Sala Stampa

www.vatican.va

Sala Stampa Back Top Print Pdf
Sala Stampa


Santa Messa della Notte nella Solennità del Natale del Signore, 24.12.2017


Omelia del Santo Padre

Testo in lingua francese

Testo in lingua inglese

Testo in lingua tedesca

Testo in lingua spagnola

Testo in lingua portoghese

Testo in lingua polacca

Alle ore 21.30 di oggi, il Santo Padre Francesco ha presieduto, nella Basilica Vaticana, la Santa Messa della Notte nella Solennità del Natale del Signore 2017.

Nel corso della Celebrazione Eucaristica, dopo la proclamazione del Santo Vangelo, il Papa ha tenuto l’omelia che riportiamo di seguito:

Omelia del Santo Padre

Maria «diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (Lc 2,7). Con questa espressione semplice ma chiara, Luca ci conduce al cuore di quella notte santa: Maria diede alla luce, Maria ci ha dato la Luce. Un racconto semplice per immergerci nell’avvenimento che cambia per sempre la nostra storia. Tutto, in quella notte, diventava fonte di speranza.

Andiamo indietro di alcuni versetti. Per decreto dell’imperatore, Maria e Giuseppe si videro obbligati a partire. Dovettero lasciare la loro gente, la loro casa, la loro terra e mettersi in cammino per essere censiti. Un tragitto per niente comodo né facile per una giovane coppia che stava per avere un bambino: si trovavano costretti a lasciare la loro terra. Nel cuore erano pieni di speranza e di futuro a causa del bambino che stava per venire; i loro passi invece erano carichi delle incertezze e dei pericoli propri di chi deve lasciare la sua casa.

E poi si trovarono ad affrontare la cosa forse più difficile: arrivare a Betlemme e sperimentare che era una terra che non li aspettava, una terra dove per loro non c’era posto.

E proprio lì, in quella realtà che era una sfida, Maria ci ha regalato l’Emmanuele. Il Figlio di Dio dovette nascere in una stalla perché i suoi non avevano spazio per Lui. «Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1,11). E lì… in mezzo all’oscurità di una città che non ha spazio né posto per il forestiero che viene da lontano, in mezzo all’oscurità di una città in pieno movimento e che in questo caso sembrerebbe volersi costruire voltando le spalle agli altri, proprio lì si accende la scintilla rivoluzionaria della tenerezza di Dio. A Betlemme si è creata una piccola apertura per quelli che hanno perso la terra, la patria, i sogni; persino per quelli che hanno ceduto all’asfissia prodotta da una vita rinchiusa.

Nei passi di Giuseppe e Maria si nascondono tanti passi. Vediamo le orme di intere famiglie che oggi si vedono obbligate a partire. Vediamo le orme di milioni di persone che non scelgono di andarsene ma che sono obbligate a separarsi dai loro cari, sono espulsi dalla loro terra. In molti casi questa partenza è carica di speranza, carica di futuro; in molti altri, questa partenza ha un nome solo: sopravvivenza. Sopravvivere agli Erode di turno che per imporre il loro potere e accrescere le loro ricchezze non hanno alcun problema a versare sangue innocente.

Maria e Giuseppe, per i quali non c’era posto, sono i primi ad abbracciare Colui che viene a dare a tutti noi il documento di cittadinanza. Colui che nella sua povertà e piccolezza denuncia e manifesta che il vero potere e l’autentica libertà sono quelli che onorano e soccorrono la fragilità del più debole.

In quella notte, Colui che non aveva un posto per nascere viene annunciato a quelli che non avevano posto alle tavole e nelle vie della città. I pastori sono i primi destinatari di questa Buona Notizia. Per il loro lavoro, erano uomini e donne che dovevano vivere ai margini della società. Le loro condizioni di vita, i luoghi in cui erano obbligati a stare, impedivano loro di osservare tutte le prescrizioni rituali di purificazione religiosa e, perciò, erano considerati impuri. La loro pelle, i loro vestiti, l’odore, il modo di parlare, l’origine li tradiva. Tutto in loro generava diffidenza. Uomini e donne da cui bisognava stare lontani, avere timore; li si considerava pagani tra i credenti, peccatori tra i giusti, stranieri tra i cittadini. A loro – pagani, peccatori e stranieri – l’angelo dice: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore» (Lc 2,10-11).

Ecco la gioia che in questa notte siamo invitati a condividere, a celebrare e ad annunciare. La gioia con cui Dio, nella sua infinita misericordia, ha abbracciato noi pagani, peccatori e stranieri, e ci spinge a fare lo stesso.

La fede di questa notte ci porta a riconoscere Dio presente in tutte le situazioni in cui lo crediamo assente. Egli sta nel visitatore indiscreto, tante volte irriconoscibile, che cammina per le nostre città, nei nostri quartieri, viaggiando sui nostri autobus, bussando alle nostre porte.

E questa stessa fede ci spinge a dare spazio a una nuova immaginazione sociale, a non avere paura di sperimentare nuove forme di relazione in cui nessuno debba sentire che in questa terra non ha un posto. Natale è tempo per trasformare la forza della paura in forza della carità, in forza per una nuova immaginazione della carità. La carità che non si abitua all’ingiustizia come fosse naturale, ma ha il coraggio, in mezzo a tensioni e conflitti, di farsi “casa del pane”, terra di ospitalità. Ce lo ricordava San Giovanni Paolo II: «Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo» (Omelia nella Messa d’inizio del Pontificato, 22 ottobre 1978).

Nel Bambino di Betlemme, Dio ci viene incontro per renderci protagonisti della vita che ci circonda. Si offre perché lo prendiamo tra le braccia, perché lo solleviamo e lo abbracciamo. Perché in Lui non abbiamo paura di prendere tra le braccia, sollevare e abbracciare l’assetato, il forestiero, l’ignudo, il malato, il carcerato (cfr Mt 25,35-36). «Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo». In questo Bambino, Dio ci invita a farci carico della speranza. Ci invita a farci sentinelle per molti che hanno ceduto sotto il peso della desolazione che nasce dal trovare tante porte chiuse. In questo Bambino, Dio ci rende protagonisti della sua ospitalità.

