Intervento dell’Em.mo Card. Luis F. Ladaria Ferrer, S.I.
Intervento di S.E. Mons. Giacomo Morandi
Intervento della Prof.ssa Gabriella Gambino
Intervento del Prof. Adriano Pessina
Alle ore 11.30 di questa mattina, presso l’Aula “Giovanni Paolo II” della Sala Stampa della Santa Sede, ha avuto luogo una Conferenza Stampa di presentazione della Lettera Samaritanus bonus sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita, redatta dalla Congregazione per la Dottrina della Fede.
Sono intervenuti l’Em.mo Card. Luis Francisco Ladaria Ferrer, S.I., Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede; S.E. Mons. Giacomo Morandi, Segretario della medesima Congregazione; la Prof.ssa Gabriella Gambino, Sotto-Segretario del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita; e il Prof. Adriano Pessina, Membro del Direttivo della Pontificia Accademia per la Vita.
Ne riportiamo di seguito gli interventi:
Intervento dell’Em.mo Card. Luis F. Ladaria Ferrer, S.I.
1) Nel corso della Sessione Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede, dell’anno 2018, a proposito delle questioni riguardanti l’accompagnamento dei malati nelle fasi critiche e terminali della vita, i Padri del Dicastero hanno suggerito l’opportunità di un Documento che trattasse della tematica, non solo in modo dottrinalmente corretto, ma anche con un accento fortemente pastorale e con un linguaggio comprensibile, all’altezza del progresso delle scienze mediche. Occorreva approfondire, in particolare, i temi dell’accompagnamento e della cura dei malati dal punto di vista teologico, antropologico e medico-ospedaliero, focalizzando anche alcune questioni etiche rilevanti, implicate nella proporzionalità delle terapie e riguardanti l’obiezione di coscienza e l’accompagnamento pastorale dei malati terminali.
2) Alla luce di queste considerazioni, dopo varie fasi preliminari di studio in cui diversi Esperti hanno offerto il proprio qualificato contributo redazionale, una prima Bozza di Documento ha finalmente preso forma. Il testo, accanto alla figura del Buon Samaritano, offre un breve riferimento a quella del Cristo sofferente, testimone partecipe del dolore fisico, dell’esperienza della precarietà e perfino della desolazione umana, che in Lui divengono abbandono fiducioso all’amore del Padre. Tale confidente consegna di sé al Padre, nell’orizzonte della Resurrezione, conferisce un valore redentivo alla sofferenza stessa e dischiude, oltre il buio della morte, la luce della vita ultraterrena. Alla prospettiva di chi si prende cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita, è venuta così opportunamente ad associarsi nel testo anche una prospettiva di speranza per la sofferenza vissuta da coloro che sono affidati alle amorevoli cure degli operatori sanitari.
3) Ogni malato, infatti, «ha bisogno non soltanto di essere ascoltato, ma di capire che il proprio interlocutore “sa” che cosa significhi sentirsi solo, abbandonato, angosciato di fronte alla prospettiva della morte, al dolore della carne, alla sofferenza che sorge quando lo sguardo della società misura il suo valore nei termini della qualità della vita e lo fa sentire di peso per i progetti altrui» (p. 9). Per questo, «per quanto così importanti e cariche di valore, le cure palliative non bastano se non c’è nessuno che “sta” accanto al malato e gli testimonia il suo valore unico e irripetibile. […] Ed è importante, in un’epoca storica in cui si esalta l’autonomia e si celebrano i fasti dell’individuo, ricordare che se è vero che ognuno vive la propria sofferenza, il proprio dolore e la propria morte, questi vissuti sono sempre carichi dello sguardo e della presenza di altri. Attorno alla Croce ci sono anche i funzionari dello Stato romano, ci sono i curiosi, ci sono i distratti, ci sono gli indifferenti e i risentiti; sono sotto la Croce, ma non “stanno” con il Crocefisso. Nei reparti di terapia intensiva, nelle case di cura per i malati cronici, si può essere presenti come funzionari o come persone che “stanno” con il malato» (p. 11).
