omnis fiducia mea in te reponitur. Ne dicatur quod frustra te invocaverim. Et quia tu omnia potes apud Iesum et Mariam, ostende mihi tuam bonitatem tam magnam esse quam potestatem. Amen».
[11] Cfr Dt 4,31; Ps 69,17; 78,38; 86,5; 111,4; 116,5; Ier 31,20.
[12] Cfr Adhort. ap. Evangelii gaudium 88; 288: AAS 105 (2013), 1057, 1136-1137.
[13] Cfr Gn 20,3; 28,12; 31,11.24; 40,8; 41,1-32; Nm 12,6; 1 Sam 3,3-10; Dn 2; 4; Iob 33,15.
[14] His in casibus praevidebatur etiam lapidatio (cfr Dt 22,20-21).
[15] Cfr Lv 12,1-8; Ex 13,2.
[16] Cfr Mt 26,39; Mc 14,36; Lc 22,42.
[17] S. Ioannes Paulus II, Adhort. ap. Redemptoris custos (15 Augusti 1989), 8: AAS 82 (1990), 14.
[18] Homilia in S. Missa cum beatificationibus, celebrata in urbe Villavicentiensi, in Columbia (8 Septembris 2017): AAS 109 (2017), 1061.
[19] Enchiridion de fide, spe et caritate, 3.11: PL 40, 236.
[20] Cfr Dt 10,19; Ex 22,20-22; Lc 10,29-37.
[21] Cfr. S. Rituum Congreg., Quemadmodum Deus (8 Decembris 1870): ASS 6 (1870-71), 193; B. Pius IX, Litt. ap. Inclytum Patriarcham (7 Iulii 1871): l.c., 324-327.
[22] Conc. Oecum. Vat. II, Const. dogm. Lumen gentium, 58.
[23] Catechismus Catholicae Ecclesiae, 963-970.
[24] Editio originalis: Jan Dobraczyński, Cień Ojca, Warszawa 1977.
[25] Cfr S. Ioannes Paulus II, Adhort. ap. Redemptoris custos, 7-8: AAS 82 (1990), 12-16.
[26] Cfr Gn 18,23-32.
[27] Cfr Ex 17,8-13; 32,30-35.
[28] Conc. Oecum. Vat. II, Const. dogm. Lumen gentium, 42.
[29] Cfr 1 Cor 11,1; Phil 3,17; 1 Thess 1,6.
[30] Confessiones VIII,11,27: PL 32, 761; X,27,38: PL 32, 795.
[01509-LT.01] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua francese
LETTRE APOSTOLIQUE
PATRIS CORDE
DU SAINT-PÈRE FRANÇOIS
À L’OCCASION DU 150ème ANNIVERSAIRE
DE LA DÉCLARATION DE SAINT JOSEPH
COMME PATRON DE L’ÉGLISE UNIVERSELLE
AVEC UN CŒUR DE PERE : C’est ainsi que Joseph a aimé Jésus, qui est appelé dans les quatre Évangiles « le fils de Joseph ».[1]
Les deux évangélistes qui ont mis en relief sa figure, Matthieu et Luc, racontent peu, mais bien suffisamment pour le faire comprendre, quel genre de père il a été et quelle mission lui a confiée la Providence.
Nous savons qu’il était un humble charpentier (cf. Mt 13, 55), promis en mariage à Marie (cf. Mt 1, 18 ; Lc 1, 27) ; un « homme juste » (Mt 1, 19), toujours prêt à accomplir la volonté de Dieu manifestée dans sa Loi (cf. Lc 2, 22.27.39), et à travers quatre songes (cf. Mt 1, 20 ; 2, 13.19.22). Après un long et fatiguant voyage de Nazareth à Bethléem, il vit naître le Messie dans une étable, parce qu’ailleurs « il n’y avait pas de place pour eux » (Lc 2, 7). Il fut témoin de l’adoration des bergers (cf. Lc 2, 8-20) et des Mages (cf. Mt 2, 1-12) qui représentaient respectivement le peuple d’Israël et les peuples païens.
Il eut le courage d’assumer la paternité légale de Jésus à qui il donna le nom révélé par l’ange : « Tu lui donneras le nom de Jésus, car c’est lui qui sauvera son peuple de ses péchés » (Mt 1, 21). Comme on le sait, donner un nom à une personne ou à une chose signifiait, chez les peuples antiques, en obtenir l’appartenance, comme l’avait fait Adam dans le récit de la Genèse (cf. 2, 19-20).
Quarante jours après la naissance, Joseph, avec la mère, offrit l’Enfant au Seigneur dans le Temple et entendit, surpris, la prophétie de Siméon concernant Jésus et Marie (cf. Lc 2, 22-35). Pour défendre Jésus d’Hérode, il séjourna en Égypte comme un étranger (cf. Mt 2, 13-18). Revenu dans sa patrie, il vécut en cachette dans le petit village inconnu de Nazareth en Galilée – d’où, il était dit, "qu’il ne surgit aucun prophète" et "qu’il ne peut jamais en sortir rien de bon" (cf. Jn 7, 52 ; 1, 46) –, loin de Bethléem, sa ville natale, et de Jérusalem où se dressait le Temple. Quand, justement au cours d’un pèlerinage à Jérusalem, ils perdirent Jésus âgé de douze ans, avec Marie ils le cherchèrent angoissés et le retrouvèrent dans le Temple en train de discuter avec les docteurs de la Loi (cf. Lc 2, 41-50).
Après Marie, Mère de Dieu, aucun saint n’a occupé autant de place dans le Magistère pontifical que Joseph, son époux. Mes prédécesseurs ont approfondi le message contenu dans les quelques données transmises par les Évangiles pour mettre davantage en évidence son rôle central dans l’histoire du salut : le bienheureux Pie IX l’a déclaré « Patron de l’Église Catholique »,[2] le vénérable Pie XII l’a présenté comme « Patron des travailleurs »,[3] et saint Jean Paul II comme « Gardien du Rédempteur ».[4] Le peuple l’invoque comme « Patron de la bonne mort ».[5]
Par conséquent, à l’occasion des 150 ans de sa déclaration comme Patron de l’Église Catholique faite par le bienheureux Pie IX, le 8 décembre 1870, je voudrais – comme dit Jésus – que "la bouche exprime ce qui déborde du cœur" (cf. Mt 12, 34), pour partager avec vous quelques réflexions personnelles sur cette figure extraordinaire, si proche de la condition humaine de chacun d’entre nous. Ce désir a mûri au cours de ces mois de pandémie durant lesquels nous pouvons expérimenter, en pleine crise qui nous frappe, que « nos vies sont tissées et soutenues par des personnes ordinaires, souvent oubliées, qui ne font pas la une des journaux et des revues ni n’apparaissent dans les grands défilés du dernier show mais qui, sans aucun doute, sont en train d’écrire aujourd’hui les évènements décisifs de notre histoire : médecins, infirmiers et infirmières, employés de supermarchés, agents d’entretien, fournisseurs de soin à domicile, transporteurs, forces de l’ordre, volontaires, prêtres, religieuses et tant d’autres qui ont compris que personne ne se sauve tout seul. […] Que de personnes font preuve chaque jour de patience et insufflent l’espérance, en veillant à ne pas créer la panique mais la co-responsabilité! Que de pères, de mères, de grands-pères et de grands-mères, que d’enseignants montrent à nos enfants, par des gestes simples et quotidiens, comment affronter et traverser une crise en réadaptant les habitudes, en levant le regard et en stimulant la prière! Que de personnes prient, offrent et intercèdent pour le bien de tous ».[6] Nous pouvons tous trouver en saint Joseph l’homme qui passe inaperçu, l’homme de la présence quotidienne, discrète et cachée, un intercesseur, un soutien et un guide dans les moments de difficultés. Saint Joseph nous rappelle que tous ceux qui, apparemment, sont cachés ou en "deuxième ligne" jouent un rôle inégalé dans l’histoire du salut. À eux tous, une parole de reconnaissance et de gratitude est adressée.
1. Père aimé
La grandeur de saint Joseph consiste dans le fait qu’il a été l’époux de Marie et le père adoptif de Jésus. Comme tel, il « se mit au service de tout le dessin salvifique », comme l’affirme saint Jean Chrysostome.[7]
Saint Paul VI observe que sa paternité s’est exprimée concrètement dans le fait « d’avoir fait de sa vie un service, un sacrifice au mystère de l’incarnation et à la mission rédemptrice qui y est jointe ; d’avoir usé de l’autorité légale qui lui revenait sur la sainte Famille pour lui faire un don total de soi, de sa vie, de son travail ; d’avoir converti sa vocation humaine à l’amour domestique dans la surhumaine oblation de soi, de son cœur et de toute capacité d’amour mise au service du Messie germé dans sa maison ».[8]
En raison de son rôle dans l’histoire du salut, saint Joseph est un père qui a toujours été aimé par le peuple chrétien comme le démontre le fait que, dans le monde entier, de nombreuses églises lui ont été dédiées. Plusieurs Instituts religieux, Confréries et groupes ecclésiaux sont inspirés de sa spiritualité et portent son nom, et diverses représentations sacrées se déroulent depuis des siècles en son honneur. De nombreux saints et saintes ont été ses dévots passionnés, parmi lesquels Thérèse d’Avila qui l’adopta comme avocat et intercesseur, se recommandant beaucoup à lui et recevant toutes les grâces qu’elle lui demandait ; encouragée par son expérience, la sainte persuadait les autres à lui être dévots.[9]
Dans tout manuel de prière, on trouve des oraisons à saint Joseph. Des invocations particulières lui sont adressées tous les mercredis, et spécialement durant le mois de mars qui lui est traditionnellement dédié.[10]
La confiance du peuple en saint Joseph est résumée dans l’expression "ite ad Joseph" qui fait référence au temps de la famine en Égypte quand les gens demandaient du pain au pharaon, et il répondait : « Allez trouver Joseph, et faites ce qu’il vous dira » (Gn 41, 55). Il s’agit de Joseph, le fils de Jacob qui par jalousie avait été vendu par ses frères (cf. Gn 37, 11-28) et qui – selon le récit biblique – est devenu par la suite vice-roi d’Égypte (cf. Gn 41, 41-44).
En tant que descendant de David (cf. Mt 1, 16.20), la racine dont devait germer Jésus selon la promesse faite à David par le prophète Nathan (cf. 2 S 7), et comme époux de Marie de Nazareth, saint Joseph est la charnière qui unit l’Ancien et le Nouveau Testament.
2. Père dans la tendresse
Joseph a vu Jésus grandir jour après jour « en sagesse, en taille et en grâce, devant Dieu et devant les hommes » (Lc 2, 52). Tout comme le Seigneur avait fait avec Israël, "il lui a appris à marcher, en le tenant par la main : il était pour lui comme un père qui soulève un nourrisson tout contre sa joue, il se penchait vers lui pour lui donner à manger" (cf. Os 11, 3-4).
Jésus a vu en Joseph la tendresse de Dieu : « Comme la tendresse du père pour ses fils, la tendresse du Seigneur pour qui le craint » (Ps 103, 13).
Joseph aura sûrement entendu retentir dans la synagogue, durant la prière des Psaumes, que le Dieu d’Israël est un Dieu de tendresse,[11] qu’il est bon envers tous et que « sa tendresse est pour toutes ses œuvres » (Ps 145, 9).
L’histoire du salut s’accomplit en « espérant contre toute espérance » (Rm 4, 18), à travers nos faiblesses. Nous pensons trop souvent que Dieu ne s’appuie que sur notre côté bon et gagnant, alors qu’en réalité la plus grande partie de ses desseins se réalise à travers et en dépit de notre faiblesse. C’est ce qui fait dire à saint Paul : « Pour m’empêcher de me surestimer, j’ai reçu dans ma chair une écharde, un envoyé de Satan qui est là pour me gifler, pour empêcher que je me surestime. Par trois fois, j’ai prié le Seigneur de l’écarter de moi. Mais il m’a déclaré : "Ma grâce te suffit, car ma puissance donne toute sa mesure dans la faiblesse" » (2 Co 12, 7-9).
Si telle est la perspective de l’économie du salut, alors nous devons apprendre à accueillir notre faiblesse avec une profonde tendresse.[12]
Le Malin nous pousse à regarder notre fragilité avec un jugement négatif. Au contraire, l’Esprit la met en lumière avec tendresse. La tendresse est la meilleure manière de toucher ce qui est fragile en nous. Le fait de montrer du doigt et le jugement que nous utilisons à l’encontre des autres sont souvent un signe de l’incapacité à accueillir en nous notre propre faiblesse, notre propre fragilité. Seule la tendresse nous sauvera de l’œuvre de l’Accusateur (cf. Ap 12, 10). C’est pourquoi il est important de rencontrer la Miséricorde de Dieu, notamment dans le Sacrement de la Réconciliation, en faisant une expérience de vérité et de tendresse. Paradoxalement, le Malin aussi peut nous dire la vérité. Mais s’il le fait, c’est pour nous condamner. Nous savons cependant que la Vérité qui vient de Dieu ne nous condamne pas, mais qu’elle nous accueille, nous embrasse, nous soutient, nous pardonne. La Vérité se présente toujours à nous comme le Père miséricordieux de la parabole (cf. Lc 15, 11-32) : elle vient à notre rencontre, nous redonne la dignité, nous remet debout, fait la fête pour nous parce que « mon fils que voilà était mort, et il est revenu à la vie ; il était perdu, et il est retrouvé » (v. 24).
La volonté de Dieu, son histoire, son projet, passent aussi à travers la préoccupation de Joseph. Joseph nous enseigne ainsi qu’avoir foi en Dieu comprend également le fait de croire qu’il peut agir à travers nos peurs, nos fragilités, notre faiblesse. Et il nous enseigne que, dans les tempêtes de la vie, nous ne devons pas craindre de laisser à Dieu le gouvernail de notre bateau. Parfois, nous voudrions tout contrôler, mais lui regarde toujours plus loin.
3. Père dans l’obéissance
Dieu a aussi révélé à Joseph ses desseins par des songes, de façon analogue à ce qu’il a fait avec Marie quand il lui a manifesté son plan de salut. Dans la Bible, comme chez tous les peuples antiques, les songes étaient considérés comme un des moyens par lesquels Dieu manifeste sa volonté.[13]
Joseph est très préoccupé par la grossesse incompréhensible de Marie : il ne veut pas « l’accuser publiquement »[14] mais décide de « la renvoyer en secret » (Mt 1, 19). Dans le premier songe, l’ange l’aide à résoudre son dilemme : « Ne crains pas de prendre chez toi Marie, ton épouse, puisque l’enfant qui est engendré en elle vient de l’Esprit Saint ; elle enfantera un fils, et tu lui donneras le nom de Jésus, car c’est lui qui sauvera son peuple de ses péchés » (Mt 1, 20-21). Sa réponse est immédiate : « Quand Joseph se réveilla, il fit ce que l’ange du Seigneur lui avait prescrit » (Mt 1, 24). Grâce à l’obéissance, il surmonte son drame et il sauve Marie.
Dans le deuxième songe, l’ange demande à Joseph : « Lève-toi ; prends l’enfant et sa mère, et fuis en Égypte. Reste là-bas jusqu’à ce que je t’avertisse, car Hérode va rechercher l’enfant pour le faire périr » (Mt 2, 13). Joseph n’hésite pas à obéir, sans se poser de questions concernant les difficultés qu’il devra rencontrer : « Il se leva dans la nuit, il prit l’enfant et sa mère et se retira en Égypte, où il resta jusqu’à la mort d’Hérode » (Mt 2, 14-15).
En Égypte, Joseph, avec confiance et patience, attend l’avis promis par l’ange pour retourner dans son Pays. Le messager divin, dans un troisième songe, juste après l’avoir informé que ceux qui cherchaient à tuer l’enfant sont morts, lui ordonne de se lever, de prendre avec lui l’enfant et sa mère et de retourner en terre d’Israël (cf. Mt 2, 19-20). Il obéit une fois encore sans hésiter : « Il se leva, prit l’enfant et sa mère, et il entra dans le pays d’Israël » (Mt 2, 21).
Mais durant le voyage de retour, « apprenant qu’Arkélaüs régnait sur la Judée à la place de son père Hérode, il eut peur de s’y rendre. Averti en songe, – et c’est la quatrième fois que cela arrive – il se retira dans la région de Galilée et vint habiter dans une ville appelée Nazareth » (Mt 2, 22-23).
L’évangéliste Luc rapporte que Joseph a affronté le long et pénible voyage de Nazareth à Bethléem pour se faire enregistrer dans sa ville d’origine, selon la loi de recensement de l’empereur César Auguste. Jésus est né dans cette circonstance (cf. Lc 2, 1-7) et il a été inscrit au registre de l’Empire comme tous les autres enfants.
Saint Luc, en particulier, prend soin de souligner que les parents de Jésus observaient toutes les prescriptions de la Loi : les rites de la circoncision de Jésus, de la purification de Marie après l’accouchement, de l’offrande du premier-né à Dieu (cf. 2, 21-24).[15]
Dans chaque circonstance de sa vie, Joseph a su prononcer son "fiat", tout comme Marie à l’Annonciation, et comme Jésus à Gethsémani.
Dans son rôle de chef de famille, Joseph a enseigné à Jésus à être soumis à ses parents (cf. Lc 2, 51), selon le commandement de Dieu (cf. Ex 20, 12).
Dans la vie cachée de Nazareth, Jésus a appris à faire la volonté du Père à l’école de Joseph. Cette volonté est devenue sa nourriture quotidienne (cf. Jn 4, 34). Même au moment le plus difficile de sa vie, à Gethsémani, il préfère accomplir la volonté du Père plutôt que la sienne,[16] et il se fait « obéissant jusqu’à la mort […] de la croix » (Ph 2, 8). C’est pourquoi l’auteur de la Lettre aux Hébreux conclut que Jésus « apprit par ses souffrances l’obéissance » (5, 8).
Il résulte de tous ces événements que Joseph « a été appelé par Dieu à servir directement la personne et la mission de Jésus en exerçant sa paternité. C'est bien de cette manière qu'il coopère dans la plénitude du temps au grand mystère de la Rédemption et qu'il est véritablement ministre du salut ».[17]
4. Père dans l’accueil
Joseph accueille Marie sans fixer de conditions préalables. Il se fie aux paroles de l’Ange. « La noblesse de son cœur lui fait subordonner à la charité ce qu’il a appris de la loi. Et aujourd’hui, en ce monde où la violence psychologique, verbale et physique envers la femme est patente, Joseph se présente comme une figure d’homme respectueux, délicat qui, sans même avoir l’information complète, opte pour la renommée, la dignité et la vie de Marie. Et, dans son doute sur la meilleure façon de procéder, Dieu l’aide à choisir en éclairant son jugement ».[18]
Bien des fois, des évènements dont nous ne comprenons pas la signification surviennent dans notre vie. Notre première réaction est très souvent celle de la déception et de la révolte. Joseph laisse de côté ses raisonnements pour faire place à ce qui arrive et, aussi mystérieux que cela puisse paraître à ses yeux, il l’accueille, en assume la responsabilité et se réconcilie avec sa propre histoire. Si nous ne nous réconcilions pas avec notre histoire, nous ne réussirons pas à faire le pas suivant parce que nous resterons toujours otages de nos attentes et des déceptions qui en découlent.
La vie spirituelle que Joseph nous montre n’est pas un chemin qui explique, mais un chemin qui accueille. C’est seulement à partir de cet accueil, de cette réconciliation, qu’on peut aussi entrevoir une histoire plus grande, un sens plus profond. Semblent résonner les ardentes paroles de Job qui, à l’invitation de sa femme à se révolter pour tout le mal qui lui arrive, répond : « Si nous accueillons le bonheur comme venant de Dieu, comment ne pas accueillir de même le malheur » (Jb 2, 10).
Joseph n’est pas un homme passivement résigné. Il est fortement et courageusement engagé. L’accueil est un moyen par lequel le don de force qui nous vient du Saint Esprit se manifeste dans notre vie. Seul le Seigneur peut nous donner la force d’accueillir la vie telle qu’elle est, de faire aussi place à cette partie contradictoire, inattendue, décevante de l’existence.
La venue de Jésus parmi nous est un don du Père pour que chacun se réconcilie avec la chair de sa propre histoire, même quand il ne la comprend pas complètement.
Ce que Dieu a dit à notre saint : « Joseph, fils de David, ne crains pas » (Mt 1, 20), il semble le répéter à nous aussi : "N’ayez pas peur !". Il faut laisser de côté la colère et la déception, et faire place, sans aucune résignation mondaine mais avec une force pleine d’espérance, à ce que nous n’avons pas choisis et qui pourtant existe. Accueillir ainsi la vie nous introduit à un sens caché. La vie de chacun peut repartir miraculeusement si nous trouvons le courage de la vivre selon ce que nous indique l’Évangile. Et peu importe si tout semble déjà avoir pris un mauvais pli et si certaines choses sont désormais irréversibles. Dieu peut faire germer des fleurs dans les rochers. Même si notre cœur nous accuse, il « est plus grand que notre cœur, et il connaît toutes choses » (1Jn 3, 20).
Le réalisme chrétien, qui ne rejette rien de ce qui existe, revient encore une fois. La réalité, dans sa mystérieuse irréductibilité et complexité, est porteuse d’un sens de l’existence avec ses lumières et ses ombres. C’est ce qui fait dire à l’apôtre Paul : « Nous savons qu’avec ceux qui l’aiment, Dieu collabore en tout pour leur bien » (Rm 8, 28). Et saint Augustin ajoute : « …même en ce qui est appelé mal (etiam illud quod malum dicitur) ».[19] Dans cette perspective globale, la foi donne un sens à tout évènement, heureux ou triste.
Loin de nous, alors, de penser que croire signifie trouver des solutions consolatrices faciles. La foi que nous a enseignée le Christ est, au contraire, celle que nous voyons en saint Joseph qui ne cherche pas de raccourcis mais qui affronte “les yeux ouverts” ce qui lui arrive en en assumant personnellement la responsabilité.
L’accueil de Joseph nous invite à accueillir les autres sans exclusion, tels qu’ils sont, avec une prédilection pour les faibles parce que Dieu choisit ce qui est faible (cf. 1 Co 1, 27). Il est « père des orphelins, justicier des veuves » (Ps 68, 6) et il commande d’aimer l’étranger.[20] Je veux imaginer que, pour la parabole du fils prodigue et du père miséricordieux, Jésus se soit inspiré des comportements de Joseph (cf. Lc 15, 11-32).
5. Père au courage créatif
Si la première étape de toute vraie guérison intérieure consiste à accueillir sa propre histoire, c’est-à-dire à faire de la place en nous-mêmes y compris à ce que nous n’avons pas choisi dans notre vie, il faut cependant ajouter une autre caractéristique importante : le courage créatif, surtout quand on rencontre des difficultés. En effet, devant une difficulté on peut s’arrêter et abandonner la partie, ou bien on peut se donner de la peine. Ce sont parfois les difficultés qui tirent de nous des ressources que nous ne pensons même pas avoir.
Bien des fois, en lisant les “Évangiles de l’enfance”, on se demande pourquoi Dieu n’est pas intervenu de manière directe et claire. Mais Dieu intervient à travers des évènements et des personnes. Joseph est l’homme par qui Dieu prend soin des commencements de l’histoire de la rédemption. Il est le vrai “miracle” par lequel Dieu sauve l’Enfant et sa mère. Le Ciel intervient en faisant confiance au courage créatif de cet homme qui, arrivant à Bethléem et ne trouvant pas un logement où Marie pourra accoucher, aménage une étable et l’arrange afin qu’elle devienne, autant que possible, un lieu accueillant pour le Fils de Dieu qui vient au monde (cf. Lc 2, 6-7). Devant le danger imminent d’Hérode qui veut tuer l’Enfant, Joseph est alerté, une fois encore en rêve, pour le défendre, et il organise la fuite en Égypte au cœur de la nuit (cf. Mt 2, 13-14).
Une lecture superficielle de ces récits donne toujours l’impression que le monde est à la merci des forts et des puissants. Mais la “bonne nouvelle” de l’Évangile est de montrer comment, malgré l’arrogance et la violence des dominateurs terrestres, Dieu trouve toujours un moyen pour réaliser son plan de salut. Même notre vie semble parfois à la merci des pouvoirs forts. Mais l’Évangile nous dit que, ce qui compte, Dieu réussit toujours à le sauver à condition que nous ayons le courage créatif du charpentier de Nazareth qui sait transformer un problème en opportunité, faisant toujours confiance à la Providence.
Si quelquefois Dieu semble ne pas nous aider, cela ne signifie pas qu’il nous a abandonnés, mais qu’il nous fait confiance, qu’il fait confiance en ce que nous pouvons projeter, inventer, trouver.
Il s’agit du même courage créatif démontré par les amis du paralytique qui le descendent par le toit pour le présenter à Jésus (cf. Lc 5, 17-26). La difficulté n’a pas arrêté l’audace et l’obstination de ces amis. Ils étaient convaincus que Jésus pouvait guérir le malade et « comme ils ne savaient par où l’introduire à cause de la foule, ils montèrent sur le toit et, à travers les tuiles, ils le descendirent avec sa civière, au milieu, devant Jésus. Voyant leur foi, il dit : “Homme, tes péchés te sont remis” » (vv. 19-20). Jésus reconnaît la foi créative avec laquelle ces hommes ont cherché à lui amener leur ami malade.
L’Évangile ne donne pas d’informations concernant le temps pendant lequel Marie, Joseph et l’Enfant restèrent en Égypte. Cependant, ils auront certainement dû manger, trouver une maison, un travail. Il ne faut pas beaucoup d’imagination pour remplir le silence de l’Évangile à ce propos. La sainte Famille a dû affronter des problèmes concrets comme toutes les autres familles, comme beaucoup de nos frères migrants qui encore aujourd’hui risquent leur vie, contraints par les malheurs et la faim. En ce sens, je crois que saint Joseph est vraiment un patron spécial pour tous ceux qui doivent laisser leur terre à cause des guerres, de la haine, de la persécution et de la misère.
À la fin de chaque événement qui voit Joseph comme protagoniste, l’Évangile note qu’il se lève, prend avec lui l’Enfant et sa mère, et fait ce que Dieu lui a ordonné (cf. Mt 1, 24 ; 2, 14.21). Jésus et Marie sa Mère sont, en effet, le trésor le plus précieux de notre foi.[21]
On ne peut pas séparer, dans le plan du salut, le Fils de la mère, de celle qui « avança dans son pèlerinage de foi, gardant fidèlement l’union avec son Fils jusqu’à la croix ».[22]
Nous devons toujours nous demander si nous défendons de toutes nos forces Jésus et Marie qui sont mystérieusement confiés à notre responsabilité, à notre soin, à notre garde. Le Fils du Tout-Puissant vient dans le monde en assumant une condition de grande faiblesse. Il se fait dépendant de Joseph pour être défendu, protégé, soigné, élevé. Dieu fait confiance à cet homme, comme le fait Marie qui trouve en Joseph celui qui, non seulement veut lui sauver la vie, mais qui s’occupera toujours d’elle et de l’Enfant. En ce sens, Joseph ne peut pas ne pas être le Gardien de l’Église, parce que l’Église est le prolongement du Corps du Christ dans l’histoire, et en même temps dans la maternité de l’Église est esquissée la maternité de Marie.[23] Joseph, en continuant de protéger l’Église, continue de protéger l’Enfant et sa mère, et nous aussi en aimant l’Église nous continuons d’aimer l’Enfant et sa mère.
Cet Enfant est celui qui dira : « Dans la mesure où vous l’avez fait à l’un de ces plus petits de mes frères, c’est à moi que vous l’avez fait » (Mt 25, 40). Ainsi chaque nécessiteux, chaque pauvre, chaque souffrant, chaque moribond, chaque étranger, chaque prisonnier, chaque malade est “l’Enfant” que Joseph continue de défendre. C’est pourquoi saint Joseph est invoqué comme protecteur des miséreux, des nécessiteux, des exilés, des affligés, des pauvres, des moribonds. Et c’est pourquoi l’Église ne peut pas ne pas aimer avant tout les derniers, parce que Jésus a placé en eux une préférence, il s’identifie à eux personnellement. Nous devons apprendre de Joseph le même soin et la même responsabilité : aimer l’Enfant et sa mère ; aimer les Sacrements et la charité ; aimer l’Église et les pauvres. Chacune de ces réalités est toujours l’Enfant et sa mère.
6. Père travailleur
Le rapport avec le travail est un aspect qui caractérise saint Joseph et qui est mis en évidence depuis la première Encyclique sociale, Rerum novarum, de Léon XIII. Saint Joseph était un charpentier qui a travaillé honnêtement pour garantir la subsistance de sa famille. Jésus a appris de lui la valeur, la dignité et la joie de ce que signifie manger le pain, fruit de son travail.
À notre époque où le travail semble représenter de nouveau une urgente question sociale et où le chômage atteint parfois des niveaux impressionnants, y compris dans les nations où pendant des décennies on a vécu un certain bien-être, il est nécessaire de comprendre, avec une conscience renouvelée, la signification du travail qui donne la dignité et dont notre Saint est le patron exemplaire.
Le travail devient participation à l’œuvre même du salut, occasion pour hâter l’avènement du Royaume, développer les potentialités et qualités personnelles en les mettant au service de la société et de la communion. Le travail devient occasion de réalisation, non seulement pour soi-même mais surtout pour ce noyau originel de la société qu’est la famille. Une famille où manque le travail est davantage exposée aux difficultés, aux tensions, aux fractures et même à la tentation désespérée et désespérante de la dissolution. Comment pourrions-nous parler de la dignité humaine sans vouloir garantir, à tous et à chacun, la possibilité d’une digne subsistance ?
La personne qui travaille, quel que soit sa tâche, collabore avec Dieu lui-même et devient un peu créatrice du monde qui nous entoure. La crise de notre époque, qui est une crise économique, sociale, culturelle et spirituelle, peut représenter pour tous un appel à redécouvrir la valeur, l’importance et la nécessité du travail pour donner naissance à une nouvelle “normalité” dont personne n’est exclu. Le travail de saint Joseph nous rappelle que Dieu lui-même fait homme n’a pas dédaigné de travailler. La perte du travail qui frappe de nombreux frères et sœurs, et qui est en augmentation ces derniers temps à cause de la pandémie de la Covid-19, doit être un rappel à revoir nos priorités. Implorons saint Joseph travailleur pour que nous puissions trouver des chemins qui nous engagent à dire : aucun jeune, aucune personne, aucune famille sans travail !
7. Père dans l’ombre
L’écrivain polonais Jan Dobraczyński, dans son livre L’ombre du Père,[24] a raconté la vie de saint Joseph sous forme de roman. Avec l’image suggestive de l’ombre il définit la figure de Joseph qui est pour Jésus l’ombre sur la terre du Père Céleste. Il le garde, le protège, ne se détache jamais de lui pour suivre ses pas. Pensons à ce que Moïse rappelle à Israël : « Tu l’as vu aussi au désert : Yahvé ton Dieu te soutenait comme un homme soutient son fils » (Dt 1, 31). C’est ainsi que Joseph a exercé la paternité pendant toute sa vie.[25]
On ne naît pas père, on le devient. Et on ne le devient pas seulement parce qu’on met au monde un enfant, mais parce qu’on prend soin de lui de manière responsable. Toutes les fois que quelqu’un assume la responsabilité de la vie d’un autre, dans un certain sens, il exerce une paternité à son égard.
Dans la société de notre temps, les enfants semblent souvent être orphelins de père. Même l’Église d’aujourd’hui a besoin de pères. L’avertissement de saint Paul aux Corinthiens est toujours actuel : « Auriez-vous des milliers de pédagogues dans le Christ, vous n’avez pas plusieurs pères » (1 Co 4, 15). Chaque prêtre ou évêque devrait pouvoir dire comme l’apôtre : « C’est moi qui, par l’Évangile, vous ai engendrés dans le Christ Jésus » (ibid.). Et aux Galates il dit : « Mes petits-enfants, vous que j’enfante à nouveau dans la douleur jusqu’à ce que le Christ soit formé en vous » (4, 19).
Etre père signifie introduire l’enfant à l’expérience de la vie, à la réalité. Ne pas le retenir, ne pas l’emprisonner, ne pas le posséder, mais le rendre capable de choix, de liberté, de départs. C’est peut-être pourquoi, à côté du nom de père, la tradition a qualifié Joseph de “très chaste”. Ce n’est pas une indication simplement affective, mais c’est la synthèse d’une attitude qui exprime le contraire de la possession. La chasteté est le fait de se libérer de la possession dans tous les domaines de la vie. C’est seulement quand un amour est chaste qu’il est vraiment amour. L’amour qui veut posséder devient toujours à la fin dangereux, il emprisonne, étouffe, rend malheureux. Dieu lui-même a aimé l’homme d’un amour chaste, en le laissant libre même de se tromper et de se retourner contre lui. La logique de l’amour est toujours une logique de liberté, et Joseph a su aimer de manière extraordinairement libre. Il ne s’est jamais mis au centre. Il a su se décentrer, mettre au centre de sa vie Marie et Jésus.
Le bonheur de Joseph n’est pas dans la logique du sacrifice de soi, mais du don de soi. On ne perçoit jamais en cet homme de la frustration, mais seulement de la confiance. Son silence persistant ne contient pas de plaintes mais toujours des gestes concrets de confiance. Le monde a besoin de pères, il refuse les chefs, il refuse celui qui veut utiliser la possession de l’autre pour remplir son propre vide ; il refuse ceux qui confondent autorité avec autoritarisme, service avec servilité, confrontation avec oppression, charité avec assistanat, force avec destruction. Toute vraie vocation naît du don de soi qui est la maturation du simple sacrifice. Ce type de maturité est demandé même dans le sacerdoce et dans la vie consacrée. Là où une vocation matrimoniale, célibataire ou virginale n’arrive pas à la maturation du don de soi en s’arrêtant seulement à la logique du sacrifice, alors, au lieu de se faire signe de la beauté et de la joie de l’amour elle risque d’exprimer malheur, tristesse et frustration.
La paternité qui renonce à la tentation de vivre la vie des enfants ouvre toujours tout grand des espaces à l’inédit. Chaque enfant porte toujours avec soi un mystère, un inédit qui peut être révélé seulement avec l’aide d’un père qui respecte sa liberté. Un père qui est conscient de compléter son action éducative et de vivre pleinement la paternité seulement quand il s’est rendu “inutile”, quand il voit que l’enfant est autonome et marche tout seul sur les sentiers de la vie, quand il se met dans la situation de Joseph qui a toujours su que cet Enfant n’était pas le sien mais avait été simplement confié à ses soins. Au fond, c’est ce que laisse entendre Jésus quand il dit : « N’appelez personne votre Père sur la terre : car vous n’en avez qu’un, le Père céleste » (Mt 23, 9).
Chaque fois que nous nous trouvons dans la condition d’exercer la paternité, nous devons toujours nous rappeler qu’il ne s’agit jamais d’un exercice de possession, mais d’un “signe” qui renvoie à une paternité plus haute. En un certain sens, nous sommes toujours tous dans la condition de Joseph : une ombre de l’unique Père céleste qui « fait lever son soleil sur les méchants et sur les bons, et tomber la pluie sur les justes et sur les injustes » (Mt 5, 45) ; et une ombre qui suit le Fils.
*.*.*
« Lève-toi, prends avec toi l’enfant et sa mère » (Mt 2, 13), dit Dieu à saint Joseph.
Le but de cette Lettre Apostolique est de faire grandir l’amour envers ce grand saint, pour être poussés à implorer son intercession et pour imiter ses vertus et son élan.