Commossi dalla gioia del dono, piccolo Bambino di Betlemme, ti chiediamo che il tuo pianto ci svegli dalla nostra indifferenza, apra i nostri occhi davanti a chi soffre. La tua tenerezza risvegli la nostra sensibilità e ci faccia sentire invitati a riconoscerti in tutti coloro che arrivano nelle nostre città, nelle nostre storie, nelle nostre vite. La tua tenerezza rivoluzionaria ci persuada a sentirci invitati a farci carico della speranza e della tenerezza della nostra gente.

[01969-IT.01] [Testo originale: Italiano]

Testo in lingua francese

Marie «mit au monde son fils premier-né; elle l’emmaillota et le coucha dans une mangeoire, car il n’y avait pas de place pour eux dans la salle commune» (Lc 2, 7). Par cette expression simple mais claire, Luc nous conduit au cœur de cette nuit sainte: Marie mit au monde, Marie nous donna la Lumière. Un récit simple pour nous immerger dans l’événement qui change pour toujours notre histoire. Tout, dans cette nuit, devenait source d’espérance.

Retournons en arrière de quelques versets. Par décret de l’empereur, Marie et Joseph se sont vus obligés de partir. Ils ont dû quitter leurs proches, leur maison, leur terre et se mettre en route pour être recensés. Un trajet pas du tout commode ni facile pour un jeune couple qui était sur le point d’avoir un enfant: ils étaient contraints de quitter leur terre. Dans leur cœur, ils étaient pleins d’espérance et d’avenir à cause de l’enfant qui était sur le point de naître; leurs pas, au contraire, étaient chargés d’incertitude et des dangers propres à qui doit quitter sa maison.

Et ensuite, ils se trouvaient à affronter la chose peut-être la plus difficile: arriver à Bethléem et faire l’expérience que c’était une terre qui ne les attendait pas, une terre où il n’y avait pas de place pour eux.

Et justement là, dans cette situation qui était un défi, Marie nous a offert l’Emmanuel. Le Fils de Dieu a dû naître dans une étable parce que les siens n’avaient pas de place pour lui. «Il est venu chez lui, et les siens ne l’ont pas reçu» (Jn 1, 11). Et là… dans l’obscurité d’une ville qui n’a ni espace ni place pour l’étranger qui vient de loin, dans l’obscurité d’une ville en plein mouvement et qui, dans ce cas, semblerait vouloir se construire en tournant le dos aux autres, précisément là, s’allume l’étincelle révolutionnaire de la tendresse de Dieu. À Bethléem, s’est ouverte une petite brèche pour ceux qui ont perdu leur terre, leur patrie, leurs rêves; même pour ceux qui ont cédé à l’asphyxie causée par une vie renfermée.

Dans les pas de Joseph et de Marie, se cachent de nombreux pas. Nous voyons les traces de familles entières qui, aujourd’hui, se voient obligées de partir. Nous voyons les traces de millions de personnes qui ne choisissent pas de s’en aller mais qui sont obligées de se séparer de leurs proches, sont expulsées de leur terre. Dans beaucoup de cas, ce départ est chargé d’espérance, chargé d’avenir; dans beaucoup d’autres, ce départ a un seul nom: la survie. Survivre aux Hérode de l’heure qui, pour imposer leur pouvoir et accroître leurs richesses, n’ont aucun problème à verser du sang innocent.

Marie et Joseph, pour qui il n’y avait pas de place, sont les premiers à embrasser Celui qui vient nous donner à tous le document de citoyenneté. Celui qui, dans sa pauvreté et dans sa petitesse, dénonce et manifeste que le vrai pouvoir et la liberté authentique sont ceux qui honorent et secourent la fragilité du plus faible.

En cette nuit, Celui qui n’avait pas de place pour naître est annoncé à ceux qui n’avaient pas de place aux tables et dans les rues de la ville. Les bergers sont les premiers destinataires de cette Bonne Nouvelle. Par leur travail, c’étaient des hommes et des femmes qui devaient vivre en marge de la société. Leurs conditions de vie, les endroits où ils étaient contraints à se trouver, les empêchaient d’observer toutes les prescriptions rituelles de purification religieuse et, par conséquent, ils étaient considérés comme impurs. Leurs peaux, leurs vêtements, leur odeur, leur façon de parler, leur origine les trahissaient. Tout en eux suscitait de la méfiance. C’étaient des hommes et femmes dont il fallait se tenir éloigné, avoir peur; on les considérait comme des païens parmi les croyants, des pécheurs parmi les justes, des étrangers parmi les citoyens. À eux – païens, pécheurs et étrangers –, l’ange dit: «Ne craignez pas, car je vous annonce une bonne nouvelle, qui sera une grande joie pour tout le peuple: aujourd’hui, dans la ville de David, vous est né un Sauveur qui est le Christ, le Seigneur» (Lc 2, 10-11).

Voilà la joie qu’en cette nuit nous sommes invités à partager, à célébrer et à annoncer. La joie par laquelle Dieu, dans son infinie miséricorde, nous a embrassés, nous païens, pécheurs et étrangers, et nous incite à faire de même.

La foi de cette nuit nous porte à reconnaître Dieu présent dans toutes les situations où nous le croyons absent. Il se trouve dans l’hôte indiscret, bien des fois méconnaissable, qui marche par nos villes, dans nos quartiers, voyageant dans nos autobus, frappant à nos portes.

