Incontro con i Vescovi del Madagascar nella Cattedrale di Andohalo
Visita alla Tomba della Beata Victoire Rasoamanarivo
Incontro con i Vescovi del Madagascar nella Cattedrale di Andohalo
Discorso del Santo Padre
Traduzione in lingua francese
Traduzione in lingua inglese
Traduzione in lingua tedesca
Traduzione in lingua spagnola
Traduzione in lingua portoghese
Traduzione in lingua polacca
Questo pomeriggio, alle ore 15.30 (14.30 ora di Roma) il Santo Padre Francesco ha lasciato la Nunziatura Apostolica e si è trasferito in auto alla Cattedrale di Andohalo per l’incontro con i Vescovi del Madagascar.
Al Suo arrivo, alle ore 16.00 (15.00 ora di Roma), il Papa è stato accolto all’ingresso della Cattedrale dall’Em.mo Card. Désiré Tsarahazana, Arcivescovo Metropolita di Toamasina e Presidente della Conferenza Episcopale del Madagascar, e dal parroco che gli ha porto il crocifisso e l’acqua santa per l’aspersione. Prima di cominciare l’incontro il Papa ha sostato brevemente in preghiera davanti al Santissimo.
Dopo l’indirizzo di saluto del Presidente della Conferenza Episcopale del Madagascar, il Santo Padre ha pronunciato il Suo discorso.
Al termine, dopo aver salutato individualmente i Vescovi presenti, l’Arcivescovo di Antananarivo, S.E. Mons. Odon Marie Arséne Razanakolona, ha presentato al Papa i capi religiosi delle confessioni cristiane appartenenti al Consiglio Ecumenico delle Chiese Cristiane del Madagascar, i quali hanno donato al Papa una Bibbia nella traduzione ecumenica e un mantello tipico malgascio.
Pubblichiamo di seguito il discorso che il Santo Padre ha pronunciato nel corso dell’incontro:
Discorso del Santo Padre
Grazie, Signor Cardinale, per le Sue parole di benvenuto a nome di tutti i fratelli. Sono anche grato perché con le stesse parole Lei ha voluto mostrare come la missione che ci proponiamo di vivere si svolga in mezzo a contraddizioni: una terra ricca con molta povertà; una cultura e una saggezza ereditate dagli antenati che ci fanno apprezzare la vita e la dignità della persona umana, ma anche la constatazione della disuguaglianza e della corruzione. Il compito del pastore è difficile in queste circostanze. Anche con le disuguaglianze: il pastore rischia di andare da una parte e lasciare gli altri. E anche con la corruzione: non dico che il pastore diventi un corrotto, ma c’è il pericolo…: “Farò quest’opera, e quell’altra…”, e diventare affarista; o fare quello scambio, quell’altro, quell’altro… e alla fine, quel buon pastore è finito sporco di corruzione. Succede, succede. Nel mondo, succede. Tenete gli occhi aperti!
“Seminatore di pace e di speranza” è il tema che è stato scelto per questa visita e che può ben essere un’eco della missione che ci è stata affidata. Infatti, noi siamo dei seminatori, e chi semina lo fa nella speranza; lo fa contando sui propri sforzi e sul proprio impegno personale, ma sapendo che ci sono molti fattori che devono concorrere perché il seme germogli, cresca, diventi spiga e infine grano abbondante. Il seminatore stanco e preoccupato non si scoraggia. Questa parola ci deve accompagnare sempre, sia nella vita attiva sia in quella contemplativa, come abbiamo visto oggi [nell’incontro con le suore di clausura]: siate coraggiosi, sii un uomo coraggioso. Il coraggio. Il seminatore stanco e preoccupato non si scoraggia, non si arrende, e tanto meno brucia il suo campo quando qualcosa va storto... Sa aspettare, è fiducioso; si fa carico delle delusioni del suo seme, ma non smette mai di amare il campo affidato alle sue cure. Anche se ne ha la tentazione, non fugge via per affidarlo a un altro.
Il seminatore conosce la sua terra, la “tocca”, la “sente” e la prepara perché possa dare il meglio di sé. Noi vescovi, ad immagine del Seminatore, siamo chiamati a spargere i semi della fede e della speranza su questa terra. A tale scopo, dobbiamo sviluppare quel “fiuto” che ci consente di conoscerla meglio e anche di scoprire ciò che compromette, ostacola o danneggia la semente. Il fiuto del pastore. Il pastore può essere molto intelligente, può avere titoli accademici, può avere partecipato a tanti congressi internazionali, sapere tutto, studiare tutto, anche essere uno buono, una persona buona, ma se gli manca il fiuto, mai potrà essere un buon pastore. Il fiuto. Pertanto, «i Pastori, accogliendo gli apporti delle diverse scienze, hanno il diritto di emettere opinioni su tutto ciò che riguarda la vita delle persone, dal momento che il compito dell’evangelizzazione implica ed esige una promozione integrale di ogni essere umano. Non si può affermare che la religione deve limitarsi all’ambito privato e che esiste solo per preparare le anime per il cielo. Questa è la verità che ci ha lasciato l’illuminismo neo-liberale: lavoravano anche per il popolo, sì, tutto per il popolo, ma niente con il popolo! Senza il rapporto con il popolo, senza il fiuto… Il vero pastore invece è in mezzo al popolo, immerso tra la gente, nell’amore della sua gente, perché la capisce. Sappiamo che Dio desidera la felicità dei suoi figli anche su questa terra, benché siano chiamati alla pienezza eterna, perché Egli ha creato tutte le cose “perché possiamo goderne” (1 Tm 6,17), perché tutti possano goderne. Ne deriva che la conversione cristiana esige di riconsiderare “specialmente tutto ciò che concerne l’ordine sociale ed il conseguimento del bene comune”. Di conseguenza, nessuno può esigere da noi che releghiamo la religione alla segreta intimità delle persone, senza alcuna influenza sulla vita sociale e nazionale, senza preoccuparci per la salute delle istituzioni della società civile, senza esprimerci sugli avvenimenti che interessano i cittadini» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 182-183). Il pastore in mezzo al popolo. Il pastore che sa ascoltare il linguaggio del popolo. Il pastore unto dal popolo, a cui serve, di cui è servitore.
So che ci sono molte ragioni per preoccuparsi e che, tra le altre cose, voi portate nel cuore la responsabilità di vigilare sulla dignità dei vostri fratelli che chiedono di costruire una nazione sempre più solidale e prospera, dotata di istituzioni solide e stabili. Può un pastore degno di questo nome restare indifferente alle sfide che affrontano i suoi connazionali di tutte le categorie sociali, indipendentemente dalla loro appartenenza religiosa? Un pastore alla maniera di Gesù, può essere indifferente alla vita di quanti gli sono stati affidati?
La dimensione profetica legata alla missione della Chiesa richiede, dovunque e sempre, un discernimento che in genere non è facile. In questo senso, la collaborazione matura e indipendente tra la Chiesa e lo Stato è una sfida continua, perché il pericolo di collusione non è mai remoto, specialmente se noi arriviamo a perdere il “mordente evangelico”. Ascoltando sempre quello che lo Spirito dice senza sosta alle Chiese (cfr Ap 2,7), saremo in grado di sfuggire alle insidie e liberare il fermento del Vangelo in vista di una proficua collaborazione con la società civile nella ricerca del bene comune. Il segno distintivo di questo discernimento sarà che l’annuncio del Vangelo include la vostra preoccupazione per tutte le forme di povertà: non solo «assicurare a tutti il cibo, o un decoroso sostentamento, ma che possano avere prosperità nei suoi molteplici aspetti. Questo implica educazione, accesso all’assistenza sanitaria, e specialmente lavoro, perché nel lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale, l’essere umano esprime e accresce la dignità della propria vita. Il giusto salario permette l’accesso adeguato agli altri beni che sono destinati all’uso comune» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 192).
La difesa della persona umana costituisce un’altra dimensione del nostro impegno pastorale. Per essere pastori secondo il cuore di Dio, dobbiamo essere i primi nella scelta di proclamare il Vangelo ai poveri. «Non devono restare dubbi né sussistono spiegazioni che indeboliscano questo messaggio tanto chiaro. Oggi e sempre, i poveri sono i destinatari privilegiati del Vangelo, e l’evangelizzazione rivolta gratuitamente ad essi è segno del Regno che Gesù è venuto a portare. Occorre affermare senza giri di parole che esiste un vincolo inseparabile tra la nostra fede e i poveri. Non lasciamoli mai soli» (ibid., 48). In altre parole, abbiamo un dovere particolare di vicinanza e di protezione verso i poveri, gli emarginati e i piccoli, verso i bambini e le persone più vulnerabili, vittime di sfruttamento e di abusi, vittime, oggi, di questa cultura dello scarto. Oggi la mondanità ci ha portato a inserire nei programmi sociali, nei programmi di sviluppo, lo scarto come possibilità: lo scarto di chi sta per nascere e lo scarto di chi sta per morire, per affrettare la partenza.
Questo immenso campo non è solo sgomberato e dissodato dallo spirito profetico, ma attende anche la semente gettata nel terreno con pazienza cristiana, consapevole inoltre che non abbiamo né il controllo né la responsabilità dell’intero processo. Un pastore che semina evita di controllare tutto. Non si può. Il seminatore non va ogni giorno a scavare la terra per vedere come cresce il seme. Un pastore evita di controllare tutto – i pastori controllori non lasciano crescere! –, dà spazio alle iniziative, lascia crescere in tempi diversi – non tutti hanno lo stesso tempo di crescita – e non cerca l’uniformità: l’uniformità non è vita; la vita è variegata, ognuno ha il proprio modo di essere, il proprio modo di crescere, il proprio modo di essere persona. L’uniformità non è una strada cristiana. Il vero pastore non ha pretese che non siano ragionevoli, non disprezza i risultati apparentemente più magri: “Questa volta è andata così… avanti, tranquillo! Un’altra volta sarà meglio”. Sa sempre prendere i risultati come vengono. Permettetemi che vi dica qual è l’immagine che a volte mi viene in mente quando penso alla vita del pastore. Il pastore deve prendere la vita da dove viene, con i risultati che vengono. Il pastore è come il portiere della squadra di calcio: prende il pallone da dove lo tirano. Sa muoversi, sa prendere la realtà come viene. E correggere le cose, dopo, ma sul momento prende la vita come viene. Questo è amore di pastore. Questo dice di una fedeltà al Vangelo che ci rende anche pastori vicini al popolo di Dio, a cominciare dai nostri fratelli sacerdoti, che sono i nostri fratelli più vicini e che devono ricevere da noi una cura speciale.
Il pastore dev’essere vicino a Dio, ai suoi sacerdoti, vicino al popolo. Le tre vicinanze del pastore. Vicino a Dio nella preghiera. Non dimentichiamo che quando gli Apostoli “inventano” i diaconi – questo l’ho detto tante volte –, Pietro, per spiegare questa nuova invenzione dei diaconi, dice: “E a noi [Apostoli], la preghiera e l’annuncio della Parola”. Il primo compito del pastore è pregare. Ognuno di voi si chieda: prego? quanto? come? Vicinanza a Dio. Vicinanza ai sacerdoti: i sacerdoti sono i prossimi più prossimi del vescovo. “Ho chiamato il vescovo, ha preso la chiamata la segretaria e mi dice che per tre mesi non c’è posto per darmi un appuntamento”. Un consiglio da fratello: se tu trovi che la tua segretaria ti lascia nella lista la chiamata di un prete, quello stesso giorno, o al massimo il giorno dopo, richiamalo. Forse non avrai tempo per riceverlo, ma richiamalo. Quel prete saprà che ha un padre! E la terza vicinanza: vicinanza al popolo. Il pastore che si allontana dal popolo, che perde il fiuto del popolo, finisce come un “Monsieur l’Abbé”, un funzionario di corte... corte pontificia, importante, ma sempre di corte alla fine, e questo non serve.
Qualche tempo fa esponevo ai vescovi italiani la premura che i nostri sacerdoti possano trovare nel loro vescovo la figura del fratello maggiore e del padre che li incoraggia e li sostiene lungo il cammino (cfr Discorso alla Conferenza Episcopale Italiana, 20 maggio 2019). È questa la paternità spirituale, che spinge il vescovo a non lasciare orfani i suoi sacerdoti e che si può “toccare con mano” non solo nella capacità di aprire le porte a tutti i sacerdoti, ma anche in quella di andare a cercarli per accompagnarli quando attraversano un momento di difficoltà.
Nelle gioie e nelle difficoltà inerenti al ministero, i sacerdoti devono trovare in voi, cari vescovi, dei padri sempre disponibili che sappiano come incoraggiare e sostenere, capaci di apprezzare gli sforzi e di accompagnare i progressi possibili. Il Concilio Vaticano II ha formulato un’osservazione speciale su questo punto: «[I vescovi] Trattino sempre con particolare carità i sacerdoti, perché essi si assumono una parte dei loro ministeri e delle loro preoccupazioni, e vi si consacrano nella vita quotidiana con tanto zelo. Li considerino come figli ed amici e perciò siano disposti ad ascoltarli e a trattarli con fiducia e benevolenza, allo scopo di incrementare l’attività pastorale in tutta la diocesi» (Decr. Christus Dominus, 16).