4) Il Documento, presentato all’attenzione del Santo Padre e da Lui approvato in data 25 giugno 2020, reca dunque il titolo di Samaritanus bonus. Sono stati scelti il genere letterario della Lettera e la data del 14 luglio 2020, memoria liturgica di San Camillo de Lellis (1550-1614). Nel XVI secolo – epoca in cui è vissuto il nostro Santo - gli incurabili venivano per lo più consegnati a mercenari; alcuni di essi, delinquenti, venivano costretti a quel lavoro con la forza; altri si rassegnavano a quest’opera, per non aver avuto diversa possibilità di guadagno. Camillo volle “uomini nuovi per una assistenza nuova”. E un pensiero fisso lo aveva afferrato: sostituire i mercenari con persone disposte a stare con i malati solo per amore. Desiderava avere con sé gente che “non per mercede, ma volontariamente e per amore d’Iddio li servissero con quell’amorevolezza che sogliono fare le madri verso i propri figli infermi”.
5) Anche se l’insegnamento della Chiesa in materia è chiaro e contenuto in noti documenti magisteriali – in particolare la Lettera Enciclica Evangelium vitae di San Giovanni Paolo II (25 marzo 1995), la Dichiarazione Iura et bona della Congregazione per la Dottrina della Fede (5 maggio 1980), la Nuova carta degli Operatori sanitari (2016) dell’allora Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, oltre a numerosi discorsi e interventi effettuati dagli ultimi Sommi Pontefici -un nuovo organico pronunciamento della Santa Sede sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita è parso opportuno e necessario in relazione alla situazione odierna, caratterizzata da un contesto legislativo civile internazionale sempre più permissivo a proposito dell’eutanasia, del suicidio assistito e delle disposizioni sul fine vita.
6) Al riguardo, un caso del tutto speciale in cui è necessario riaffermare l’insegnamento della Chiesa è l’accompagnamento pastorale di colui che ha chiesto espressamente l’eutanasia o il suicidio assistito. Per poter ricevere l’assoluzione nel sacramento della Penitenza, così come l’Unzione degli infermi e il Viatico, occorre che la persona, eventualmente registrata presso un’associazione deputata a garantirle l’eutanasia o il suicidio assistito, mostri il proposito di retrocedere da tale decisione e di annullare la propria iscrizione presso tale ente. Non è ammissibile da parte di coloro che assistono spiritualmente questi infermi alcun gesto esteriore che possa essere interpretato come un’approvazione anche implicita dell’azione eutanasica, come, ad esempio, il rimanere presenti nell’istante della sua realizzazione. Ciò, unitamente all’offerta di un aiuto e di un ascolto sempre possibili, sempre concessi, sempre da perseguire, insieme ad una approfondita spiegazione del contenuto del sacramento, al fine di dare alla persona, fino all’ultimo momento, gli strumenti per poterlo accogliere in piena libertà (cfr. punto V,11, pp. 41-42).
7) Come è ben detto nel primo paragrafo del Documento, dal titolo “Prendersi cura del prossimo”, «la cura della vita è la prima responsabilità che il medico sperimenta nell’incontro con il malato. Essa non è riducibile alla capacità di guarire l’ammalato, essendo il suo orizzonte antropologico e morale più ampio: anche quando la guarigione è impossibile o improbabile, l’accompagnamento medico-infermieristico…psicologico e spirituale, è un dovere ineludibile, poiché l’opposto costituirebbe un disumano abbandono del malato. La medicina, infatti, che si serve di molte scienze, possiede anche una importante dimensione di “arte terapeutica” che implica una relazione stretta tra paziente, operatori sanitari, familiari e membri delle varie comunità di appartenenza del malato: arte terapeutica, atti clinici e cura sono inscindibilmente uniti nella pratica medica, soprattutto nelle fasi critiche e terminali della vita» (p. 6).