Et cette même foi nous incite à faire de la place à une nouvelle créativité sociale, à ne pas avoir peur de faire l’expérience de nouvelles formes de relation dans lesquelles personne ne doit sentir qu’il n’a pas de place sur cette terre. Noël, c’est le temps pour transformer la force de la peur en force de la charité, en force pour une nouvelle créativité de la charité. La charité qui ne s’habitue pas à l’injustice comme si celle-ci était naturelle, mais qui a le courage, au milieu des tensions et des conflits, de se faire ‘‘maison du pain’’, terre d’hospitalité. Saint Jean-Paul II nous le rappelait. «N’ayez pas peur! Ouvrez, ouvrez toutes grandes les portes au Christ: «(Homélie de la Messe d’inauguration du Pontificat, 22 octobre 1978).

Dans l’Enfant de Bethléem, Dieu vient à notre rencontre pour faire de nous des protagonistes de la vie qui nous entoure. Il s’offre afin que nous le prenions dans les bras, afin que nous le soulevions et l’embrassions. Afin qu’en Lui, nous n’ayons pas peur de prendre dans les bras, de soulever et d’embrasser celui qui a soif, l’étranger, celui qui est nu, celui qui est malade, le détenu (cf. Mt 25, 35-36). «N’ayez pas peur! Ouvrez, ouvrez toutes grandes les portes au Christ». En cet Enfant, Dieu nous invite à prendre en charge l’espérance. Il nous invite à être des sentinelles pour beaucoup de personnes qui ont cédé sous le poids du désespoir qui naît du fait de trouver fermées de nombreuses portes. En cet Enfant, Dieu fait de nous des protagonistes de son hospitalité.

Émus par la joie du don, petit Enfant de Bethléem, nous te demandons que tes pleurs nous réveillent de notre indifférence, ouvrent nos yeux devant celui qui souffre. Que ta tendresse réveille notre sensibilité et fasse que nous nous sentions invités à te reconnaître dans tous ceux qui arrivent dans nos villes, dans nos histoires, dans nos vies. Que ta tendresse révolutionnaire nous amène à nous sentir invités à prendre en charge l’espérance et la tendresse de nos gens.

[01969-FR.01] [Texte original: Français]

Testo in lingua inglese

Mary “gave birth to her firstborn son and wrapped him in bands of cloth, and laid him in a manger, because there was no place for them in the inn” (Lk 2:7). In these plain and clear words, Luke brings us to the heart of that holy night: Mary gave birth; she gave us Jesus, the Light of the world. A simple story that plunges us into the event that changes our history forever. Everything, that night, became a source of hope.

Let us go back a few verses. By decree of the Emperor, Mary and Joseph found themselves forced to set out. They had to leave their people, their home and their land, and to undertake a journey in order to be registered in the census. This was no comfortable or easy journey for a young couple about to have a child: they had to leave their land. At heart, they were full of hope and expectation because of the child about to be born; yet their steps were weighed down by the uncertainties and dangers that attend those who have to leave their home behind.

Then they found themselves having to face perhaps the most difficult thing of all. They arrived in Bethlehem and experienced that it was a land that was not expecting them. A land where there was no place for them.

And there, where everything was a challenge, Mary gave us Emmanuel. The Son of God had to be born in a stable because his own had no room for him. “He came to what was his own and his own people did not accept him” (Jn 1:11). And there, amid the gloom of a city that had no room or place for the stranger from afar, amid the darkness of a bustling city which in this case seemed to want to build itself up by turning its back on others… it was precisely there that the revolutionary spark of God’s love was kindled. In Bethlehem, a small chink opens up for those who have lost their land, their country, their dreams; even for those overcome by the asphyxia produced by a life of isolation.

So many other footsteps are hidden in the footsteps of Joseph and Mary. We see the tracks of entire families forced to set out in our own day. We see the tracks of millions of persons who do not choose to go away but, driven from their land, leave behind their dear ones. In many cases this departure is filled with hope, hope for the future; yet for many others this departure can only have one name: survival. Surviving the Herods of today, who, to impose their power and increase their wealth, see no problem in shedding innocent blood.

Mary and Joseph, for whom there was no room, are the first to embrace the One who comes to give all of us our document of citizenship. The One who in his poverty and humility proclaims and shows that true power and authentic freedom are shown in honouring and assisting the weak and the frail.

That night, the One who had no place to be born is proclaimed to those who had no place at the table or in the streets of the city. The shepherds are the first to hear this Good News. By reason of their work, they were men and women forced to live on the edges of society. Their state of life, and the places they had to stay, prevented them from observing all the ritual prescriptions of religious purification; as a result, they were considered unclean. Their skin, their clothing, their smell, their way of speaking, their origin, all betrayed them. Everything about them generated mistrust. They were men and women to be kept at a distance, to be feared. They were considered pagans among the believers, sinners among the just, foreigners among the citizens. Yet to them – pagans, sinners and foreigners – the angel says: “Do not be afraid; for see – I am bringing you good news of great joy for the people: to you is born this day in the city of David a Saviour, who is the Messiah, the Lord” (Lk 2:10-11).

This is the joy that we tonight are called to share, to celebrate and to proclaim. The joy with which God, in his infinite mercy, has embraced us pagans, sinners and foreigners, and demands that we do the same.

The faith we proclaim tonight makes us see God present in all those situations where we think he is absent. He is present in the unwelcomed visitor, often unrecognizable, who walks through our cities and our neighbourhoods, who travels on our buses and knocks on our doors.

This same faith impels us to make space for a new social imagination, and not to be afraid of experiencing new forms of relationship, in which none have to feel that there is no room for them on this earth. Christmas is a time for turning the power of fear into the power of charity, into power for a new imagination of charity. The charity that does not grow accustomed to injustice, as if it were something natural, but that has the courage, amid tensions and conflicts, to make itself a “house of bread”, a land of hospitality. That is what Saint John Paul II told us: “Do not be afraid! Open wide the doors for Christ” (Homily for the Inauguration of the Pontificate, 22 October 1978).