Prendersi cura della terra implica anche l’attesa paziente dei processi. Il pastore sa attendere i processi. E, al momento del raccolto, l’agricoltore valuta anche la qualità dei lavoratori. Questo vi impone, in quanto pastori, un dovere urgente – sto parlando della qualità dei lavoratori – un dovere urgente di accompagnamento e discernimento, soprattutto per quanto riguarda le vocazioni alla vita consacrata e al sacerdozio, ciò che è fondamentale per garantire l’autenticità di tali vocazioni. E in questo, mi raccomando, state attenti. Non lasciatevi ingannare dalla necessità e dal numero: “Abbiamo bisogno di sacerdoti e perché ho bisogno prendo senza discernimento le vocazioni”. Non so, credo che da voi non sia tanto comune perché avete vocazioni e dunque avete una certa libertà di andare adagio con discernimento. Ma in alcuni Paesi d’Europa è lamentevole: la mancanza di vocazioni spinge il vescovo a prendere di qua, di là, di là senza vedere la vita com’era; prendono persone “cacciate” da altri seminari, “cacciate” dalla vita religiosa, che sono state cacciate perché immorali o per altre deficienze. Per favore, state attenti. Non fate entrare il lupo nel gregge. La messe è molta e il Signore – non potendo desiderare che autentici operai – non si lascia limitare nei modi di chiamare e di incitare al dono generoso della propria vita. Dopo la scelta, la formazione dei candidati al sacerdozio e alla vita consacrata è proprio destinata ad assicurare una maturazione e una purificazione delle intenzioni. A questo proposito, nello spirito dell’Esortazione apostolica Gaudete et exsultate, vorrei sottolineare che la chiamata fondamentale, senza la quale le altre non hanno ragion d’essere, è la chiamata alla santità, e che questa «santità è il volto più bello della Chiesa» (n. 9). Apprezzo i vostri sforzi per assicurare la formazione di autentici e santi operai per l’abbondante messe nel campo del Signore.
Inoltre, vorrei sottolineare un atteggiamento che a me non piace, perché non viene da Dio: la rigidità. Oggi è alla moda, non so qui, ma in altre parti è alla moda, trovare persone rigide. Sacerdoti giovani, rigidi, che vogliono salvare con la rigidità, forse, non so, ma prendono un atteggiamento di rigidità e alle volte – scusatemi – da museo. Hanno paura di tutto, sono rigidi. State attenti, e sappiate che sotto ogni rigidità ci sono dei gravi problemi.
Tale sforzo deve estendersi anche al vasto mondo del laicato; anche i laici sono inviati per il raccolto, sono chiamati a prendere parte alla pesca, a rischiare le loro reti e il loro tempo con «il loro multiforme apostolato tanto nella Chiesa che nel mondo» (Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Apostolicam actuositatem, 9). Con tutta la sua estensione, le sue problematiche e i suoi cambiamenti, il mondo costituisce il campo specifico di apostolato dove essi sono chiamati a lavorare con generosità e responsabilità, portandovi il fermento del Vangelo. Ecco perché vorrei congratularmi per tutte le iniziative che prendete come pastori per la formazione dei laici – grazie di questo! – e per non lasciarli soli nella missione di essere sale della terra e luce del mondo, al fine di contribuire alla trasformazione della società e della Chiesa in Madagascar. E mi raccomando, per favore: non clericalizzate i laici. I laici sono laici. Io ho sentito, nella mia precedente diocesi, proposte come questa: “Signor vescovo, io nella parrocchia ho un laico meraviglioso: lavora, organizza tutto… lo facciamo diacono?”. Lascialo lì, non rovinargli la vita, lascialo laico. E, a proposito dei diaconi: i diaconi tante volte soffrono la tentazione di clericalismo, si sentono presbiteri o vescovi mancati… No! Il diacono è il custode del servizio nella Chiesa. Per favore, non tenete i diaconi sull’altare: che facciano i lavori fuori, nel servizio. Se devono andare in missione a battezzare, che battezzino: va bene. Ma nel servizio, non fare i sacerdoti mancati.
Cari fratelli, tutta questa responsabilità nel campo di Dio deve provocarci ad avere il cuore e la mente aperti, a scacciare la paura che rinchiude e a vincere la tentazione di isolarci: il dialogo fraterno tra di voi – è importante! – come pure la condivisione dei doni e la collaborazione tra le Chiese particolari dell’Oceano Indiano, siano una via di speranza. Dialogo e collaborazione. La somiglianza tra le sfide pastorali quali la protezione dell’ambiente in uno spirito cristiano o il problema dell’immigrazione richiede riflessioni comuni e una sinergia di azioni su larga scala per un approccio efficace.
Infine, attraverso di voi, vorrei salutare in modo speciale i sacerdoti, i religiosi e le religiose che sono malati o sofferenti per l’anzianità. Lascio una domanda a ognuno di voi: vado a visitarli? Vi chiedo di esprimere loro il mio affetto e la mia vicinanza nella preghiera, e di prendervene cura con tenerezza sostenendoli nella bella missione di intercessione.
Due donne proteggono questa Cattedrale: nella cappella qui accanto riposano i resti della Beata Victoire Rasoamanarivo, che ha saputo fare del bene, difendere e diffondere la fede in tempi difficili; e soprattutto vi è l’immagine della Vergine Maria che, con le sue braccia aperte verso la valle e le colline, sembra abbracciare ogni cosa. Chiediamo a loro di allargare sempre il nostro cuore, di insegnarci la compassione proveniente dal grembo materno che la donna e Dio sentono di fronte ai dimenticati della terra, e di aiutarci a seminare la pace e la speranza.
E a voi, come segno del mio cordiale e fedele sostegno, do la mia benedizione, come fratello vi benedico e questa benedizione estendo alle vostre diocesi.
Per favore, non dimenticatevi di pregare per me e far pregare per me!
[01361-IT.02] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua francese
Merci, Monsieur le Cardinal, pour vos paroles de bienvenue au nom de tous nos frères. Je suis également reconnaissant que par ces mêmes paroles vous ayez voulu montrer comment la mission que nous nous proposons de vivre se déploie au milieu de contradictions : une terre riche et beaucoup de pauvreté ; une culture et une sagesse héritées des ancêtres qui nous font valoriser la vie et la dignité de la personne humaine, mais aussi le constat de l’inégalité et de la corruption. La tâche du pasteur est difficile dans ces circonstances. Même avec les inégalités : le pasteur risque de prendre parti et de laisser les autres. Et même la corruption : je ne dis pas que le pasteur devient un corrompu, mais il y a un danger… : “J’accomplirai cette œuvre, et cette autre…”, et devenir affairiste ; ou faire cet échange, cet autre, cet autre… et à la fin, ce bon pasteur est devenu sale de corruption. Ça arrive, ça arrive. Dans le monde, ça arrive. Gardez les yeux ouverts !
‘‘Semeur de paix et d’espérance’’, c’est le thème choisi pour cette visite, qui peut bien être un écho de la mission qui nous est confiée. En effet, nous sommes des semeurs et celui qui sème le fait dans l’espérance ; il le fait en comptant sur son effort et sur son engagement personnel, mais en sachant qu’il y a de multiples facteurs qui doivent concourir pour que la semence germe, pousse, devienne épi et finalement grain abondant. Le semeur fatigué et préoccupé ne se décourage pas. Cette parole doit toujours nous accompagner, aussi bien dans la vie active que dans la vie contemplative, nous avons vu aujourd’hui [dans la rencontre avec les sœurs de clôture] : soyez courageux, sois un homme courageux. Le courage. Le semeur fatigué et préoccupé ne se décourage pas, n’abandonne pas, ni encore moins brûle son champ quand quelque chose tourne mal… Il sait attendre, il fait confiance, il assume les déconvenues de sa semence, mais il ne cesse jamais d’aimer ce champ confié à ses soins. Même s’il en a la tentation, il ne fuit pas non plus en le confiant à un autre.
Le semeur connaît sa terre, la ‘‘touche’’, la ‘‘sent’’ et la prépare pour qu’elle puisse donner le meilleur d’elle-même. Nous les évêques, à l’image du Semeur, nous sommes appelés à répandre les semences de la foi et de l’espérance sur cette terre. À cet effet, il faut que nous développions ce ‘‘flair’’ qui nous permet de mieux la connaître et de découvrir aussi ce qui compromet, entrave ou endommage la semence. Le flair du pasteur. Le pasteur peut être très intelligent, il peut avoir des titres académiques, il peut avoir participé à plusieurs congrès internationaux, tout savoir, tout étudier, même être un homme bon, une personne bonne, mais s’il lui manque le flair, il ne pourra jamais être un bon pasteur. Le flair. C’est pourquoi, « les pasteurs, en accueillant les apports des différentes sciences, ont le droit d’émettre des opinions sur tout ce qui concerne la vie des personnes, du moment que la tâche de l’évangélisation implique et exige une promotion intégrale de chaque être humain. On ne peut pas affirmer que la religion doit se limiter à la sphère privée et qu’elle existe seulement pour préparer les âmes pour le ciel ». Ceci est la vérité que nous a laissée l’illuminisme néo-libéral : ils travaillaient aussi pour le peuple, oui, tout pour le peuple, mais rien avec le peuple ! Sans le rapport avec le peuple, sans le flair… Au contraire, le vrai pasteur est au milieu du peuple, immergé parmi les gens, dans l’amour de son peuple parce qu’il le comprend. « Nous savons que Dieu désire le bonheur de ses enfants, sur cette terre aussi, bien que ceux-ci soient appelés à la plénitude éternelle, puisqu’il a créé toutes choses ‘‘afin que nous en jouissions’’ (1 Tm 6, 17), pour que tous puissent en jouir. Il en découle que la conversion chrétienne exige de reconsidérer ‘‘spécialement tout ce qui concerne l’ordre social et la réalisation du bien commun’’. En conséquence, personne ne peut exiger de nous que nous reléguions la religion dans la secrète intimité des personnes, sans aucune influence sur la vie sociale et nationale, sans se préoccuper de la santé des institutions de la société civile, sans s’exprimer sur les événements qui intéressent les citoyens » (Exhort. ap. Evangelii gaudium, nn. 182-183). Le pasteur au milieu du peuple. Le pasteur qui sait écouter le langage du peuple. Le pasteur oint par le peuple, à qu’il sert, dont il est le serviteur.
Je sais qu’il y a beaucoup de raisons de se préoccuper et que, entre autres choses, vous portez dans vos cœurs la responsabilité de veiller sur la dignité de vos frères qui demandent à construire une nation toujours plus solidaire et prospère, dotée d’institutions solides et stables. Un pasteur digne de ce nom peut-il rester indifférent aux défis qu’affrontent ses concitoyens de toutes catégories sociales, indépendamment de leur appartenance religieuse ? Un pasteur, à la manière de Jésus, peut-il être indifférent aux vies qui lui ont été confiées ?
La dimension prophétique liée à la mission de l’Église demande, partout et toujours, un discernement qui généralement n’est pas facile. En ce sens, la collaboration mûre et indépendante entre l’Église et l’État est un défi permanent, car le danger de connivence n’est jamais loin, surtout si nous en arrivons à perdre le ‘‘mordant évangélique’’. En écoutant toujours ce que l’Esprit dit constamment aux Églises (cf. Ap. 2, 7), nous pourrons échapper aux écueils, libérer le ferment de l’Évangile en vue d’une collaboration fructueuse avec la société civile dans la recherche du bien commun. Le signe distinctif de ce discernement sera que l’annonce de l’Évangile inclut votre souci de toute forme de pauvreté : non seulement « assurer à tous la nourriture, ou une ‘‘subsistance décente’’, mais que tous connaissent ‘‘la prospérité dans ses multiples aspects’’. Ceci implique éducation, accès à l’assistance sanitaire, et surtout au travail, parce que dans le travail libre, créatif, participatif et solidaire, l’être humain exprime et accroît la dignité de sa vie. Le salaire juste permet l’accès adéquat aux autres biens qui sont destinés à l’usage commun » (Exhort. ap. Evangelii gaudium, n. 192).
La défense de la personne humaine constitue une autre dimension de notre charge pastorale. Pour être des pasteurs selon le cœur de Dieu, nous devons être les premiers dans le choix de proclamer l’Évangile aux pauvres : « Aucun doute ni aucune explication, qui affaiblissent ce message si clair, ne doivent subsister. Aujourd’hui et toujours, ‘‘les pauvres sont les destinataires privilégiés de l’Évangile’’, et l’évangélisation, adressée gratuitement à eux, est le signe du Royaume que Jésus est venu apporter. Il faut affirmer sans détour qu’il existe un lien inséparable entre notre foi et les pauvres. Ne les laissons jamais seuls » (ibid., n. 48). En d’autres termes, nous avons un devoir particulier de proximité et de protection envers les pauvres, les marginalisés et les petits, envers les enfants et les personnes les plus vulnérables, victimes d’exploitation et d’abus, victimes, aujourd’hui, de cette culture de l’exclusion. Aujourd’hui la mondanité nous a amenés à insérer dans les programmes sociaux, dans les programmes de développement, l’exclusion comme une possibilité : l’exclusion de celui qui va naître et l’exclusion de celui qui va mourir, pour accélérer le départ.
