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Videomessaggio del Santo Padre Francesco al TED 2017 “The future you”, 26.04.2017


Videomessaggio del Santo Padre

Traduzione in lingua inglese

Pubblichiamo di seguito la trascrizione del Videomessaggio che il Santo Padre Francesco ha inviato al TED 2017 in corso a Vancouver, in Canada, dal 24 al 28 aprile, sul tema: The future you:

Videomessaggio del Santo Padre

Buona sera – oppure buon giorno, non so che ora è lì da voi!

A qualsiasi ora, sono però contento di partecipare al vostro incontro. Mi è piaciuto molto il titolo – “The future you” – perché, mentre guarda al domani, invita già da oggi al dialogo: guardando al futuro, invita a rivolgersi a un “tu”. “The future you”, il futuro è fatto di te, è fatto cioè di incontri, perché la vita scorre attraverso le relazioni. Parecchi anni di vita mi hanno fatto maturare sempre più la convinzione che l’esistenza di ciascuno di noi è legata a quella degli altri: la vita non è tempo che passa, ma tempo di incontro.

Incontrando o ascoltando ammalati che soffrono, migranti che affrontano tremende difficoltà in cerca di un futuro migliore, carcerati che portano l’inferno nel proprio cuore, persone, specialmente giovani, che non hanno lavoro, mi accompagna spesso una domanda: “Perché loro e non io?” Anch’io sono nato in una famiglia di migranti: mio papà, i miei nonni, come tanti altri italiani, sono partiti per l’Argentina e hanno conosciuto la sorte di chi resta senza nulla. Anch’io avrei potuto essere tra gli “scartati” di oggi. Perciò nel mio cuore rimane sempre quella domanda: “Perché loro e non io?”

Mi piacerebbe innanzitutto che questo incontro ci aiuti a ricordare che abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri, che nessuno di noi è un’isola, un io autonomo e indipendente dagli altri, che possiamo costruire il futuro solo insieme, senza escludere nessuno. Spesso non ci pensiamo, ma in realtà tutto è collegato e abbiamo bisogno di risanare i nostri collegamenti: anche quel giudizio duro che porto nel cuore contro mio fratello o mia sorella, quella ferita non curata, quel male non perdonato, quel rancore che mi farà solo male, è un pezzetto di guerra che porto dentro, è un focolaio nel cuore, da spegnere perché non divampi in un incendio e non lasci cenere.

Molti oggi, per diversi motivi, sembrano non credere che sia possibile un futuro felice. Questi timori vanno presi sul serio. Ma non sono invincibili. Si possono superare, se non ci chiudiamo in noi stessi. Perché la felicità si sperimenta solo come dono di armonia di ogni particolare col tutto. Anche le scienze – lo sapete meglio di me – ci indicano oggi una comprensione della realtà, dove ogni cosa esiste in collegamento, in interazione continua con le altre.

E qui arrivo al mio secondo messaggio. Come sarebbe bello se alla crescita delle innovazioni scientifiche e tecnologiche corrispondesse anche una sempre maggiore equità e inclusione sociale! Come sarebbe bello se, mentre scopriamo nuovi pianeti lontani, riscoprissimo i bisogni del fratello e della sorella che mi orbitano attorno! Come sarebbe bello che la fraternità, questa parola così bella e a volte scomoda, non si riducesse solo a assistenza sociale, ma diventasse atteggiamento di fondo nelle scelte a livello politico, economico, scientifico, nei rapporti tra le persone, tra i popoli e i Paesi. Solo l’educazione alla fraternità, a una solidarietà concreta, può superare la “cultura dello scarto”, che non riguarda solo il cibo e i beni, ma prima di tutto le persone che vengono emarginate da sistemi tecno-economici dove al centro, senza accorgerci, spesso non c’è più l’uomo, ma i prodotti dell’uomo.

La solidarietà è una parola che tanti vogliono togliere dal dizionario. La solidarietà però non è un meccanismo automatico, non si può programmare o comandare: è una risposta libera che nasce dal cuore di ciascuno. Sì, una risposta libera! Se uno comprende che la sua vita, anche in mezzo a tante contraddizioni, è un dono, che l’amore è la sorgente e il senso della vita, come può trattenere il desiderio di fare del bene agli altri?

Per essere attivi nel bene ci vuole memoria, ci vuole coraggio e anche creatività. Mi hanno detto che a TED c’è riunita tanta gente molto creativa. Sì, l’amore chiede una risposta creativa, concreta, ingegnosa. Non bastano i buoni propositi e le formule di rito, che spesso servono solo a tranquillizzare le coscienze. Insieme, aiutiamoci a ricordare che gli altri non sono statistiche o numeri: l’altro ha un volto, il "tu" è sempre un volto concreto, un fratello di cui prendersi cura.