8) La testimonianza cristiana mostra come la speranza sia sempre possibile, anche quando la vita è avvolta e appesantita dalla “cultura dello scarto”. E siamo tutti chiamati ad offrire il nostro specifico contributo, perché – come ha detto Papa Francesco (rivolgendosi ai dirigenti degli Ordini dei Medici di Spagna e America Latina, il 9 giugno 2016) – a essere in gioco sono la dignità della vita umana e la dignità della vocazione medica. Grazie.
[01073-IT.01] [Testo originale: Italiano]
Intervento di S.E. Mons. Giacomo Morandi
1) La Lettera Samaritanus bonus fa appello ad un’esperienza umana universale: quella per cui la domanda sul senso della vita si fa ancora più acuta allorquando la sofferenza incombe e la morte si approssima. Il riconoscimento della fragilità e vulnerabilità della persona malata – anche se, in radice, fragile e vulnerabile è l’essere umano come tale – apre lo spazio all’etica del prendersi cura: «Esercitare la responsabilità nei confronti della persona malata, significa assicurarne la cura fino alla fine: “guarire se possibile, aver cura sempre (to cure if possible, always to care)” (Giovanni Paolo II). Quest’intenzione di curare sempre il malato offre il criterio per valutare le diverse azioni da intraprendere nella situazione di malattia “inguaribile”: inguaribile, infatti, non è mai sinonimo di “incurabile”. […] L’obiettivo dell’assistenza deve mirare all’integrità della persona, garantendo con i mezzi adeguati e necessari il supporto fisico, psicologico, sociale, familiare e religioso» (parte I, p. 8).
2) In questo senso, è importante mettere bene a fuoco che il dolore è esistenzialmente sopportabile soltanto laddove c’è una speranza affidabile. E una speranza così può essere comunicata soltanto laddove c’è una “coralità di presenza” che spera attorno al malato sofferente. La Madre e il discepolo amato “stanno” vicino a Gesù e, «in questo loro “stare” presso la Croce, partecipano, con la loro umana dedizione al Sofferente, al mistero della Redenzione» (parte II, p. 11). Per questo, la risposta cristiana al mistero della morte e della sofferenza non è anzitutto una spiegazione, ma una Presenza, secondo la felice espressione di Cicely Saunders, citata nel paragrafo del Documento dedicato al ruolo della famiglia e degli hospice (cfr. p. 29). È la testimonianza, umile ma certa, della vicinanza di Dio alla nostra vita, vicinanza che ci abilita ad accompagnare con speranza affidabile, anche nella prova suprema della sofferenza e della morte.
3) È proprio della comunità cristiana, della Chiesa nella sua stessa natura, «accompagnare con misericordia i più deboli nel loro cammino di dolore, per mantenere in loro la vita teologale e indirizzarli alla salvezza di Dio». E la Chiesa non cessa di affermare «il senso positivo della vita umana come un valore già percepibile dalla retta ragione, che la luce della fede conferma e valorizza nella sua inalienabile dignità». Affermare la sacralità e l’inviolabilità della vita umana significa non misconoscere il valore radicale della libertà del sofferente, fortemente condizionata dalla malattia e dal dolore: tale misconoscimento si verificherebbe invece nel momento in cui si dovesse acconsentire alla richiesta di negargli, con l’eutanasia, ogni ulteriore possibilità di relazione umana benefica (cfr. parte III, pp. 13-14).
4) Ci sono alcuni ostacoli di carattere culturale che, oggigiorno, limitano la capacità di cogliere il valore profondo e intrinseco di ogni vita umana. Il Documento ne segnala alcuni: a) un uso equivoco del concetto di “morte degna”, allorché con tale espressione si intende trasferire anche all’ambito medico-clinico una prospettiva prevalentemente legata – come affermato da papa Francesco (cfr. Discorso al Congresso dell’Associazione Medici Cattolici Italiani nel 70° anniversario di fondazione, 15 novembre 2014) – «alle possibilità economiche, al “benessere”, alla bellezza e al godimento della vita fisica, dimenticando altre dimensioni più profonde – relazionali, spirituali e religiose – dell’esistenza». b) Una erronea comprensione del concetto di “compassione”, secondo cui, per non soffrire, sarebbe “compassionevole” aiutare il paziente a morire attraverso l’eutanasia o il suicidio assistito. In realtà, come recita con chiarezza il testo, «la compassione umana non consiste nel provocare la morte, ma nell’accogliere il malato, nel sostenerlo dentro le difficoltà, nell’offrirgli affetto, attenzione e mezzi per alleviare la sofferenza». c) Ancora, l’individualismo crescente, che induce a vedere gli altri come limite e minaccia alla propria libertà. d) Il tutto sintetizzabile, infine, in una concezione complessivamente utilitaristica dell’esistenza, secondo la quale la vita vale fino a quando è produttiva e utile, innescando i perversi dinamismi della cosiddetta “cultura dello scarto” (cfr. parte IV, pp. 15-17).