Cet immense champ n’est pas seulement déblayé et défriché par l’esprit prophétique, mais il attend aussi la semence jetée en terre avec une patience chrétienne, conscient par ailleurs que nous n’avons ni le contrôle ni la responsabilité de tout le processus. Un pasteur qui sème évite de tout contrôler. Ce n’est pas possible. Le semeur ne va pas chaque jour creuser la terre pour voir comment pousse la semence. Un pasteur évite de tout contrôler – les pasteurs contrôleurs ne laissent rien pousser ! -, il donne de l’air et de l’espace aux initiatives, il laisse grandir à des périodes différentes – tous n’ont pas le même temps de croissance – et il ne cherche pas l’uniformité : l’uniformité n’est pas vie ; la vie est variée, chacun a sa manière propre d’être, sa manière propre de grandir, sa manière propre d’être une personne. L’uniformité n’est un chemin chrétien. Le vrai pasteur n’exige pas plus que de raison, ne méprise pas les résultats apparemment plus maigres : “Cette fois-ci ça s’est passé comme ça… on avance, tranquille ! Une autre fois ça sera mieux”. Il sait toujours prendre les résultats comme ils arrivent. Permettez-moi de vous dire quelle image me vient parfois en tête quand je pense à la vie du pasteur. Le pasteur doit prendre la vie d’où elle vient, avec les résultats qui en découlent. Le pasteur est comme le gardien de but de l’équipe de football : il attrape le ballon d’où ils le tirent. Il sait se déplacer, il sait recevoir la réalité comme elle vient. Et corriger les choses, après, mais sur le moment il prend la vie comme elle vient. Ça, c’est l’amour du pasteur. Cela en dit long d’une fidélité à l’Évangile qui fait également de nous des pasteurs proches du peuple de Dieu, à commencer par nos frères prêtres qui sont nos frères les plus proches et qui doivent bénéficier d’un soin spécial de notre part.
Le pasteur doit être proche de Dieu, de ses prêtres, proche du peuple. Les trois proximités du pasteur. Proche de Dieu dans la prière. N’oublions pas que quand les Apôtre “inventent” les diacres – cela je l’ai dit bien des fois -, Pierre, pour expliquer cette nouvelle invention des diacres, dit : “Et à nous [Apôtres], la prière et l’annonce de la Parole”. Le premier devoir du pasteur est de prier. Que chacun de vous se demande : est-ce que je prie ? Combien de temps ? Comment ? Proximité à Dieu. Proximité aux prêtres : les prêtres sont les proches les plus proches de l’évêque. “J’ai appelé l’évêque, c’est le secrétariat qui a pris l’appel et qui me dit que pour trois mois il n’y a pas de place pour me donner un rendez-vous.” Un conseil de frère : si tu trouves que ton secrétariat te laisse dans la liste l’appel d’un prêtre, ce même jour, ou au maximum le jour d’après, rappelle-le. Peut-être tu n’aurais pas le temps de le recevoir, mais rappelle-le. Ce prêtre saura qu’il a un père ! Et la troisième proximité : proximité au peuple. Le pasteur qui s’éloigne du peuple, qui perd l’odorat du peuple, finit comme un “Monsieur l’Abbé”, un fonctionnaire de cour… cour pontificale, importante, mais toujours de cour à la fin, et cela ne sert à rien.
Il y a quelque temps, je faisais part aux évêques italiens de mon souci que nos prêtres puissent trouver auprès de leur évêque la figure du frère aîné et du père qui les encourage et les soutient sur le chemin (cf. Discours à la Conférence épiscopale italienne, 20 mai 2019). C’est cela la paternité spirituelle, qui pousse l’évêque à ne pas laisser orphelins ses prêtres et qu’on peut ‘‘toucher du doigt’’ non seulement dans la capacité d’ouvrir les portes à tous les prêtres, mais aussi dans la capacité d’aller à leur recherche pour les accompagner quand ils traversent un moment de difficulté.
Dans les joies et les difficultés inhérentes au ministère, les prêtres doivent trouver en vous, chers évêques, des pères toujours disponibles qui savent comment encourager et soutenir, qui savent apprécier les efforts et accompagner les progrès possibles. Le Concile Vatican II a fait une observation spéciale sur ce point : « Que les évêques entourent les prêtres d’une charité particulière, puisque ceux-ci assument pour une part leurs charges et leurs soucis et qu’ils s’y consacrent chaque jour avec tant de zèle ; il faut les traiter comme des fils et des amis, être prêts à les écouter, entretenir avec eux des relations confiantes et promouvoir ainsi la pastorale d’ensemble du diocèse tout entier » (Décr. Christus Dominus, n. 16).
Prendre soin de la terre implique aussi l’attente patiente des processus. Le pasteur sait attendre les processus. Et, lors de la récolte, l’agriculteur évalue également la qualité des travailleurs. Cela vous impose, en tant que pasteurs, un devoir urgent – je parle de la qualité des travailleurs – un devoir urgent d’accompagnement et de discernement, surtout en ce qui concerne les vocations à la vie consacrée et au sacerdoce, ce qui est fondamental pour assurer l’authenticité de ces vocations. Et en cela, s’il vous plaît, soyez attentifs. Ne vous laissez pas tromper par la nécessité et par le nombre : “Nous avons besoin de prêtres et parce que j’ai besoin je prends les vocations sans discernement ”. Je ne sais pas, je crois que chez vous ce n’est pas si fréquent parce que vous avez des vocations et vous avez donc une certaine liberté d’aller posément avec discernement. Mais dans certains pays d’Europe, c’est lamentable : le manque de vocations pousse l’évêque à prendre de ci, de là, sans voir la vie comment elle était ; ils prennent des personnes “chassées” de d’autres séminaires, “chassées” de la vie religieuse, des personnes qui ont été chassées parce qu’immorales ou pour d’autres déficiences. S’il vous plaît, soyez attentifs. Ne faites pas entrer le loup dans le troupeau. La moisson est abondante et le Seigneur – qui ne peut souhaiter que d’authentiques ouvriers – ne se laisse pas enfermer dans les façons d’appeler, d’inciter au don généreux de sa propre vie. Après le choix, la formation des candidats au sacerdoce et à la vie consacrée est justement destinée à assurer une maturation et une purification des intentions. À ce sujet, dans l’esprit de l’Exhortation Apostolique Gaudete et Exsultate, je voudrais souligner que l’appel fondamental sans lequel les autres n’ont pas de raison d’être est l’appel à la sainteté et que cette « sainteté est le visage le plus beau de l’Église » (n.9). J’apprécie vos efforts en vue de garantir la formation d’authentiques et saints ouvriers pour l’abondante moisson dans le champ du Seigneur.
Par ailleurs, je voudrais souligner un comportement que je n’apprécie pas parce qu’il ne vient pas de Dieu : la rigidité. Aujourd’hui c’est à la mode, je ne sais pas ici, mais en d’autres parties c’est à la mode de trouver des personnes rigides. Des prêtres jeunes, rigides, qui veulent sauver avec la rigidité, peut-être, je ne sais pas, mais ils prennent un comportement de rigidité et parfois – excusez-moi – de musée. Ils ont peur de tout, ils sont rigides. Soyez attentifs, et sachez que sous toute rigidité il y a de graves problèmes.
Cet effort doit également s’étendre au vaste monde du laïcat ; les laïcs aussi sont envoyés pour la moisson, ils sont appelés à prendre part à la pêche, à risquer leurs filets et leur temps par « leur apostolat multiforme tant dans l’Église que dans le monde » (Conc. Œcum. Vat. II, Decr. Apostolicam actuositatem, n. 9). Avec toute son extension, sa problématique et ses changements, le monde constitue le domaine spécifique d’apostolat où ils sont appelés à œuvrer avec générosité et responsabilité, en y portant le ferment de l’Évangile. Voilà pourquoi je voudrais saluer toutes les initiatives que vous prenez en tant que pasteurs pour la formation des laïcs – merci pour cela ! - et pour ne pas les laisser seuls dans la mission d’être sel de la terre et lumière du monde, en vue de contribuer à la transformation de la société et de l’Église à Madagascar. Et s’il vous plaît, je vous en prie : ne cléricalisez pas les laïcs. Les laïcs sont laïcs. J’ai entendu, dans mon diocèse précédent, des propositions comme celle-ci : “Monseigneur, dans la paroisse j’ai un laïc merveilleux : il travaille, il organise tout… nous le faisons diacre ?”. Laisse-le là, ne lui détruis pas la vie, laisse-le laïc. Et, à propos des diacres : les diacres souffrent souvent de la tentation du cléricalisme, ils se sentent prêtres ou évêques manqués…Non ! Le diacre est le gardien du service de l’Eglise. Je vous en prie, ne tenez pas les diacres sur l’autel : qu’ils fassent leur travail dehors, dans le service. S’ils doivent aller en mission pour baptiser, qu’ils baptisent : c’est bien. Mais dans le service, ne faites pas des prêtres manqués.
Chers frères, toute cette responsabilité dans le champ de Dieu doit nous mettre au défi d’avoir le cœur et l’esprit ouverts, de conjurer la peur qui enferme et de vaincre la tentation de nous isoler : que le dialogue fraternel entre vous – c’est important - ainsi que le partage des dons et la collaboration entre les Églises particulières de l’Océan Indien soient un chemin d’espérance. Dialogue et collaboration. La similitude entre les défis pastoraux tels que la protection de l’environnement dans un esprit chrétien ou le problème de l’immigration exige des réflexions communes et une synergie d’actions à grande échelle pour une approche efficace.
Enfin, à travers vous, je voudrais saluer de manière spéciale les prêtres, les religieux et les religieuses qui sont malades ou affectés par l’âge. Je laisse une demande à chacun de vous : vais-je les visiter ? Je vous demande de leur manifester mon affection et ma proximité dans la prière, et de prendre soin d’eux avec tendresse en les réconfortant dans leur belle mission d’intercession.
Deux femmes protègent cette Cathédrale : dans la chapelle ici à côté reposent les restes de la bienheureuse Victoire Rasoamanarivo, qui a su faire le bien, défendre et répandre la foi en des temps difficiles ; et l’image de la Vierge Marie qui par ses bras ouverts vers la vallée et les collines, semble tout embrasser. Demandons-leur d’élargir toujours notre cœur, de nous apprendre la compassion provenant du sein maternel que la femme et Dieu ressentent face aux oubliés de la terre et de nous aider à semer la paix et l’espérance.
Et, en signe de mon cordial et fidèle soutien, je vous donne ma bénédiction, comme frère je vous bénis et cette bénédiction je l’étends à vos diocèses.
S’il vous plaît, n’oubliez pas de prier pour moi et de faire prier pour moi !
[01361-FR.02] [Texte original: Italien]
Traduzione in lingua inglese
Thank you, Your Grace, for your words of welcome in the name of all your confreres. I appreciate your desire to show how the mission that we have undertaken is carried out amid contradictions: a rich land with widespread poverty; an ancestral culture and wisdom that respect the life and dignity of the human person, but also the presence of inequality and corruption. The task of a shepherd in such circumstances is not easy. So too, faced with inequalities, the shepherd risks wandering away and leaving the others. And the same with corruption: I do not say that the shepherd becomes a corrupt man, but there is the danger ... I will carry out this work, and that other one ..., and in doing so become a businessman; or make that exchange, that other one, that other ... and in the end, that good shepherd is stained with corruption. It happens, it happens. In the world, it happens. Keep your eyes open!
“Sower of peace and hope”. The theme chosen for my Visit can serve as an echo of the mission with which we have been entrusted. In effect, we are sowers, and those who sow do so in hope; they do it counting on their own efforts and personal commitment, but also knowing that many other factors combine to make the seed take root, grow and finally give abundant grain. The sower may be weary and concerned, but he does not give up. This word must always accompany us, both in the active and in the contemplative life, as we have seen today [in the meeting with the cloistered nuns]: may you be courageous, be a courageous man. The sower may be weary and concerned, but he does not give up and stop sowing, much less burn his field when things do not turn out well… He knows how to wait, he trusts, he realizes the limitations of his sowing. But he never stops loving the field entrusted to his care. Even if he is tempted, he does not abandon it or leave it to another.
The sower knows his land, he “touches” it, “feels” it and prepares it to produce its best. We bishops, like the sower, are called to spread seeds of faith and hope on this earth. To do so, we need to develop that “sense of smell” that can enable us to recognize more clearly whatever compromises, hinders or damages the sowing. This is the shepherd’s intuition. The shepherd can be very intelligent, can have academic qualifications, may have participated in many international congresses, know everything, studied everything, and even be a good person, a good person, but if he lacks the intuition, he will never be a good shepherd. The intuition. For this reason, “the Church’s pastors, taking into account the contributions of the different sciences, have the right to offer opinions on all that affects people’s lives, since the task of evangelization implies and demands the integral promotion of each human being. It is not possible to claim that religion should be restricted to the private sphere and that it exists only to prepare souls for heaven. This is the truth left by the neo-liberal enlightenment: they were also working for the people, yes, all for the people, and not with the people! Without any relationship with the people, without the intuition ... The true shepherd instead is among the people, immersed among the people, in the love of his people, because he understands them. We know that God wants his children to be happy in this world too, even though they are called to fulfilment in eternity, for he has created all things ‘for our enjoyment’ (1 Tim 6:17), the enjoyment of everyone. It follows that Christian conversion demands reviewing especially those areas and aspects of life ‘related to the social order and the pursuit of the common good’. Consequently, no one can demand that religion should be relegated to the inner sanctum of personal life, without influence on societal and national life, without concern for the soundness of civil institutions, without a right to offer an opinion on events affecting society” (Evangelii Gaudium, 182-183). The shepherd among the people. The shepherd who understands the language of the people. The shepherd anointed by the people, whom he serves, whose servant he is.
