Alle ore 11 di questa mattina, nella Sala Regia del Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Benedetto XVI riceve in Udienza i Cardinali con i membri della Curia Romana e del Governatorato per la presentazione degli auguri natalizi.
Nel corso dell’incontro, dopo l’indirizzo di omaggio al Santo Padre del Cardinale Angelo Sodano, Decano del Collegio Cardinalizio, il Papa rivolge ai presenti il discorso che riportiamo di seguito:
● DISCORSO DEL SANTO PADRE
Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato,
cari fratelli e sorelle!
È con vivo piacere che vi incontro, cari Membri del Collegio Cardinalizio, Rappresentanti della Curia Romana e del Governatorato, per questo appuntamento tradizionale. Rivolgo a ciascuno un cordiale saluto, ad iniziare dal Cardinale Angelo Sodano, che ringrazio per le espressioni di devozione e di comunione, e per i fervidi auguri che mi ha rivolto a nome di tutti. Prope est jam Dominus, venite, adoremus! Contempliamo come un’unica famiglia il mistero dell’Emmanuele, del Dio-con-noi, come ha detto il Cardinale Decano. Ricambio volentieri i voti augurali e desidero ringraziare vivamente tutti, compresi i Rappresentanti Pontifici sparsi per il mondo, per l’apporto competente e generoso che ciascuno presta al Vicario di Cristo e alla Chiesa.
"Excita, Domine, potentiam tuam, et veni" – con queste e con simili parole la liturgia della Chiesa prega ripetutamente nei giorni dell’Avvento. Sono invocazioni formulate probabilmente nel periodo del tramonto dell’Impero Romano. Il disfacimento degli ordinamenti portanti del diritto e degli atteggiamenti morali di fondo, che ad essi davano forza, causavano la rottura degli argini che fino a quel momento avevano protetto la convivenza pacifica tra gli uomini. Un mondo stava tramontando. Frequenti cataclismi naturali aumentavano ancora questa esperienza di insicurezza. Non si vedeva alcuna forza che potesse porre un freno a tale declino. Tanto più insistente era l’invocazione della potenza propria di Dio: che Egli venisse e proteggesse gli uomini da tutte queste minacce.
"Excita, Domine, potentiam tuam, et veni". Anche oggi abbiamo motivi molteplici per associarci a questa preghiera di Avvento della Chiesa. Il mondo con tutte le sue nuove speranze e possibilità è, al tempo stesso, angustiato dall’impressione che il consenso morale si stia dissolvendo, un consenso senza il quale le strutture giuridiche e politiche non funzionano; di conseguenza, le forze mobilitate per la difesa di tali strutture sembrano essere destinate all’insuccesso.
Excita – la preghiera ricorda il grido rivolto al Signore, che stava dormendo nella barca dei discepoli sbattuta dalla tempesta e vicina ad affondare. Quando la sua parola potente ebbe placato la tempesta, Egli rimproverò i discepoli per la loro poca fede (cfr Mt 8,26 e par.). Voleva dire: in voi stessi la fede ha dormito. La stessa cosa vuole dire anche a noi. Anche in noi tanto spesso la fede dorme. PreghiamoLo dunque di svegliarci dal sonno di una fede divenuta stanca e di ridare alla fede il potere di spostare i monti – cioè di dare l’ordine giusto alle cose del mondo.
"Excita, Domine, potentiam tuam, et veni": nelle grandi angustie, alle quali siamo stati esposti in quest’anno, tale preghiera di Avvento mi è sempre tornata di nuovo alla mente e sulle labbra. Con grande gioia avevamo iniziato l’Anno sacerdotale e, grazie a Dio, abbiamo potuto concluderlo anche con grande gratitudine, nonostante si sia svolto così diversamente da come ce l’eravamo aspettato. In noi sacerdoti e nei laici, proprio anche nei giovani, si è rinnovata la consapevolezza di quale dono rappresenti il sacerdozio della Chiesa Cattolica, che ci è stato affidato dal Signore. Ci siamo nuovamente resi conto di quanto sia bello che esseri umani siano autorizzati a pronunciare in nome di Dio e con pieno potere la parola del perdono, e così siano in grado di cambiare il mondo, la vita; quanto sia bello che esseri umani siano autorizzati a pronunciare le parole della consacrazione, con cui il Signore attira dentro di sé un pezzo di mondo, e così in un certo luogo lo trasforma nella sua stessa sostanza; quanto sia bello poter essere, con la forza del Signore, vicino agli uomini nelle loro gioie e sofferenze, nelle ore importanti come in quelle buie dell’esistenza; quanto sia bello avere nella vita come compito non questo o quell’altro, ma semplicemente l’essere stesso dell’uomo – per aiutare che si apra a Dio e sia vissuto a partire da Dio. Tanto più siamo stati sconvolti quando, proprio in quest’anno e in una dimensione per noi inimmaginabile, siamo venuti a conoscenza di abusi contro i minori commessi da sacerdoti, che stravolgono il Sacramento nel suo contrario: sotto il manto del sacro feriscono profondamente la persona umana nella sua infanzia e le recano un danno per tutta la vita.
In questo contesto, mi è venuta in mente una visione di sant’Ildegarda di Bingen che descrive in modo sconvolgente ciò che abbiamo vissuto in quest’anno. "Nell’anno 1170 dopo la nascita di Cristo ero per un lungo tempo malata a letto. Allora, fisicamente e mentalmente sveglia, vidi una donna di una bellezza tale che la mente umana non è in grado di comprendere. La sua figura si ergeva dalla terra fino al cielo. Il suo volto brillava di uno splendore sublime. Il suo occhio era rivolto al cielo. Era vestita di una veste luminosa e raggiante di seta bianca e di un mantello guarnito di pietre preziose. Ai piedi calzava scarpe di onice. Ma il suo volto era cosparso di polvere, il suo vestito, dal lato destro, era strappato. Anche il mantello aveva perso la sua bellezza singolare e le sue scarpe erano insudiciate dal di sopra. Con voce alta e lamentosa, la donna gridò verso il cielo: ‘Ascolta, o cielo: il mio volto è imbrattato! Affliggiti, o terra: il mio vestito è strappato! Trema, o abisso: le mie scarpe sono insudiciate!’
E proseguì: ‘Ero nascosta nel cuore del Padre, finché il Figlio dell’uomo, concepito e partorito nella verginità, sparse il suo sangue. Con questo sangue, quale sua dote, mi ha preso come sua sposa.
Le stimmate del mio sposo rimangono fresche e aperte, finché sono aperte le ferite dei peccati degli uomini. Proprio questo restare aperte delle ferite di Cristo è la colpa dei sacerdoti. Essi stracciano la mia veste poiché sono trasgressori della Legge, del Vangelo e del loro dovere sacerdotale. Tolgono lo splendore al mio mantello, perché trascurano totalmente i precetti loro imposti. Insudiciano le mie scarpe, perché non camminano sulle vie dritte, cioè su quelle dure e severe della giustizia, e anche non danno un buon esempio ai loro sudditi. Tuttavia trovo in alcuni lo splendore della verità’.
E sentii una voce dal cielo che diceva: ‘Questa immagine rappresenta la Chiesa. Per questo, o essere umano che vedi tutto ciò e che ascolti le parole di lamento, annuncialo ai sacerdoti che sono destinati alla guida e all’istruzione del popolo di Dio e ai quali, come agli apostoli, è stato detto: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura»’ (Mc 16,15)" (Lettera a Werner von Kirchheim e alla sua comunità sacerdotale: PL 197, 269ss).
Nella visione di sant’Ildegarda, il volto della Chiesa è coperto di polvere, ed è così che noi l’abbiamo visto. Il suo vestito è strappato – per la colpa dei sacerdoti. Così come lei l’ha visto ed espresso, l’abbiamo vissuto in quest’anno. Dobbiamo accogliere questa umiliazione come un’esortazione alla verità e una chiamata al rinnovamento. Solo la verità salva. Dobbiamo interrogarci su che cosa possiamo fare per riparare il più possibile l’ingiustizia avvenuta. Dobbiamo chiederci che cosa era sbagliato nel nostro annuncio, nell’intero nostro modo di configurare l’essere cristiano, così che una tale cosa potesse accadere. Dobbiamo trovare una nuova risolutezza nella fede e nel bene. Dobbiamo essere capaci di penitenza. Dobbiamo sforzarci di tentare tutto il possibile, nella preparazione al sacerdozio, perché una tale cosa non possa più succedere. È questo anche il luogo per ringraziare di cuore tutti coloro che si impegnano per aiutare le vittime e per ridare loro la fiducia nella Chiesa, la capacità di credere al suo messaggio. Nei miei incontri con le vittime di questo peccato, ho sempre trovato anche persone che, con grande dedizione, stanno a fianco di chi soffre e ha subito danno. È questa l’occasione per ringraziare anche i tanti buoni sacerdoti che trasmettono in umiltà e fedeltà la bontà del Signore e, in mezzo alle devastazioni, sono testimoni della bellezza non perduta del sacerdozio.
Siamo consapevoli della particolare gravità di questo peccato commesso da sacerdoti e della nostra corrispondente responsabilità. Ma non possiamo neppure tacere circa il contesto del nostro tempo in cui è dato vedere questi avvenimenti. Esiste un mercato della pornografia concernente i bambini, che in qualche modo sembra essere considerato sempre più dalla società come una cosa normale. La devastazione psicologica di bambini, in cui persone umane sono ridotte ad articolo di mercato, è uno spaventoso segno dei tempi. Da Vescovi di Paesi del Terzo Mondo sento sempre di nuovo come il turismo sessuale minacci un’intera generazione e la danneggi nella sua libertà e nella sua dignità umana. L’Apocalisse di san Giovanni annovera tra i grandi peccati di Babilonia – simbolo delle grandi città irreligiose del mondo – il fatto di esercitare il commercio dei corpi e delle anime e di farne una merce (cfr Ap 18,13). In questo contesto, si pone anche il problema della droga, che con forza crescente stende i suoi tentacoli di polipo intorno all’intero globo terrestre – espressione eloquente della dittatura di mammona che perverte l’uomo. Ogni piacere diventa insufficiente e l’eccesso nell’inganno dell’ebbrezza diventa una violenza che dilania intere regioni, e questo in nome di un fatale fraintendimento della libertà, in cui proprio la libertà dell’uomo viene minata e alla fine annullata del tutto.
Per opporci a queste forze dobbiamo gettare uno sguardo sui loro fondamenti ideologici. Negli anni Settanta, la pedofilia venne teorizzata come una cosa del tutto conforme all’uomo e anche al bambino. Questo, però, faceva parte di una perversione di fondo del concetto di ethos. Si asseriva – persino nell’ambito della teologia cattolica – che non esisterebbero né il male in sé, né il bene in sé. Esisterebbe soltanto un "meglio di" e un "peggio di". Niente sarebbe in se stesso bene o male. Tutto dipenderebbe dalle circostanze e dal fine inteso. A seconda degli scopi e delle circostanze, tutto potrebbe essere bene o anche male. La morale viene sostituita da un calcolo delle conseguenze e con ciò cessa di esistere. Gli effetti di tali teorie sono oggi evidenti. Contro di esse Papa Giovanni Paolo II, nella sua Enciclica Veritatis splendor del 1993, indicò con forza profetica nella grande tradizione razionale dell’ethos cristiano le basi essenziali e permanenti dell’agire morale. Questo testo oggi deve essere messo nuovamente al centro come cammino nella formazione della coscienza. È nostra responsabilità rendere nuovamente udibili e comprensibili tra gli uomini questi criteri come vie della vera umanità, nel contesto della preoccupazione per l’uomo, nella quale siamo immersi.
Come secondo punto vorrei dire una parola sul Sinodo delle Chiese del Medio Oriente. Esso ebbe inizio con il mio viaggio a Cipro dove potei consegnare l’Instrumentum laboris per il Sinodo ai Vescovi di quei Paesi lì convenuti. Rimane indimenticabile l’ospitalità della Chiesa ortodossa che abbiamo potuto sperimentare con grande gratitudine. Anche se la piena comunione non ci è ancora donata, abbiamo tuttavia constatato con gioia che la forma basilare della Chiesa antica ci unisce profondamente gli uni con gli altri: il ministero sacramentale dei Vescovi come portatore della tradizione apostolica, la lettura della Scrittura secondo l’ermeneutica della Regula fidei, la comprensione della Scrittura nell’unità multiforme incentrata su Cristo sviluppatasi grazie all’ispirazione di Dio e, infine, la fede nella centralità dell’Eucaristia nella vita della Chiesa. Così abbiamo incontrato in modo vivo la ricchezza dei riti della Chiesa antica anche all’interno della Chiesa Cattolica. Abbiamo avuto liturgie con Maroniti e con Melchiti, abbiamo celebrato in rito latino e abbiamo avuto momenti di preghiera ecumenica con gli Ortodossi, e, in manifestazioni imponenti, abbiamo potuto vedere la ricca cultura cristiana dell’Oriente cristiano. Ma abbiamo visto anche il problema del Paese diviso. Si rendevano visibili colpe del passato e profonde ferite, ma anche il desiderio di pace e di comunione quali erano esistite prima. Tutti sono consapevoli del fatto che la violenza non porta alcun progresso – essa, infatti, ha creato la situazione attuale. Solo nel compromesso e nella comprensione vicendevole può essere ristabilita l’unità. Preparare la gente per questo atteggiamento di pace è un compito essenziale della pastorale.
