Omelia del Santo Padre
Traduzione in lingua francese
Traduzione in lingua inglese
Traduzione in lingua tedesca
Traduzione in lingua spagnola
Traduzione in lingua portoghese
Traduzione in lingua polacca
Alle ore 9.30 di oggi, ricorrenza del Giovedì Santo, il Santo Padre Francesco ha presieduto, nella Basilica Vaticana, la Santa Messa Crismale, Liturgia che si celebra in questo giorno in tutte le Chiese Cattedrali.
La Messa del Crisma è stata concelebrata dal Santo Padre con i Cardinali, i Vescovi ed i Presbiteri (diocesani e religiosi) presenti a Roma.
Nel corso della Celebrazione Eucaristica, i sacerdoti hanno rinnovato le promesse fatte al momento della Sacra ordinazione; quindi sono stati benedetti l’olio degli infermi, l’olio dei catecumeni e il crisma.
Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa ha pronunciato dopo la proclamazione del Santo Vangelo:
Omelia del Santo Padre
«La mia mano è il suo sostegno, / il mio braccio è la sua forza» (Sal 88,22). Così pensa il Signore quando dice dentro di sé: «Ho trovato Davide, mio servo, / con il mio santo olio l’ho consacrato» (v. 21). Così pensa il nostro Padre ogni volta che “trova” un sacerdote. E aggiunge ancora: «La mia fedeltà e il mio amore saranno con lui / … Egli mi invocherà: “Tu sei mio padre, / mio Dio e roccia della mia salvezza”» (vv. 25.27).
E’ molto bello entrare, con il Salmista, in questo soliloquio del nostro Dio. Egli parla di noi, suoi sacerdoti, suoi preti; ma in realtà non è un soliloquio, non parla da solo: è il Padre che dice a Gesù: “I tuoi amici, quelli che ti amano, mi potranno dire in modo speciale: Tu sei mio Padre” (cfr Gv 14,21). E se il Signore pensa e si preoccupa tanto di come potrà aiutarci, è perché sa che il compito di ungere il popolo fedele non è facile, è duro; ci porta alla stanchezza e alla fatica. Lo sperimentiamo in tutte le forme: dalla stanchezza abituale del lavoro apostolico quotidiano fino a quella della malattia e della morte, compreso il consumarsi nel martirio.
La stanchezza dei sacerdoti! Sapete quante volte penso a questo: alla stanchezza di tutti voi? Ci penso molto e prego di frequente, specialmente quando ad essere stanco sono io. Prego per voi che lavorate in mezzo al popolo fedele di Dio che vi è stato affidato, e molti in luoghi assai abbandonati e pericolosi. E la nostra stanchezza, cari sacerdoti, è come l’incenso che sale silenziosamente al Cielo (cfr Sal 140,2; Ap 8,3-4). La nostra stanchezza va dritta al cuore del Padre.
Siate sicuri che la Madonna si accorge di questa stanchezza e la fa notare subito al Signore. Lei, come Madre, sa capire quando i suoi figli sono stanchi e non pensa a nient’altro. “Benvenuto! Riposati, figlio. Dopo parleremo… Non ci sono qui io, che sono tua Madre?” – ci dirà sempre quando ci avviciniamo a Lei (cfr Evangelii gaudium, 286). E a suo Figlio dirà, come a Cana: «Non hanno vino» (Gv 2,3).
Succede anche che, quando sentiamo il peso del lavoro pastorale, ci può venire la tentazione di riposare in un modo qualunque, come se il riposo non fosse una cosa di Dio. Non cadiamo in questa tentazione. La nostra fatica è preziosa agli occhi di Gesù, che ci accoglie e ci fa alzare: “Venite a me quando siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” (cfr Mt 11,28). Quando uno sa che, morto di stanchezza, può prostrarsi in adorazione, dire: “Basta per oggi, Signore”, e arrendersi davanti al Padre, uno sa anche che non crolla ma si rinnova, perché chi ha unto con olio di letizia il popolo fedele di Dio, il Signore pure lo unge: “cambia la sua cenere in diadema, le sue lacrime in olio profumato di letizia, il suo abbattimento in canti” (cfr Is 61,3).
Teniamo ben presente che una chiave della fecondità sacerdotale sta nel come riposiamo e nel come sentiamo che il Signore tratta la nostra stanchezza. Com’è difficile imparare a riposare! In questo si gioca la nostra fiducia e il nostro ricordare che anche noi siamo pecore e abbiamo bisogno del pastore, che ci aiuti. Possono aiutarci alcune domande a questo proposito.
So riposare ricevendo l’amore, la gratuità e tutto l’affetto che mi dà il popolo fedele di Dio? O dopo il lavoro pastorale cerco riposi più raffinati, non quelli dei poveri ma quelli che offre la società dei consumi? Lo Spirito Santo è veramente per me “riposo nella fatica”, o solo Colui che mi fa lavorare? So chiedere aiuto a qualche sacerdote saggio? So riposare da me stesso, dalla mia auto-esigenza, dal mio auto-compiacimento, dalla mia auto-referenzialità? So conversare con Gesù, con il Padre, con la Vergine e san Giuseppe, con i miei Santi protettori amici per riposarmi nelle loro esigenze – che sono soavi e leggere –, nel loro compiacimento – ad essi piace stare in mia compagnia –, e nei loro interessi e riferimenti – ad essi interessa solo la maggior gloria di Dio – …? So riposare dai miei nemici sotto la protezione del Signore? Vado argomentando e tramando fra me, rimuginando più volte la mia difesa, o mi affido allo Spirito Santo che mi insegna quello che devo dire in ogni occasione? Mi preoccupo e mi affanno eccessivamente o, come Paolo, trovo riposo dicendo: «So in chi ho posto la mia fede» (2 Tm 1,12)?
Ripassiamo un momento, brevemente, gli impegni dei sacerdoti, che oggi la liturgia ci proclama: portare ai poveri la Buona Notizia, annunciare la liberazione ai prigionieri e la guarigione ai ciechi, dare la libertà agli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore. Isaia dice anche curare quelli che hanno il cuore spezzato e consolare gli afflitti.
Non sono compiti facili, non sono compiti esteriori, come ad esempio le attività manuali – costruire un nuovo salone parrocchiale, o tracciare le linee di un campo di calcio per i giovani dell’oratorio…; gli impegni menzionati da Gesù implicano la nostra capacità di compassione, sono impegni in cui il nostro cuore è “mosso” e commosso. Ci rallegriamo con i fidanzati che si sposano, ridiamo con il bimbo che portano a battezzare; accompagniamo i giovani che si preparano al matrimonio e alla famiglia; ci addoloriamo con chi riceve l’unzione nel letto di ospedale; piangiamo con quelli che seppelliscono una persona cara… Tante emozioni… Se noi abbiamo il cuore aperto, questa emozione e tanto affetto affaticano il cuore del Pastore. Per noi sacerdoti le storie della nostra gente non sono un notiziario: noi conosciamo la nostra gente, possiamo indovinare ciò che sta passando nel loro cuore; e il nostro, nel patire con loro, ci si va sfilacciando, ci si divide in mille pezzetti, ed è commosso e sembra perfino mangiato dalla gente: prendete, mangiate. Questa è la parola che sussurra costantemente il sacerdote di Gesù quando si sta prendendo cura del suo popolo fedele: prendete e mangiate, prendete e bevete… E così la nostra vita sacerdotale si va donando nel servizio, nella vicinanza al Popolo fedele di Dio… che sempre, sempre stanca.
Vorrei ora condividere con voi alcune stanchezze sulle quali ho meditato.
C’è quella che possiamo chiamare “la stanchezza della gente, la stanchezza delle folle”: per il Signore, come per noi, era spossante – lo dice il Vangelo –, ma è una stanchezza buona, una stanchezza piena di frutti e di gioia. La gente che lo seguiva, le famiglie che gli portavano i loro bambini perché li benedicesse, quelli che erano stati guariti, che venivano con i loro amici, i giovani che si entusiasmavano del Rabbì…, non gli lasciavano neanche il tempo per mangiare. Ma il Signore non si seccava di stare con la gente. Al contrario: sembrava che si ricaricasse (cfr Evangelii gaudium, 11). Questa stanchezza in mezzo alla nostra attività è solitamente una grazia che è a portata di mano di tutti noi sacerdoti (cfr ibid., 279). Che bella cosa è questa: la gente ama, desidera e ha bisogno dei suoi pastori! Il popolo fedele non ci lascia senza impegno diretto, salvo che uno si nasconda in un ufficio o vada per la città con i vetri oscurati. E questa stanchezza è buona, è una stanchezza sana. E’ la stanchezza del sacerdote con l’odore delle pecore…, ma con il sorriso di papà che contempla i suoi figli o i suoi nipotini. Niente a che vedere con quelli che sanno di profumi cari e ti guardano da lontano e dall’alto (cfr ibid., 97). Siamo gli amici dello Sposo, questa è la nostra gioia. Se Gesù sta pascendo il gregge in mezzo a noi non possiamo essere pastori con la faccia acida, lamentosi, né, ciò che è peggio, pastori annoiati. Odore di pecore e sorriso di padri… Sì, molto stanchi, ma con la gioia di chi ascolta il suo Signore che dice: «Venite, benedetti del Padre mio» (Mt 25,34).
C’è anche quella che possiamo chiamare “la stanchezza dei nemici”. Il demonio e i suoi seguaci non dormono e, dato che le loro orecchie non sopportano la Parola di Dio, lavorano instancabilmente per zittirla o confonderla. Qui la stanchezza di affrontarli è più ardua. Non solo si tratta di fare il bene, con tutta la fatica che comporta, bensì bisogna difendere il gregge e difendere sé stessi dal male (cfr Evangelii gaudium, 83). Il maligno è più astuto di noi ed è capace di demolire in un momento quello che abbiamo costruito con pazienza durante lungo tempo. Qui occorre chiedere la grazia di imparare a neutralizzare - è un’abitudine importante: imparare a neutralizzare -: neutralizzare il male, non strappare la zizzania, non pretendere di difendere come superuomini ciò che solo il Signore deve difendere. Tutto questo aiuta a non farsi cadere le braccia davanti allo spessore dell’iniquità, davanti allo scherno dei malvagi. La parola del Signore per queste situazioni di stanchezza è: «Abbiate coraggio, io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33). E questa parola ci darà forza.
E per ultima – ultima perché questa omelia non vi stanchi troppo – c’è anche “la stanchezza di sé stessi” (cfr Evangelii gaudium, 277). E’ forse la più pericolosa. Perché le altre due provengono dal fatto di essere esposti, di uscire da noi stessi per ungere e darsi da fare (siamo quelli che si prendono cura). Invece questa stanchezza è più auto-referenziale: è la delusione di sé stessi ma non guardata in faccia, con la serena letizia di chi si scopre peccatore e bisognoso di perdono, di aiuto: questi chiede aiuto e va avanti. Si tratta della stanchezza che dà il “volere e non volere”, l’essersi giocato tutto e poi rimpiangere l’aglio e le cipolle d’Egitto, il giocare con l’illusione di essere qualcos’altro. Questa stanchezza mi piace chiamarla “civettare con la mondanità spirituale”. E quando uno rimane solo, si accorge di quanti settori della vita sono stati impregnati da questa mondanità, e abbiamo persino l’impressione che nessun bagno la possa pulire. Qui può esserci una stanchezza cattiva. La parola dell’Apocalisse ci indica la causa di questa stanchezza: «Sei perseverante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti. Ho però da rimproverarti di avere abbandonato il tuo primo amore» (2,3-4). Solo l’amore dà riposo. Ciò che non si ama, stanca male, e alla lunga stanca peggio.