I know that you have many reasons for concern and that among these you are conscious of your responsibility to protect the dignity of your brothers and sisters who strive to build a nation of greater solidarity and prosperity, endowed with solid and stable institutions. Can a pastor worthy of that name remain indifferent before the challenges facing his fellow citizens of all social categories, regardless of their religious affiliation? Can a pastor with the heart of Jesus be indifferent to lives entrusted to his care?
The prophetic dimension of the Church’s mission calls, always and everywhere, for a discernment that, in general, is not easy. In this regard, a prudent and independent cooperation between the Church and the state remains a constant challenge, for there is always a danger of collusion, especially if we end up losing the “zest of the Gospel”. By attentive listening to what the Spirit continues to say to the Churches (cf. Rev 2:7), we can escape pitfalls and release the ferment of the Gospel for the sake of a fruitful cooperation with civil society in the pursuit of the common good. The mark of such discernment will be that the proclamation of the Gospel demonstrates concern for all forms of poverty, not only “ensuring nourishment or a ‘dignified sustenance’ for all people, but also their ‘general temporal welfare and prosperity’. This means education, access to healthcare, and above all employment, for it is through free, creative, participatory and mutually supportive labour that human beings express and enhance the dignity of their lives. A just wage enables them to have adequate access to all the other goods which are destined for our common use” (Evangelii Gaudium, 192).
The defense of the human person is yet another aspect of our pastoral responsibility. To be pastors according to God’s heart, we must be the first to choose to preach the Gospel to the poor. “There can be no room for doubt or for explanations which weaken so clear a message. Today and always, ‘the poor are the privileged recipients of the Gospel’, and the fact that it is freely preached to them is a sign of the kingdom that Jesus came to establish. We have to state, without mincing words, that there is an inseparable bond between our faith and the poor. May we never abandon them” (ibid., 48). In other words, we have a particular duty to protect and remain close to the poor, the marginalized and the little ones, to children and those most vulnerable, to the victims of exploitation and abuse; victims of today’s throw-away culture. Today worldliness has led us to include in social programs, in development programs, a throw-away culture as a possibility: the rejection of those about to be born and the rejection of those about to die, to quicken their departure.
This vast field is not only cleared and ploughed by the prophetic Spirit; it also awaits the seed sown with Christian patience, in the knowledge that we are neither in control of, or responsible for, the entire process. A pastor who is a sower will not try to control every detail. He cannot. The sower does not go to dig the earth every day to see how the seed is growing. A shepherd avoids controlling everything – the shepherd-controllers never allow things to grow! Give plenty of room for new initiatives, let things mature in their own good time, not everyone follows the same timing in terms of growth – and do not try to fit everything into one mould. Life is not about uniformity; life is diverse, everyone has their own way of being, their own way of growing, their own way of being a person. Uniformity is not a Christian way. The true shepherd does not demand more than what is reasonable, or disregard apparently meagre results: “This time it went like this ... keep going, be calm! It will be better next time”. He always knows how to receive the results as they come. Permit me to share with you the image that sometimes comes to my mind when I think about the life of the shepherd. The shepherd should take life as it unfolds, with the results that come. The shepherd is like the goalkeeper of the football team: he catches the ball from where they throw it. He knows how to move, how to take reality as it comes. And to correct things later, but at that moment he takes life as it comes. This is the shepherd’s love. This speaks about a kind of fidelity to the Gospel that also makes us pastors close to God’s people, starting with our brother priests – our closest brothers – who should be the object of our particular care.
The shepherd must be close to God, to his priests and to the people: the shepherd’s three kinds of closeness. Closeness to God in prayer. Let us not forget that when the Apostles “invent” the deacons – this I have said many times – Peter, in order to explain this new invention of the deacons, says: “And to us [Apostles], prayer and the proclamation of the Word”. The first task of the pastor is to pray. Each of you could ask yourself: do I pray? How much? how? Closeness to God. Closeness to priests: priests are the closest neighbours of the bishop. “I called the bishop, the secretary took the call and tells me that I won’t be able to get an appointment for the next three months”. A brother’s advice: if your secretary leaves a message for you from a priest, that same day, or at the latest the next day, call him back. You may not have time to meet him, but call him back. That priest will know he has a father! And the third kind of closeness: closeness to the people. The pastor who turns away from the people, who loses the smell of the people, ends up as a “Monsieur l’Abbé”, a court official ... pontifical court, important, but always of the court in the end, and this is not needed.
Not long ago, I shared with the Italian bishops my concern that our priests should see in their bishop an elder brother and a father who encourages them and supports them on their journey (cf. Address to the Italian Episcopal Conference, 20 May 2019). That is what spiritual fatherhood is; it inspires a bishop not to leave his priests orphans, but to remain close to them, not only by being always ready to receive them, but also by seeking them out and supporting them in times of difficulty.
Amid the joys and challenges of their ministry, priests should see you, dear bishops, as fathers who are always there for them, ready to offer them encouragement and support, able to appreciate their work and guide their growth. The Second Vatican Council made specific mention of this point: “Bishops should show particular affection for their priests, who take up part of their duties and concerns and devote themselves daily to them with great zeal. They should treat them as sons and friends. They should always be ready to listen to them, in an atmosphere of mutual trust, thus facilitating the pastoral work of the entire diocese” (Christus Dominus, 16).
Caring for the earth also entails patiently awaiting the outcome of processes. The pastor waits for the processes. And at harvest time, the farmer also assesses the quality of his workers. As pastors, you have an urgent task – I am talking about the quality of workers – an urgent task of accompaniment and discernment, especially with regard to vocations to the consecrated life and the priesthood, one that is fundamental for ensuring the authenticity of those vocations. And in this, please, be careful. Do not be deceived by the need and the number: “We need priests and because of this need I admit people without discerning the vocations”. I do not know, I believe that this is not common among you because you have vocations and therefore you have a certain freedom to go slowly with discernment. But in some European countries it is lamentable: the lack of vocations pushes the bishop to take from here, from there, from anywhere without examining their past life; they take people “rejected” by other seminaries; people “expelled” from religious life, who were expelled because they are immoral or because of other shortcomings. Please be careful. Do not let the wolf enter the flock. The harvest is plentiful and the Lord – who desires only real workers – is not limited in the ways he calls young people to make a generous gift of their lives. After admission, the training of candidates for the priesthood and the consecrated life rightly aims to ensure their growth in maturity and the purification of their intentions. In this regard, and in the spirit of the Apostolic Exhortation Gaudete et Exsultate, I would emphasize that the fundamental call, without which the others have no reason to exist, is the call to holiness and that this “holiness is the most attractive face of the Church” (No. 9). I appreciate your efforts to ensure the formation of authentic and holy workers for the abundant harvest that awaits us in the field of the Lord.
Furthermore, I would like to emphasize an attitude that I do not like, because it does not come from God: rigidity. Today it is fashionable, I do not know about here, but in other parts of the world it is fashionable, to find rigid people. Young, rigid priests, who want to save with rigidity, perhaps, I don’t know, but they take this attitude of rigidity and sometimes – excuse me – from the museum. They are afraid of everything, they are rigid. Be careful, and know that under any rigidity there are serious problems.
This effort must also extend to the vast world of the lay faithful. They too are sent out to the harvest, called to cast their nets and devote their time to their own apostolate, which “in all its many aspects, is exercised both in the Church and in the world” (Apostolicam Actuositatem, 9). In all its breadth, its problems and its varied situations, the world is the specific area of the apostolate where they are called, with generosity and a sense of responsibility, to bring the leaven of the Gospel. For this reason, I express my appreciation for all those initiatives that you have undertaken as pastors to provide training for lay men and women – thank you for this – and not to leave them alone in their mission to be the salt of the earth and the light of the world. In this way they will be able to contribute to the transformation of society and the life of the Church in Madagascar. And please, make sure you do not clericalize the laity. Lay faithful are lay faithful. I heard, in my previous Diocese, proposals like this: “My Lord Bishop, I have a wonderful lay person in the parish: he works hard, he organizes everything ... should we ordain him a deacon?”. Leave him there, don’t ruin his life, let him remain a lay person. And speaking of deacons, deacons often have the temptation of clericalism; they see themselves as presbyters or pseudo-bishops ... No! The deacon is the custodian of service in the Church. Please do not keep deacons at the altar: let them do their work outside, in service. If they have to go on a mission to baptize, let them baptize: it’s ok. But in service, let them not be pseudo-priests.
Dear brothers, this great responsibility for the Lord’s field should challenge us to open our hearts and minds, and to banish the fear that tempts us to withdraw into ourselves and to cut ourselves off from others. Fraternal dialogue among yourselves is important as is the sharing of gifts and cooperation between the Particular Churches of the Indian Ocean; may these be a path of hope. Dialogue and cooperation. The similarity of the pastoral challenges you face, such as the protection of the environment in a Christian spirit, or the problem of immigration, calls for shared reflection and coordinated action on a large scale in devising effective approaches.
In conclusion, I would like in a special way to greet, through you, all those priests and men and women religious who are elderly or ill. I would like each of you to ask yourself this question: Will I go and visit them? I ask you to convey to them my affection and the assurance of my prayers, and to care for them with gentle love and to confirm them in their fine mission of intercessory prayer.
Two women protect this Cathedral. The chapel nearby holds the remains of Blessed Victoire Rasoamanarivo, who was able to do much good and to defend and spread the faith in difficult times. There is also the statue of the Virgin Mary, whose arms, outstretched to the valley and the hills, seem to embrace everything. Let us ask these two women always to enlarge our hearts, to teach us the maternal compassion that women, like God himself, feel for the forgotten of the earth and to help us to sow seeds of hope.
As a sign of my constant heartfelt encouragement, I now impart to you my blessing, I bless you as a brother and I extend this blessing to all your dioceses.
Please, do not forget to pray for me, and to ask others to do the same!
[01361-EN.02] [Original text: Italian]
Traduzione in lingua tedesca
Danke, Herr Kardinal, für Ihre Begrüßungsworte im Namen aller Mitbrüder. Ich bin auch dankbar dafür, weil Sie in ihren Worten beschrieben haben, wie sich die Sendung, welche wir zu leben beabsichtigen, inmitten von Widersprüchen vollzieht: Dies ist ein Land, das in vieler Hinsicht reich ist und doch gibt es viel Armut; es hat eine Kultur und eine Weisheit, die es von den Vorfahren ererbt hat und die das Leben und die Würde der menschlichen Person hochschätzt, aber auch Ungleichheit und Korruption zulässt. Die Aufgabe des Hirten ist unter diesen Umständen schwierig. Auch was die Unausgewogenheit betrifft: Der Hirte riskiert es, nach einer Seite zu gehen und die Anderen allein zu lassen. Und auch was die Korruption betrifft. Ich sage nicht, dass der Hirte automatisch korrupt wird, aber es besteht eine Gefahr zu sagen: „Ich werde dieses Werk in Angriff nehmen und jenes andere …“ und am Ende wird man zum Geschäftemacher. Oder einen Handel zu machen, dann einen anderen und wieder einen anderen … und am Ende ist jener gute Hirte schmutzig und korrupt geworden. Das kommt vor, immer wieder. In der Welt gibt es das. Haltet die Augen offen!
„Sämann des Friedens und der Hoffnung“ – lautet das Thema dieses Besuchs, das die uns anvertraute Sendung gut widergibt. Tatsächlich sind wir Sämänner, und wer Samen aussäht, tut dies voller Hoffnung; er tut es, indem er sich auf seine eigenen Anstrengungen und seinen eigenen persönlichen Einsatz verlässt, aber er weiß darum, dass viele Faktoren zusammenkommen müssen, damit der Samen keimt, wächst, zu einer Weizenähre und schließlich zu reichlich Getreide wird. Der müde und besorgte Sämann lässt sich nicht entmutigen. Dieses Wort sollte uns immer begleiten, sei es im aktiven oder im kontemplativen Leben, wie wir heute gesehen haben [bei der Begegnung mit den Klausurschwestern]: Mutig voran! Mensch, habe Mut! Der Lebensmut. Der müde und besorgte Sämann lässt sich nicht entmutigen; er gibt nicht auf, und noch weniger verbrennt er sein Feld, wenn etwas schief läuft... Er kann warten, er ist zuversichtlich; er erträgt die Enttäuschung, wenn der Samen nicht aufgeht, aber er hört nie auf, das seiner Sorge anvertraute Feld zu lieben. Auch wenn er die Versuchung dazu verspürt, läuft er nicht weg, um es einem anderen anzuvertrauen.