Nel Sinodo lo sguardo si è poi allargato sull’intero Medio Oriente, dove convivono fedeli appartenenti a religioni diverse ed anche a molteplici tradizioni e riti distinti. Per quanto riguarda i cristiani, ci sono le Chiese pre-calcedonesi e quelle calcedonesi; Chiese in comunione con Roma ed altre che stanno fuori di tale comunione ed in entrambe esistono, uno accanto all’altro, molteplici riti. Negli sconvolgimenti degli ultimi anni è stata scossa la storia di condivisione, le tensioni e le divisioni sono cresciute, così che sempre di nuovo con spavento siamo testimoni di atti di violenza nei quali non si rispetta più ciò che per l’altro è sacro, nei quali anzi crollano le regole più elementari dell’umanità. Nella situazione attuale, i cristiani sono la minoranza più oppressa e tormentata. Per secoli sono vissuti pacificamente insieme con i loro vicini ebrei e musulmani. Nel Sinodo abbiamo ascoltato parole sagge del Consigliere del Mufti della Repubblica del Libano contro gli atti di violenza nei confronti dei cristiani. Egli diceva: con il ferimento dei cristiani veniamo feriti noi stessi. Purtroppo, però, questa e analoghe voci della ragione, per le quali siamo profondamente grati, sono troppo deboli. Anche qui l’ostacolo è il collegamento tra avidità di lucro ed accecamento ideologico. Sulla base dello spirito della fede e della sua ragionevolezza, il Sinodo ha sviluppato un grande concetto del dialogo, del perdono e dell’accoglienza vicendevole, un concetto che ora vogliamo gridare al mondo. L’essere umano è uno solo e l’umanità è una sola. Ciò che in qualsiasi luogo viene fatto contro l’uomo alla fine ferisce tutti. Così le parole e i pensieri del Sinodo devono essere un forte grido rivolto a tutte le persone con responsabilità politica o religiosa perché fermino la cristianofobia; perché si alzino a difendere i profughi e i sofferenti e a rivitalizzare lo spirito della riconciliazione. In ultima analisi, il risanamento può venire soltanto da una fede profonda nell’amore riconciliatore di Dio. Dare forza a questa fede, nutrirla e farla risplendere è il compito principale della Chiesa in quest’ora.
Mi piacerebbe parlare dettagliatamente dell’indimenticabile viaggio nel Regno Unito, voglio però limitarmi a due punti che sono correlati con il tema della responsabilità dei cristiani in questo tempo e con il compito della Chiesa di annunciare il Vangelo. Il pensiero va innanzitutto all’incontro con il mondo della cultura nella Westminster Hall, un incontro in cui la consapevolezza della responsabilità comune in questo momento storico creò una grande attenzione, che, in ultima analisi, si rivolse alla questione circa la verità e la stessa fede. Che in questo dibattito la Chiesa debba recare il proprio contributo, era evidente per tutti. Alexis de Tocqueville, a suo tempo, aveva osservato che in America la democrazia era diventata possibile e aveva funzionato, perché esisteva un consenso morale di base che, andando al di là delle singole denominazioni, univa tutti. Solo se esiste un tale consenso sull’essenziale, le costituzioni e il diritto possono funzionare. Questo consenso di fondo proveniente dal patrimonio cristiano è in pericolo là dove al suo posto, al posto della ragione morale, subentra la mera razionalità finalistica di cui ho parlato poco fa. Questo è in realtà un accecamento della ragione per ciò che è essenziale. Combattere contro questo accecamento della ragione e conservarle la capacità di vedere l’essenziale, di vedere Dio e l’uomo, ciò che è buono e ciò che è vero, è l’interesse comune che deve unire tutti gli uomini di buona volontà. È in gioco il futuro del mondo.
Infine, vorrei ancora ricordare la beatificazione del Cardinale John Henry Newman. Perché è stato beatificato? Che cosa ha da dirci? A queste domande si possono dare molte risposte, che nel contesto della beatificazione sono state sviluppate. Vorrei rilevare soltanto due aspetti che vanno insieme e, in fin dei conti, esprimono la stessa cosa. Il primo è che dobbiamo imparare dalle tre conversioni di Newman, perché sono passi di un cammino spirituale che ci interessa tutti. Vorrei qui mettere in risalto solo la prima conversione: quella alla fede nel Dio vivente. Fino a quel momento, Newman pensava come la media degli uomini del suo tempo e come la media degli uomini anche di oggi, che non escludono semplicemente l’esistenza di Dio, ma la considerano comunque come qualcosa di insicuro, che non ha alcun ruolo essenziale nella propria vita. Veramente reale appariva a lui, come agli uomini del suo e del nostro tempo, l’empirico, ciò che è materialmente afferrabile. È questa la "realtà" secondo cui ci si orienta. Il "reale" è ciò che è afferrabile, sono le cose che si possono calcolare e prendere in mano. Nella sua conversione Newman riconosce che le cose stanno proprio al contrario: che Dio e l’anima, l’essere se stesso dell’uomo a livello spirituale, costituiscono ciò che è veramente reale, ciò che conta. Sono molto più reali degli oggetti afferrabili. Questa conversione significa una svolta copernicana. Ciò che fino ad allora era apparso irreale e secondario si rivela come la cosa veramente decisiva. Dove avviene una tale conversione, non cambia semplicemente una teoria, cambia la forma fondamentale della vita. Di tale conversione noi tutti abbiamo sempre di nuovo bisogno: allora siamo sulla via retta.
La forza motrice che spingeva sul cammino della conversione era in Newman la coscienza. Ma che cosa si intende con ciò? Nel pensiero moderno, la parola "coscienza" significa che in materia di morale e di religione, la dimensione soggettiva, l’individuo, costituisce l’ultima istanza della decisione. Il mondo viene diviso negli ambiti dell’oggettivo e del soggettivo. All’oggettivo appartengono le cose che si possono calcolare e verificare mediante l’esperimento. La religione e la morale sono sottratte a questi metodi e perciò sono considerate come ambito del soggettivo. Qui non esisterebbero, in ultima analisi, dei criteri oggettivi. L’ultima istanza che qui può decidere sarebbe pertanto solo il soggetto, e con la parola "coscienza" si esprime, appunto, questo: in questo ambito può decidere solo il singolo, l’individuo con le sue intuizioni ed esperienze. La concezione che Newman ha della coscienza è diametralmente opposta. Per lui "coscienza" significa la capacità di verità dell’uomo: la capacità di riconoscere proprio negli ambiti decisivi della sua esistenza – religione e morale – una verità, la verità. La coscienza, la capacità dell’uomo di riconoscere la verità, gli impone con ciò, al tempo stesso, il dovere di incamminarsi verso la verità, di cercarla e di sottomettersi ad essa laddove la incontra. Coscienza è capacità di verità e obbedienza nei confronti della verità, che si mostra all’uomo che cerca col cuore aperto. Il cammino delle conversioni di Newman è un cammino della coscienza – un cammino non della soggettività che si afferma, ma, proprio al contrario, dell’obbedienza verso la verità che passo passo si apriva a lui. La sua terza conversione, quella al Cattolicesimo, esigeva da lui di abbandonare quasi tutto ciò che gli era caro e prezioso: i suoi averi e la sua professione, il suo grado accademico, i legami familiari e molti amici. La rinuncia che l’obbedienza verso la verità, la sua coscienza, gli chiedeva, andava ancora oltre. Newman era sempre stato consapevole di avere una missione per l’Inghilterra. Ma nella teologia cattolica del suo tempo, la sua voce a stento poteva essere udita. Era troppo aliena rispetto alla forma dominante del pensiero teologico e anche della pietà. Nel gennaio del 1863 scrisse nel suo diario queste frasi sconvolgenti: "Come protestante, la mia religione mi sembrava misera, non però la mia vita. E ora, da cattolico, la mia vita è misera, non però la mia religione". Non era ancora arrivata l’ora della sua efficacia. Nell’umiltà e nel buio dell’obbedienza, egli dovette aspettare fino a che il suo messaggio fosse utilizzato e compreso. Per poter asserire l’identità tra il concetto che Newman aveva della coscienza e la moderna comprensione soggettiva della coscienza, si ama far riferimento alla sua parola secondo cui egli – nel caso avesse dovuto fare un brindisi – avrebbe brindato prima alla coscienza e poi al Papa. Ma in questa affermazione, "coscienza" non significa l’ultima obbligatorietà dell’intuizione soggettiva. È espressione dell’accessibilità e della forza vincolante della verità: in ciò si fonda il suo primato. Al Papa può essere dedicato il secondo brindisi, perché è compito suo esigere l’obbedienza nei confronti della verità.
Devo rinunciare a parlare dei viaggi così significativi a Malta, in Portogallo e in Spagna. In essi si è reso nuovamente visibile che la fede non è una cosa del passato, ma un incontro con il Dio che vive ed agisce adesso. Egli ci chiama in causa e si oppone alla nostra pigrizia, ma proprio così ci apre la strada verso la gioia vera.
"Excita, Domine, potentiam tuam, et veni!". Siamo partiti dall’invocazione della presenza della potenza di Dio nel nostro tempo e dall’esperienza della sua apparente assenza. Se apriamo i nostri occhi, proprio nella retrospettiva sull’anno che volge al termine, può rendersi visibile che la potenza e la bontà di Dio sono presenti in maniera molteplice anche oggi. Così tutti noi abbiamo motivo per ringraziarLo. Con il ringraziamento al Signore rinnovo il mio ringraziamento a tutti i collaboratori. Voglia Dio donare a tutti noi un Santo Natale ed accompagnarci con la sua bontà nel prossimo anno.
Affido questi voti all’intercessione della Vergine Santa, Madre del Redentore, e a voi tutti e alla grande famiglia della Curia Romana imparto di cuore la Benedizione Apostolica. Buon Natale!
[01824-01.01] [Testo originale: Italiano]
● TRADUZIONE IN LINGUA FRANCESE
Messieurs les Cardinaux,
Vénérés Frères dans l’Épiscopat et dans le Sacerdoce,
Chers Frères et Sœurs !
C’est avec grand plaisir que je vous rencontre, chers Membres du Collège cardinalice, représentants de la Curie Romaine et du Gouvernorat, pour ce rendez-vous traditionnel. J’adresse à chacun un cordial salut, en commençant par le Cardinal Angelo Sodano, que je remercie pour ses expressions de dévouement et de communion, et pour les vœux fervents qu’il m’a adressés au nom de tous. Prope est jam Dominus, venite, adoremus ! Nous contemplons comme une unique famille le mystère de l’Emmanuel, du Dieu-avec-nous, comme a dit le Cardinal Doyen. Je réponds volontiers à ses vœux et je désire tous vous remercier vivement, y compris les Représentants pontificaux dispersés de par le monde, pour l’apport compétent et généreux que chacun prête au Vicaire du Christ et à l’Église.
« Excita, Domine, potentiam tuam, et veni ! » – par ces paroles et d’autres semblables la liturgie de l’Église prie à maintes reprises pendant les jours de l’Avent. Ce sont des invocations formulées probablement dans la période du déclin de l’Empire romain. La décomposition des systèmes porteurs du droit et des attitudes morales de fond, qui leur donnaient force, provoquaient la rupture des digues qui, jusqu’à ce moment, avaient protégé la cohabitation pacifique entre les hommes. Un monde était en train de décliner. De fréquents cataclysmes naturels augmentaient encore cette expérience d’insécurité. On ne voyait aucune force qui aurait pu mettre un frein à ce déclin. L’invocation de la puissance propre de Dieu était d’autant plus insistante : qu’il vienne et protège les hommes de toutes ces menaces !
« Excita, Domine, potentiam tuam, et veni ! ». Aujourd’hui aussi nous avons des motifs multiples pour nous associer à cette prière d’Avent de l’Église. Le monde, avec toutes ses nouvelles espérances et possibilités, est, en même temps, tourmenté par l’impression que le consensus moral est en train de se dissoudre, un consensus sans lequel les structures juridiques et politiques ne fonctionnent pas ; en conséquence, les forces mobilisées pour la défense de ces structures semblent être destinées à l’échec.
Excita – la prière rappelle le cri adressé au Seigneur, qui dormait dans la barque des disciples battue par la tempête et près de couler. Quand sa parole puissante eut calmé la tempête, il réprimanda les disciples pour leur peu de foi (cf. Mt 8, 26 et par.). Il voulait dire : en vous-mêmes la foi a dormi. Il veut dire la même chose à nous aussi. Si souvent en nous aussi la foi dort. Prions-le donc de nous réveiller du sommeil d’une foi devenue fatiguée et de redonner à la foi le pouvoir de déplacer les montagnes – c’est-à-dire de donner l’ordre juste aux choses du monde.