In the Child of Bethlehem, God comes to meet us and make us active sharers in the life around us. He offers himself to us, so that we can take him into our arms, lift him and embrace him. So that in him we will not be afraid to take into our arms, raise up and embrace the thirsty, the stranger, the naked, the sick, the imprisoned (cf. Mt 25:35-36). “Do not be afraid! Open wide the doors for Christ”. In this Child, God invites us to be messengers of hope. He invites us to become sentinels for all those bowed down by the despair born of encountering so many closed doors. In this child, God makes us agents of his hospitality.

Moved by the joy of the gift, little Child of Bethlehem, we ask that your crying may shake us from our indifference and open our eyes to those who are suffering. May your tenderness awaken our sensitivity and recognize our call to see you in all those who arrive in our cities, in our histories, in our lives. May your revolutionary tenderness persuade us to feel our call to be agents of the hope and tenderness of our people.

[01969-EN.01] [Original text: English]

Testo in lingua tedesca

Maria »gebar ihren Sohn, den Erstgeborenen. Sie wickelte ihn in Windeln und legte ihn in eine Krippe, weil in der Herberge kein Platz für sie war« (Lk 2,7). Mit diesem einfachen, aber klaren Satz führt uns Lukas ins Zentrum der Heiligen Nacht: Sie gebar ihren Sohn. Durch Maria erblickte Jesus das Licht der Welt, ja, Maria schenkt uns das Licht der Welt. Eine schlichte Erzählung, die uns eintauchen lässt in jenes Ereignis, das für immer unsere Geschichte verändert. Alles in dieser Nacht wurde zum lichten Hoffnungsquell.

Gehen wir einige Verse zurück. Auf das kaiserliche Dekret hin sahen Maria und Josef sich genötigt aufzubrechen. Sie mussten ihr Volk, ihr Haus und ihre Heimat verlassen und sich auf den Weg machen zur Volkszählung. Weder ein bequemes noch ein leichtes Unterfangen für ein junges Paar, so kurz vor der Geburt eines Kindes: Sie waren gezwungen, ihre Heimat zu verlassen. Im Herzen waren sie wegen des Kindes, das bald zur Welt kommen sollte, voller Hoffnung auf die Zukunft. Ihre Schritte jedoch waren voller Unsicherheiten und Gefahren, die dem begegnen, der sein Zuhause verlassen muss.

Und dann mussten sie die wohl größte Schwierigkeit bewältigen: bei der Ankunft in Betlehem die Erfahrung machen, dass sie dort niemand erwartete, dass dort kein Platz für sie war.

Und gerade dort, inmitten dieser Herausforderung, hat Maria uns den Immanuel geschenkt. Der Sohn Gottes musste in einem Stall zur Welt kommen, weil die Seinen keinen Platz für ihn hatten. »Er kam in sein Eigentum, aber die Seinen nahmen ihn nicht auf« (Joh 1,11). Und dort … inmitten der Dunkelheit einer Stadt, die für den weit gereisten Fremden weder Raum noch Platz hat, inmitten der Dunkelheit einer sehr bewegten Stadt, die, wie es in diesem Fall scheint, dadurch aufgebaut wird, dass jeder nur auf sich bedacht ist, gerade dort entzündet sich der revolutionäre Funke der Zärtlichkeit Gottes. In Betlehem tat sich da ein kleiner Lichtblick auf für jene, die ihr Land, ihre Heimat und ihre Träume verloren haben; sogar für jene, die der Erstickung eines in sich verschlossenen Lebens verfallen waren.

Hinter den Schritten von Maria und Josef verbergen sich viele Schritte. Wir sehen die Spuren ganzer Familien, die auch heute gezwungen sind, von zu Hause wegzugehen. Wir sehen die Spuren von Millionen Menschen, die nicht freiwillig gehen, sondern gezwungen sind, sich von ihren Lieben zu trennen, weil sie aus ihrem Land vertrieben werden. In vielen Fällen ist es ein Aufbruch voller Hoffnung auf eine bessere Zukunft; in vielen anderen Fällen hat dieser Aufbruch nur einen Namen: Überleben. Die aktuellen Nachfolger des Herodes zu überleben, die zur Durchsetzung ihrer Macht und zur Mehrung ihrer Reichtümer nicht davor zurückschrecken, unschuldiges Blut zu vergießen.

Maria und Josef, für die kein Platz war, sind die Ersten, die den umarmen durften, der kommt, um uns allen ein Bürgerrecht zu verleihen. Ihn, der in seiner Armut und Kleinheit aufzeigt und deutlich macht, dass die wahre Macht und wirkliche Freiheit darin bestehen, der Zerbrechlichkeit der Schwächsten respektvoll und hilfsbereit zu begegnen.

In jener Nacht wird er, dem man für seine Geburt keinen Platz zugestanden hatte, denen verkündet, die keinen Platz an den Tischen und in den Straßen der Stadt hatten. Die Hirten sind die ersten Adressaten dieser guten Nachricht. Aufgrund ihrer Arbeit waren dies Männer und Frauen, die am Rande der Gesellschaft leben mussten. Ihre Lebensumstände, die Orte, wo sie sein mussten, machten es ihnen unmöglich, alle vorgeschriebenen religiösen Reinigungsriten einzuhalten, und so galten sie als unrein. Ihre Haut, ihre Kleidung, der Geruch, ihre Sprechweise, ihre Herkunft verriet sie. Alles an ihnen erweckte Misstrauen. Sie waren Männer und Frauen, von denen man sich fernhalten und die man fürchten musste; sie galten als Heiden unter den Gläubigen, als Sünder unter den Gerechten, als Fremde unter den Bürgern. Und ihnen – den Heiden, Sündern und Fremden – sagt der Engel: »Fürchtet euch nicht, denn siehe, ich verkünde euch eine große Freude, die dem ganzen Volk zuteilwerden soll: Heute ist euch in der Stadt Davids der Retter geboren; er ist der Christus, der Herr« (Lk 2,10-11).