Der Sämann kennt sein Land, „berührt“ es, er „fühlt“ es und bereitet es so vor, dass es das Bestmögliche geben kann. Wir Bischöfe sind nach dem Bild des Sämannes berufen, die Samen des Glaubens und der Hoffnung auf diese Erde zu säen. Dazu müssen wir diesen „Spürsinn“ entwickeln, der es uns ermöglicht, diese Erde besser zu kennen und auch herauszufinden, was das Saatgut gefährdet, behindert oder beschädigt. Der Spürsinn des Hirten. Der Hirte mag sehr intelligent sein, er mag akademische Titel haben, er mag an vielen internationalen Kongressen teilgenommen haben, alles wissen, alles studiert haben; er mag auch gütig sein, ein lieber Mensch, doch wenn ihm der Spürsinn fehlt, kann er nie ein guter Hirte sein. Der Spürsinn. Deshalb haben die Hirten »unter Berücksichtigung der Beiträge der verschiedenen Wissenschaften das Recht, Meinungen über all das zu äußern, was das Leben der Menschen betrifft, da die Evangelisierungsaufgabe eine ganzheitliche Förderung jedes Menschen einschließt und verlangt. Man kann nicht behaupten, die Religion müsse sich auf den Privatbereich beschränken und sie existiere nur, um die Seelen auf den Himmel vorzubereiten. – Das ist die „Weisheit“, die uns die neoliberale Aufklärung hinterlassen hat: Wir haben auch für das Volk gearbeitet, ja, alles für das Volk, aber nichts mit dem Volk! Ohne Beziehung zum Volk, ohne Spürsinn … Der wahre Hirte ist dagegen inmitten seines Volkes, er ist umgeben von Menschen, umhüllt von der Liebe seiner Leute, weil er sie versteht. – Wir wissen, dass Gott das Glück seiner Kinder, obwohl sie zur ewigen Fülle berufen sind, auch auf dieser Erde wünscht, denn er hat alles erschaffen, „damit sie sich daran freuen können” (1Tim 6,17), damit alle sich daran freuen können. Daraus folgt, dass die christliche Umkehr verlangt, „besonders […] all das zu überprüfen, was das Sozialwesen ausmacht und zur Erlangung des Allgemeinwohls beiträgt”. Folglich kann niemand von uns verlangen, dass wir die Religion in das vertrauliche Innenleben der Menschen verbannen, ohne jeglichen Einfluss auf das soziale und nationale Geschehen, ohne uns um das Wohl der Institutionen der menschlichen Gemeinschaft zu kümmern, ohne uns zu den Ereignissen zu äußern, die die Bürger angehen« (vgl. Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium, 182-183). Der Hirte inmitten seines Volkes. Der Hirte, der die Sprache seines Volkes versteht. Der Hirte, der vom Volk „eingesalbt“ ist – dem Volk, dem er dient, dessen Diener er ist.
Ich weiß, dass es viele Gründe gibt, sich zu sorgen, und dass ihr unter anderem in euren Herzen die Verantwortung tragt, die Würde eurer Brüder und Schwestern zu schützen, die eine immer solidarischere und wohlhabendere Nation aufzubauen suchen, die über solide und stabile Institutionen verfügt. Kann ein Hirte, der diesen Namen verdient, den Herausforderungen, mit denen seine Landsleute aller sozialen Schichten konfrontiert sind, gleichgültig bleiben, unabhängig von ihrer religiösen Zugehörigkeit? Kann ein Hirte von der Art Jesu gleichgültig sein gegenüber dem Leben der ihm anvertrauten Menschen?
Die prophetische Dimension, die mit der Sendung der Kirche verbunden ist, erfordert überall und immer eine Unterscheidung, die im Allgemeinen nicht einfach ist. In diesem Sinne ist eine reife und unabhängige Zusammenarbeit zwischen Kirche und Staat eine ständige Herausforderung, denn die Gefahr fragwürdiger Übereinkünfte ist nie gering, besonders, wenn dabei der „Biss des Evangeliums“ verloren geht. Indem wir immer auf das hören, was der Geist den Kirchen unaufhörlich sagt (vgl. Offb 2,7), werden wir den Fallstricken entkommen und das Ferment des Evangeliums freisetzen können für eine fruchtbare Zusammenarbeit mit der Zivilgesellschaft auf der Suche nach dem Gemeinwohl. Das markante Zeichen dieser Unterscheidung wird sein, dass die Verkündigung des Evangeliums eure Sorge um alle Formen der Armut einschließt: nicht nur »allen die Nahrung oder eine „menschenwürdige Versorgung“ zu sichern, sondern dass sie einen „Wohlstand in seinen vielfältigen Aspekten“ erreichen. Das schließt die Erziehung, den Zugang zum Gesundheitswesen und besonders die Arbeit ein, denn in der freien, schöpferischen, mitverantwortlichen und solidarischen Arbeit drückt der Mensch die Würde seines Lebens aus und steigert sie. Der gerechte Lohn ermöglicht den Zugang zu den anderen Gütern, die zum allgemeinen Gebrauch bestimmt sind« (Apostolisches Schreiben Evangelii Gaudium, 192).
Die Verteidigung der menschlichen Person ist eine weitere Dimension unseres pastoralen Engagements. Um Hirten nach dem Herzen Gottes zu werden, müssen wir die Ersten sein, die sich dafür entscheiden, den Armen das Evangelium zu verkünden: »Es dürfen weder Zweifel bleiben, noch halten Erklärungen stand, die diese so klare Botschaft schwächen könnten. Heute und immer gilt: „Die Armen sind die ersten Adressaten des Evangeliums“, und die unentgeltlich an sie gerichtete Evangelisierung ist ein Zeichen des Reiches, das zu bringen Jesus gekommen ist. Ohne Umschweife ist zu sagen, dass – wie die Bischöfe Nordost-Indiens lehren – ein untrennbares Band zwischen unserem Glauben und den Armen besteht. Lassen wir die Armen nie allein!« (ebd., 48). Mit anderen Worten, wir haben eine besondere Verpflichtung, den Armen, Ausgestoßenen und Kleinen, sowie den Kindern und den besonders verletzlichen Menschen, die Opfer von Ausbeutung und Missbrauch wurden, nahe zu sein und sie zu schützen. Sie sind heute Opfer der Wegwerf-Kultur. Die Weltlichkeit hat uns dazu geführt, in die Sozialprogramme, in die Entwicklungsprogramme, das Wegwerfen als Möglichkeit einzufügen: das Wegwerfen dessen, der geboren werden soll, und das Wegwerfen dessen, der im Sterben liegt, um die Abreise zu beschleunigen.
Dieses riesige Feld wird durch den prophetischen Geist nicht nur frei und urbar gemacht, sondern wartet auch auf den Samen, der mit christlicher Geduld in den Boden gesät wird, in dem Bewusstsein, dass wir weder Kontrolle noch Verantwortung für den gesamten Prozess haben. Ein Hirte, der sät, vermeidet es, alles zu kontrollieren. Das kann man nicht. Der Sämann geht nicht jeden Tag auf das Feld und gräbt die Erde um, um zu sehen, ob der Weizen wächst. Der Hirte vermeidet es, alles zu kontrollieren – die Kontrolleure verhindern das Wachstum! –, er gibt Initiativen Raum, er lässt Wachstum zu ungleichen Zeiten zu – nicht alles wächst gleich schnell –, und er sucht keine Gleichförmigkeit: die Gleichförmigkeit ist nicht das Leben; das Leben ist vielfältig, jeder hat seine eigene Seinsweise, seine eigene Weise zu wachsen, seine eigene Weise, Mensch zu sein. Die Gleichförmigkeit ist nicht der christliche Weg. Der wahre Hirte erhebt keine unvernünftigen Ansprüche und verachtet scheinbar magerere Ergebnisse nicht: „Diesmal ist es nicht so gut gelaufen – ruhig bleiben und weiter! Das nächste Mal wird es besser“. Er versteht immer, die Ergebnisse so zu nehmen, wie sie kommen. Erlaubt mir, dass ich euch sage, welches Bild mir manchmal in den Sinn kommt, wenn ich an das Leben eines Hirten denke. Der Hirte muss das Leben dort nehmen, wo es herkommt und mit den Ergebnissen, die auf ihn zukommen. Der Hirte ist wie der Torwart; er nimmt den Ball dort, wo er hingeschossen wird. Er versteht es, sich zu bewegen, er weiß, die Situation so anzunehmen, wie sie kommt. Man kann die Sachen später korrigieren, aber im Augenblick nimmt er das Leben, wie es kommt. Das ist Hirtenliebe. Das spricht von einer Treue zum Evangelium, die auch uns zu Hirten macht, die dem Volk Gottes nahe sind, angefangen bei unseren Brüdern im Priesteramt, die unsere engsten Brüder sind und denen unsere besondere Fürsorge gelten muss.
Der Hirte soll Nähe zu Gott haben, zu seinen Priestern und soll dem Volk nahe sein. Die drei „Nähen“ des Hirten. Gott nahe sein im Gebet. Vergessen wir nicht die Situation, als die Apostel die Diakone „erfinden“ – das habe ich schon oft erzählt –; da sagt Petrus, um die neue Erfindung der Diakone zu erklären: »Wir [Apostel] aber wollen beim Gebet und beim Dienst am Wort bleiben« (Apg 6,4). Die erste Aufgabe des Hirten ist Beten. Jeder von euch frage sich: Bete ich? Wie oft? Wie? Nähe zu Gott. Dann die Nähe zu den Priestern: Die Priester sind die, die dem Bischof am allernächsten sind. „Ich habe den Bischof angerufen; die Sekretärin hat den Anruf angenommen und gesagt, dass es in den nächsten drei Monaten für einen Termin mit mir nichts frei ist“. Ein brüderlicher Rat: Wenn du feststellst, dass deine Sekretärin auf der Telefonliste den Anruf eines Priesters hinterlassen hat, ruf ihn am gleichen Tag an oder spätestens einen Tag später. Vielleicht hast du keine Zeit, ihn zu empfangen, aber ruf ihn an. Jener Priester wird erfahren, dass er einen Vater hat! Und die dritte Nähe: Die Nähe zum Volk. Der Hirte, der sich vom Volk entfernt, der den Spürsinn für das Volk verliert, endet als „Monsieur l’Abbé“, ein Funktionär des Hofes, … des päpstlichen Hofes; er ist wichtig, aber am Ende immer vom Hofe, und das dient zu nichts.
Vor einiger Zeit habe ich den italienischen Bischöfen mein Anliegen vorgetragen, unsere Priester mögen in ihrem Bischof die Gestalt des älteren Bruders und des Vaters sehen können, der sie auf ihrem Weg ermutigt und unterstützt (vgl. Ansprache vor der italienischen Bischofskonferenz, 20. Mai 2019). Darin besteht die geistliche Vaterschaft, die den Bischof drängt, seine Priester nicht verwaisen zu lassen, und die dann „mit Händen zu greifen“ ist, wenn er die Fähigkeit besitzt, allen Priestern seine Türen zu öffnen und sie auch aufzusuchen, um sie zu begleiten, wenn sie einen Moment der Schwierigkeiten durchlaufen.
In den Freuden und Schwierigkeiten, die ihrem Dienst innewohnen, müssen die Priester in euch, liebe Bischöfe, Väter finden, die immer verfügbar sind, die wissen, wie man ermutigt und unterstützt, die fähig sind, Bemühungen zu würdigen und mögliche Fortschritte zu begleiten. Das Zweite Vatikanische Konzil machte zu diesem Punkt eigens eine Anmerkung: »Mit besonderer Liebe seien sie [die Bischöfe] jederzeit den Priestern zugetan, die ja für ihren Teil die Aufgaben und Sorgen der Bischöfe übernehmen und in täglicher Mühewaltung so eifrig verwirklichen. Sie sollen sie als Söhne und Freunde betrachten. Deshalb sollen sie sie bereitwillig anhören und sich durch ein vertrauensvolles Verhältnis zu ihnen um den Fortschritt der gesamten Seelsorgsarbeit in der ganzen Diözese bemühen« (Dekret Christus Dominus, 16).
Die Pflege des Ackerbodens impliziert auch ein geduldiges Abwarten von Prozessen. Der Hirte kann die Prozesse abwarten. Und während der Ernte beurteilt der Landwirt auch die Qualität der Arbeiter. Dies legt euch als Hirten eine dringende Pflicht auf – ich spreche hier von der Qualität der Arbeiter – eine dringende Pflicht zur Begleitung und Unterscheidung, insbesondere was die Berufungen zum geweihten Leben und zum Priestertum betrifft. Solche ist grundlegend, um die Echtheit dieser Berufungen zu garantieren. Wohlgemerkt: Darauf gebt Acht! Lasst euch nicht irreführen vom Bedarf und von der Zahl: „Wir brauchen Priester, und weil ich sie brauche, nehme ich sie, ohne dass ich ihre Berufung prüfe“. Ich weiß nicht, vielleicht ist das bei euch nicht so üblich, weil ihr viele Berufungen habt. Deshalb habt ihr eine gewisse Freiheit, ruhig mit der Einschätzung und Unterscheidung zu verfahren. Doch in einigen europäischen Ländern ist die Lage beklagenswert: Das Fehlen von Berufungen treibt den Bischof dazu, von hier und von dort zu nehmen, aber ohne auf das Leben zu schauen, wie es geführt wurde. Sie nehmen Männer, die aus anderen Seminaren „weggejagt“ oder vom Ordensleben entlassen wurden, die aus moralischen Gründen „wegmussten“ oder wegen anderer Mängel. Passt bitte auf! Lasst nicht den Wolf in die Herde einbrechen. Die Ernte ist reichlich vorhanden, und der Herr – der nichts anderes wollen kann als authentische Arbeiter – lässt sich nicht einschränken in seinen Möglichkeiten, um zur großherzigen Hingabe des eigenen Lebens aufzurufen und anzuregen. Nach der Auswahl soll die Ausbildung der Kandidaten für das Priesteramt und das gottgeweihte Leben gerade die Reifung und Reinigung der Absichten gewährleisten. In diesem Zusammenhang möchte ich im Geiste des Apostolischen Schreibens Gaudete et exsultate betonen, dass die grundlegende Berufung, ohne die allen anderen Berufungen der Existenzgrund fehlt, der Ruf zur Heiligkeit ist und dass diese »Heiligkeit das schönste Gesicht der Kirche« ist (Nr. 9). Ich schätze eure Bemühungen, die Ausbildung authentischer und heiliger Arbeiter für die reiche Ernte im Weinberg des Herrn zu gewährleisten.