« Excita, Domine, potentiam tuam, et veni !» : dans les grandes préoccupations, auxquelles nous avons été exposés cette année, cette prière d’Avent m’est toujours à nouveau revenue à l’esprit et sur les lèvres. Nous avions commencé l’Année sacerdotale avec grande joie et, grâce à Dieu, nous avons pu la conclure aussi avec grande gratitude, bien qu’elle se soit déroulée tout autrement que nous l’aurions attendu. Chez nous prêtres et chez les laïcs, et aussi chez les jeunes, s’est renouvelée la conscience de ce don que représente le sacerdoce de l’Église catholique, qui nous a été confié par le Seigneur. Nous nous sommes de nouveau rendus compte combien il est beau que des êtres humains soient autorisés à prononcer au nom de Dieu et avec un plein pouvoir la parole du pardon, et soient ainsi en mesure de changer le monde, la vie ; combien il beau que des êtres humains soient autorisés à prononcer les paroles de la consécration, par lesquelles le Seigneur attire en lui un morceau du monde, et ainsi en un certain lieu le transforme dans sa substance ; combien il est beau de pouvoir être, avec la force du Seigneur, proche des hommes dans leurs joies et leurs souffrances, dans les heures importantes comme aux heures sombres de l’existence ; comme il est beau d’avoir dans la vie comme mission non celle-ci ou celle-là, mais simplement l’être même de l’homme – pour l’aider à s’ouvrir à Dieu et à vivre à partir de Dieu. Nous avons été d’autant plus bouleversés quand, justement en cette année et en une dimension inimaginable pour nous, nous avons eu connaissance d’abus contre les mineurs commis par des prêtres, qui transforment le Sacrement en son contraire ; sous le manteau du sacré ils blessent profondément la personne humaine dans son enfance et lui cause un dommage pour toute la vie. Dans ce contexte, m’est venue à l’esprit une vision de sainte Hildegarde de Bingen qui décrit de façon bouleversante ce que nous avons vécu cette année. « En 1170 après la naissance du Christ, j’étais pendant un long temps malade au lit. Alors, physiquement et mentalement éveillée, je vis une femme d’une beauté telle que l’esprit humain n’est pas capable de comprendre. Sa figure se dressait de la terre jusqu’au ciel. Son visage brillait d’une splendeur sublime. Son regard était dirigé vers le ciel. Elle était vêtue d’un vêtement lumineux et resplendissant de soie blanche et d’un manteau garni de pierres précieuses. Aux pieds elle portait des souliers d’onyx. Mais son visage était couvert de poussière, son vêtement était déchiré du côté droit. Le manteau aussi avait perdu sa beauté singulière et ses chaussures étaient souillées sur le dessus. D’une voix haute et plaintive, la femme cria vers le ciel : ‘Écoute, ô ciel : mon visage est sali ! Afflige-toi, ô terre : mon vêtement est déchiré ! Tremble, ô abîme : mes chaussures sont souillées !’
Et elle poursuivit : ‘J’étais cachée dans le cœur du Père, jusqu’à ce que le Fils de l’homme, conçu et engendré dans la virginité, répandit son sang. Avec ce sang, comme sa dot, il m’a prise comme son épouse.
Les stigmates de mon époux demeurent frais et ouverts, tant que sont ouvertes les blessures des péchés des hommes. Justement le fait que les blessures du Christ restent ouvertes est la faute des prêtres. Ils déchirent mon vêtement puisqu’ils sont transgresseurs de la Loi, de l’Évangile et de leur devoir sacerdotal. Ils enlèvent la splendeur à mon manteau, parce qu’ils négligent totalement les règles qui leur sont imposées. Ils souillent mes chaussures, parce qu’ils ne marchent pas sur les droits chemins, c’est-à-dire sur les durs et exigeants chemins de la justice, et ils ne donnent pas aussi un bon exemple à ceux qui leur sont soumis. Toutefois je trouve en certains la splendeur de la vérité’.
Et j’entendis une voix du ciel qui disait : ‘Cette image représente l’Église. C’est pourquoi, ô être humain qui vois tout cela et qui écoutes les paroles de plainte, annonce-le aux prêtres qui sont destinés à la conduite et à l’instruction du peuple de Dieu et auxquels, comme aux Apôtres, il a été dit : " Allez dans le monde entier. Proclamez la Bonne Nouvelle à toute la création "’ (Mc 16, 15) » (Lettre à Werner von Kirchheim et à sa communauté sacerdotale : PL 197, 269ss).
Dans la vision de sainte Hildegarde, le visage de l’Église est couvert de poussière, et c’est ainsi que nous l’avons vu. Son vêtement est déchiré – par la faute des prêtres. Ainsi comme elle l’a vu et exprimé, nous l’avons vu cette année. Nous devons accueillir cette humiliation comme une exhortation à la vérité et un appel au renouvellement. Seule la vérité sauve. Nous devons nous interroger sur ce que nous pouvons faire pour réparer le plus possible l’injustice qui a eu lieu. Nous devons nous demander ce qui était erroné dans notre annonce, dans notre façon tout entière de configurer l’être chrétien, pour qu’une telle chose ait pu arriver. Nous devons trouver une nouvelle détermination dans la foi et dans le bien. Nous devons être capables de pénitence. Nous devons nous efforcer de tenter tout ce qui est possible, dans la préparation au sacerdoce, pour qu’une telle chose ne puisse plus arriver. C’est aussi le lieu pour remercier de tout cœur tous ceux qui s’engagent pour aider les victimes et pour leur redonner la confiance dans l’Église, la capacité de croire à son message. Dans mes rencontres avec les victimes de ce péché, j’ai toujours trouvé aussi des personnes qui, avec grand dévouement, se tiennent aux côtés de celui qui souffre et a subi un préjudice. C’est l’occasion pour remercier aussi les si nombreux bons prêtres qui transmettent dans l’humilité et la fidélité, la bonté du Seigneur et qui, au milieu des dévastations, sont témoins de la beauté non perdue du sacerdoce.
Nous sommes conscients de la gravité particulière de ce péché commis par des prêtres et de notre responsabilité correspondante. Mais nous ne pouvons pas taire non plus le contexte de notre temps dans lequel il est donné de voir ces événements. Il existe un marché de la pornographie concernant les enfants, qui en quelque façon, semble être considéré toujours plus par la société comme une chose normale. La dévastation psychologique d’enfants, dans laquelle des personnes humaines sont réduites à un article de marché, est un épouvantable signe des temps. Chez des Évêques de pays du Tiers-Monde, je sens toujours de nouveau combien le tourisme sexuel menace une génération entière et l’endommage dans sa liberté et dans sa dignité humaine. L’Apocalypse de saint Jean énumère parmi les grands péchés de Babylone – symbole des grandes villes irréligieuses du monde – le fait d’exercer le commerce des corps et des âmes et d’en faire une marchandise (cf. Ap 18, 13). Dans ce contexte, se pose aussi le problème de la drogue, qui avec une force croissante étend ses tentacules autour de tout le globe terrestre – expression éloquente de la dictature de mammon qui pervertit l’homme. Tout plaisir devient insuffisant et l’excès dans la tromperie de l’ivresse devient une violence qui déchire des régions entières, et cela au nom d’un malentendu fatal de la liberté, où justement la liberté de l’homme est minée et à la fin complètement anéantie.
Pour nous opposer à ces forces nous devons jeter un regard sur leurs fondements idéologiques. Dans les années soixante-dix, la pédophilie fut théorisée comme une chose complètement conforme à l’homme et aussi à l’enfant. Cependant, cela faisait partie d’une perversion de fond du concept d’ethos. On affirmait – jusque dans le cadre de la théologie catholique – que n’existerait ni le mal en soi, ni le bien en soi. Existerait seulement un « mieux que » et un « pire que ». Rien ne serait en soi-même bien ou mal. Tout dépendrait des circonstances et de la fin entendue. Selon les buts et les circonstances, tout pourrait être bien ou aussi mal. La morale est substituée par un calcul des conséquences et avec cela cesse d’exister. Les effets de ces théories sont aujourd’hui évidentes. Contre elles le Pape Jean-Paul II, dans son Encyclique Veritatis splendor de 1993, a indiqué avec une force prophétique, dans la grande tradition rationnelle de l’ethos chrétien, les bases essentielles et permanentes de l’agir moral. Ce texte doit aujourd’hui être mis de nouveau au centre comme parcours dans la formation de la conscience. C’est notre responsabilité de rendre de nouveau audibles et compréhensibles parmi les hommes ces critères comme chemins de la véritable humanité, dans le contexte de la préoccupation pour l’homme, où nous sommes plongés.
Comme second point je voudrais dire un mot sur le Synode des Églises du Moyen Orient. Il a commencé avec mon voyage à Chypre où j’ai pu remettre l’Instrumentum laboris pour le Synode aux Évêques de ces pays réunis là. L’hospitalité de l’Église orthodoxe dont nous avons pu faire l’expérience avec grande gratitude demeure inoubliable. Même si la pleine communion ne nous est pas encore donnée, nous avons pu toutefois constater avec joie que la forme de base de l’Église antique nous unit profondément les uns avec les autres : le ministère sacramentel des Évêques comme porteur de la tradition apostolique, la lecture de l’Écriture selon l’herméneutique de la Regula fidei, la compréhension de l’Écriture dans l’unité multiforme centrée sur le Christ qui se développe grâce à l’inspiration de Dieu et, enfin, la foi dans la centralité de l’Eucharistie dans la vie de l’Église. Ainsi nous avons rencontré de façon vivante la richesse des rites de l’Église antique aussi à l’intérieur de l’Église catholique. Nous avons eu des liturgies avec des Maronites et avec des Melchites, nous avons célébré en rite latin et nous avons eu des moments de prière œcuménique avec les Orthodoxes, et, en des manifestations imposantes, nous avons pu voir la riche culture chrétienne de l’Orient chrétien. Mais nous avons vu aussi le problème du pays divisé. Des fautes du passé et des blessures profondes se rendaient visibles, mais aussi le désir de paix et de communion qui avaient existé avant. Tous sont conscients du fait que la violence n’apporte aucun progrès –elle a créé en effet la situation actuelle. C’est seulement dans le compromis et dans la compréhension mutuelle que l’unité peut être rétablie. Préparer les gens à cette attitude de paix est une tâche essentielle de la pastorale.
Au Synode le regard s’est ensuite élargi au Moyen Orient tout entier, où vivent ensemble des fidèles appartenant à des religions diverses et aussi à de multiples traditions et rites distincts. Pour ce qui concerne les chrétiens, il y a les Églises pré-chalcédoniennes et les Églises chalcédoniennes ; des Églises en communion avec Rome et d’autres qui sont en dehors de cette communion, et de multiples rites, l’un à côté de l’autre, existent dans les deux. Dans les bouleversements des dernières années l’histoire du partage a été ébranlée, les tensions et les divisions ont grandi, si bien que toujours à nouveau nous sommes témoins avec épouvante d’actes de violence dans lesquels ce qui est sacré pour l’autre ne se respecte plus, dans lesquels même les règles les plus élémentaires de l’humanité s’écroulent. Dans la situation actuelle, les chrétiens sont la minorité la plus opprimée et tourmentée. Pendant des siècles ils ont vécu pacifiquement avec leurs voisins juifs et musulmans. Au Synode nous avons entendu les paroles sages du Conseiller du Mufti de la République du Liban contre les actes de violence à l’égard des chrétiens. Il disait: avec l’agression des chrétiens, nous sommes blessés nous-mêmes. Malheureusement, cependant, cette voix de la raison et d’autres analogues, dont nous sommes profondément reconnaissants, sont trop faibles. Ici aussi l’obstacle est le lien entre avidité de lucre et aveuglement idéologique. Sur la base de l’esprit de la foi et de sa justesse, le Synode a développé un grand concept du dialogue, du pardon et de l’accueil mutuel, un concept que maintenant nous voulons crier au monde. L’être humain est unique et l’humanité est unique. Ce qui, en quelque lieu, est fait contre l’homme finalement les blesse tous. Ainsi les paroles et les pensées du Synode doivent être un cri fort adressé à toutes les personnes qui ont une responsabilité politique ou religieuse pour qu’ils arrêtent la christianophobie ; pour qu’ils se lèvent pour défendre les réfugiés et ceux qui souffrent et revitaliser l’esprit de la réconciliation. En dernière analyse, la guérison peut venir seulement d’une foi profonde dans l’amour réconciliateur de Dieu. Donner force à cette foi, la nourrir et la faire resplendir est la tâche principale de l’Église en ce moment.
J’aimerai parler en détail de l’inoubliable voyage au Royaume Uni, mais je veux me limiter à deux points qui sont en relation avec le thème de la responsabilité des chrétiens dans ce temps et avec la mission de l’Eglise d’annoncer l’Evangile. Je pense surtout à la rencontre avec le monde de la culture à Westminster Hall, une rencontre au cours de laquelle la conscience de la responsabilité commune en ce moment historique suscita une grande attention, qui porta en dernière analyse sur la question de la vérité et de la foi elle-même. Que dans ce débat, l’Eglise doive apporter sa propre contribution, était évident pour tous. Alexis de Tocqueville, en son temps, avait observé qu’en Amérique, la démocratie était devenue possible et avait fonctionné, parce qu’il existait un consensus moral de base qui, allant au-delà des dénominations particulières, les unissait toutes. C’est seulement s’il existe un tel consensus sur l’essentiel, que les constitutions et le droit peuvent fonctionner. Ce consensus de fond provenant du patrimoine chrétien est en péril là où, à sa place, à la place de la raison morale succède la simple rationalité finaliste dont j’ai parlé il y a peu. En réalité, c’est un aveuglement de la raison pour ce qui est essentiel. Combattre cet aveuglement de la raison et lui conserver la capacité de voir l’essentiel, de voir Dieu et l’homme, ce qui est bon, et ce qui est vrai, est l’intérêt commun qui doit unir tous les hommes de bonne volonté. L’avenir du monde est en jeu.
Enfin, je voudrais encore rappeler la béatification du Cardinal John Henry Newman. Pourquoi a-t-il été béatifié ? Qu’est-ce qu’il a à nous dire ? A ces questions, on peut donner beaucoup de réponses, qui ont été développées dans le contexte de la béatification. Je voudrais relever seulement deux aspects qui vont ensemble et, en fin de compte, expriment la même chose. Le premier aspect, c’est que nous devons apprendre des trois conversions de Newman, parce qu’elles sont des pas d’un chemin spirituel qui nous intéresse tous. Je voudrais mettre ici en relief seulement la première conversion : la conversion à la foi dans le Dieu vivant. Jusqu’à ce moment, Newman pensait comme la moyenne des hommes de son temps et comme aussi la moyenne des hommes d’aujourd’hui, qui n’excluent pas simplement l’existence de Dieu, mais la considèrent de toutes façons comme quelque chose d’incertain, qui n’a aucun rôle essentiel dans leur propre vie. Ce qui lui apparaissait vraiment réel, comme aux hommes de son temps et de notre temps, c’était l’empirique, ce qui est matériellement saisissable. Voilà la « réalité » selon laquelle on s’oriente. Le « réel » est ce qui est saisissable, ce sont les choses qui peuvent se calculer et se prendre en main. Dans sa conversion, Newman reconnaît que les choses sont justement à l’inverse : que Dieu et l’âme, l’être lui-même de l’homme au niveau spirituel, constituent ce qui est vraiment réel, ce qui compte. Ils sont bien plus réels que les objets saisissables. Cette conversion signifie un tournant copernicien. Ce qui, jusqu’alors, était apparu irréel et secondaire se révèle maintenant comme la chose vraiment décisive. Là où arrive une telle conversion, ce n’est pas simplement une théorie qui change, mais c’est la forme fondamentale de la vie qui change. Nous avons tous besoin toujours de nouveau d’une telle conversion : nous sommes alors sur le droit chemin.