L’immagine più profonda e misteriosa di come il Signore tratta la nostra stanchezza pastorale è quella che «avendo amato i suoi…, li amò sino alla fine» (Gv 13,1): la scena della lavanda dei piedi. Mi piace contemplarla come la lavanda della sequela. Il Signore purifica la stessa sequela, Egli si «coinvolge» con noi (Evangelii gaudium, 24), si fa carico in prima persona di pulire ogni macchia, quello smog mondano e untuoso che ci si è attaccato nel cammino che abbiamo fatto nel suo Nome.
Sappiamo che nei piedi si può vedere come va tutto il nostro corpo. Nel modo di seguire il Signore si manifesta come va il nostro cuore. Le piaghe dei piedi, le slogature e la stanchezza, sono segno di come lo abbiamo seguito, di quali strade abbiamo fatto per cercare le sue pecore perdute, tentando di condurre il gregge ai verdi pascoli e alle acque tranquille (cfr ibid., 270). Il Signore ci lava e ci purifica da tutto quello che si è accumulato sui nostri piedi per seguirlo. E questo è sacro. Non permette che rimanga macchiato. Come le ferite di guerra Lui le bacia, così la sporcizia del lavoro Lui la lava.
La sequela di Gesù è lavata dallo stesso Signore affinché ci sentiamo in diritto di essere “gioiosi”, “pieni”, “senza paura né colpa” e così abbiamo il coraggio di uscire e andare “sino ai confini del mondo, a tutte le periferie”, a portare questa buona notizia ai più abbandonati, sapendo che “Lui è con noi, tutti i giorni fino alla fine del mondo”. E per favore, chiediamo la grazia di imparare ad essere stanchi, ma ben stanchi!
[00526-IT.02] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua francese
«Ma main sera pour toujours avec lui, mon bras fortifiera son courage» (Ps 88, 22). C’est ainsi que pense le Seigneur quand il diten lui-même:«J’ai trouvé David mon serviteur, je l’ai sacré avec mon huile sainte» (v.21). C’est ainsi que pense notre Père chaque fois qu’il «trouve» un prêtre. Et il ajoute encore: «Mon amour et ma fidélité sont avec lui, il me dira: tu es mon Père mon Dieu, mon roc et mon salut» (vv. 25.27).
Il est très beau d’entrer, avec le psalmiste, dans ce monologue de notre Dieu. Il parle de nous, ses prêtres, ses curés; mais en réalité ce n’est pas un monologue, il ne parle pas seul: c’est le Père qui dit à Jésus: «Tes amis, ceux qui t’aiment, pourront me dire de manière spéciale: tu es mon Père» (cf. Gn 14, 21). Et si le Seigneur pense et se préoccupe tant de la manière dont il pourra nous aider, c’est parce qu’il sait que la charge d’oindre le peuple fidèle n’est pas facile, elle est dure; elle nous conduit à la fatigue et à la lassitude. Nous en faisons l’expérience de multiples manières: de la fatigue habituelle du travail apostolique quotidien, à celle de la maladie et de la mort, y compris dans le fait de se consumer dans le martyre.
La fatigue des prêtres! Savez-vous combien de fois je pense à cela: à la fatigue de vous tous? J’y pense beaucoup et je prie souvent, surtout quand moi aussi je suis fatigué. Je prie pour vous qui travaillez au milieu du peuple fidèle de Dieu qui vous a été confié, et, pour beaucoup, en des lieux très abandonnés et dangereux. Notre fatigue, chers prêtres, est comme l’encens qui monte silencieusement vers le ciel (cf. Ps 140, 2; Ap 8, 3-4). Notre fatigue va droit au cœur du Père.
Soyez sûrs que la Vierge Marie se rend compte de cette fatigue, et la fait remarquer tout de suite au Seigneur. Comme Mère, elle sait comprendre quand ses fils sont fatigués et elle ne pense à rien d’autre. Elle nous dira toujours, lorsque nous venons à elle: «Bienvenue! repose-toi, fils. Après nous parlerons… Ne suis-je pas là, moi qui suis ta Mère? (cf. Evangelii gaudium, n. 286). Et elle dira à son Fils, comme à Cana: «Ils n’ont plus de vin» (Jn 2, 3).
Il arrive aussi que, lorsque nous ressentons le poids du travail pastoral, nous ayons la tentation de nous reposer de n’importe quelle manière, comme si le repos n’était pas une chose de Dieu. Ne tombons pas dans cette tentation. Notre fatigue est précieuse aux yeux de Jésus, qui nous accueille et nous fait relever: «Venez à moi vous tous qui peinez sous le poids du fardeau, moi je vous procurerai le repos» (cf. Mt 11, 28). Quand quelqu’un sait que, mort de fatigue, il peut se prosterner en adoration et dire:«Ça suffit pour aujourd’hui, Seigneur», et se rendre devant le Père, il sait aussi qu’il ne s’effondre pas, mais qu’il se renouvelle, parce que celui qui a oint le peuple fidèle de Dieu de l’huile d’allégresse, le Seigneur l’oint également: «Il met le diadème sur sa tête au lieu de la cendre, l’huile d’allégresse au lieu des larmes, le chant au lieu d’un esprit abattu» (cf. Is 61, 3).
Ayons bien présent à l’esprit qu’une clé de la fécondité sacerdotale se trouve dans la manière dont nous nous reposons, dont nous sentons que le Seigneur s’occupe de notre fatigue. Comme il est difficile d’apprendre à se reposer! Là se joue notre confiance, et aussi le souvenir que nous aussi nous sommes des brebis et nous avons besoin du pasteur, qui nous aide. Quelques questions à ce sujet peuvent nous aider.
Est-ce que je sais me reposer en recevant l’amour, la gratuité et toute l’affection que me donne le peuple fidèle de Dieu? Ou bien, après le travail pastoral est-ce que je cherche des repos plus raffinés, non pas ceux des pauvres, mais ceux qu’offrent la société de consommation? L’Esprit Saint est-il vraiment pour moi «repos dans la fatigue», ou seulement celui qui me fait travailler? Est-ce que je sais demander l’aide de quelque prêtre sage? Est-ce que je sais me reposer de moi-même, de mon auto-exigence, de mon autosatisfaction, de mon autoréférence? Est-ce que je sais converser avec Jésus, avec le Père, avec la Vierge et Saint Joseph, avec mes saints amis protecteurs pour me reposer dans leurs exigences – qui sont douces et légères –, dans la satisfaction d’être avec eux – eux, ils aiment rester en ma compagnie –, et dans leurs intérêts et leurs références – seule les intéresse la plus grande gloire de Dieu – …? Est-ce que je sais me reposer de mes ennemis sous la protection du Seigneur? Est-ce que j’argumente et conspire en moi-même, ressassant plusieurs fois ma défense, ou est-ce que je me confie à l’Esprit Saint qui m’enseigne ce que je dois dire en toute occasion? Est-ce que je me préoccupe et me tourmente excessivement ou, comme Paul, est-ce que je trouve le repos en disant:«Je sais en qui j’ai mis ma foi» (2 Tm 1, 12)?
Revoyons un moment, brièvement, les engagements des prêtres, qu’aujourd’hui la liturgie nous proclame: porter aux pauvres la Bonne Nouvelle, annoncer la libération aux prisonniers et la guérison aux aveugles, donner la liberté aux opprimés et proclamer l’année de grâce du Seigneur. Isaïe dit aussi soigner ceux qui ont le cœur brisé et consoler les affligés.
Ce ne sont pas des tâches faciles, ce ne sont pas des tâches extérieures, comme le sont par exemple les activités manuelles – construire une nouvelle salle paroissiale, ou tracer les lignes d’un terrain de football pour les jeunes du patronage…; les tâches mentionnées par Jésus engagent notre capacité de compassion, ce sont des tâches dans lesquelles le cœur est «mû» et ému. Nous nous réjouissons avec les fiancés qui se marient, nous rions avec l’enfant qu’ils font baptiser; nous accompagnons les jeunes qui se préparent au mariage et à la famille; nous nous affligeons avec celui qui reçoit l’onction sur un lit d’hôpital; nous pleurons avec ceux qui enterrent une personne chère… Tant d’émotions… Si nous avons le cœur ouvert, cette émotion et tant d’affection fatiguent le cœur du pasteur. Pour nous, prêtres, les histoires de nos gens ne sont pas un bulletind’information : nous connaissons nos gens, nous pouvons deviner ce qui se passe dans leur cœur; et le nôtre, en souffrant avec eux, s’effiloche, se défait en mille morceaux, il est bouleversé et semble même mangé par les gens: prenez et mangez. C’est la parole que le prêtre de Jésus chuchote constamment quand il prend soin de son peuple fidèle: prenez et mangez, prenez et buvez… Et ainsi notre vie sacerdotale se donne dans le service, dans la proximité du peuple de Dieu… qui toujours, toujours fatigue.
Je voudrais maintenant partager avec vous quelques autres fatigues sur lesquelles j’ai médité.
Il y a celle que nous pouvons appeler «la fatigue des gens, la fatigue des foules»: pour le Seigneur, comme pour nous, elle était épuisante – l’Évangile le dit –, mais c’est une bonne fatigue, une fatigue pleine de fruits et de joie. Les gens qui le suivaient, les familles qui lui portaient leurs enfants pour qu’il les bénisse, ceux qui avaient été guéris, qui venaient avec leurs amis, les jeunes qui s’enthousiasmaient pour le Rabbi…, ne lui laissaient même pas le temps de manger. Mais le Seigneur ne se fatiguait pas de rester avec les gens. Au contraire: il semble que cela le remontait. (cf. Evangellii gaudium, n. 11). Cette fatigue au milieu de notre activité est, en général, une grâce qui est à portée de main de nous tous, prêtres (cf. ibid., n. 279). C’est vraiment une belle chose: les gens aiment, désirent et ont besoin de leurs pasteurs! Le peuple fidèle ne nous laisse pas sans occupation directe, sauf si on se cache dans un bureau ou si on part en ville avec des verres teintés. Et cette fatigue est bonne, c’est une fatigue saine. C’est la fatigue du prêtre avec l’odeur de ses brebis…, mais avec le sourire de papa qui contemple ses enfants et ses petits enfants. Rien à voir avec ceux qui sentent des parfums chers et qui te regardent de loin et de haut (cf. ibid., n. 97). Nous sommes les amis de l’Époux, c’est là notre joie. Si Jésus fait paître le troupeau au milieu de nous, nous ne pouvons pas être des pasteurs au visage acide, qui se lamentent, ni, ce qui est pire, des pasteurs qui s’ennuient. Odeur des brebis et sourire de pères… Oui, très fatigués, mais avec la joie de celui qui écoute son Seigneur qui dit:«Venez les bénis de mon Père» (Mt 25, 34).