Zudem mochte ich noch ein anderes Verhalten unterstreichen, das mir nicht gefällt, weil es nicht von Gott kommt: Das ist die Strenge. Heute ist es zur Mode geworden – ich weiß nicht, wie es hier ist, aber anderswo – da ist es üblich, strenge Menschen anzutreffen. Junge harte Priester, die mit der Strenge Heil vermitteln wollen – ich weiß nicht warum –, doch sie legen ein starres Verhalten an den Tag, manchmal als Gestalten – verzeiht mir! – wie aus dem Museum. Sie haben Angst vor allen Situationen, sie sind starr. Gebt Acht und bedenkt, dass sich unter jeder Starrheit große Probleme verbergen.
Diese Bemühungen müssen sich auch auf das weite Feld der Laien erstrecken; auch die Laien sind zur Ernte ausgesandt, sind aufgerufen, am Fischfang teilzunehmen, ihre Netze und ihre Zeit einzusetzen mit ihrem »vielfältigen Apostolat sowohl in der Kirche als auch in der Welt« (Zweites Vatikanisches Konzil, Dekret Apostolicam actuositatem, 9). Mit all ihrer Reichweite, ihren Problemen und Veränderungen stellt die Welt den spezifischen Bereich des Apostolats dar, in dem diese mit Großzügigkeit und Verantwortung zu arbeiten berufen sind und das Ferment des Evangeliums hineintragen sollen. Deshalb möchte ich euch zu all den Initiativen beglückwünschen, die ihr als Hirten ergreift, um Laien auszubilden – Danke dafür! – und sie nicht allein zu lassen in der Mission, Salz der Erde und Licht der Welt zu sein, um zur Verwandlung der Gesellschaft und der Kirche in Madagaskar beizutragen. Und vergesst nicht: Bitte klerikalisiert die Laien nicht. Die Laien sind Laien. In meiner früheren Diözese hörte ich Vorschläge wie diesen: „Herr Bischof, ich habe in der Pfarrgemeinde einen wunderbaren Laien: Er arbeitet und organisiert alles … Können wir ihn nicht zum Diakon machen?“ Lass ihn in Ruhe, ruiniere ihm nicht das Leben, lass ihn Laie sein. Und was die Diakone betrifft: Sie leiden oft an der Versuchung des Klerikalismus, sie fühlen sich als verhinderte Priester oder Bischöfe … Nein! Der Diakon ist Wächter im Dienst der Kirche. Bitte stellt die Diakone nicht auf dem Altar aus. Sie sollen ihre Arbeit draußen machen, in ihrem Dienst. Sie sollen in die Mission gehen um zu taufen. Dass sie taufen ist in Ordnung. Aber in ihrem Dienst, nicht als verhinderte Priester.
Liebe Mitbrüder, all diese Verantwortung auf dem Acker Gottes muss uns provozieren, unsere Herzen und unseren Geist zu öffnen, die Angst, die zur Verschlossenheit führt, zu vertreiben und die Versuchung zu überwinden, uns abzusondern: Der brüderliche Dialog zwischen euch – er ist wichtig! – sowie der Austausch von Gaben und die Zusammenarbeit zwischen den Teilkirchen des Indischen Ozeans, seien ein Weg der Hoffnung. Dialog und Zusammenarbeit. Die Ähnlichkeit der pastoralen Herausforderungen wie etwa der Schutz der Umwelt in einem christlichen Geist oder das Problem der Einwanderung erfordert gemeinsame Überlegungen und eine Synergie groß angelegter Aktionen für einen wirksamen Ansatz.
Schließlich möchte ich durch euch in besonderer Weise die Priester, Ordensmänner und Ordensfrauen grüßen, die krank sind oder an Altersschwäche leiden. Ich stelle euch eine Gewissensfrage: „Gehe ich sie besuchen?“ Ich bitte euch, ihnen meine Zuneigung und Nähe im Gebet auszudrücken, sie liebevoll zu pflegen und sie zu bestärken in ihrem schönen Auftrag für andere zu beten.
Zwei Frauen beschützen diese Kathedrale: In der Kapelle hier nebenan ruhen die Reliquien der seligen Victoire Rasoamanarivo, die in schwierigen Zeiten Gutes tun sowie den Glauben verteidigen und verbreiten konnte; und vor allem ist da das Bild der Jungfrau Maria, die mit ihren zum Tal und den Hügeln hin geöffneten Armen alles zu umspannen scheint. Bitten wir sie, unsere Herzen immer zu weiten und uns das mütterliche Mitgefühl zu lehren, das Gott angesichts der Vergessenen dieser Welt empfindet. Sie möge uns helfen, Frieden und Hoffnung zu säen.
Als Zeichen meiner herzlichen und treuen Unterstützung segne ich euch als Bruder und dehne diesen Segen auf eure Bistümer aus.
Bitte vergesst nicht für mich zu beten und andere für mich beten zu lassen!
[01361-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]
Traduzione in lingua spagnola
Gracias, señor Cardenal, por sus palabras de bienvenida en nombre de todos sus hermanos. Agradezco, a su vez, que las mismas hayan querido mostrar cómo la misión que nos proponemos vivir se da en medio de contradicciones: una tierra rica y mucha pobreza; una cultura y una sabiduría heredada de los antepasados que nos hacen valorar la vida y la dignidad de la persona humana, pero también la constatación de la desigualdad y la corrupción. Es difícil la tarea del pastor en estas circunstancias. Incluso con las desigualdades: el pastor se arriesga a ir a una parte y dejar a los otros. Y incluso con la corrupción: no digo que el pastor se convierta en corrupto, pero está el peligro…: “Haré esta obra, y esta otra…”, y se convierte en un hombre de negocios; o haré ese cambio, o ese otro, o ese otro… y al final, aquel buen pastor ha terminado manchado con la corrupción. Sucede, sucede. En el mundo, sucede. Tened los ojos abiertos.
“Sembrador de paz y de esperanza” es el lema elegido para esta visita, y que bien puede ser un eco de la misión que se nos ha encomendado. Porque somos sembradores, y el que siembra lo hace con esperanza; lo hace asentado en su esfuerzo y entrega personal, pero sabiendo que hay infinidad de factores que deben concurrir para que lo sembrado germine, crezca, se convierta en espiga y finalmente en trigo abundante. El sembrador cansado y preocupado no baja los brazos.
Esta parábola nos debe acompañar siempre, sea en la vida activa sea en la contemplativa, como hemos visto hoy [en el encuentro con las religiosas contemplativas]: sed valientes, sé un hombre valiente. El valor. El sembrador cansado y preocupado no baja los brazos, no abandona y menos aún quema su campo cuando algo se malogra. Sabe esperar, confía, asume las contrariedades de su siembra, pero jamás deja de amar aquel campo encomendado a su cuidado; incluso si viene la tentación, tampoco escapa encomendándoselo a otro.
El sembrador conoce su tierra, la “toca”, la “huele” y la prepara para que pueda dar lo mejor de sí. Nosotros, obispos, a imagen del Sembrador, estamos llamados a esparcir las semillas de la fe y la esperanza en esta tierra. Para eso es necesario que desarrollemos ese “olfato” que nos permita conocerla mejor y descubrir también lo que dificulta, obstruya o dañe lo sembrado. El olfato del pastor. El pastor puede ser muy inteligente, puede tener títulos académicos, puede haber participado en muchos congresos internacionales, saber todo, estudiar todo, incluso ser bueno, una buena persona, pero si le falta el olfato, nunca podrá ser un buen pastor. El olfato. Por eso, «los Pastores, acogiendo los aportes de las distintas ciencias, tienen derecho a emitir opiniones sobre todo aquello que afecte a la vida de las personas, ya que la tarea evangelizadora implica y exige una promoción integral de cada ser humano. No se puede decir que la religión debe recluirse en el ámbito privado y que está sólo para preparar las almas para el cielo. Esta es la verdad que nos ha dejado el iluminismo neoliberal: trabajamos también para el pueblo, sí, todo para el pueblo, pero nada con el pueblo. Sin la relación con el pueblo, sin el olfato… El auténtico pastor sin embargo está en medio del pueblo, inmerso entre la gente, en el amor de su gente, porque la entiende. Sabemos que Dios quiere la felicidad de sus hijos también en esta tierra, aunque estén llamados a la plenitud eterna, porque Él creó todas las cosas “para que las disfrutemos” (1 Tm 6,17), para que todos puedan disfrutarlas. De ahí que la conversión cristiana exija revisar “especialmente todo lo que pertenece al orden social y a la obtención del bien común”. Por consiguiente, nadie puede exigirnos que releguemos la religión a la intimidad secreta de las personas, sin influencia alguna en la vida social y nacional, sin preocuparnos por la salud de las instituciones de la sociedad civil, sin opinar sobre los acontecimientos que afectan a los ciudadanos» (Exhort. ap. Evangelii gaudium, 182-183). El pastor en medio del pueblo. El pastor que sabe escuchar el lenguaje del pueblo. El pastor ungido por el pueblo, a quien sirve, del que es servidor.
Sé que tenéis muchas razones para preocuparos y que, entre otras cosas, lleváis en el corazón la responsabilidad de velar por la dignidad de todos vuestros hermanos que reclama construir una nación cada vez más solidaria y próspera, dotada de instituciones sólidas y estables. ¿Puede un pastor digno de ese nombre permanecer indiferente ante los desafíos que enfrentan sus conciudadanos de todas las categorías sociales, independientemente de sus denominaciones religiosas? ¿Puede un pastor al estilo de Jesucristo ser indiferente a las vidas que le fueron confiadas?
La dimensión profética relacionada con la misión de la Iglesia requiere, en todas partes y siempre, un discernimiento que no suele ser fácil. En este sentido, la colaboración madura e independiente entre la Iglesia y el Estado es un desafío permanente, porque el peligro de una connivencia nunca está muy lejos, especialmente si nos lleva a perder la “mordedura evangélica”. Escuchando siempre lo que el Espíritu dice constantemente a las iglesias (cf. Ap 2,7) podremos escapar de las insidias y liberar el fermento del Evangelio para una fructífera colaboración con la sociedad civil en la búsqueda del bien común. El signo distintivo de ese discernimiento será que el anuncio del evangelio incluye de suyo la preocupación por toda forma de pobreza: no sólo «asegurar a todos un “decoroso sustento”, sino también para que tengan “prosperidad sin exceptuar bien alguno”. Esto implica educación, acceso al cuidado de la salud y especialmente trabajo, porque en el trabajo libre, creativo, participativo y solidario, el ser humano expresa y acrecienta la dignidad de su vida. El salario justo permite el acceso adecuado a los demás bienes que están destinados al uso común» (Exhort. ap. Evangelii gaudium, 192).
La defensa de la persona humana es otra dimensión de nuestro compromiso pastoral. Para ser pastores según el corazón de Dios, debemos ser nosotros los primeros en la opción por proclamar el Evangelio a los pobres: «No deben quedar dudas ni caben explicaciones que debiliten este mensaje tan claro. Hoy y siempre, “los pobres son los destinatarios privilegiados del Evangelio”, y la evangelización dirigida gratuitamente a ellos es signo del Reino que Jesús vino a traer. Hay que decir sin vueltas que existe un vínculo inseparable entre nuestra fe y los pobres. Nunca los dejemos solos» (ibíd., 48). En otras palabras, tenemos un deber especial de cercanía y protección hacia los pobres, los marginados y los pequeños, hacia los niños y las personas más vulnerables, víctimas de explotación y de abuso, víctimas, hoy, de esta cultura del descarte. Hoy la mundanidad nos ha llevado a introducir en los programas sociales, en los programas de desarrollo, el descarte como posibilidad: el descarte de quién está por nacer y el descarte de quién está para morir, para acelerar la partida.