5) Il Magistero della Chiesa ha a cuore e desidera riaffermare con chiarezza il bene integrale della persona umana. In questo senso il Documento dichiara: «Alimentazione e idratazione non costituiscono una terapia medica in senso proprio, in quanto non contrastano le cause di un processo patologico in atto nel corpo del paziente, ma rappresentano una cura dovuta alla persona del paziente, un’attenzione clinica e umana primaria e ineludibile» (p. 26). Nello stesso tempo qualifica le cure palliative come «simbolo tangibile del compassionevole “stare” accanto a chi soffre». Così, delle cure palliative fa parte anche l’assistenza spirituale al malato e ai suoi familiari: si tratta di «un contributo essenziale che spetta agli operatori pastorali e all’intera comunità cristiana, sull’esempio del Buon Samaritano, perché al rifiuto subentri l’accettazione e sull’angoscia prevalga la speranza, soprattutto quando la sofferenza si prolunga per la degenerazione della patologia, all’approssimarsi della fine» (parte V, pp. 26-27).
6) Concludo con parole tratte da Sentieri di vita. La dinamica degli Esercizi ignaziani nell’itinerario delle Scritture di Francesco Rossi de Gasperis (vol. 3: Terza e Quarta Settimana. I Misteri della Pasqua del Messia Gesù, Paoline, Milano 2010, p. 509): «Bisognerà dunque aiutare e accompagnare saggiamente le persone a morire bene e nella speranza, ricapitolandosi secondo lo Spirito, e non addormentarle perché non si accorgano di ciò che sta accadendo loro. Bisognerà aver cura, fino alla fine, di nutrire in tutti, e con ogni modo, l’amore, più ancora dell’anestesia. Bisogna parlare della morte, specialmente quando si è ben vivi, raccontare come Gesù l’ha vissuta, come il capolavoro della propria vita. Bisogna prepararsi alla morte, convertirsi a recuperare e unificare, consumandola nell’amore, la nostra esistenza e la nostra storia: le amicizie e le inimicizie, le conoscenze e gli affetti, le sofferenze e le gioie, le fatiche, le malattie, le delusioni e le sconfitte, la giovinezza e la vecchiaia, l’età adulta e la senilità, ecc. Cogliamo tutto il tempo che ci è concesso per questo. La morte dovrebbe essere la più bella “opera d’arte” di un credente».
[01074-IT.01] [Testo originale: Italiano]
Intervento della Prof.ssa Gabriella Gambino
Sono tre gli aspetti della Samaritanus bonus che vorrei approfondire brevemente e che costituiscono i principi fondanti della Lettera.
Il primo aspetto è la condizione umana da cui prende le mosse il documento: la vulnerabilità di ogni essere umano, corpo e spirito, misteriosamente segnato da quel desiderio di Amore infinito che lo destina all’eternità.
Il malato, in particolare, è colui che vive una condizione di sofferenza e bisogno, nella quale la scissione fra corpo e anima esige - nella relazione di cura - la ricomposizione dell'integrità della persona. Nella malattia, il paziente ha un disperato bisogno di aiuto nel cogliere e assumere su di sé il senso di quella indicibile sofferenza, superando la mera ragione umana e i sentimenti, in una prospettiva capace di raccogliere tutta la dimensione spirituale e trascendente della persona.