Il y a aussi la fatigue que nous pouvons appeler «la fatigue des ennemis». Le démon et ses adeptes ne dorment pas; et comme leurs oreilles ne supportent pas la Parole de Dieu, ils travaillent inlassablement pour la faire taire ou la troubler. Ici la fatigue de les affronter est plus dure. Non seulement il s’agit de faire le bien, avec toute la peine que cela comporte, mais il faut aussi défendre le troupeau et se défendre soi-même du mal (cf. Evangelii gaudium, n. 83). Le malin est plus astucieux que nous, et il est capable de démolir en un moment ce que nous avons construit avec patience durant beaucoup de temps. Il est nécessaire ici de demander la grâce d’apprendre à neutraliser– c’est une habitude importante: apprendre à neutraliser ‑: neutraliser le mal, ne pas arracher l’ivraie, ne pas prétendre défendre comme des surhommes ce que seul le Seigneur doit défendre. Tout cela aide à ne pas baisser les bras devant l’épaisseur de l’iniquité, devant la dérision des méchants. La parole du Seigneur pour ces situations de fatigue est: «Ayez courage, j’ai vaincu le monde!» (Jn 16, 33). Et cette parole nous donnera de la force.
Et une dernière – dernière pour que cette homélie ne vous fatigue pas trop – il y a aussi «la fatigue de soi-même» (cf. Evangelii gaudium, n. 277). C’est peut-être la plus dangereuse. Parce que les deux autres proviennent du fait d’être exposé, de sortir de nous même pour oindre et nous donner quelque chose à faire (nous sommes ceux qui prenons soin). En revanche, cette fatigue est plus autoréférentielle: c’est la déception de soi-même, mais pas regardée en face, avec la sérénité joyeuse de celui qui se découvre pécheur et qui a besoin de pardon, d’aide : celui-là demande de l’aide et va de l’avant. Il s’agit de la fatigue qui porte à «vouloir et ne pas vouloir», le fait de tout risquer et ensuite de regretter l’ail et les oignons d’Égypte, de jouer avec l’illusion d’être autre chose. J’aime appeler cette fatigue «minauder avec la mondanité spirituelle». Et quand on reste seul, on s’aperçoit que beaucoup de secteurs de la vie ont été imprégnés de cette mondanité, et on a même l’impression qu’aucun bain ne peut la nettoyer. Il peut y avoir là pour nous une mauvaise fatigue. La parole de l’Apocalypse nous indique la cause de cette fatigue: «Tu ne manques pas de persévérance, et tu as tant supporté pour mon nom, sans ménager ta peine. Mais j’ai contre toi que ton premier amour, tu l’as abandonné» (2, 3-4). Seul l’amour donne du repos. Celui qui ne s’aime pas se fatigue mal, et à la longue, se fatigue plus mal.
L’image la plus profonde et mystérieuse de la manière dont le Seigneur s’occupe de notre fatigue pastorale est celle de celui qui «ayant aimé les siens…, les aima jusqu’à la fin» (Jn 13, 1): la scène du lavement des pieds. J’aime la contempler comme lavement de la sequela. Le Seigneur purifie la sequela elle-même, il s’implique avec nous (Evanglii gaudium, n. 24), il se charge le premier de nettoyer toute tache, ce smog mondain et onctueux qui s’est collé durant le chemin que nous avons fait en son Nom.
Nous savons que l’on peut voir dans les pieds comment va tout notre corps. Dans la manière de suivre le Seigneur se manifeste comment va notre cœur. Les plaies des pieds, les déboitements et la fatigue sont des signes de la manière dont nous l’avons suivi, de ces routes que nous avons faites pour chercher ses brebis perdues, en essayant de conduire le troupeau vers les verts pâturages et les eaux tranquilles (cf. ibid., n. 270). Le Seigneur nous lave et nous purifie de tout ce qui s’est accumulé sous nos pieds pour le suivre. Et c’est sacré. Il ne permet pas qu’ils restent sales. Il les embrasse comme des blessures de guerre, de sorte que la saleté du travail, c’est lui qui la nettoie.
La sequela de Jésus est lavée par le Seigneur lui-même pour que nous nous sentions en droit d’être «joyeux», «remplis», «sans peur ni faute» et pour que nous ayons ainsi le courage de sortir et d’aller «jusqu’aux extrémités du monde, vers toutes les périphéries», porter cette bonne nouvelle aux plus abandonnés, sachant qu’«il est avec nous, tous les jours jusqu’à la fin du monde». Et s’il vous plaît, demandons la grâce d’apprendre à être fatigués, mais bien fatigués!
[00526-FR.02] [Texte original: Italien]
Traduzione in lingua inglese
“My hand shall ever abide with him, my arms also shall strengthen him” (Ps 89:21).
This is what the Lord means when he says: “I have found David, my servant; with my holy oil I have anointed him” (v. 20). It is also what our Father thinks whenever he “encounters” a priest. And he goes on to say: “My faithfulness and my steadfast love shall be with him… He shall cry to me, ‘You are my Father, my God and the rock of my salvation”’ (vv. 24, 26).
It is good to enter with the Psalmist into this monologue of our God. He is talking about us, his priests, his pastors. But it is not really a monologue, since he is not the only one speaking. The Father says to Jesus: “Your friends, those who love you, can say to me in a particular way: ‘You are my Father’” (cf. Jn 14:21). If the Lord is so concerned about helping us, it is because he knows that the task of anointing his faithful people is not easy, it is demanding; it can tire us. We experience this in so many ways: from the ordinary fatigue brought on by our daily apostolate to the weariness of sickness, death and even martyrdom.
The tiredness of priests! Do you know how often I think about this weariness which all of you experience? I think about it and I pray about it, often, especially when I am tired myself. I pray for you as you labour amid the people of God entrusted to your care, many of you in lonely and dangerous places. Our weariness, dear priests, is like incense which silently rises up to heaven (cf. Ps 141:2; Rev 8:3-4). Our weariness goes straight to the heart of the Father.
Know that the Blessed Virgin Mary is well aware of this tiredness and she brings it straight to the Lord. As our Mother, she knows when her children are weary, and this is her greatest concern. “Welcome! Rest, my child. We will speak afterwards…”. “Whenever we draw near to her, she says to us: “Am I not here with you, I who am your Mother?” (cf. Evangelii Gaudium, 286). And to her Son she will say, as she did at Cana, “They have no wine” (Jn 2:3).
It can also happen that, whenever we feel weighed down by pastoral work, we can be tempted to rest however we please, as if rest were not itself a gift of God. We must not fall into this temptation. Our weariness is precious in the eyes of Jesus who embraces us and lifts us up. “Come to me, all who labour and are overburdened, and I will give you rest” (Mt 11:28). Whenever a priest feels dead tired, yet is able to bow down in adoration and say: “Enough for today Lord”, and entrust himself to the Father, he knows that he will not fall but be renewed. The one who anoints God’s faithful people with oil is also himself anointed by the Lord: “He gives you a garland instead of ashes, the oil of gladness instead of mourning, the mantle of praise instead of a faint spirit” (cf. Is 61:3).
Let us never forget that a key to fruitful priestly ministry lies in how we rest and in how we look at the way the Lord deals with our weariness. How difficult it is to learn how to rest! This says much about our trust and our ability to realize that that we too are sheep: we need the help of the Shepherd. A few questions can help us in this regard.
Do I know how to rest by accepting the love, gratitude and affection which I receive from God’s faithful people? Or, once my pastoral work is done, do I seek more refined relaxations, not those of the poor but those provided by a consumerist society? Is the Holy Spirit truly “rest in times of weariness” for me, or is he just someone who keeps me busy? Do I know how to seek help from a wise priest? Do I know how to take a break from myself, from the demands I make on myself, from my self-seeking and from my self-absorption? Do I know how to spend time with Jesus, with the Father, with the Virgin Mary and Saint Joseph, with my patron saints, and to find rest in their demands, which are easy and light, and in their pleasures, for they delight to be in my company, and in their concerns and standards, which have only to do with the greater glory of God? Do I know how to rest from my enemies under the Lord’s protection? Am I preoccupied with how I should speak and act, or do I entrust myself to the Holy Spirit, who will teach me what I need to say in every situation? Do I worry needlessly, or, like Paul, do I find repose by saying: “I know him in whom I have placed my trust” (2 Tim 1:12)?
Let us return for a moment to what today’s liturgy describes as the work of the priest: to bring good news to the poor, to proclaim freedom to prisoners and healing to the blind, to offer liberation to the downtrodden and to announce the year of the Lord’s favour. Isaiah also mentions consoling the broken-hearted and comforting the afflicted.
These are not easy or purely mechanical jobs, like running an office, building a parish hall or laying out a soccer field for the young of the parish… The tasks of which Jesus speaks call for the ability to show compassion; our hearts are to be “moved” and fully engaged in carrying them out. We are to rejoice with couples who marry; we are to laugh with the children brought to the baptismal font; we are to accompany young fiancés and families; we are to suffer with those who receive the anointing of the sick in their hospital beds; we are to mourn with those burying a loved one… All these emotions…if we do not have an open heart, can exhaust the heart of a shepherd. For us priests, what happens in the lives of our people is not like a news bulletin: we know our people, we sense what is going on in their hearts. Our own heart, sharing in their suffering, feels “com-passion”, is exhausted, broken into a thousand pieces, moved and even “consumed” by the people. Take this, eat this… These are the words the priest of Jesus whispers repeatedly while caring for his faithful people: Take this, eat this; take this, drink this… In this way our priestly life is given over in service, in closeness to the People of God… and this always leaves us weary.
I wish to share with you some forms of weariness on which I have meditated.
There is what we can call “the weariness of people, the weariness of the crowd”. For the Lord, and for us, this can be exhausting – so the Gospel tells us – yet it is a good weariness, a fruitful and joyful exhaustion. The people who followed Jesus, the families which brought their children to him to be blessed, those who had been cured, those who came with their friends, the young people who were so excited about the Master… they did not even leave him time to eat. But the Lord never tired of being with people. On the contrary, he seemed renewed by their presence (cf. Evangelii Gaudium, 11). This weariness in the midst of activity is a grace on which all priests can draw (cf. ibid., 279). And how beautiful it is! People love their priests, they want and need their shepherds! The faithful never leave us without something to do, unless we hide in our offices or go out in our cars wearing sun glasses. There is a good and healthy tiredness. It is the exhaustion of the priest who wears the smell of the sheep… but also smiles the smile of a father rejoicing in his children or grandchildren. It has nothing to do with those who wear expensive cologne and who look at others from afar and from above (cf. ibid., 97). We are the friends of the Bridegroom: this is our joy. If Jesus is shepherding the flock in our midst, we cannot be shepherds who are glum, plaintive or, even worse, bored. The smell of the sheep and the smile of a father…. Weary, yes, but with the joy of those who hear the Lord saying: “Come, O blessed of my Father” (Mt 25:34).
There is also the kind of weariness which we can call “the weariness of enemies”. The devil and his minions never sleep and, since their ears cannot bear to hear the word of God, they work tirelessly to silence that word and to distort it. Confronting them is more wearying. It involves not only doing good, with all the exertion this entails, but also defending the flock and oneself from evil (cf. Evangelii Gaudium, 83). The evil one is far more astute than we are, and he is able to demolish in a moment what it took us years of patience to build up. Here we need to implore the grace to learn how to “offset” (and it is an important habit to acquire): to thwart evil without pulling up the good wheat, or presuming to protect like supermen what the Lord alone can protect. All this helps us not to let our guard down before the depths of iniquity, before the mockery of the wicked. In these situations of weariness, the Lord says to us: “Have courage! I have overcome the world!” (Jn 16:33). The word of God gives us strength.