En effet, la mission spécifique des saints est non seulement d’accorder des miracles et des grâces, mais d’intercéder pour nous devant Dieu, comme l’ont fait Abraham[26] et Moïse,[27] comme le fait Jésus, « unique médiateur » (1 Tm 2, 5) qui est auprès de Dieu Père notre « avocat » (1 Jn 2, 1), « toujours vivant pour intercéder en [notre] faveur » (He 7, 25 ; cf. Rm 8, 34).
Les saints aident tous les fidèles « à chercher la sainteté et la perfection propres à leur état ».[28] Leur vie est une preuve concrète qu’il est possible de vivre l’Évangile.
Jésus a dit : « Mettez-vous à mon école, car je suis doux et humble de cœur » (Mt 11, 29), et eux sont à leur tour des exemples de vie à imiter. Saint Paul a explicitement exhorté : « Montrez-vous mes imitateurs » (1 Co 4, 16).[29] Saint Joseph le dit à travers son silence éloquent.
Devant l’exemple de tant de saints et de saintes, saint Augustin s’est demandé : « Ce que ceux-ci et celles-ci ont pu faire, tu ne le pourrais pas ? ». Et il a ainsi obtenu la conversion définitive en s’exclamant : « Bien tard, je t’ai aimée, ô Beauté si ancienne et si nouvelle! ».[30]
Il ne reste qu’à implorer de saint Joseph la grâce des grâces : notre conversion.
Nous lui adressons notre prière :
Salut, gardien du Rédempteur,
époux de la Vierge Marie.
À toi Dieu a confié son Fils ;
en toi Marie a remis sa confiance ;
avec toi le Christ est devenu homme.
O bienheureux Joseph,
montre-toi aussi un père pour nous,
et conduis-nous sur le chemin de la vie.
Obtiens-nous grâce, miséricorde et courage,
et défends-nous de tout mal. Amen.
Donné à Rome, Saint Jean de Latran, le 8 décembre, Solennité de l’Immaculée Conception de la B.V. Marie, de l’année 2020, la huitième de mon Pontificat.
FRANÇOIS
_________________________
[1] Lc 4, 22 ; Jn 6, 42 ; cf. Mt 13, 55 ; Mc 6, 3.
[2] S. Rituum Congreg., Quemadmodum Deus, (8 décembre 1870): Pii IX P.M. Acta, pars I, vol. V, 283.
[3] Cf. Discours aux ACLI à l’occasion de la Solennité de saint Joseph Artisan (1er mai 1955) : AAS 47 (1995), p. 406.
[4] Exhort. ap. Redemptoris custos (15 août 1989) : AAS 82 (1990), pp. 5-34.
[5] Catéchisme de l’Église Catholique, n. 1014.
[6] Méditation en période de pandémie (27 mars 2020) : L’Osservatore Romano, éd. en langue française (31 mars 2020), p. 5.
[7] In Matth. Hom., V, 3 : PG 57, 58.
[8] Homélie (19 mars 1966) : Enseignements de Paul VI, IV (1966), p. 110.
[9] Cf. Livre de la vie, 6, 6-8.
[10] Tous les jours, depuis plus de quarante ans, après les Laudes, je récite une prière à saint Joseph tirée d’un livre français de dévotions des années 1800, de la Congrégation des Religieuses de Jésus et Marie, qui exprime dévotion, confiance et un certain défi à saint Joseph : « Glorieux Patriarche saint Joseph dont la puissance sait rendre possibles les choses impossibles, viens à mon aide en ces moments d’angoisse et de difficulté. Prends sous ta protection les situations si graves et difficiles que je te recommande, afin qu'elles aient une heureuse issue. Mon bien-aimé Père, toute ma confiance est en toi. Qu'il ne soit pas dit que je t’ai invoqué en vain, et puisque tu peux tout auprès de Jésus et de Marie, montre-moi que ta bonté est aussi grande que ton pouvoir. Amen ».
[11] Cf. Dt 4, 31 ; Ps 69, 17 ; 78, 38 ; 86, 5; 111, 4 ; 116, 5 ; Jr 31, 20.
[12] Cf. Exhort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), nn. 88.288.
[13] Cf. Gn 20,3 ; 28, 12 ; 31, 11.24 ; 40, 8 ; 41, 1-32 ; Nb 12, 6 ; 1S 3, 3-10 ; Dn 2 ; 4 ; Jb 33, 15.
[14] La lapidation était aussi prévue dans ces cas (cf. Dt 22, 20-21).
[15] Cf. Lv 12, 1-8 ; Ex 13, 2.
[16] Cf. Mt 26, 39 ; Mc 14, 36 ; Lc 22, 42.
[17] S. Jean-Paul II, Exhort. ap. Redemptoris custos (15 août 1989), n. 8 : AAS 82 (1990), p. 14.
[18] Homélie de la Sainte Messe avec Béatifications, Villavicencio - Colombie (8 septembre 2017) : L’Osservatore Romano, éd. en langue française (14 septembre 2017), p. 12 : AAS 109 (2017), p. 1061.
[19] Enchiridion de fide, spe et caritate, 3,11 : PL 40, p. 236.
[20] Cf. Dt 10, 19 ; Ex 22, 20-22 ; Lc 10, 29-37.
[21] Cf. S. Rituum Congreg., Quemadmodum Deus (8 décembre 1870) : AAS (1870-71), p. 194.
[22] Conc. Œcum Vat. II, Const. dogm. Lumen gentium, n. 58.
[23] Catéchisme de l’Église Catholique, nn. 963-970.
[24] Edition originale : Cień Ojca, Warszawa 1977.
[25] Cf. S. Jean-Paul II, Exhort. ap. Redemptoris custos, nn. 7-8 : AAS 82 (1990), pp. 12-16.
[26] Cf. Gn 18, 23-32.
[27] Cf. Ex 17, 8-13 ; 32, 30-35.
[28] Conc. Œcum Vat. II, Const. dogm. Lumen gentium, n. 42.
[29] Cf. 1 Co 11, 1 ; Ph 3, 17 ; 1 Th 1, 6.
[30] Les Confessions, 8, 11, 27 : PL 32, 761 ; 10, 27, 38 : PL 32, 795.
[01509-FR.01] [Texte original: Italien]
Traduzione in lingua inglese
APOSTOLIC LETTER
PATRIS CORDE
OF THE HOLY FATHER
FRANCIS
ON THE 150TH ANNIVERSARY
OF THE PROCLAMATION OF SAINT JOSEPH
AS PATRON OF THE UNIVERSAL CHURCH
WITH A FATHER’S HEART: that is how Joseph loved Jesus, whom all four Gospels refer to as “the son of Joseph”.[1]
Matthew and Luke, the two Evangelists who speak most of Joseph, tell us very little, yet enough for us to appreciate what sort of father he was, and the mission entrusted to him by God’s providence.
We know that Joseph was a lowly carpenter (cf. Mt 13:55), betrothed to Mary (cf. Mt 1:18; Lk 1:27). He was a “just man” (Mt 1:19), ever ready to carry out God’s will as revealed to him in the Law (cf. Lk 2:22.27.39) and through four dreams (cf. Mt 1:20; 2:13.19.22). After a long and tiring journey from Nazareth to Bethlehem, he beheld the birth of the Messiah in a stable, since “there was no place for them” elsewhere (cf. Lk 2:7). He witnessed the adoration of the shepherds (cf. Lk 2:8-20) and the Magi (cf. Mt 2:1-12), who represented respectively the people of Israel and the pagan peoples.
Joseph had the courage to become the legal father of Jesus, to whom he gave the name revealed by the angel: “You shall call his name Jesus, for he will save his people from their sins” (Mt 1:21). As we know, for ancient peoples, to give a name to a person or to a thing, as Adam did in the account in the Book of Genesis (cf. 2:19-20), was to establish a relationship.
In the Temple, forty days after Jesus’ birth, Joseph and Mary offered their child to the Lord and listened with amazement to Simeon’s prophecy concerning Jesus and his Mother (cf. Lk 2:22-35). To protect Jesus from Herod, Joseph dwelt as a foreigner in Egypt (cf. Mt 2:13-18). After returning to his own country, he led a hidden life in the tiny and obscure village of Nazareth in Galilee, far from Bethlehem, his ancestral town, and from Jerusalem and the Temple. Of Nazareth it was said, “No prophet is to rise” (cf. Jn 7:52) and indeed, “Can anything good come out of Nazareth?” (cf. Jn 1:46). When, during a pilgrimage to Jerusalem, Joseph and Mary lost track of the twelve-year-old Jesus, they anxiously sought him out and they found him in the Temple, in discussion with the doctors of the Law (cf. Lk 2:41-50).
After Mary, the Mother of God, no saint is mentioned more frequently in the papal magisterium than Joseph, her spouse. My Predecessors reflected on the message contained in the limited information handed down by the Gospels in order to appreciate more fully his central role in the history of salvation. Blessed Pius IX declared him “Patron of the Catholic Church”,[2] Venerable Pius XII proposed him as “Patron of Workers”[3] and Saint John Paul II as “Guardian of the Redeemer”.[4] Saint Joseph is universally invoked as the “patron of a happy death”.[5]
Now, one hundred and fifty years after his proclamation as Patron of the Catholic Church by Blessed Pius IX (8 December 1870), I would like to share some personal reflections on this extraordinary figure, so close to our own human experience. For, as Jesus says, “out of the abundance of the heart the mouth speaks” (Mt 12:34). My desire to do so increased during these months of pandemic, when we experienced, amid the crisis, how “our lives are woven together and sustained by ordinary people, people often overlooked. People who do not appear in newspaper and magazine headlines, or on the latest television show, yet in these very days are surely shaping the decisive events of our history. Doctors, nurses, storekeepers and supermarket workers, cleaning personnel, caregivers, transport workers, men and women working to provide essential services and public safety, volunteers, priests, men and women religious, and so very many others. They understood that no one is saved alone… How many people daily exercise patience and offer hope, taking care to spread not panic, but shared responsibility. How many fathers, mothers, grandparents and teachers are showing our children, in small everyday ways, how to accept and deal with a crisis by adjusting their routines, looking ahead and encouraging the practice of prayer. How many are praying, making sacrifices and interceding for the good of all”.[6] Each of us can discover in Joseph – the man who goes unnoticed, a daily, discreet and hidden presence – an intercessor, a support and a guide in times of trouble. Saint Joseph reminds us that those who appear hidden or in the shadows can play an incomparable role in the history of salvation. A word of recognition and of gratitude is due to them all.
1. A beloved father
The greatness of Saint Joseph is that he was the spouse of Mary and the father of Jesus. In this way, he placed himself, in the words of Saint John Chrysostom, “at the service of the entire plan of salvation”.[7]
Saint Paul VI pointed out that Joseph concretely expressed his fatherhood “by making his life a sacrificial service to the mystery of the incarnation and its redemptive purpose. He employed his legal authority over the Holy Family to devote himself completely to them in his life and work. He turned his human vocation to domestic love into a superhuman oblation of himself, his heart and all his abilities, a love placed at the service of the Messiah who was growing to maturity in his home”.[8]
Thanks to his role in salvation history, Saint Joseph has always been venerated as a father by the Christian people. This is shown by the countless churches dedicated to him worldwide, the numerous religious Institutes, Confraternities and ecclesial groups inspired by his spirituality and bearing his name, and the many traditional expressions of piety in his honour. Innumerable holy men and women were passionately devoted to him. Among them was Teresa of Avila, who chose him as her advocate and intercessor, had frequent recourse to him and received whatever graces she asked of him. Encouraged by her own experience, Teresa persuaded others to cultivate devotion to Joseph.[9]
Every prayer book contains prayers to Saint Joseph. Special prayers are offered to him each Wednesday and especially during the month of March, which is traditionally dedicated to him.[10]
Popular trust in Saint Joseph is seen in the expression “Go to Joseph”, which evokes the famine in Egypt, when the Egyptians begged Pharaoh for bread. He in turn replied: “Go to Joseph; what he says to you, do” (Gen 41:55). Pharaoh was referring to Joseph the son of Jacob, who was sold into slavery because of the jealousy of his brothers (cf. Gen 37:11-28) and who – according to the biblical account – subsequently became viceroy of Egypt (cf. Gen 41:41-44).
As a descendant of David (cf. Mt 1:16-20), from whose stock Jesus was to spring according to the promise made to David by the prophet Nathan (cf. 2 Sam 7), and as the spouse of Mary of Nazareth, Saint Joseph stands at the crossroads between the Old and New Testaments.
2. A tender and loving father
Joseph saw Jesus grow daily “in wisdom and in years and in divine and human favour” (Lk 2:52). As the Lord had done with Israel, so Joseph did with Jesus: “he taught him to walk, taking him by the hand; he was for him like a father who raises an infant to his cheeks, bending down to him and feeding him” (cf. Hos 11:3-4).
In Joseph, Jesus saw the tender love of God: “As a father has compassion for his children, so the Lord has compassion for those who fear him” (Ps 103:13).
In the synagogue, during the praying of the Psalms, Joseph would surely have heard again and again that the God of Israel is a God of tender love,[11] who is good to all, whose “compassion is over all that he has made” (Ps 145:9).
The history of salvation is worked out “in hope against hope” (Rom 4:18), through our weaknesses. All too often, we think that God works only through our better parts, yet most of his plans are realized in and despite our frailty. Thus Saint Paul could say: “To keep me from being too elated, a thorn was given me in the flesh, a messenger of Satan to torment me, to keep me from being too elated. Three times I appealed to the Lord about this, that it would leave me, but he said to me: ‘My grace is sufficient for you, for power is made perfect in weakness’” (2 Cor 12:7-9).
Since this is part of the entire economy of salvation, we must learn to look upon our weaknesses with tender mercy.[12]
The Evil one makes us see and condemn our frailty, whereas the Spirit brings it to light with tender love. Tenderness is the best way to touch the frailty within us. Pointing fingers and judging others are frequently signs of an inability to accept our own weaknesses, our own frailty. Only tender love will save us from the snares of the accuser (cf. Rev 12:10). That is why it is so important to encounter God’s mercy, especially in the Sacrament of Reconciliation, where we experience his truth and tenderness. Paradoxically, the Evil one can also speak the truth to us, yet he does so only to condemn us. We know that God’s truth does not condemn, but instead welcomes, embraces, sustains and forgives us. That truth always presents itself to us like the merciful father in Jesus’ parable (cf. Lk 15:11-32). It comes out to meet us, restores our dignity, sets us back on our feet and rejoices for us, for, as the father says: “This my son was dead and is alive again; he was lost and is found” (v. 24).
Even through Joseph’s fears, God’s will, his history and his plan were at work. Joseph, then, teaches us that faith in God includes believing that he can work even through our fears, our frailties and our weaknesses. He also teaches us that amid the tempests of life, we must never be afraid to let the Lord steer our course. At times, we want to be in complete control, yet God always sees the bigger picture.
3 An obedient father
As he had done with Mary, God revealed his saving plan to Joseph. He did so by using dreams, which in the Bible and among all ancient peoples, were considered a way for him to make his will known.[13]
Joseph was deeply troubled by Mary’s mysterious pregnancy. He did not want to “expose her to public disgrace”,[14] so he decided to “dismiss her quietly” (Mt 1:19).
In the first dream, an angel helps him resolve his grave dilemma: “Do not be afraid to take Mary as your wife, for the child conceived in her is from the Holy Spirit. She will bear a son, and you are to name him Jesus, for he will save his people from their sins” (Mt 1:20-21). Joseph’s response was immediate: “When Joseph awoke from sleep, he did as the angel of the Lord commanded him” (Mt 1:24). Obedience made it possible for him to surmount his difficulties and spare Mary.
In the second dream, the angel tells Joseph: “Get up, take the child and his mother, and flee to Egypt, and remain there until I tell you; for Herod is about to search for the child, to destroy him” (Mt 2:13). Joseph did not hesitate to obey, regardless of the hardship involved: “He got up, took the child and his mother by night, and went to Egypt, and remained there until the death of Herod” (Mt 2:14-15).
In Egypt, Joseph awaited with patient trust the angel’s notice that he could safely return home. In a third dream, the angel told him that those who sought to kill the child were dead and ordered him to rise, take the child and his mother, and return to the land of Israel (cf. Mt 2:19-20). Once again, Joseph promptly obeyed. “He got up, took the child and his mother, and went to the land of Israel” (Mt 2:21).
During the return journey, “when Joseph heard that Archelaus was ruling over Judea in place of his father Herod, he was afraid to go there. After being warned in a dream” – now for the fourth time – “he went away to the district of Galilee. There he made his home in a town called Nazareth” (Mt 2:22-23).
The evangelist Luke, for his part, tells us that Joseph undertook the long and difficult journey from Nazareth to Bethlehem to be registered in his family’s town of origin in the census of the Emperor Caesar Augustus. There Jesus was born (cf. Lk 2: 7) and his birth, like that of every other child, was recorded in the registry of the Empire. Saint Luke is especially concerned to tell us that Jesus’ parents observed all the prescriptions of the Law: the rites of the circumcision of Jesus, the purification of Mary after childbirth, the offering of the firstborn to God (cf. 2:21-24).[15]
In every situation, Joseph declared his own “fiat”, like those of Mary at the Annunciation and Jesus in the Garden of Gethsemane.
In his role as the head of a family, Joseph taught Jesus to be obedient to his parents (cf. Lk 2:51), in accordance with God’s command (cf. Ex 20:12).
During the hidden years in Nazareth, Jesus learned at the school of Joseph to do the will of the Father. That will was to be his daily food (cf. Jn 4:34). Even at the most difficult moment of his life, in Gethsemane, Jesus chose to do the Father’s will rather than his own,[16] becoming “obedient unto death, even death on a cross” (Phil 2:8). The author of the Letter to the Hebrews thus concludes that Jesus “learned obedience through what he suffered” (5:8).
All this makes it clear that “Saint Joseph was called by God to serve the person and mission of Jesus directly through the exercise of his fatherhood” and that in this way, “he cooperated in the fullness of time in the great mystery of salvation and is truly a minister of salvation.”[17]
4 An accepting father
Joseph accepted Mary unconditionally. He trusted in the angel’s words. “The nobility of Joseph’s heart is such that what he learned from the law he made dependent on charity. Today, in our world where psychological, verbal and physical violence towards women is so evident, Joseph appears as the figure of a respectful and sensitive man. Even though he does not understand the bigger picture, he makes a decision to protect Mary’s good name, her dignity and her life. In his hesitation about how best to act, God helped him by enlightening his judgment”.[18]
Often in life, things happen whose meaning we do not understand. Our first reaction is frequently one of disappointment and rebellion. Joseph set aside his own ideas in order to accept the course of events and, mysterious as they seemed, to embrace them, take responsibility for them and make them part of his own history. Unless we are reconciled with our own history, we will be unable to take a single step forward, for we will always remain hostage to our expectations and the disappointments that follow.
The spiritual path that Joseph traces for us is not one that explains, but accepts. Only as a result of this acceptance, this reconciliation, can we begin to glimpse a broader history, a deeper meaning. We can almost hear an echo of the impassioned reply of Job to his wife, who had urged him to rebel against the evil he endured: “Shall we receive the good at the hand of God, and not receive the bad?” (Job 2:10).
Joseph is certainly not passively resigned, but courageously and firmly proactive. In our own lives, acceptance and welcome can be an expression of the Holy Spirit’s gift of fortitude. Only the Lord can give us the strength needed to accept life as it is, with all its contradictions, frustrations and disappointments.
Jesus’ appearance in our midst is a gift from the Father, which makes it possible for each of us to be reconciled to the flesh of our own history, even when we fail to understand it completely.
Just as God told Joseph: “Son of David, do not be afraid!” (Mt 1:20), so he seems to tell us: “Do not be afraid!” We need to set aside all anger and disappointment, and to embrace the way things are, even when they do not turn out as we wish. Not with mere resignation but with hope and courage. In this way, we become open to a deeper meaning. Our lives can be miraculously reborn if we find the courage to live them in accordance with the Gospel. It does not matter if everything seems to have gone wrong or some things can no longer be fixed. God can make flowers spring up from stony ground. Even if our heart condemns us, “God is greater than our hearts, and he knows everything” (1 Jn 3:20).
Here, once again, we encounter that Christian realism which rejects nothing that exists. Reality, in its mysterious and irreducible complexity, is the bearer of existential meaning, with all its lights and shadows. Thus, the Apostle Paul can say: “We know that all things work together for good, for those who love God” (Rom 8:28). To which Saint Augustine adds, “even that which is called evil (etiam illud quod malum dicitur)”.[19] In this greater perspective, faith gives meaning to every event, however happy or sad.
Nor should we ever think that believing means finding facile and comforting solutions. The faith Christ taught us is what we see in Saint Joseph. He did not look for shortcuts, but confronted reality with open eyes and accepted personal responsibility for it.
Joseph’s attitude encourages us to accept and welcome others as they are, without exception, and to show special concern for the weak, for God chooses what is weak (cf. 1 Cor 1:27). He is the “Father of orphans and protector of widows” (Ps 68:6), who commands us to love the stranger in our midst.[20] I like to think that it was from Saint Joseph that Jesus drew inspiration for the parable of the prodigal son and the merciful father (cf. Lk 15:11-32).
5. A creatively courageous father
If the first stage of all true interior healing is to accept our personal history and embrace even the things in life that we did not choose, we must now add another important element: creative courage. This emerges especially in the way we deal with difficulties. In the face of difficulty, we can either give up and walk away, or somehow engage with it. At times, difficulties bring out resources we did not even think we had.
As we read the infancy narratives, we may often wonder why God did not act in a more direct and clear way. Yet God acts through events and people. Joseph was the man chosen by God to guide the beginnings of the history of redemption. He was the true “miracle” by which God saves the child and his mother. God acted by trusting in Joseph’s creative courage. Arriving in Bethlehem and finding no lodging where Mary could give birth, Joseph took a stable and, as best he could, turned it into a welcoming home for the Son of God come into the world (cf. Lk 2:6-7). Faced with imminent danger from Herod, who wanted to kill the child, Joseph was warned once again in a dream to protect the child, and rose in the middle of the night to prepare the flight into Egypt (cf. Mt 2:13-14).
A superficial reading of these stories can often give the impression that the world is at the mercy of the strong and mighty, but the “good news” of the Gospel consists in showing that, for all the arrogance and violence of worldly powers, God always finds a way to carry out his saving plan. So too, our lives may at times seem to be at the mercy of the powerful, but the Gospel shows us what counts. God always finds a way to save us, provided we show the same creative courage as the carpenter of Nazareth, who was able to turn a problem into a possibility by trusting always in divine providence.
If at times God seems not to help us, surely this does not mean that we have been abandoned, but instead are being trusted to plan, to be creative, and to find solutions ourselves.
That kind of creative courage was shown by the friends of the paralytic, who lowered him from the roof in order to bring him to Jesus (cf. Lk 5:17-26). Difficulties did not stand in the way of those friends’ boldness and persistence. They were convinced that Jesus could heal the man, and “finding no way to bring him in because of the crowd, they went up on the roof and let him down with his bed through the tiles into the middle of the crowd in front of Jesus. When he saw their faith, he said, ‘Friend, your sins are forgiven you’” (vv. 19-20). Jesus recognized the creative faith with which they sought to bring their sick friend to him.
The Gospel does not tell us how long Mary, Joseph and the child remained in Egypt. Yet they certainly needed to eat, to find a home and employment. It does not take much imagination to fill in those details. The Holy Family had to face concrete problems like every other family, like so many of our migrant brothers and sisters who, today too, risk their lives to escape misfortune and hunger. In this regard, I consider Saint Joseph the special patron of all those forced to leave their native lands because of war, hatred, persecution and poverty.
At the end of every account in which Joseph plays a role, the Gospel tells us that he gets up, takes the child and his mother, and does what God commanded him (cf. Mt 1:24; 2:14.21). Indeed, Jesus and Mary his Mother are the most precious treasure of our faith.[21]
In the divine plan of salvation, the Son is inseparable from his Mother, from Mary, who “advanced in her pilgrimage of faith, and faithfully persevered in her union with her Son until she stood at the cross”.[22]
We should always consider whether we ourselves are protecting Jesus and Mary, for they are also mysteriously entrusted to our own responsibility, care and safekeeping. The Son of the Almighty came into our world in a state of great vulnerability. He needed to be defended, protected, cared for and raised by Joseph. God trusted Joseph, as did Mary, who found in him someone who would not only save her life, but would always provide for her and her child. In this sense, Saint Joseph could not be other than the Guardian of the Church, for the Church is the continuation of the Body of Christ in history, even as Mary’s motherhood is reflected in the motherhood of the Church.[23] In his continued protection of the Church, Joseph continues to protect the child and his mother, and we too, by our love for the Church, continue to love the child and his mother.
That child would go on to say: “As you did it to one of the least of these who are members of my family, you did it to me” (Mt 25:40). Consequently, every poor, needy, suffering or dying person, every stranger, every prisoner, every infirm person is “the child” whom Joseph continues to protect. For this reason, Saint Joseph is invoked as protector of the unfortunate, the needy, exiles, the afflicted, the poor and the dying. Consequently, the Church cannot fail to show a special love for the least of our brothers and sisters, for Jesus showed a particular concern for them and personally identified with them. From Saint Joseph, we must learn that same care and responsibility. We must learn to love the child and his mother, to love the sacraments and charity, to love the Church and the poor. Each of these realities is always the child and his mother.
6. A working father
An aspect of Saint Joseph that has been emphasized from the time of the first social Encyclical, Pope Leo XIII’s Rerum Novarum, is his relation to work. Saint Joseph was a carpenter who earned an honest living to provide for his family. From him, Jesus learned the value, the dignity and the joy of what it means to eat bread that is the fruit of one’s own labour.
In our own day, when employment has once more become a burning social issue, and unemployment at times reaches record levels even in nations that for decades have enjoyed a certain degree of prosperity, there is a renewed need to appreciate the importance of dignified work, of which Saint Joseph is an exemplary patron.
Work is a means of participating in the work of salvation, an opportunity to hasten the coming of the Kingdom, to develop our talents and abilities, and to put them at the service of society and fraternal communion. It becomes an opportunity for the fulfilment not only of oneself, but also of that primary cell of society which is the family. A family without work is particularly vulnerable to difficulties, tensions, estrangement and even break-up. How can we speak of human dignity without working to ensure that everyone is able to earn a decent living?
Working persons, whatever their job may be, are cooperating with God himself, and in some way become creators of the world around us. The crisis of our time, which is economic, social, cultural and spiritual, can serve as a summons for all of us to rediscover the value, the importance and necessity of work for bringing about a new “normal” from which no one is excluded. Saint Joseph’s work reminds us that God himself, in becoming man, did not disdain work. The loss of employment that affects so many of our brothers and sisters, and has increased as a result of the Covid-19 pandemic, should serve as a summons to review our priorities. Let us implore Saint Joseph the Worker to help us find ways to express our firm conviction that no young person, no person at all, no family should be without work!
7. A father in the shadows
The Polish writer Jan Dobraczyński, in his book The Shadow of the Father,[24] tells the story of Saint Joseph’s life in the form of a novel. He uses the evocative image of a shadow to define Joseph. In his relationship to Jesus, Joseph was the earthly shadow of the heavenly Father: he watched over him and protected him, never leaving him to go his own way. We can think of Moses’ words to Israel: “In the wilderness… you saw how the Lord your God carried you, just as one carries a child, all the way that you travelled” (Deut 1:31). In a similar way, Joseph acted as a father for his whole life.[25]
Fathers are not born, but made. A man does not become a father simply by bringing a child into the world, but by taking up the responsibility to care for that child. Whenever a man accepts responsibility for the life of another, in some way he becomes a father to that person.
Children today often seem orphans, lacking fathers. The Church too needs fathers. Saint Paul’s words to the Corinthians remain timely: “Though you have countless guides in Christ, you do not have many fathers” (1 Cor 4:15). Every priest or bishop should be able to add, with the Apostle: “I became your father in Christ Jesus through the Gospel” (ibid.). Paul likewise calls the Galatians: “My little children, with whom I am again in travail until Christ be formed in you!” (4:19).
Being a father entails introducing children to life and reality. Not holding them back, being overprotective or possessive, but rather making them capable of deciding for themselves, enjoying freedom and exploring new possibilities. Perhaps for this reason, Joseph is traditionally called a “most chaste” father. That title is not simply a sign of affection, but the summation of an attitude that is the opposite of possessiveness. Chastity is freedom from possessiveness in every sphere of one’s life. Only when love is chaste, is it truly love. A possessive love ultimately becomes dangerous: it imprisons, constricts and makes for misery. God himself loved humanity with a chaste love; he left us free even to go astray and set ourselves against him. The logic of love is always the logic of freedom, and Joseph knew how to love with extraordinary freedom. He never made himself the centre of things. He did not think of himself, but focused instead on the lives of Mary and Jesus.
Joseph found happiness not in mere self-sacrifice but in self-gift. In him, we never see frustration but only trust. His patient silence was the prelude to concrete expressions of trust. Our world today needs fathers. It has no use for tyrants who would domineer others as a means of compensating for their own needs. It rejects those who confuse authority with authoritarianism, service with servility, discussion with oppression, charity with a welfare mentality, power with destruction. Every true vocation is born of the gift of oneself, which is the fruit of mature sacrifice. The priesthood and consecrated life likewise require this kind of maturity. Whatever our vocation, whether to marriage, celibacy or virginity, our gift of self will not come to fulfilment if it stops at sacrifice; were that the case, instead of becoming a sign of the beauty and joy of love, the gift of self would risk being an expression of unhappiness, sadness and frustration.
When fathers refuse to live the lives of their children for them, new and unexpected vistas open up. Every child is the bearer of a unique mystery that can only be brought to light with the help of a father who respects that child’s freedom. A father who realizes that he is most a father and educator at the point when he becomes “useless”, when he sees that his child has become independent and can walk the paths of life unaccompanied. When he becomes like Joseph, who always knew that his child was not his own but had merely been entrusted to his care. In the end, this is what Jesus would have us understand when he says: “Call no man your father on earth, for you have one Father, who is in heaven” (Mt 23:9).
In every exercise of our fatherhood, we should always keep in mind that it has nothing to do with possession, but is rather a “sign” pointing to a greater fatherhood. In a way, we are all like Joseph: a shadow of the heavenly Father, who “makes his sun rise on the evil and on the good, and sends rain on the just and on the unjust” (Mt 5:45). And a shadow that follows his Son.
*.*.*
“Get up, take the child and his mother” (Mt 2:13), God told Saint Joseph.
The aim of this Apostolic Letter is to increase our love for this great saint, to encourage us to implore his intercession and to imitate his virtues and his zeal.
Indeed, the proper mission of the saints is not only to obtain miracles and graces, but to intercede for us before God, like Abraham[26] and Moses[27], and like Jesus, the “one mediator” (1 Tim 2:5), who is our “advocate” with the Father (1 Jn 2:1) and who “always lives to make intercession for [us]” (Heb 7:25; cf. Rom 8:34).
The saints help all the faithful “to strive for the holiness and the perfection of their particular state of life”.[28] Their lives are concrete proof that it is possible to put the Gospel into practice.
Jesus told us: “Learn from me, for I am gentle and lowly in heart” (Mt 11:29). The lives of the saints too are examples to be imitated. Saint Paul explicitly says this: “Be imitators of me!” (1 Cor 4:16).[29] By his eloquent silence, Saint Joseph says the same.
Before the example of so many holy men and women, Saint Augustine asked himself: “What they could do, can you not also do?” And so he drew closer to his definitive conversion, when he could exclaim: “Late have I loved you, Beauty ever ancient, ever new!”[30]
We need only ask Saint Joseph for the grace of graces: our conversion.
Let us now make our prayer to him:
Hail, Guardian of the Redeemer,
Spouse of the Blessed Virgin Mary.
To you God entrusted his only Son;
in you Mary placed her trust;
with you Christ became man.
Blessed Joseph, to us too,
show yourself a father
and guide us in the path of life.
Obtain for us grace, mercy and courage,
and defend us from every evil. Amen.
Given in Rome, at Saint John Lateran, on 8 December, Solemnity of the Immaculate Conception of the Blessed Virgin Mary, in the year 2020, the eighth of my Pontificate.
FRANCIS
_______________________
[1] Lk 4:22; Jn 6:42; cf. Mt 13:55; Mk 6:3.
[2] S. RITUUM CONGREGATIO, Quemadmodum Deus (8 December 1870): ASS 6 (1870-71), 194.
[3] Cf. Address to ACLI on the Solemnity of Saint Joseph the Worker (1 May 1955): AAS 47 (1955), 406.
[4] Cf. Apostolic Exhortation Redemptoris Custos (15 August 1989): AAS 82 (1990), 5-34.
[5] Catechism of the Catholic Church, 1014.
[6] Meditation in the Time of Pandemic (27 March 2020): L’Osservatore Romano, 29 March 2020, p. 10.
[7] In Matthaeum Homiliae, V, 3: PG 57, 58.
[8] Homily (19 March 1966): Insegnamenti di Paolo VI, IV (1966), 110.
[9] Cf. Autobiography, 6, 6-8.
[10] Every day, for over forty years, following Lauds I have recited a prayer to Saint Joseph taken from a nineteenth-century French prayer book of the Congregation of the Sisters of Jesus and Mary. It expresses devotion and trust, and even poses a certain challenge to Saint Joseph: “Glorious Patriarch Saint Joseph, whose power makes the impossible possible, come to my aid in these times of anguish and difficulty. Take under your protection the serious and troubling situations that I commend to you, that they may have a happy outcome. My beloved father, all my trust is in you. Let it not be said that I invoked you in vain, and since you can do everything with Jesus and Mary, show me that your goodness is as great as your power. Amen.”
[11] Cf. Deut 4:31; Ps 69:16; 78:38; 86:5; 111:4; 116:5; Jer 31:20.
[12] Cf. Apostolic Exhortation Evangelii Gaudium (24 November 2013), 88, 288: AAS 105 (2013), 1057, 1136-1137.
[13] Cf. Gen 20:3; 28:12; 31:11.24; 40:8; 41:1-32; Num 12:6; 1 Sam 3:3-10; Dan 2, 4; Job 33:15.
[14] In such cases, provisions were made even for stoning (cf. Deut 22:20-21).
[15] Cf. Lev 12:1-8; Ex 13:2.
[16] Cf. Mt 26:39; Mk 14:36; Lk 22:42.
[17] SAINT JOHN PAUL II, Apostolic Exhortation Redemptoris Custos (15 August 1989), 8: AAS 82 (1990), 14.
[18] Homily at Mass and Beatifications, Villavicencio, Colombia (8 September 2017): AAS 109 (2017), 1061.
[19] Enchiridion de fide, spe et caritate, 3.11: PL 40, 236.
[20] Cf. Deut 10:19; Ex 22:20-22; Lk 10:29-37.
[21] Cf. S. RITUUM CONGREGATIO, Quemadmodum Deus (8 December 1870): ASS 6 (1870-1871), 193; BLESSED PIUS IX, Apostolic Letter Inclytum Patriarcham (7 July 1871): l.c., 324-327.
[22] SECOND VATICAN ECUMENICAL COUNCIL, Dogmatic Constitution on the Church Lumen Gentium, 58.
[23] Catechism of the Catholic Church, 963-970.
[24] Original edition: Cień Ojca, Warsaw, 1977.
[25] Cf. SAINT JOHN PAUL II, Apostolic Exhortation Redemptoris Custos, 7-8: AAS 82 (1990), 12-16.
[26] Cf. Gen 18:23-32.
[27] Cf. Ex 17:8-13; 32:30-35.
[28] SECOND VATICAN ECUMENICAL COUNCIL, Dogmatic Constitution Lumen Gentium, 42.
[29] Cf. 1 Cor 11:1; Phil 3:17; 1 Thess 1:6.
[30] Confessions, VIII, 11, 27: PL 32, 761; X, 27, 38: PL 32, 795.