En Newman, la force motrice qui le poussait sur le chemin de la conversion était la conscience. Mais qu’entend-on par cela ? Dans la pensée moderne, la parole « conscience » signifie qu’en matière de morale et de religion, la dimension subjective, l’individu, constitue l’ultime instance de la décision. Le monde est divisé dans les domaines de l’objectif et du subjectif. A l’objectif appartiennent les choses qui peuvent se calculer et se vérifier par l’expérience. La religion et la morale sont soustraites à ces méthodes et par conséquent sont considérées comme appartenant au domaine du subjectif. Ici, n’existeraient pas, en dernière analyse, des critères objectifs. L’ultime instance qui ici peut décider serait par conséquent seulement le sujet, et avec le mot « conscience » on exprime justement ceci : dans ce domaine peut seulement décider un chacun, l’individu avec ses intuitions et ses expériences. La conception que Newman a de la conscience est diamétralement opposée. Pour lui « conscience » signifie la capacité de vérité de l’homme : la capacité de reconnaître justement dans les domaines décisifs de son existence – religion et morale – une vérité, la vérité. La conscience, la capacité de l’homme de reconnaître la vérité lui impose avec cela, en même temps, le devoir de se mettre en route vers la vérité, de la chercher et de se soumettre à elle là où il la rencontre. La conscience est capacité de vérité et obéissance à l’égard de la vérité, qui se montre à l’homme qui cherche avec le cœur ouvert. Le chemin des conversions de Newman est un chemin de la conscience – un chemin non de la subjectivité qui s’affirme, mais, justement au contraire, de l’obéissance envers la vérité qui, pas à pas, s’ouvre à lui. Sa troisième conversion, celle au Catholicisme, exigeait de lui d’abandonner presque tout ce qui lui était cher et précieux : ses biens et sa profession, son grade académique, les liens familiaux et de nombreux amis. Le renoncement que l’obéissance envers la vérité, sa conscience, lui demandait allait encore plus loin. Newman avait toujours été conscient d’avoir une mission pour l’Angleterre. Mais dans la théologie catholique de son temps, sa voix pouvait à grand peine être entendue. Elle était trop contraire à la forme dominante de la pensée théologique et aussi de la piété. En janvier 1863, il écrivit dans son journal ces phrases bouleversantes : « Comme protestant, ma religion me semblait misérable, mais pas ma vie. Et maintenant, en catholique, ma vie est misérable mais pas ma religion ». L’heure de son efficacité n’était pas encore arrivée. Dans l’humilité et l’obscurité de l’obéissance, il dut attendre jusqu’à ce que son message soit utilisé et compris. Pour pouvoir affirmer l’identité entre le concept que Newman avait de la conscience et la compréhension moderne subjective de la conscience, on aime faire référence à la parole selon laquelle lui-même – dans le cas où il aurait dû porter un toast –, l’aurait d’abord porté à la conscience, puis au Pape. Mais dans cette affirmation, « conscience » ne signifie pas le caractère obligatoire ultime de l’intuition subjective. C’est l’expression de l’accessibilité et de la force contraignante de la vérité : en cela se fonde son primat. Au Pape, peut être dédié le second toast, parce que c’est son devoir d’exiger l’obéissance à l’égard de la vérité.
Je dois renoncer à parler des voyages si significatifs à Malte, au Portugal et en Espagne. A travers eux, s’est rendu de nouveau visible que la foi n’est pas une chose du passé, mais une rencontre avec le Dieu qui vit et agit maintenant. Cela nous remet en cause et s’oppose à notre paresse, mais justement nous ouvre ainsi le chemin vers la joie authentique.
« Excita, Domine, potentiam tuam, et veni ! ». Nous sommes partis de l’invocation de la présence de la puissance de Dieu dans notre temps et de l’expérience de son apparente absence. Si nous ouvrons nos yeux, justement dans la rétrospective de l’année qui touche à sa fin, il peut être rendu visible que la puissance et la bonté de Dieu sont présentes de manières multiples aussi aujourd’hui. Ainsi nous avons tous un motif pour lui rendre grâce. Avec l’action de grâce au Seigneur, je renouvelle mes remerciements à tous les collaborateurs. Que Dieu veuille nous faire à tous le don d’un Saint Noël et nous accompagner de sa bonté au long de l’année prochaine.
Je confie ces vœux à l’intercession de la Vierge sainte, Mère du Rédempteur, et à vous tous et à la grande famille de la Curie Romaine, j’accorde de grand cœur la Bénédiction Apostolique. Bon Noël !
[01824-03.01] [Texte original: Italien]
● TRADUZIONE IN LINGUA INGLESE
Dear Cardinals,
Brother Bishops and Priests,
Dear Brothers and Sisters,
It gives me great pleasure to be here with you, dear Members of the College of Cardinals and Representatives of the Roman Curia and the Governatorato, for this traditional gathering. I extend a cordial greeting to each one of you, beginning with Cardinal Angelo Sodano, whom I thank for his sentiments of devotion and communion and for the warm good wishes that he expressed to me on behalf of all of you. Prope est jam Dominus, venite, adoremus! As one family let us contemplate the mystery of Emmanuel, God-with-us, as the Cardinal Dean has said. I gladly reciprocate his good wishes and I would like to thank all of you most sincerely, including the Papal Representatives all over the world, for the able and generous contribution that each of you makes to the Vicar of Christ and to the Church.
Excita, Domine, potentiam tuam, et veni. Repeatedly during the season of Advent the Church’s liturgy prays in these or similar words. They are invocations that were probably formulated as the Roman Empire was in decline. The disintegration of the key principles of law and of the fundamental moral attitudes underpinning them burst open the dams which until that time had protected peaceful coexistence among peoples. The sun was setting over an entire world. Frequent natural disasters further increased this sense of insecurity. There was no power in sight that could put a stop to this decline. All the more insistent, then, was the invocation of the power of God: the plea that he might come and protect his people from all these threats.
Excita, Domine, potentiam tuam, et veni. Today too, we have many reasons to associate ourselves with this Advent prayer of the Church. For all its new hopes and possibilities, our world is at the same time troubled by the sense that moral consensus is collapsing, consensus without which juridical and political structures cannot function. Consequently the forces mobilized for the defence of such structures seem doomed to failure.
Excita – the prayer recalls the cry addressed to the Lord who was sleeping in the disciples’ storm-tossed boat as it was close to sinking. When his powerful word had calmed the storm, he rebuked the disciples for their little faith (cf. Mt 8:26 et par.). He wanted to say: it was your faith that was sleeping. He will say the same thing to us. Our faith too is often asleep. Let us ask him, then, to wake us from the sleep of a faith grown tired, and to restore to that faith the power to move mountains – that is, to order justly the affairs of the world.
Excita, Domine, potentiam tuam, et veni: amid the great tribulations to which we have been exposed during the past year, this Advent prayer has frequently been in my mind and on my lips. We had begun the Year for Priests with great joy and, thank God, we were also able to conclude it with great gratitude, despite the fact that it unfolded so differently from the way we had expected. Among us priests and among the lay faithful, especially the young, there was a renewed awareness of what a great gift the Lord has entrusted to us in the priesthood of the Catholic Church. We realized afresh how beautiful it is that human beings are fully authorized to pronounce in God’s name the word of forgiveness, and are thus able to change the world, to change life; we realized how beautiful it is that human beings may utter the words of consecration, through which the Lord draws a part of the world into himself, and so transforms it at one point in its very substance; we realized how beautiful it is to be able, with the Lord’s strength, to be close to people in their joys and sufferings, in the important moments of their lives and in their dark times; how beautiful it is to have as one’s life task not this or that, but simply human life itself – helping people to open themselves to God and to live from God. We were all the more dismayed, then, when in this year of all years and to a degree we could not have imagined, we came to know of abuse of minors committed by priests who twist the sacrament into its antithesis, and under the mantle of the sacred profoundly wound human persons in their childhood, damaging them for a whole lifetime.
In this context, a vision of Saint Hildegard of Bingen came to my mind, a vision which describes in a shocking way what we have lived through this past year. "In the year of our Lord’s incarnation 1170, I had been lying on my sick-bed for a long time when, fully conscious in body and in mind, I had a vision of a woman of such beauty that the human mind is unable to comprehend. She stretched in height from earth to heaven. Her face shone with exceeding brightness and her gaze was fixed on heaven. She was dressed in a dazzling robe of white silk and draped in a cloak, adorned with stones of great price. On her feet she wore shoes of onyx. But her face was stained with dust, her robe was ripped down the right side, her cloak had lost its sheen of beauty and her shoes had been blackened. And she herself, in a voice loud with sorrow, was calling to the heights of heaven, saying, ‘Hear, heaven, how my face is sullied; mourn, earth, that my robe is torn; tremble, abyss, because my shoes are blackened!’
And she continued: ‘I lay hidden in the heart of the Father until the Son of Man, who was conceived and born in virginity, poured out his blood. With that same blood as his dowry, he made me his betrothed.
For my Bridegroom’s wounds remain fresh and open as long as the wounds of men’s sins continue to gape. And Christ’s wounds remain open because of the sins of priests. They tear my robe, since they are violators of the Law, the Gospel and their own priesthood; they darken my cloak by neglecting, in every way, the precepts which they are meant to uphold; my shoes too are blackened, since priests do not keep to the straight paths of justice, which are hard and rugged, or set good examples to those beneath them. Nevertheless, in some of them I find the splendour of truth.’
And I heard a voice from heaven which said: ‘This image represents the Church. For this reason, O you who see all this and who listen to the word of lament, proclaim it to the priests who are destined to offer guidance and instruction to God’s people and to whom, as to the apostles, it was said: go into all the world and preach the Gospel to the whole creation’ (Mk 16:15)" (Letter to Werner von Kirchheim and his Priestly Community: PL 197, 269ff.).
In the vision of Saint Hildegard, the face of the Church is stained with dust, and this is how we have seen it. Her garment is torn – by the sins of priests. The way she saw and expressed it is the way we have experienced it this year. We must accept this humiliation as an exhortation to truth and a call to renewal. Only the truth saves. We must ask ourselves what we can do to repair as much as possible the injustice that has occurred. We must ask ourselves what was wrong in our proclamation, in our whole way of living the Christian life, to allow such a thing to happen. We must discover a new resoluteness in faith and in doing good. We must be capable of doing penance. We must be determined to make every possible effort in priestly formation to prevent anything of the kind from happening again. This is also the moment to offer heartfelt thanks to all those who work to help victims and to restore their trust in the Church, their capacity to believe her message. In my meetings with victims of this sin, I have also always found people who, with great dedication, stand alongside those who suffer and have been damaged. This is also the occasion to thank the many good priests who act as channels of the Lord’s goodness in humility and fidelity and, amid the devastations, bear witness to the unforfeited beauty of the priesthood.
We are well aware of the particular gravity of this sin committed by priests and of our corresponding responsibility. But neither can we remain silent regarding the context of these times in which these events have come to light. There is a market in child pornography that seems in some way to be considered more and more normal by society. The psychological destruction of children, in which human persons are reduced to articles of merchandise, is a terrifying sign of the times. From Bishops of developing countries I hear again and again how sexual tourism threatens an entire generation and damages its freedom and its human dignity. The Book of Revelation includes among the great sins of Babylon – the symbol of the world’s great irreligious cities – the fact that it trades with bodies and souls and treats them as commodities (cf. Rev 18:13). In this context, the problem of drugs also rears its head, and with increasing force extends its octopus tentacles around the entire world – an eloquent expression of the tyranny of mammon which perverts mankind. No pleasure is ever enough, and the excess of deceiving intoxication becomes a violence that tears whole regions apart – and all this in the name of a fatal misunderstanding of freedom which actually undermines man’s freedom and ultimately destroys it.
In order to resist these forces, we must turn our attention to their ideological foundations. In the 1970s, paedophilia was theorized as something fully in conformity with man and even with children. This, however, was part of a fundamental perversion of the concept of ethos. It was maintained – even within the realm of Catholic theology – that there is no such thing as evil in itself or good in itself. There is only a "better than" and a "worse than". Nothing is good or bad in itself. Everything depends on the circumstances and on the end in view. Anything can be good or also bad, depending upon purposes and circumstances. Morality is replaced by a calculus of consequences, and in the process it ceases to exist. The effects of such theories are evident today. Against them, Pope John Paul II, in his 1993 Encyclical Letter Veritatis Splendor, indicated with prophetic force in the great rational tradition of Christian ethos the essential and permanent foundations of moral action. Today, attention must be focussed anew on this text as a path in the formation of conscience. It is our responsibility to make these criteria audible and intelligible once more for people today as paths of true humanity, in the context of our paramount concern for mankind.