C’è una storia che Gesù ha raccontato per far comprendere la differenza tra chi non si scomoda e chi si prende cura dell’altro. Probabilmente ne avrete sentito parlare: è la parabola del Buon Samaritano. Quando hanno chiesto a Gesù chi è il mio prossimo – cioè: di chi devo prendermi cura? – Gesù ha raccontato questa storia, la storia di un uomo che i ladri avevano assalito, derubato, percosso e abbandonato lungo la strada. Due persone molto rispettabili del tempo, un sacerdote e un levita, lo videro, ma passarono oltre senza fermarsi. Poi arrivò un samaritano, che apparteneva a una etnia disprezzata, e questo samaritano, alla vista di quell’uomo ferito a terra, non passò oltre come gli altri, come se nulla fosse, ma ne ebbe compassione. Si commosse e questa compassione lo portò a compiere gesti molto concreti: versò olio e vino sulle ferite di quell’uomo, lo portò in un albergo e pagò di tasca sua per la sua assistenza.

La storia del Buon Samaritano è la storia dell’umanità di oggi. Sul cammino dei popoli ci sono ferite provocate dal fatto che al centro c’è il denaro, ci sono le cose, non le persone. E c’è l’abitudine spesso di chi si ritiene “per bene”, di non curarsi degli altri, lasciando tanti esseri umani, interi popoli, indietro, a terra per la strada. C’è però anche chi dà vita a un mondo nuovo, prendendosi cura degli altri, anche a proprie spese. Infatti – diceva Madre Teresa di Calcutta – non si può amare se non a proprie spese.

Abbiamo tanto da fare, e dobbiamo farlo insieme. Ma come fare, con il male che respiriamo? Grazie a Dio, nessun sistema può annullare l’apertura al bene, la compassione, la capacità di reagire al male che nascono dal cuore dell’uomo. Ora voi mi direte: “sì, sono belle parole, ma io non sono il Buon Samaritano e nemmeno Madre Teresa di Calcutta”. Invece ciascuno di noi è prezioso; ciascuno di noi è insostituibile agli occhi di Dio. Nella notte dei conflitti che stiamo attraversando, ognuno di noi può essere una candela accesa che ricorda che la luce prevale sulle tenebre, non il contrario.

Per noi cristiani il futuro ha un nome e questo nome è speranza. Avere speranza non significa essere ottimisti ingenui che ignorano il dramma del male dell’umanità. La speranza è la virtù di un cuore che non si chiude nel buio, non si ferma al passato, non vivacchia nel presente, ma sa vedere il domani. La speranza è la porta aperta sull’avvenire. La speranza è un seme di vita umile e nascosto, che però si trasforma col tempo in un grande albero; è come un lievito invisibile, che fa crescere tutta la pasta, che dà sapore a tutta la vita. E può fare tanto, perché basta una sola piccola luce che si alimenta di speranza, e il buio non sarà più completo. Basta un solo uomo perché ci sia speranza, e quell’uomo puoi essere tu. Poi c’è un altro “tu” e un altro “tu”, e allora diventiamo “noi”. E quando c’è il “noi”, comincia la speranza? No. Quella è incominciata con il “tu”. Quando c’è il noi, comincia una rivoluzione.

Il terzo e ultimo messaggio che vorrei condividere oggi riguarda proprio la rivoluzione: la rivoluzione della tenerezza. Che cos’è la tenerezza? È l’amore che si fa vicino e concreto. È un movimento che parte dal cuore e arriva agli occhi, alle orecchie, alle mani. La tenerezza è usare gli occhi per vedere l’altro, usare le orecchie per sentire l’altro, per ascoltare il grido dei piccoli, dei poveri, di chi teme il futuro; ascoltare anche il grido silenzioso della nostra casa comune, della terra contaminata e malata. La tenerezza significa usare le mani e il cuore per accarezzare l’altro. Per prendersi cura di lui.

La tenerezza è il linguaggio dei più piccoli, di chi ha bisogno dell’altro: un bambino si affeziona e conosce il papà e la mamma per le carezze, per lo sguardo, per la voce, per la tenerezza. A me piace sentire quando il papà o la mamma parlano al loro piccolo bambino, quando anche loro si fanno bambini, parlando come parla lui, il bambino. Questa è la tenerezza: abbassarsi al livello dell’altro. Anche Dio si è abbassato in Gesù per stare al nostro livello. Questa è la strada percorsa dal Buon Samaritano. Questa è la strada percorsa da Gesù, che si è abbassato, che ha attraversato tutta la vita dell’uomo con il linguaggio concreto dell’amore.