[01509-EN.01] [Original text: Italian]
Traduzione in lingua tedesca
APOSTOLISCHES SCHREIBEN
Patris corde
DES HEILIGEN VATERS PAPST FRANZISKUS
ANLÄSSLICH DES 150. JAHRESTAGES
DER ERHEBUNG DES HEILIGEN JOSEF
ZUM SCHUTZPATRON DER GANZEN KIRCHE
Mit väterlichem Herzen liebte Josef Jesus, der in allen vier Evangelien »der Sohn Josefs« genannt wird.[1]
Die beiden Evangelisten Matthäus und Lukas, die seine Gestalt herausgestellt haben, erzählen nicht viel, aber doch genug, dass deutlich wird, auf welche Weise Josef Vater war und welche Sendung ihm die Vorsehung anvertraut hatte.
Wir wissen, dass er ein einfacher Zimmermann war (vgl. Mt 13,55), der Verlobte Marias (vgl. Mt 1,18; Lk 1,27); er war »gerecht« (Mt 1,19), allzeit bereit, Gottes Willen zu tun, der sich ihm im Gesetz (vgl. Lk 2, 22.27.39) und durch vier Träume (vgl. Mt 1,20; 2,13.19.22) kundtat. Nach einer langen und beschwerlichen Reise von Nazaret nach Betlehem war er zugegen, als der Messias in einem Stall geboren wurde, weil anderswo »kein Platz für sie war« (Lk 2,7). Er war Zeuge der Anbetung der Hirten (vgl. Lk 2,8-20) und der Sterndeuter (vgl. Mt 2,1-12), welche das Volk Israel bzw. die Heidenvölker repräsentierten.
Er hatte den Mut, vor dem Gesetz die Rolle des Vaters Jesu zu übernehmen, und er gab ihm den vom Engel geoffenbarten Namen: »Ihm sollst du den Namen Jesus geben; denn er wird sein Volk von seinen Sünden erlösen« (Mt 1,21). Einer Person oder einer Sache einen Namen zu geben bedeutete bei den alten Völkern bekanntlich die Erlangung einer Zugehörigkeit, so wie Adam es nach dem Bericht der Genesis tat (vgl. 2,19-20).
Gemeinsam mit Maria stellte Josef vierzig Tage nach der Geburt im Tempel das Kind dem Herrn dar und hörte mit Staunen die Prophezeiung des Simeon über Jesus und Maria (vgl. Lk 2,22-35). Um Jesus vor Herodes zu beschützen, hielt er sich als Fremder in Ägypten auf (vgl. Mt 2,13-18). Nach seiner Rückkehr in die Heimat lebte er in der Verborgenheit des kleinen unbekannten Dorfes Nazaret in Galiläa – von wo man sich keinen Propheten und auch sonst nichts Gutes erwartete (vgl. Joh 7,52; 1,46) – weit entfernt sowohl von Betlehem, seiner Geburtsstadt, als auch von Jerusalem, wo der Tempel stand. Als sie just auf einer Wallfahrt nach Jerusalem den zwölfjährigen Jesus verloren hatten, suchten Josef und Maria ihn voller Sorge und fanden ihn schließlich im Tempel wieder, wo er mit den Gesetzeslehrern diskutierte (vgl. Lk 2,41-50).
Nach Maria, der Mutter Gottes, nimmt kein Heiliger so viel Platz im päpstlichen Lehramt ein wie Josef, ihr Bräutigam. Meine Vorgänger haben die Botschaft, die in den wenigen von den Evangelien überlieferten Angaben enthalten ist, vertieft, um seine zentrale Rolle in der Heilsgeschichte deutlicher hervorzuheben. Der selige Pius IX. erklärte ihn zum »Patron der katholischen Kirche«[2], der ehrwürdige Diener Gottes Pius XII. ernannte ihn zum »Patron der Arbeiter«,[3] und der heilige Johannes Paul II. bezeichnete ihn als »Beschützer des Erlösers«.[4] Das gläubige Volk ruft ihn als Fürsprecher um eine gute Sterbestunde an.[5]
Anlässlich des 150. Jahrestages seiner Erhebung zum Patron der katholischen Kirche durch den seligen Pius IX. am 8. Dezember 1870 möchte ich daher – wie Jesus sagt – »mit dem Mund von dem sprechen, wovon das Herz überfließt« (vgl. Mt 12,34), einige persönliche Überlegungen zu dieser außergewöhnlichen Gestalt mit euch teilen, die einem jeden von uns menschlich so nahe ist. Dieser Wunsch ist jetzt in den Monaten der Pandemie gereift. In dieser Krise konnten wir erleben, dass »unser Leben von gewöhnlichen Menschen – die gewöhnlich vergessen werden – gestaltet und erhalten wird, die weder in den Schlagzeilen der Zeitungen und Zeitschriften noch sonst im Rampenlicht der neuesten Show stehen, die aber heute zweifellos eine bedeutende Seite unserer Geschichte schreiben: Ärzte, Krankenschwestern und Pfleger, Supermarktangestellte, Reinigungspersonal, Betreuungskräfte, Transporteure, Ordnungskräfte, ehrenamtliche Helfer, Priester, Ordensleute und viele, ja viele andere, die verstanden haben, dass niemand sich allein rettet. […] Wie viele Menschen üben sich jeden Tag in Geduld und flößen Hoffnung ein und sind darauf bedacht, keine Panik zu verbreiten, sondern Mitverantwortung zu fördern. Wie viele Väter, Mütter, Großväter und Großmütter, Lehrerinnen und Lehrer zeigen unseren Kindern mit kleinen und alltäglichen Gesten, wie sie einer Krise begegnen und sie durchstehen können, indem sie ihre Gewohnheiten anpassen, den Blick aufrichten und zum Gebet anregen. Wie viele Menschen beten für das Wohl aller, spenden und setzen sich dafür ein«.[6] Alle können im heiligen Josef, diesem unauffälligen Mann, diesem Menschen der täglichen, diskreten und verborgenen Gegenwart, einen Fürsprecher, Helfer und Führer in schwierigen Zeiten finden. Der heilige Josef erinnert uns daran, dass all jene, die scheinbar im Verborgenen oder in der „zweiten Reihe“ stehen, in der Heilsgeschichte eine unvergleichliche Hauptrolle spielen. Ihnen allen gebührt Dank und Anerkennung.
1. Geliebter Vater
Die Bedeutung des heiligen Josef besteht darin, dass er der Bräutigam Marias und der Nährvater Jesu war. Als solcher stellte er sich in den Dienst des »allgemeinen Erlösungswerks«, wie der heilige Johannes Chrysostomus sagt.[7]
Der heilige Paul VI. stellt fest, dass seine Vaterschaft sich konkret darin ausdrückte, dass er »sein Leben zu einem Dienst, zu einem Opfer an das Geheimnis der Menschwerdung und an den damit verbundenen Erlösungsauftrag gemacht hat; dass er die ihm rechtmäßig zustehende Autorität über die heilige Familie dazu benützt hat, um sich selbst, sein Leben und seine Arbeit ganz ihr hinzugeben; dass er seine menschliche Berufung zur familiären Liebe in die übermenschliche Darbringung seiner selbst, seines Herzens und aller Fähigkeiten verwandelt hat, in die Liebe, die er in den Dienst des seinem Haus entsprossenen Messias gestellt hat«.[8]
Aufgrund dieser seiner Rolle in der Heilsgeschichte wurde der heilige Josef zu einem Vater, der von den Christen seit jeher geliebt wurde. Dies sieht man daran, dass ihm weltweit zahlreiche Kirchen geweiht wurden, dass viele Ordensgemeinschaften, Bruderschaften und kirchliche Gruppen von seinem Geist inspiriert sind und seinen Namen tragen und dass ihm zu Ehren seit Jahrhunderten verschiedene religiöse Bräuche gewidmet sind. Viele heilige Männer und Frauen verehrten ihn leidenschaftlich, wie etwa Theresia von Avila, die ihn zu ihrem Anwalt und Fürsprecher erkoren hatte, sich ihm vielfach anvertraute und alle Gnaden erhielt, die sie von ihm erbat; ermutigt durch ihre eigene Erfahrung, brachte die Heilige auch andere dazu, ihn zu verehren.[9]
In jedem Gebetbuch finden sich einige Gebete zum heiligen Josef. Jeden Mittwoch und vor allem während des gesamten Monats März, der traditionell ihm gewidmet ist, werden besondere Bittgebete an ihn gerichtet.[10]
Das Vertrauen des Volkes in den heiligen Josef ist in dem Ausdruck „Ite ad Joseph“ zusammengefasst, der sich auf die Zeit der Hungersnot in Ägypten bezieht, als das Volk den Pharao um Brot bat und er antwortete: »Geht zu Josef! Tut, was er euch sagt!« (Gen 41,55). Das war Josef, der Sohn Jakobs, der aus Neid von seinen Brüdern verkauft wurde (vgl. Gen 37,11-28) und der – nach der biblischen Erzählung – später Vizekönig von Ägypten wurde (vgl. Gen 41,41-44).
Als Nachkomme Davids (vgl. Mt 1,16.20), aus dessen Wurzel Jesus als Spross hervorgehen sollte, wie der Prophet Natan David verheißen hatte (vgl. 2 Sam 7), und als Bräutigam der Maria von Nazaret stellt der heilige Josef eine Verbindung zwischen dem Alten und dem Neuen Testament dar.
2. Vater im Erbarmen
Josef erlebte mit, wie Jesus heranwuchs und Tag für Tag an Weisheit zunahm und bei Gott und den Menschen Gefallen fand (vgl. Lk 2,52). Wie es der Herr mit Israel tat, so brachte Josef Jesus das Gehen bei und nahm ihn auf seine Arme. Er war für ihn wie ein Vater, der sein Kind an seine Wange hebt, sich ihm zuneigt und ihm zu essen gibt (vgl. Hos 11,3-4).
Jesus erlebte an Josef Gottes Barmherzigkeit: »Wie ein Vater sich seiner Kinder erbarmt, so erbarmt sich der Herr über alle, die ihn fürchten« (Ps 103,13).
Sicher wird Josef in der Synagoge während des Psalmengebets wiederholt gehört haben, dass der Gott Israels ein barmherziger Gott ist,[11] der gut zu allen ist und dessen Erbarmen über all seinen Werken waltet (vgl. Ps 145,9).
Die Heilsgeschichte erfüllt sich »gegen alle Hoffnung […] voll Hoffnung« (Röm 4,18) durch unsere Schwachheit hindurch. Allzu oft denken wir, dass Gott sich nur auf unsere guten und starken Seiten verlässt, während sich in Wirklichkeit die meisten seiner Pläne durch und trotz unserer Schwachheit realisieren. Eben das lässt den heiligen Paulus sagen: »Damit ich mich wegen der einzigartigen Offenbarungen nicht überhebe, wurde mir ein Stachel ins Fleisch gestoßen: ein Bote Satans, der mich mit Fäusten schlagen soll, damit ich mich nicht überhebe. Dreimal habe ich den Herrn angefleht, dass dieser Bote Satans von mir ablasse. Er aber antwortete mir: Meine Gnade genügt dir; denn die Kraft wird in der Schwachheit vollendet« (2 Kor 12,7-9).
Wenn dies die Perspektive der Heilsökonomie ist, müssen wir lernen, unsere Schwachheit mit tiefem Erbarmen anzunehmen.[12]
Der Böse lässt uns verächtlich auf unsere Schwachheit blicken, während der Heilige Geist sie voll Erbarmen ans Tageslicht bringt. Die Sanftmut ist der beste Weg, um mit dem Schwachen in uns umzugehen. Der ausgestreckte Zeigefinger und die Verurteilungen, die wir anderen gegenüber an den Tag legen, sind oft ein Zeichen unserer Unfähigkeit, unsere eigene Schwäche, unsere eigene Zerbrechlichkeit innerlich anzunehmen. Nur die Sanftmut wird uns vor dem Treiben des Anklägers bewahren (vgl. Offb 12,10). Aus diesem Grund ist es wichtig, der Barmherzigkeit Gottes zu begegnen, insbesondere im Sakrament der Versöhnung, und eine Erfahrung von Wahrheit und Sanftmut zu machen. Paradoxerweise kann uns auch der Böse die Wahrheit sagen, aber wenn er dies tut, dann nur, um uns zu verurteilen. Wir wissen jedoch, dass die Wahrheit, die von Gott kommt, uns nicht verurteilt, sondern aufnimmt, umarmt, unterstützt und vergibt. Die Wahrheit zeigt sich uns immer wie der barmherzige Vater im Gleichnis (vgl. Lk 15,11-32): Sie kommt uns entgegen, sie gibt uns unsere Würde zurück, sie richtet uns wieder auf, sie veranstaltet ein Fest für uns, denn »dieser, mein Sohn, war tot und lebt wieder; er war verloren und ist wiedergefunden worden« (V. 24).
Auch durch Josefs Besorgnis hindurch verwirklicht sich der Wille Gottes, seine Geschichte, sein Plan. So lehrt uns Josef, dass der Glaube an Gott auch bedeutet, daran zu glauben, dass dieser selbst durch unsere Ängste, unsere Zerbrechlichkeit und unsere Schwäche wirken kann. Und er lehrt uns, dass wir uns inmitten der Stürme des Lebens nicht davor fürchten müssen, das Ruder unseres Bootes Gott zu überlassen. Manchmal wollen wir alles kontrollieren, aber er hat alles wesentlich umfassender im Blick.
3. Vater im Gehorsam
Wie Gott Maria seinen Heilsplan offenbarte, so offenbarte er ihn auch Josef; er tat dies durch Träume, die in der Bibel, wie bei allen alten Völkern, als einer der Wege angesehen wurden, durch die Gott seinen Willen kundtut.[13]
Josef ist angesichts der unerklärlichen Schwangerschaft Marias sehr besorgt: Er will sie nicht öffentlich »bloßstellen«,[14] sondern beschließt, »sich in aller Stille von ihr zu trennen« (Mt 1,19).
Im ersten Traum hilft ihm der Engel, einen Ausweg aus seinem ernsten Dilemma zu finden: »Fürchte dich nicht, Maria, als deine Frau zu dir zu nehmen; denn das Kind, das sie erwartet, ist vom Heiligen Geist. Sie wird einen Sohn gebären; ihm sollst du den Namen Jesus geben; denn er wird sein Volk von seinen Sünden erlösen« (Mt 1,20-21). Unverzüglich erfolgte seine Antwort: »Als Josef erwachte, tat er, was der Engel des Herrn ihm befohlen hatte« (Mt 1,24). Im Gehorsam überwand er sein Dilemma und rettete Maria.
Im zweiten Traum gebietet der Engel Josef: »Steh auf, nimm das Kind und seine Mutter und flieh nach Ägypten; dort bleibe, bis ich dir etwas anderes auftrage; denn Herodes wird das Kind suchen, um es zu töten« (Mt 2,13). Josef gehorchte ohne zu zögern und ohne die Schwierigkeiten zu hinterfragen, auf die er stoßen würde: »Da stand Josef auf und floh in der Nacht mit dem Kind und dessen Mutter nach Ägypten. Dort blieb er bis zum Tod des Herodes« (Mt 2,14-15).
In Ägypten wartete Josef zuversichtlich und geduldig mit der Rückkehr in sein Land, bis die versprochene Nachricht des Engels bei ihm eintraf. Als der göttliche Bote ihm in einem dritten Traum mitgeteilt hatte, dass diejenigen, die das Kind töten wollten, nun tot seien und ihm befohlen hatte, aufzustehen und das Kind und seine Mutter zu nehmen und in das Land Israel zurückzukehren (vgl. Mt 2,19-20), gehorchte er abermals ohne zu zögern: »Da stand er auf und zog mit dem Kind und dessen Mutter in das Land Israel« (Mt 2,21).
Als Josef aber auf der Rückreise »hörte, dass in Judäa Archelaus anstelle seines Vaters Herodes regierte, fürchtete er sich, dorthin zu gehen. Und weil er im Traum einen Befehl erhalten hatte – und es ist dies das vierte Mal –, ihm in einem vierten Traum geboten wurde, »zog er in das Gebiet von Galiläa und ließ sich in einer Stadt namens Nazaret nieder« (Mt 2,22-23).
Der Evangelist Lukas berichtet seinerseits, dass Josef die lange und beschwerliche Reise von Nazaret nach Betlehem auf sich nahm, um sich gemäß dem von Kaiser Augustus erlassenen Gesetz zur Volkszählung in seiner Heimatstadt eintragen zu lassen. Und unter eben diesen Umständen wurde Jesus geboren (vgl. Lk 2,1-7) und, wie alle anderen Kinder auch, ins Einwohnerverzeichnis des Reiches eingetragen.
Der heilige Lukas legt insbesondere Wert darauf mitzuteilen, dass die Eltern Jesu alle Vorschriften des Gesetzes einhielten: die Riten der Beschneidung Jesu, der Reinigung Marias nach der Geburt und der Darbringung des Erstgeborenen an Gott (vgl. 2,21-24).[15]
In jeder Lebenslage vermochte Josef, sein „fiat“ zu sprechen, wie Maria bei der Verkündigung und Jesus in Getsemani.
Als Familienoberhaupt brachte Josef Jesus bei, seinen Eltern zu gehorchen (vgl. Lk 2,51), wie es dem Gebot Gottes entspricht (vgl. Ex 20,12).
In der Verborgenheit von Nazaret, in der Schule Josefs, lernte Jesus, den Willen des Vaters zu tun. Dieser Wille wurde zu seiner täglichen Speise (vgl. Joh 4,34). Auch im schwierigsten Augenblick seines Lebens, in Getsemani, zog er es vor, den Willen des Vaters zu tun und nicht seinen eigenen,[16] und er war »gehorsam bis zum Tod [...] am Kreuz« (Phil 2,8). Aus diesem Grund kommt der Verfasser des Hebräerbriefes zu dem Schluss, dass Jesus »durch das, was er gelitten hat, den Gehorsam gelernt« hat (5,8).
All diese Ereignisse zeigen: Josef war »von Gott dazu berufen,durch die Ausübung seiner Vaterschaftunmittelbar der Person und Sendung Jesu zu dienen: Auf diese Weise wirkt er in der Fülle der Zeit an dem großen Geheimnis der Erlösung mit und ist tatsächlich Diener des Heils«.[17]
4. Vater im Annehmen
Josef nimmt Maria ohne irgendwelche Vorbedingungen an. Er vertraut auf die Worte des Engels. »Der Edelmut seines Herzens lässt ihn das, was er vom Gesetz gelernt hat, der Liebe unterordnen. Heute stellt sich Josef dieser Welt, in der die psychische, verbale und physische Gewalt gegenüber der Frau offenkundig ist, als Gestalt eines respektvollen und feinfühligen Mannes dar, der, obwohl er nicht im Besitz aller Informationen ist, sich zugunsten des guten Rufs, der Würde und des Lebens Marias entscheidet. Und in seinem Zweifel, wie er am besten handeln soll, half ihm Gott bei der Wahl mit dem Licht der Gnade für sein Urteil.«[18]
Oft geschehen in unserem Leben Dinge, deren Bedeutung wir nicht verstehen. Unsere erste Reaktion ist oft die der Enttäuschung und des Widerstandes. Josef lässt seine Überlegungen beiseite, um dem Raum zu geben, was geschieht. Wie rätselhaft es ihm auch erscheinen mag, er nimmt es an, übernimmt Verantwortung dafür und versöhnt sich mit seiner eigenen Geschichte. Wenn wir uns nicht mit unserer Geschichte versöhnen, werden wir auch nicht in der Lage sein, den nächsten Schritt zu tun, denn dann bleiben wir immer eine Geisel unserer Erwartungen und der daraus resultierenden Enttäuschungen.
Das geistliche Leben, das Josef uns zeigt, ist nicht ein Weg, der erklärt, sondern ein Weg, der annimmt. Nur von dieser Annahme her, von dieser Versöhnung her können wir auch eine größere Geschichte, einen tieferen Sinn erahnen. Es scheint wie ein Widerhall der leidenschaftlichen Worte Ijobs, der auf die Forderung seiner Frau, sich gegen all das Böse aufzulehnen, das ihm widerfährt, antwortet: »Nehmen wir das Gute an von Gott, sollen wir dann nicht auch das Böse annehmen?« (Ijob 2,10).
Josef ist kein passiv resignierter Mann. Er ist ein mutiger und starker Protagonist. Die Fähigkeit, etwas annehmen zu können, ist ein Weise, wie sich die Gabe der Stärke, die vom Heiligen Geist kommt, in unserem Leben offenbart. Nur der Herr kann uns die Kraft geben, das Leben so anzunehmen, wie es ist, und selbst dem, was darin widersprüchlich, unerwartet oder enttäuschend ist, Raum zu geben.
Jesu Kommen in unsere Mitte ist ein Geschenk des Vaters, auf dass ein jeder sich mit seiner konkreten eigenen Geschichte versöhnen möge, auch wenn er sie nicht ganz versteht.
Das, was Gott zu unserem Heiligen gesagt hat, »Josef, Sohn Davids, fürchte dich nicht« (Mt 1,20), scheint er auch uns zu sagen: „Fürchtet euch nicht!“ Wir müssen unseren Ärger und unsere Enttäuschung ablegen und ohne weltliche Resignation, sondern mit hoffnungsvoller Kraft Platz machen für das, was wir nicht gewählt haben und was doch existiert. Das Leben auf diese Weise anzunehmen führt uns zu einem verborgenen Sinn. Das Leben eines jeden von uns kann auf wundersame Weise neu beginnen, wenn wir den Mut finden, es gemäß den Weisungen des Evangeliums zu leben. Und es spielt keine Rolle, ob alles schief gelaufen zu sein scheint und ob einige Dinge mittlerweile nicht mehr rückgängig zu machen sind. Gott kann Blumen zwischen den Felsen sprießen lassen. Auch wenn unser Herz uns verurteilt, Gott ist größer als unser Herz und er weiß alles (vgl. 1 Joh 3,20).
Hier geht es wieder um jenen christlichen Realismus, der nichts von dem, was existiert, wegwirft. In ihrer geheimnisvollen Unergründlichkeit und Vielschichtigkeit ist die Wirklichkeit Trägerin eines Sinns der Existenz mit ihren Lichtern und ihren Schatten. Deswegen kann der Apostel Paulus sagen: »Wir wissen aber, dass denen, die Gott lieben, alles zum Guten gereicht« (Röm 8,28). Und der heilige Augustinus fügt hinzu: »Auch das, was böse heißt (etiam illud quod malum dicitur)«.[19] In dieser Gesamtperspektive gibt der Glaube jedem glücklichen oder traurigen Ereignis einen Sinn.
Es liegt uns fern, zu meinen, „glauben“ bedeute, einfache vertröstende Lösungen zu finden. Der Glaube, den Christus uns gelehrt hat, ist vielmehr der Glaube, den wir am heiligen Josef sehen, der nicht nach Abkürzungen sucht, sondern dem, was ihm widerfährt, „mit offenen Augen“ begegnet und persönlich Verantwortung übernimmt.
Die Annahmebereitschaft Josefs lädt uns ein, andere nicht auszuschließen, sondern sie so anzunehmen, wie sie sind, besonders die Schwachen, denn Gott erwählt das Schwache (vgl. 1 Kor 1,27), er ist ein »Vater der Waisen, ein Anwalt der Witwen« (Ps 68,6) und gebietet uns, die Fremden zu lieben.[20] Gerne stelle ich mir vor, dass die Haltung Josefs Jesus zum Gleichnis vom verlorenen Sohn und vom barmherzigen Vater inspiriert hat (vgl. Lk 15,11-32).
5. Vater mit kreativem Mut
Wenn die erste Stufe jeder echten inneren Heilung darin besteht, die eigene Geschichte anzunehmen, das heißt, dem in uns Raum zu schaffen, was wir uns in unserem Leben nicht selbst ausgesucht haben, müssen wir nun eine weitere wichtige Eigenschaft hinzufügen: den kreativen Mut. Er entsteht vor allem dort, wo man auf Schwierigkeiten trifft. Wenn man vor einem Problem steht, kann man entweder aufhören und das Feld räumen, oder man kann es auf irgendeine Weise angehen. Manchmal sind es gerade die Schwierigkeiten, die bei jedem von uns Ressourcen zum Vorschein bringen, von denen wir nicht einmal dachten, dass wir sie besäßen.
Beim Lesen der „Kindheitsevangelien“ stellt sich des Öfteren die Frage, warum Gott nicht direkt und klar eingeschritten ist. Aber Gott wirkt durch Ereignisse und Menschen. Josef ist der Mann, durch den Gott für die Anfänge der Erlösungsgeschichte Sorge trägt. Er ist das wahre „Wunder“, durch das Gott das Kind und seine Mutter rettet. Der Himmel greift ein, indem er auf den kreativen Mut dieses Mannes vertraut, der, als er bei der Ankunft in Betlehem keinen Ort findet, wo Maria gebären kann, einen Stall herrichtet und so bereitet, dass er für den in die Welt kommenden Sohn Gottes ein möglichst behaglicher Ort wird (vgl. Lk 2,6-7). Angesichts der drohenden Gefahr des Herodes, der das Kind töten will, wird Josef im Traum erneut gewarnt, das Kind zu beschützen, und so organisiert er mitten in der Nacht die Flucht nach Ägypten (vgl. Mt 2,13-14).
Bei einer oberflächlichen Lektüre dieser Geschichten hat man immer den Eindruck, dass die Welt den Starken und Mächtigen ausgeliefert ist, aber die „gute Nachricht“ des Evangeliums besteht darin zu zeigen, wie Gott trotz der Arroganz und Gewalt der irdischen Herrscher immer einen Weg findet, seinen Heilsplan zu verwirklichen. Auch unser Leben scheint manchmal starken Mächten ausgeliefert zu sein. Doch das Evangelium sagt uns, dass es Gott immer gelingt, das zu retten, worauf es ankommt, vorausgesetzt, dass wir den gleichen kreativen Mut aufbringen wie der Zimmermann von Nazaret. Er versteht es, ein Problem in eine Chance zu verwandeln, und zwar dadurch, dass er immer in erster Linie auf die Vorsehung vertraut.
Wenn Gott uns manchmal nicht zu helfen scheint, bedeutet das nicht, dass er uns im Stich gelassen hat, sondern dass er auf uns vertraut und auf das, was wir planen, entwickeln und finden können.
Hierbei handelt es sich um denselben schöpferischen Mut, den die Freunde des Gelähmten bewiesen, als sie ihn, um ihn zu Jesus zu bringen, vom Dach herabließen (vgl. Lk 5,17-26). Die Kühnheit und Hartnäckigkeit dieser Freunde war durch keine Schwierigkeit aufzuhalten. Sie waren überzeugt, dass Jesus den Kranken heilen konnte. »Weil es ihnen aber wegen der Volksmenge nicht möglich war, ihn hineinzubringen, stiegen sie aufs Dach und ließen ihn durch die Ziegel auf dem Bett hinunter in die Mitte vor Jesus hin. Als er ihren Glauben sah, sagte er: Mensch, deine Sünden sind dir vergeben« (V. 19-20). Jesus erkennt den einfallsreichen Glauben, mit dem diese Männer versuchen, ihren kranken Freund zu ihm zu bringen.
Das Evangelium gibt keine Auskunft über die Zeit, in der sich Maria und Josef und das Kind in Ägypten aufhielten. Sicherlich aber mussten sie essen, eine Bleibe und Arbeit finden. Es braucht nicht viel Phantasie, um das diesbezügliche Schweigen des Evangeliums zu füllen. Die Heilige Familie musste sich konkreten Problemen stellen, wie alle anderen Familien, wie viele unserer Brüder und Schwestern Migranten, die auch heute noch aufgrund von Not und Hunger gezwungen sind, ihr Leben zu riskieren. In diesem Sinne glaube ich, dass der heilige Josef in der Tat ein besonderer Schutzpatron für all jene ist, die wegen Krieg, Hass, Verfolgung und Elend ihr Land verlassen müssen.
Am Ende aller Szenen, in denen Josef eine wichtige Rolle spielt, vermerkt das Evangelium, dass er aufsteht, das Kind und seine Mutter mit sich nimmt und das tut, was Gott ihm befohlen hat (vgl. Mt 1,24; 2,14.21). In der Tat sind Jesus und Maria, seine Mutter, der wertvollste Schatz unseres Glaubens.[21]
Im Heilsplan kann man den Sohn nicht von der Mutter trennen. Sie ging »den Pilgerweg des Glaubens. Ihre Vereinigung mit dem Sohn hielt sie in Treue bis zum Kreuz«.[22]
Wir müssen uns immer fragen, ob wir Jesus und Maria, die auf geheimnisvolle Weise unserer Verantwortung, unserer Fürsorge, unserer Obhut anvertraut sind, mit all unseren Kräften behüten. Der Sohn des Allmächtigen kommt als schwaches Kind in die Welt. Er macht sich von Josef abhängig, um verteidigt, geschützt, gepflegt und erzogen zu werden. Gott vertraut diesem Mann, ebenso wie Maria, die in Josef denjenigen findet, der nicht nur ihr Leben retten will, sondern der immer für sie und das Kind sorgen wird. Deshalb ist es nur folgerichtig, dass der heilige Josef der Schutzpatron der Kirche ist, denn die Kirche ist die Ausdehnung des Leibes Christi in der Geschichte, und gleichzeitig ist in der Mutterschaft der Kirche die Mutterschaft Mariens angedeutet.[23] Indem Josef die Kirche beschützt, beschützt er weiterhin das Kind und seine Mutter, und indem wir die Kirche lieben, lieben auch wir immerfort das Kind und seine Mutter.
Eben dieses Kind wird einmal sagen: »Was ihr für einen meiner geringsten Brüder getan habt, das habt ihr mir getan« (Mt 25,40). So ist jeder Bedürftige, jeder Arme, jeder Leidende, jeder Sterbende, jeder Fremde, jeder Gefangene, jeder Kranke „das Kind“, das Josef weiterhin beschützt. Deshalb wird der heilige Josef als Beschützer der Elenden, der Bedürftigen, der Verbannten, der Bedrängten, der Armen, der Sterbenden angerufen. Und deshalb kann die Kirche nicht umhin, in besonderer Weise die Geringsten zu lieben, weil Jesus für sie eine Vorliebe hatte und sich persönlich mit ihnen identifizierte. Von Josef müssen wir die gleiche Fürsorge und Verantwortung lernen: das Kind und seine Mutter zu lieben; die Sakramente und die Nächstenliebe zu lieben; die Kirche und die Armen zu lieben. Jede dieser Wirklichkeiten ist immer das Kind und seine Mutter.
6. Vater und Arbeiter
Ein Aspekt, der den heiligen Josef auszeichnet und der seit der Zeit der ersten Sozialenzyklika Rerum novarum von Leo XIII. hervorgehoben wurde, ist sein Bezug zur Arbeit. Der heilige Josef war ein Zimmermann, der ehrlich arbeitete, um den Lebensunterhalt seiner Familie zu sichern. Von ihm lernte Jesus, welch ein Wert, welch eine Würde und welch eine Freude es bedeutet, das Brot zu essen, das die Frucht eigener Arbeit ist.
In dieser unserer Zeit, in der die Arbeit wieder zu einem dringenden sozialen Thema geworden zu sein scheint und die Arbeitslosigkeit manchmal drastische Ausmaße annimmt – auch in Ländern, in denen seit Jahrzehnten ein gewisser Wohlstand herrscht –, ist es notwendig, die Bedeutung einer Arbeit, die Würde verleiht, wieder ganz neu verstehen zu lernen. Unser Heiliger ist dafür Vorbild und Schutzpatron.
Die Arbeit wird zur Teilnahme am Erlösungswerk selbst, sie wird zu einer Gelegenheit, das Kommen des Reiches Gottes zu beschleunigen, das eigene Potential und die eigenen Qualitäten die eigenen Möglichkeiten und Fähigkeiten weiterzuentwickeln und sie in den Dienst der Gesellschaft und der Gemeinschaft zu stellen; die Arbeit wird nicht nur zu einer Gelegenheit der eigenen Verwirklichung, sondern vor allem auch für den ursprünglichen Kern der Gesellschaft, die Familie. Eine von Arbeitslosigkeit betroffene Familie ist Schwierigkeiten, Spannungen, Brüchen, ja der verzweifelten und weiter in die Verzweiflung führenden Versuchung der Auflösung stärker ausgesetzt. Wie können wir über die Menschenwürde sprechen, ohne uns dafür einzusetzen, dass alle und jeder Einzelne eine Chance auf einen würdigen Lebensunterhalt haben?
Der Mensch, der arbeitet, egal welcher Aufgabe er nachgeht, arbeitet mit Gott selbst zusammen und wird ein wenig zu einem Schöpfer der Welt, die uns umgibt. Die Krise unserer Zeit, die eine wirtschaftliche, soziale, kulturelle und geistliche Krise ist, mag allen ein Aufruf sein, den Wert, die Bedeutung und die Notwendigkeit der Arbeit wieder neu zu entdecken, um eine neue „Normalität“ zu begründen, in der niemand ausgeschlossen ist. Die Arbeit des heiligen Josef erinnert uns daran, dass der menschgewordene Gott selbst die Arbeit nicht verschmähte. Die Arbeitslosigkeit, von der viele Brüder und Schwestern betroffen sind und die in jüngster Zeit aufgrund der Covid-19-Pandemie zugenommen hat, muss zum Anlass werden, unsere Prioritäten zu überprüfen. Bitten wir den heiligen Josef, den Arbeiter, dass wir einmal verbindlich sagen können: Kein junger Mensch, keine Person, keine Familie ohne Arbeit!
7. Vater im Schatten
In seinem Buch Der Schatten des Vaters erzählte der polnische Schriftsteller Jan Dobraczyński[24] in Romanform das Leben des heiligen Josef. Mit dem eindrucksvollen Bild des Schattens umreißt er die Gestalt Josefs, der in Bezug auf Jesus der irdische Schatten des himmlischen Vaters ist. Er behütet und beschützt ihn, er weicht nicht von ihm und folgt seinen Schritten. Denken wir an das, was Mose dem Volk Israel in Erinnerung ruft: »In der Wüste [...] hat der Herr, dein Gott, dich auf dem ganzen Weg […] getragen, wie ein Mann sein Kind trägt« (Dtn 1,31). So hat Josef sein ganzes Leben lang die Vaterschaft ausgeübt.[25]
Als Vater wird man nicht geboren, Vater wird man. Und man wird zum Vater nicht einfach dadurch, dass man ein Kind in die Welt setzt, sondern dadurch, dass man sich verantwortungsvoll um es kümmert. Jedes Mal, wenn jemand die Verantwortung für das Leben eines anderen übernimmt, übt er ihm gegenüber in einem gewissem Sinne Vaterschaft aus.
In der Gesellschaft unserer Zeit scheinen die Kinder oft vaterlos zu sein. Auch die Kirche von heute braucht Väter. Die Mahnung, die der heilige Paulus an die Korinther richtet, bleibt immer aktuell: »Hättet ihr nämlich auch unzählige Erzieher in Christus, so doch nicht viele Väter« (1 Kor 4,15); und jeder Priester oder Bischof sollte wie der Apostel hinzufügen können: »In Christus Jesus habe ich euch durch das Evangelium gezeugt« (ebd.). Und zu den Galatern sagt Paulus: »Meine Kinder, für die ich von Neuem Geburtswehen erleide, bis Christus in euch Gestalt annimmt« (4,19).