And finally – I say finally lest you be too wearied by this homily itself! – there is also “weariness of ourselves” (cf. Evangelii Gaudium, 277). This may be the most dangerous weariness of all. That is because the other two kinds come from being exposed, from going out of ourselves to anoint and to do battle (for our job is to care for others). But this third kind of weariness is more “self-referential”: it is dissatisfaction with oneself, but not the dissatisfaction of someone who directly confronts himself and serenely acknowledges his sinfulness and his need for God’s mercy, his help; such people ask for help and then move forward. Here we are speaking of a weariness associated with “wanting yet not wanting”, having given up everything but continuing to yearn for the fleshpots of Egypt, toying with the illusion of being something different. I like to call this kind of weariness “flirting with spiritual worldliness”. When we are alone, we realize how many areas of our life are steeped in this worldliness, so much so that we may feel that it can never be completely washed away. This can be a dangerous kind of weariness. The Book of Revelation shows us the reason for this weariness: “You have borne up for my sake and you have not grown weary. But I have this against you, that you have abandoned the love you had at first” (Rev 2:3-4). Only love gives true rest. What is not loved becomes tiresome, and in time, brings about a harmful weariness.
The most profound and mysterious image of how the Lord deals with our pastoral tiredness is that, “having loved his own, he loved them to the end” (Jn 13:1): the scene of his washing the feet of his disciples. I like to think of this as the cleansing of discipleship. The Lord purifies the path of discipleship itself. He “gets involved” with us (Evangelii Gaudium, 24), becomes personally responsible for removing every stain, all that grimy, worldly smog which clings to us from the journey we make in his name.
From our feet, we can tell how the rest of our body is doing. The way we follow the Lord reveals how our heart is faring. The wounds on our feet, our sprains and our weariness, are signs of how we have followed him, of the paths we have taken in seeking the lost sheep and in leading the flock to green pastures and still waters (cf. ibid., 270). The Lord washes us and cleanses us of all the dirt our feet have accumulated in following him. This is something holy. Do not let your feet remain dirty. Like battle wounds, the Lord kisses them and washes away the grime of our labours.
Our discipleship itself is cleansed by Jesus, so that we can rightly feel “joyful”, “fulfilled”, “free of fear and guilt”, and impelled to go out “even to the ends of the earth, to every periphery”. In this way we can bring the good news to the most abandoned, knowing that “he is with us always, even to the end of the world”. And please, let us ask for the grace to learn how to be weary, but weary in the best of ways!
[00526-EN.02] [Original text: Italian]
Traduzione in lingua tedesca
»Beständig wird meine Hand ihn halten / und mein Arm ihn stärken« (Ps 89,22). Das denkt der Herr, wenn er sich sagt: »Ich habe David, meinen Knecht, gefunden / und ihn mit meinem heiligen Öl gesalbt« (V. 21). Das denkt unser himmlischer Vater jedes Mal, wenn er einen Priester „findet“. Und er fügt noch hinzu: »Meine Treue und meine Huld begleiten ihn / … Er wird zu mir rufen: Mein Vater bist du, / mein Gott, der Fels meines Heiles« (V. 25.27).
Es ist sehr schön, mit dem Psalmisten in dieses Selbstgespräch unseres Gottes einzutreten. Er spricht von uns, seinen Priestern, seinen Geistlichen. Aber in Wirklichkeit ist es gar kein Selbstgespräch, er spricht nicht allein: Es ist der Vater, der zu Jesus sagt: „Deine Freunde, jene, die dich lieben, können in besonderer Weise zu mir sagen: ,Mein Vater bist du‘ “ (vgl. Joh 14,21). Und wenn der Herr so sehr daran denkt und sich darum sorgt, wie er uns helfen kann, dann darum, weil er weiß, dass die Aufgabe, das gläubige Volk zu salben, nicht leicht ist: Sie ist schwer; sie bringt uns Müdigkeit und Mühsal. Das erfahren wir in allen Formen: von der gewöhnlichen Müdigkeit der täglichen seelsorglichen Arbeit bis zu der von Krankheit und Tod, einschließlich des Sich-Aufreibens im Martyrium.
Die Müdigkeit der Priester! Wisst ihr, wie oft ich daran denke: an die Müdigkeit von euch allen? Ich denke viel daran und bete häufig dafür, besonders wenn ich selbst müde bin. Ich bete für euch, die ihr mitten im euch anvertrauten Volk Gottes arbeitet – viele an ganz verlassenen und gefährlichen Orten. Und unsere Müdigkeit, liebe Priester, ist wie der Weihrauch, der still zum Himmel aufsteigt (vgl. Ps141,2; Offb 8,3-4). Unsere Müdigkeit geht geradewegs zum Herzen des Vaters.
Seid gewiss, dass die Muttergottes diese Müdigkeit bemerkt und den Herrn sofort darauf aufmerksam macht. Als Mutter kann sie verstehen, wenn ihre Kinder müde sind, und denkt an nichts anderes. „Herzlich willkommen! Ruh dich aus, lieber Sohn. Danach werden wir reden… Bin ich, deine Mutter, etwa nicht hier?“ – Das wird sie uns immer sagen, wenn wir zu ihr kommen (vgl. Evangelii gaudium, 286). Und wie in Kana wird sie zu ihrem Sohn sagen: » Sie haben keinen Wein mehr« (Joh 2,3).
Es kommt auch vor, dass wir, wenn wir die Last der pastoralen Arbeit spüren, in Versuchung geraten, auf irgendeine beliebige Weise auszuruhen, als sei die Ruhe nicht eine Angelegenheit Gottes. Fallen wir nicht in diese Versuchung! Unsere Mühe ist kostbar in den Augen Jesu, der uns aufnimmt und uns wieder aufstehen lässt: „Kommt zu mir, wenn ihr euch plagt und schwere Lasten zu tragen habt. Ich werde euch Ruhe verschaffen“ (vgl. Mt 11,28). Wenn einer weiß, dass er, wenn er todmüde ist, sich in Anbetung niederwerfen und sagen kann: „Genug für heute, Herr“ und vor dem Vater kapitulieren kann, dann weiß er auch, dass er nicht zusammenbricht, sondern sich erneuert, denn wer das gläubige Gottesvolk mit dem Öl der Freude gesalbt hat, den salbt auch der Herr: Er verwandelt seine Asche in ein Diadem, seine Tränen in duftendes Freudenöl, seine Niedergeschlagenheit in Lieder (vgl. Jes 61,3).
Halten wir uns gut vor Augen, dass der Schlüssel der priesterlichen Fruchtbarkeit darin liegt, wie wir ausruhen und spüren, wie der Herr mit unserer Müdigkeit umgeht. Wie schwer ist es, ausruhen zu lernen! Dabei kommt unser Vertrauen ins Spiel und unsere Erinnerung daran, dass auch wir selber Schafe sind und den Hirten brauchen, der uns hilft. Einige Fragen können uns dazu nützlich sein.
Verstehe ich auszuruhen, indem ich die Liebe, die Unentgeltlichkeit und all die Zuneigung empfange, die das gläubige Volk Gottes mir schenkt? Oder suche ich nach der seelsorglichen Arbeit raffiniertere Arten der Entspannung, nicht jene der Armen, sondern die, welche die Konsumgesellschaft bietet? Ist der Heilige Geist für mich wirklich „Ruhe in der Unrast“, oder nur derjenige, der mir Arbeit verschafft? Verstehe ich es, einen weisen Priester um Hilfe zu bitten? Verstehe ich, von mir selber auszuruhen, von meinen selbst gestellten Ansprüchen, von meiner Selbstgefälligkeit, von meiner Selbstbezogenheit? Verstehe ich, mit Jesus, mit dem Vater, mit der Jungfrau Maria und dem heiligen Josef, mit meinen Freunden, den heiligen Schutzpatronen, zu sprechen, um mich auszuruhen in ihren Ansprüchen – die sanft und leicht sind –, in ihrem Wohlgefallen – ihnen gefällt es, in meiner Gesellschaft zu sein – und in ihren Interessen und Bezugspunkten – sie interessiert einzig die Ehre Gottes – …? Verstehe ich, unter dem Schutz des Herrn von meinen Feinden auszuruhen? Argumentiere und plane ich in inneren Selbstgesprächen, indem ich immer wieder über meine Verteidigung nachgrübele, oder vertraue ich mich dem Heiligen Geist an, der mich lehrt, was ich bei jeder Gelegenheit sagen soll? Sorge und mühe ich mich in übertriebener Weise ab, oder finde ich wie Paulus Ruhe, indem ich sage: »Ich weiß, wem ich Glauben geschenkt habe« (2Tim 1,12)?
Gehen wir für einen Moment noch einmal kurz die Aufgaben der Priester durch, die die Liturgie uns heute verkündet: den Armen die frohe Botschaft bringen, den Gefangenen die Entlassung verkünden und den Blinden die Heilung, die Zerschlagenen in Freiheit setzen und das Gnadenjahr des Herrn ausrufen. Jesaja spricht auch davon, die zu heilen, deren Herz zerbrochen ist, und die Trauernden zu trösten.
Das sind keine leichten Aufgaben, es sind keine äußeren Aufgaben wie zum Beispiel die handwerklichen Tätigkeiten – einen neuen Pfarrsaal zu bauen oder die Linien des Fußballplatzes für die Kinder aus dem Jugendzentrum zu ziehen… Die von Jesus erwähnten Pflichten schließen unsere Fähigkeit zum Mitleid ein, es sind Pflichten, in denen unser Herz „bewegt“ und innerlich angerührt wird. Wir freuen uns mit den Verlobten, die heiraten, lachen mit dem Kind, das zur Taufe getragen wird; wir begleiten die jungen Leute, die sich auf Ehe und Familie vorbereiten; wir nehmen Anteil an den Leiden derer, die die Krankensalbung im Spitalbett empfangen; wir weinen mit denen, die eine geliebte Person zu Grabe tragen… So viel Gemütsbewegung… Wenn wir ein offenes Herz haben, dann ermüden diese Gemütsbewegung und so viel liebevolle Zuneigung das Herz des Hirten. Für uns Priester sind die Geschichten unserer Leute kein Nachrichten-Bulletin: Wir kennen unsere Leute, wir können erraten, was in ihrem Herzen vorgeht, und indem wir mit ihnen leiden, zerfasert sich das unsere, teilt sich in tausend Stückchen, ist ergriffen und scheint sogar von den Menschen verzehrt zu werden: „Nehmt und esst!“ Das ist das Wort, das der Priester Jesu ständig flüstert, wenn er sich um sein gläubiges Volk kümmert: Nehmt und esst, nehmt und trinkt… Und so schenkt sich unser Priesterleben hin im Dienst, in der Nähe zum gläubigen Volk Gottes… das immer, immer müde macht.
Ich möchte nun mit euch einige Müdigkeiten nachvollziehen, über die ich meditiert habe.