Una delle maggiori sfide che la Lettera Samaritanus bonus sottende è, infatti, l’antropocentrismo tipico della modernità, centrato sulla cultura dell’autonomia e dell’indipendenza dell’uomo da Dio, per cui l’orizzonte entro il quale si cerca il valore della sofferenza umana è quello meramente antropologico immanente: l’uomo si limita a cercare il significato ultimo della vita e della morte in quello che Benedetto XVI definiva il bunker della propria ragione. E in essa resta imprigionato. La dimensione spirituale dell’uomo, piuttosto, non si riduce alla realtà della psiche, dell’intelletto umano, della volontà o del sentimento, ossia ad una spiritualità gnostica - come oggi si tende a credere - ma si muove a partire dalla presenza di un’Alterità, dall’azione dello Spirito Santo, e ha pertanto bisogno di aprirsi alla relazione con un Padre, che ha il Volto dell’Amore, con il quale entrare in comunione, specialmente alla fine della propria vita. È l’incontro con questo Amore che decentra l’uomo da sé e gli consente di trovare quella pace che allontana la paura e la disperazione: è l’incontro con Cristo, che non dona, ma si dona, trasfigurando la sofferenza della persona malata, rendendola espressione di quell’Amore che solo restituisce all’uomo la dignità che gli è propria.
Per questo la cura non può ridursi al prendersi cura del malato in una prospettiva medica o psicologica, ma deve estendersi a quell’atteggiamento virtuoso di devozione e preoccupazione per l'altro, che si sostanzia nell'avere cura di tutta la persona in stato di bisogno. È l'avere cura, infatti, che sottende l'incontro dell'Io col Tu, richiamando l'uomo da quella condizione di insignificanza ed ansietà in cui lo getta la malattia, aiutandolo a ritrovare unità di corpo e spirito. Un aspetto, questo, carico di implicazioni pastorali e bioetiche, che dovrebbe indurci a modificare il modo con cui in tanti contesti di cura si prendono in carico i malati critici e terminali.
E vengo al secondo punto: ossia il principio per cui l’avere cura dell’altro in stato di bisogno non è solo una questione etica di solidarietà sociale o di beneficialità e non maleficenza, al fine di perseguire il bene e non far danno all’altro, ma è molto di più: è il “dare a ciascuno il suo”, il dovere giuridico, in senso stretto, di riconoscere ad ogni persona ciò che le spetta, in virtù della propria vulnerabilità; il riconoscimento, come dato di fatto, del valore inestimabile della propria vita, come limite invalicabile di fronte a qualunque rivendicazione di autonomia. Nella relazione di cura, infatti, che è di per sé una relazione asimmetrica, si impone una domanda di giustizia, ossia di ritorno alla simmetria, di riconoscimento dell'altro in stato di bisogno e del senso del suo esserci nel mondo. La cura, in altre parole, appartiene - oltre che alla dimensione etica del bene - all'ordine della giustizia.
È quest’aspetto a generare i maggiori problemi oggi: nella società liberale del nostro tempo, l’autonomia e la reciprocità (nel senso del do-ut-des, ossia “ti do se tu mi dai”) si sono fatte espressione di un concetto di bene che scaturisce da una mentalità contrattualista, centrata sul “diritto alla solitudine” e sul principio del “permesso-consenso” dell’individuo, per cui anche al vivere si può rinunciare come ad un qualsiasi bene materiale. In tal senso, ciò che la Samaritanus bonus intende ribadire con forza è che nella relazione di cura, il modello contrattualista va sostituito con un modello costruito sul principio di vulnerabilità, nel quale chi ha cura del malato agisce in virtù di una responsabilità che, a partire dalla propria condizione originaria di vulnerabilità, prende coscienza del suo dover aver cura dell’altro che soffre. Segnando così l'orizzonte etico in cui la responsabilità orienta l'agire umano: l'attenzione, cioè, a non scavalcare mai il limite della protezione della vita umana. L’avere cura della vita non si fonda, dunque, su un teorico rispetto di principi, che possono oscillare a seconda delle circostanze, ma sull’interdipendenza tra gli esseri umani, sul nostro essere-come-l’altro e con-l’altro nella fragilità. Per questo non può mai venir meno.