Vater zu sein bedeutet, das Kind an die Erfahrung des Lebens, an die Wirklichkeit heranzuführen. Nicht, um es festzuhalten, nicht, um es einzusperren, nicht, um es zu besitzen, sondern um es zu Entscheidungen, zur Freiheit, zum Aufbruch zu befähigen. Vielleicht aus diesem Grund spricht die Tradition Josef nicht nur als Vater an, sondern fügt hier noch das Wort „keusch“ hinzu. Dies ist nicht eine rein affektive Angabe, sondern drückt eine Haltung aus, die man als das Gegenteil von „besitzergreifend“ bezeichnen könnte. Keuschheit ist die Freiheit von Besitz in allen Lebensbereichen. Nur wenn eine Liebe keusch ist, ist sie wirklich Liebe. Die Liebe, die besitzen will, wird am Ende immer gefährlich, sie nimmt gefangen, erstickt und macht unglücklich. Gott selbst hat den Menschen mit keuscher Liebe geliebt und ihm die Freiheit gelassen, Fehler zu machen und sich gegen ihn zu stellen. Die Logik der Liebe ist immer eine Logik der Freiheit, und Josef war in der Lage, in außerordentlicher Freiheit zu lieben. Er hat sich nie selbst in den Mittelpunkt gestellt. Er verstand es, zur Seite zu treten und Maria und Jesus zur Mitte seines Lebens zu machen.
Josefs Glück gründet sich nicht auf die Logik der Selbstaufopferung, sondern der Selbsthingabe. Man nimmt bei diesem Mann nie Frustration wahr, sondern nur Vertrauen. Sein beharrliches Schweigen ist nicht Ausdruck der Klage, sondern immer konkreten Vertrauens. Die Welt braucht Väter, Despoten aber lehnt sie ab, also diejenigen, die besitzergreifend sind, um ihre eigene Leere zu füllen; sie lehnt die ab, die Autorität mit Autoritarismus verwechseln, Dienst mit Unterwürfigkeit, Auseinandersetzung mit Unterdrückung, Nächstenliebe mit übertriebener Fürsorge, Stärke mit Zerstörung. Jede wahre Berufung kommt aus der Selbsthingabe, die die reifere Form des bloßen Opfers ist. Auch im Priestertum und im geweihten Leben ist diese Art von Reife erforderlich. Dort, wo eine eheliche, zölibatäre oder jungfräuliche Berufung nicht die Reife der Selbsthingabe erreicht und allein bei der Logik des Opfers stehen bleibt, wird sie kaum zu einem Zeichen für die Schönheit und die Freude der Liebe werden, sondern womöglich den Eindruck von Unglück, Traurigkeit und Frustration erwecken.
Eine Vaterschaft, die der Versuchung widersteht, das Leben der Kinder zu leben, eröffnet immer neue Räume. Jedes Kind trägt ein Geheimnis in sich, etwas noch nie Dagewesenes, das nur mit Hilfe eines Vaters zur Entfaltung gebracht werden kann, der seine Freiheit respektiert; eines Vaters, der sich bewusst ist, dass sein erzieherisches Handeln erst dann zum Ziel kommt und dass er erst dann sein Vatersein ganz lebt, wenn er sich „nutzlos“ gemacht hat, wenn er sieht, dass das Kind selbständig wird und allein auf den Pfaden des Lebens geht, wenn er sich in die Situation Josefs versetzt, der immer gewusst hat, dass das Kind nicht seines war, sondern einfach seiner Obhut anvertraut worden war. Im Grunde ist es das, was Jesus zu verstehen gibt, wenn er sagt: »Auch sollt ihr niemanden auf Erden euren Vater nennen; denn nur einer ist euer Vater, der im Himmel« (Mt 23,9).
Unter allen Umständen müssen wir bei der Ausübung von Vaterschaft immer darauf achten, dass sie nie besitzergreifend ist, sondern zeichenhaft auf eine höhere Vaterschaft verweist. In gewisser Weise sind wir alle immer in Josefs Lage: Wir sind „Schatten“ des einen Vaters im Himmel, der seine Sonne aufgehen lässt über Bösen und Guten und regnen lässt über Gerechte und Ungerechte (vgl. Mt 5,45); und wir sind „Schatten“ in der Nachfolge des Sohnes.
***
»Steh auf, nimm das Kind und seine Mutter« (Mt 2,13), sagt Gott zum heiligen Josef.
Ziel dieses Apostolischen Schreibens ist es, die Liebe zu diesem großen Heiligen zu fördern und einen Anstoß zu geben, ihn um seine Fürsprache anzurufen und seine Tugenden und seine Tatkraft nachzuahmen.
In der Tat besteht die spezifische Sendung der Heiligen nicht nur darin, Wunder und Gnaden zu gewähren, sondern bei Gott Fürsprache für uns einzulegen, wie es Abraham[26] und Moses[27] taten, und wie es Jesus tut, der eine Mittler (vgl. 1 Tim 2,5), der bei Gott unser »Beistand« ist (1 Joh 2,1), denn »er lebt allezeit, um für [uns] einzutreten« (Hebr 7,25; vgl. Röm 8,34).
Die Heiligen helfen allen Gläubigen bei ihrem »Streben nach Heiligkeit und ihrem Stand entsprechender Vollkommenheit«.[28] Ihr Leben ist ein konkreter Beweis dafür, dass es möglich ist, das Evangelium zu leben.
Jesus hat gesagt: »Lernt von mir; denn ich bin gütig und von Herzen demütig« (Mt 11,29); auch die Heiligen sind auf ihre Weise nachahmenswerte Vorbilder für das Leben. Der heilige Paulus ermahnte ausdrücklich dazu: »Haltet euch an mein Vorbild!« (1 Kor 4,16).[29] Der heilige Josef sagt dies durch sein beredtes Schweigen.
Angesichts des Beispiels so vieler heiliger Männer und Frauen fragte sich der heilige Augustinus: »Du solltest es nicht vermögen wie diese Männer, diese Frauen?« Und so gelangte er zur endgültigen Bekehrung und rief aus: »Spät hab ich dich geliebt, du Schönheit, ewig alt und ewig neu«.[30]
So wollen wir nun vom heiligen Josef die Gnade aller Gnaden erflehen – unsere Bekehrung.
Zu ihm lasst uns beten:
Sei gegrüßt, du Beschützer des Erlösers
und Bräutigam der Jungfrau Maria.
Dir hat Gott seinen Sohn anvertraut;
auf dich setzte Maria ihr Vertrauen;
bei dir ist Christus zum Mann herangewachsen.
O heiliger Josef, erweise dich auch uns als Vater,
und führe uns auf unserem Lebensweg.
Erwirke uns Gnade, Barmherzigkeit und Mut,
und beschütze uns vor allem Bösen. Amen.
Gegeben zu Rom, bei St. Johannes im Lateran, am 8. Dezember, dem Hochfest der ohne Erbsünde empfangenen Jungfrau und Gottesmutter Maria, im Jahr 2020, dem achten meines Pontifikats.
FRANZISKUS
___________________
[1] Joh 6,42; vgl. Mt 13,55; Mk 6,3; Lk 4,22.
[2] S. Rituum Congreg., Quemadmodum Deus (8. Dezember 1870): ASS 6 (1870-71), 194.
[3] Vgl. Ansprache an die ACLI anlässlich des Gedenktags des heiligen Josef des Arbeiters (1. Mai 1955): AAS 47 (1955), 406.
[4] Apostolisches Schreiben Redemptoris custos (15. August 1989): AAS 82 (1990), 5-34.
[5] Katechismus der Katholischen Kirche, 1014.
[6] Besondere Andacht in der Zeit der Pandemie (27. März 2020): L’Osservatore Romano (dt.), Jg. 50 (2020), Nr. 14/15 (3. April 2020), S. 6.
[7]In Matth. Hom., V, 3: PG 57, 58.
[8] Homilie (19. März 1966): Insegnamenti di Paolo VI, IV. (1966), 110.
[9] Vgl. Das Buch meines Lebens, 6, 6-8.
[10] Seit mehr als vierzig Jahren bete ich jeden Tag nach den Laudes ein Gebet zum heiligen Josef, das einem französischen Andachtsbuch der Kongregation der Barmherzigen Schwestern von Jesus und Maria aus dem 19. Jahrhundert entnommen ist. Dieses Gebet bringt dem heiligen Josef Verehrung und Vertrauen entgegen, fordert ihn aber auch ein wenig heraus: »Heiliger Josef, glorreicher Patriarch, der du das Unmögliche möglich machen kannst, komm mir in meiner Not und Bedrängnis zu Hilfe. Gewähre in den ernsten und schwierigen Anliegen, die ich dir anvertraue, deinen Schutz, sodass alles ein glückliches Ende nimmt. Mein geliebter Vater, ich setze mein ganzes Vertrauen in dich. Niemand soll sagen können, er habe dich vergeblich angerufen, und da du bei Jesus und Maria alles erwirken kannst, lass mich erfahren, dass deine Güte ebenso groß ist wie deine Macht. Amen.«
[11] Vgl. Dtn 4,31; Ps 69,17; 78,38; 86,5; 111,4; 116,5; Jer 31,20.
[12] Vgl. Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium (24. November 2013), 88; 288: AAS 105 (2013), 1057; 1136-1137.
[13] Vgl. Gen 20,3; 28,12; 31,11.24; 40,8; 41,1-32; Num 12,6; 1 Sam 3,3-10; Dan 2 u. 4; Ijob 33,15.
[14] In diesen Fällen war sogar die Steinigung vorgesehen (vgl. Dtn 22,20-21).
[15] Vgl. Lev 12,1-8; Ex 13,2.
[16] Vgl. Mt 26,39; Mk 14,36; Lk 22,42.
[17] Johannes Paul II., Apostolisches Schreiben Redemptoris custos (15. August 1989), 8: AAS 82 (1990), 14.
[18] Homilie in der heiligen Messe mit Seligsprechungen, Villavicencio - Kolumbien (8. September 2017): AAS 109 (2017), 1061.
[19] Enchiridion de fide, spe et caritate, 3,11: PL 40, 236.
[20] Vgl. Dtn 10,19; Ex 22,20-22; Lk 10,29-37.
[21] Vgl. S. Rituum Congreg., Quemadmodum Deus (8. Dezember 1870): ASS 6 (1870-71), 193; B. Pius IX., Apostolisches Schreiben Inclytum Patriarcham (7. Juli 1871): l.c., 324-327.
[22] Zweites Vatikanisches Ökumenisches Konzil, Dogmatische Konstitution Lumen gentium, 58.
[23]Vgl. Katechismus der Katholischen Kirche, 963-970.
[24] Originalausgabe: Cień Ojca, Warschau 1977.
[25] Vgl. Johannes Paul II., Apostolisches Schreiben Redemptoris custos, 7-8: AAS 82 (1990), 12-16.
[26] Vgl. Gen 18,23-32.
[27] Vgl. Ex 17,8-13; 32,30-35.
[28] Zweites Vatikanisches Ökumenisches Konzil, Dogmatische Konstitution Lumen gentium, 42.
[29] Vgl. 1 Kor 11,1; Phil 3,17; 1 Thess 1,6.
[30] Confessiones, 8, 11,27: PL 32, 761; 10, 27,38: PL 32,795.
[01509-DE.01] [Originalsprache: Italienisch]
Traduzione in lingua spagnola
CARTA APOSTÓLICA
PATRIS CORDE
DEL SANTO PADRE FRANCISCO
CON MOTIVO DEL 150.° ANIVERSARIO
DE LA DECLARACIÓN DE SAN JOSÉ
COMO PATRONO DE LA IGLESIA UNIVERSAL
CON CORAZÓN DE PADRE: así José amó a Jesús, llamado en los cuatro Evangelios «el hijo de José».[1]
Los dos evangelistas que evidenciaron su figura, Mateo y Lucas, refieren poco, pero lo suficiente para entender qué tipo de padre fuese y la misión que la Providencia le confió.
Sabemos que fue un humilde carpintero (cf. Mt 13,55), desposado con María (cf. Mt 1,18; Lc 1,27); un «hombre justo» (Mt 1,19), siempre dispuesto a hacer la voluntad de Dios manifestada en su ley (cf. Lc 2,22.27.39) y a través de los cuatro sueños que tuvo (cf. Mt 1,20; 2,13.19.22). Después de un largo y duro viaje de Nazaret a Belén, vio nacer al Mesías en un pesebre, porque en otro sitio «no había lugar para ellos» (Lc 2,7). Fue testigo de la adoración de los pastores (cf. Lc 2,8-20) y de los Magos (cf. Mt 2,1-12), que representaban respectivamente el pueblo de Israel y los pueblos paganos.
Tuvo la valentía de asumir la paternidad legal de Jesús, a quien dio el nombre que le reveló el ángel: «Tú le pondrás por nombre Jesús, porque él salvará a su pueblo de sus pecados» (Mt 1,21). Como se sabe, en los pueblos antiguos poner un nombre a una persona o a una cosa significaba adquirir la pertenencia, como hizo Adán en el relato del Génesis (cf. 2,19-20).
En el templo, cuarenta días después del nacimiento, José, junto a la madre, presentó el Niño al Señor y escuchó sorprendido la profecía que Simeón pronunció sobre Jesús y María (cf. Lc 2,22-35). Para proteger a Jesús de Herodes, permaneció en Egipto como extranjero (cf. Mt 2,13-18). De regreso en su tierra, vivió de manera oculta en el pequeño y desconocido pueblo de Nazaret, en Galilea —de donde, se decía: “No sale ningún profeta” y “no puede salir nada bueno” (cf. Jn 7,52; 1,46)—, lejos de Belén, su ciudad de origen, y de Jerusalén, donde estaba el templo. Cuando, durante una peregrinación a Jerusalén, perdieron a Jesús, que tenía doce años, él y María lo buscaron angustiados y lo encontraron en el templo mientras discutía con los doctores de la ley (cf. Lc 2,41-50).
Después de María, Madre de Dios, ningún santo ocupa tanto espacio en el Magisterio pontificio como José, su esposo. Mis predecesores han profundizado en el mensaje contenido en los pocos datos transmitidos por los Evangelios para destacar su papel central en la historia de la salvación: el beato Pío IX lo declaró «Patrono de la Iglesia Católica»,[2] el venerable Pío XII lo presentó como “Patrono de los trabajadores”[3] y san Juan Pablo II como «Custodio del Redentor».[4] El pueblo lo invoca como «Patrono de la buena muerte».[5]
Por eso, al cumplirse ciento cincuenta años de que el beato Pío IX, el 8 de diciembre de 1870, lo declarara como Patrono de la Iglesia Católica, quisiera —como dice Jesús— que “la boca hable de aquello de lo que está lleno el corazón” (cf. Mt 12,34), para compartir con ustedes algunas reflexiones personales sobre esta figura extraordinaria, tan cercana a nuestra condición humana. Este deseo ha crecido durante estos meses de pandemia, en los que podemos experimentar, en medio de la crisis que nos está golpeando, que «nuestras vidas están tejidas y sostenidas por personas comunes —corrientemente olvidadas— que no aparecen en portadas de diarios y de revistas, ni en las grandes pasarelas del último show pero, sin lugar a dudas, están escribiendo hoy los acontecimientos decisivos de nuestra historia: médicos, enfermeros y enfermeras, encargados de reponer los productos en los supermercados, limpiadoras, cuidadoras, transportistas, fuerzas de seguridad, voluntarios, sacerdotes, religiosas y tantos pero tantos otros que comprendieron que nadie se salva solo. […] Cuánta gente cada día demuestra paciencia e infunde esperanza, cuidándose de no sembrar pánico sino corresponsabilidad. Cuántos padres, madres, abuelos y abuelas, docentes muestran a nuestros niños, con gestos pequeños y cotidianos, cómo enfrentar y transitar una crisis readaptando rutinas, levantando miradas e impulsando la oración. Cuántas personas rezan, ofrecen e interceden por el bien de todos».[6] Todos pueden encontrar en san José —el hombre que pasa desapercibido, el hombre de la presencia diaria, discreta y oculta— un intercesor, un apoyo y una guía en tiempos de dificultad. San José nos recuerda que todos los que están aparentemente ocultos o en “segunda línea” tienen un protagonismo sin igual en la historia de la salvación. A todos ellos va dirigida una palabra de reconocimiento y de gratitud.
1. Padre amado
La grandeza de san José consiste en el hecho de que fue el esposo de María y el padre de Jesús. En cuanto tal, «entró en el servicio de toda la economía de la encarnación», como dice san Juan Crisóstomo.[7]
San Pablo VI observa que su paternidad se manifestó concretamente «al haber hecho de su vida un servicio, un sacrificio al misterio de la Encarnación y a la misión redentora que le está unida; al haber utilizado la autoridad legal, que le correspondía en la Sagrada Familia, para hacer de ella un don total de sí mismo, de su vida, de su trabajo; al haber convertido su vocación humana de amor doméstico en la oblación sobrehumana de sí mismo, de su corazón y de toda capacidad en el amor puesto al servicio del Mesías nacido en su casa».[8]
Por su papel en la historia de la salvación, san José es un padre que siempre ha sido amado por el pueblo cristiano, como lo demuestra el hecho de que se le han dedicado numerosas iglesias en todo el mundo; que muchos institutos religiosos, hermandades y grupos eclesiales se inspiran en su espiritualidad y llevan su nombre; y que desde hace siglos se celebran en su honor diversas representaciones sagradas. Muchos santos y santas le tuvieron una gran devoción, entre ellos Teresa de Ávila, quien lo tomó como abogado e intercesor, encomendándose mucho a él y recibiendo todas las gracias que le pedía. Alentada por su experiencia, la santa persuadía a otros para que le fueran devotos.[9]
En todos los libros de oraciones se encuentra alguna oración a san José. Invocaciones particulares que le son dirigidas todos los miércoles y especialmente durante todo el mes de marzo, tradicionalmente dedicado a él.[10]
La confianza del pueblo en san José se resume en la expresión “Ite ad Ioseph”, que hace referencia al tiempo de hambruna en Egipto, cuando la gente le pedía pan al faraón y él les respondía: «Vayan donde José y hagan lo que él les diga» (Gn 41,55). Se trataba de José el hijo de Jacob, a quien sus hermanos vendieron por envidia (cf. Gn 37,11-28) y que —siguiendo el relato bíblico— se convirtió posteriormente en virrey de Egipto (cf. Gn 41,41-44).
Como descendiente de David (cf. Mt 1,16.20), de cuya raíz debía brotar Jesús según la promesa hecha a David por el profeta Natán (cf. 2 Sam 7), y como esposo de María de Nazaret, san José es la pieza que une el Antiguo y el Nuevo Testamento.
2. Padre en la ternura
José vio a Jesús progresar día tras día «en sabiduría, en estatura y en gracia ante Dios y los hombres» (Lc 2,52). Como hizo el Señor con Israel, así él “le enseñó a caminar, y lo tomaba en sus brazos: era para él como el padre que alza a un niño hasta sus mejillas, y se inclina hacia él para darle de comer” (cf. Os 11,3-4).
Jesús vio la ternura de Dios en José: «Como un padre siente ternura por sus hijos, así el Señor siente ternura por quienes lo temen» (Sal 103,13).
En la sinagoga, durante la oración de los Salmos, José ciertamente habrá oído el eco de que el Dios de Israel es un Dios de ternura,[11] que es bueno para todos y «su ternura alcanza a todas las criaturas» (Sal 145,9).
La historia de la salvación se cumple creyendo «contra toda esperanza» (Rm 4,18) a través de nuestras debilidades. Muchas veces pensamos que Dios se basa sólo en la parte buena y vencedora de nosotros, cuando en realidad la mayoría de sus designios se realizan a través y a pesar de nuestra debilidad. Esto es lo que hace que san Pablo diga: «Para que no me engría tengo una espina clavada en el cuerpo, un emisario de Satanás que me golpea para que no me engría. Tres veces le he pedido al Señor que la aparte de mí, y él me ha dicho: “¡Te basta mi gracia!, porque mi poder se manifiesta plenamente en la debilidad”» (2 Co 12,7-9).
Si esta es la perspectiva de la economía de la salvación, debemos aprender a aceptar nuestra debilidad con intensa ternura.[12]
El Maligno nos hace mirar nuestra fragilidad con un juicio negativo, mientras que el Espíritu la saca a la luz con ternura. La ternura es el mejor modo para tocar lo que es frágil en nosotros. El dedo que señala y el juicio que hacemos de los demás son a menudo un signo de nuestra incapacidad para aceptar nuestra propia debilidad, nuestra propia fragilidad. Sólo la ternura nos salvará de la obra del Acusador (cf. Ap 12,10). Por esta razón es importante encontrarnos con la Misericordia de Dios, especialmente en el sacramento de la Reconciliación, teniendo una experiencia de verdad y ternura. Paradójicamente, incluso el Maligno puede decirnos la verdad, pero, si lo hace, es para condenarnos. Sabemos, sin embargo, que la Verdad que viene de Dios no nos condena, sino que nos acoge, nos abraza, nos sostiene, nos perdona. La Verdad siempre se nos presenta como el Padre misericordioso de la parábola (cf. Lc 15,11-32): viene a nuestro encuentro, nos devuelve la dignidad, nos pone nuevamente de pie, celebra con nosotros, porque «mi hijo estaba muerto y ha vuelto a la vida, estaba perdido y ha sido encontrado» (v. 24).
También a través de la angustia de José pasa la voluntad de Dios, su historia, su proyecto. Así, José nos enseña que tener fe en Dios incluye además creer que Él puede actuar incluso a través de nuestros miedos, de nuestras fragilidades, de nuestra debilidad. Y nos enseña que, en medio de las tormentas de la vida, no debemos tener miedo de ceder a Dios el timón de nuestra barca. A veces, nosotros quisiéramos tener todo bajo control, pero Él tiene siempre una mirada más amplia.
3. Padre en la obediencia
Así como Dios hizo con María cuando le manifestó su plan de salvación, también a José le reveló sus designios y lo hizo a través de sueños que, en la Biblia, como en todos los pueblos antiguos, eran considerados uno de los medios por los que Dios manifestaba su voluntad.[13]
José estaba muy angustiado por el embarazo incomprensible de María; no quería «denunciarla públicamente»,[14] pero decidió «romper su compromiso en secreto» (Mt 1,19). En el primer sueño el ángel lo ayudó a resolver su grave dilema: «No temas aceptar a María, tu mujer, porque lo engendrado en ella proviene del Espíritu Santo. Dará a luz un hijo, y tú le pondrás por nombre Jesús, porque él salvará a su pueblo de sus pecados» (Mt 1,20-21). Su respuesta fue inmediata: «Cuando José despertó del sueño, hizo lo que el ángel del Señor le había mandado» (Mt 1,24). Con la obediencia superó su drama y salvó a María.
En el segundo sueño el ángel ordenó a José: «Levántate, toma contigo al niño y a su madre, y huye a Egipto; quédate allí hasta que te diga, porque Herodes va a buscar al niño para matarlo» (Mt 2,13). José no dudó en obedecer, sin cuestionarse acerca de las dificultades que podía encontrar: «Se levantó, tomó de noche al niño y a su madre, y se fue a Egipto, donde estuvo hasta la muerte de Herodes» (Mt 2,14-15).
En Egipto, José esperó con confianza y paciencia el aviso prometido por el ángel para regresar a su país. Y cuando en un tercer sueño el mensajero divino, después de haberle informado que los que intentaban matar al niño habían muerto, le ordenó que se levantara, que tomase consigo al niño y a su madre y que volviera a la tierra de Israel (cf. Mt 2,19-20), él una vez más obedeció sin vacilar: «Se levantó, tomó al niño y a su madre y entró en la tierra de Israel» (Mt 2,21).
Pero durante el viaje de regreso, «al enterarse de que Arquelao reinaba en Judea en lugar de su padre Herodes, tuvo miedo de ir allí y, avisado en sueños —y es la cuarta vez que sucedió—, se retiró a la región de Galilea y se fue a vivir a un pueblo llamado Nazaret» (Mt 2,22-23).
El evangelista Lucas, por su parte, relató que José afrontó el largo e incómodo viaje de Nazaret a Belén, según la ley del censo del emperador César Augusto, para empadronarse en su ciudad de origen. Y fue precisamente en esta circunstancia que Jesús nació y fue asentado en el censo del Imperio, como todos los demás niños (cf. Lc 2,1-7).
San Lucas, en particular, se preocupó de resaltar que los padres de Jesús observaban todas las prescripciones de la ley: los ritos de la circuncisión de Jesús, de la purificación de María después del parto, de la presentación del primogénito a Dios (cf. 2,21-24).[15]
En cada circunstancia de su vida, José supo pronunciar su “fiat”, como María en la Anunciación y Jesús en Getsemaní.
José, en su papel de cabeza de familia, enseñó a Jesús a ser sumiso a sus padres, según el mandamiento de Dios (cf. Ex 20,12).
En la vida oculta de Nazaret, bajo la guía de José, Jesús aprendió a hacer la voluntad del Padre. Dicha voluntad se transformó en su alimento diario (cf. Jn 4,34). Incluso en el momento más difícil de su vida, que fue en Getsemaní, prefirió hacer la voluntad del Padre y no la suya propia[16] y se hizo «obediente hasta la muerte […] de cruz» (Flp 2,8). Por ello, el autor de la Carta a los Hebreos concluye que Jesús «aprendió sufriendo a obedecer» (5,8).
Todos estos acontecimientos muestran que José «ha sido llamado por Dios para servir directamente a la persona y a la misión de Jesús mediante el ejercicio de su paternidad; de este modo él coopera en la plenitud de los tiempos en el gran misterio de la redención y es verdaderamente “ministro de la salvación”».[17]
4. Padre en la acogida
José acogió a María sin poner condiciones previas. Confió en las palabras del ángel. «La nobleza de su corazón le hace supeditar a la caridad lo aprendido por ley; y hoy, en este mundo donde la violencia psicológica, verbal y física sobre la mujer es patente, José se presenta como figura de varón respetuoso, delicado que, aun no teniendo toda la información, se decide por la fama, dignidad y vida de María. Y, en su duda de cómo hacer lo mejor, Dios lo ayudó a optar iluminando su juicio».[18]
Muchas veces ocurren hechos en nuestra vida cuyo significado no entendemos. Nuestra primera reacción es a menudo de decepción y rebelión. José deja de lado sus razonamientos para dar paso a lo que acontece y, por más misterioso que le parezca, lo acoge, asume la responsabilidad y se reconcilia con su propia historia. Si no nos reconciliamos con nuestra historia, ni siquiera podremos dar el paso siguiente, porque siempre seremos prisioneros de nuestras expectativas y de las consiguientes decepciones.
La vida espiritual de José no nos muestra una vía que explica, sino una vía que acoge. Sólo a partir de esta acogida, de esta reconciliación, podemos también intuir una historia más grande, un significado más profundo. Parecen hacerse eco las ardientes palabras de Job que, ante la invitación de su esposa a rebelarse contra todo el mal que le sucedía, respondió: «Si aceptamos de Dios los bienes, ¿no vamos a aceptar los males?» (Jb 2,10).
José no es un hombre que se resigna pasivamente. Es un protagonista valiente y fuerte. La acogida es un modo por el que se manifiesta en nuestra vida el don de la fortaleza que nos viene del Espíritu Santo. Sólo el Señor puede darnos la fuerza para acoger la vida tal como es, para hacer sitio incluso a esa parte contradictoria, inesperada y decepcionante de la existencia.
La venida de Jesús en medio de nosotros es un regalo del Padre, para que cada uno pueda reconciliarse con la carne de su propia historia, aunque no la comprenda del todo.
Como Dios dijo a nuestro santo: «José, hijo de David, no temas» (Mt 1,20), parece repetirnos también a nosotros: “¡No tengan miedo!”. Tenemos que dejar de lado nuestra ira y decepción, y hacer espacio —sin ninguna resignación mundana y con una fortaleza llena de esperanza— a lo que no hemos elegido, pero está allí. Acoger la vida de esta manera nos introduce en un significado oculto. La vida de cada uno de nosotros puede comenzar de nuevo milagrosamente, si encontramos la valentía para vivirla según lo que nos dice el Evangelio. Y no importa si ahora todo parece haber tomado un rumbo equivocado y si algunas cuestiones son irreversibles. Dios puede hacer que las flores broten entre las rocas. Aun cuando nuestra conciencia nos reprocha algo, Él «es más grande que nuestra conciencia y lo sabe todo» (1 Jn 3,20).
El realismo cristiano, que no rechaza nada de lo que existe, vuelve una vez más. La realidad, en su misteriosa irreductibilidad y complejidad, es portadora de un sentido de la existencia con sus luces y sombras. Esto hace que el apóstol Pablo afirme: «Sabemos que todo contribuye al bien de quienes aman a Dios» (Rm 8,28). Y san Agustín añade: «Aun lo que llamamos mal (etiam illud quod malum dicitur)».[19] En esta perspectiva general, la fe da sentido a cada acontecimiento feliz o triste.
Entonces, lejos de nosotros el pensar que creer significa encontrar soluciones fáciles que consuelan. La fe que Cristo nos enseñó es, en cambio, la que vemos en san José, que no buscó atajos, sino que afrontó “con los ojos abiertos” lo que le acontecía, asumiendo la responsabilidad en primera persona.
La acogida de José nos invita a acoger a los demás, sin exclusiones, tal como son, con preferencia por los débiles, porque Dios elige lo que es débil (cf. 1 Co 1,27), es «padre de los huérfanos y defensor de las viudas» (Sal 68,6) y nos ordena amar al extranjero.[20] Deseo imaginar que Jesús tomó de las actitudes de José el ejemplo para la parábola del hijo pródigo y el padre misericordioso (cf. Lc 15,11-32).
5. Padre de la valentía creativa
Si la primera etapa de toda verdadera curación interior es acoger la propia historia, es decir, hacer espacio dentro de nosotros mismos incluso para lo que no hemos elegido en nuestra vida, necesitamos añadir otra característica importante: la valentía creativa. Esta surge especialmente cuando encontramos dificultades. De hecho, cuando nos enfrentamos a un problema podemos detenernos y bajar los brazos, o podemos ingeniárnoslas de alguna manera. A veces las dificultades son precisamente las que sacan a relucir recursos en cada uno de nosotros que ni siquiera pensábamos tener.
Muchas veces, leyendo los “Evangelios de la infancia”, nos preguntamos por qué Dios no intervino directa y claramente. Pero Dios actúa a través de eventos y personas. José era el hombre por medio del cual Dios se ocupó de los comienzos de la historia de la redención. Él era el verdadero “milagro” con el que Dios salvó al Niño y a su madre. El cielo intervino confiando en la valentía creadora de este hombre, que cuando llegó a Belén y no encontró un lugar donde María pudiera dar a luz, se instaló en un establo y lo arregló hasta convertirlo en un lugar lo más acogedor posible para el Hijo de Dios que venía al mundo (cf. Lc 2,6-7). Ante el peligro inminente de Herodes, que quería matar al Niño, José fue alertado una vez más en un sueño para protegerlo, y en medio de la noche organizó la huida a Egipto (cf. Mt 2,13-14).
De una lectura superficial de estos relatos se tiene siempre la impresión de que el mundo esté a merced de los fuertes y de los poderosos, pero la “buena noticia” del Evangelio consiste en mostrar cómo, a pesar de la arrogancia y la violencia de los gobernantes terrenales, Dios siempre encuentra un camino para cumplir su plan de salvación. Incluso nuestra vida parece a veces que está en manos de fuerzas superiores, pero el Evangelio nos dice que Dios siempre logra salvar lo que es importante, con la condición de que tengamos la misma valentía creativa del carpintero de Nazaret, que sabía transformar un problema en una oportunidad, anteponiendo siempre la confianza en la Providencia.
Si a veces pareciera que Dios no nos ayuda, no significa que nos haya abandonado, sino que confía en nosotros, en lo que podemos planear, inventar, encontrar.
Es la misma valentía creativa que mostraron los amigos del paralítico que, para presentarlo a Jesús, lo bajaron del techo (cf. Lc 5,17-26). La dificultad no detuvo la audacia y la obstinación de esos amigos. Ellos estaban convencidos de que Jesús podía curar al enfermo y «como no pudieron introducirlo por causa de la multitud, subieron a lo alto de la casa y lo hicieron bajar en la camilla a través de las tejas, y lo colocaron en medio de la gente frente a Jesús. Jesús, al ver la fe de ellos, le dijo al paralítico: “¡Hombre, tus pecados quedan perdonados!”» (vv. 19-20). Jesús reconoció la fe creativa con la que esos hombres trataron de traerle a su amigo enfermo.
El Evangelio no da ninguna información sobre el tiempo en que María, José y el Niño permanecieron en Egipto. Sin embargo, lo que es cierto es que habrán tenido necesidad de comer, de encontrar una casa, un trabajo. No hace falta mucha imaginación para llenar el silencio del Evangelio a este respecto. La Sagrada Familia tuvo que afrontar problemas concretos como todas las demás familias, como muchos de nuestros hermanos y hermanas migrantes que incluso hoy arriesgan sus vidas forzados por las adversidades y el hambre. A este respecto, creo que san José sea realmente un santo patrono especial para todos aquellos que tienen que dejar su tierra a causa de la guerra, el odio, la persecución y la miseria.
Al final de cada relato en el que José es el protagonista, el Evangelio señala que él se levantó, tomó al Niño y a su madre e hizo lo que Dios le había mandado (cf. Mt 1,24; 2,14.21). De hecho, Jesús y María, su madre, son el tesoro más preciado de nuestra fe.[21]
En el plan de salvación no se puede separar al Hijo de la Madre, de aquella que «avanzó en la peregrinación de la fe y mantuvo fielmente su unión con su Hijo hasta la cruz».[22]
Debemos preguntarnos siempre si estamos protegiendo con todas nuestras fuerzas a Jesús y María, que están misteriosamente confiados a nuestra responsabilidad, a nuestro cuidado, a nuestra custodia. El Hijo del Todopoderoso viene al mundo asumiendo una condición de gran debilidad. Necesita de José para ser defendido, protegido, cuidado, criado. Dios confía en este hombre, del mismo modo que lo hace María, que encuentra en José no sólo al que quiere salvar su vida, sino al que siempre velará por ella y por el Niño. En este sentido, san José no puede dejar de ser el Custodio de la Iglesia, porque la Iglesia es la extensión del Cuerpo de Cristo en la historia, y al mismo tiempo en la maternidad de la Iglesia se manifiesta la maternidad de María.[23] José, a la vez que continúa protegiendo a la Iglesia, sigue amparando al Niño y a su madre, y nosotros también, amando a la Iglesia, continuamos amando al Niño y a su madre.
Este Niño es el que dirá: «Les aseguro que siempre que ustedes lo hicieron con uno de estos mis hermanos más pequeños, conmigo lo hicieron» (Mt 25,40). Así, cada persona necesitada, cada pobre, cada persona que sufre, cada moribundo, cada extranjero, cada prisionero, cada enfermo son “el Niño” que José sigue custodiando. Por eso se invoca a san José como protector de los indigentes, los necesitados, los exiliados, los afligidos, los pobres, los moribundos. Y es por lo mismo que la Iglesia no puede dejar de amar a los más pequeños, porque Jesús ha puesto en ellos su preferencia, se identifica personalmente con ellos. De José debemos aprender el mismo cuidado y responsabilidad: amar al Niño y a su madre; amar los sacramentos y la caridad; amar a la Iglesia y a los pobres. En cada una de estas realidades está siempre el Niño y su madre.
6. Padre trabajador
Un aspecto que caracteriza a san José y que se ha destacado desde la época de la primera Encíclica social, la Rerum novarum de León XIII, es su relación con el trabajo. San José era un carpintero que trabajaba honestamente para asegurar el sustento de su familia. De él, Jesús aprendió el valor, la dignidad y la alegría de lo que significa comer el pan que es fruto del propio trabajo.
En nuestra época actual, en la que el trabajo parece haber vuelto a representar una urgente cuestión social y el desempleo alcanza a veces niveles impresionantes, aun en aquellas naciones en las que durante décadas se ha experimentado un cierto bienestar, es necesario, con una conciencia renovada, comprender el significado del trabajo que da dignidad y del que nuestro santo es un patrono ejemplar.