Dies also ist die Freude, die wir in dieser Nacht eingeladen sind zu teilen, zu feiern und zu verkünden. Die Freude, mit der Gott uns Heiden, Sünder und Fremde in seiner unendlichen Barmherzigkeit umarmt hat und uns dazu treibt, es ihm gleich zu tun.

Der Glaube dieser Nacht lässt uns Gott als den erkennen, der überall dort anwesend ist, wo wir glauben, er sei abwesend. Er ist ein unerkannter, nicht erkennbarer Gast, der in unseren Städten, in unseren Vierteln, in unseren Bussen unterwegs ist und an unsere Türen klopft.

Und eben dieser Glaube drängt uns, einer neuen Auffassung des Sozialen Raum zu geben und keine Angst zu haben, neue Formen der Beziehung auszuprobieren, in denen niemand das Gefühl haben muss, in dieser Welt keinen Platz zu haben. Weihnachten ist die Zeit, die Kraft der Angst in eine Kraft der Liebe zu verwandeln, in eine Kraft für eine neue Auffassung von Nächstenliebe. Nämlich die Nächstenliebe, sich nicht mit der Ungerechtigkeit zufrieden gibt, als wäre sie etwas Normales, sondern den Mut hat, inmitten von Spannungen und Konflikten zu einem „Haus des Brotes“, zu einem Raum der Gastfreundschaft zu werden. Daran erinnerte uns Johannes Paul II. »Habt keine Angst! Öffnet, ja reißt die Tore weit auf für Christus« (Homilie in der Messe am Beginn des Pontifikats, 22. Oktober 1978).

Im Kind von Betlehem kommt Gott uns entgegen, um uns zu Protagonisten des uns umgebenden Lebens zu machen. Er schenkt sich uns, damit wir ihn in die Arme nehmen, damit wir ihn hochheben und umarmen – damit wir in ihm uns nicht scheuen, den Dürstenden, den Fremden, den Nackten, den Kranken und den Gefangenen in die Arme zu nehmen, sie aufzurichten und zu umarmen (vgl. Mt 25,35-36). »Habt keine Angst! Öffnet, ja reißt die Tore weit auf für Christus«. In diesem Kind lädt Gott uns ein, der Hoffnung zu dienen. Er lädt uns dazu ein, auf die vielen Menschen achtzugeben, die unter der Last der Trostlosigkeit so vieler verschlossener Türen aufgegeben haben. In diesem Kind macht Gott uns zu Protagonisten seiner Gastfreundschaft.

Ergriffen von Freude über dein Geschenk, bitten wir dich, kleines Kind von Betlehem, dass dein Weinen uns aufwecke aus unserer Gleichgültigkeit und unsere Augen öffne für den, der leidet. Deine Zärtlichkeit wecke unsere Sensibilität und schenke uns, dass wir uns angesprochen fühlen, dich in all jenen zu erkennen, die in unseren Städten, in unserem Alltag, in unseren Leben ankommen. Deine revolutionäre Zärtlichkeit überzeuge uns, dem Ruf zu folgen und uns für die Hoffnung und Zärtlichkeit unserer Leute einzusetzen.

[01969-DE.01] [Originalsprache: Deutsch]

Testo in lingua spagnola

«María dio a luz a su Hijo primogénito, lo envolvió en pañales y lo acostó en un pesebre porque no había lugar para ellos en el albergue» (Lc 2,7). De esta manera, simple pero clara, Lucas nos lleva al corazón de esta noche santa: María dio a luz, María nos dio la Luz. Un relato sencillo para sumergirnos en el acontecimiento que cambia para siempre nuestra historia. Todo, en esa noche, se volvía fuente de esperanza.

Vayamos unos versículos atrás. Por decreto del emperador, María y José se vieron obligados a marchar. Tuvieron que dejar su gente, su casa, su tierra y ponerse en camino para ser censados. Una travesía nada cómoda ni fácil para una joven pareja en situación de dar a luz: estaban obligados a dejar su tierra. En su corazón iban llenos de esperanza y de futuro por el niño que vendría; sus pasos en cambio iban cargados de las incertidumbres y peligros propios de aquellos que tienen que dejar su hogar.

Y luego se tuvieron que enfrentar quizás a lo más difícil: llegar a Belén y experimentar que era una tierra que no los esperaba, una tierra en la que para ellos no había lugar.

Y precisamente allí, en esa desafiante realidad, María nos regaló al Enmanuel. El Hijo de Dios tuvo que nacer en un establo porque los suyos no tenían espacio para él. «Vino a los suyos y los suyos no lo recibieron» (Jn 1,11). Y allí…, en medio de la oscuridad de una ciudad, que no tiene ni espacio ni lugar para el forastero que viene de lejos, en medio de la oscuridad de una ciudad en pleno movimiento y que en este caso pareciera que quiere construirse de espaldas a los otros, precisamente allí se enciende la chispa revolucionaria de la ternura de Dios. En Belén se generó una pequeña abertura para aquellos que han perdido su tierra, su patria, sus sueños; incluso para aquellos que han sucumbido a la asfixia que produce una vida encerrada.

En los pasos de José y María se esconden tantos pasos. Vemos las huellas de familias enteras que hoy se ven obligadas a marchar. Vemos las huellas de millones de personas que no eligen irse sino que son obligados a separarse de los suyos, que son expulsados de su tierra. En muchos de los casos esa marcha está cargada de esperanza, cargada de futuro; en muchos otros, esa marcha tiene solo un nombre: sobrevivencia. Sobrevivir a los Herodes de turno que para imponer su poder y acrecentar sus riquezas no tienen ningún problema en cobrar sangre inocente.

María y José, los que no tenían lugar, son los primeros en abrazar a aquel que viene a darnos carta de ciudadanía a todos. Aquel que en su pobreza y pequeñez denuncia y manifiesta que el verdadero poder y la auténtica libertad es la que cubre y socorre la fragilidad del más débil.