As my second point, I should like to say a word about the Synod of the Churches of the Middle East. This began with my journey to Cyprus, where I was able to consign the Instrumentum Laboris of the Synod to the Bishops of those countries who were assembled there. The hospitality of the Orthodox Church was unforgettable, and we experienced it with great gratitude. Even if full communion is not yet granted to us, we have nevertheless established with joy that the basic form of the ancient Church unites us profoundly with one another: the sacramental office of Bishops as the bearer of apostolic tradition, the reading of Scripture according to the hermeneutic of the Regula fidei, the understanding of Scripture in its manifold unity centred on Christ, developed under divine inspiration, and finally, our faith in the central place of the Eucharist in the Church’s life. Thus we experienced a living encounter with the riches of the rites of the ancient Church that are also found within the Catholic Church. We celebrated the liturgy with Maronites and with Melchites, we celebrated in the Latin rite, we experienced moments of ecumenical prayer with the Orthodox, and we witnessed impressive manifestations of the rich Christian culture of the Christian East. But we also saw the problem of the divided country. The wrongs and the deep wounds of the past were all too evident, but so too was the desire for the peace and communion that had existed before. Everyone knows that violence does not bring progress – indeed, it gave rise to the present situation. Only in a spirit of compromise and mutual understanding can unity be re-established. To prepare the people for this attitude of peace is an essential task of pastoral ministry.
During the Synod itself, our gaze was extended over the whole of the Middle East, where the followers of different religions – as well as a variety of traditions and distinct rites – live together. As far as Christians are concerned, there are Pre-Chalcedonian as well as Chalcedonian churches; there are churches in communion with Rome and others that are outside that communion; in both cases, multiple rites exist alongside one another. In the turmoil of recent years, the tradition of peaceful coexistence has been shattered and tensions and divisions have grown, with the result that we witness with increasing alarm acts of violence in which there is no longer any respect for what the other holds sacred, in which on the contrary the most elementary rules of humanity collapse. In the present situation, Christians are the most oppressed and tormented minority. For centuries they lived peacefully together with their Jewish and Muslim neighbours. During the Synod we listened to wise words from the Counsellor of the Mufti of the Republic of Lebanon against acts of violence targeting Christians. He said: when Christians are wounded, we ourselves are wounded. Unfortunately, though, this and similar voices of reason, for which we are profoundly grateful, are too weak. Here too we come up against an unholy alliance between greed for profit and ideological blindness. On the basis of the spirit of faith and its rationality, the Synod developed a grand concept of dialogue, forgiveness and mutual acceptance, a concept that we now want to proclaim to the world. The human being is one, and humanity is one. Whatever damage is done to another in any one place, ends up by damaging everyone. Thus the words and ideas of the Synod must be a clarion call, addressed to all people with political or religious responsibility, to put a stop to Christianophobia; to rise up in defence of refugees and all who are suffering, and to revitalize the spirit of reconciliation. In the final analysis, healing can only come from deep faith in God’s reconciling love. Strengthening this faith, nourishing it and causing it to shine forth is the Church’s principal task at this hour.
I would willingly speak in some detail of my unforgettable journey to the United Kingdom, but I will limit myself to two points that are connected with the theme of the responsibility of Christians at this time and with the Church’s task to proclaim the Gospel. My thoughts go first of all to the encounter with the world of culture in Westminster Hall, an encounter in which awareness of shared responsibility at this moment in history created great attention which, in the final analysis, was directed to the question of truth and faith itself. It was evident to all that the Church has to make her own contribution to this debate. Alexis de Tocqueville, in his day, observed that democracy in America had become possible and had worked because there existed a fundamental moral consensus which, transcending individual denominations, united everyone. Only if there is such a consensus on the essentials can constitutions and law function. This fundamental consensus derived from the Christian heritage is at risk wherever its place, the place of moral reasoning, is taken by the purely instrumental rationality of which I spoke earlier. In reality, this makes reason blind to what is essential. To resist this eclipse of reason and to preserve its capacity for seeing the essential, for seeing God and man, for seeing what is good and what is true, is the common interest that must unite all people of good will. The very future of the world is at stake.
Finally I should like to recall once more the beatification of Cardinal John Henry Newman. Why was he beatified? What does he have to say to us? Many responses could be given to these questions, which were explored in the context of the beatification. I would like to highlight just two aspects which belong together and which, in the final analysis, express the same thing. The first is that we must learn from Newman’s three conversions, because they were steps along a spiritual path that concerns us all. Here I would like to emphasize just the first conversion: to faith in the living God. Until that moment, Newman thought like the average men of his time and indeed like the average men of today, who do not simply exclude the existence of God, but consider it as something uncertain, something with no essential role to play in their lives. What appeared genuinely real to him, as to the men of his and our day, is the empirical, matter that can be grasped. This is the "reality" according to which one finds one’s bearings. The "real" is what can be grasped, it is the things that can be calculated and taken in one’s hand. In his conversion, Newman recognized that it is exactly the other way round: that God and the soul, man’s spiritual identity, constitute what is genuinely real, what counts. These are much more real than objects that can be grasped. This conversion was a Copernican revolution. What had previously seemed unreal and secondary was now revealed to be the genuinely decisive element. Where such a conversion takes place, it is not just a person’s theory that changes: the fundamental shape of life changes. We are all in constant need of such conversion: then we are on the right path.
The driving force that impelled Newman along the path of conversion was conscience. But what does this mean? In modern thinking, the word "conscience" signifies that for moral and religious questions, it is the subjective dimension, the individual, that constitutes the final authority for decision. The world is divided into the realms of the objective and the subjective. To the objective realm belong things that can be calculated and verified by experiment. Religion and morals fall outside the scope of these methods and are therefore considered to lie within the subjective realm. Here, it is said, there are in the final analysis no objective criteria. The ultimate instance that can decide here is therefore the subject alone, and precisely this is what the word "conscience" expresses: in this realm only the individual, with his intuitions and experiences, can decide. Newman’s understanding of conscience is diametrically opposed to this. For him, "conscience" means man’s capacity for truth: the capacity to recognize precisely in the decision-making areas of his life – religion and morals – a truth, the truth. At the same time, conscience – man’s capacity to recognize truth – thereby imposes on him the obligation to set out along the path towards truth, to seek it and to submit to it wherever he finds it. Conscience is both capacity for truth and obedience to the truth which manifests itself to anyone who seeks it with an open heart. The path of Newman’s conversions is a path of conscience – not a path of self-asserting subjectivity but, on the contrary, a path of obedience to the truth that was gradually opening up to him. His third conversion, to Catholicism, required him to give up almost everything that was dear and precious to him: possessions, profession, academic rank, family ties and many friends. The sacrifice demanded of him by obedience to the truth, by his conscience, went further still. Newman had always been aware of having a mission for England. But in the Catholic theology of his time, his voice could hardly make itself heard. It was too foreign in the context of the prevailing form of theological thought and devotion. In January 1863 he wrote in his diary these distressing words: "As a Protestant, I felt my religion dreary, but not my life - but, as a Catholic, my life dreary, not my religion". He had not yet arrived at the hour when he would be an influential figure. In the humility and darkness of obedience, he had to wait until his message was taken up and understood. In support of the claim that Newman’s concept of conscience matched the modern subjective understanding, people often quote a letter in which he said – should he have to propose a toast – that he would drink first to conscience and then to the Pope. But in this statement, "conscience" does not signify the ultimately binding quality of subjective intuition. It is an expression of the accessibility and the binding force of truth: on this its primacy is based. The second toast can be dedicated to the Pope because it is his task to demand obedience to the truth.
I must refrain from speaking of my remarkable journeys to Malta, Portugal and Spain. In these it once again became evident that the faith is not a thing of the past, but an encounter with the God who lives and acts now. He challenges us and he opposes our indolence, but precisely in this way he opens the path towards true joy.
Excita, Domine, potentiam tuam, et veni. We set out from this plea for the presence of God’s power in our time and from the experience of his apparent absence. If we keep our eyes open as we look back over the year that is coming to an end, we can see clearly that God’s power and goodness are also present today in many different ways. So we all have reason to thank him. Along with thanks to the Lord I renew my thanks to all my co-workers. May God grant to all of us a holy Christmas and may he accompany us with his blessings in the coming year.
I entrust these prayerful sentiments to the intercession of the Holy Virgin, Mother of the Redeemer, and I impart to all of you and to the great family of the Roman Curia a heartfelt Apostolic Blessing. Happy Christmas!
[01824-02.01] [Original text: Italian]
● TRADUZIONE IN LINGUA TEDESCA
Meine Herrn Kardinäle,
verehrte Mitbrüder im bischöflichen und priesterlichen Dienst,
liebe Brüder und Schwestern!
Mit großer Freude komme ich zu dieser traditionellen Begegnung mit Ihnen, liebe Mitglieder des Kardinalskollegiums und Vertreter der Römischen Kurie und des Governatorato. Von Herzen begrüße ich jeden einzelnen, angefangen bei Kardinal Angelo Sodano, dem ich für die Worte der Ergebenheit und der Verbundenheit sowie für die freundlichen Glückwünsche danke, die er im Namen aller an mich gerichtet hat. Prope est jam Dominus, venite, adoremus! Wie eine einzige Familie betrachten wir das Geheimnis des Immanuel, des Gott-mit-uns, wie der Kardinal Dekan gesagt hat. Gerne erwidere ich die Glückwünsche und möchte allen, einschließlich der Vertreter des Heiligen Stuhls in aller Welt, aufrichtig danken für den kompetenten und großherzigen Beitrag, den ein jeder für den Vicarius Christi und für die Kirche leistet.
"Excita, Domine, potentiam tuam, et veni" – so und mit ähnlichen Worten betet die Liturgie der Kirche wiederholt in den Tagen des Advents. Es sind Gebete, die wohl in der Zeit des untergehenden Römischen Reiches formuliert worden sind. Die Auflösung der tragenden Ordnungen des Rechts und der moralischen Grundhaltungen, die ihnen Kraft gaben, ließ die Dämme zerbrechen, die bisher das friedliche Miteinander der Menschen geschützt hatten. Eine Welt war im Untergang begriffen. Häufige Naturkatastrophen verstärkten noch diese Erfahrung der Ungeborgenheit. Es war keine Macht in Sicht, die dem hätte Einhalt gebieten können. Um so dringender war der Ruf nach Gottes eigener Macht: daß er komme und die Menschen gegen all diese Drohungen schütze.
"Excita, Domine, potentiam tuam, et veni." Auch heute haben wir vielfältigen Anlaß, in dieses adventliche Beten der Kirche einzustimmen. Die Welt ist mit all ihren neuen Hoffnungen und Möglichkeiten doch zugleich bedrängt von dem Gefühl, daß der moralische Konsens zerfällt, ohne den die rechtlichen und politischen Strukturen nicht funktionieren, so daß die Kräfte, die zu ihrer Verteidigung aufgeboten werden, zum Mißerfolg verurteilt scheinen.
Excita – das Gebet erinnert an den Ruf zum Herrn, der im sturmgeschüttelten und dem Untergang nahen Boot der Jünger schlief. Als sein Machtwort den Sturm gestillt hatte, tadelte er die Jünger, daß sie so wenig Glauben hatten (Mt 8, 26 par.). Er wollte sagen: In euch selbst hat der Glaube geschlafen. Dasselbe wird er auch zu uns sagen. Auch in uns schläft der Glaube so oft. So bitten wir ihn, daß er uns aus dem Schlaf eines müde gewordenen Glaubens aufwecke und dem Glauben wieder Macht gebe, Berge zu versetzen – das heißt den Dingen der Welt ihre rechte Ordnung zu geben.
"Excita, Domine, potentiam tuam, et veni": Dieses Adventsgebet ist mir in den großen Bedrängnissen, denen wir im vergangenen Jahr ausgesetzt waren, immer wieder in die Gedanken und auf die Lippen gekommen. Wir hatten mit großer Freude das Jahr des Priestertums begonnen, und wir durften es auch gottlob mit großer Dankbarkeit beenden, obwohl es so ganz anders verlaufen ist, als wir erwartet hatten. Es ist uns Priestern und den Laien, gerade auch jungen Menschen, wieder bewußt geworden, welches Geschenk das Priestertum der katholischen Kirche darstellt, das uns vom Herrn anvertraut worden ist. So ist uns wieder bewußt geworden, wie schön es ist, daß Menschen im Namen Gottes und mit Vollmacht das Wort der Vergebung aussprechen dürfen und so die Welt, das Leben ändern können. Wie schön es ist, daß Menschen das Wort der Verwandlung sprechen dürfen, mit dem der Herr ein Stück Welt in sich hineinzieht und sie so an einer Stelle in ihrer Substanz umwandelt. Wie schön es ist, Menschen vom Herrn her in ihren Freuden und Leiden, in den großen wie in den dunklen Stunden des Lebens beistehen zu dürfen. Wie schön es ist, im Leben nicht dies oder jenes zum Auftrag zu haben, sondern einfach das Menschsein selbst – das Helfen dazu, daß es auf Gott hin offen werde und von Gott her gelebt. Um so mehr waren wir erschüttert, gerade in diesem Jahr in einem Umfang, den wir uns nicht hatten vorstellen können, Fälle von Mißbrauch Minderjähriger durch Priester kennenzulernen, die das Sakrament in sein Gegenteil verkehren, den Menschen in seiner Kindheit – unter dem Deckmantel des Heiligen – zuinnerst verletzen und Schaden für das ganze Leben zufügen.
Mir ist dabei eine Vision der heiligen Hildegard von Bingen in den Sinn gekommen, die in erschütternder Weise das beschreibt, was wir in diesem Jahr erfahren haben. „Im Jahre 1170 nach Christi Geburt lag ich lange krank danieder. Da schaute ich, wach an Körper und Geist, eine Frau von solcher Schönheit, daß Menschengeist es nicht zu fassen vermochte. Ihre Gestalt ragte von der Erde bis zum Himmel. Ihr Antlitz leuchtete von höchstem Glanz. Ihr Auge blickte zum Himmel. Bekleidet war sie mit einem strahlendhellen Gewand aus weißer Seide und einem Mantel, besetzt mit kostbaren Steinen. An den Füßen trug sie Schuhe aus Onyx. Aber ihr Antlitz war mit Staub bestreut, ihr Gewand war an der rechten Seite zerrissen. Auch hatte der Mantel seine erlesene Schönheit verloren, und ihre Schuhe waren von oben her beschmutzt. Mit lauter, klagender Stimme schrie sie zum hohen Himmel hinauf: Horch auf, Himmel; mein Antlitz ist besudelt! Trauere, Erde: mein Kleid ist zerrissen! Erzittere, Abgrund: meine Schuhe sind beschmutzt!