El trabajo se convierte en participación en la obra misma de la salvación, en oportunidad para acelerar el advenimiento del Reino, para desarrollar las propias potencialidades y cualidades, poniéndolas al servicio de la sociedad y de la comunión. El trabajo se convierte en ocasión de realización no sólo para uno mismo, sino sobre todo para ese núcleo original de la sociedad que es la familia. Una familia que carece de trabajo está más expuesta a dificultades, tensiones, fracturas e incluso a la desesperada y desesperante tentación de la disolución. ¿Cómo podríamos hablar de dignidad humana sin comprometernos para que todos y cada uno tengan la posibilidad de un sustento digno?
La persona que trabaja, cualquiera que sea su tarea, colabora con Dios mismo, se convierte un poco en creador del mundo que nos rodea. La crisis de nuestro tiempo, que es una crisis económica, social, cultural y espiritual, puede representar para todos un llamado a redescubrir el significado, la importancia y la necesidad del trabajo para dar lugar a una nueva “normalidad” en la que nadie quede excluido. La obra de san José nos recuerda que el mismo Dios hecho hombre no desdeñó el trabajo. La pérdida de trabajo que afecta a tantos hermanos y hermanas, y que ha aumentado en los últimos tiempos debido a la pandemia de Covid-19, debe ser un llamado a revisar nuestras prioridades. Imploremos a san José obrero para que encontremos caminos que nos lleven a decir: ¡Ningún joven, ninguna persona, ninguna familia sin trabajo!
7. Padre en la sombra
El escritor polaco Jan Dobraczyński, en su libro La sombra del Padre,[24] noveló la vida de san José. Con la imagen evocadora de la sombra define la figura de José, que para Jesús es la sombra del Padre celestial en la tierra: lo auxilia, lo protege, no se aparta jamás de su lado para seguir sus pasos. Pensemos en aquello que Moisés recuerda a Israel: «En el desierto, donde viste cómo el Señor, tu Dios, te cuidaba como un padre cuida a su hijo durante todo el camino» (Dt 1,31). Así José ejercitó la paternidad durante toda su vida.[25]
Nadie nace padre, sino que se hace. Y no se hace sólo por traer un hijo al mundo, sino por hacerse cargo de él responsablemente. Todas las veces que alguien asume la responsabilidad de la vida de otro, en cierto sentido ejercita la paternidad respecto a él.
En la sociedad de nuestro tiempo, los niños a menudo parecen no tener padre. También la Iglesia de hoy en día necesita padres. La amonestación dirigida por san Pablo a los Corintios es siempre oportuna: «Podrán tener diez mil instructores, pero padres no tienen muchos» (1 Co 4,15); y cada sacerdote u obispo debería poder decir como el Apóstol: «Fui yo quien los engendré para Cristo al anunciarles el Evangelio» (ibíd.). Y a los Gálatas les dice: «Hijos míos, por quienes de nuevo sufro dolores de parto hasta que Cristo sea formado en ustedes» (4,19).
Ser padre significa introducir al niño en la experiencia de la vida, en la realidad. No para retenerlo, no para encarcelarlo, no para poseerlo, sino para hacerlo capaz de elegir, de ser libre, de salir. Quizás por esta razón la tradición también le ha puesto a José, junto al apelativo de padre, el de “castísimo”. No es una indicación meramente afectiva, sino la síntesis de una actitud que expresa lo contrario a poseer. La castidad está en ser libres del afán de poseer en todos los ámbitos de la vida. Sólo cuando un amor es casto es un verdadero amor. El amor que quiere poseer, al final, siempre se vuelve peligroso, aprisiona, sofoca, hace infeliz. Dios mismo amó al hombre con amor casto, dejándolo libre incluso para equivocarse y ponerse en contra suya. La lógica del amor es siempre una lógica de libertad, y José fue capaz de amar de una manera extraordinariamente libre. Nunca se puso en el centro. Supo cómo descentrarse, para poner a María y a Jesús en el centro de su vida.
La felicidad de José no está en la lógica del auto-sacrificio, sino en el don de sí mismo. Nunca se percibe en este hombre la frustración, sino sólo la confianza. Su silencio persistente no contempla quejas, sino gestos concretos de confianza. El mundo necesita padres, rechaza a los amos, es decir: rechaza a los que quieren usar la posesión del otro para llenar su propio vacío; rehúsa a los que confunden autoridad con autoritarismo, servicio con servilismo, confrontación con opresión, caridad con asistencialismo, fuerza con destrucción. Toda vocación verdadera nace del don de sí mismo, que es la maduración del simple sacrificio. También en el sacerdocio y la vida consagrada se requiere este tipo de madurez. Cuando una vocación, ya sea en la vida matrimonial, célibe o virginal, no alcanza la madurez de la entrega de sí misma deteniéndose sólo en la lógica del sacrificio, entonces en lugar de convertirse en signo de la belleza y la alegría del amor corre el riesgo de expresar infelicidad, tristeza y frustración.
La paternidad que rehúsa la tentación de vivir la vida de los hijos está siempre abierta a nuevos espacios. Cada niño lleva siempre consigo un misterio, algo inédito que sólo puede ser revelado con la ayuda de un padre que respete su libertad. Un padre que es consciente de que completa su acción educativa y de que vive plenamente su paternidad sólo cuando se ha hecho “inútil”, cuando ve que el hijo ha logrado ser autónomo y camina solo por los senderos de la vida, cuando se pone en la situación de José, que siempre supo que el Niño no era suyo, sino que simplemente había sido confiado a su cuidado. Después de todo, eso es lo que Jesús sugiere cuando dice: «No llamen “padre” a ninguno de ustedes en la tierra, pues uno solo es su Padre, el del cielo» (Mt 23,9).
Siempre que nos encontremos en la condición de ejercer la paternidad, debemos recordar que nunca es un ejercicio de posesión, sino un “signo” que nos evoca una paternidad superior. En cierto sentido, todos nos encontramos en la condición de José: sombra del único Padre celestial, que «hace salir el sol sobre malos y buenos y manda la lluvia sobre justos e injustos» (Mt 5,45); y sombra que sigue al Hijo.
*.*.*
«Levántate, toma contigo al niño y a su madre» (Mt 2,13), dijo Dios a san José.
El objetivo de esta Carta apostólica es que crezca el amor a este gran santo, para ser impulsados a implorar su intercesión e imitar sus virtudes, como también su resolución.
En efecto, la misión específica de los santos no es sólo la de conceder milagros y gracias, sino la de interceder por nosotros ante Dios, como hicieron Abrahán[26] y Moisés,[27] como hace Jesús, «único mediador» (1 Tm 2,5), que es nuestro «abogado» ante Dios Padre (1 Jn 2,1), «ya que vive eternamente para interceder por nosotros» (Hb 7,25; cf. Rm 8,34).
Los santos ayudan a todos los fieles «a la plenitud de la vida cristiana y a la perfección de la caridad».[28] Su vida es una prueba concreta de que es posible vivir el Evangelio.
Jesús dijo: «Aprendan de mí, que soy manso y humilde de corazón» (Mt 11,29), y ellos a su vez son ejemplos de vida a imitar. San Pablo exhortó explícitamente: «Vivan como imitadores míos» (1 Co 4,16).[29] San José lo dijo a través de su elocuente silencio.
Ante el ejemplo de tantos santos y santas, san Agustín se preguntó: «¿No podrás tú lo que éstos y éstas?». Y así llegó a la conversión definitiva exclamando: «¡Tarde te amé, belleza tan antigua y tan nueva!».[30]
No queda más que implorar a san José la gracia de las gracias: nuestra conversión.
A él dirijamos nuestra oración:
Salve, custodio del Redentor
y esposo de la Virgen María.
A ti Dios confió a su Hijo,
en ti María depositó su confianza,
contigo Cristo se forjó como hombre.
Oh, bienaventurado José,
muéstrate padre también a nosotros
y guíanos en el camino de la vida.
Concédenos gracia, misericordia y valentía,
y defiéndenos de todo mal. Amén.
Roma, en San Juan de Letrán, 8 de diciembre, Solemnidad de la Inmaculada Concepción de la Bienaventurada Virgen María, del año 2020, octavo de mi pontificado.
FRANCISCO
_____________________
[1] Lc 4,22; Jn 6,42; cf. Mt 13,55; Mc 6,3.
[2] S. Rituum Congreg., Quemadmodum Deus (8 diciembre 1870): ASS 6 (1870-71), 194.
[3] Cf. Discurso a las Asociaciones cristianas de Trabajadores italianos con motivo de la Solemnidad de san José obrero (1 mayo 1955): AAS 47 (1955), 406.
[4] Exhort. ap. Redemptoris custos (15 agosto 1989): AAS 82 (1990), 5-34.
[5] Catecismo de la Iglesia Católica, 1014.
[6] Meditación en tiempos de pandemia (27 marzo 2020): L’Osservatore Romano, ed. semanal en lengua española (3 abril 2020), p. 3.
[7] In Matth. Hom, V, 3: PG 57, 58.
[8] Homilía (19 marzo 1966): Insegnamenti di Paolo VI, IV (1966), 110.
[9] Cf. Libro de la vida, 6, 6-8.
[10] Todos los días, durante más de cuarenta años, después de Laudes, recito una oración a san José tomada de un libro de devociones francés del siglo XIX, de la Congregación de las Religiosas de Jesús y María, que expresa devoción, confianza y un cierto reto a san José: «Glorioso patriarca san José, cuyo poder sabe hacer posibles las cosas imposibles, ven en mi ayuda en estos momentos de angustia y dificultad. Toma bajo tu protección las situaciones tan graves y difíciles que te confío, para que tengan una buena solución. Mi amado Padre, toda mi confianza está puesta en ti. Que no se diga que te haya invocado en vano y, como puedes hacer todo con Jesús y María, muéstrame que tu bondad es tan grande como tu poder. Amén».
[11] Cf. Dt 4,31; Sal 69,17; 78,38; 86,5; 111,4; 116,5; Jr 31,20.
[12] Cf. Exhort. ap. Evangelii gaudium (24 noviembre 2013), 88, 288: AAS 105 (2013), 1057, 1136-1137.
[13] Cf. Gn 20,3; 28,12; 31,11.24; 40,8; 41,1-32; Nm 12,6; 1 Sam 3,3-10; Dn 2; 4; Jb 33,15.
[14] En estos casos estaba prevista la lapidación (cf. Dt 22,20-21).
[15] Cf. Lv 12,1-8; Ex 13,2.
[16] Cf. Mt 26,39; Mc 14,36; Lc 22,42.
[17] S. Juan Pablo II, Exhort. ap. Redemptoris custos (15 agosto 1989), 8: AAS 82 (1990), 14.
[18] Homilía en la Santa Misa con beatificaciones, Villavicencio – Colombia (8 septiembre 2017): AAS 109 (2017), 1061.
[19] Enchiridion de fide, spe et caritate, 3.11: PL 40, 236.
[20] Cf. Dt 10,19; Ex 22,20-22; Lc 10,29-37.
[21] Cf. S. Rituum Congreg., Quemadmodum Deus (8 diciembre 1870): ASS 6 (1870-71), 193; B. Pío IX, Carta ap. Inclytum Patriarcham (7 julio 1871): l.c., 324-327.
[22] Conc. Ecum. Vat. II, Const. dogm. Lumen gentium, 58.
[23] Cf. Catecismo de la Iglesia Católica, 963-970.
[24] Edición original: Cień Ojca, Varsovia 1977.
[25] Cf. S. Juan Pablo II, Exhort. ap. Redemptoris custos, 7-8: AAS 82 (1990), 12-16.
[26] Cf. Gn 18,23-32.
[27] Cf. Ex 17,8-13; 32,30-35.
[28] Conc. Ecum. Vat. II, Const. dogm. Lumen gentium, 42.
[29] Cf. 1 Co 11,1; Flp 3,17; 1 Ts 1,6.
[30] Confesiones, 8, 11, 27: PL 32, 761; 10, 27, 38: PL 32, 795.
[01509-ES.01] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua portoghese
CARTA APOSTÓLICA
PATRIS CORDE
DO SANTO PADRE FRANCISCO
POR OCASIÃO DO 150º ANIVERSÁRIO
DA DECLARAÇÃO DE SÃO JOSÉ
COMO PADROEIRO DA IGREJA UNIVERSAL
COM CORAÇÃO DE PAI: assim José amou a Jesus, designado nos quatro Evangelhos como «o filho de José».[1]
Os dois evangelistas que puseram em relevo a sua figura, Mateus e Lucas, narram pouco, mas o suficiente para fazer compreender o género de pai que era e a missão que a Providência lhe confiou.
Sabemos que era um humilde carpinteiro (cf. Mt 13, 55), desposado com Maria (cf. Mt 1, 18; Lc 1, 27); um «homem justo» (Mt 1, 19), sempre pronto a cumprir a vontade de Deus manifestada na sua Lei (cf. Lc 2, 22.27.39) e através de quatro sonhos (cf. Mt 1, 20; 2, 13.19.22). Depois duma viagem longa e cansativa de Nazaré a Belém, viu o Messias nascer num estábulo, «por não haver lugar para eles» (Lc 2, 7) noutro sítio. Foi testemunha da adoração dos pastores (cf. Lc 2, 8-20) e dos Magos (cf. Mt 2, 1-12), que representavam respetivamente o povo de Israel e os povos pagãos.
Teve a coragem de assumir a paternidade legal de Jesus, a quem deu o nome revelado pelo anjo: dar-Lhe-ás «o nome de Jesus, porque Ele salvará o povo dos seus pecados» (Mt 1, 21). Entre os povos antigos, como se sabe, dar o nome a uma pessoa ou a uma coisa significava conseguir um título de pertença, como fez Adão na narração do Génesis (cf. 2, 19-20).
No Templo, quarenta dias depois do nascimento, José – juntamente com a mãe – ofereceu o Menino ao Senhor e ouviu, surpreendido, a profecia que Simeão fez a respeito de Jesus e Maria (cf. Lc 2, 22-35). Para defender Jesus de Herodes, residiu como forasteiro no Egito (cf. Mt 2, 13-18). Regressado à pátria, viveu no recôndito da pequena e ignorada cidade de Nazaré, na Galileia – donde (dizia-se) «não sairá nenhum profeta» (Jo 7, 52), nem «poderá vir alguma coisa boa» (Jo 1, 46) –, longe de Belém, a sua cidade natal, e de Jerusalém, onde se erguia o Templo. Foi precisamente durante uma peregrinação a Jerusalém que perderam Jesus (tinha ele doze anos) e José e Maria, angustiados, andaram à sua procura, acabando por encontrá-Lo três dias mais tarde no Templo discutindo com os doutores da Lei (cf. Lc 2, 41-50).
Depois de Maria, a Mãe de Deus, nenhum Santo ocupa tanto espaço no magistério pontifício como José, seu esposo. Os meus antecessores aprofundaram a mensagem contida nos poucos dados transmitidos pelos Evangelhos para realçar ainda mais o seu papel central na história da salvação: o Beato Pio IX declarou-o «Padroeiro da Igreja Católica»,[2] o Venerável Pio XII apresentou-o como «Padroeiro dos operários»;[3] e São João Paulo II, como «Guardião do Redentor».[4] O povo invoca-o como «padroeiro da boa morte».[5]
Assim ao completarem-se 150 anos da sua declaração como Padroeiro da Igreja Católica, feita pelo Beato Pio IX a 8 de dezembro de 1870, gostaria de deixar «a boca – como diz Jesus – falar da abundância do coração» (Mt 12, 34), para partilhar convosco algumas reflexões pessoais sobre esta figura extraordinária, tão próxima da condição humana de cada um de nós. Tal desejo foi crescendo ao longo destes meses de pandemia em que pudemos experimentar, no meio da crise que nos afeta, que «as nossas vidas são tecidas e sustentadas por pessoas comuns (habitualmente esquecidas), que não aparecem nas manchetes dos jornais e revistas, nem nas grandes passarelas do último espetáculo, mas que hoje estão, sem dúvida, a escrever os acontecimentos decisivos da nossa história: médicos, enfermeiras e enfermeiros, trabalhadores dos supermercados, pessoal da limpeza, curadores, transportadores, forças policiais, voluntários, sacerdotes, religiosas e muitos – mas muitos – outros que compreenderam que ninguém se salva sozinho. (…) Quantas pessoas dia a dia exercitam a paciência e infundem esperança, tendo a peito não semear pânico, mas corresponsabilidade! Quantos pais, mães, avôs e avós, professores mostram às nossas crianças, com pequenos gestos do dia a dia, como enfrentar e atravessar uma crise, readaptando hábitos, levantando o olhar e estimulando a oração! Quantas pessoas rezam, se imolam e intercedem pelo bem de todos».[6] Todos podem encontrar em São José – o homem que passa despercebido, o homem da presença quotidiana discreta e escondida – um intercessor, um amparo e uma guia nos momentos de dificuldade. São José lembra-nos que todos aqueles que estão, aparentemente, escondidos ou em segundo plano, têm um protagonismo sem paralelo na história da salvação. A todos eles, dirijo uma palavra de reconhecimento e gratidão.
1. Pai amado
A grandeza de São José consiste no facto de ter sido o esposo de Maria e o pai de Jesus. Como tal, afirma São João Crisóstomo, «colocou-se inteiramente ao serviço do plano salvífico».[7]
São Paulo VI faz notar que a sua paternidade se exprimiu, concretamente, «em ter feito da sua vida um serviço, um sacrifício, ao mistério da encarnação e à conjunta missão redentora; em ter usado da autoridade legal que detinha sobre a Sagrada Família para lhe fazer dom total de si mesmo, da sua vida, do seu trabalho; em ter convertido a sua vocação humana ao amor doméstico na oblação sobre-humana de si mesmo, do seu coração e de todas as capacidades no amor colocado ao serviço do Messias nascido na sua casa».[8]
Por este seu papel na história da salvação, São José é um pai que foi sempre amado pelo povo cristão, como prova o facto de lhe terem sido dedicadas numerosas igrejas por todo o mundo; de muitos institutos religiosos, confrarias e grupos eclesiais se terem inspirado na sua espiritualidade e adotado o seu nome; e de, há séculos, se realizarem em sua honra várias representações sacras. Muitos Santos e Santas foram seus devotos apaixonados, entre os quais se conta Teresa de Ávila que o adotou como advogado e intercessor, recomendando-se instantemente a São José e recebendo todas as graças que lhe pedia; animada pela própria experiência, a Santa persuadia os outros a serem igualmente devotos dele.[9]
Em todo o manual de orações, há sempre alguma a São José. São-lhe dirigidas invocações especiais todas as quartas-feiras e, de forma particular, durante o mês de março inteiro, tradicionalmente dedicado a ele.[10]
A confiança do povo em São José está contida na expressão «ite ad Joseph», que faz referência ao período de carestia no Egito, quando o povo pedia pão ao Faraó e ele respondia: «Ide ter com José; fazei o que ele vos disser» (Gn 41, 55). Tratava-se de José, filho de Jacob, que acabara vendido, vítima da inveja dos seus irmãos (cf. Gn 37, 11-28); e posteriormente – segundo a narração bíblica – tornou-se vice-rei do Egito (cf. Gn 41, 41-44).
Enquanto descendente de David (cf. Mt 1, 16.20), de cuja raiz deveria nascer Jesus segundo a promessa feita ao rei pelo profeta Natan (cf. 2 Sam 7), e como esposo de Maria de Nazaré, São José constitui a dobradiça que une o Antigo e o Novo Testamento.
2. Pai na ternura
Dia após dia, José via Jesus crescer «em sabedoria, em estatura e em graça, diante de Deus e dos homens» (Lc 2, 52). Como o Senhor fez com Israel, assim ele ensinou Jesus a andar, segurando-O pela mão: era para Ele como o pai que levanta o filho contra o seu rosto, inclinava-se para Ele a fim de Lhe dar de comer (cf. Os 11, 3-4).
Jesus viu a ternura de Deus em José: «Como um pai se compadece dos filhos, assim o Senhor Se compadece dos que O temem» (Sal 103, 13).
Com certeza, José terá ouvido ressoar na sinagoga, durante a oração dos Salmos, que o Deus de Israel é um Deus de ternura,[11] que é bom para com todos e «a sua ternura repassa todas as suas obras» (Sal 145, 9).
A história da salvação realiza-se, «na esperança para além do que se podia esperar» (Rm 4, 18), através das nossas fraquezas. Muitas vezes pensamos que Deus conta apenas com a nossa parte boa e vitoriosa, quando, na verdade, a maior parte dos seus desígnios se cumpre através e apesar da nossa fraqueza. Isto mesmo permite a São Paulo dizer: «Para que não me enchesse de orgulho, foi-me dado um espinho na carne, um anjo de Satanás, para me ferir, a fim de que não me orgulhasse. A esse respeito, três vezes pedi ao Senhor que o afastasse de mim. Mas Ele respondeu-me: “Basta-te a minha graça, porque a força manifesta-se na fraqueza”» (2 Cor 12, 7-9).
Se esta é a perspetiva da economia da salvação, devemos aprender a aceitar, com profunda ternura, a nossa fraqueza.[12]
O Maligno faz-nos olhar para a nossa fragilidade com um juízo negativo, ao passo que o Espírito trá-la à luz com ternura. A ternura é a melhor forma para tocar o que há de frágil em nós. Muitas vezes o dedo em riste e o juízo que fazemos a respeito dos outros são sinal da incapacidade de acolher dentro de nós mesmos a nossa própria fraqueza, a nossa fragilidade. Só a ternura nos salvará da obra do Acusador (cf. Ap 12, 10). Por isso, é importante encontrar a Misericórdia de Deus, especialmente no sacramento da Reconciliação, fazendo uma experiência de verdade e ternura. Paradoxalmente, também o Maligno pode dizer-nos a verdade, mas, se o faz, é para nos condenar. Entretanto nós sabemos que a Verdade vinda de Deus não nos condena, mas acolhe-nos, abraça-nos, ampara-nos, perdoa-nos. A Verdade apresenta-se-nos sempre como o Pai misericordioso da parábola (cf. Lc 15, 11-32): vem ao nosso encontro, devolve-nos a dignidade, levanta-nos, ordena uma festa para nós, dando como motivo que «este meu filho estava morto e reviveu, estava perdido e foi encontrado» (Lc 15, 24).
A vontade de Deus, a sua história e o seu projeto passam também através da angústia de José. Assim ele ensina-nos que ter fé em Deus inclui também acreditar que Ele pode intervir inclusive através dos nossos medos, das nossas fragilidades, da nossa fraqueza. E ensina-nos que, no meio das tempestades da vida, não devemos ter medo de deixar a Deus o timão da nossa barca. Por vezes queremos controlar tudo, mas o olhar d’Ele vê sempre mais longe.
3. Pai na obediência
De forma análoga a quanto fez Deus com Maria, manifestando-Lhe o seu plano de salvação, também revelou a José os seus desígnios por meio de sonhos, que na Bíblia, como em todos os povos antigos, eram considerados um dos meios pelos quais Deus manifesta a sua vontade.[13]
José sente uma angústia imensa com a gravidez incompreensível de Maria: mas não quer «difamá-la»,[14] e decide «deixá-la secretamente» (Mt 1, 19). No primeiro sonho, o anjo ajuda-o a resolver o seu grave dilema: «Não temas receber Maria, tua esposa, pois o que Ela concebeu é obra do Espírito Santo. Ela dará à luz um filho, ao qual darás o nome de Jesus, porque Ele salvará o povo dos seus pecados» (Mt 1, 20-21). A sua resposta foi imediata: «Despertando do sono, José fez como lhe ordenou o anjo» (Mt 1, 24). Com a obediência, superou o seu drama e salvou Maria.
No segundo sonho, o anjo dá esta ordem a José: «Levanta-te, toma o menino e sua mãe, foge para o Egito e fica lá até que eu te avise, pois Herodes procurará o menino para o matar» (Mt 2, 13). José não hesitou em obedecer, sem se questionar sobre as dificuldades que encontraria: «E ele levantou-se de noite, tomou o menino e sua mãe e partiu para o Egito, permanecendo ali até à morte de Herodes» (Mt 2, 14-15).
No Egito, com confiança e paciência, José esperou do anjo o aviso prometido para voltar ao seu país. Logo que o mensageiro divino, num terceiro sonho – depois de o informar que tinham morrido aqueles que procuravam matar o menino –, lhe ordena que se levante, tome consigo o menino e sua mãe e regresse à terra de Israel (cf. Mt 2, 19-20), de novo obedece sem hesitar: «Levantando-se, ele tomou o menino e sua mãe e voltou para a terra de Israel» (Mt 2, 21).
Durante a viagem de regresso, porém, «tendo ouvido dizer que Arquelau reinava na Judeia, em lugar de Herodes, seu pai, teve medo de ir para lá. Então advertido em sonhos – e é a quarta vez que acontece – retirou-se para a região da Galileia e foi morar numa cidade chamada Nazaré» (Mt 2, 22-23).
Por sua vez, o evangelista Lucas refere que José enfrentou a longa e incómoda viagem de Nazaré a Belém, devido à lei do imperador César Augusto relativa ao recenseamento, que impunha a cada um registar-se na própria cidade de origem. E foi precisamente nesta circunstância que nasceu Jesus (cf. 2, 1-7), sendo inscrito no registo do Império, como todos os outros meninos.
São Lucas, de modo particular, tem o cuidado de assinalar que os pais de Jesus observavam todas as prescrições da Lei: os ritos da circuncisão de Jesus, da purificação de Maria depois do parto, da oferta do primogénito a Deus (cf. 2, 21-24).[15]
Em todas as circunstâncias da sua vida, José soube pronunciar o seu «fiat», como Maria na Anunciação e Jesus no Getsémani.
Na sua função de chefe de família, José ensinou Jesus a ser submisso aos pais (cf. Lc 2, 51), segundo o mandamento de Deus (cf. Ex 20, 12).
Ao longo da vida oculta em Nazaré, na escola de José, Ele aprendeu a fazer a vontade do Pai. Tal vontade torna-se o seu alimento diário (cf. Jo 4, 34). Mesmo no momento mais difícil da sua vida, vivido no Getsémani, preferiu que se cumprisse a vontade do Pai, e não a sua,[16] fazendo-Se «obediente até à morte (…) de cruz» (Flp 2, 8). Por isso, o autor da Carta aos Hebreus conclui que Jesus «aprendeu a obediência por aquilo que sofreu» (5, 8).
Vê-se, a partir de todas estas vicissitudes, que «José foi chamado por Deus para servir diretamente a Pessoa e a missão de Jesus, mediante o exercício da sua paternidade: desse modo, precisamente, ele coopera no grande mistério da Redenção, quando chega a plenitude dos tempos, e é verdadeiramente ministro da salvação».[17]
4. Pai no acolhimento
José acolhe Maria, sem colocar condições prévias. Confia nas palavras do anjo. «A nobreza do seu coração fá-lo subordinar à caridade aquilo que aprendera com a lei; e hoje, neste mundo onde é patente a violência psicológica, verbal e física contra a mulher, José apresenta-se como figura de homem respeitoso, delicado que, mesmo não dispondo de todas as informações, se decide pela honra, dignidade e vida de Maria. E, na sua dúvida sobre o melhor a fazer, Deus ajudou-o a escolher iluminando o seu discernimento».[18]
Na nossa vida, muitas vezes sucedem coisas, cujo significado não entendemos. E a nossa primeira reação, frequentemente, é de desilusão e revolta. Diversamente, José deixa de lado os seus raciocínios para dar lugar ao que sucede e, por mais misterioso que possa aparecer a seus olhos, acolhe-o, assume a sua responsabilidade e reconcilia-se com a própria história. Se não nos reconciliarmos com a nossa história, não conseguiremos dar nem mais um passo, porque ficaremos sempre reféns das nossas expectativas e consequentes desilusões.
A vida espiritual que José nos mostra, não é um caminho que explica, mas um caminho que acolhe. Só a partir deste acolhimento, desta reconciliação, é possível intuir também uma história mais excelsa, um significado mais profundo. Parecem ecoar as palavras inflamadas de Job, quando, desafiado pela esposa a rebelar-se contra todo o mal que lhe está a acontecer, responde: «Se recebemos os bens da mão de Deus, não aceitaremos também os males?» (Job 2, 10).
José não é um homem resignado passivamente. O seu protagonismo é corajoso e forte. O acolhimento é um modo pelo qual se manifesta, na nossa vida, o dom da fortaleza que nos vem do Espírito Santo. Só o Senhor nos pode dar força para acolher a vida como ela é, aceitando até mesmo as suas contradições, imprevistos e desilusões.
A vinda de Jesus ao nosso meio é um dom do Pai, para que cada um se reconcilie com a carne da sua história, mesmo quando não a compreende totalmente.
O que Deus disse ao nosso Santo – «José, Filho de David, não temas…» (Mt 1, 20) –, parece repeti-lo a nós também: «Não tenhais medo!» É necessário deixar de lado a ira e a desilusão para – movidos não por qualquer resignação mundana, mas com uma fortaleza cheia de esperança – dar lugar àquilo que não escolhemos e, todavia, existe. Acolher a vida desta maneira introduz-nos num significado oculto. A vida de cada um de nós pode recomeçar miraculosamente, se encontrarmos a coragem de a viver segundo aquilo que nos indica o Evangelho. E não importa se tudo parece ter tomado já uma direção errada, e se algumas coisas já são irreversíveis. Deus pode fazer brotar flores no meio das rochas. E mesmo que o nosso coração nos censure de qualquer coisa, Ele «é maior que o nosso coração e conhece tudo» (1 Jo 3, 20).
Reaparece aqui o realismo cristão, que não deita fora nada do que existe. A realidade, na sua misteriosa persistência e complexidade, é portadora dum sentido da existência com as suas luzes e sombras. É isto que leva o apóstolo Paulo a dizer: «Sabemos que tudo contribui para o bem daqueles que amam a Deus» (Rm 8, 28). E Santo Agostinho acrescenta: tudo, «incluindo aquilo que é chamado mal».[19] Nesta perspetiva global, a fé dá significado a todos os acontecimentos, sejam eles felizes ou tristes.
Assim, longe de nós pensar que crer signifique encontrar fáceis soluções consoladoras. Antes, pelo contrário, a fé que Cristo nos ensinou é a que vemos em São José, que não procura atalhos, mas enfrenta de olhos abertos aquilo que lhe acontece, assumindo pessoalmente a responsabilidade por isso.
O acolhimento de José convida-nos a receber os outros, sem exclusões, tal como são, reservando uma predileção especial pelos mais frágeis, porque Deus escolhe o que é frágil (cf. 1 Cor 1, 27), é «pai dos órfãos e defensor das viúvas» (Sal 68, 6) e manda amar o forasteiro.[20] Posso imaginar ter sido do procedimento de José que Jesus tirou inspiração para a parábola do filho pródigo e do pai misericordioso (cf. Lc 15, 11-32).
5. Pai com coragem criativa
Se a primeira etapa de toda a verdadeira cura interior é acolher a própria história, ou seja, dar espaço no nosso íntimo até mesmo àquilo que não escolhemos na nossa vida, convém acrescentar outra caraterística importante: a coragem criativa. Esta vem ao de cima sobretudo quando se encontram dificuldades. Com efeito, perante uma dificuldade, pode-se estacar e abandonar o campo, ou tentar vencê-la de algum modo. Às vezes, são precisamente as dificuldades que fazem sair de cada um de nós recursos que nem pensávamos ter.
Frequentemente, ao ler os «Evangelhos da Infância», apetece-nos perguntar por que motivo Deus não interveio de forma direta e clara. Porque Deus intervém por meio de acontecimentos e pessoas: José é o homem por meio de quem Deus cuida dos primórdios da história da redenção; é o verdadeiro «milagre», pelo qual Deus salva o Menino e sua mãe. O Céu intervém, confiando na coragem criativa deste homem que, tendo chegado a Belém e não encontrando alojamento onde Maria possa dar à luz, arranja um estábulo e prepara-o de modo a tornar-se o lugar mais acolhedor possível para o Filho de Deus, que vem ao mundo (cf. Lc 2, 6-7). Face ao perigo iminente de Herodes, que quer matar o Menino, de novo em sonhos José é alertado para O defender e, no coração da noite, organiza a fuga para o Egito (cf. Mt 2, 13-14).
Numa leitura superficial destas narrações, a impressão que se tem é a de que o mundo está à mercê dos fortes e poderosos, mas a «boa notícia» do Evangelho consiste precisamente em mostrar como, não obstante a arrogância e a violência dos dominadores terrenos, Deus encontra sempre a forma de realizar o seu plano de salvação. Às vezes também a nossa vida parece à mercê dos poderes fortes, mas o Evangelho diz-nos que Deus consegue sempre salvar aquilo que conta, desde que usemos a mesma coragem criativa do carpinteiro de Nazaré, o qual sabe transformar um problema numa oportunidade, antepondo sempre a sua confiança na Providência.
Se, em determinadas situações, parece que Deus não nos ajuda, isso não significa que nos tenha abandonado, mas que confia em nós com aquilo que podemos projetar, inventar, encontrar.
Trata-se da mesma coragem criativa demonstrada pelos amigos do paralítico que, desejando levá-lo à presença de Jesus, fizeram-no descer pelo teto (cf. Lc 5, 17-26). A dificuldade não deteve a audácia e obstinação daqueles amigos. Estavam convencidos de que Jesus podia curar o doente e, «não achando por onde introduzi-lo, devido à multidão, subiram ao teto e, através das telhas, desceram-no com a enxerga, para o meio, em frente de Jesus. Vendo a fé daqueles homens, disse: “Homem, os teus pecados estão perdoados”» (5, 19-20). Jesus reconhece a fé criativa com que aqueles homens procuram trazer-Lhe o seu amigo doente.
O Evangelho não dá informações relativas ao tempo que Maria, José e o Menino permaneceram no Egito. Mas certamente tiveram de comer, encontrar uma casa, um emprego. Não é preciso muita imaginação para colmatar o silêncio do Evangelho a tal respeito. A Sagrada Família teve que enfrentar problemas concretos, como todas as outras famílias, como muitos dos nossos irmãos migrantes que ainda hoje arriscam a vida acossados pelas desventuras e a fome. Neste sentido, creio que São José seja verdadeiramente um padroeiro especial para quantos têm que deixar a sua terra por causa das guerras, do ódio, da perseguição e da miséria.
No fim de cada acontecimento que tem José como protagonista, o Evangelho observa que ele se levanta, toma consigo o Menino e sua mãe e faz o que Deus lhe ordenou (cf. Mt 1, 24; 2, 14.21). Com efeito, Jesus e Maria, sua mãe, são o tesouro mais precioso da nossa fé.[21]
No plano da salvação, o Filho não pode ser separado da Mãe, d’Aquela que «avançou pelo caminho da fé, mantendo fielmente a união com seu Filho até à cruz».[22]
Sempre nos devemos interrogar se estamos a proteger com todas as nossas forças Jesus e Maria, que misteriosamente estão confiados à nossa responsabilidade, ao nosso cuidado, à nossa guarda. O Filho do Todo-Poderoso vem ao mundo, assumindo uma condição de grande fragilidade. Necessita de José para ser defendido, protegido, cuidado e criado. Deus confia neste homem, e o mesmo faz Maria que encontra em José aquele que não só Lhe quer salvar a vida, mas sempre A sustentará a Ela e ao Menino. Neste sentido, São José não pode deixar de ser o Guardião da Igreja, porque a Igreja é o prolongamento do Corpo de Cristo na história e ao mesmo tempo, na maternidade da Igreja, espelha-se a maternidade de Maria.[23] José, continuando a proteger a Igreja, continua a proteger o Menino e sua mãe; e também nós, amando a Igreja, continuamos a amar o Menino e sua mãe.