Da ist jene, die wir „die Müdigkeit von den Leuten, die Müdigkeit von den Menschenmengen“ nennen können: Für den Herrn war sie, wie für uns, anstrengend, aber es ist eine gute Müdigkeit, eine Müdigkeit voller Früchte und Freude. Die Menschen, die ihm folgten, die Familien, die ihm ihre Kinder brachten, damit er sie segnete; jene, die geheilt worden waren, die mit ihren Freunden kamen; die Jugendlichen, die sich für den Rabbi begeisterten… sie ließen ihm nicht einmal die Zeit zum Essen (vgl. Mk 6,31). Doch der Herr fühlte sich nicht belästigt durch den Umgang mit den Leuten. Im Gegenteil: Es schien, als schöpfe er neue Kraft (vgl. Evangelii gaudium, 11). Diese Müdigkeit mitten in unserem Tun ist gewöhnlich eine Gnade, die wir Priester alle „in Griffweite“ haben (vgl. ebd., 279). Wie schön ist das doch: Die Menschen lieben, mögen ihre Hirten und brauchen sie! Das gläubige Volk lässt uns nicht ohne unmittelbare Aufgaben, es sei denn, man verbirgt sich in einem Büro oder fährt mit verdunkelten Scheiben durch die Stadt. Und diese Müdigkeit ist gut, es ist eine gesunde Müdigkeit. Es ist die Müdigkeit des Priesters, dem der Geruch der Schafe anhaftet…, aber mit dem Lächeln von Papa, der seine Kinder oder seine Enkelchen betrachtet. Das hat nichts von denen, die sich mit teuren Parfümen auskennen und dich von ferne und von oben herab ansehen (vgl. ebd. 97). Wir sind die Freunde des Bräutigams, das ist unsere Freude. Wenn Jesus mitten unter uns die Herde weidet, dann können wir keine jammernden Hirten mit saurem Gesicht sein und auch nicht – was noch schlimmer ist – gelangweilte Hirten. Geruch der Schafe und väterliches Lächeln… Ja, sehr müde, aber mit der Freude dessen, der seinen Herrn sagen hört: »Kommt her, die ihr von meinem Vater gesegnet seid« (Mt 25,34).
Es gibt auch die Müdigkeit, die wir „die Müdigkeit von den Feinden“ nennen können. Der Teufel und seine Anhänger schlafen nicht, und da ihre Ohren das Wort Gottes nicht ertragen, arbeiten sie unermüdlich, um es auszuzischen und zu verdrehen. Hier ist die Müdigkeit, ihnen entgegenzutreten, beschwerlicher. Es geht nicht nur darum, Gutes zu tun – mit aller Mühe, die das mit sich bringt –, sondern man muss die Herde und sich selber gegen das Böse verteidigen (vgl. Evangelii gaudium, 83). Der Böse ist schlauer als wir, und er ist fähig, in einem einzigen Moment niederzureißen, was wir geduldig über lange Zeit hin aufgebaut haben. Hier muss man die Gnade erbitten, das Neutralisieren zu erlernen – das ist eine wichtige Regel: lernen zu neutralisieren –, das Böse neutralisieren, nicht das Unkraut ausreißen, sich nicht anmaßen, als Übermenschen das zu verteidigen, was allein der Herr verteidigen muss. All das hilft, nicht die Arme fallen zu lassen angesichts des Umfangs der Bosheit, angesichts des Hohns der Bösen. Das Wort des Herrn für diese Situationen der Müdigkeit lautet: »Habt Mut: Ich habe die Welt besiegt« (Joh 16,33). Und dieses Wort wird uns Kraft geben.
Als letzte – es ist die letzte, damit diese Predigt euch nicht zu sehr ermüdet – gibt es auch die „Müdigkeit von sich selbst“ (vgl. Evangelii gaudium, 277). Das ist vielleicht die gefährlichste. Denn die anderen beiden kommen daher, dass wir ausgesetzt sind, dass wir aus uns herausgehen, um zu salben und uns an die Arbeit zu machen (wir sind diejenigen, die sich kümmern). Diese Müdigkeit ist hingegen mehr selbstbezogen: Es ist die Enttäuschung über sich selbst, der aber nicht ins Gesicht gesehen wird mit der gelassenen Fröhlichkeit dessen, der entdeckt, dass er ein Sünder ist und der Vergebung, der Hilfe bedarf: Ein solcher Mensch bittet um Hilfe und geht voran. Es handelt sich um die Müdigkeit, die das „Wollen und Nicht-Wollen“ hervorbringt, dass man sich ganz ins Spiel gebracht hat und dann dem Knoblauch und den Zwiebeln aus Ägypten nachweint; das Spielen mit der Illusion, etwas anderes zu sein. Diese Müdigkeit nenne ich gerne das „Kokettieren mit der spirituellen Weltlichkeit“. Und wenn einer allein bleibt, wird er gewahr, wie viele Teilbereiche des Lebens von dieser Weltlichkeit durchtränkt sind, und wir haben sogar den Eindruck, kein Bad könne sie reinigen. Hier kann es eine schlechte Müdigkeit geben. Das Wort der Geheimen Offenbarung zeigt uns die Ursache dieser Müdigkeit: »Du hast ausgeharrt und um meines Namens willen Schweres ertragen und bist nicht müde geworden. Ich werfe dir aber vor, dass du deine erste Liebe verlassen hast« (2,3-4). Allein die Liebe schenkt Ruhe. Was man nicht liebt, macht in schlechter Weise müde, und auf lange Sicht ermüdet es noch schlimmer.
Das tiefste und geheimnisvollste Bild für die Weise, wie der Herr mit unserer pastoralen Müdigkeit umgeht, ist die Szene der Fußwaschung: »Da er die Seinen, die in der Welt waren, liebte, erwies er ihnen seine Liebe bis zur Vollendung« (Joh 13,1). Ich betrachte diese Szene gerne als die Waschung der Jüngerschaft. Der Herr reinigt sogar die Jüngerschaft. Er „bringt sich ein“ in unsere Angelegenheiten (Evangelii gaudium, 24), er nimmt es persönlich auf sich, jeden Fleck zu säubern, jenen weltlichen, schmierigen Smog, der sich auf dem Weg, den wir in seinem Namen zurückgelegt haben, auf uns gelegt hat.
Wir wissen, dass man an den Füßen ablesen kann, wie es um unseren ganzen Körper steht. In der Weise, wie wir dem Herrn nachfolgen, zeigt sich, wie es um unser Herz steht. Die Wunden an den Füßen, die Verrenkungen und die Müdigkeit sind ein Zeichen dafür, wie wir ihm nachgefolgt sind, welche Wege wir gegangen sind, um seine verlorenen Schafe aufzuspüren und zu versuchen, die Herde auf die grünen Auen und zum Ruheplatz am Wasser zu führen (vgl. Ps 23,2; Evangelii gaudium, 270). Der Herr wäscht und reinigt uns von alldem, was sich auf unseren Füßen angesammelt hat, weil wir ihm gefolgt sind. Und das ist heilig. Er lässt nicht zu, dass es befleckt bleibt. Wie er die Kriegsverletzungen küsst, so wäscht er den Schmutz, den die Arbeit hinterlassen hat.
Die Jüngerschaft Jesu wird vom Herrn selbst gewaschen, damit wir uns berechtigt fühlen, „fröhlich“, „erfüllt“, „frei von Angst und Schuld“ zu sein, und so den Mut haben, aufzubrechen und „bis an die Grenzen der Erde, zu allen Peripherien“ (vgl. Apg 1,8) zu gehen, um diese frohe Botschaft zu den Verlassensten zu bringen, in dem Bewusstsein, dass er „bei uns ist alle Tage bis zum Ende der Welt“ (vgl. Mt 25,20). Und bitte, beten wir um die Gnade, zu lernen, müde zu sein, aber müde in guter Weise!
[00526-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]
Traduzione in lingua spagnola
«Lo sostendrá mi mano y le dará fortaleza mi brazo» (Sal 88,22), así piensa el Señor cuando dice para sí: «He encontrado a David mi servidor y con mi aceite santo lo he ungido» (v. 21). Así piensa nuestro Padre cada vez que «encuentra» a un sacerdote. Y agrega más: «Contará con mi amor y mi lealtad. Él me podrá decir: Tú eres mi padre, el Dios que me protege y que me salva» (v. 25.27).
Es muy hermoso entrar, con el Salmista, en este soliloquio de nuestro Dios. Él habla de nosotros, sus sacerdotes, sus curas; pero no es realmente un soliloquio, no habla solo: es el Padre que le dice a Jesús: «Tus amigos, los que te aman, me podrán decir de una manera especial: ”Tú eres mi Padre”» (cf. Jn 14,21). Y, si el Señor piensa y se preocupa tanto en cómo podrá ayudarnos, es porque sabe que la tarea de ungir al pueblo fiel es dura; nos lleva al cansancio y a la fatiga. Lo experimentamos en todas sus formas: desde el cansancio habitual de la tarea apostólica cotidiana hasta el de la enfermedad y la muerte e incluso a la consumación en el martirio.
El cansancio de los sacerdotes... ¿Sabéis cuántas veces pienso en esto: en el cansancio de todos vosotros? Pienso mucho y ruego a menudo, especialmente cuando el cansado soy yo. Rezo por los que trabajais en medio del pueblo fiel de Dios que les fue confiado, y muchos en lugares muy abandonados y peligrosos. Y nuestro cansancio, queridos sacerdotes, es como el incienso que sube silenciosamente al cielo (cf. Sal 140,2; Ap 8,3-4). Nuestro cansancio va directo al corazón del Padre.
Estén seguros que la Virgen María se da cuenta de este cansancio y se lo hace notar enseguida al Señor. Ella, como Madre, sabe comprender cuándo sus hijos están cansados y no se fija en nada más. «Bienvenido. Descansa, hijo mío. Después hablaremos... ¿No estoy yo aquí, que soy tu Madre?», nos dirá siempre que nos acerquemos a Ella (cf. Evangelii gaudium, 28,6). Y a su Hijo le dirá, como en Caná: «No tienen vino».
Sucede también que, cuando sentimos el peso del trabajo pastoral, nos puede venir la tentación de descansar de cualquier manera, como si el descanso no fuera una cosa de Dios. No caigamos en esta tentación. Nuestra fatiga es preciosa a los ojos de Jesús, que nos acoge y nos pone de pie: «Venid a mí cuando estéis cansados y agobiados, que yo os aliviaré» (Mt 11,28). Cuando uno sabe que, muerto de cansancio, puede postrarse en adoración, decir: «Basta por hoy, Señor», y claudicar ante el Padre; uno sabe también que no se hunde sino que se renueva porque, al que ha ungido con óleo de alegría al pueblo fiel de Dios, el Señor también lo unge, «le cambia su ceniza en diadema, sus lágrimas en aceite perfumado de alegría, su abatimiento en cánticos» (Is 61,3).
Tengamos bien presente que una clave de la fecundidad sacerdotal está en el modo como descansamos y en cómo sentimos que el Señor trata nuestro cansancio. ¡Qué difícil es aprender a descansar! En esto se juega nuestra confianza y nuestro recordar que también somos ovejas. Pueden ayudarnos algunas preguntas a este respecto.
¿Sé descansar recibiendo el amor, la gratitud y todo el cariño que me da el pueblo fiel de Dios? O, luego del trabajo pastoral, ¿busco descansos más refinados, no los de los pobres sino los que ofrece el mundo del consumo? ¿El Espíritu Santo es verdaderamente para mí «descanso en el trabajo» o sólo aquel que me da trabajo? ¿Sé pedir ayuda a algún sacerdote sabio? ¿Sé descansar de mí mismo, de mi auto-exigencia, de mi auto-complacencia, de mi auto-referencialidad? ¿Sé conversar con Jesús, con el Padre, con la Virgen y San José, con mis santos protectores amigos para reposarme en sus exigencias —que son suaves y ligeras—, en sus complacencias —a ellos les agrada estar en mi compañía—, en sus intereses y referencias —a ellos sólo les interesa la mayor gloria de Dios—? ¿Sé descansar de mis enemigos bajo la protección del Señor? ¿Argumento y maquino yo solo, rumiando una y otra vez mi defensa, o me confío al Espíritu que me enseña lo que tengo que decir en cada ocasión? ¿Me preocupo y me angustio excesivamente o, como Pablo, encuentro descanso diciendo: «Sé en Quién me he confiado»(2 Tm 1,12)?