E vengo all’ultimo aspetto sul quale ritengo necessario soffermare l’attenzione, quello che costituisce il fondamento di qualsiasi ordine giuridico: il valore di ogni persona in qualunque fase e condizione critica dell’esistenza.
Ciascuno di noi è creato a immagine e somiglianza di Dio ed è destinato alla comunione con Lui: in questa vocazione - e non in altro - sta il fondamento della nostra dignità. Per questo la vita umana è sempre un bene intangibile e inalienabile, di cui nessuno può privare un altro, nemmeno su richiesta. Non esiste il diritto a disporre della propria vita, non esiste il diritto a disporre della vita altrui. Le leggi che in qualsiasi modo legalizzano pratiche eutanasiche, inclusi i protocolli medici come i “Do not resuscitate order”, che vincolano i medici all’assoluta autodeterminazione dei pazienti, deformano la relazione di cura, generano abusi nei confronti dei soggetti più deboli, come le persone anziane, e creano una evidente confusione culturale nel discernimento tra bene e male. Le stesse cure palliative, che sono essenziali e doverose per garantire la continuità dell’assistenza al malato nelle fasi critiche e terminali della vita, non possono diventare forme di cripto-eutanasia, quando siano previste da leggi nazionali sul fine-vita che prevedono la cosiddetta Assistenza Medica alla Morte volontaria, inducendo a credere che eutanasia e suicidio assistito siano parte delle cure palliative. In tal senso, qualunque forma di rispetto della volontà del paziente – espressa anche tramite dichiarazioni anticipate - o di rinuncia all’accanimento terapeutico deve sempre e comunque escludere qualsiasi atto o intenzione di natura eutanasica o suicidaria e piuttosto accompagnare alla morte naturale.
Ciò vale anche nei confronti dei bambini in età prenatale e pediatrica, rispetto ai quali occorre far luce su due questioni: in primo luogo, il principio della prevenzione, che non si sostanzia mai nell’uccisione deliberata di una vita umana innocente per evitare che nascano bambini malati o destinati ad una breve vita. L’aborto selettivo ed eugenetico è gravemente illecito, così come, dopo la nascita, la sospensione o la non attivazione di cure al bambino solo per la possibilità o il timore che sviluppi delle disabilità. Al bambino, prima e dopo la nascita, spetta la medesima continuità assistenziale e di cura degli adulti, che oggi si può attuare negli Hospice perinatali. Il secondo principio è quello del “miglior interesse del minore”: in nessun modo esso può essere utilizzato per decidere di abbreviare la vita di un bambino al fine di evitargli delle sofferenze con azioni od omissioni che possano configurarsi come eutanasiche. Piuttosto, esso comporta che siano sempre garantite le cure essenziali di sostegno vitale finché l’organismo è in grado di beneficiarne, adottando tutte le misure necessarie perché siano somministrate in maniera personalizzata, dolce, indolore e proporzionata, ossia nel suo vero interesse.
Dinanzi alla complessità della gestione medica della malattia e della morte, ad una cultura secolarizzata e a legislazioni che ci confondono sul valore della sofferenza e della nostra vita, con la Lettera Samaritanus bonus la Chiesa desidera rimettere al centro l’uomo nella sua integralità, uni-totalità di corpo e spirito, e ricordarci che siamo figli di un Padre che ci ha amati sino alla fine, l’unico che può rendere dolce il peso della nostra sofferenza.
[01075-IT.01] [Testo originale: Italiano]
Intervento del Prof. Adriano Pessina
Le problematiche sollevate dalla Lettera “Samaritanus bonus” in rapporto alle istanze odierne dell’antropologia.
In un periodo storico, in cui sembra più facile confidare nella scienza e nella tecnica che negli uomini, la Lettera Samaritanus Bonus pone al centro, con chiarezza, l’importanza delle relazioni umane nelle situazioni critiche della malattia e nelle fasi terminali della vita.