Este Menino é Aquele que dirá: «Sempre que fizestes isto a um destes meus irmãos mais pequeninos, a Mim mesmo o fizestes» (Mt 25, 40). Assim, todo o necessitado, pobre, atribulado, moribundo, forasteiro, recluso, doente são «o Menino» que José continua a guardar. Por isso mesmo, São José é invocado como protetor dos miseráveis, necessitados, exilados, aflitos, pobres, moribundos. E pela mesma razão a Igreja não pode deixar de amar em primeiro lugar os últimos, porque Jesus conferiu-lhes a preferência ao identificar-Se pessoalmente com eles. De José, devemos aprender o mesmo cuidado e responsabilidade: amar o Menino e sua mãe; amar os Sacramentos e a caridade; amar a Igreja e os pobres. Cada uma destas realidades é sempre o Menino e sua mãe.
6. Pai trabalhador
Um aspeto que carateriza São José – e tem sido evidenciado desde os dias da primeira encíclica social, a Rerum novarum de Leão XIII – é a sua relação com o trabalho. São José era um carpinteiro que trabalhou honestamente para garantir o sustento da sua família. Com ele, Jesus aprendeu o valor, a dignidade e a alegria do que significa comer o pão fruto do próprio trabalho.
Neste nosso tempo em que o trabalho parece ter voltado a constituir uma urgente questão social e o desemprego atinge por vezes níveis impressionantes, mesmo em países onde se experimentou durante várias décadas um certo bem-estar, é necessário tomar renovada consciência do significado do trabalho que dignifica e do qual o nosso Santo é patrono e exemplo.
O trabalho torna-se participação na própria obra da salvação, oportunidade para apressar a vinda do Reino, desenvolver as próprias potencialidades e qualidades, colocando-as ao serviço da sociedade e da comunhão; o trabalho torna-se uma oportunidade de realização não só para o próprio trabalhador, mas sobretudo para aquele núcleo originário da sociedade que é a família. Uma família onde falte o trabalho está mais exposta a dificuldades, tensões, fraturas e até mesmo à desesperada e desesperadora tentação da dissolução. Como poderemos falar da dignidade humana sem nos empenharmos por que todos, e cada um, tenham a possibilidade dum digno sustento?
A pessoa que trabalha, seja qual for a sua tarefa, colabora com o próprio Deus, torna-se em certa medida criadora do mundo que a rodeia. A crise do nosso tempo, que é económica, social, cultural e espiritual, pode constituir para todos um apelo a redescobrir o valor, a importância e a necessidade do trabalho para dar origem a uma nova «normalidade», em que ninguém seja excluído. O trabalho de São José lembra-nos que o próprio Deus feito homem não desdenhou o trabalho. A perda de trabalho que afeta tantos irmãos e irmãs e tem aumentado nos últimos meses devido à pandemia de Covid-19, deve ser um apelo a revermos as nossas prioridades. Peçamos a São José Operário que encontremos vias onde nos possamos comprometer até se dizer: nenhum jovem, nenhuma pessoa, nenhuma família sem trabalho!
7. Pai na sombra
O escritor polaco Jan Dobraczyński, no seu livro A Sombra do Pai,[24] narrou a vida de São José em forma de romance. Com a sugestiva imagem da sombra, apresenta a figura de José, que é, para Jesus, a sombra na terra do Pai celeste: guarda-O, protege-O, segue os seus passos sem nunca se afastar d’Ele. Lembra o que Moisés dizia a Israel: «Neste deserto (…) vistes o Senhor, vosso Deus, conduzir-vos como um pai conduz o seu filho, durante toda a caminhada que fizeste até chegar a este lugar» (Dt 1, 31). Assim José exerceu a paternidade durante toda a sua vida.[25]
Não se nasce pai, torna-se tal... E não se torna pai, apenas porque se colocou no mundo um filho, mas porque se cuida responsavelmente dele. Sempre que alguém assume a responsabilidade pela vida de outrem, em certo sentido exercita a paternidade a seu respeito.
Na sociedade atual, muitas vezes os filhos parecem ser órfãos de pai. A própria Igreja de hoje precisa de pais. Continua atual a advertência dirigida por São Paulo aos Coríntios: «Ainda que tivésseis dez mil pedagogos em Cristo, não teríeis muitos pais» (1 Cor 4, 15); e cada sacerdote ou bispo deveria poder acrescentar como o Apóstolo: «Fui eu que vos gerei em Cristo Jesus, pelo Evangelho» (4, 15). E aos Gálatas diz: «Meus filhos, por quem sinto outra vez dores de parto, até que Cristo se forme entre vós!» (Gl 4, 19).
Ser pai significa introduzir o filho na experiência da vida, na realidade. Não segurá-lo, nem prendê-lo, nem subjugá-lo, mas torná-lo capaz de opções, de liberdade, de partir. Talvez seja por isso que a tradição, referindo-se a José, ao lado do apelido de pai colocou também o de «castíssimo». Não se trata duma indicação meramente afetiva, mas é a síntese duma atitude que exprime o contrário da posse. A castidade é a liberdade da posse em todos os campos da vida. Um amor só é verdadeiramente tal, quando é casto. O amor que quer possuir, acaba sempre por se tornar perigoso: prende, sufoca, torna infeliz. O próprio Deus amou o homem com amor casto, deixando-o livre inclusive de errar e opor-se a Ele. A lógica do amor é sempre uma lógica de liberdade, e José soube amar de maneira extraordinariamente livre. Nunca se colocou a si mesmo no centro; soube descentralizar-se, colocar Maria e Jesus no centro da sua vida.
A felicidade de José não se situa na lógica do sacrifício de si mesmo, mas na lógica do dom de si mesmo. Naquele homem, nunca se nota frustração, mas apenas confiança. O seu silêncio persistente não inclui lamentações, mas sempre gestos concretos de confiança. O mundo precisa de pais, rejeita os dominadores, isto é, rejeita quem quer usar a posse do outro para preencher o seu próprio vazio; rejeita aqueles que confundem autoridade com autoritarismo, serviço com servilismo, confronto com opressão, caridade com assistencialismo, força com destruição. Toda a verdadeira vocação nasce do dom de si mesmo, que é a maturação do simples sacrifício. Mesmo no sacerdócio e na vida consagrada, requer-se este género de maturidade. Quando uma vocação matrimonial, celibatária ou virginal não chega à maturação do dom de si mesmo, detendo-se apenas na lógica do sacrifício, então, em vez de significar a beleza e a alegria do amor, corre o risco de exprimir infelicidade, tristeza e frustração.
A paternidade, que renuncia à tentação de decidir a vida dos filhos, sempre abre espaços para o inédito. Cada filho traz sempre consigo um mistério, algo de inédito que só pode ser revelado com a ajuda dum pai que respeite a sua liberdade. Um pai sente que completou a sua ação educativa e viveu plenamente a paternidade, apenas quando se tornou «inútil», quando vê que o filho se torna autónomo e caminha sozinho pelas sendas da vida, quando se coloca na situação de José, que sempre soube que aquele Menino não era seu: fora simplesmente confiado aos seus cuidados. No fundo, é isto mesmo que dá a entender Jesus quando afirma: «Na terra, a ninguém chameis “Pai”, porque um só é o vosso “Pai”, aquele que está no Céu» (Mt 23, 9).
Todas as vezes que nos encontramos na condição de exercitar a paternidade, devemos lembrar-nos que nunca é exercício de posse, mas «sinal» que remete para uma paternidade mais alta. Em certo sentido, estamos sempre todos na condição de José: sombra do único Pai celeste, que «faz com que o sol se levante sobre os bons e os maus, e faz cair a chuva sobre os justos e os pecadores» (Mt 5, 45); e sombra que acompanha o Filho.
*.*.*
«Levanta-te, toma o menino e sua mãe» (Mt 2, 13): diz o anjo da parte de Deus a são José.
O objetivo desta carta apostólica é aumentar o amor por este grande Santo, para nos sentirmos impelidos a implorar a sua intercessão e para imitarmos as suas virtudes e o seu desvelo.
Com efeito, a missão específica dos Santos não é apenas a de conceder milagres e graças, mas de interceder por nós diante de Deus, como fizeram Abraão[26] e Moisés,[27] como faz Jesus, «único mediador» (1 Tm 2, 5), que junto de Deus Pai é o nosso «advogado» (1 Jo 2, 1), «vivo para sempre, a fim de interceder por [nós]» (Heb 7, 25; cf. Rm 8, 34).
Os Santos ajudam todos os fiéis «a tender à santidade e perfeição do próprio estado».[28] A sua vida é uma prova concreta de que é possível viver o Evangelho.
À semelhança de Jesus que disse: «Aprendei de Mim, porque sou manso e humilde de coração» (Mt 11, 29), também os Santos são exemplos de vida que havemos de imitar. A isto nos exorta explicitamente São Paulo: «Rogo-vos, pois, que sejais meus imitadores» (1 Cor 4, 16).[29] O mesmo nos diz São José através do seu silêncio eloquente.
Estimulado com o exemplo de tantos Santos e Santas diante dos olhos, Santo Agostinho interrogava-se: «Então não poderás fazer o que estes e estas fizeram?» E, assim, chegou à conversão definitiva exclamando: «Tarde Vos amei, ó Beleza tão antiga e tão nova, tarde Vos amei!»[30]
Só nos resta implorar, de São José, a graça das graças: a nossa conversão.
Dirijamos-lhe a nossa oração:
Salve, guardião do Redentor
e esposo da Virgem Maria!
A vós, Deus confiou o seu Filho;
em vós, Maria depositou a sua confiança;
convosco, Cristo tornou-Se homem.
Ó Bem-aventurado José, mostrai-vos pai também para nós
e guiai-nos no caminho da vida.
Alcançai-nos graça, misericórdia e coragem,
e defendei-nos de todo o mal. Amen.
Roma, em São João de Latrão, na Solenidade da Imaculada Conceição da Bem-Aventurada Virgem Maria, 8 de dezembro do ano de 2020, oitavo do meu pontificado.
FRANCISCO
_____________________
[1] Lucas 4, 22; João 6, 42; cf. Mateus 13, 55; Marcos 6, 3.
[2] Sacra Congr. dos Ritos, Quemadmodum Deus (8 de dezembro de 1870): ASS 6 (1870-71), 194.
[3] Cf. Discurso às Associações Cristãs dos Trabalhadores Italianos (ACLI) por ocasião da Solenidade de São José Operário (1 de maio de 1955): AAS 47 (1955), 406.
[4] Cf. Exort. ap. Redemptoris custos (15 de agosto de 1989): AAS 82 (1990), 5-34.
[5] Catecismo da Igreja Católica, 1014.
[6] Francisco, Meditação em tempo de pandemia (27 de março de 2020): L’Osservatore Romano (29/III/2020), 10.
[7] Homiliæ in Matthæum, V, 3: PG 57, 58.
[8] Homilia (19 de março de 1966): Insegnamenti di Paolo VI, IV (1966), 110.
[9] Cf. Livro da Vida, 6, 6-8.
[10] Todos os dias, há mais de quarenta anos, depois das Laudes, recito uma oração a São José tirada dum livro francês de devoções, do século XIX, da Congregação das Religiosas de Jesus e Maria, que expressa devoção, confiança e um certo desafio a São José: «Glorioso Patriarca São José, cujo poder consegue tornar possíveis as coisas impossíveis, vinde em minha ajuda nestes momentos de angústia e dificuldade. Tomai sob a vossa proteção as situações tão graves e difíceis que Vos confio, para que obtenham uma solução feliz. Meu amado Pai, toda a minha confiança está colocada em Vós. Que não se diga que eu Vos invoquei em vão, e dado que tudo podeis junto de Jesus e Maria, mostrai-me que a vossa bondade é tão grande como o vosso poder. Amen».
[11] Cf. Deuteronómio 4, 31; Salmo 69, 17; 78, 38; 86, 5; 111, 4; 116, 5; Jeremias 31, 20.
[12] Cf. Francisco, Exort. ap. Evangelii gaudium (24 de novembro de 2013), 88; 288: AAS 105 (2013) 1057; 1136-1137.
[13] Cf. Génesis 20, 3; 28, 12; 31, 11.24; 40, 8; 41, 1-32; Números 12, 6; I Samuel 3, 3-10; Daniel 2; 4; Job 33, 15.
[14] Também nestes casos, estava prevista a lapidação (cf. Deuteronómio 22, 20-21).
[15] Cf. Levítico 12, 1-8; Êxodo 13, 2.
[16] Cf. Mateus 26, 39; Marcos 14, 36; Lucas 22, 42.
[17] São João Paulo II, Exort. ap. Redemptoris custos (15 de agosto de 1989), 8: AAS 82 (1990), 14.
[18] Francisco, Homilia na Santa Missa com Beatificações (Villavicencio – Colômbia, 8 de setembro de 2017): AAS 109 (2017), 1061.
[19] «… etiam illud quod malum dicitur», in Enchiridion de fide, spe et caritate, 3.11: PL 40, 236.
[20] Cf. Deuteronómio 10, 19; Êxodo 22, 20-22; Lucas 10, 29-37.
[21] Cf. Sacra Congr. dos Ritos, Quemadmodum Deus (8 de dezembro de 1870): ASS 6 (1870-71), 193; Beato Pio IX, Carta ap. Inclytum Patriarcham (7 de julho de 1871): ASS 6 (1870-71), 324-327.
[22] Conc. Ecum. Vat. II, Const. dogm. Lumen gentium, 58.
[23] Cf. Catecismo da Igreja Católica, 963-970.
[24] Edição original: Cień Ojca (Varsóvia 1977).
[25] Cf. São João Paulo II, Exort. ap. Redemptoris custos (15 de agosto de 1989), 7-8: AAS 82 (1990), 12-16.
[26] Cf. Génesis 18, 23-32.
[27] Cf. Êxodo 17, 8-13; 32, 30-35.
[28] Conc. Ecum. Vat. II, Const. dogm. Lumen gentium, 42.
[29] Cf. I Coríntios 11, 1; Filipenses 3, 17; I Tessalonicenses 1, 6.
[30] Confissões, 8,11,17; 10,27,38: PL 32, 761; 795.
[01509-PO.01] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua polacca
LIST APOSTOLSKI
PATRIS CORDE
OJCA ŚWIĘTEGO FRANCISZKA
Z OKAZJI 150. ROCZNICY
OGŁOSZENIA ŚWIĘTEGO JÓZEFA
PATRONEM KOŚCIOŁA POWSZECHNEGO
Patris corde - ojcowskim sercem: tak Józef umiłował Jezusa, nazywanego we wszystkich czterech Ewangeliach „synem Józefa”[1].
Mateusz i Łukasz, dwaj ewangeliści, którzy ukazali jego postać, niewiele mówią, ale wystarczająco dużo, aby zrozumieć, jakim był ojcem oraz misję powierzoną mu przez Opatrzność.
Wiemy, że był skromnym cieślą (por. Mt 13, 55), zaręczonym z dziewicą Maryją (por. Mt 1, 18; Łk 1, 27); „człowiekiem sprawiedliwym” (Mt 1, 19), zawsze gotowym na wypełnianie woli Boga objawiającej się w Jego Prawie (por. Łk 2, 22.27.39) i w czterech snach (por. Mt 1, 20; 2, 13.19.22). Po długiej i żmudnej podróży z Nazaretu do Betlejem, zobaczył Mesjasza rodzącego się w stajni, bo gdzie indziej „nie było dla nich miejsca” (Łk 2, 7). Był świadkiem oddawania Jemu czci przez pasterzy (por. Łk 2, 8-20) i Magów (por. Mt 2, 1-12), którzy reprezentowali odpowiednio lud Izraela i ludy pogańskie.
Miał odwagę podjąć się prawnego ojcostwa Jezusa, któremu nadał imię objawione przez Anioła: „nadasz imię Jezus, On bowiem zbawi swój lud od jego grzechów” (Mt 1, 21). Jak wiadomo, wśród ludów starożytnych nadawanie imienia osobie lub rzeczy oznaczało nabycie ich na własność, jak to uczynił Adam w opisie Księgi Rodzaju (por. 2, 19-20).
W świątyni, czterdzieści dni po narodzeniu, Józef wraz z Matką ofiarował Dziecię Panu i ze zdumieniem wysłuchał proroctwa, które Symeon wygłosił w odniesieniu do Jezusa i Maryi (por. Łk 2, 22-35). Aby bronić Jezusa przed Herodem, zamieszkał w Egipcie jako obcy (por. Mt 2, 13-18). Po powrocie do ojczyzny zamieszkał w ukryciu, w małej, nieznanej wiosce Nazaret w Galilei – skąd, jak mówiono, „nie powstaje żaden prorok” i „nie może być nic dobrego” (por. J 7, 52; 1, 46) – daleko od Betlejem, swego miasta rodzinnego, i od Jerozolimy, gdzie wznosiła się świątynia. Kiedy właśnie podczas pielgrzymki do Jerozolimy zgubili dwunastoletniego Jezusa, On i Maryja szukali Go w udręce i znaleźli w świątyni, kiedy rozmawiał z nauczycielami Prawa (por. Łk 2, 41-50).
Po Maryi, Matce Bożej, żaden święty nie zajmuje w Magisterium papieskim tyle miejsca, co Józef, Jej oblubieniec. Moi poprzednicy pogłębili orędzie zawarte w kilku danych przekazanych przez Ewangelię, aby wyraźniej podkreślić jego centralną rolę w historii zbawienia: błogosławiony Pius IX ogłosił go «Patronem Kościoła katolickiego»[2], czcigodny Pius XII przedstawił go jako «Patrona robotników»[3] a święty Jan Paweł II jako «Opiekuna Zbawiciela»[4]. Ludzie przyzywają go jako «patrona dobrej śmierci»[5].
Dlatego też, w 150. rocznicę ogłoszenia go przez bł. Piusa IX, 8 grudnia 1870 r., Patronem Kościoła Katolickiego, chciałbym podzielić się z wami kilkoma osobistymi refleksjami na temat tej niezwykłej postaci, tak bliskiej ludzkiej kondycji każdego z nas, aby – jak mówi Jezus – „usta wyrażały to, co obfituje w sercu” (por. Mt 12, 34). Pragnienie to narastało w ciągu minionych miesięcy pandemii, w których możemy doświadczyć, pośród dotykającego nas kryzysu, że „nasze życia są tkane i wpierane przez zwykłe osoby – zazwyczaj zapominane – które nie występują w tytułach gazet i magazynów, ani na wielkiej scenie ostatniego show, lecz niewątpliwie dziś zapisują decydujące wydarzenia na kartach naszej historii – są nimi lekarze, pielęgniarki i pielęgniarze, pracownicy supermarketów, sprzątacze, opiekunowie i opiekunki, kierowcy samochodów dostawczych, siły porządkowe, wolontariusze, kapłani, zakonnice i wielu innych, którzy zrozumieli, że nikt nie ratuje się sam. [...] Ileż osób codziennie praktykuje cierpliwość i napełnia innych nadzieją, starając się nie siać paniki, ale współodpowiedzialność. Iluż ojców, matek, dziadków i babć, nauczycieli pokazuje naszym dzieciom, poprzez małe, codzienne gesty, jak stawiać czoło kryzysowi i go pokonywać, dostosowując zwyczaje, podnosząc wzrok i zachęcając do modlitwy. Ileż osób modli się, ofiarowuje i wstawia w intencji dobra wszystkich”[6]. Wszyscy mogą znaleźć w św. Józefie, mężu, który przechodzi niezauważony, człowieku codziennej obecności, dyskretnej i ukrytej, orędownika, pomocnika i przewodnika w chwilach trudnych. Święty Józef przypomina nam, że ci wszyscy, którzy są pozornie ukryci lub na „drugiej linii”, mają wyjątkowy czynny udział w historii zbawienia. Im wszystkim należy się słowo uznania i wdzięczności.
1. Ojciec umiłowany
Wielkość św. Józefa polega na tym, że był on oblubieńcem Maryi i ojcem Jezusa. Jako taki „stał się sługą powszechnego zamysłu zbawczego”, jak mówi św. Jan Chryzostom[7].
Św. Paweł VI zauważa, że jego ojcostwo wyrażało się konkretnie w tym, że „uczynił ze swego życia służbę, złożył je w ofierze tajemnicy wcielenia i związanej z nią odkupieńczej misji; posłużył się władzą, przysługującą mu prawnie w świętej Rodzinie, aby złożyć całkowity dar z siebie, ze swego życia, ze swej pracy; przekształcił swe ludzkie powołanie do rodzinnej miłości w ponadludzką ofiarę z siebie, ze swego serca i wszystkich zdolności, w miłość oddaną na służbę Mesjaszowi, wzrastającemu w jego domu”[8].
Ze względu na tę rolę w historii zbawienia, św. Józef jest ojcem, który zawsze był miłowany przez lud chrześcijański, o czym świadczy fakt, że na całym świecie poświęcono mu wiele kościołów; że wiele instytutów zakonnych, bractw i grup kościelnych inspiruje się jego duchowością i nosi jego imię; że od wieków odbywają się na jego cześć różne święte misteria. Wielu świętych było jego gorliwymi czcicielami, wśród nich Teresa z Avila, która przyjęła go jako swego adwokata i pośrednika, często powierzała mu siebie i otrzymywała wszystkie łaski, o które prosiła; zainspirowana swoim doświadczeniem, Święta zachęcała innych do tej pobożności[9].
W każdej książeczce do nabożeństwa można znaleźć jakąś modlitwę do św. Józefa. Szczególne wezwania kierowane są do niego w każdą środę, a zwłaszcza przez cały marzec, miesiąc tradycyjnie jemu poświęcony[10].
Ufność ludu do św. Józefa streszcza się w wyrażeniu: „Ite ad Ioseph”, które odwołuje się do czasu głodu w Egipcie, kiedy ludzie prosili faraona o chleb, a on odpowiedział: „Udajcie się do Józefa i, co on wam powie, czyńcie” (Rdz 41, 55). Chodziło o Józefa, syna Jakuba, który został sprzedany z zazdrości przez swoich braci (por. Rdz 37, 11-28) i który – według narracji biblijnej – stał się później rządcą Egiptu (por. Rdz 41, 41-44).
Jako potomek Dawida (por. Mt 1, 16-20), z którego korzenia miał się narodzić Jezus, zgodnie z obietnicą daną Dawidowi przez proroka Natana (por. 2 Sm 7), oraz jako oblubieniec Maryi z Nazaretu, święty Józef jest łącznikiem między Starym a Nowym Testamentem.
2. Ojciec czuły
Józef widział, jak Jezus wzrastał z dnia na dzień „w mądrości, w latach i w łasce u Boga i u ludzi” (Łk 2, 52). Podobnie jak Pan uczynił to z Izraelem, tak i on „uczył Go chodzić, biorąc Go za rękę: był dla Niego, jak ojciec, który podnosi dziecko do policzka, pochyla się nad nim, aby go nakarmić” (por. Oz 11, 3-4).
Jezus widział w Józefie czułość Boga: „Jak się lituje ojciec nad synami, tak Pan się lituje nad tymi, co się Go boją” (Ps 103,13).
Józef z pewnością słyszał jak rozbrzmiewały w synagodze, podczas modlitwy psalmami słowa, że Bóg Izraela jest Bogiem czułości[11], że jest dobry dla wszystkich a „Jego miłosierdzie ogarnia wszystkie Jego dzieła” (Ps 145, 9).
Historia zbawienia wypełnia się „w nadziei, wbrew nadziei” (por. Rz 4, 18) poprzez nasze słabości. Zbyt często myślimy, że Bóg polega tylko na tym, co w nas dobre i zwycięskie, podczas gdy w istocie większość Jego planów jest realizowana poprzez nasze słabości i pomimo nich. Paweł mówi: „Aby zaś nie wynosił mnie zbytnio ogrom objawień, dany mi został oścień dla ciała, wysłannik szatana, aby mnie policzkował – żebym się nie unosił pychą. Dlatego trzykrotnie prosiłem Pana, aby odszedł ode mnie, lecz [Pan] mi powiedział: «Wystarczy ci mojej łaski. Moc bowiem w słabości się doskonali»” (2 Kor 12, 7-9).
Jeśli taka jest perspektywa ekonomii zbawienia, to musimy nauczyć się akceptować naszą słabość z głęboką czułością[12].
Zły sprawia, że patrzymy na naszą kruchość z osądem negatywnym, podczas gdy Duch z czułością wydobywa ją na światło dzienne. Czułość jest najlepszym sposobem dotykania tego, co w nas kruche. Wskazywanie palcem i osąd, który stosujemy wobec innych, są bardzo często oznaką naszej niezdolności do zaakceptowania własnej słabości, własnej kruchości. Jedynie czułość uchroni nas od dzieła oskarżyciela (por. Ap 12, 10). Dlatego ważne jest spotkanie z Bożym miłosierdziem, zwłaszcza w sakramencie Pojednania, doświadczając prawdy i czułości. Paradoksalnie, nawet Zły może powiedzieć nam prawdę, ale czyni to, aby nas potępić. Wiemy jednak, że Prawda, która pochodzi od Boga, nas nie potępia, lecz akceptuje nas, obejmuje, wspiera, przebacza nam. Prawda zawsze ukazuje się nam jako miłosierny ojciec z przypowieści (Łk 15, 11-32): wychodzi nam na spotkanie, przywraca nam godność, stawia nas z powrotem na nogi, wyprawia dla nas ucztę, z uzasadnieniem: „ten mój syn był umarły, a znów ożył; zaginął, a odnalazł się” (w. 24).
Także poprzez niepokój Józefa przenika wola Boga, Jego historia, Jego plan. W ten sposób Józef uczy nas, że posiadanie wiary w Boga obejmuje również wiarę, że może On działać także poprzez nasze lęki, nasze ułomności, nasze słabości. Uczy nas także, że pośród życiowych burz nie powinniśmy bać się oddać Bogu ster naszej łodzi. Czasami chcielibyśmy mieć wszystko pod kontrolą, ale On zawsze ma szersze spojrzenie.
3. Ojciec posłuszny
Tak jak Bóg uczynił to z Maryją, gdy objawił Jej swój plan zbawienia, podobnie objawił swoje plany Józefowi poprzez sny, które w Biblii, jak i u wszystkich ludów starożytnych, były uważane za jeden ze środków, za pomocą których Bóg ujawnia swoją wolę[13].
Józef jest głęboko zaniepokojony w obliczu niewytłumaczalnej ciąży Maryi: nie chce Jej „oskarżać publicznie”[14], ale postanawia „oddalić Ją potajemnie” (Mt 1, 19). W pierwszym śnie anioł pomaga mu rozwiązać jego poważny dylemat: „Nie bój się wziąć do siebie Maryi, twej Małżonki; albowiem z Ducha Świętego jest to, co się w Niej poczęło. Porodzi Syna, któremu nadasz imię Jezus, On bowiem zbawi swój lud od jego grzechów” (Mt 1, 20-21). Jego reakcja była natychmiastowa: „Zbudziwszy się ze snu, Józef uczynił tak, jak mu polecił anioł Pański” (Mt 1, 24). Dzięki posłuszeństwu przezwyciężył swój dramat i ocalił Maryję.
W drugim śnie anioł nakazuje Józefowi: „Wstań, weź Dziecię i Jego Matkę i uchodź do Egiptu; pozostań tam, aż ci powiem; bo Herod będzie szukał Dziecięcia, aby Je zgładzić” (Mt 2, 13). Józef nie wahał się, był posłuszny, nie zastanawiając się nad trudnościami, które napotka: „Wstał, wziął w nocy Dziecię i Jego Matkę i udał się do Egiptu; tam pozostał aż do śmierci Heroda” (Mt 2, 14-15).
W Egipcie Józef ufnie i cierpliwie oczekiwał od anioła obiecanego powiadomienia, by powrócić do swojego kraju. Gdy tylko Boży posłaniec, w trzecim śnie, poinformowawszy go, że ci, którzy usiłowali zabić Dziecię, nie żyją, kazał mu wstać, zabrać ze sobą Dziecię i Matkę, i wrócić do ziemi Izraela (por. Mt 2, 19-20), po raz kolejny był bez wahania posłuszny: „Wstał, wziął Dziecię i Jego Matkę i wrócił do ziemi Izraela” (Mt 2, 21).
Jednak w drodze powrotnej, „gdy posłyszał, że w Judei panuje Archelaos w miejsce ojca swego Heroda, bał się tam iść. Otrzymawszy zaś we śnie nakaz – a to zdarza się już po raz czwarty – udał się w strony Galilei. Przybył do miasta, zwanego Nazaret, i tam osiadł” (Mt 2, 22-23).
Ewangelista Łukasz, ze swej strony, relacjonuje, że Józef podjął długą i niewygodną podróż z Nazaretu do Betlejem, zgodnie z rozporządzeniem cesarza Cezara Augusta, związanym ze spisem ludności, żeby dać się zapisać w mieście, z którego pochodził. I właśnie w tych okolicznościach narodził się Jezus (por. 2, 1-7) i został zapisany w rejestrze Imperium, tak jak wszystkie inne dzieci.
Zwłaszcza św. Łukasz zadał sobie trud, by pokazać, że Rodzice Jezusa przestrzegali wszystkich przepisów Prawa: obrzędów obrzezania Jezusa, oczyszczenia Maryi po porodzie, ofiarowania pierworodnego Bogu (por. 2, 21-23)[15].
W każdych okolicznościach swojego życia Józef potrafił wypowiedzieć swoje „fiat”, jak Maryja podczas Zwiastowania i Jezus w Getsemani.
Józef, jako głowa rodziny, uczył Jezusa, by był poddany swoim rodzicom (por. Łk 2, 51), zgodnie z przykazaniem Bożym (por. Wj 20, 12).
W ukryciu, w Nazarecie, w szkole Józefa, Jezus nauczył się wypełniać wolę Ojca. Wola ta stała się Jego codziennym pokarmem (por. J 4, 34). Nawet w najtrudniejszym momencie swojego życia, przeżywanym w Getsemani, wolał czynić wolę Ojca, a nie swoją własną[16], i stał się „posłuszny aż do śmierci [...] na krzyżu” (Flp 2, 8). Z tego powodu autor Listu do Hebrajczyków podsumowuje: Jezus „nauczył się posłuszeństwa przez to, co wycierpiał” (5, 8).
Z tych wszystkich wydarzeń wynika, że „Bóg wezwał św. Józefa, aby służył bezpośrednio osobie i misji Jezusa poprzez sprawowanie swego ojcostwa: właśnie w ten sposób Józef współuczestniczy w pełni czasów w wielkiej tajemnicy odkupienia i jest prawdziwie sługą zbawienia”[17].
4. Ojciec przyjmujący
Józef przyjął Maryję nie stawiając warunków uprzednich. Ufa słowom Anioła. „Szlachetność jego serca sprawia, że podporządkowuje miłości to, czego nauczyło go prawo. A dziś na tym świecie, w którym oczywista jest psychologiczna, słowna i fizyczna przemoc w stosunku do kobiet, Józef jawi się jako mężczyzna okazujący szacunek, delikatny, który – choć nie ma wszystkich informacji – opowiada się za reputacją, godnością i życiem Maryi. A wobec jego wątpliwości, jak postąpić najlepiej, Bóg pomógł mu w wyborze, oświetlając jego osąd”[18].
Wiele razy zachodzą w naszym życiu wydarzenia, których znaczenia nie rozumiemy. Naszą pierwszą reakcją jest często rozczarowanie i bunt. Józef odkłada na bok swoje rozumowanie, aby uczynić miejsce dla tego, co się dzieje, choć może mu się to zdawać tajemnicze, akceptuje, bierze za to odpowiedzialność i godzi się ze swoją historią. Jeśli nie pogodzimy się z naszą historią, nie będziemy w stanie uczynić żadnego następnego kroku, ponieważ zawsze pozostaniemy zakładnikami naszych oczekiwań i wynikających z nich rozczarowań.
Życie duchowe, ukazywane nam przez Józefa, nie jest drogą, która wyjaśnia, ale drogą, która akceptuje. Jedynie na podstawie tego przyjęcia, tego pojednania, możemy również wyczuć wspanialszą historię, jej głębsze znaczenie. Zdaje się, jakby to było echo żarliwych słów Hioba, który odpowiada na zachętę swojej żony do buntu ze względu na całe zło, jakiego doznał: „Dobro przyjęliśmy z ręki Boga. Czemu zła przyjąć nie możemy?” (Hi 2, 10).
Józef nie jest człowiekiem biernie zrezygnowanym. Jego uczestnictwo jest mężne i znaczące. Akceptacja jest sposobem, w jaki przejawia się w naszym życiu dar męstwa, który otrzymujemy od Ducha Świętego. Jedynie Pan może dać nam moc, aby przyjąć życie takim, jakim jest, aby uczynić miejsce także dla tej przeciwstawnej, nieoczekiwanej, rozczarowującej części naszego istnienia.
Przyjście Jezusa między nas jest darem Ojca, aby każdy mógł się pojednać z rzeczywistością swojej historii, nawet jeśli jej do końca nie rozumie.
Podobnie, jak Bóg powiedział do naszego Świętego: „Józefie, synu Davida, nie bój się” (Mt 1, 20), zdaje się powtarzać także i nam: „Nie lękajcie się!”. Musimy odłożyć na bok nasz gniew i rozczarowanie, a uczynić miejsce, bez żadnej światowej rezygnacji, ale z męstwem pełnym nadziei, na to, czego nie wybraliśmy, a jednak istnieje. Akceptacja życia w ten sposób wprowadza nas w ukryty sens. Życie każdego z nas może zacząć się na nowo w cudowny sposób, jeśli znajdziemy odwagę, by przeżywać je zgodnie z tym, co mówi nam Ewangelia. I nie ma znaczenia, czy obecnie wszystko zdało się przybrać zły obrót i czy pewne rzeczy są teraz nieodwracalne. Bóg może sprawić, że kwiaty zaczną kiełkować między skałami. Nawet jeśli nasze serce coś nam wyrzuca, On „jest większy od naszego serca i zna wszystko” (1 J 3, 20).
Po raz kolejny powraca realizm chrześcijański, który nie odrzuca niczego, co istnieje. Rzeczywistość, w swojej tajemniczej nieredukowalności i złożoności jest nośnikiem sensu istnienia z jego światłami i cieniami. To właśnie sprawia, że apostoł Paweł mówi: „Wiemy też, że Bóg z tymi, którzy Go miłują, współdziała we wszystkim dla ich dobra” (Rz 8, 28). A św. Augustyn dodaje: „nawet i ze złego” (etiam illud quod malum dicitur)[19]. W takiej ogólnej perspektywie wiara nadaje sens każdemu wydarzeniu radosnemu lub smutnemu.
Nie chcemy zatem myśleć, że wierzyć to znaczy znajdować łatwe, pocieszające rozwiązania. Wiara, której uczył nas Chrystus, jest raczej tą wiarą, którą widzimy u św. Józefa, nie szukającego dróg na skróty, ale stawiającego czoła „z otwartymi oczyma” temu, co się jemu przytrafia, biorąc za to osobiście odpowiedzialność.
Akceptacja Józefa zachęca nas do akceptacji innych, bez wykluczenia, takimi jakimi są, zastrzegając szczególne umiłowanie dla słabych, ponieważ Bóg wybiera to, co słabe (por. 1 Kor 1, 27), jest „ojcem dla sierot i dla wdów opiekunem” (Ps 68, 6) i nakazuje miłować cudzoziemców[20]. Wyobrażam sobie, że postawa Józefa była dla Jezusa źródłem inspiracji dla przypowieści o synu marnotrawnym i miłosiernym ojcu (por. Łk 15, 11-32).