Repasemos un momento las tareas de los sacerdotes que hoy nos proclama la liturgia: llevar a los pobres la Buena Nueva, anunciar la liberación a los cautivos y la curación a los ciegos, dar libertad a los oprimidos y proclamar el año de gracia del Señor. E Isaías agrega: curar a los de corazón quebrantado y consolar a los afligidos.
No son tareas fáciles, exteriores, como por ejemplo el manejo de cosas —construir un nuevo salón parroquial, o delinear una cancha de fútbol para los jóvenes del Oratorio... —; las tareas mencionadas por Jesús implican nuestra capacidad de compasión, son tareas en las que nuestro corazón es «movido» y conmovido. Nos alegramos con los novios que se casan, reímos con el bebé que traen a bautizar; acompañamos a los jóvenes que se preparan para el matrimonio y a las familias; nos apenamos con el que recibe la unción en la cama del hospital, lloramos con los que entierran a un ser querido... Tantas emociones, tanto afecto, fatigan el corazón del Pastor. Para nosotros sacerdotes las historias de nuestra gente no son un noticiero: nosotros conocemos a nuestro pueblo, podemos adivinar lo que les está pasando en su corazón; y el nuestro, al compadecernos (al padecer con ellos), se nos va deshilachando, se nos parte en mil pedacitos, y es conmovido y hasta parece comido por la gente: «Tomad, comed». Esa es la palabra que musita constantemente el sacerdote de Jesús cuando va atendiendo a su pueblo fiel: «Tomad y comed, tomad y bebed...». Y así nuestra vida sacerdotal se va entregando en el servicio, en la cercanía al pueblo fiel de Dios... que siempre cansa.
Quisiera ahora compartir con vosotros algunos cansancios en los que he meditado.
Está el que podemos llamar «el cansancio de la gente, de las multitudes»: para el Señor, como para nosotros, era agotador —lo dice el evangelio—, pero es cansancio del bueno, cansancio lleno de frutos y de alegría. La gente que lo seguía, las familias que le traían sus niños para que los bendijera, los que habían sido curados, que venían con sus amigos, los jóvenes que se entusiasmaban con el Rabí..., no le dejaban tiempo ni para comer. Pero el Señor no se hastiaba de estar con la gente. Al contrario, parecía que se renovaba (cf. Evangelii gaudium, 11). Este cansancio en medio de nuestra actividad suele ser una gracia que está al alcance de la mano de todos nosotros, sacerdotes (cf. ibíd., 279). iQué bueno es esto: la gente ama, quiere y necesita a sus pastores! El pueblo fiel no nos deja sin tarea directa, salvo que uno se esconda en una oficina o ande por la ciudad en un auto con vidrios polarizados. Y este cansancio es bueno, es sano. Es el cansancio del sacerdote con olor a oveja..., pero con sonrisa de papá que contempla a sus hijos o a sus nietos pequeños. Nada que ver con esos que huelen a perfume caro y te miran de lejos y desde arriba (cf. ibíd., 97). Somos los amigos del Novio, esa es nuestra alegría. Si Jesús está pastoreando en medio de nosotros, no podemos ser pastores con cara de vinagre, quejosos ni, lo que es peor, pastores aburridos. Olor a oveja y sonrisa de padres... Sí, bien cansados, pero con la alegría de los que escuchan a su Señor decir: «Venid a mí, benditos de mi Padre» (Mt 25,34).
También se da lo que podemos llamar «el cansancio de los enemigos». El demonio y sus secuaces no duermen y, como sus oídos no soportan la Palabra, trabajan incansablemente para acallada o tergiversarla. Aquí el cansancio de enfrentarlos es más arduo. No sólo se trata de hacer el bien, con toda la fatiga que conlleva, sino que hay que defender al rebaño y defenderse uno mismo contra el mal (cf. Evangelii gaudium, 83). El maligno es más astuto que nosotros y es capaz de tirar abajo en un momento lo que construimos con paciencia durante largo tiempo. Aquí necesitamos pedir la gracia de aprender a neutralizar: neutralizar el mal, no arrancar la cizaña, no pretender defender como superhombres lo que sólo el Señor tiene que defender. Todo esto ayuda a no bajar los brazos ante la espesura de la iniquidad, ante la burla de los malvados. La palabra del Señor para estas situaciones de cansancio es: «No temáis, yo he vencido al mundo» (Jn 16,33).
Y por último —para que esta homilia no os canse— está también «el cansancio de uno mismo» (cf. Evangelii gaudium, 277). Es quizás el más peligroso. Porque los otros dos provienen de estar expuestos, de salir de nosotros mismos a ungir y a pelear (somos los que cuidamos). Este cansancio, en cambio, es más auto-referencial; es la desilusión de uno mismo pero no mirada de frente, con la serena alegría del que se descubre pecador y necesitado de perdón: este pide ayuda y va adelante. Se trata del cansancio que da el «querer y no querer», el haberse jugado todo y después añorar los ajos y las cebollas de Egipto, el jugar con la ilusión de ser otra cosa. A este cansancio, me gusta llamarlo «coquetear con la mundanidad espiritual». Y, cuando uno se queda solo, se da cuenta de que grandes sectores de la vida quedaron impregnados por esta mundanidad y hasta nos da la impresión de que ningún baño la puede limpiar. Aquí sí puede haber cansancio malo. La palabra del Apocalipsis nos indica la causa de este cansancio: «Has sufrido, has sido perseverante, has trabajado arduamente por amor de mi nombre y no has desmayado. Pero tengo contra ti que has dejado tu primer amor» (2,3-4). Sólo el amor descansa. Lo que no se ama cansa y, a la larga, cansa mal.
La imagen más honda y misteriosa de cómo trata el Señor nuestro cansancio pastoral es aquella del que «habiendo amado a los suyos, los amó hasta el extremo» (Jn 13,1): la escena del lavatorio de los pies. Me gusta contemplarla como el lavatorio del seguimiento. El Señor purifica el seguimiento mismo, él se «involucra» con nosotros (cf. Evangelii gaudium, 24), se encarga en persona de limpiar toda mancha, ese mundano smog untuoso que se nos pegó en el camino que hemos hecho en su nombre.
Sabemos que en los pies se puede ver cómo anda todo nuestro cuerpo. En el modo de seguir al Señor se expresa cómo anda nuestro corazón. Las llagas de los pies, las torceduras y el cansancio son signo de cómo lo hemos seguido, por qué caminos nos metimos buscando a sus ovejas perdidas, tratando de llevar el rebaño a las verdes praderas y a las fuentes tranquilas (cf. ibíd. 270). El Señor nos lava y purifica de todo lo que se ha acumulado en nuestros pies por seguirlo. Eso es sagrado. No permite que quede manchado. Así como las heridas de guerra él las besa, la suciedad del trabajo él la lava.
El seguimiento de Jesús es lavado por el mismo Señor para que nos sintamos con derecho a estar «alegres», «plenos», «sin temores ni culpas» y nos animemos así a salir e ir «hasta los confines del mundo, a todas las periferias», a llevar esta buena noticia a los más abandonados, sabiendo que él está con nosotros, todos los días, hasta el fin del mundo (cf. Mt 28,21). Y sepamos aprender a estar cansados, pero ibien cansados!
[00526-ES.02] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua portoghese
«A minha mão estará sempre com ele / e o meu braço há-de torná-lo forte» (Sl 89/88, 22). Assim pensa o Senhor, quando diz para consigo: «Encontrei David, meu servo, / e ungi-o com óleo santo» (v. 21). Assim pensa o nosso Pai cada vez que «encontra» um padre. E acrescenta: «A minha fidelidade e o meu amor estarão com ele / (...) Ele me invocará, dizendo: “Tu és meu pai, / és o meu Deus e o rochedo da minha salvação”» (vv. 25.27).
Faz-nos muito bem entrar, com o Salmista, neste solilóquio do nosso Deus. Ele fala de nós, os seus sacerdotes, os seus padres; na realidade, porém, não é um solilóquio, não fala sozinho. É o Pai que diz a Jesus: «Os teus amigos, aqueles que Te amam, poderão dizer-Me de uma maneira especial: “Tu és o meu Pai”» (cf. Jo 14, 21). E, se o Senhor pensa e Se preocupa tanto com o modo como poderá ajudar-nos, é porque sabe que a tarefa de ungir o povo fiel não é fácil, é dura; causa fadiga e leva-nos ao cansaço. E nós experimentamo-lo em todas as suas formas: desde o cansaço habitual do trabalho apostólico diário até ao da doença e da morte, incluindo o consumar-se no martírio.
O cansaço dos sacerdotes! Sabeis quantas vezes penso nisto, no cansaço de todos vós? Penso muito e rezo com frequência, especialmente quando sou eu que estou cansado. Rezo por vós que trabalhais no meio do povo fiel de Deus, que vos foi confiado; e muitos fazem-no em lugares demasiado isolados e perigosos. E o nosso cansaço, queridos sacerdotes, é como o incenso que sobe silenciosamente ao Céu (cf. Sl 141/140, 2; Ap 8, 3-4). O nosso cansaço eleva-se directamente ao coração do Pai.
Estai certos de que também Nossa Senhora Se dá conta deste cansaço e, imediatamente, fá-lo notar ao Senhor. Como Mãe, sabe compreender quando os seus filhos estão cansados, e só disso se preocupa. «Bem-vindo! Descansa, filho. Depois falamos... Não estou aqui eu, que sou tua Mãe?»: dir-nos-á ao abeirarmo-nos d’Ela (cf. Evangelii gaudium, 286). E dirá, ao seu Filho, como em Caná: «Não têm vinho!» (Jo 2, 3).
Pode acontecer também que, ao sentir o peso do trabalho pastoral, nos venha a tentação de descansarmos de um modo qualquer, como se o repouso não fosse uma coisa de Deus. Não caiamos nesta tentação! A nossa fadiga é preciosa aos olhos de Jesus, que nos acolhe e faz levantar o ânimo: «Vinde a Mim, todos os que estais cansados e oprimidos, que Eu hei-de aliviar-vos» (Mt 11, 28). Se uma pessoa sabe que, morta de cansaço, pode prostrar-se em adoração e dizer: «Senhor, por hoje basta!», rendendo-se ao Pai, sabe também que, ao fazê-lo, não cai mas renova-se, pois o Senhor que ungiu com o óleo da alegria o povo fiel de Deus, também a unge a ela: «Muda a sua cinza em coroa, o seu semblante triste em perfume de festa e o seu abatimento em cantos de festa» (cf. Is 61, 3).
Tenhamos bem em mente que uma chave da fecundidade sacerdotal reside na forma como repousamos e como sentimos que o Senhor cuida do nosso cansaço. Como é difícil aprender a repousar! Nisto transparece a nossa confiança e a consciência de que também nós somos ovelhas e temos necessidade do pastor que nos ajude. A propósito, podem ajudar-nos algumas perguntas.