Ese inmenso campo no sólo es limpiado y roturado por el espíritu profético, sino que también se espera con paciencia cristiana a la semilla esparcida, sabiendo por otra parte que no estamos a cargo ni somos responsables de todo el proceso. Un pastor, que siembra, evita controlarlo todo. No se puede. El sembrador no va cada día a escavar la tierra para ver cómo crece la semilla. Un pastor evita de controlar todo —los pastores controladores no dejan crecer—, da espacio para las iniciativas, deja crecer en distintos tiempos —no todos tienen los mismos tiempos de crecimiento— y no estandariza: la uniformidad no es vida, la vida es variada, cada uno tiene su propio modo de ser, su propio modo de crecer, su propio modo de ser persona. La uniformidad no es un camino cristiano. El verdadero pastor no exige más de la cuenta, no menosprecia resultados aparentemente más pobres: “Esta vez ha ido así… venga, tranquilo. La próxima vez irá mejor”. Sabe siempre aceptar los resultados tal como vienen. Permitirme que os diga cuál es la imagen que a veces me viene a la mente cuando pienso a la vida pastoral. El pastor debe aceptar la vida por donde viene, con los resultados que le llegan. El pastor es como el portero del equipo de fútbol: atrapa el balón por donde se lo lanzan. Sabe moverse, sabe aceptar la realidad como viene. Y corrige las cosas, después, pero en el momento acepta la vida como viene. Esto es el amor del pastor. Esto nos habla de una fidelidad al Evangelio que nos hace pastores cercanos al pueblo de Dios, comenzando por nuestros hermanos sacerdotes —que son nuestro prójimo más prójimo— que deben recibir un cuidado especial de nuestra parte.
El pastor debe ser cercano a Dios, a sus sacerdotes, cercano al pueblo. Las tres cercanías del pastor. Cercano a Dios en la oración. No olvidemos que cuando los Apóstoles “inventan” los diáconos —esto lo he dicho muchas veces—, Pedro, para explicar esta nueva invención de los diáconos, dice: “Y a nosotros [los Apóstoles], la oración y el anuncio de la Palabra”. La primera tarea del pastor es rezar. Cada uno de vosotros se pregunte: ¿rezo? ¿cuánto? ¿cómo? La cercanía a Dios. Cercanía a los sacerdotes: los sacerdotes son los prójimos más próximos al obispo. “He llamado al obispo, ha tomado la llamada la secretaria y me dice que en tres meses no hay sitio para darme una cita”. Un consejo de hermano: si tú te encuentras que tu secretaria te deja en la lista la llamada de un cura, ese mismo día, o al máximo el día siguiente, llámalo. Puede que no tengas tiempo para recibirlo, pero llámalo. Ese cura sabrá que tiene un padre. Y la tercera cercanía: cercanía al pueblo. El pastor que se aleja del pueblo, que pierde el olfato del pueblo, termina como un “Señor Cura”, un funcionario de corte… corte pontificia, importante, pero al final siempre corte, y esto no sirve.
Hace un tiempo manifestaba a los obispos italianos la atención que nuestros sacerdotes puedan encontrar en sus obispos la figura del hermano mayor y padre que los aliente y sostenga en el camino (cf. Discurso a la Conferencia Episcopal Italiana, 20 mayo 2019). Es la paternidad espiritual que impulsa al obispo a no dejar huérfanos a sus presbíteros, y que se puede “palpar” no sólo en la capacidad que tengamos de abrir las puertas a todos los sacerdotes, sino también en nuestra capacidad de ir a buscarlos para acompañarlos cuando estén pasando por un momento de dificultad.
En las alegrías y las dificultades inherentes al ministerio, los sacerdotes deben encontrar en vosotros, queridos obispos, padres siempre disponibles que saben cómo alentar y apoyar, que saben apreciar los esfuerzos y acompañar los pasos posibles. El Concilio Vaticano II hizo una observación especial sobre este punto: «[Los obispos] han de acoger siempre con amor especial a sus sacerdotes. Estos, en efecto, participan de sus funciones y tareas y las realizan con afán en el trabajo de cada día. Por tanto, los obispos, considerándolos sus hijos y sus amigos, dispuestos a escucharlos y a tratarlos con confianza, han de dedicarse a impulsar la pastoral conjunta de toda la diócesis» (Decr. Christus Dominus, 16).
El cuidado de la tierra implica también la paciente espera de los procesos. El pastor sabe esperar los procesos. Y, a la hora de la cosecha el agricultor también sopesa la calidad de los trabajadores. Esto os impone como pastores un deber urgente —estoy hablando de la cualidad de los trabajadores— un deber urgente de acompañamiento y discernimiento, especialmente con respecto a las vocaciones a la vida consagrada y al sacerdocio, y que es fundamental para asegurar la autenticidad de estas vocaciones. Y en esto, por favor, estar atentos. No os dejéis engañar por la necesidad y por el número: “Tenemos necesidad de sacerdotes y porque tengo necesidad acojo sin discernimiento las vocaciones”. No sé, creo que entre vosotros esto no sea tan común porque tenéis vocaciones y por tanto tenéis cierta liberta para ir despacio con el discernimiento. Pero en algunos países de Europa es lamentable, la falta de vocaciones empuja al obispo a tomar de aquí, de allí, de allá, sin ver la vida como era; toman personas “echadas” de otros seminarios, “echadas” de la vida religiosa, que han sido echadas porque inmorales o por otras deficiencias. Por favor, estar atentos. No hagáis entrar el lobo dentro del rebaño. La mies es abundante, y el Señor —que no quiere más que auténticos obreros— no se deja encasillar en los modos de llamar, de incitar a la respuesta generosa de la propia vida. La formación de candidatos para el sacerdocio y la vida consagrada está precisamente destinada a asegurar una maduración y purificación de las intenciones. Sobre esta cuestión, y en el espíritu de la Exhortación apostólica Gaudete et exsultate, me gustaría enfatizar que la llamada fundamental sin la cual las otras no tienen razón de ser, es la llamada a la santidad y que esta «santidad es la cara más bella de la Iglesia» (n. 9). Aprecio vuestros esfuerzos para asegurar la formación de auténticos y santos obreros en la abundante mies en el campo del Señor.
Además, quisiera subrayar una actitud que a mí no me gusta, porque no viene de Dios: la rigidez. Hoy es la moda, no se aquí, pero en otras partes es la moda, encontrar personas rígidas. Sacerdotes jóvenes, rígidos, que quieren salvarse con la rigidez, tal vez, no lo sé, pero toman una actitud de rigidez y a veces —perdonarme— de museo. Tiene miedo de todo, son rígidos. Estad atentos, y sabed que bajo toda rigidez hay graves problemas.
Ese esfuerzo también tiene que abarcar el amplio mundo laical; también los laicos son enviados a la mies, son convocados a tomar parte en la pesca, a arriesgar sus redes y su tiempo en «su múltiple apostolado tanto en la Iglesia como en el mundo» (Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Apostolicam actuositatem, 9). Con toda su extensión, problemática y transformación, el mundo constituye el ámbito específico de apostolado donde están llamados a comprometerse con generosidad y responsabilidad, llevando el fermento del Evangelio. Por eso deseo dar la bienvenida a todas las iniciativas que en cuanto pastores tomen para la formación de los laicos —gracias por esto— y no dejarlos solos en la misión de ser sal de la tierra y luz del mundo, para contribuir a una transformación de la sociedad y la Iglesia en Madagascar. Y por favor: no clericalizar a los laicos. Los laicos son laicos. Yo he sentido, en mi precedente diócesis, propuestas como esta: “Señor obispo, yo en la parroquia tengo un laico maravilloso: trabaja, organiza todo… ¿lo hacemos diácono?”. Déjalo allí, no le arruines la vida, déjalo laico. Y, a propósito de los diáconos: los diáconos tantas veces sufren la tentación del clericalismo, se sienten presbíteros u obispos fallidos…
No. El diácono es el custodio del servicio en la Iglesia. Por favor, no tengáis los diáconos en el altar: que hagan el trabajo fuera, en el servicio. Si deben ir en misión a bautizar, que bauticen: está bien. Pero en el servicio, no hacer sacerdotes fallidos.
Queridos hermanos: Toda esta responsabilidad en el campo de Dios nos debe desafiar a tener el corazón y la mente abierta, a evitar el miedo que encierra y a vencer la tendencia a aislarnos: el diálogo fraterno entre vosotros —es importante—, así como el compartir los dones y la colaboración entre las Iglesias particulares del Océano Índico, sean un camino esperanzador. Diálogo y colaboración. La similitud de desafíos pastorales, como la protección del medio ambiente en un espíritu cristiano o el problema de la inmigración, exigen reflexiones comunes y una sinergia de acciones a gran escala para un planteamiento eficaz.
Finalmente, a través de vosotros me gustaría saludar de modo especial a los sacerdotes, religiosos y religiosos que están enfermos o muy afectados por la vejez. Dejo una pregunta para cada uno de vosotros: ¿voy a visitarles? Les ruego que les muestren no sólo mi afecto y la seguridad de mis oraciones, sino también que los cuiden con ternura, sosteniéndolos en esa hermosa misión de la intercesión.
Dos mujeres custodian esta Catedral: en la capilla de al lado descansan los restos de la beata Victoria Rasoamanarivo, que supo hacer el bien, custodiar y extender la fe en tiempos difíciles; y la imagen de la Virgen María que con sus brazos abiertos hacia el valle y las colinas, parece abrazarlo todo. A ellas le pedimos que ensanchen siempre nuestro corazón, que nos enseñen la compasión de las entrañas maternas que la mujer y Dios sienten ante los olvidados de la tierra y nos ayuden a sembrar paz y esperanza.
Y a vosotros, como signo de mi cordial y fiel apoyo, os doy la bendición, como hermano os bendigo y esta bendición la que extiendo a vuestras diócesis.
Por favor, no os olvidéis de rezar por mí y hacer rezar por mí.
[01361-ES.02] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua portoghese
Obrigado, Senhor Cardeal, pelas suas palavras de boas-vindas em nome de todos os irmãos. Agradeço também por ter querido, com as mesmas palavras, mostrar como a missão que abraçamos se desenrola no meio de contradições: uma terra rica e tanta pobreza; uma cultura e uma sabedoria herdadas dos antepassados, que nos fazem valorizar a vida e a dignidade da pessoa humana, mas temos também de constatar a desigualdade e a corrupção. Nestas circunstâncias, é difícil a tarefa do pastor. Nomeadamente pelas desigualdades: o pastor corre o risco de inclinar-se para um lado e deixar os outros. E também pela corrupção. Não digo que o pastor se torne um corrupto, mas o perigo existe: «vou fazer esta obra, e aquela…», e torna-se um homem de negócios; ou então farei este favor, darei este jeito, farei esta troca… e assim aquele bom pastor acaba enlameado de corrupção. Isto acontece; no mundo, acontece. Estai atentos!
«Semeador de paz e de esperança» é o tema escolhido para esta visita, mas nele pode ecoar também a missão que nos foi confiada. De facto, somos semeadores, e aquele que semeia fá-lo na esperança; fá-lo contando com o seu esforço e empenho pessoal, mas sabendo que há muitos fatores que têm de concorrer para que a semente germine, cresça, se torne espiga e, por fim, grão abundante. O semeador cansado e preocupado não desanima. Esta palavra sempre nos deve acompanhar quer na vida ativa quer na contemplativa, como vimos hoje [no encontro com as Irmãs de clausura]: Sede corajosos! Sê um homem corajoso! A coragem. O semeador cansado e preocupado não desanima, não desiste, nem pega fogo ao seu campo quando algo corre mal. Sabe esperar, confia, assume as deceções da sua sementeira. Mas nunca cessa de amar este campo confiado aos seus cuidados. E embora às vezes lhe venha a tentação de o fazer, não o abandona nem confia a outrem.
O semeador conhece a sua terra, «palpa-a», «sente-a» e prepara-a para que possa dar o melhor de si mesma. Como o Semeador, nós, bispos, somos chamados a lançar as sementes da fé e da esperança nesta terra. Para isso, devemos desenvolver este «olfato» que nos permite conhecer melhor e também descobrir o que compromete, dificulta ou arruína a sementeira. O olfato do pastor. O pastor pode ser muito inteligente, ter títulos académicos, ter participado em muitos congressos internacionais; pode saber tudo, estudar tudo; pode até ser bom, uma pessoa boa, mas, se lhe falta o tal olfato, nunca poderá ser um bom pastor. O olfato. Assim, «os pastores, acolhendo as contribuições das diversas ciências, têm o direito de exprimir opiniões sobre tudo aquilo que diz respeito à vida das pessoas, dado que a tarefa da evangelização implica e exige uma promoção integral de cada ser humano. Não se pode afirmar que a religião deve limitar-se ao âmbito privado e serve apenas para preparar as almas para o céu. Esta é a ideia que nos deixou o Iluminismo neoliberal: trabalhavam também para o povo. É verdade: tudo para o povo, mas nada com o povo! Sem o relacionamento com o povo, sem o olfato… Pelo contrário, o verdadeiro pastor está no meio do povo, imerso entre as pessoas, no amor do seu povo, porque o compreende. Sabemos que Deus deseja a felicidade dos seus filhos também nesta terra, embora estejam chamados à plenitude eterna, porque Ele criou todas as coisas “para nosso usufruto” (1 Tm 6, 17), para que todos possam usufruir delas. Por isso, a conversão cristã exige rever especialmente tudo o que diz respeito à ordem social e consecução do bem comum. Por conseguinte, ninguém pode exigir-nos que releguemos a religião para a intimidade secreta das pessoas, sem qualquer influência na vida social e nacional, sem nos preocupar com a saúde das instituições da sociedade civil, sem nos pronunciar sobre os acontecimentos que interessam aos cidadãos» (Francisco, Exort. ap. Evangelii gaudium, 182-183). O pastor no meio do povo. O pastor que sabe escutar a linguagem do povo. O pastor ungido pelo povo, a quem serve, de quem é servidor.