Und weiter sprach sie: Im Herzen des Vaters war ich verborgen, bis der Menschensohn, in Jungfräulichkeit empfangen und geboren, sein Blut vergoß. Mit diesem Blut, als seiner Mitgift, hat er mich sich vermählt.
Die Wundmale meines Bräutigams bleiben frisch und offen, solange die Sündenwunden der Menschen offen sind. Eben dieses Offenbleiben der Wunden Christi ist die Schuld der Priester. Mein Gewand zerreißen sie dadurch, daß sie Übertreter des Gesetzes, des Evangeliums und ihrer Priesterpflicht sind. Meinem Mantel nehmen sie den Glanz, da sie die ihnen auferlegten Vorschriften in allem vernachlässigen. Sie beschmutzen meine Schuhe, da sie die geraden, das heißt die harten und rauhen Wege der Gerechtigkeit nicht einhalten und auch ihren Untergebenen kein gutes Beispiel geben. Dennoch finde ich bei einigen das Leuchten der Wahrheit.
Und ich hörte eine Stimme vom Himmel, die sprach: Dieses Bild stellt die Kirche dar. Deshalb, o Mensch, der du das schaust und die Klageworte hörst, künde es den Priestern, die zur Leitung und Belehrung des Gottesvolkes bestellt sind und denen gleich den Aposteln gesagt wurde: ‚Geht hinaus in die Welt, und verkündet das Evangelium allen Geschöpfen!’ (Mk 16, 15)" (Brief an Werner von Kirchheim und an seine Priestergemeinschaft: PL 197, 269ff).
Das Gesicht der Kirche ist in der Vision der heiligen Hildegard mit Staub bedeckt, und so haben wir es gesehen. Ihr Gewand ist zerrissen - durch die Schuld der Priester. So, wie sie es gesehen und gesagt hat, haben wir es in diesem Jahr erlebt. Wir müssen diese Demütigung als einen Anruf zur Wahrheit und als einen Ruf zur Erneuerung annehmen. Nur die Wahrheit rettet. Wir müssen fragen, was wir tun können, um geschehenes Unrecht so weit wie möglich gutzumachen. Wir müssen fragen, was in unserer Verkündigung, in unserer ganzen Weise, das Christsein zu gestalten, falsch war, daß solches geschehen konnte. Wir müssen zu einer neuen Entschiedenheit des Glaubens und des Guten finden. Wir müssen zur Buße fähig sein. Wir müssen uns mühen, in der Vorbereitung zum Priestertum alles zu versuchen, damit solches nicht wieder geschehen kann. Es ist dies auch der Ort, all denen von Herzen zu danken, die sich einsetzen, den Opfern zu helfen und ihnen das Vertrauen zur Kirche, die Fähigkeit, ihrer Botschaft zu glauben, wiederzuschenken. Bei meinen Begegnungen mit Opfern dieser Sünde habe ich immer auch Menschen getroffen, die mit großer Hingabe den Leidenden und Geschädigten zur Seite stehen. Es ist Anlaß, dabei auch den vielen guten Priestern zu danken, die die Güte des Herrn in Demut und Treue weitertragen und mitten in den Zerstörungen Zeugen sind für die unverlorene Schönheit des Priestertums.
Der besonderen Schwere dieser Sünde von Priestern und unserer entsprechenden Verantwortung sind wir uns bewußt. Aber wir können auch nicht schweigen über den Kontext unserer Zeit, in dem diese Vorgänge zu sehen sind. Es gibt einen Markt der Kinderpornographie, der irgendwie von der Gesellschaft immer mehr als etwas Selbstverständliches angesehen zu werden scheint. Die seelische Zerstörung der Kinder, in der Menschen zum Marktartikel gemacht werden, ist ein erschreckendes Zeichen der Zeit. Von Bischöfen aus den Ländern der Dritten Welt höre ich immer wieder, wie der Sextourismus eine ganze Generation bedroht und sie in ihrer Freiheit und Menschenwürde beschädigt. Die Apokalypse des heiligen Johannes rechnet es unter die großen Sünden Babylons, das heißt der gottlosen Riesenstädte der Welt, daß sie mit Leibern und mit Seelen Handel treiben und sie zur Ware machen (Apk 18, 13). In diesem Zusammenhang steht auch das Problem der Droge, die mit wachsender Gewalt ihre Polypenarme um den Erdball streckt – sichtbarer Ausdruck der Diktatur des Mammons, der den Menschen pervertiert. Alle Lust wird zu wenig, und die Übersteigerung in der Lüge des Rausches wird zur Gewalt, die ganze Regionen zerfleischt und dies im Namen eines fatalen Mißverständnisses von Freiheit, bei dem gerade die Freiheit des Menschen untergraben und schließlich vollends aufgelöst wird.
Um diesen Mächten entgegenzutreten, müssen wir einen Blick auf ihre ideologischen Grundlagen werfen. In den 70er Jahren wurde Pädophilie als etwas durchaus dem Menschen und auch dem Kind Gemäßes theoretisiert. Dies aber war Teil einer grundlegenden Perversion des Konzepts von Ethos. Es wurde – auch bis in die katholische Theologie hinein – behauptet, das in sich Böse gebe es so wenig, wie es das an sich Gute gebe. Es gebe nur „besser als" und „schlechter als". Nichts sei in sich gut oder schlecht. Alles hänge von den Umständen und von der Zwecksetzung ab. Je nach den Zwecken und Umständen könne alles gut oder auch schlecht sein. Moral wird durch ein Kalkül der Folgen ersetzt und hört damit auf, als solche zu bestehen. Die Folgen dieser Theorien sind heute offenkundig. Ihnen gegenüber hat Papst Johannes Paul II. 1993 in seiner Enzyklika Veritatis Splendor mit prophetischer Kraft in der großen rationalen Tradition des christlichen Ethos die wesentlichen und bleibenden Grundlagen moralischen Handelns herausgestellt. Dieser Text muß heute als Weg der Gewissensbildung neu ins Zentrum gerückt werden. Es ist unsere Verantwortung, in der Menschheit diese Maßstäbe als Wege der wahren Humanität neu hörbar und verstehbar zu machen in der Sorge um den Menschen, in die wir hineingeworfen sind.
An zweiter Stelle möchte ich ein Wort über die Synode der Kirchen des Nahen Ostens sagen. Sie begann mit meiner Reise nach Zypern, wo ich den dort hingekommenen Bischöfen dieser Länder das Arbeitsinstrument für die Synode übergeben konnte. Unvergessen bleibt die Gastfreundschaft der orthodoxen Kirche, die wir mit großem Dank erfahren durften. Auch wenn uns die volle Kommuniongemeinschaft noch nicht geschenkt ist, haben wir doch freudig erlebt, daß uns die Grundform der alten Kirche – das sakramentale Bischofsamt als Träger der apostolischen Überlieferung, die Lektüre der Schrift unter der Hermeneutik der Glaubensregel, das Verstehen der Schrift in der durch Gottes Inspiration gewachsenen vielfältigen Einheit mit Christus und schließlich der Glaube an die Zentralität der Eucharistie im Leben der Kirche - tief miteinander verbindet. So ist uns der Reichtum der altkirchlichen Riten auch innerhalb der katholischen Kirche lebendig begegnet. Wir haben an Gottesdiensten mit Maroniten und Melkiten teilgenommen, im lateinischen Ritus gefeiert und uns zum ökumenischen Gebet mit den Orthodoxen zusammengefunden, und wir haben die reiche christliche Kultur des christlichen Orients in beeindruckenden Veranstaltungen erleben dürfen. Aber wir haben auch das Problem des geteilten Landes erlebt. Schuld der Vergangenheit und tiefgehende Verletzungen wurden sichtbar, aber auch die Sehnsucht nach Frieden und Gemeinschaft, wie sie früher bestanden hatten. Allen ist bewußt, daß Gewalt nicht weiterführt – sie hat ja den jetzigen Zustand geschaffen. Nur im Kompromiß und im gegenseitigen Verstehen kann Einheit wiederhergestellt werden. Die Menschen für diese Haltung des Friedens zu bereiten, ist eine wesentliche Aufgabe der Seelsorge.
Bei der Synode hat sich dann der Blick auf den ganzen Vorderen Orient geweitet, wo Gläubige zusammenleben, die verschiedenen Religionen wie auch vielfältigen Traditionen und unterschiedlichen Riten angehören. Was die Christen betrifft, so gibt es die vorchalkedonischen und die chalkedonischen Kirchen; Kirchen in Gemeinschaft mit Rom und solche, die außerhalb dieser Gemeinschaft stehen, und in beiden stehen vielfältige Riten nebeneinander. In den Umwälzungen der letzten Jahre ist die Geschichte des Miteinander erschüttert worden, die Spannungen und die Spaltungen sind gewachsen, so daß wir immer wieder erschrocken Zeugen von Gewalttätigkeiten werden, in denen nicht mehr geachtet wird, was dem anderen heilig ist, ja, in denen die elementarsten Regeln der Menschlichkeit zusammenbrechen. In der gegenwärtigen Situation sind die Christen die am meisten bedrängte und gequälte Minderheit. Sie haben über Jahrhunderte hin mit ihren jüdischen und muslimischen Nachbarn friedlich zusammengelebt. In der Synode haben wir weise Worte des Beraters des Mufti der Republik Libanon gegen die Gewalttaten den Christen gegenüber gehört. Er sagte: Mit der Verletzung der Christen werden wir selbst verletzt. Aber leider sind diese und ähnliche Stimmen der Vernunft, für die wir zutiefst dankbar sind, zu schwach. Auch hier ist das Hindernis die Verbindung von Gewinnsucht und ideologischer Verblendung. Die Synode hat aus dem Geist des Glaubens und seiner Vernunft heraus ein großes Konzept des Dialogs, des Vergebens und des Sich-Annehmens entwickelt, das wir nun in die Welt hineinrufen wollen. Der Mensch ist nur einer, und die Menschheit ist eine. Was irgendwo Menschen angetan wird, verletzt letztlich alle. So sollen die Worte und Gedanken der Synode ein lauter Ruf an alle Menschen mit politischer oder religiöser Verantwortung sein, der Christianophobie Einhalt zu gebieten; aufzustehen, um die Vertriebenen und die Leidenden zu verteidigen und den Geist der Versöhnung neu zu beleben. Letztlich kann die Heilung nur aus einem tiefen Glauben an die versöhnende Liebe Gottes kommen. Diesem Glauben Kraft zu geben, ihn zu nähren und ihn leuchten zu lassen, ist die Hauptaufgabe der Kirche in dieser Stunde.
Gern würde ich ausführlich über die unvergeßliche Reise ins Vereinigte Königreich sprechen, möchte mich aber auf zwei Punkte beschränken, die dem Thema der Verantwortung der Christen in dieser Zeit und dem Auftrag der Kirche zur Verkündigung des Evangeliums zugeordnet sind. Da ist zuerst die Begegnung mit der Welt der Kultur in der Westminster Hall, in der das Bewußtsein für die gemeinsame Verantwortung dieser historischen Stunde eine große Aufmerksamkeit schuf, die letztlich der Frage nach der Wahrheit und dem Glauben selber galt. Daß in diesem Ringen die Kirche mitsprechen muß, war allen offenkundig. Alexis de Tocqueville hatte seinerzeit festgestellt, daß die Demokratie in Amerika möglich wurde und funktionierte, weil es einen über die einzelnen Denominationen hinüberreichenden moralischen Grundkonsens gab, der alle verband. Nur wenn es einen solchen Konsens im Wesentlichen gibt, können Verfassungen und Recht funktionieren. Dieser aus dem christlichen Erbe gekommene Grundkonsens ist da gefährdet, wo an seine Stelle, an die Stelle der moralischen Vernunft die bloße Zweckrationalität tritt, von der ich vorhin gesprochen hatte. Dies ist in Wirklichkeit eine Erblindung der Vernunft für das Eigentliche. Gegen diese Erblindung der Vernunft anzukämpfen und ihr die Sehfähigkeit für das Wesentliche, für Gott und den Menschen, für das Gute und das Wahre zu erhalten, ist das gemeinsame Anliegen, das alle Menschen guten Willens verbinden muß. Es geht um die Zukunft der Welt.
Schließlich möchte ich noch an die Seligsprechung von John Henry Kardinal Newman erinnern. Warum wurde er seliggesprochen? Was hat er uns zu sagen? Auf diese Fragen gibt es viele Antworten, die im Umkreis der Seligsprechung entfaltet worden sind. Ich möchte daraus nur zwei Aspekte hervorheben, die eng zusammengehören und im letzten dasselbe ausdrücken. Das erste ist, daß wir von den drei Bekehrungen Newmans zu lernen haben, weil sie Schritte eines geistigen Weges sind, der uns alle angeht. Herausheben möchte ich hier nur die erste Bekehrung: die zum Glauben an den lebendigen Gott. Bis dahin dachte Newman wie der Durchschnitt der Menschen seiner Zeit und wie auch der Durchschnitt der Menschen von heute, die Gottes Existenz nicht einfach ausschließen, aber sie doch als etwas Unsicheres ansehen, das im eigenen Leben keine wesentliche Rolle spielt. Als das eigentlich Reale erschien ihm wie den Menschen seiner und unserer Zeit das Empirische, das materiell Faßbare. Dies ist die „Realität", an der man sich orientiert. Das „Reale" ist das Greifbare, sind die Dinge, die man berechnen und in die Hand nehmen kann. In seiner Bekehrung erkennt Newman, daß es genau umgekehrt ist: daß Gott und die Seele, das geistige Selbstsein des Menschen, das eigentlich Wirkliche sind, worauf es ankommt. Daß sie viel wirklicher sind als die faßbaren Gegenstände. Diese Bekehrung bedeutet eine kopernikanische Wende. Was bisher unwirklich und unwesentlich erschien, erweist sich als das eigentlich Entscheidende. Wo eine solche Bekehrung geschieht, ändert sich nicht eine Theorie, sondern die Grundgestalt des Lebens wird anders. Dieser Bekehrung bedürfen wir alle immer wieder: Dann sind wir auf dem richtigen Weg.