Sei repousar recebendo o amor, a gratidão e todo o carinho que me dá o povo fiel de Deus? Ou, depois do trabalho pastoral, procuro repousos mais refinados: não os repousos dos pobres, mas os que oferece a sociedade de consumo? O Espírito Santo é verdadeiramente, para mim, «repouso na fadiga», ou apenas Aquele que me faz trabalhar? Sei pedir ajuda a qualquer sacerdote experiente? Sei repousar de mim mesmo, da minha auto-exigência, da minha auto-complacência, da minha auto-referencialidade? Sei conversar com Jesus, com o Pai, com a Virgem Maria e São José, com os meus Santos padroeiros e amigos, para repousar nas suas exigências – que são suaves e leves – nas suas complacências – eles gostam de estar na minha companhia – e nos seus interesses e referências – só lhes interessa a maior glória de Deus? Sei repousar dos meus inimigos, sob a protecção do Senhor? Vou argumentando, tecendo e ruminando repetidamente cá para comigo a minha defesa, ou confio-me ao Espírito Santo que me ensina o que devo dizer em cada ocasião? Preocupo-me e afano-me excessivamente ou encontro repouso, dizendo como Paulo: «Sei em quem acreditei» (2 Tm 1, 12).
Repassemos brevemente os compromissos dos sacerdotes, que proclama a liturgia de hoje: levar a Boa-Nova aos pobres, anunciar a libertação aos cativos e a cura aos cegos, dar a liberdade aos oprimidos e proclamar o ano de graça do Senhor. Isaías diz também cuidar daqueles que têm o coração despedaçado e consolar os aflitos.
Não são tarefas fáceis, não são tarefas externas, como, por exemplo, as actividades manuais: construir um novo salão paroquial, ou traçar as linhas dum campo de futebol para os jovens do oratório, etc. Os compromissos mencionados por Jesus envolvem a nossa capacidade de compaixão: são compromissos nos quais o nosso coração estremece e se comove. Alegramo-nos com os noivos que vão casar; rimos com a criança que trazem para baptizar; acompanhamos os jovens que se preparam para o matrimónio e para ser família; entristecemo-nos com quem recebe a extrema-unção no leito do hospital; choramos com os que enterram uma pessoa querida... Tantas emoções! Se tivermos o coração aberto, estas emoções e tanto carinho cansam o coração do pastor. Para nós, sacerdotes, as histórias do nosso povo não são um noticiário: conhecemos a nossa gente, podemos adivinhar o que se passa no seu coração; e o nosso, sofrendo com eles, vai-se desgastando, divide-se em mil pedaços, compadece-se e parece até ser comido pelas pessoas: tomai, comei. Esta é a palavra que o sacerdote de Jesus sussurra sem cessar, quando está a cuidar do seu povo fiel: tomai e comei, tomai e bebei... E, assim, a nossa vida sacerdotal se vai doando no serviço, na proximidade ao povo fiel de Deus, etc., o que sempre, sempre cansa.
Gostaria agora de partilhar convosco alguns cansaços, em que meditei.
Temos aquele que podemos chamar «o cansaço do povo, o cansaço das multidões»: para o Senhor, como o é para nós, era desgastante – di-lo o Evangelho – mas é um cansaço bom, um cansaço cheio de frutos e de alegria. O povo que O seguia, as famílias que Lhe traziam os seus filhos para que os abençoasse, aqueles que foram curados e voltavam com os seus amigos, os jovens que se entusiasmavam com o Mestre… Não Lhe deixavam sequer tempo para comer. Mas o Senhor não Se aborrecia de estar com a gente. Antes pelo contrário, parecia que ganhava nova energia (cf. Evangelii gaudium, 11). Este cansaço habitual no meio da nossa actividade é uma graça que está ao alcance de todos nós, sacerdotes (cf. ibid., 279). Como é belo tudo isto: o povo amar, desejar e precisar dos seus pastores! O povo fiel não nos deixa sem actividade directa, a não ser que alguém se esconda num escritório ou passe pela cidade com vidros escuros. E este cansaço é bom, é um cansaço saudável. É o cansaço do sacerdote com o cheiro das ovelhas, mas com o sorriso de um pai que contempla os seus filhos ou os seus netinhos. Isto não tem nada a ver com aqueles que conhecem perfumes caros e te olham de cima e de longe (cf. ibid., 97). Somos os amigos do noivo: esta é a nossa alegria. Se Jesus está apascentando o rebanho no meio de nós, não podemos ser pastores com a cara azeda ou melancólica, nem – o que é pior – pastores enjoados. Cheiro de ovelhas e sorriso de pais... Muito cansados, sim; mas com a alegria de quem ouve o seu Senhor que diz: «Vinde, benditos de meu Pai!» (Mt 25, 34).
Existe depois aquele que podemos chamar «o cansaço dos inimigos». O diabo e os seus sectários não dormem e, uma vez que os seus ouvidos não suportam a Palavra de Deus, trabalham incansavelmente para a silenciar ou distorcer. Aqui o cansaço de enfrentá-los é mais árduo. Não se trata apenas de fazer o bem, com toda a fadiga que isso implica, mas é preciso também defender o rebanho e defender-se a si mesmo do mal (cf. Evangelii gaudium, 83). O maligno é mais astuto do que nós e é capaz de destruir num instante aquilo que construímos pacientemente durante muito tempo. Aqui é preciso pedir a graça de aprender a neutralizar (é um hábito importante: aprender a neutralizar): neutralizar o mal, não arrancar a cizânia, não pretender defender como super-homens aquilo que só o Senhor deve defender. Tudo isto nos ajuda a não deixarmos cair os braços à vista da espessura da iniquidade, frente à zombaria dos malvados. Eis a palavra do Senhor para estas situações de cansaço: «Tende confiança! Eu já venci o mundo» (Jo 16, 33). E esta palavra dar-nos-á força.
E, por último (último, para que esta homilia não vos canse demasiado!), há também «o cansaço de nós próprios» (cf. Evangelii gaudium, 277). É talvez o mais perigoso. Porque os outros dois derivam do facto de estarmos expostos, de sairmos de nós mesmos para ungir e servir (somos aqueles que cuidam). Diversamente, este cansaço é mais auto-referencial: é a desilusão com nós mesmos, mas sem a encararmos de frente, com a alegria serena de quem se descobre pecador e carecido de perdão, de ajuda; é que, neste caso, a pessoa pede ajuda e segue em frente. Trata-se do cansaço que resulta de «querer e não querer», de ter apostado tudo e depois pôr-se a chorar pelos alhos e as cebolas do Egipto, de jogar com a ilusão de sermos outra coisa qualquer. Gosto de lhe chamar o cansaço de «fazer a corte ao mundanismo espiritual». E, quando uma pessoa fica sozinha, dá-se conta de quantos sectores da vida foram impregnados por este mundanismo e temos até a impressão de que não há banho que o possa lavar. Aqui pode haver um cansaço mau. A palavra do Apocalipse indica-nos a causa deste cansaço: «Tens constância, sofreste por causa de Mim, sem te cansares. No entanto, tenho uma coisa contra ti: abandonaste o teu primeiro amor» (2, 3-4). Só o amor dá repouso. Aquilo que não se ama, cansa de forma má; e, com o passar do tempo, cansa de forma pior.
A imagem mais profunda e misteriosa do modo como o Senhor cuida do nosso cansaço pastoral – «Ele que amara os seus (…), levou o seu amor por eles até ao extremo» (Jo 13,1) – é a cena do lava-pés. Gosto de a contemplar como o lava-seguimento. O Senhor purifica o próprio seguimento, Ele «envolve-Se» connosco (Evangelii gaudium, 24), tem pessoalmente o cuidado de lavar todas as manchas, aquela sujeira mundana e gordurosa que se apegou a nós no caminho que percorremos em seu Nome.
Sabemos que, nos pés, se pode ver como está todo o nosso corpo. No modo de seguir o Senhor, manifesta-se como está o nosso coração. As chagas dos pés, os entorses e o cansaço são sinal de como O seguimos, das estradas que percorremos à procura das ovelhas perdidas, tentando conduzir o rebanho aos prados verdejantes e às águas tranquilas (cf. ibid., 270). O Senhor lava-nos e purifica-nos de tudo aquilo que se acumulou nos nossos pés ao segui-Lo. E isto é sagrado. Não permitais que fique manchado. Como Ele beija as feridas de guerra, assim lava a sujeira do trabalho.
O seguimento de Jesus é lavado pelo próprio Senhor para que nos sintamos no direito de ser e viver «alegres», «satisfeitos», «sem medo nem culpa» e, assim, tenhamos a coragem de sair e ir, «a todas as periferias até aos confins do mundo», levar esta Boa-Nova aos mais abandonados, sabendo que «Ele estará sempre connosco até ao fim dos tempos». E, por favor, peçamos a graça de aprender a estar cansados, mas com um cansaço bom!
[00526-PO.02] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua polacca
„By moja ręka zawsze przy nim była i wspomagało go moje ramię” (Ps 88,22). Tak myśli Pan, gdy mówi: „Znalazłem Dawida, sługę mojego, namaściłem go świętym olejem moim” (w. 21). Tak myśli nasz Ojciec za każdym razem, kiedy „znajduje” kapłana. I dodaje jeszcze: „Z nim moja wierność i łaska... On będzie wołał do Mnie: «Ty jesteś moim Ojcem, Bogiem moim i Skałą mojego ocalenia»” (ww 25.27.).
To wspaniale wejść, wraz z Psalmistą w to solilokwium naszego Boga. Mówi On o nas, swoich kapłanach, swoich księżach, ale w istocie nie jest to solilokwium, nie mówi On sam: jest Ojcem, który mówi do Jezusa: „Twoi przyjaciele, ci którzy Ciebie kochają mogą szczególnie mi powiedzieć: Ty jesteś moim Ojcem” (por. J 14,21). A jeśli Pan myśli i troszczy się tak bardzo o to, jak mógłby nam pomóc, to dzieje się tak ponieważ wie, iż zadanie namaszczenia ludu wiernego nie jest łatwe, jest trudne. Prowadzi nas do zmęczenia i znużenia. Doświadczamy tego we wszystkich formach: od zwykłego zmęczenia codziennej pracy apostolskiej, aż po znużenie chorobą i śmierć, w tym spalanie się w męczeństwie.
Zmęczenie kapłanów! Wiecie, ile razy o tym myślę: zmęczeniu was wszystkich? Dużo o tym myślę i często się modlę, zwłaszcza kiedy sam jestem zmęczony. Modlę się za was, którzy pracujecie pośród powierzonego wam wiernego ludu Bożego, przy tym wielu w miejscach dość opuszczonych i niebezpiecznych. A nasze zmęczenie, drodzy kapłani, jest jak kadzidło, które w milczeniu wznosi się do nieba (por. Ps 140,2; Ap 8,3- 4). Nasze zmęczenie idzie prosto do serca Ojca.
Bądźcie pewni, że Matka Boża zdaje sobie sprawę z tego zmęczenia i natychmiast zwraca na to uwagę Panu. Ona, jako matka, potrafi zrozumieć, kiedy jej dzieci są zmęczone i nie myśli o niczym innym. „Witaj! Odpocznij synu. Porozmawiamy później... Czyż nie jestem tutaj ja, twoja Matka?” – powie nam zawsze, gdy do Niej przychodzimy (por. Evangelii gaudium, 286). A swojemu Synowi powie tak, jak w Kanie Galilejskiej: „Nie mają już wina” (J 2,3).