Sì, la tenerezza è la strada che hanno percorso gli uomini e le donne più coraggiosi e forti. Non è debolezza la tenerezza, è fortezza. È la strada della solidarietà, la strada dell’umiltà. Permettetemi di dirlo chiaramente: quanto più sei potente, quanto più le tue azioni hanno un impatto sulla gente, tanto più sei chiamato a essere umile. Perché altrimenti il potere ti rovina e tu rovinerai gli altri. In Argentina si diceva che il potere è come il gin preso a digiuno: ti fa girare la testa, ti fa ubriacare, ti fa perdere l’equilibrio e ti porta a fare del male a te stesso e agli altri, se non lo metti insieme all’umiltà e alla tenerezza. Con l’umiltà e l’amore concreto, invece, il potere – il più alto, il più forte – diventa servizio e diffonde il bene.

Il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei politici, dei grandi leader, delle grandi aziende. Sì, la loro responsabilità è enorme. Ma il futuro è soprattutto nelle mani delle persone che riconoscono l’altro come un “tu” e se stessi come parte di un “noi”.

Abbiamo bisogno gli uni degli altri. E perciò, per favore, ricordatevi anche di me con tenerezza, perché svolga il compito che mi è stato affidato per il bene degli altri, di tutti, di tutti voi, di tutti noi.

Grazie.

[00617-IT.01] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua inglese

Good evening – or, good morning, I am not sure what time it is there.

Regardless of the hour, I am thrilled to be participating in your conference.

I very much like its title – "The Future You" – because, while looking at tomorrow, it invites us to open a dialogue today, to look at the future through a "you."

"The Future You:" the future is made of you, it is made of encounters, because life flows through our relations with others.

Quite a few years of life have strengthened my conviction that each and everyone's existence is deeply tied to that of others: life is not time merely passing by, life is about interactions.

As I meet, or lend an ear to those who are sick, to the migrants who face terrible hardships in search of a brighter future, to prison inmates who carry a hell of pain inside their hearts, and to those, many of them young, who cannot find a job, I often find myself wondering: "Why them and not me?"

I, myself, was born in a family of migrants; my father, my grandparents, like many other Italians, left for Argentina and met the fate of those who are left with nothing. I could have very well ended up among today's "discarded" people.

And that's why I always ask myself, deep in my heart: "Why them and not me?"

First and foremost, I would love it if this meeting could help to remind us that we all need each other, none of us is an island, an autonomous and independent "I," separated from the other, and we can only build the future by standing together, including everyone.

We don’t think about it often, but everything is connected, and we need to restore our connections to a healthy state. Even the harsh judgment I hold in my heart against my brother or my sister, the open wound that was never cured, the offense that was never forgiven, the rancor that is only going to hurt me, are all instances of a fight that I carry within me, a flare deep in my heart that needs to be extinguished before it goes up in flames, leaving only ashes behind.

Many of us, nowadays, seem to believe that a happy future is something impossible to achieve. While such concerns must be taken very seriously, they are not invincible. They can be overcome when we don't lock our door to the outside world.

Happiness can only be discovered as a gift of harmony between the whole and each single component. Even science – and you know it better than I do – points to an understanding of reality as a place where every element connects and interacts with everything else.

And this brings me to my second message. How wonderful would it be if the growth of scientific and technological innovation would come along with more equality and social inclusion. How wonderful would it be, while we discover faraway planets, to rediscover the needs of the brothers and sisters orbiting around us.

How wonderful would it be if solidarity, this beautiful and, at times, inconvenient word, were not simply reduced to social work, and became, instead, the default attitude in political, economic and scientific choices, as well as in the relationships among individuals, peoples and countries.

Only by educating people to a true solidarity will we be able to overcome the "culture of waste," which doesn't concern only food and goods but, first and foremost, the people who are cast aside by our techno-economic systems which, without even realizing it, are now putting products at their core, instead of people.

Solidarity is a term that many wish to erase from the dictionary. Solidarity, however, is not an automatic mechanism. It cannot be programmed or controlled. It is a free response born from the heart of each and every one. Yes, a free response!

When one realizes that life, even in the middle of so many contradictions, is a gift, that love is the source and the meaning of life, how can they withhold their urge to do good to another fellow being?

In order to do good, we need memory, we need courage and we need creativity. And I know that TED gathers many creative minds. Yes, love does require a creative, concrete and ingenious attitude. Good intentions and conventional formulas, so often used to appease our conscience, are not enough. Let us help each other, all together, to remember that the other is not a statistic or a number. The other has a face. The "you" is always a real presence, a person to take care of.