La nostra è un’epoca che evoca la dignità personale, l’autonomia, la libertà individuale, ma poi delega alla tecnologia, alle scienze mediche e farmacologiche le tecniche di cura e di assistenza medica; e quando la tecnologia non può più nulla, quando le fasi della malattia richiedono la pazienza del coinvolgimento personale e la morte si fa prossima, ecco emergere la tentazione di delegare alla morte - nella forma del suicidio assistito, dell’eutanasia, dell’abbandono terapeutico - quella risposta alla domanda di “senso” della vita cui nessuna macchina, neppure la più sofisticata intelligenza artificiale, può rispondere.
Questa Lettera è, nella sua sostanza, un invito a ridare “senso” ai tempi lunghi della malattia e della disabilità, a ridare, cioè, “senso” alla condizione mortale dell’uomo, senza abbracciare nessun vitalismo, e al contempo, senza mai banalizzare la serietà del morire: soprattutto in questo contesto storico in cui proprio il processo del morire – tra eccessi tecnologici e ideologici – è continuamente esposto a modelli culturali erosivi che ignorano il nesso che lega, indissolubilmente, il riconoscimento del valore dell’essere umano con il divieto di uccidere.
Il liberismo contemporaneo, con l’alibi del rispetto dell’autonomia del singolo cittadino, dell’osservanza della sua libertà, ha fin qui varato alcune leggi che, nelle loro conseguenze pratiche, hanno trasformato il giudizio individuale di alcuni sulla loro vita in una serie di criteri generali che di fatto pesano come un implicito e ingiusto giudizio su tutti coloro che versano in analoghe condizioni cliniche: si è passati così dall’individuale all’universale, dall’eccezione alla regola e si è minato quel principio etico e politico del “non uccidere” che è la base di ogni rapporto democratico tra pari.
Quegli assetti legislativi che, in alcuni Paesi, permettono, oramai, il suicidio assistito e l’eutanasia, stanno, purtroppo, favorendo un milieu culturale in cui le persone che si trovano in gravose e perduranti condizioni di malattia, o devono affrontare le fasi terminali della vita, rischiano di essere ingiustamente stigmatizzate come indegne di vivere, rappresentate come coloro che danneggiano le autonomie altrui perché – pur segnate dalla malattia - non vogliono cedere alla disperazione e anticipare la loro morte, assecondando quella logica dello “scarto” di cui, peraltro, ha parlato ripetutamente Papa Francesco in questi anni di pontificato. Da qui l’innesco di una logica produttiva che colpisce indistintamente tutti coloro che, a fronte delle loro condizioni di salute, non rientrano in quel nuovo parametro che è la cosiddetta “qualità” della vita che, da modello a cui tendere, è diventato criterio di discriminazione antropologica.
Un criterio e una mensura, quello della “qualità della vita”, che, in realtà, descrive solo una “quantità” di funzioni - appunto misurate facendo riferimento al pieno possesso delle capacità fisiche e psichiche - che finisce con il condannare chi se ne trova privato, per malattia o disabilità gravissima.
Un modello culturale che, a lungo andare, incide anche nell’autorappresentazione del singolo individuo, facendolo sentire un “peso”, economico, esistenziale, affettivo per la società e persino per i suoi famigliari. Con il risultato che in simili società prestazionali e pelagiane, l’io personale, disarticolato in funzioni, finisce con il risentire sempre dello sguardo grave di un io sociale anti-solidaristico e prestazionale, rischiando di diventarne definitivamente vittima, quando fragile e ammalato.
Ma l’essere umano malato non è ‘cascame’, non è misurabile in base alle sue funzioni. E questa Lettera, dunque, ci ricorda che non ci sono vite indegne di essere vissute e che se non c’è nulla di amabile nella malattia, nella sofferenza e nella morte, che vanno per questo affrontate e combattute, è altrettanto vero che è proprio l’uomo, malgrado le sue limitazioni, fragilità, fatiche, che è sempre degno di essere amato. Occorre, perciò, tornare a “vedere” e custodire il valore dell’essere umano nella sua concretezza esistenziale, unica e irripetibile.
Il Buon Samaritano è, allora, una figura teologica e antropologica capace di ripristinare uno sguardo umano.