Sei que não faltam motivos de preocupação e que, entre outras coisas, carregais no coração a responsabilidade de velar pela dignidade dos vossos irmãos, que pedem para se construir uma nação cada vez mais solidária e próspera, dotada de instituições sólidas e estáveis. Pode um pastor digno deste nome ficar indiferente aos desafios que enfrentam os seus compatriotas de todas as categorias sociais, independentemente da sua pertença religiosa? Pode um pastor segundo o estilo de Jesus ser indiferente às vidas que lhe estão confiadas?
A dimensão profética ligada à missão da Igreja requer, sempre e em toda parte, um discernimento que em geral não é fácil. Neste sentido, a colaboração madura e independente entre a Igreja e o Estado é um desafio permanente, porque o perigo de conluio nunca está longe, sobretudo se chegamos a perder o ardor evangélico. Escutando sempre aquilo que o Espírito diz sem cessar às Igrejas (cf. Ap 2, 7), seremos capazes de escapar às ciladas, libertar o fermento do Evangelho para uma colaboração frutuosa com a sociedade civil na busca do bem comum. A marca distintiva deste discernimento será a vossa preocupação por que a proclamação do Evangelho inclua todas as formas de pobreza: não apenas «garantir a comida ou um decoroso “sustento” para todos, mas prosperidade e civilização em seus múltiplos aspetos. Isto engloba educação, acesso aos cuidados de saúde e especialmente trabalho, porque, no trabalho livre, criativo, participativo e solidário, o ser humano exprime e engrandece a dignidade da sua vida. O salário justo permite o acesso adequado aos outros bens que estão destinados ao uso comum» (Exort. ap. Evangelii gaudium, 192).
A defesa da pessoa humana é outra dimensão do nosso empenho pastoral. Para ser pastores segundo o coração de Deus, devemos ser os primeiros na opção de anunciar o Evangelho aos pobres. «Não devem subsistir dúvidas nem explicações que debilitem esta mensagem claríssima. Hoje e sempre, os pobres são os destinatários privilegiados do Evangelho, e a evangelização dirigida gratuitamente a eles é sinal do Reino que Jesus veio trazer. Há que afirmar sem rodeios que existe um vínculo indissolúvel entre a nossa fé e os pobres. Não os deixemos jamais sozinhos!» (Ibid., 48). Por outras palavras, temos um dever particular de proximidade e proteção para com os pobres, os marginalizados e os pequeninos, para com as crianças e as pessoas mais vulneráveis, vítimas de exploração e abusos, vítimas, hoje, desta cultura do descarte. Hoje a mundanidade levou-nos a inserir nos programas sociais, nos programas de desenvolvimento, o descarte como uma possibilidade: o descarte de quem está para nascer e o descarte de quem está para morrer, para lhe apressar a partida.
Este vasto campo não é desbravado e arroteado apenas pelo espírito profético, mas espera também a semente lançada à terra com paciência cristã, cientes ainda de que não temos o controle nem a responsabilidade de todo o processo. Um pastor que semeia evita de controlar tudo. Não se pode. O semeador não vai cada dia escavar a terra para ver como cresce a semente. Um pastor evita controlar tudo – os pastores controladores não deixam crescer –, dá azo às iniciativas, deixa crescer segundo etapas diferentes – nem todos têm o mesmo ritmo de crescimento – e não procura a uniformidade: a uniformidade não é vida; a vida é variegada. Cada qual tem o seu modo de ser, o próprio modo de crescer, o próprio modo de ser pessoa. A uniformidade não é um caminho cristão. O verdadeiro pastor não tem pretensões irrazoáveis, não despreza os resultados aparentemente mais mingados: «Esta vez andou assim… paciência, vamos para diante! Na próxima, será melhor». Sabe sempre aceitar os resultados como vêm. Deixai que vos diga qual é a imagem que, às vezes, me vem à cabeça quando penso na vida do pastor. O pastor deve agarrar a vida donde ela vem, com os resultados que tiver. O pastor é como o guarda-redes duma equipa de futebol: agarra a bola donde lha mandam. Sabe mover-se, sabe agarrar a realidade como chega. E corrigir as coisas… depois; mas, na hora, agarra a vida como vem. Isto é amor de pastor. Isto manifesta uma fidelidade ao Evangelho que faz de nós pastores próximos também do povo de Deus, a começar pelos nossos irmãos sacerdotes – são eles os nossos irmãos mais próximos – que devem beneficiar de um cuidado especial da nossa parte.
O pastor deve estar próximo de Deus, dos seus sacerdotes, próximo do povo. Estas são as três proximidades do pastor. Próximo de Deus na oração. Não esqueçamos que, na ocasião em que os Apóstolos «inventaram» os diáconos (já disse isto muitas vezes), Pedro, para justificar a nova invenção, disse: «A nós [os Apóstolos], compete a oração e o anúncio da Palavra». O primeiro dever do pastor, é rezar. Cada um de vós pergunte a si mesmo: Rezo? Quanto? Como? Proximidade de Deus. Proximidade dos sacerdotes: os sacerdotes são o próximo mais próximo do Bispo. «Telefonei ao Bispo, atendeu-me a secretária dizendo que, nos próximos três meses, não havia espaço na agenda do Bispo para uma audiência». Conselho dum irmão! Se te deres conta de que a tua secretária te deixa na lista o telefonema dum sacerdote, naquele mesmo dia ou, o mais tardar, no dia seguinte, chama-o. Talvez não tenhas tempo para o receber, mas chama-o. Aquele sacerdote saberá que tem um pai! E a terceira proximidade: proximidade do povo. O pastor que se afasta do povo, que perde o olfato do povo, termina como um “Monsieur l’Abbé”, um funcionário de corte… corte pontifícia, importante, mas no fim de contas sempre corte é! E isto não serve.
Há pouco tempo, falava aos bispos italianos da solicitude por que os nossos sacerdotes possam encontrar no seu bispo a figura do irmão mais velho e do pai que os encoraja e apoia no caminho (cf. Discurso à Conferência Episcopal Italiana, 20 de maio de 2019). Tal é a paternidade espiritual, que impele o bispo a não deixar órfãos os seus sacerdotes, podendo-se «tocar com a mão» não apenas na capacidade de manter abertas as portas a todos os sacerdotes, mas também na preocupação de sair à sua procura para os acompanhar quando atravessam um momento difícil.
Nas alegrias e dificuldades inerentes ao ministério, os sacerdotes devem encontrar, em vós, queridos bispos, pais sempre disponíveis que saibam como encorajar e apoiar, que saibam apreciar os esforços e acompanhar os progressos possíveis. A propósito, observou o Concílio Vaticano II: os bispos «abracem sempre com especial caridade os sacerdotes, que compartilham das suas funções e solicitude, e tão zelosamente satisfazem esses deveres com o trabalho de cada dia, considerando-os como filhos e amigos, e, portanto, mostrando-se prontos a ouvi-los e tratando-os com confiança, procurem dar nova vida a toda a atividade pastoral da diocese inteira» (Decr. Christus Dominus, 16).
Cuidar da terra implica também aguardar pacientemente o crescimento. O pastor sabe dar tempo aos processos. E, na hora da colheita, o agricultor avalia também a qualidade dos trabalhadores. Isto impõe-vos, como pastores, um urgente dever – estou a falar da qualidade dos trabalhadores – um urgente dever de acompanhamento e discernimento, sobretudo no que se refere às vocações para a vida consagrada e o sacerdócio; isso é fundamental para garantir a autenticidade das mesmas. Quanto a isto, recomendo: Estai atentos. Não vos deixeis enganar pela necessidade e o número: «Temos necessidade de sacerdotes e, porque preciso, acolho sem discernimento as vocações». Não sei! Creio que isto, entre vós, não seja tão frequente porque tendes vocações, o que vos permite uma certa liberdade de proceder com sereno discernimento. Mas, em alguns países da Europa, é lamentável: a falta de vocações impele o bispo a acolhê-las dum lado e doutro, sem verificar que vida tinham; acolhem pessoas «expulsas» doutros Seminários, «expulsas» da vida religiosa, que foram expulsas por imoralidade ou por outras deficiências. Por favor, estai atentos. Não façais entrar o lobo no rebanho. A messe é grande, e o Senhor, cujo único anelo é mandar-lhe autênticos trabalhadores, não conhece limites na maneira de chamar, de incitar ao dom generoso da própria vida. Depois da escolha, a formação dos candidatos ao sacerdócio e à vida consagrada destina-se precisamente a assegurar um amadurecimento e uma purificação das intenções. A este respeito e no espírito da Exortação apostólica Gaudete et exsultate, gostaria de assinalar que a vocação fundamental sem a qual as outras não têm razão de ser é a chamada à santidade e que esta «santidade é o rosto mais belo da Igreja» (n. 9). Aprecio os vossos esforços para garantir a formação de autênticos e santos trabalhadores para a messe abundante no campo do Senhor.
Além disso, gostaria de assinalar um comportamento de que não gosto, porque não vem de Deus: a rigidez. Hoje está na moda – aqui não sei; mas noutras partes, sim – está na moda, encontrar pessoas rígidas. Padres jovens, rígidos, que querem salvar com a rigidez. Adotam uma atitude de rigidez e, às vezes – desculpai – uma rigidez de museu. Têm medo de tudo; são rígidos. Tende cuidado! Sabei que há, sob toda a rigidez, graves problemas.
Este esforço deve estender-se também ao vasto mundo do laicado; também os fiéis-leigos são enviados para a messe, são chamados a participar na pesca, a arriscar redes e tempo no «seu apostolado multiforme tanto na Igreja como no mundo» (Conc. Ecum. Vat. II, Decl. Apostolicam actuositatem, 9). Com toda a sua extensão, os seus problemas e as suas mudanças, o mundo constitui o campo específico de apostolado, onde os fiéis-leigos são chamados a trabalhar, generosa e responsavelmente, levando-lhe o fermento do Evangelho. Por isso mesmo, gostaria de congratular-me com todas as iniciativas que tomais como pastores para formar os leigos – obrigado por isso – e não os deixar sozinhos na missão de serem sal da terra e luz do mundo, tendo em vista contribuir para a transformação da sociedade e da Igreja em Madagáscar. E uma recomendação: Por favor, não clericalizeis os leigos. Os leigos são leigos. Na minha diocese anterior, ouvi propostas como esta: «Senhor bispo, na paróquia tenho um leigo maravilhoso: trabalha, ele é que organiza tudo... Podemos fazê-lo diácono?» Deixa-o assim, não lhe arruínes a vida, deixa-o leigo. E, por falar em diáconos, muitas vezes estes sofrem a tentação do clericalismo, sentem-se presbíteros ou bispos falhados. Mas não é verdade! O diácono é o guardião do serviço na Igreja. Por favor, não mantenhais os diáconos no altar. Façam os trabalhos fora, no serviço. Se tiverem que ir em missão para batizar, que batizem. Está bem! Mas, no serviço, não se comportem como sacerdotes falhados.
Amados irmãos, toda esta responsabilidade no campo de Deus deve desafiar-nos a manter o coração e o espírito abertos, esconjurar o medo que nos fecha e vencer a tentação de nos isolarmos: que o diálogo fraterno entre vós (é importante!), bem como a partilha dos dons e a colaboração entre as Igrejas particulares do Oceano Índico constituam um caminho de esperança. Diálogo e colaboração. A semelhança de desafios pastorais, tais como a proteção do meio ambiente num espírito cristão ou o problema da imigração, requer, para uma abordagem eficaz, reflexões comuns e uma ampla sinergia de ações.
Por fim gostaria, através de vós, de saudar de maneira especial os sacerdotes, os religiosos e religiosas que estão doentes ou limitados pela idade. Deixo esta pergunta para cada um de vós: vou visitá-los? Peço-vos para lhes manifestardes o meu afeto e a minha proximidade na oração e também para cuidardes deles com ternura sustentando-os na bela missão de intercessão.
Duas mulheres protegem esta Catedral: na capela aqui ao lado, repousam os restos da Beata Vitória Rasoamanarivo, que soube fazer o bem, defender e espalhar a fé em tempos difíceis; e temos a imagem da Virgem Maria que parece, com seus braços abertos para o vale e as colinas, abraçar tudo. Pedimos, a ambas, que dilatem sempre o nosso coração, que nos ensinem aquela compaixão oriunda do seio materno que a mulher e Deus sentem face aos esquecidos da terra e que nos ajudem a semear a paz e a esperança.
E, em sinal do meu cordial e fiel apoio, dou-vos a minha bênção: como irmão vos abençoo e estendo esta bênção às vossas dioceses.
Por favor, não vos esqueçais de rezar por mim e de fazer rezar por mim!
[01361-PO.02] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua polacca
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[01361-PL.01] [Testo originale: Italiano]
Visita alla Tomba della Beata Victoire Rasoamanarivo
Al termine dell’Incontro con i Vescovi del Madagascar, alle ore 17.10 locali (16.10 ora di Roma) il Papa si è recato nella Cappella di fronte alla Cattedrale di Andohalo per visitare la tomba della Beata Victoire Rasoamanarivo, dove si è soffermato in preghiera silenziosa. Quindi si è trasferito al Campo diocesano di Soamandrakizay dove ha avuto luogo la Veglia con i Giovani.
[01389-IT.01]
[B0671-XX.02]