Esa noche, el que no tenía lugar para nacer es anunciado a aquellos que no tenían lugar en las mesas ni en las calles de la ciudad. Los pastores son los primeros destinatarios de esta buena noticia. Por su oficio, eran hombres y mujeres que tenían que vivir al margen de la sociedad. Las condiciones de vida que llevaban, los lugares en los cuales eran obligados a estar, les impedían practicar todas las prescripciones rituales de purificación religiosa y, por tanto, eran considerados impuros. Su piel, sus vestimentas, su olor, su manera de hablar, su origen los delataba. Todo en ellos generaba desconfianza. Hombres y mujeres de los cuales había que alejarse, a los cuales temer; se los consideraba paganos entre los creyentes, pecadores entre los justos, extranjeros entre los ciudadanos. A ellos (paganos, pecadores y extranjeros) el ángel les dice: «No teman, porque les traigo una buena noticia, una gran alegría para todo el pueblo: Hoy, en la ciudad de David, les ha nacido un Salvador, que es el Mesías, el Señor» (Lc 2,10-11).

Esa es la alegría que esta noche estamos invitados a compartir, a celebrar y a anunciar. La alegría con la que a nosotros, paganos, pecadores y extranjeros Dios nos abrazó en su infinita misericordia y nos impulsa a hacer lo mismo.

La fe de esa noche nos mueve a reconocer a Dios presente en todas las situaciones en las que lo creíamos ausente. Él está en el visitante indiscreto, tantas veces irreconocible, que camina por nuestras ciudades, en nuestros barrios, viajando en nuestros metros, golpeando nuestras puertas.

Y esa misma fe nos impulsa a dar espacio a una nueva imaginación social, a no tener miedo a ensayar nuevas formas de relación donde nadie tenga que sentir que en esta tierra no tiene lugar. Navidad es tiempo para transformar la fuerza del miedo en fuerza de la caridad, en fuerza para una nueva imaginación de la caridad. La caridad que no se conforma ni naturaliza la injusticia sino que se anima, en medio de tensiones y conflictos, a ser «casa del pan», tierra de hospitalidad. Nos lo recordaba san Juan Pablo II: «¡No temáis! ¡Abrid, más todavía, abrid de par en par las puertas a Cristo!» (Homilía en la Misa de inicio de Pontificado, 22 octubre 1978)

En el niño de Belén, Dios sale a nuestro encuentro para hacernos protagonistas de la vida que nos rodea. Se ofrece para que lo tomemos en brazos, para que lo alcemos y abracemos. Para que en él no tengamos miedo de tomar en brazos, alzar y abrazar al sediento, al forastero, al desnudo, al enfermo, al preso (cf. Mt 25,35-36). «¡No temáis! ¡Abrid, más todavía, abrid de par en par las puertas a Cristo!». En este niño, Dios nos invita a hacernos cargo de la esperanza. Nos invita a hacernos centinelas de tantos que han sucumbido bajo el peso de esa desolación que nace al encontrar tantas puertas cerradas. En este Niño, Dios nos hace protagonistas de su hospitalidad.

Conmovidos por la alegría del don, pequeño Niño de Belén, te pedimos que tu llanto despierte nuestra indiferencia, abra nuestros ojos ante el que sufre. Que tu ternura despierte nuestra sensibilidad y nos mueva a sabernos invitados a reconocerte en todos aquellos que llegan a nuestras ciudades, a nuestras historias, a nuestras vidas. Que tu ternura revolucionaria nos convenza a sentirnos invitados, a hacernos cargo de la esperanza y de la ternura de nuestros pueblos.

[01969-ES.01] [Texto original: Español]

Testo in lingua portoghese

«Completaram-se os dias de [Maria] dar à luz e teve o seu filho primogénito, que envolveu em panos e recostou numa manjedoura, por não haver lugar para eles na hospedaria» (Lc 2, 6-7). Com esta afirmação simples mas clara, Lucas leva-nos ao coração daquela noite santa: Maria deu à luz, Maria deu-nos a Luz. Uma narração simples para nos entranhar no acontecimento que muda para sempre a nossa história. Tudo, naquela noite, se tornava fonte de esperança.

Mas recuemos alguns versículos… Por decreto do imperador, Maria e José viram-se obrigados a partir. Tiveram de deixar os parentes, a sua casa, a sua terra e pôr-se a caminho para se recensearem. Uma viagem nada confortável nem fácil para um casal jovem que estava para ter um bebé: viram-se forçados a deixar a sua terra. No coração, transbordavam de esperança e de futuro por causa do filho que chegava; mas sentiam os passos carregados com as incertezas e perigos próprios de quem tem de deixar a sua casa.

E em seguida tocou-lhes enfrentar a coisa talvez mais difícil: chegar a Belém e sentir que era uma terra que não os esperava, uma terra onde não havia lugar para eles.

Mas foi precisamente lá, naquela realidade que se revelava um desafio, que Maria nos presenteou com o Emanuel. O Filho de Deus teve de nascer num curral, porque os seus não tinham espaço para Ele. «Veio para o que era seu, e os seus não O receberam» (Jo 1, 11). E lá, no meio da escuridão duma cidade que não tem espaço nem lugar para o forasteiro que vem de longe, no meio da escuridão duma cidade toda em movimento que parecia querer, neste caso, edificar-se voltando as costas aos outros… precisamente lá acende-se a centelha revolucionária da ternura de Deus. Em Belém, criou-se uma pequena abertura para aqueles que perderam a terra, a pátria, os sonhos; mesmo para aqueles que sucumbiram à asfixia produzida por uma vida fechada.

Nos passos de José e Maria, escondem-se tantos passos. Vemos as pegadas de famílias inteiras que hoje são obrigadas a partir. Vemos as pegadas de milhões de pessoas que não escolhem partir, mas são obrigadas a separar-se dos seus entes queridos, são expulsas da sua terra. Em muitos casos, esta partida está carregada de esperança, carregada de futuro; mas, em tantos outros, a partida tem apenas um nome: sobrevivência. Sobreviver aos Herodes de turno, que, para impor o seu poder e aumentar as suas riquezas, não têm problema algum em derramar sangue inocente.