È lo sguardo consapevole di chi non confonde il concetto di inguaribile con il concetto di incurabile. Lo sguardo di chi non usa del criterio della “qualità” per abbandonare la persona alla sua disperazione sapendo riconoscere, invece, una qualità intrinseca all’uomo stesso: quella “qualità” che in termini laici si chiama dignità della vita umana e in termini cristiani sacralità della vita umana.
Viviamo in un’epoca di profonde solitudini, dissimulate: l’istanza dell’autonomia, pur nella sua importanza, ha finito con il trasformarsi nella logica dell’abbandono, terapeutico e assistenziale, perché nessuna autonomia è in sé in grado di reggere il peso del dolore e della sofferenza propria e altrui se non sa riconoscere i valori della reciproca dipendenza e solidarietà.
In questa prospettiva valoriale, la Lettera Samaritanus Bonus, che non è un semplice trattato o un protocollo, si presenta come un invito preciso all’uomo contemporaneo: l’esortazione a stare accanto alle persone, a farsi prossimi nelle ore della Croce.
Questa Lettera ci ricorda che il Dio che resta fedele all’uomo, rappresentato dal Buon Samaritano, e lo salva, è lo stesso Dio che ha vissuto l’esperienza della sofferenza, dell’abbandono, dell’incomprensione, della morte: Egli sa di che cosa si tratta, non è un semplice “osservatore” della condizione umana. Ma, inchiodato su un legno di condanna e di tortura - che sembra evocare quell’uso sproporzionato della tecnologia che inchioda i pazienti; deriso da chi non lo capisce; abbandonato da chi non ha avuto il coraggio di partecipare alle sue sofferenze – Egli conserva la sua fiducia nella fedeltà del Padre e nell’amore straziante della madre che sta sotto la croce con i discepoli fedeli. Stabat Mater: quando non si può fare nulla si può, però, stare accanto a chi soffre.
Una scena corale, quello della Croce, in cui si riassumono i conflitti teorici e esistenziali che circondano le fasi terminali della vita.
Ebbene, penso che in questa società secolarizzata in cui molte persone muoiono da sole e desiderano e chiedono la morte come rimedio al peso della vita, si possano trovare elementi di riflessioni sull’importanza di stare accanto ai morenti e ai sofferenti.
Non dimentichiamo, a ogni modo, che la solitudine del malato è anche spesso la solitudine di chi si prende cura di lui. E questa Lettera, inoltre, introduce il concetto di comunità sanante, una bella intuizione che dà voce a tutta la centralità delle relazioni messe in evidenza dall’antropologia contemporanea, eppure non sufficientemente praticata all'interno degli attuali processi di cura e di assistenza.
Una comunità sanante dovrebbe esprimere, perciò, la duplice dimensione del prendersi cura sia del malato sia di chi lo accudisce.
Un circolo virtuoso, che va al di là della logica dei protocolli e delle procedure, per quanto utili siano, perché la speranza si palesa prima di tutto in una compagnia capace di ascolto e condivisione.
Le cronache di questi ultimi mesi, del resto, hanno messo in luce come la figura del buon samaritano sia un’urgenza e un’emergenza sociale. In piena pandemia – in questa sorta di nostro doloroso cammino da Gerusalemme a Gerico - i malati di Covid19 hanno trovato nei medici, negli infermieri, negli operatori sanitari, il buon samaritano che ha saputo stare accanto a loro: uno stabat che testimonia che quando non c'è nulla da fare c'è, anzi, molto da fare.
Se il COVID 19 ci ha ricordato la nostra fragilità, il corpo contagiato, in tutta la sua materialità, ci ha pure obbligato a riconfigurare i legami e a ‘vegliare’ sull’altro, senza fraintendimenti. Ma soprattutto a fare come Dio: ad avere “compassione”, cum patior, quando – passando accanto a qualcuno - questi è battuto e ferito. Poiché nessuno nella sua sofferenza ci è mai estraneo.
[01076-IT.01] [Testo originale: Italiano]
[B0477-XX.02]