5. Ojciec z twórczą odwagą
Jeśli pierwszym etapem prawdziwego wewnętrznego uzdrowienia jest przyjęcie własnej historii, to znaczy uczynienie w sobie miejsca także na to, czego nie wybraliśmy w naszym życiu, musimy dodać jeszcze jedną ważną cechę: twórczą odwagę. Ujawnia się ona szczególnie wtedy, gdy napotykamy na trudności. W obliczu trudności można bowiem zatrzymać się i zejść z pola walki, lub jakoś coś wymyślić. Czasami to właśnie trudności wydobywają z każdego z nas możliwości, o posiadaniu których nawet nie mieliśmy pojęcia.
Wiele razy, czytając „Ewangelie dzieciństwa”, zastanawiamy się, dlaczego Bóg nie zadziałał bezpośrednio i wyraźnie. Ale Bóg interweniuje poprzez wydarzenia i ludzi. Józef jest człowiekiem, przez którego Bóg troszczy się o początki historii odkupienia. Jest on prawdziwym „cudem”, dzięki któremu Bóg ocala Dziecię i Jego Matkę. Bóg działa ufając w twórczą odwagę tego człowieka, który przybywając do Betlejem i nie znajdując miejsca, gdzie Maryja mogłaby porodzić, przystosowuje stajnię i urządza tak, aby stała się jak najbardziej gościnnym miejscem dla przychodzącego na świat Syna Bożego (por. Łk 2, 6-7). W obliczu zagrożenia ze strony Heroda, który chce zabić Dziecko, po raz kolejny we śnie Józef zostaje ostrzeżony, by bronić Dziecięcia, i w środku nocy organizuje ucieczkę do Egiptu (por. Mt 2, 13-14).
Czytając powierzchownie te opisy, zawsze odnosimy wrażenie, że świat jest na łasce silnych i możnych, ale „dobra nowina” Ewangelii polega na ukazaniu, iż pomimo despotyzmu i przemocy władców ziemskich, Bóg zawsze znajduje sposób, by zrealizować swój plan zbawienia. Także nasze życie czasem zdaje się być zdane na łaskę silnych, ale Ewangelia mówi nam, że Bóg zawsze potrafi ocalić to, co się liczy, pod warunkiem, że użyjemy tej samej twórczej odwagi, co cieśla z Nazaretu, który potrafi przekształcić problem w szansę, pokładając zawsze ufność w Opatrzności.
Jeśli czasami Bóg zdaje się nam nie pomagać, nie oznacza to, że nas opuścił, ale że pokłada w nas ufność i w tym, co możemy zaplanować, wymyślić, znaleźć.
Jest to ta sama odwaga twórcza, jaką wykazali się przyjaciele paralityka, którzy, by przedstawić go Jezusowi, spuścili go z dachu (por. Łk 5, 17-26). Trudność nie powstrzymała śmiałości i uporu owych przyjaciół. Byli przekonani, że Jezus może uzdrowić chorego i „nie mogąc z powodu tłumu w żaden sposób go przynieść, wyszli na płaski dach i przez powałę spuścili go wraz z łożem w sam środek przed Jezusa. On widząc ich wiarę rzekł: «Człowieku, odpuszczają ci się twoje grzechy»” (ww. 19-20). Jezus docenia twórczą wiarę, z jaką ci ludzie starają się przyprowadzić do Niego swego chorego przyjaciela.
Ewangelia nie podaje żadnych informacji na temat tego, jak długo Maryja i Józef pozostali z Dzieciątkiem w Egipcie. Na pewno jednak musieli jeść, znaleźć dom, pracę. Nie potrzeba wiele wyobraźni, aby wypełnić milczenie Ewangelii na ten temat. Święta Rodzina musiała zmierzyć się z konkretnymi problemami, jak wszystkie inne rodziny, jak wielu naszych braci i sióstr migrantów, którzy także i dziś narażają swe życie, zmuszeni przez nieszczęścia i głód. W tym sensie uważam, że św. Józef jest doprawdy szczególnym patronem tych wszystkich, którzy są zmuszeni do opuszczenia swojej ziemi z powodu wojny, nienawiści, prześladowań i nędzy.
Na końcu każdej historii, której Józef jest bohaterem, Ewangelia zauważa, że wstaje on, zabiera ze sobą Dziecię i Jego Matkę, i czyni to, co Bóg mu nakazał (por. Mt 1, 24; 2, 14.21). Istotnie, Jezus i Maryja, Jego Matka, są najcenniejszym skarbem naszej wiary[21].
W planie zbawienia nie można oddzielać Syna od Matki, od Tej, która „postępowała naprzód w pielgrzymce wiary i utrzymywała wiernie swe zjednoczenie z Synem aż do krzyża”[22].
Musimy zawsze zadawać sobie pytanie, czy z całych sił strzeżemy Jezusa i Maryi, którzy w tajemniczy sposób są powierzeni naszej odpowiedzialności, naszej trosce, naszej opiece. Syn Wszechmogącego Boga przychodzi na świat, przyjmując stan wielkiej słabości. Staje się tym, który potrzebuje Józefa, by był broniony, chroniony, otoczony opieką, wychowywany. Bóg ufa temu człowiekowi, podobnie jak Maryja, która odnajduje w Józefie tego, który nie tylko chce ocalić Jej życie, ale który zawsze będzie się troszczył o Nią i o Dziecko. Zatem święty Józef nie może nie być Opiekunem Kościoła, ponieważ Kościół jest kontynuacją Ciała Chrystusa w dziejach, a jednocześnie w macierzyństwie Kościoła zacienione jest macierzyństwo Maryi[23]. Józef, chroniąc Kościół, nieprzerwanie chroni Dziecię i Jego Matkę, a także my, kochając Kościół, wciąż kochamy Dziecię i Jego Matkę.
To Dziecię jest Tym, który powie: „Wszystko, co uczyniliście jednemu z tych braci moich najmniejszych, Mnieście uczynili” (Mt 25, 40). Tak więc każdy potrzebujący, każdy ubogi, każdy cierpiący, każdy umierający, każdy obcy, każdy więzień, każdy chory to „Dziecię”, którego Józef nadal strzeże. Dlatego św. Józef jest przyzywany jako opiekun nieszczęśliwych, potrzebujących, wygnańców, cierpiących, ubogich, umierających. I właśnie dlatego Kościół nie może nie kochać przede wszystkim ostatnich, ponieważ Jezus umiłował ich szczególnie, sam utożsamił się z nimi. Od Józefa musimy nauczyć się tej samej troski i odpowiedzialności: kochać Dziecię i Jego Matkę; kochać sakramenty i miłosierdzie; kochać Kościół i ubogich. Każde z nich jest zawsze Dziecięciem i Jego Matką.
6. Ojciec – człowiek pracy
Jednym z aspektów, który charakteryzuje św. Józefa i który był podkreślany od czasu pierwszej encykliki społecznej, Rerum novarum Leona XIII, jest jego związek z pracą. Święty Józef był cieślą, który uczciwie pracował, aby zapewnić utrzymanie swojej rodzinie. Od niego Jezus nauczył się wartości, godności i radości tego, co znaczy móc spożywać chleb, który jest owocem własnej pracy.
W naszych czasach, w których praca zdaje się stanowić ponownie pilne zagadnienie społeczne, a bezrobocie osiąga niekiedy zdumiewający poziom, nawet w tych krajach, gdzie od dziesięcioleci doświadcza się pewnego dobrobytu, konieczne jest zrozumienie z odnowioną świadomością znaczenia pracy, która nadaje godność i której nasz Święty jest przykładnym patronem.
Praca staje się uczestnictwem wręcz w dziele zbawienia, okazją do przyspieszenia nadejścia królestwa Bożego, rozwijania swoich przymiotów i cech, oddając je na służbę społeczeństwa i wspólnoty. Praca staje się okazją nie tylko do spełnienia samego siebie, ale przede wszystkim dla tej podstawowej komórki społeczeństwa, jaką jest rodzina. Rodzina, w której brakuje pracy, jest bardziej narażona na trudności, napięcia, pęknięcia, a nawet na pełną beznadziei i powodującą rozpacz pokusę rozpadu. Jak moglibyśmy mówić o godności ludzkiej, nie starając się, aby wszyscy i każdy z osobna mieli możliwość godnego utrzymania?
Osoba pracująca, niezależnie od tego, jakie byłoby jej zajęcie, współpracuje z samym Bogiem, staje się poniekąd twórcą otaczającego nas świata. Kryzys naszych czasów, będący kryzysem gospodarczym, społecznym, kulturowym i duchowym, może stanowić dla wszystkich wezwanie do odkrycia na nowo wartości, znaczenia i konieczności pracy, aby dać początek nowej „normalności”, w której nikt nie byłby wykluczony. Praca świętego Józefa przypomina nam, że sam Bóg, który stał się człowiekiem, nie pogardził pracą. Utrata pracy dotykająca tak wielu braci i sióstr, a która nasiliła się w ostatnim czasie z powodu pandemii COVID-19, musi być wezwaniem do rewizji naszych priorytetów. Prośmy św. Józefa Robotnika, abyśmy mogli znaleźć drogi, które kazałyby nam powiedzieć: żaden młody, żadna osoba, żadna rodzina bez pracy!
7. Ojciec w cieniu
Polski pisarz Jan Dobraczyński w książce Cień Ojca[24] opowiedział w formie powieści o życiu świętego Józefa. Przez sugestywny obraz cienia określił postać Józefa, który w stosunku do Jezusa jest cieniem Ojca Niebieskiego na ziemi: osłania Go, chroni, nie odstępuje od Niego, podążając Jego śladami. Przychodzi na myśl to, co Mojżesz przypomina Izraelowi: „Widziałeś też i na pustyni: Pan niósł cię, jak niesie ojciec swego syna, całą drogę, którą szliście” (Pwt 1, 31). Tak Józef sprawował ojcostwo przez całe swe życie[25].
Nikt nie rodzi się ojcem, ale staje się ojcem. I nie staje się nim jedynie dlatego, że wydaje dziecko na świat, lecz ponieważ odpowiedzialnie podejmuje o nie troskę. Za każdym razem, gdy ktoś podejmuje odpowiedzialność za życie drugiego, w pewnym sensie sprawuje względem niego ojcostwo.
W społeczeństwie naszych czasów, dzieci często zdają się być osierocone przez ojców. Także dzisiejszy Kościół potrzebuje ojców. Stale aktualna jest przestroga skierowana przez św. Pawła do Koryntian: „Choćbyście mieli bowiem dziesiątki tysięcy wychowawców w Chrystusie, nie macie wielu ojców” (1 Kor 4, 15); a każdy kapłan czy biskup powinien móc dodać jak Apostoł: „ja to właśnie przez Ewangelię zrodziłem was w Chrystusie Jezusie” (tamże). Zaś Galatom mówi: „Dzieci moje, oto ponownie w bólach was rodzę, aż Chrystus w was się ukształtuje!” (4, 19).
Być ojcem oznacza wprowadzać dziecko w doświadczenie życia, w rzeczywistość. Nie zatrzymywać go, nie zniewalać, nie brać w posiadanie, ale czynić je zdolnym do wyborów, do wolności, do wyruszenia w drogę. Być może z tego powodu, obok miana ojca, tradycja umieściła przy Józefie także miano „przeczystego”. Nie jest to jedynie określenie emocjonalne, ale synteza postawy będącej przeciwieństwem posiadania. Czystość to wolność od posiadania we wszystkich dziedzinach życia. Tylko wówczas, gdy miłość jest czysta, jest naprawdę miłością. Miłość, która chce posiadać, w końcu zawsze staje się niebezpieczna, krępuje, tłumi, czyni człowieka nieszczęśliwym. Sam Bóg umiłował człowieka miłością czystą, pozostawiając mu nawet wolność popełniania błędów i występowania przeciwko Niemu. Logika miłości jest zawsze logiką wolności, a Józef potrafił kochać w sposób niezwykle wolny. Nigdy nie stawiał siebie w centrum. Potrafił usuwać siebie z centrum a umieścić w centrum swojego życia Maryję i Jezusa.
Szczęście Józefa nie polega na logice ofiary z siebie, ale daru z siebie. Nigdy w tym człowieku nie dostrzegamy frustracji, a jedynie zaufanie. Jego uporczywe milczenie nie rozważa narzekań, ale zawsze konkretne gesty zaufania. Świat potrzebuje ojców, odrzuca panów, odrzuca tych, którzy chcą wykorzystać posiadanie drugiego do wypełnienia własnej pustki; odrzuca tych, którzy mylą autorytet z autorytaryzmem, służbę z serwilizmem, konfrontację z uciskiem, miłosierdzie z opiekuńczością, siłę ze zniszczeniem. Każde prawdziwe powołanie rodzi się z daru z siebie, który jest dojrzewaniem zwyczajnej ofiarności. Także w kapłaństwie i w życiu konsekrowanym wymagana jest tego rodzaju dojrzałość. Tam, gdzie powołanie, czy to małżeńskie, do celibatu czy też dziewicze, nie osiąga dojrzałości daru z siebie, zatrzymując się jedynie na logice ofiary, to zamiast stawać się znakiem piękna i radości miłości, może wyrażać nieszczęście, smutek i frustrację.
Ojcostwo, które wyrzeka się pokusy, by według swego życia układać życie dzieci, zawsze otwiera szeroko przestrzenie na całkowitą nowość. Każde dziecko zawsze przynosi ze sobą tajemnicę, zupełną nowość, która może być ujawniona tylko z pomocą ojca, który szanuje jego wolność. Ojca, który jest świadomy, że zrealizuje swoją funkcję wychowawczą i że w pełni przeżyje swoje ojcostwo tylko wówczas, gdy stanie się „bezużyteczny”, gdy zobaczy, że dziecko staje się autonomiczne i samodzielnie kroczy po drogach życia, gdy postawi się w sytuacji Józefa, który zawsze wiedział, że to Dziecko nie jest jego własnym, lecz zostało jedynie powierzone jego opiece. Przecież to właśnie sugeruje Jezus, gdy mówi: „Nikogo też na ziemi nie nazywajcie waszym ojcem; jeden bowiem jest Ojciec wasz, Ten w niebie” (Mt 23, 9).
Za każdym razem, kiedy znajdujemy się w sytuacji spełniania ojcostwa, musimy zawsze pamiętać, że nigdy nie jest to spełnianie posiadania, ale „znak”, który odnosi do pewnego wznioślejszego ojcostwa. W pewnym sensie, wszyscy jesteśmy zawsze w położeniu Józefa: jesteśmy cieniem jedynego Ojca niebieskiego, który „sprawia, że słońce Jego wschodzi nad złymi i nad dobrymi, i On zsyła deszcz na sprawiedliwych i niesprawiedliwych” (Mt 5, 45); jest to cień, który podąża za Synem.
***
„Wstań, weź Dziecię i Jego Matkę” (Mt 2, 13), mówi Bóg do św. Józefa.
Celem tego Listu apostolskiego jest wzbudzenie większej miłości dla tego wielkiego Świętego, abyśmy byli zachęceni do modlitwy o jego wstawiennictwo i do naśladowania jego cnót i jego zaangażowania.
Istotnie, specyficzną misją świętych jest nie tylko spełnianie cudów i łask, ale wstawiennictwo za nami przed Bogiem, podobnie jak Abraham[26] i Mojżesz[27], podobnie jak Jezus, „jeden pośrednik” (1 Tm 2, 5), który jest u Boga Ojca naszym „rzecznikiem” (1 J 2, 1), „bo zawsze żyje, aby się wstawiać za nami” (por. Hbr 7, 25; por. Rz 8, 34).
Święci pomagają „wszystkim wiernym do osiągnięcia świętości i doskonałości własnego stanu”[28]. Ich życie jest konkretnym dowodem na to, że można żyć Ewangelią.
Jezus powiedział: „uczcie się ode Mnie, bo jestem cichy i pokorny sercem” (Mt 11, 29), a święci są z kolei wzorem życia do naśladowania. Św. Paweł wyraźnie zachęcał: „bądźcie naśladowcami moimi!” (1 Kor 4, 16)[29]. Święty Józef mówi o tym poprzez swoje wymowne milczenie.
W obliczu przykładu tak wielu świętych, św. Augustyn zadawał sobie pytanie: „Nie stać cię na to, na co stać było tych mężczyzn i te kobiety?”. I tak doszedł do ostatecznego nawrócenia, wołając: „Późno Cię umiłowałem, Piękności tak dawna a tak nowa!”[30].
Nie pozostaje nic innego, jak tylko błagać św. Józefa o łaskę nad łaskami: o nasze nawrócenie.
Do niego kierujemy naszą modlitwę:
Witaj, opiekunie Odkupiciela,
oblubieńcze Maryi Dziewicy.
Tobie Bóg powierzył swojego Syna;
Tobie zaufała Maryja;
z Tobą Chrystus stał się człowiekiem.
O święty Józefie, okaż się ojcem także i nam,
i prowadź nas na drodze życia.
Wyjednaj nam łaskę, miłosierdzie i odwagę,
i broń nas od wszelkiego zła. Amen.
Rzym, u św. Jana na Lateranie, dnia 8 grudnia 2020, w Uroczystość Niepokalanego Poczęcia Najświętszej Maryi Panny, w ósmym roku mojego Pontyfikatu.
FRANCISZEK
________________
[1] Łk 4, 22; J 6, 42; por. Mt 13, 55; Mk 6, 3.
[2] S. RITUUM CONGREG., Quemadmodum Deus (8 grudnia 1870): ASS 6 (1870-71), 194.
[3] Przemówienie do członków ACLI z okazji Uroczystości św. Józefa Robotnika (1 maja 1955): AAS 47 (1955), 406.
[4] Adhort. apost. Redemptoris custos (15 sierpnia 1989): AAS (1990), 5-34.
[5] Katechizm Kościoła Katolickiego, 1014.
[6] Modlitwa na placu św. Piotra o ustanie pandemii (27 marca 2020 r.): L’Osservatore Romano, wyd. polskie, n. 4 (421)/2020, s. 5.
[7] In Matth. Hom., V 3: PG 57, 57 n.
[8] Homilia (19 marca 1966): Insegnamenti, IV (1966), 110.
[9] Por. Libro della vita, 6, 6-8.
[10] Codziennie, od ponad czterdziestu lat, po jutrzni, odmawiam modlitwę do św. Józefa, zaczerpniętą z XIX-wiecznej francuskiej książeczki do nabożeństwa Zgromadzenia Zakonnic Jezusa i Maryi, która wyraża pobożność, ufność i pewną prowokację wobec św. Józefa: „Chwalebny Patriarcho, święty Józefie, w którego mocy jest uczynienie możliwym tego, co niemożliwe, spiesz mi na pomoc w chwilach niepokoju i trudności. Weź pod swoją obronę sytuacje bardzo poważne i trudne, które Ci powierzam, by miały szczęśliwe rozwiązanie. Mój ukochany Ojcze, w Tobie pokładam całą ufność moją. Niech nie mówią, że przyzywałem Ciebie na próżno, a skoro z Jezusem i Maryją możesz wszystko uczynić, ukaż mi, że Twoja dobroć jest tak wielka jak Twoja moc. Amen”.
[11] Por. Pwt 4, 31; Ps 69, 17; 78, 38; 86, 5; 111, 4; 116, 5; Jr 31, 20.
[12] Por. Adhort. apost. Evangelii gaudium (24 listopada 2013), 88; 288: AAS 105 (2013), 1057, 1136-1137.
[13] Por. Rdz 20, 3; 28, 12; 31, 11.24; 40, 8; 41, 1-32; Lb 12 ,6; 1 Sm 3, 3-10; Dn 2; 4; Hi 33, 15.
[14] W takich przypadkach przewidywane było nawet ukamienowanie (por. Pwt 22, 20-21).
[15] Por. Kpł 12, 1-8: Wj 13, 2.
[16] Por. Mt 26, 39; Mk 14, 36; Łk 22, 42.
[17] ŚW. JAN PAWEŁ II, Adhort. apost. Redemptionis custos (15 sierpnia 1989), 8: AAS 82 (1990), 14.
[18] Homilia wygłoszona podczas Mszy św. beatyfikacyjnej w Villavicencio - Kolumbia (8 września 2017): AAS 109 (2017), 1061; L’Osservatore Romano, wyd. polskie, n. 10 (396)/2017, s. 25.
[19] Enchiridion de fide, spe et caritate, 11, 3: PL 40, 236; Podręcznik dla Wawrzyńca, czyli o wierze, nadziei i miłości, XI, 3. w: Pisma katechetyczne, przeł. Władysław Budzik, Warszawa 1952, s. 84.
[20] Por. Pwt 10, 19; Wj 22, 20-22: Łk 10, 29-37.
[21]Por. S. RITUUM CONGREG., Quemadmodum Deus (8 grudnia 1870): ASS 6 (1870-71), 193; Bł. PIUS IX, List apost. Inclytum Patriarcham (7 lipca 1871), 331-335: ASS 6 (1870-71), 324-327.
[22] SOBÓR WAT. II, Konst. dogmat. Lumen gentium, 58.
[23] Por. Katechizm Kościoła Katolickiego, 963-970.
[24] Cień Ojca, Warszawa 1977.
[25] Por. ŚW. JAN PAWEŁ II, Adhort. apost. Redemptoris Custos, 7-8: AAS 82 (1990), 12-16.
[26] Por. Rdz 18, 23-32.
[27] Por. Wj 17, 8-13; 32, 30-35.
[28] Por. SOBÓR WAT. II, Konst. dogmat. Lumen gentium, 42.
[29] Por. 1 Kor 11, 1; Flp 3, 17; 1 Tes 1, 6.
[30] Wyznania, VIII,11, 27: PL 32, 761; X, 27, 38: PL 32, 795.
[01509-PL.01] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua araba
رسالة رسولية
للأب الأقدس فرنسيس
Patris Corde
بقلب أبوي
بمناسبة الذكرى الماءة والخمسين
لإعلان القديس يوسف البتول
شفيعا للكنيسة جمعاء
بقلب أبويٍّ: هكذا أحبّ يوسفُ يسوعَ الذي سمّته الأناجيلُ الأربعة "ابن يوسف"[1].
إن الإنجيليَّين اللذَين سلّطا الضوء على شخصيّته، متّى ولوقا، لا يخبران إلّا القليل، ولكنه يكفي لتوضيح أيّ نوع من الأب كان، والمهمّة التي أوكلتها إليه العنايةُ الإلهية.
نعلم أنه كان نجّارًا متواضعًا (را. متى 13، 55)، خطّيبَ مريم (را. متى 1، 18؛ لو 1، 27)؛ "رجلًا بارًّا" (متى 1، 19)، مستعدًّا دائمًا لتتميم مشيئة الله التي تجلّت في شريعته (را. لو 2، 22. 27. 39) ومن خلال أربعة أحلام (را. متى 1، 20؛ 2، 13. 19. 22). بعد رحلة طويلة ومرهقة من الناصرة إلى بيت لحم، رأى ميلاد المسيح في مِذوَدٍ، لأنه "لم يَكُنْ لَهُما مَوضِعٌ" (لو 2، 7). وشهد سجود الرعاة (لو 2، 8- 20) والمجوس (را. متى 2، 1- 12)، الذين يمثّلون على التوالي شعب إسرائيل والشعوب الوثنية.
كانت لديه الشجاعة ليتحمّل مسؤوليّة أبوّة يسوع قانونيًّا، وأعطاه الاسمَ الذي كشفه له الملاك: "سَمِّهِ يسوع، لأَنَّه هوَ الَّذي يُخَلِّصُ شَعبَه مِن خَطاياهم" (متى 1، 21). وكما هو معروف، إن إعطاء اسم لشخص أو شيء عند الشعوب القديمة يعني امتلاكه، كما فعل آدم في سفر التكوين (را. 2، 19- 20).
بعد أربعين يومًا من ولادة يسوع، قدّم يوسفُ الطفلَ للربِّ، برفقة والدته، في الهيكل، وأصغى بدهشة إلى نبوءة سمعان عن يسوع ومريم (را. لو 2، 22- 35). ولكي يحمي يسوعَ من هيرودس، مَكَث غريبًا في مصر (را. متى 2، 13- 18). وعند عودته إلى وطنه، عاش بخفية في قرية الناصرة الصغيرة غير المعروفة في الجليل - التي قيل فيها، "لا يَقومُ مِنَ الجَليلِ نَبِيّ" و "أَمِنَ النَّاصِرَةِ يُمكِنُ أَن يَخرُجَ شَيءٌ صالِح؟" (را. يو 7، 52؛ 1، 46) - بعيدًا عن بيت لحم، مسقط رأسه، وعن القدس/أورشليم مكان وجود الهيكل. وعندما فقدوا يسوع أثناء حجّهم إلى القدس/أورشليم، وكان في الثانية عشر من عمره، بحث عنه هو ومريم بتلهّف، ووجداه في الهيكل يناقش علماء الشريعة (را. لو 2، 41- 50).
ما من قدّيس -بعد مريم، والدة الله- يحتلّ مكانة في تعليم الباباوات مثل يوسف خطّيبها. فقد تعمّق أسلافي بالرسالة التي تَحمِلها المعلومات القليلة التي تنقلها الأناجيل، لكي يبرزوا دوره الرئيسيّ في تاريخ الخلاص: وأعلنه الطوباوي بيوس التاسع "شفيعًا للكنيسة الكاثوليكية"[2]، وقدّمه المُكرَّم بيوس الثاني عشر "شفيعًا للعمّال"[3]، والقدّيس يوحنّا بولس الثاني "حارسًا للفادي"[4]. ويبتهل إليه الشعب بصفته "شفيع الميتة الصالحة"[5].
لذلك، وبمناسبة الذكرى الماءة والخمسين لإعلانه شفيعًا للكنيسة الكاثوليكية من قِبَلِ الطوباوي بيوس التاسع، في 8 كانون الأوّل/ديسمبر 1870، أودّ -كما يقول يسوع- أن "يتكلَّمُ اللِّسان مِن فَيضِ القَلْبِ" (را. متى 12، 34)، لكي أشارككم بعض الأفكار الشخصيّة حول هذه الشخصيّة الاستثنائية، القريبة جدًّا من الحالة البشرية التي يعرفها كلّ واحد منّا. لقد نمت هذه الرغبة خلال أشهر الجائحة هذه، والتي يمكننا أن نشهد فيها، في خضمّ الأزمة التي تضربنا، أن حياتنا "منسوجة ومسنودة من قِبَل أشخاص عاديّين -منسيّين بالعادة- لا يظهرون في عناوين الصحف أو المجلّات ولا في كبار مسارح أحدث العروض ولكنهم، دون شكّ، يكتبون اليوم الآن الأحداث الحاسمة في تاريخنا: الأطبّاء، والممرّضين، والممرّضات، والعاملين في متاجر البقالة، وعمّال النظافة، ومقدّمي الرعاية، والعاملين في مجال النقل، وقوّات فرض القانون، والمتطوّعين، والكهنة، والراهبات، والكثير الكثير من الأشخاص الذين فهموا أنه لا أحد ينقذ نفسه بنفسه. [...] كم من الأشخاص يمارسون الصبر وينشرون الرجاء كلّ يوم، مع الحرص على عدم بثّ الذعر إنما المسؤولية المشتركة. كم من الآباء والأمّهات والأجداد والجدّات، والمعلّمين يبيّنوا لأطفالنا، عبر أعمال صغيرة ويومّية، كيف نواجه ونتخطّى الأزمات من خلال تكييف عاداتنا ورفع نظرنا وتحفيز صلاتنا. كم من الأشخاص يصلّون ويساعدون ويتوسّطون من أجل خير الجميع"[6]. يستطيع الجميع أن يجد في القدّيس يوسف، الرجلّ الذي يمرّ دون أن يلاحظه أحد، رجلَ الحضور اليومي، المتحفّظ والخفي، والشفيع، والعضد والمرشد في أوقات الشدّة. يذكّرنا القدّيس يوسف أن الأشخاص المَخفيّين ظاهريًّا أو الذين هم في "الخطّ الثاني"، لديهم دور أساسيّ لا مثيل له في تاريخ الخلاص. لكلّ منهم تعود كلمةُ تقدير وامتنان.
1. أبٌ محبوب
تَكمُن عظمةُ القدّيس يوسف في حقيقةِ أنّه كان خطّيبَ مريم وأبا يسوع، وبالتالي "وضع نفسه في خدمة التدبير الخلاصي بأكمله"، كما يقول القدّيس يوحنّا الذهبيّ الفم[7].
يلاحظ القدّيس بولس السادس أن أبوّته قد ظهرت بشكل ملموس "حين جعل حياته خدمةً وتضحيةً من أجل سرّ التجسّد ورسالة الفداء التي يتضمّنها، وحين استخدم السلطةَ المشروعة التي كان يملكها على العائلة المقدّسة من أجل أن يقدّم لها كلّ ذاته وحياته وعمله، وحين حوّل دعوته البشريّة لحبّ عائليّ إلى تضحيةٍ سامية لذاته ولقلبه ولكلّ ما يملك من قدرة على الحبّ ووضعها في خدمة المسيح الذي نما في بيته"[8].
إن القدّيس يوسف، بفضل دوره هذا في تاريخ الخلاص، كان أبًا محبوبًا على الدوام من قِبَلِ الشعب المسيحيّ، والدليل على ذلك هو أن هناك العديد من الكنائس المكرّسة له في جميع أنحاء العالم، وأن العديد من المؤسّسات الرهبانية، والأخويّات والجماعات الكنسية تستلهم روحانيّته وتحمل اسمه، وأن أعمالًا تقويّة مقدّسة مختلفة قد خُصِّصَت لإكرام شخصه لعدّة قرون. وكان يتعبّد له بشغف العديدُ من القدّيسين والقدّيسات، ومنهم تيريزا الأفيليّة التي تَبَنّتْه حاميًا وشفيعًا، وغالبًا ما طلبت شفاعته، ونالت كلّ النعم التي طلبتها منه. وقد شجّعتها خبرتها الخاصّة هذه فأقنعت الآخرين بالتعبّد له[9].
نجد في كلّ دليل للصلاة بعضَ الابتهالات إلى القدّيس يوسف. وتُرفَع له ابتهالات خاصّة يوم الأربعاء ولا سيما طيلة شهر آذار/مارس المُخصَّص له تقليديًا[10].
يمكننا أن نلخّص ثقة الناس بالقدّيس يوسف في عبارة "اِذْهَبوا إِلى يوسف" التي تشير إلى زمن المجاعة في مصر عندما كان الناس يطلبون الخبز من فرعون فيجيب: "اِذْهَبوا إلى يوسف؛ فما يَقُلْه لَكُم فاَصنَعوه" (تك 41، 55). هذا النصّ يتحدّث عن يوسف ابن يعقوب، الذي باعه إخوته حسدًا (را. تك 37، 11- 28) والذي -وفقًا للسرد الكتابي- أصبح فيما بعد نائبًا لملك مصر (را. تك 41، 41- 44).
يشكّل القدّيس يوسف المفصلَ الذي يجمع بين العهد القديم والجديد، وذلك لأنه من نسل داود (را. متى 1، 16. 20)، الذي كان على يسوع أن يبزغ من جذوره وفقًا للوعد الذي قطعه الله لداود على لسان النبيّ ناثان (را. 2 صم 7)، وأيضًا بصفته خطّيب مريم، عذراء الناصرة.
2. أبٌ رؤوف
رأى يوسفُ يسوعَ ينمو يومًا بعد يوم "في الحِكمَةِ والقامَةِ والحُظْوَةِ عِندَ اللهِ والنَّاس" (لو 2، 52). وكما فعل الربّ مع إسرائيل، هكذا صنع يوسفُ مع يسوع: درّجه وحَمَله على ذِراعه [...] وكُان لَه كمَن يَرفَعُ الرَّضيعَ إِلى وَجنَتَيه وانحَنَى علَيه وأَطعَمه (را. هو 11، 3– 4). ورأى يسوعُ في يوسف رأفة الآب: "كما يَرأَفُ الأَبُ ببَنيه يَرأَفُ الرَّبُّ بِمَن يَتَّقونَه" (مز 103، 3). من المؤكّد أن يوسف قد سمع تكرارًا في المجمع، أثناء صلاة المزامير، أن إله إسرائيل هو إله رؤوف[11]، صالح تجاه الجميع "ومَراحِمَه على كُلِّ أَعْمالِه" (مز 145، 9).
إن تاريخ الخلاص يتمّ بالرجاء "على غَيرِ رَجاء" (روم 4، 18) من خلال ضعفنا. غالبًا ما نظنّ أن الله يعتمد فقط على ما هو صالح وناجح فينا، فيما أنّ معظم تدابيره تتحقّق في الواقع من خلال ضعفنا وبالرغم منه. وهذا ما جعل القدّيس بولس يقول: "مَخافَةَ أَن أَتَكَبَّرَ بِسُمُوِّ المُكاشَفات، جُعِلَ لي شَوكَةٌ في جَسَدي: رَسولٌ لِلشَّيطانِ وُكِلَ إِلَيه بِأَن يَلطِمَني لِئَلاَّ أَتَكبر. وسأَلتُ اللهَ ثَلاثَ مَرَّاتٍ أَن يُبعِدَه عَنِّي، فقالَ لي: "حَسبُكَ نِعمَتي، فإِنَّ القُدرَةَ تَبلُغُ الكَمالَ في الضُّعف". فإِنِّي بِالأَحرى أَفتَخِرُ راضِيًا بِحالاتِ ضُعْفي لِتَحِلَّ بي قُدرَةُ المَسيح" (2 قور 12، 7- 9). وإذا كان هذا هو منظور تدبير الخلاص، فعلينا أن نتعلّم كيف نقبل ضعفنا برأفة عميقة[12].
إن الشرّير يجعلنا ندين ضعفنا، بينما الروح يلقي الضوء عليه برأفة. والرأفة هي أفضل طريقة نلمس بها ما هو هشّ فينا. فإصبع الاتّهام والأحكام التي نستخدمها إزاء الآخرين غالبًا ما تكون علامة على عدم قدرتنا في داخلنا على قبول ضعفنا وهشاشتنا. وحدها الرأفة تنقذنا من "عمل المتّهم" (را. رؤ 12، 10). لذا فمن المهمّ أن ننال رحمة الله، لا سيّما في سرّ المصالحة، ونختبر الحقيقة والرأفة. من المفارقات أن الشرّير يستطيع أيضًا أن يقول لنا الحقيقة، لكنه يفعل ذلك ليديننا. أمّا نحن فنعلم أن الحقيقة التي تأتي من الله لا تديننا، بل ترحّب بنا، وتعانقنا وتساندنا وتغفر لنا. فالحقيقة تَظَهر لنا دائمًا على غرار الآب الرحيم في المَثَل (را. لو 15، 11- 32): تأتي للقائنا، وتعيد لنا كرامتنا، وتنهضنا، وتحتفل بنا، والدافع هو أنّ "ابنِي هذا كانَ مَيتًا فعاش، وكانَ ضالًّا فوُجِد" (آية 24).
تمرّ إرادةُ الله وتاريخه ومشروعه من خلال قلق يوسف أيضًا. ويعلّمنا يوسف بهذه الطريقة أن ثقتنا بالله تشمل أيضًا الإيمان بأنه قادر على العمل حتى من خلال مخاوفنا وضعفنا. ويعلّمنا أنه يجب ألّا نخاف من أن نسلّم "دفّة قاربنا" لله في خضمّ عواصف الحياة. إننا نرغب أحيانًا في السيطرة على كلّ شيء، لكن نظرة الله هي دائمًا أكبر من نظرتنا.
3. طاعة يوسف
على غرار ما فعله الله مع مريم، عندما أظهر لها تدبيره الخلاصيّ، كذلك كشف عن تدبيره ليوسف من خلال الأحلام، التي كانت تُعتَبَر في الكتاب المقدّس، كما ولدى جميع الشعوب القديمة، إحدى الوسائل التي يُظهِر الله بها مشيئته[13].