Maria e José, para quem não havia lugar, são os primeiros a abraçar Aquele que nos vem dar a todos o documento de cidadania; Aquele que, na sua pobreza e pequenez, denuncia e mostra que o verdadeiro poder e a autêntica liberdade são os que honram e socorrem a fragilidade do mais fraco.

Naquela noite, Aquele que não tinha um lugar para nascer é anunciado àqueles que não tinham lugar nas mesas e nas ruas da cidade. Os pastores são os primeiros destinatários desta Boa Notícia. Pelo seu trabalho, eram homens e mulheres que tinham de viver à margem da sociedade. As suas condições de vida, os lugares onde eram obrigados a permanecer, impediam-lhes de observar todas as prescrições rituais de purificação religiosa e, por isso, eram considerados impuros. Traía-os a sua pele, as suas roupas, o seu odor, o modo de falar, a origem. Neles tudo gerava desconfiança. Homens e mulheres de quem era preciso estar ao largo, recear; eram considerados pagãos entre os crentes, pecadores entre os justos e estrangeiros entre os cidadãos. A eles – pagãos, pecadores e estrangeiros – disse o anjo: «Não temais, pois anuncio-vos uma grande alegria, que o será para todo o povo: Hoje, na cidade de David, nasceu-vos um Salvador, que é o Messias Senhor» (Lc 2, 10-11).

Eis a alegria que somos convidados a partilhar, celebrar e anunciar nesta noite. A alegria com que Deus, na sua infinita misericórdia, nos abraçou a nós, pagãos, pecadores e estrangeiros, e nos impele a fazer o mesmo.

A fé desta noite leva-nos a reconhecer Deus presente em todas as situações onde O julgamos ausente. Ele está no visitante indiscreto, muitas vezes irreconhecível, que caminha pelas nossas cidades, pelos nossos bairros, viajando nos nossos transportes públicos, batendo às nossas portas.

E esta mesma fé impele-nos a abrir espaço a uma nova imaginação social, não ter medo de experimentar novas formas de relacionamento onde ninguém deva sentir que não tem um lugar nesta terra. Natal é tempo para transformar a força do medo em força da caridade, em força para uma nova imaginação da caridade. A caridade que não se habitua à injustiça como se fosse algo natural, mas tem a coragem, no meio de tensões e conflitos, de se fazer «casa do pão», terra de hospitalidade. Assim no-lo recordava São João Paulo II: «Não tenhais medo! Abri, antes, escancarai as portas a Cristo» (Homilia na Missa de início do Pontificado, 22/X/1978).

No Menino de Belém, Deus vem ao nosso encontro para nos tornar protagonistas da vida que nos rodeia. Oferece-Se para que O tomemos nos braços, para que O levantemos e abracemos; para que n’Ele não tenhamos medo de tomar nos braços, levantar e abraçar o sedento, o forasteiro, o nu, o doente, o recluso (cf. Mt 25, 35-36). «Não tenhais medo! Abri, antes, escancarai as portas a Cristo». Neste Menino, Deus convida-nos a cuidar da esperança. Convida-nos a fazer-nos sentinelas para muitos que sucumbiram sob o peso da desolação, que deriva do facto de encontrar tantas portas fechadas. Neste Menino, Deus torna-nos protagonistas da sua hospitalidade.

Comovidos pelo jubiloso dom, Menino pequenino de Belém, pedimo-Vos que o vosso choro nos desperte da nossa indiferença, abra os olhos perante quem sofre. A vossa ternura desperte a nossa sensibilidade e nos faça sentir convidados a reconhecer-Vos em todos aqueles que chegam às nossas cidades, às nossas histórias, às nossas vidas. Que a vossa ternura revolucionária nos persuada a sentir-nos convidados a cuidar da esperança e da ternura do nosso povo.

[01969-PO.01] [Texto original: Português]

Testo in lingua polacca

Maryja „porodziła swego pierworodnego Syna, owinęła Go w pieluszki i położyła w żłobie, gdyż nie było dla nich miejsca w gospodzie” (Łk 2, 7). Tymi prostymi, ale jasnymi słowami Łukasz prowadzi nas ku istocie tej świętej nocy: Maryja wydała na świat, dała nam Światło. Jest to prosta opowieść, by zanurzyć nas w wydarzenie, które na zawsze zmieni naszą historię. Wszystko w tę noc stało się źródłem nadziei.

Cofnijmy się kilka wersetów wstecz. Na mocy dekretu imperatora Maryja i Józef musieli wyruszyć w drogę. Musieli opuścić swój lud, swój dom, ziemię, i wyruszyć w drogę, żeby poddać się spisowi ludności. Podróż ta nie była wcale wygodna ani łatwa dla młodej pary, która oczekiwała dziecka: zostali zmuszeni do opuszczenia swojej ziemi. W sercu byli pełni nadziei i przyszłości ze względu na dziecko, które miało się narodzić; natomiast ich kroki były obarczone niepewnością i ryzykiem, jakie są właściwe tym, którzy muszą opuścić swój dom.

A potem znaleźli się w obliczu rzeczy zapewne najtrudniejszej: przybyli do Betlejem i doświadczyli, że jest to miejsce, które na nich nie czekało, ziemia, w której nie było dla nich miejsca.