Die treibende Kraft hinter dem Weg der Bekehrung war bei Newman das Gewissen. Was aber ist damit gemeint? Im modernen Denken bedeutet das Wort Gewissen, daß in Sachen Moral und Religion das Subjektive, das Individuum die letzte Entscheidungsinstanz darstellt. Die Welt wird in die Bereiche des Objektiven und des Subjektiven geschieden. Das Objektive sind die Dinge, die man berechnen und im Experiment überprüfen kann. Religion und Moral entziehen sich diesen Methoden und gelten daher als der Bereich des Subjektiven. Da gebe es letztlich keine objektiven Maßstäbe. Die letzte Instanz, die hier entscheiden kann, sei daher nur das Subjekt, und mit dem Wort „Gewissen" wird dann eben dies ausgesagt: In diesem Bereich kann nur der einzelne, das Individuum mit seinen Einsichten und Erfahrungen entscheiden. Newmans Auffassung von Gewissen ist dem diametral entgegengesetzt. „Gewissen" bedeutet für ihn die Wahrheitsfähigkeit des Menschen: die Fähigkeit, gerade in den entscheidenden Bereichen seiner Existenz – Religion und Moral – Wahrheit, die Wahrheit zu erkennen. Das Gewissen, die Fähigkeit des Menschen zum Erkennen der Wahrheit legt ihm damit zugleich die Verpflichtung auf, sich auf den Weg zur Wahrheit zu begeben, nach ihr zu suchen und sich ihr zu unterwerfen, wo er ihr begegnet. Gewissen ist Fähigkeit zur Wahrheit und Gehorsam gegenüber der Wahrheit, die sich dem offenen Herzens suchenden Menschen zeigt. Der Weg der Bekehrungen Newmans ist ein Weg des Gewissens – nicht der sich behauptenden Subjektivität, sondern gerade umgekehrt des Gehorsams gegenüber der Wahrheit, die sich ihm Schritt um Schritt öffnete. Seine dritte Bekehrung, die Konversion zum Katholizismus, verlangte von ihm, fast alles aufzugeben, was ihm lieb und teuer war: Besitz und Beruf, seinen akademischen Rang, Familienbande und viele Freunde. Der Verzicht, den ihm der Gehorsam gegenüber der Wahrheit, sein Gewissen, abverlangte, ging noch weiter. Newman hatte immer gewußt, daß er eine Sendung für England habe. Aber in der katholischen Theologie seiner Zeit konnte seine Stimme kaum gehört werden. Sie war zu fremd gegenüber der herrschenden Form des theologischen Denkens und auch der Frömmigkeit. Im Januar 1863 schrieb er in sein Tagebuch die erschütternden Sätze: „Als Protestant empfand ich meine Religion kümmerlich, aber nicht mein Leben. Und nun, als Katholik, ist mein Leben kümmerlich, aber nicht meine Religion." Die Stunde seiner Wirksamkeit war noch nicht da. Er mußte in der Demut und im Dunkel des Gehorsams warten, bis seine Botschaft gebraucht und verstanden wurde. Um Newmans Gewissensbegriff mit dem modernen subjektiven Verständnis des Gewissens identifizieren zu können, verweist man gern auf sein Wort, daß er - falls es angebracht wäre, einen Trinkspruch auszubringen - zuerst auf das Gewissen und dann auf den Papst anstoßen werde. Aber in dieser Aussage bedeutet das Gewissen nicht die letzte Verbindlichkeit des subjektiven Empfindens. Es ist Ausdruck für die Zugänglichkeit und für die verpflichtende Kraft der Wahrheit: Darin ist sein Primat begründet. Dem Papst kann der zweite Trinkspruch gelten, weil es sein Auftrag ist, den Gehorsam gegenüber der Wahrheit einzufordern.
Ich muß es mir versagen, über die eindrucksvollen Reisen nach Malta, nach Portugal und nach Spanien zu sprechen. In ihnen ist wieder neu sichtbar geworden, daß Glaube nicht eine Sache der Vergangenheit, sondern Begegnung mit dem jetzt lebenden und handelnden Gott ist. Daß er uns fordert und unserer Bequemlichkeit entgegensteht, aber uns gerade so den Weg zur wirklichen Freude öffnet.
"Excita, Domine, potentiam tuam, et veni!" Von der Bitte um die Gegenwart von Gottes Macht in unserer Zeit und von der Erfahrung seiner scheinbaren Abwesenheit sind wir ausgegangen. Wenn wir unsere Augen auftun, kann uns gerade im Rückblick auf das vergangene Jahr sichtbar werden, daß Gottes Macht und Güte auch heute auf vielfältige Weise gegenwärtig sind. So haben wir alle Grund, Ihm zu danken. Mit dem Dank an den Herrn bekräftige ich meinen Dank an alle Mitarbeiter. Möge Gott uns allen gesegnete Weihnachten und sein gutes Geleit im kommenden Jahr schenken.
Diese Wünsche vertraue ich der Fürbitte der Heiligen Jungfrau, der Mutter des Erlösers an und erteile Ihnen allen sowie der großen Familie der Römischen Kurie den Apostolischen Segen. Frohe Weihnachten!
[01824-05.01] [Originalsprache: Italienisch]
● TRADUZIONE IN LINGUA SPAGNOLA
Señores Cardenales,
Venerados hermanos en el Episcopado y el Presbiterado,
Queridos hermanos y hermanas
Me alegra mucho estar con vosotros en este tradicional encuentro, queridos miembros del Colegio Cardenalicio, Representantes de la Curia Romana y del Governatorato. Dirijo un cordial saludo a cada uno de vosotros, y en primer lugar al Cardenal Angelo Sodano, al que agradezco las palabras de afecto y comunión, así como la sentida felicitación que me ha dirigido en nombre de todos. Prope est jam Dominus, venite, adoremus! Como una sola familia contemplamos el misterio del Emmanuel, el Dios con nosotros, como ha dicho el Cardenal Decano. También yo os felicito con agrado y deseo dar las gracias a todos, también a los Representantes Pontificios diseminados por el mundo, por la colaboración competente y generosa que cada uno presta al Vicario de Cristo y a la Iglesia.
Excita, Domine, potentiam tuam, et veni! La liturgia de la Iglesia ora incesantemente en los días de Adviento con éstas o parecidas palabras. Son invocaciones formuladas probablemente en el período del declive del Imperio Romano. La disolución de los ordenamientos que sustentaban en derecho y de las actitudes morales de fondo, que les daban fuerza, provocaron la ruptura de los muros que hasta ese momento habían protegido la convivencia pacífica entre los hombres. Un mundo estaba llegando a su ocaso. Además, frecuentes calamidades naturales aumentaban esta experiencia de inseguridad. No se veía ninguna fuerza capaz de frenar dicho declive. Se hacía cada vez más insistente la invocación del poder de Dios: que venga y proteja a los hombres de todas estas amenazas.
Excita, Domine, potentiam tuam, et veni! También hoy tenemos numerosos motivos para unirnos a esta oración de Adviento de la Iglesia. El mundo, con todas sus nuevas esperanzas, está, al mismo tiempo, angustiado por la impresión de que el consenso moral se está disolviendo, un consenso sin el cual no funcionan las estructuras jurídicas y políticas; por consiguiente, las fuerzas movilizadas para defender dichas estructuras parecen estar destinadas al fracaso.
Excita: la oración recuerda el grito dirigido al Señor, que estaba durmiendo en la barca de los discípulos sacudida por la tempestad y a punto de hundirse. Cuando su palabra poderosa apaciguó la tempestad, Él echó en cara a los discípulos su poca fe (cf. Mt 8,26 par.). Quería decir: en vosotros mismos, la fe se ha adormecido. Lo mismo quiere decirnos también a nosotros. Con mucha frecuencia, también en nosotros la fe está dormida. Pidámosle, pues, que nos despierte del sueño de una fe que se ha cansado y que devuelva a esa fe la fuerza de mover montañas, es decir, de dar el justo orden a las cosas del mundo.
Excita, Domine, potentiam tuam, et veni! Esta oración de Adviento me ha venido una y otra vez a la mente y a los labios en las grandes angustias que durante este año nos han afectado. Con mucha alegría comenzamos el Año Sacerdotal y, gracias a Dios, pudimos concluirlo también con mucha gratitud, no obstante su desarrollo fuera tan distinto a como habíamos esperado. En nosotros, sacerdotes, y en los laicos, precisamente en los jóvenes, se ha renovado la convicción del don que representa el sacerdocio de la Iglesia católica, que el Señor nos ha confiado. Nos hemos dado cuenta nuevamente de lo bello que es el que seres humanos tengan la facultad de pronunciar en nombre de Dios y con pleno poder la palabra del perdón, y así puedan cambiar el mundo, la vida; qué hermoso el que seres humanos estén autorizados a pronunciar las palabras de la consagración, con las que el Señor atrae a sí una parte del mundo, transformándola en sustancia suya en un determinado lugar; qué bello poder estar, con la fuerza del Señor, cerca de los hombres en sus gozos y desventuras, en los momentos importantes y en aquellos oscuros de la vida; qué bello tener como cometido en la propia existencia no esto o aquello, sino sencillamente el ser mismo del hombre, para ayudarlo a que se abra a Dios y sea vivido a partir de Dios. Por eso nos hemos visto tan turbados cuando, precisamente en este año hemos venido a saber de abusos contra menores, en unas dimensiones inimaginables para nosotros, cometidos por sacerdotes, que convierten el Sacramento en su contrario y, bajo el manto de lo sagrado, hieren profundamente a la persona humana en su infancia y le provocan daños para toda la vida.
En este contexto, me ha venido a la memoria una visión de santa Hildegarda de Bingen, que describe de manera impresionante lo que hemos vivido en este año: «En el año 1170 después de Cristo estuve en cama, enferma durante mucho tiempo. Entonces, física y mentalmente despierta, vi una mujer de una tal belleza que la mente humana no es capaz de comprender. Su figura se erguía de la tierra hasta el cielo. Su rostro brillaba con un esplendor sublime. Sus ojos miraban al cielo. Llevaba un vestido luminoso y radiante de seda blanca y con un manto cuajado de piedras preciosas. En los pies calzaba zapatos de ónix. Pero su rostro estaba cubierto de polvo, su vestido estaba rasgado en la parte derecha. También el manto había perdido su belleza singular y sus zapatos estaban sucios por encima. Con gran voz y lastimera, la mujer alzó su grito al cielo: "Escucha, cielo: mi rostro está embadurnado. Aflígete, tierra: mi vestido está rasgado. Tiembla, abismo: mis zapatos están ensuciados".
Y prosiguió: "Estuve escondida en el corazón del Padre, hasta que el Hijo del hombre, concebido y dado a luz en la virginidad, derramó su sangre. Con esta sangre, como dote, me tomó como esposa.
Los estigmas de mi esposo permanecen frescos y abiertos mientras estén abiertas las heridas de los pecados de los hombres. El que permanezcan abiertas las heridas de Cristo es precisamente culpa de los sacerdotes. Ellos rasgan mi vestido porque son transgresores de la Ley, del Evangelio y de su deber sacerdotal. Quitan el esplendor de mi manto, porque descuidan totalmente los preceptos que tienen impuestos. Ensucian mis zapatos, porque no caminan por el camino recto, es decir por el duro y severo de la justicia, y también porque no dan un buen ejemplo a sus súbditos. Sin embargo, encuentro en algunos el esplendor de la verdad".
Y escuché una voz del cielo que decía: "Esta imagen representa a la Iglesia. Por esto, oh ser humano que ves todo esto y que escuchas los lamentos, anúncialo a los sacerdotes que han de guiar e instruir al pueblo de Dios y a los que, como a los apóstoles, se les dijo: ‘Id al mundo entero y proclamad el Evangelio a toda la creación’" (Mc 16,15)» (Carta a Werner von Kirchheim y a su comunidad sacerdotal: PL 197, 269ss)
En la visión de santa Hildegarda, el rostro de la Iglesia está cubierto de polvo, y así es como lo hemos visto. Su vestido está rasgado por culpa de los sacerdotes. Tal como ella lo ha visto y expresado, así lo hemos visto este año. Hemos de acoger esta humillación como una exhortación a la verdad y una llamada a la renovación. Solamente la verdad salva. Hemos de preguntarnos qué podemos hacer para reparar lo más posible la injusticia cometida. Hemos de preguntarnos qué había de equivocado en nuestro anuncio, en todo nuestro modo de configurar el ser cristiano, de forma que algo así pudiera suceder. Hemos de hallar una nueva determinación en la fe y en el bien. Hemos de ser capaces de penitencia. Debemos esforzarnos en hacer todo lo posible en la preparación para el sacerdocio, para que algo semejante no vuelva a suceder jamás. También éste es el lugar para dar las gracias de corazón a todos los que se esfuerzan por ayudar a las víctimas y devolverles la confianza en la Iglesia, la capacidad de creer en su mensaje. En mis encuentros con las víctimas de este pecado, siembre he encontrado también personas que, con gran dedicación, están al lado del que sufre y ha sufrido daño. Ésta es la ocasión para dar las gracias también a tantos buenos sacerdotes que transmiten con humildad y fidelidad la bondad del Señor y, en medio de la devastación, son testigos de la belleza permanente del sacerdocio.