شعر يوسف بحزن شديد إزاء حمل مريم المُستَعصي الفهم: فهو لم "يُرِدْ أَن يَشهَرَ أَمْرَها"[14]، بل قرّر "أن يُطلِّقَها سِرًّا" (متى 1، 19). فساعده الملاك في الحلم الأوّل على حلّ معضلة خطيرة: "لا تَخَفْ أَن تَأتِيَ بِامرَأَتِكَ مَريمَ إِلى بَيتِكَ. فإِنَّ الَّذي كُوِّنَ فيها هوَ مِنَ الرُّوحِ القُدُس، وستَلِدُ ابناً فسَمِّهِ يسوع، لأَنَّه هوَ الَّذي يُخَلِّصُ شَعبَه مِن خَطاياهم" (متى 1، 20- 21). وكانت إجابته فوريّة: "لمَّا قامَ يُوسُفُ مِنَ النَّوم، فَعلَ كَما أَمرَه مَلاكُ الرَّبِّ" (متى 1، 24). تغلّب على مأساته عبر الطاعة، وأنقذ مريم.
طَلَب الله من يوسف في حلمه الثاني أن يترك أرضه: "قُم فَخُذِ الطِّفْلَ وأُمَّه واهرُبْ إِلى مِصْر وأَقِمْ هُناكَ حَتَّى أُعْلِمَك، لأَنَّ هيرودُسَ سَيَبْحَثُ عنِ الطِّفلِ لِيُهلِكَه" (متى 2، 13). فلم يتردّد يوسف في الانصياع، دون أن يطرح أسئلة حول الصعوبات التي قد يواجهها: "قامَ فأَخَذَ الطِّفْلَ وأُمَّه لَيلاً ولَجَأَ إِلى مِصر. فأَقامَ هُناكَ إِلى وَفاةِ هيرودُس" (متى 2، 14- 15).
وفي مصر انتظر يوسفُ العلامةَ الموعودة من الملاك، بثقة وصبر، حتى يعود إلى وطنه. وما إن أمره المُرسَل الإلهيّ في حلمه الثالث بأن ينهض ويأخذ الطفل وأمّه معه ويعود إلى أرض إسرائيل، بعد أن أبلغه بموت الذين كانوا يحاولون قتل الطفل، (را. متى 2، 19- 20)، حتى أطاع مجدّدًا ودون تردّد: "قامَ فأَخذَ الطِّفْلَ وأُمَّه ودَخَلَ أَرضَ إِسرائيل" (متى 2، 21).
ولكن خلال رحلة العودة: "سَمِعَ أَنَّ أَرخِلاَّوُس خلَفَ أَباهُ هيرودُسَ على اليَهودِيَّة، فخافَ أَن يَذهَبَ إِليها. فأُوحِيَ إِليه في الحُلم [وهذه المرّة الرابعة التي يحلم فيها]، فلجَأَ إِلى ناحِيَةِ الجَليل. وجاءَ مَدينةً يُقالُ لها النَّاصِرة فسَكنَ فيها، لِيَتِمَّ ما قيلَ على لِسانِ الأَنبِياء: إِنَّه يُدعى ناصِريّاً" (متى 2، 22- 23).
يشير الإنجيلي لوقا من جهته أن يوسف قد واجه الرحلة الطويلة والصعبة من الناصرة إلى بيت لحم، وفقًا لأمر أصدره الإمبراطور قيصر أغسطس بإحصاء جَميعِ أَهلِ الـمَعمور، ليكتتب في مسقط رأسه. وفي هذا الظرف بالتحديد وُلِد يسوع (را. لو 2، 7)، ودُوِّنَ اسمه في سجلّ الإمبراطورية، مثل بقيّة الأطفال.
حرص القدّيس لوقا على إظهار أمانة والدَي يسوع لتعليمات الشريعة: طقوس ختان يسوع، وطهور مريم بعد الولادة، ونذر كلّ بكر لله (را. 2، 21- 24)[15].
لقد عرف يوسف، في كلّ ظروف حياته، كيف يقول "ليَكُن"، على غرار مريم يوم البشارة، ويسوع في جتسماني. وعلّم يوسفُ يسوعَ، بصفته ربّ العائلة، أن يكون خاضعًا لوالديه (را. لو 2، 51)، وفقًا لمشيئة الآب (خر 20، 12). وتعلّم يسوع، متتلمذًا على يد يوسف في خفية الناصرة، أن يتمّم مشيئة الآب. وأصبحت هذه المشيئة طعامه اليومي (را. يو 4، 34). وفضّل، حتى في أصعب لحظات حياته، التي عاشها في جتسماني، أن يتمّم مشيئة الآب لا مشيئته[16]، و"أطاع حتى الموت [...] موت الصليب" (في 2، 8). ولذا يستنتج كاتب الرسالة إلى العبرانيين أن يسوع قد "تَعَلَّمَ الطَّاعَةَ، [...] بما عانى مِنَ الأَلَم" (5، 8).
نستنتج من كلّ هذه الأحداث أن الله قد دعا يوسف "لكي يخدم بشكل مباشر شخص يسوع ورسالته من خلال ممارسة أبوّته: فيتعاون بهذه الطريقة في سرّ الفداء العظيم في ملء الزمان، وهو حقًا خادم الخلاص"[17].
4. قبول يوسف
قَبِلَ يوسفُ مريم دون أن يضع شروطًا وقائية، فقد وضع ثقته بكلام الملاك. "وجعله نبلُ قلبه يُخضِع للمحبّة ما تَعَلَّمه من الشريعة؛ واليوم في هذا العالم الذي يَظهر فيه بوضوح العنفُ النفسيّ والكلاميّ والجسديّ على المرأة، يَظهَر يوسف بصورة رجل موقور ورقيق، والذي بالرغم من عدم امتلاكه لجميع المعلومات، اتّخذ قرارًا يحمي سمعة مريم وكرامتها وحياتها. وحين تردّد حول الطريقة الأفضل في التصرّف، ساعده الله في خياره منيرًا أحكامه"[18].
غالبًا ما تحدث أمور في حياتنا لا نفهم معناها. وغالبًا ما يكون ردّ فعلنا الأوّل هو خيبة الأمل والتمرّد. أمّا يوسف فيضع تفكيره جانبًا حتى يفسح المجال لما يحدث. ومهما بدا الحدث غامضًا في عينيه يقبله ويتحمّل مسؤوليته ويتصالح مع تاريخه الشخصيّ. إذا لم نتصالح مع تاريخنا، فلن نتمكّن من القيام حتى بخطوة إضافية، لأننا سنظلّ دائمًا أسرى تطلّعاتنا وخيبات الأمل الناتجة عنها.
إن الحياة الروحيّة التي يقدّمها لنا يوسف ليست طريقًا تعلّمنا شرح الأحداث، بل طريقًا لقبولها. فإننا لا نستطيع أن نتحسّس قصّةً أكبر ومعنًى أعمق إلّا انطلاقًا من هذا القبول. وكأننا نسمع ترداد صدى كلمات أيّوب القويّة حين دعته زوجته للتمرّد على كلّ الشرّ الذي يحدث له، فأجاب: "أَنَقبَلُ الخَيرَ مِنَ اللهِ ولا نَقبَلُ مِنه الشَّرّ؟" (أي 2، 10).
إن يوسف ليس شخصًا مذعنًا سلبيًّا. بل له شخصيّةٌ شجاعة وقويّة. فالقبول هو الطريقة التي تتجلّى من خلالها عطيّةُ القوّة التي تأتينا من الروح القدس في حياتنا. وحده الربّ يستطيع أن يمنحنا القوّة حتى نقبل الحياة كما هي، ونفسح المجال لهذا الجانب المفاجئ من الحياة الذي يبدو متناقضًا ومخيّبًا للآمال.
ومجيء يسوع في وسطنا هو عطيّة من الآب، حتى يتصالح كلّ منّا مع تاريخه الخاصّ حتى عندما لا يفهمه بالكامل.
كما قال الله لقدّيسنا: "يا يُوسُفَ ابنَ داود، لا تَخَفْ" (متى 1، 20)، يبدو أنه يردّد لنا أيضًا: "لا تخافوا!". من الضروريّ أن نضع الغضب وخيبة الأمل جانبًا ونفسح المجال، دون أيّ استسلام دنيويّ وإنما بثبات مليء بالرجاء، لأمور لم نختَرها إلّا أنها موجودة. وقبولنا للحياة بهذه الطريقة يقودنا إلى إدراك ذاك المغزى الخفيّ. فحياة كلّ واحد منّا تستطيع أن تبدأ من جديد بطريقة إعجازيّة، إذا وجدنا الشجاعة لنعيشها وفقًا لما يقوله لنا الإنجيل. ولا يهمّ ما إذا كان كلّ شيء يبدو الآن وكأنّه اتّخذ منحى خاطئًا وما إذا كانت بعض الأشياء لا رجعة فيها. فإن الله يستطيع أن يجعل الزهور تنبت بين الصخور. حتى وإن وبّخنا قلبنا، "فإِنَّ اللهَ أَكبَرُ مِن قَلْبِنا وهو بِكُلِّ شيَءٍ عَليم" (1 يو 3، 20).
إن الواقعية المسيحيّة لا تستبعد أيّ شيء ممّا هو موجود، وها هي تعود مجدّدًا. فالواقع، الذي لا يمكن تغييره والذي هو معقّد، يحمل من خلال نوره وظلاله معنًى للحياة. وهذا ما يجعل الرسول بولس يقول: "إِنَّنا نَعلَمُ أَنَّ جَميعَ الأشياءِ تَعمَلُ لِخَيْرِ الَّذينَ يُحِبُّونَ الله" (روم 8، 28). ويضيف القدّيس أوغسطينوس: "حتى ما يُسمى بالشّر (etiam illud quod malum dicitur)"[19]. وفي هذا المنظور الشامل، يُعطي الإيمانُ معنًى لكلّ حدث سعيد أو مؤسف.
حاشا لنا أن نعتقد أن الإيمان يعني إيجاد حلول مواسية سهلة. بل إن الإيمان الذي علّمنا إيّاه المسيح هو الذي نراه في القدّيس يوسف، الذي لا يبحث عن طرق مختصرة، ولكنّه يواجه "بانتباه" ما يحدث له، ويتحمّل مسؤوليّته شخصيًّا.
إن قبول يوسف يدعونا إلى قبول الآخرين، دون استثناء، كما هم، وإعطاء الأفضليّة للضعيف، لأن الله يختار الضعيف (را. 1 قور 1، 27)، فهو "أَبو اليَتامى ومُنصِفُ الأَرامل" (مز 68، 6) ويوصي بمحبّة الغرباء[20]. يروق لي أن أتخيّل أن يسوع قد استوحى من مواقف يوسف مَثَلَ الابن الضّال أو الأب الرحيم (را. لو 15، 11- 32).
5. شجاعة خلّاقة
إذا كان قبول التاريخ الشخصيّ هو أوّل مرحلة من أيّ علاج داخلي، أي أن نفسح المجال في داخلنا حتى للأمور التي لم نخترها في حياتنا، فمن الضروريّ أيضًا أن نضيف ميزة مهمّة أخرى: ميزة الشجاعة الخلّاقة. فهي تَظهَر بشكل خاصّ عند مواجهة الصعوبات. يمكن للمرء في الواقع، إزاء صعوبة ما، أن يتوقّف "ويغادر الملعب"، أو أن يبذل قصارى جهده. فالصعوبات تحديدًا هي التي تكشف فينا أحيانًا عن إمكانيّات لم نكن لنعتقد حتى أنّنا نملكها.
غالبًا ما نتساءل عندما نقرأ "أناجيل الطفولة"، لماذا لم يتدخّل الله بطريقة مباشرة وواضحة. لكن الله يتدخّل من خلال الأحداث والأشخاص. يوسف هو الرجل الذي من خلاله اعتنى الله ببدايات تاريخ الفداء. إنه "المعجزة" الحقيقيّة التي خلّص بها اللهُ الطفلَ وأمَّه. تدخّلت السماء من خلال اتّكالها على الشجاعة الخلّاقة التي تحلّى بها هذا الرجل الذي، عند وصوله إلى بيت لحم، لم يجد مكانًا تستطيع فيه مريم أن تلد، فقام بترتيب مذود وأعاد تنظيمه، بحيث أصبح، قدر الإمكان، مكانًا مضيافًا لابن الله الآتي إلى العالم. (را. لو 2، 6- 7). وإزاء خطر هيرودس الوشيك، الذي يريد قتل الطفل، نبّه الله يوسف مجدّدًا في الحلم، حتى يحمي الطفل، فنظّم الهروب إلى مصر في منتصف الليل (را. متى 2، 13- 14).
إن الانطباع الأوّل الذي نخرج به عند القراءة السطحيّة لهذه الروايات، هو دائمًا بأن العالم يرزح تحت رحمة الأقوياء وأصحاب السلطة، لكن "بشرى" الإنجيل تكمن في إظهار كيف أن الله، على الرغم من غطرسة الحكّام وعنفهم، يجد دائمًا طريقة لإتمام تدبيره الخلاصيّ. قد تبدو حياتنا أيضًا أحيانًا تحت رحمة سلطة قويّة، لكن الإنجيل يخبرنا أن الله ينجح دومًا في إنقاذ ما هو مهمّ، شرط أن نستخدم نفس الشجاعة الخلّاقة التي تحلّى بها نجّار الناصرة، الذي يعرف دائمًا كيف يحوّل المشكلة إلى فرصة، ويواجهها واضعًا ثقته في العناية الإلهيّة.
إذا بدا لنا في بعض الأحيان أن الله لا يساعدنا، فهذا لا يعني أنه تخلّى عنّا، بل أنه يثق بنا، وبما نستطيع أن نخطّط له ونخترع ونجد.
إنها نفس الشجاعة الخلّاقة التي أظهرها أصدقاء المُقعد الذين أنزلوه من السقف لكي يضعوه أمام يسوع (را. لو 5، 17- 26). فالصعوبة لم توقّف جرأة هؤلاء الأصدقاء وعنادهم. كانوا على يقين بأن يسوع يستطيع شفاء المريض، "لَم يَجِدوا سَبيلاً إِلى الدُّخولِ لِكَثَرةِ الزِّحام، فصَعِدوا بِه إِلى السَّطْحِ ودلَّوْهُ بِسَريرِه مِن بَينِ القِرْميد، إِلى وَسْطِ الـمَجلِسِ أَمامَ يَسوع. فلَمَّا رأَى إِيمانَهم قال: “يا رَجُل، غُفِرَت لَكَ خَطاياك”" (آيات 19- 20). ورأى يسوع الإيمان الخلّاق الذي حاول به هؤلاء الرجال إحضار صديقهم المريض أمامه.
لا يعطي الإنجيل معلومات عن الوقت الذي أقامت فيه مريم ويوسف والطفل في مصر. لكنهم بالتأكيد كان عليهم أن يأكلوا، ويجدوا منزلًا، وعملًا. لا يتطلّب الأمر الكثير من الخيال حتى نعوّض عن صمت الإنجيل في هذا الصدد. فكان على العائلة المقدّسة أن تواجه مشاكل ملموسة مثل بقيّة العائلات، ومثل العديد من إخوتنا المهاجرين الذين ما يزالون اليوم أيضًا يخاطرون بحياتهم بسبب المحن والجوع. بهذا المعنى، أعتقد أن القدّيس يوسف هو حقًّا شفيع خاصّ لكلّ الذين يضطرّون إلى مغادرة أرضهم بسبب الحروب والكراهية والاضطهاد والبؤس.
في نهاية كلّ رواية كان يوسف بطلها، يشير الإنجيل إلى أنه يقوم ويأخذ الطفل وأمّه معه ويفعل ما أمره به الله (را. متى 1، 24؛ 2، 14. 21). إن يسوع ومريم أمّه في الواقع، هما أثمن كنز في إيماننا[21].
في التدبير الخلاصيّ، لا يمكننا أن نفصل الابن عن أمّه، عن التي "تقدَّمَت في غُربة الإيمان مُحافظةً بكلِّ أمانةٍ على الاتّحاد مع ابنها حتى الصليب"[22].
يجب أن نسأل أنفسنا دائمًا ما إذا كنّا نحمي بكلّ قوّتنا يسوع ومريم، الموكَلين، بشكل يفوق الفهم، إلى مسؤوليّتنا ورعايتنا وحمايتنا. فقد أتى ابن الله القدير إلى العالم بصورة ضعيفة للغاية. صار يحتاج إلى يوسف حتى يحرسه ويحميه ويرعاه ويربّيه. وضع الله ثقته في هذا الرجل، كما فعلت مريم أيضًا، التي وجدت في يوسف الشخص الذي لا يريد فقط إنقاذ حياتها، بل سوف يسهر على حاجاتها أيضًا وحاجات الطفل. بهذا المعنى، لا يسع القدّيس يوسف إلّا أن يكون حارسًا للكنيسة، لأن الكنيسة هي امتداد لجسد المسيح في التاريخ، وفي الوقت عينه تُظَلِّلُ أمومةُ الكنيسة أمومةَ مريم[23]. وفيما يستمرّ يوسف في حماية الكنيسة، إنه يواصل حماية الطفل وأمّه، ونحن أيضًا، فيما نحبّ الكنيسة، نستمرّ في حبّ الطفل وأمّه.
هذا الطفل هو الذي سيقول: "كُلَّما صَنعتُم شَيئاً مِن ذلك لِواحِدٍ مِن إِخوتي هؤُلاءِ الصِّغار، فلي قد صَنَعتُموه" (متى 25، 40). وهكذا فإن كلّ محتاج، وكلّ فقير، وكلّ شخص يعاني، وكلّ شخص يحتضر، وكلّ غريب، وكلّ سجين، وكلّ مريض هو "الطفل" الذي ما يزال يوسف يحرسه. ولذا نبتهل إلى القدّيس يوسف بصفته حاميًا للبائسين، والمحتاجين، والمنفيّين، والمحزونين، والفقراء، والمحتضرين. ولهذا السبب أيضًا لا يمكن للكنيسة إلّا أن تحبّ الأخيرين أوّلًا، لأن يسوع أعطاهم الأفضليّة، وتماهى معهم شخصيًّا. علينا أن نتعلّم من يوسف نفس الرعاية والمسؤوليّة: أن نحبّ الطفل وأمّه؛ أن نحبّ الأسرار المقدّسة والمحبّة. أن نحبّ الكنيسة والفقراء. كلّ من هذه الحقائق هي الطفل وأمّه.
6. العامل
إن علاقة القدّيس يوسف بالعمل تشكّل أحد الجوانب التي تميّزه، وقد سُلِّط الضوءُ عليها منذ أيّام الرسالة العامّة الاجتماعية الأولى للبابا ليون الثالث عشر، الشوق للتجديد (Rerum novarum). كان القدّيس يوسف نجّارًا يعمل بأمانة لكي يؤمّن معيشة عائلته. وقد تعلّم يسوعُ منه قيمة وكرامة وفرح ما يعني أن نأكل الخبز من عرق جبيننا.
يبدو أن العمل، في عصرنا، قد عاد ليمثّل مسألة اجتماعية ملحّة، فقد بلغت البطالة أحيانًا مستويات محرجة، حتى في البلدان التي شهدت بعض الرفاهية لعقود من الزمن. من الضروريّ بالتالي أن نفهم، بوعي متجدّد، معنى العمل الذي يعطي بعض الكرامة والذي يشكلّ قدّيسُنا شفيعًا مثاليًّا له.
إن العمل يصبح مشاركة في عمل الخلاص ذاته، وفرصة لاستعجال مجيء الملكوت وتنمية إمكاناتنا الشخصيّة وحسناتنا، إذ نضعه في خدمة المجتمع والشركة الكنسية؛ ويصبحُ العملُ فرصةً لنحقّق ليس فقط ذواتنا، إنما أيضًا وقبل كلّ شيء النواةَ الأصليّة للمجتمع التي هي الأسرة. فالأسرة التي ينقص فيها العمل تكون أكثر عرضة للصعوبات والتوتّرات والصدمات وحتى الميل إلى الانحلال اليائس والمُيَئِّس. كيف يمكننا أن نتحدّث عن كرامة الإنسان دون أن نبذل جهدنا لكي نضمن للجميع ولكلّ فرد إمكانيّةَ العيش الكريم؟
إن الشخص الذي يعمل، مهما كانت مهمّته، يتعاون مع الله نفسه، ويشارك بعض الشيء بخلق العالم من حولنا. قد تمثّل أزمةُ عصرنا، التي هي أزمة اقتصاديّة واجتماعيّة وثقافيّة وروحيّة، نداءً للجميع من أجل إعادة اكتشاف قيمة العمل وأهمّيته وضرورته، بهدف خلق "حالة طبيعية" جديدة، لا يُستثنى فيها أحد. يذكّرنا عمل القدّيس يوسف أن الله نفسه الذي صار بشرًا لم يحتقر العمل. وفقدان العمل الذي يطال العديد من الإخوة والأخوات، والذي زاد في الآونة الأخيرة بسبب جائحة فيروس الكورونا، يجب أن يكون بمثابة دعوة حتى نراجع أولويّاتنا. إننا نتضرّع إلى القدّيس يوسف العامل حتى نجد طرقًا تلزمنا بالقول: لا شابّ ولا شعب ولا أسرة، بلا عمل!
7. ظلّ الآب السماوي
روى الكاتب البولندي يان دوبراشينسكي حياةَ القدّيس يوسف بشكل رواية في كتابه "ظلّ الآب"[24]. وقد استخدم صورة الظلّ الموحية لكي يصوّر يوسف، الذي هو ظلّ الآب السماوي على الأرض بالنسبة ليسوع: يحرسه ويحميه، ولا ينفصل عنه أبدًا ليتبع خطاه. هذا ما ذكّر موسى به إسرائيل: "كما رأَيتَ في البرِّيَّة كَيفَ أن الرَّبَّ إِلهَكَ حَمَلَكَ كما يَحمِلُ المَرءُ وَلَدَه في كلِّ الطَّريقِ" (تث 1، 31). هكذا مارس يوسف الأبوّة طوال حياته[25].
إنّ الآباء لا يولدون آباء، بل يصبحون آباء. ولا يصبح المرء أبًا لمجرّد أنّه وُلِدَ له ابنٌ، بل لأنّه يعتني به بمسؤوليّة. وكلّ مرّة يتحمّل شخص ما مسؤوليّة حياة شخص آخر، فإنّه بطريقة ما يمارس الأبوّة تجاهه.
والأبناء في مجتمع زمننا الحاضر، غالبًا ما يبدون أيتامَ الأب. والكنيسةُ اليوم هي أيضًا بحاجة إلى آباء. فما يزال التوبيخ الذي وجّهه القدّيس بولس إلى أهل قورنتس ينطبق على أيّامنا هذه: "قَد يَكونُ لَكم أُلوفُ الحُرَّاسِ في المسيح، ولكِن لَيسَ لَكم عِدَّةُ آباء" (1 قور 4، 15)؛ يجب على كلّ كاهن أو أسقف أن يضيف مثل الرسول: "أَنا الَّذي وَلَدَكُم بِالبِشارة، في المسيحِ يَسوع" (نفس المرجع). ويقول لأهل غلاطية: "يا بَنِيَّ، أَنتُمُ الَّذينَ أَتَمَخَّضُ بِهم مَرَّةً أُخْرى حتَّى يُصوَّرَ فيهمِ المسيح!" (4، 19).
أن يكون المرء أبًا يعني أن يقود الابن في تجربة الحياة، أي في الواقع. وهذا لا يعني كَبحه أو سَجنه أو امتِلاكه بل جَعله قادرًا على الاختيار، والحرّية، والانطلاق. ولهذا السبب ربّما قد أضاف التقليد إلى صفةِ الأب التي مُنِحَت ليسوف صفةَ "العفيف". وهذا ليس مجرّد مؤشّر عاطفي، إنما مُلَخّص تصرّف يعبّر عن عدم الامتلاك. العفّة هي التحرّر من التملّك في جميع مجالات الحياة. وحده الحبّ العفيف هو الحبّ الحقيقي. لأن الحبّ الذي يريد امتلاك الآخر يصبح دومًا خطيرًا في النهاية، ويسجن الآخر ويخنقه، ويجعله غير سعيدًا. أمّا الله فقد أحبّ الإنسانَ بمحبّة عفيفة، وتركه حرًّا حتى في ارتكاب الأخطاء وفي الوقوف ضدّه. إن منطق الحبّ هو دائمًا منطق حرّية، وقد عرف يوسف كيف يحبّ بطريقة حرّة تفوق المألوف. لم يضع نفسه في المحور أبدًا. بل عرف كيف يحوّل اهتمامه عن ذاته، فوضع مريم ويسوع في محور حياته.
لا تكمنُ سعادةُ يوسف في منطق التضحية بالذات، بل في منطق هبة الذات. ولا نلاحظ في هذا الرجل أبدًا أيّ إحباط، بل ثقة وحسب. أمّا صمته الدائم فلا يشير إلى الاستياء بل إلى عمل ثقةٍ ملموس على الدوام. إن العالم يحتاج إلى آباء، ويرفض المتسلّطين، أي الذين يريدون استملاك الآخر ليملأوا فراغهم؛ العالم يرفض الذين يخلطون بين السلطة والاستبداد، بين الخدمة والخنوع، بين المواجهة والقمع، بين المحبّة والتشجيع على الاتّكاليّة، بين القوّة والدمار. كلّ دعوة حقيقية تولد من عطيّة الذات، التي هي نضوج للتضحية البسيطة. ويُطلَب هذا النوع من النضج أيضًا في الكهنوت والحياة المكرّسة. عندما لا تبلغ الدعوةُ، سواء كانت إلى الزواج أو العزوبيّة أو البتوليّة، نضجَ هبة الذات، وتتوقّف فقط عند منطق التضحية، فبدلًا من أن تكون علامة على جمال الحبّ وفرحه، قد تعبّر عن التعاسة والحزن والإحباط.
إن الأبوّة التي لا تقع في تجربة "عيش" حياة الأبناء بدلًا عنهم، تفتح دائمًا مجالات غير مسبوقة. فإنّ كلّ ابن يأتي بسرّه الخاص الفريد ولا يمكن أن يظهر إلّا بمساعدة أب يحترم حرّيته، بمساعدة أب يدرك أنه يكمل عمله التربوي، وأنّه يعيش الأبوّة بشكل كامل فقط عندما يصبح "عديم الفائدة"، وعندما يرى أن ابنه أصبح مستقلًّا ويسير وحيدًا في دروب الحياة، وعندما يضع نفسه في موضع يوسف، الذي لطالما عرف أن ذلك الابن ليس ابنه، إنما عُهِدَ به إليه كي يرعاه. هذا هو ما اقترحه يسوع بشكل أساسيّ عندما قال: "لا تَدْعوا أَحدًا أَبًا لَكم في الأَرض، لأَنَّ لَكم أَبًا واحدًا هو الآبُ السَّماويّ" (متى 23، 9).
كلّ مرّة نمارس فيها الأبوّة، يجب أن نتذكّر دائمًا أنها ليست استملاكًا، بل "علامة" تشير إلى أبوّة أسمى. بمعنى ما، نحن جميعًا دائمًا في مقام يوسف: إننا ظلّ الآب السماوي الأوحد، الذي "يُطلِعُ شَمْسَه على الأَشرارِ والأَخيار، ويُنزِلُ المَطَرَ على الأَبرارِ والفُجَّار" (متى 5، 45)؛ وظلّ يتبع الابن.
قال الله للقدّيس يوسف: "قُم فَخُذِ الطِّفْلَ وأُمَّه" (متى 2، 13).
الغرض من هذه الرسالة الرسوليّة هو تنمية حبّنا لهذا القدّيس العظيم، حتى نطلب شفاعته ونتشبّه بفضائله واندفاعه.
في الواقع، إن مهمّة القدّيسين المحدّدة ليست القيام بالمعجزات ومنح النِعَم وحسب، بل التشفّع لنا أمام الله، كما فعل إبراهيم[26] وموسى[27]، وكما يفعل يسوع "الوَسيطَ الأوحد" (را. 1 طيم 2، 5)، هو "شَفيعٌ لَنا" عِندَ الآب (1 يو 2، 1)، "لأَنَّه حَيٌّ دائمًا أَبَدًا لِيَشفَعَ [لنا]" (عب 7، 25؛ را. روم 8، 34).
إن القدّيسين يساعدون المؤمنين "ليتّبعوا درب القداسة ويبلغوا كمالهم"[28]. وحياتهم هي الدليل الملموس لإمكانيّة عيش الإنجيل.
قال يسوع: "تَتَلمَذوا لي فإِنِّي وَديعٌ مُتواضِعُ القَلْب" (متى 11، 29)، وهم بدورهم مثال يجب الاقتداء به. وقد حذّر القدّيس بولس صراحةً: "أَحُثُّكم إِذًا أَن تَقتَدوا بي!" (1 قور 4، 16) [29]. وهذا ما يقوله القدّيس يوسف من خلال صمته البليغ.
أمام مثال العديد من القدّيسين والعديد من القدّيسات، سأل القدّيس أوغسطينوس نفسه: "هذا الذي صنعه هؤلاء الرجال وتلك النساء، ألا تستطيع أن تفعله أنت؟" وهكذا بَلَغ الارتداد النهائيّ قائلًا: "لقد أحببتك متأخّرًا، أيها الجمال القديم للغاية والحديث للغاية!"[30].
لم يبقَ لنا سوى التماس نِعمَة النِعَم من القدّيس يوسف: نعمة ارتدادنا.
نرفع إليه هذه الصلاة:
السلام عليكَ يا حامي المخلّص،
وخطّيبَ العذراء مريم.
لقد ائتمنك الله على ابنه؛
وبكَ وضعَت مريم ثقتها؛
ومعكَ صارَ يسوعُ رجلًا.
أيّها الطوباوي يوسف، كنْ أبًا لنا نحن أيضًا،
وأرشِدنا في درب الحياة.
التَمِسْ لنا النعمةَ والرحمةَ والشجاعةَ،
واحْمِنا من كلّ شرّ. آمين.
روما، قرب كاتدرائية القدّيس يوحنا اللاتيراني، 8 كانون الأوّل/ديسمبر، عيد الحبل بلا دنس، من سنة 2020، الثامنة من حبريّتي.
___________
[1] لو 4، 22؛ يو 6، 42؛ را. متى 13، 55؛ مر 6، 3.
[2] مجمع الطقوس المقدّسة، كما صنع اللهQuemadmodum Deus (8 كانون الأول/ديسمبر 1970). أعمال الكرسي الرسولي (Acta Sanctae Sedis) 6 (1870- 1871)، 194.
[3] خطاب البابا إلى الجمعيات المسيحية للعمال الإيطاليين (ACLI) بمناسبة عيد القديس يوسف العامل (1 أيار/مايو 1955). أعمال الكرسي الرسولي 47 (1955)، 406.
[4] الإرشاد الرسولي حامي المخلّص Redemptoris custos (15 آب/أغسطس 1989): أعمال الكرسي الرسولي 82 (1990)، 5- 34.
[5] التعليم المسيحي للكنيسة الكاثوليكية، 1014.
[6] صلاة استثنائية في زمن الوباء (27 آذار/ مارس 2020). أوسيرفاتوري رومانو باللغة الفرنسية، 31 آذار/ مارس 2020، ص. 5.
[7] عظة في إنجيل القديس متى، V، 3: الآباء اليونانيين 57، 58.
[8] عظة البابا (19 آذار/مارس 1966): تعاليم البابا بولس السادس، IV (1966)، ص. 110.
[9] را. كتاب الحياة، 6، 6- 8.
[10] منذ أكثر من أربعين عامًا، أتلو يوميًّا بعد صلاة الصباح، صلاةً للقدّيس يوسف، مأخوذة من كتاب صلاة فرنسي، من القرن التاسع عشر، أصدرته رهبنة يسوع ومريم. إنها صلاة تكريم للقدّيس يوسف وتعبّر عن ثقة كبيرة به: "أيها البطريرك العظيم، القدّيس يوسف، أنت الذي بقوّتك تجعل الأمورَ المستعصية ممكنة، ساعدني في لحظات الأسى والمصاعب هذه. خُذ في ظلّ حمايتك الظروف الخطيرة والصعبة التي أوكلها إليك، حتى تنتهي على خير. أبي الحبيب، إن ثقتي فيك كاملة. لا تسمح بأن يُقال إنّي لجأت إليك عبثًا. وبما أنك كلّي القدرة عند يسوع ومريم، أظهر لي أن عظمة صلاحك تساوي عظمة قوّتك. آمين".
[11] را. تث 4، 31؛ مز 69، 17؛ 78، 38؛ 86، 5؛ 111، 4؛ 116، 5؛ إر 31، 20.
[12] را. الإرشاد الرسولي فرح الإنجيل Evangelii gaudium (24 تشرين الثاني/ نوفمبر 2013)، عدد 88، 288: أعمال الكرسي الرسولي 105 (2013)، ص. 1057؛ ص. 1136- 1137.
[13] را. تك 20، 3؛ 28، 12؛ 31، 11. 24؛ 40، 8؛ 41، 1- 32؛ عدد 12، 6؛ 1 صم 3، 3- 10؛ دا 2 و4؛ أي 33، 15.
[14] في هذه الحالة تنصّ الشريعة على حكم الإعدام رجمًا (را. تث 22، 20- 21).
[15] را. أح 12، 1- 8؛ خر 13، 2.
[16] را. متى 26، 39؛ مر 14، 36؛ لو 22، 42.
[17] القدّيس يوحنا بولس الثاني، الإرشاد الرسولي حامي المخلّص Redemptoris custos (15 آب/أغسطس 1989): أعمال الكرسي الرسولي 82 (1990)، 14.
[18] عظة قداسة البابا فرنسيس خلال القداس الإلهي، فيلافيسينسيو-كولومبيا (8 أيلول/ سبتمبر 2017): أعمال الكرسي الرسولي 109 (2017)، 1061؛ أوسيرفاتوري رومانو باللغة الفرنسية، 14 أيلول/سبتمبر 2017، ص. 5.
[19] كتيّب في الإيمان والرجاء والمحبة، 3. 11: الآباء اللاتين 40، 236.
[20] را. تث 10، 19؛ خر 22، 20- 22؛ لو 10، 29- 37.
[21] را. مجمع الطقوس المقدّسة، كما صنع اللهQuemadmodum Deus (8 كانون الأول/ديسمبر 1970): أعمال الكرسي الرسولي (Acta Sanctae Sedis) 6 (1870- 1871)، 193. البابا بيوس التاسع. الطوباوي بيوس التاسع، الرسالة الرسولية البطريك العظيم Inclytum Patriarcham (7 تموز/يوليو 1871): نفس المرجع المذكور ص. 324- 327.
[22] المجمع الفاتيكاني الثاني، الدستور العقائدي نور الأمم Lumen gentium، 58.
[23] التعليم المسيحي للكنيسة الكاثوليكية، 963- 970.
[24] الطبعة الأصلية ظل الآب Cień Ojca وارسو، 1977.
[25] را. القدّيس يوحنا بولس الثاني، الإرشاد الرسولي حامي المخلّص Redemptoris custos (15 آب/أغسطس 1989) 7- 8: أعمال الكرسي الرسولي 82 (1990)، 12- 16.
[26] را. تك 18، 23- 32.
[27] را. خر 17، 8- 13؛ 32، 30- 35.
[28] المجمع الفاتيكاني الثاني، الدستور العقائدي نور الأمم Lumen gentium، 42.
[29] را. 1 قور 11، 1؛ فيل 3، 17؛ 1 تس 1، 6.
[30] اعترافات القدّيس أوغسطينوس، 8، 11، 27: الآباء اللاتين 32، 761؛ 10، 27، 38: الآباء اللاتين 32، 795.
[01509-AR.01] [Original text: Italian]
[B0645-XX.02]