I właśnie tam, w tej rzeczywistości, która była wyzwaniem, Maria dała nam Emmanuela. Syn Boży musiał urodzić się w stajni, ponieważ jego rodacy nie mieli dla niego miejsca. „Przyszło do swojej własności, a swoi Go nie przyjęli” (J 1,11). I tam... w ciemnościach miasta, w którym nie ma przestrzeni ani miejsca dla obcego, przybywającego z daleka, pośrodku ciemności miasta pełnego ruchu, które w tym przypadku zdaje się chciało róść, odwracając się do innych plecami, właśnie tutaj rozpala się rewolucyjna iskierka czułości Boga. W Betlejem powstał niewielki wyłom dla tych, którzy utracili ziemię, ojczyznę, marzenia; nawet dla tych, którzy ulegli zaduszeniu spowodowanemu życiem zamkniętym.

W krokach Józefa i Maryi kryje się wiele kroków. Widzimy ślady całych rodzin, które teraz czują się zmuszone do wyruszenia w drogę. Widzimy ślady milionów ludzi, którzy nie chcą uciekać, ale są zmuszeni do oddzielenia się od swoich bliskich, są wydaleni ze swej ziemi. W wielu przypadkach to wyruszenie jest pełne nadziei, pełne przyszłości; w wielu innych przypadkach to wyruszenie w drogę ma tylko jedno imię: przetrwanie. Przetrwanie kolejnych Herodów, którzy aby narzucić swoją władzę i powiększyć swoje bogactwo nie mają żadnego problemu z przelewaniem niewinnej krwi.

Maryja i Józef, dla których nie było miejsca, są pierwszymi, którzy biorą w ramiona Tego, który przychodzi, aby dać nam dokument obywatelstwa. Tego, który w swym ubóstwie i małości oskarża i ukazuje, że prawdziwa władza i autentyczna wolność są tymi, które szanują i wspomagają kruchość najsłabszych.

Tamtej nocy Ten, który nie miał miejsca, aby się urodzić, został ogłoszony tym, którzy nie mieli miejsca przy stołach i na ulicach miasta. Pasterze są pierwszymi adresatami tej Dobrej Nowiny. Byli to mężczyźni i kobiety, którzy ze względu na swoją pracę musieli żyć na marginesie społeczeństwa. Ich warunki życia, miejsca, w których zmuszeni byli przebywać, uniemożliwiły im przestrzeganie wszystkich rytualnych zaleceń oczyszczenia religijnego, a zatem uważano ich za nieczystych. Zdradzały ich skóra, ubranie, zapach, sposób mówienia, ich pochodzenie. Wszystko w nich rodziło nieufność. Byli mężczyznami i kobietami, od których należało trzymać się z daleka, bać się; byli uważani za pogan pośród wierzących, grzeszników pośród sprawiedliwych, obcych między obywatelami. Do nich – pogan, grzeszników i cudzoziemców – anioł mówi: „Nie bójcie się! Oto zwiastuję wam radość wielką, która będzie udziałem całego narodu; dziś w mieście Dawida narodził się wam Zbawiciel, którym jest Mesjasz Pan” (Łk 2, 10-11).

Oto radość, do której dzielenia się, celebrowania i ogłaszania zostaliśmy zaproszeni tej nocy. Radość, z jaką Bóg w swoim nieskończonym miłosierdziu przygarnął nas pogan, grzeszników i cudzoziemców i pobudza nas, abyśmy czynili to samo.

Wiara tej nocy prowadzi nas do rozpoznania Boga obecnego we wszystkich sytuacjach, w których uważamy, że Go nie ma. Jest On obecny w niedyskretnym przybyszu, tak często nierozpoznawalnym, chodzącym po naszych miastach, w naszych dzielnicach, podróżującym naszymi autobusami, pukającym do naszych drzwi.

I ta sama wiara pobudza nas, aby dać miejsce dla nowej wyobraźni społecznej, nie bać się doświadczania nowych form relacji, w których nikt nie powinien czuć, że na tej ziemi nie ma dla niego miejsca. Boże Narodzenie to czas, aby przekształcić siłę strachu w siłę miłości, w siłę na rzecz nowej wyobraźni miłości. Miłości, która nie przyzwyczaja się do niesprawiedliwości, jak gdyby była czymś naturalnym, ale ma odwagę, pośród napięć i konfliktów, stać się „domem chleba”, krajem gościnności. Święty Jan Paweł II przypomniał nam: „Nie bójcie się, otwórzcie, otwórzcie na oścież drzwi Chrystusowi” (Homilia podczas Mszy św. na rozpoczęcie pontyfikatu, 22 października 1978 r.).

W Dzieciątku z Betlejem Bóg wychodzi nam na spotkanie, aby nas uczynić czynnymi twórcami otaczającego nas życia. Daje nam siebie, abyśmy Go wzięli w ramiona, abyśmy Go unieśli w górę i uściskali. W Nim bowiem nie obawiamy się brać w ramiona, podnosić i uściskać spragnionego, obcego, nagiego, chorego, więźnia (por. Mt 25, 35-36). „Nie bójcie się, otwórzcie, otwórzcie na oścież drzwi Chrystusowi”. W tym Dziecięciu Bóg zaprasza nas do wzięcia odpowiedzialności za nadzieję. Zaprasza nas, abyśmy stali się strażnikami dla wielu, którzy legli pod ciężarem przygnębienia, rodzącego się w wyniku znalezienia tylu zamkniętych drzwi. W tym Dziecięciu Bóg czyni nas czynnymi uczestnikami swojej gościnności.

Wzruszeni radością daru, malutkie Dzieciątko z Betlejem, prosimy Cię, aby Twój płacz przebudził nas z obojętności, otworzył nasze oczy na tych, którzy cierpią. Niech Twoja czułość rozbudzi naszą wrażliwość i sprawi, byśmy ​​czuli się zaproszeni do rozpoznawania Ciebie w tych wszystkich, którzy przybywają do naszych miast, do naszych dziejów, do naszego życia. Niech Twoja rewolucyjna czułość przekonuje nas, abyśmy czuli się zaproszeni do podjęcia odpowiedzialności za nadzieję i czułość naszych ludzi.

[01969-PL.01] [Testo originale: Polacco]

[B0923-XX.02]