There is a parable Jesus told to help us understand the difference between those who'd rather not be bothered and those who take care of the other. I am sure you have heard it before. It is the Parable of the Good Samaritan.

When Jesus was asked: "Who is my neighbor?" - namely, "Who should I take care of?" - he told this story, the story of a man who had been assaulted, robbed, beaten and abandoned along a dirt road. Upon seeing him, a priest and a Levite, two very influential people of the time, walked past him without stopping to help. After a while, a Samaritan, a very much despised ethnicity at the time, walked by. Seeing the injured man lying on the ground, he did not ignore him as if he weren't even there. Instead, he felt compassion for this man, which compelled him to act in a very concrete manner. He poured oil and wine on the wounds of the helpless man, brought him to a hostel and paid out of his pocket for him to be assisted.

The story of the Good Samaritan is the story of today’s humanity. People's paths are riddled with suffering, as everything is centered around money, and things, instead of people. And often there is this habit, by people who call themselves "respectable," of not taking care of the others, thus leaving behind thousands of human beings, or entire populations, on the side of the road.

Fortunately, there are also those who are creating a new world by taking care of the other, even out of their own pockets. Mother Teresa actually said: "One cannot love, unless it is at their own expense."

We have so much to do, and we must do it together. But how can we do that with all the evil we breathe every day?

Thank God, no system can nullify our desire to open up to the good, to compassion and to our capacity to react against evil, all of which stem from deep within our hearts.

Now you might tell me, "Sure, these are beautiful words, but I am not the Good Samaritan, nor Mother Teresa of Calcutta." On the contrary: we are precious, each and every one of us. Each and every one of us is irreplaceable in the eyes of God. Through the darkness of today's conflicts, each and every one of us can become a bright candle, a reminder that light will overcome darkness, and never the other way around.

To Christians, the future does have a name, and its name is Hope. Feeling hopeful does not mean to be optimistically naïve and ignore the tragedy humanity is facing. Hope is the virtue of a heart that doesn't lock itself into darkness, that doesn't dwell on the past, does not simply get by in the present, but is able to see a tomorrow.

Hope is the door that opens onto the future. Hope is a humble, hidden seed of life that, with time, will develop into a large tree. It is like some invisible yeast that allows the whole dough to grow, that brings flavor to all aspects of life.

And it can do so much, because a tiny flicker of light that feeds on hope is enough to shatter the shield of darkness. A single individual is enough for hope to exist.

And that individual can be you. And then there will be another "you," and another "you," and it turns into an "us." And so, does hope begin when we have an "us?" No. Hope began with one "you." When there is an "us," there begins a revolution.

The third message I would like to share today is, indeed, about revolution: the revolution of tenderness.

What is tenderness? It is the love that comes close and becomes real. It is a movement that starts from our heart and reaches the eyes, the ears and the hands. Tenderness means to use our eyes to see the other, our ears to hear the other, to listen to the children, the poor, those who are afraid of the future. To listen also to the silent cry of our common home, of our sick and polluted earth. Tenderness means to use our hands and our heart to comfort the other, to take care of those in need.

Tenderness is the language of the young children, of those who need the other. A child’s love for mom and dad grows through their touch, their gaze, their voice, their tenderness. I like when I hear parents talk to their babies, adapting to the little child, sharing the same level of communication. This is tenderness: being on the same level as the other.

God himself descended into Jesus to be on our level. This is the same path the Good Samaritan took. This is the path that Jesus himself took. He lowered himself, he lived his entire human existence practicing the real, concrete language of love.

Yes, tenderness is the path of choice for the strongest, most courageous men and women. Tenderness is not weakness; it is fortitude. It is the path of solidarity, the path of humility.

Please, allow me to say it loud and clear: the more powerful you are, the more your actions will have an impact on people, the more responsible you are to act humbly. If you don’t, your power will ruin you, and you will ruin the other.

There is a saying in Argentina: "Power is like drinking gin on an empty stomach." You feel dizzy, you get drunk, you lose your balance, and you will end up hurting yourself and those around you, if you don’t connect your power with humility and tenderness.

Through humility and concrete love, on the other hand, power – the highest, the strongest one – becomes a service, a force for good.

The future of humankind isn't exclusively in the hands of politicians, of great leaders, of big companies. Yes, they do hold an enormous responsibility. But the future is, most of all, in the hands of those people who recognize the other as a "you" and themselves as part of an "us."

We all need each other.

And so, please, think of me as well with tenderness, so that I can fulfill the task I have been given for the good of the other, of each and every one, of all of you, of all of us.

Thank you.

[00617-EN.01] [Original text: Italian]