Zdarza się również, że kiedy czujemy ciężar pracy duszpasterskiej, może pojawić się pokusa, by odpoczywać byle jak, jakby odpoczynek nie był Bożą rzeczą. Nie popadajmy w tę pokusę. Nasze zmęczenie jest cenne w oczach Jezusa, który nas przyjmuje i podnosi: „Przyjdźcie do Mnie wszyscy, którzy utrudzeni i obciążeni jesteście, a Ja was pokrzepię” (Mt 11, 28). Kiedy ktoś wie, że śmiertelnie zmęczony, może paść w adoracji, mówiąc: „Na dziś wystarczy, Panie” i skapitulować przed Ojcem, to wie on również, że nie pada, ale się odnawia, ponieważ tego, który namaścił olejkiem wesela wierny lud Boży, tego również namaszcza Pan, daje mu wieniec zamiast popiołu, olejek radości zamiast szaty smutku, pieśń chwały zamiast zgnębienia na duchu” (Iz 61,3).
Dobrze zapamiętajmy, że kluczem owocności kapłańskiej jest to, jak odpoczywamy i jak odczuwamy, że Pan posługuje się naszym zmęczeniem. Jakże trudno nauczyć się odpoczynku! W grę wchodzi tutaj nasze zaufanie i nasza pamięć, że także i my jesteśmy owcami i potrzebujemy pasterza, który nam pomoże. Pod tym względem może nam pomóc kilka pytań.
Czy potrafię odpoczywać przyjmując miłość, wdzięczność i całą serdeczność, jaką obdarza mnie wierny lud Boży? Czy też po pracy duszpasterskiej szukam odpoczynków bardziej wyrafinowanych, nie odpoczynków ludzi ubogich, ale tych, jakie oferuje społeczeństwo konsumpcyjne? Czy Duch Święty jest dla mnie naprawdę „w trudzie odpocznieniem?”, czy też jedynie Tym, który każe mi pracować? Czy potrafię prosić o pomoc jakiegoś mądrego kapłana? Czy potrafię odpocząć od siebie samego, od moich wymagań wobec siebie, samozadowolenia, obracania się wokół siebie? Czy potrafię rozmawiać z Jezusem, z Ojcem, z Maryją i świętym Józefem, z moimi przyjaciółmi – świętymi patronami, aby odpocząć w ich wymaganiach – które są słodkie i lekkie –, w ich upodobaniu – lubią być w moim towarzystwie –, w tym, co ich interesuje i jest przedmiotem ich odniesienia – interesuje ich jedynie większa chwała Boża – ...? Czy potrafię odpoczywać od moich nieprzyjaciół pod ochroną Pana? Czy spieram się i intryguję w samym sobie, obmyślając wiele razy moją obronę, czy też powierzam się Duchowi Świętemu, który uczy mnie tego, co powinienem powiedzieć przy każdej okazji? Czy zbytnio się troszczę i niepokoję, czy też jak Paweł, znajduję wytchnienie, mówiąc: „wiem, komu uwierzyłem” (2 Tm 1,12)?
Spójrzmy przez chwilę na obowiązki kapłanów, jakie dziś głosi nam liturgia: ubogim nieść dobrą nowinę, więźniom głosić wolność, a niewidomym przejrzenie; uciśnionych obdarzać wolnością i obwoływać rok łaski od Pana. Izajasz mówi również, by opatrywać rany serc złamanych i pocieszać zasmuconych.
Nie są to łatwe zadania, nie są to zadania zewnętrzne, takie jak czynności manualne – zbudować nowy dom parafialny, lub wytyczyć linie boiska do piłki nożnej dla młodych z oratorium…; zadania wymienione przez Jezusa wiążą się z naszą zdolnością do współczucia, to zadania, w których nasze serce jest „poruszone” i wzruszone. Radujemy się z narzeczonymi, którzy się pobierają, śmiejemy się z dzieckiem, które przynoszą do chrztu; towarzyszymy ludziom młodym, przygotowującym się do sakramentu małżeństwa i życia w rodzinie; smucimy się z tymi, którzy otrzymują namaszczenie na szpitalnym łóżku; płaczemy z tymi, którzy chowają ukochaną osobę... Tyle emocji… Jeśli mamy otwarte serce, te emocje, tyle uczuć, trudzą serca duszpasterza. Dla nas, kapłanów historie naszych ludzi nie są kroniką aktualności: znamy naszych wiernych, możemy się domyślać, co dzieje się w ich sercach. A nasze serce, cierpiąc wraz z nimi, rozdziera się, dzieli się na tysiąc kawałków, jest wzruszone, zdaje się wręcz skonsumowane przez ludzi: bierzcie, jedzcie. To jest słowo, jakie kapłan Jezusa stale szepcze, troszcząc się o swój wierny lud: bierzcie i jedzcie, bierzcie i pijcie... W ten sposób nasze kapłańskie życie dawane jest w służbie, w bliskości wiernemu Ludowi Bożemu..., to zawsze, zawsze trudzi.
Chciałbym teraz podzielić się z wami niektórymi zmęczeniami, nad którymi się zastanawiałem.
Istnieje takie zmęczenie, które można nazwać „zmęczeniem ludźmi, zmęczeniem tłumami”: Jak mówi Ewangelia, dla Pana, podobnie jak dla nas, było to wyczerpujące, ale jest to dobre zmęczenie, zmęczenie pełne owoców i radości. Ludzie, którzy za Nim szli, rodziny, które przynosiły Mu swoje dzieci, aby je błogosławił, ci którzy zostali uzdrowieni, którzy przychodzili ze swymi przyjaciółmi, ludzie młodzi, którzy zachwycali się Nauczycielem..., nie zostawiali Mu nawet czasu na jedzenie. Ale Pan nie męczył się przebywając z ludźmi. Wręcz przeciwnie: wydawało się, że odzyskiwał siły (por. Evangelii gaudium, 11). To zmęczenie pośród naszych działań jest zazwyczaj łaską, będącą w zasięgu ręki każdego z nas kapłanów (por. tamże, 279). Jakże to piękne: ludzie kochają, pragną i potrzebują swoich pasterzy! Wierny lud nie zostawia nas bez bezpośredniego zaangażowania, chyba że ktoś się ukrywa w biurze lub jedzie do miasta z przyciemnionymi szybami. I to zmęczenie jest dobre, jest to zmęczenie zdrowe. Jest to zmęczenie kapłana z zapachem owiec..., ale z uśmiechem ojca, który podziwia swoje dzieci czy wnuki. Nie ma to nic wspólnego z tymi, którzy zaznają drogich perfum i patrzą na ciebie z wysoka i z daleka (por. tamże, 97). Jesteśmy przyjaciółmi Oblubieńca, to jest nasza radość. Jeśli Jezus pasie swoją owczarnię pośród nas, to nie możemy być pasterzami z kwaśną miną, narzekającymi, czy – co gorsze – pasterzami znudzonymi. Zapach owiec i uśmiech ojców... Mimo, że zmęczeni, ale z radością tych, którzy słuchają swego Pana mówiącego: „Pójdźcie, błogosławieni Ojca mojego” (Mt 25,34).
Istnieje także „zmęczenie przeciwnikami”. Diabeł i ci, którzy za nim idą, nie śpią, a zważywszy, że ich uszy nie mogą znieść Słowa Bożego, niestrudzenie działają, aby je uciszyć, albo wypaczyć. Tutaj zmęczenie w stawianiu im czoła jest trudniejsze. Chodzi nie tylko o czynienie dobra, z całym wysiłkiem, jakie to za sobą pociąga, ale trzeba bronić owczarni i samych siebie od zła (por. Evangelii gaudium, 83). Zły jest bardziej przebiegły od nas i zdolny jest do zniszczenia w jednej chwili tego, co cierpliwie budowaliśmy przez długi czas. Tutaj musimy prosić o łaskę uczenia się i neutralizowania – to ważny nawyk: uczyć się neutralizować - neutralizować zło, nie wyrywać kąkolu, nie usiłować bronić jak supermen tego, co jedynie Pan musi obronić. Wszystko to pomaga uniknąć opuszczenia rąk przed ogromem nieprawości, przed szyderstwem niegodziwych. Słowo Pana dla takich sytuacji zmęczenia to: „Miejcie odwagę: Jam zwyciężył świat” (J 16,33). To słowo daje nam siłę.
I wreszcie na końcu – żeby ta homilia zbytnio was nie znużyła – jest też „zmęczenie samymi sobą” (por. Evangelii gaudium, 277). Jest ono być może najbardziej niebezpieczne. Ponieważ dwa pozostałe zmęczenia wypływają z faktu bycia narażonymi, wyjścia od siebie, aby namaścić i pracować (jesteśmy tymi, którzy otaczają troską). To zmęczenie jest natomiast bardziej skoncentrowane na sobie: jest rozczarowaniem samymi sobą, któremu nie stawiliśmy czoła, z pogodną radością tych, którzy odkrywają, że są grzesznikami, potrzebującymi przebaczenia, pomocy: ci proszą o pomoc i idą dalej. Chodzi o zmęczenie, powodujące, że „chcę i nie chcę” postawić wszystko na jedną kartę, a potem żałować czosnku i cebuli w Egipcie – zabawa z iluzją, że jest się kimś innym. To zmęczenie chciałbym nazywać „flirtowaniem ze światowością duchową”. A kiedy zostajemy sami, zdajemy sobie sprawę, jak wiele dziedzin życia zostało przesączonych tą światowością, a nawet mamy wrażenie, że w żadnej kąpieli nie można jej oczyścić. Może to być tutaj złe zmęczenie. Słowo Apokalipsy wskazuje nam przyczynę tego zmęczenia: „Ty masz wytrwałość: i zniosłeś cierpienie dla imienia mego – niezmordowany. Ale mam przeciw tobie to, że odstąpiłeś od twej pierwotnej miłości” (2,3-4). Tylko miłość daje odpoczynek. To, czego się nie kocha, męczy w zły sposób, a na dłuższą metę męczy coraz bardziej.
Najgłębszym i najbardziej tajemniczym obrazem ukazującym, jak Pan traktuje nasze zmęczenie duszpasterskie są słowa: „umiłowawszy swoich… do końca ich umiłował” (J 13,1): scena obmycia stóp. Lubię je podziwiać jako obmycie naśladowania. Pan oczyszcza samo naśladowanie, On „angażuje siebie z nami” (Evangelii gaudium, 24), sam jako pierwszy czyści wszelkie plamy, ów smog światowości, tłusty, jaki do nas przylgnął podczas drogi, jaką przebyliśmy w Jego imię.
Wiemy, że na stopach można zobaczyć, jaki jest stan całego naszego ciała. Po tym, jak idziemy za Panem ukazuje się, jak podąża nasze serce. Rany stóp, skręcenia i zmęczenie, są znakiem tego, jak za Nim szliśmy, jakimi drogami podążaliśmy, aby szukać Jego owiec zaginionych, starając się doprowadzić owczarnię do zielonych pastwisk i spokojnych wód (por. tamże 270). Pan nas obmywa i oczyszcza od tego wszystkiego, co zgromadziło się na naszych nogach, aby iść za Nim. To jest święte. Nie pozwólcie, aby trwało zaplamione. On całuje je jak rany wojny, w ten sposób obmywa je z brudu po pracy.
Pójście za Jezusem obmywane jest przez samego Pana, abyśmy czuli, że mamy prawo czuć się „radosnymi”, „pełnymi”, „bez lęku i poczucia winy”, a w ten sposób mamy odwagę, aby wyjść i pójść „na krańce świata, na wszystkie peryferie”, by nieść tę dobrą nowinę do najbardziej opuszczonych, wiedząc, że „Jest On z nami przez wszystkie dni, aż do skończenia świata”. I, proszę, prośmy o łaskę umiejętności bycia zmęczonymi, ale dobrze zmęczonymi!
[00526-PL.02] [Testo originale: Italiano]
[B0236-XX.02]