Somos conscientes de la especial gravedad de este pecado cometido por sacerdotes, y de nuestra correspondiente responsabilidad. Pero tampoco podemos callar sobre el contexto de nuestro tiempo en el que hemos visto estos sucesos. Existe un mercado de la pornografía referente a los niños, que de algún modo parece ser considerado cada vez más por la sociedad como algo normal. La devastación psicológica de los niños, en la que personas humanas quedan reducidas a artículos de mercado, es un espantoso signo de los tiempos. Oigo decir una y otra vez a Obispos de Países del Tercer Mundo, cómo el turismo sexual amenaza a toda una generación, dañándola en su libertad y dignidad humana. El
Apocalipsis de san Juan incluye entre los grandes pecados de Babilonia —símbolo de las grandes ciudades irreligiosas del mundo— el comercio de los cuerpos y las almas, convirtiéndolos en una mercancía (cf. Ap 18,13). En este contexto se coloca también el problema de la droga, que con una fuerza creciente extiende sus tentáculos sobre todo el globo terrestre: expresión elocuente de la dictadura de la riqueza y el placer que pervierte al hombre. Cualquier placer es insuficiente y el exceso en el engaño de la embriaguez se convierte en una violencia que destruye regiones enteras, y todo en nombre de una fatal tergiversación de la libertad, en la que precisamente la libertad del hombre es la que se ve amenazada y, al final, completamente anulada.
Para oponerse a estas fuerzas debemos echar una mirada a sus fundamentos ideológicos. En los años setenta, se teorizó que la pedofilia era algo completamente conforme con el hombre e incluso con el niño. Sin embargo, esto formaba parte de una perversión de fondo del concepto de ethos. Se afirmaba —incluso en el ámbito de la teología católica— que no existía ni el mal ni el bien en sí mismos. Existía sólo un «mejor que» y un «peor que». No habría nada bueno o malo en sí mismo. Todo dependía de las circunstancias y de los fines que se pretendían. Dependiendo de los objetivos y las circunstancias, todo podría ser bueno o malo. La moral fue sustituida por un cálculo de las consecuencias, y por eso mismo deja existir. Los efectos de tales teorías saltan hoy a la vista. En contra de ellas, el Papa Juan Pablo II, en su Encíclica Veritatis splendor, de 1993, señaló con fuerza profética que las bases esenciales y permanentes del actuar moral se encuentran en la gran tradición racional del ethos cristiano. Este texto se ha de poner hoy nuevamente en el centro de atención como camino en la formación de la conciencia. Toca a nosotros hacer que estos criterios sean escuchados y comprendidos por los hombres como caminos de verdadera humanidad, en el contexto de la preocupación por el hombre, en la que estamos inmersos.
Como segundo punto, quisiera decir una palabra sobre el Sínodo de las Iglesias de Oriente Medio. Se inició con mi viaje a Chipre, en el que entregué el Instrumentum laboris para el Sínodo a los Obispos de aquellos países congregados allí. La hospitalidad de la Iglesia ortodoxa, que experimentamos con enorme gratitud, permanece inolvidable. Si bien la comunión plena no nos ha sido todavía concedida, hemos constatado con alegría que la forma básica de la Iglesia antigua nos une unos a otros profundamente: el ministerio sacramental de los Obispos como portadores de la tradición apostólica, la lectura de la Escritura según la hermenéutica de la Regula fidei, la comprensión de la Escritura en la multiforme unidad centrada en Cristo, que se ha desarrollado gracias a la inspiración de Dios, y, en fin, la fe en el puesto central de la Eucaristía en la vida de la Iglesia. Así, hemos encontrado de modo vivo la riqueza de los ritos de la Iglesia antigua, también dentro de la Iglesia católica. Tuvimos liturgias con los Maronitas y los Melquitas, celebramos en rito latino y tuvimos momentos de oración ecuménica con los Ortodoxos, y pudimos ver la rica cultura cristiana del Oriente cristiano en imponentes manifestaciones. Pero hemos visto también el problema del País dividido. Aparecían visibles las culpas del pasado y profundas heridas, pero también el deseo de una paz y una comunión como existían antes. Todos son conscientes del hecho de que la violencia no produce ningún progreso, creando, en cambio, la situación actual. Sólo con el compromiso y la comprensión mutua se podrá restablecer la unidad. Una tarea esencial de la pastoral es preparar a la gente para esta actitud de paz.
En el Sínodo, la mirada se extendió a todo el Medio Oriente, donde conviven fieles que pertenecen a diferentes religiones y también a múltiples tradiciones y ritos distintos. Por lo que respecta a los cristianos, están las Iglesias pre-calcedonenses y las calcedonenses; Iglesias en comunión con Roma y otras que están fuera de esa comunión, y en ambas existen múltiples ritos, unos junto a otros. El desconcierto de los últimos años ha sacudido de tal manera la historia de convivencia y ha hecho crecer las tensiones y las divisiones, que una y otra vez asistimos con horror a actos de violencia que no respetan ya lo que es sagrado para el otro, y en los que por el contrario se derrumban las reglas más elementales de la humanidad. En la situación actual, los cristianos son la minoría más oprimida y atormentada. Durante siglos han vivido pacíficamente con sus vecinos judíos y musulmanes. En el Sínodo hemos escuchado sabias palabras del Consejero del Muftí de la República de Líbano contra los actos de violencia hacia los cristianos. Decía que, hiriendo a los cristianos, se nos hiere a nosotros mismos. Sin embargo, lamentablemente, esta voz de la razón, y otras análogas, que agradecemos profundamente, son demasiado débiles. También aquí el obstáculo es el vínculo entre afán de lucro y ceguera ideológica. Basándose en el espíritu de la fe y de su razonabilidad, el Sínodo ha desarrollado un gran concepto de diálogo, de perdón y de acogida mutua, un concepto que ahora queremos gritar al mundo. El ser humano es uno solo y la humanidad es una sola. Lo que en cualquier lugar se hace contra el hombre al final hiere a todos. Así, las palabras y el pensamiento del Sínodo han de ser un fuerte grito a todas las personas con responsabilidad política o religiosa para que detengan la cristianofobia; para que se alcen en defensa de los prófugos y los que sufren, y revitalicen el espíritu de la reconciliación. En última instancia, la recuperación sólo puede venir de una fe profunda en el amor reconciliador de Dios. La tarea principal de la Iglesia en este momento es dar fuerza a esta fe, alimentarla y hacerla resplandecer.
Me gustaría hablar con detalle del inolvidable viaje al Reino Unido, sin embargo, me limitaré a dos puntos que están relacionados con el tema de la responsabilidad de los cristianos en el tiempo actual y con el cometido de la Iglesia de anunciar el Evangelio. Mi pensamiento se dirige en primer lugar al encuentro con el mundo de la cultura en Westminster Hall, un encuentro en el que la conciencia de la responsabilidad común en este momento histórico provocó una gran atención, que, en última instancia, se orientó a la cuestión sobre la verdad y la fe. Era evidente a todos, que en este debate la Iglesia debe dar su propia aportación. Alexis de Tocqueville, en su tiempo, observó que en América la democracia fue posible y había funcionado porque, más allá de las denominaciones particulares, existía un consenso moral de base que unía a todos. Sólo si existe un consenso semejante sobre lo esencial, las constituciones y el derecho pueden funcionar. Este consenso de fondo que proviene del patrimonio cristiano está en peligro allí donde en su lugar, en vez de la razón moral, se pone la mera racionalidad finalista de la que ya hemos hablado antes. Esto es realmente una ceguera de la razón para lo que es esencial. Combatir esta ceguera de la razón y conservar la capacidad de ver lo esencial, de ver a Dios y al hombre, lo que es bueno y verdadero, es el propósito común que ha de unir a todos los hombres de buena voluntad. Está en juego el futuro del mundo.
Por último, quisiera recordar ahora la beatificación del Cardenal John Henry Newman. ¿Por qué ha sido beatificado? ¿Qué nos puede decir? A estas preguntas se pueden dar muchas respuestas, que se han desarrollado en el contexto de la beatificación. Quisiera resaltar solamente dos aspectos que van unidos y, en el fondo, expresan lo mismo. El primero es que debemos aprender de las tres conversiones de Newman, porque son pasos de un camino espiritual que a todos nos interesa. Quisiera sólo resaltar aquí la primera conversión: la de la fe en el Dios vivo. Hasta aquel momento, Newman pensaba como el hombre medio de su tiempo y también como el de hoy, que simplemente no excluye la existencia de Dios, sino que la considera en todo caso como algo incierto, que no desempeña un papel esencial en la propia vida. Para él, como para los hombres de su tiempo y del nuestro, lo que aparecía como verdaderamente real era lo empírico, lo que se puede percibir materialmente. Esta es la «realidad» según la cual se nos orienta. Lo «real» es lo tangible, lo que se puede calcular y tomar con la mano. En su conversión, Newman reconoce que las cosas están precisamente al revés: que Dios y el alma, el ser mismo del hombre a nivel espiritual, constituye aquello que es verdaderamente real, lo que vale. Son mucho más reales que los objetos que se pueden tocar. Esta conversión significa un giro copernicano. Aquello que hasta el momento aparecía irreal y secundario se revela como lo verdaderamente decisivo. Cuando sucede una conversión semejante, no cambia simplemente una teoría, cambia la forma fundamental de la vida. Todos tenemos siempre necesidad de esa conversión: entonces estamos en el camino justo.
La conciencia era la fuerza motriz que impulsaba a Newman en el camino de la conversión. ¿Pero qué se entiende con eso? En el pensamiento moderno, la palabra «conciencia» significa que en materia de moral y de religión, la dimensión subjetiva, el individuo, constituye la última instancia de la decisión. Se divide al mundo en el ámbito de lo objetivo y de lo subjetivo. A lo objetivo pertenecen las cosas que se pueden calcular y verificar por medio de un experimento. La religión y la moral escapan a estos métodos y por tanto están consideradas como ámbito de lo subjetivo. Aquí no hay, en último análisis, criterios objetivos. La última instancia decisiva sería por tanto solo el sujeto, y con la palabra «conciencia» se expresa precisamente esto: en este ámbito puede decidir sólo el sujeto, el individuo con sus intuiciones y experiencias. La concepción que Newman tiene de la conciencia es diametralmente opuesta. Para él «conciencia» significa la capacidad de verdad del hombre: la capacidad de reconocer en los ámbitos decisivos de su existencia, religión y moral, una verdad, la verdad. La conciencia, la capacidad del hombre para reconocer la verdad, le impone al mismo tiempo el deber de encaminarse hacia la verdad, de buscarla y de someterse a ella allí donde la encuentre. Conciencia es capacidad de verdad y obediencia en relación con la verdad, que se muestra al hombre que busca con corazón abierto. El camino de las conversiones de Newman es un camino de la conciencia, no un camino de la subjetividad que se afirma, sino, por el contrario, de la obediencia a la verdad que paso a paso se le abría. Su tercera conversión, la del Catolicismo, le exigía abandonar casi todo lo que le era querido y apreciado: sus bienes y su profesión; su título académico, los vínculos familiares y muchos amigos. La renuncia que la obediencia a la verdad, su conciencia, le pedía, iba más allá. Newman fue siempre consciente de tener una misión para Inglaterra. Pero en la teología católica de su tiempo, su voz difícilmente podía ser escuchada. Era demasiado extraña con relación al estilo dominante del pensamiento teológico y también de la piedad. En enero de 1863 escribió en su diario estas frases conmovedoras: «Como protestante, mi religión me parecía mísera, pero no mi vida. Y ahora, de católico, mi vida es mísera, pero no mi religión». Aún no había llegado la hora de su eficacia. En la humildad y en la oscuridad de la obediencia, él esperó hasta que su mensaje fuera utilizado y comprendido. Para sostener la identidad entre el concepto que Newman tenía de conciencia y la moderna comprensión subjetiva de la conciencia, se suele hacer referencia a aquellas palabras suyas, según las cuales – en el caso de tener que pronunciar un brindis –, él habría brindando antes por la conciencia y después por el Papa. Pero en esta afirmación, «conciencia» no significa la obligatoriedad última de la intuición subjetiva. Es expresión del carácter accesible y de la fuerza vinculante de la verdad: en esto se funda su primado. Al Papa se le puede dedicar el segundo brindis, porque su tarea es exigir obediencia con respecto a la verdad.
Debo renunciar a hablar de los viajes tan significativos a Malta, Portugal y España. En ellos se ha hecho visible de nuevo que la fe no es algo del pasado, sino un encuentro con el Dios que vive y actúa ahora. Él nos compromete y se opone a nuestra pereza, pero precisamente por eso nos abre el camino hacia la verdadera alegría.
Excita, Domine, potentiam tuam, et veni!
Hemos comenzado con la invocación de la presencia del poder de Dios en nuestro tiempo y la experiencia de su aparente ausencia. Si abrimos nuestros ojos en retrospectiva precisamente hacia el año que llega a su fin, se puede ver que aún hoy la potencia y la bondad de Dios están presentes de muchas maneras. Así todos tenemos motivos para darle gracias. Con el agradecimiento al Señor renuevo mi gratitud a todos los colaboradores: ¡Ojalá nos conceda Dios a todos una Santa Navidad y nos acompañe con su bondad en el próximo año!
Confío estos deseos a la intercesión de la Virgen Santa, Madre del Redentor, y a todos vosotros y a la gran familia de la Curia Romana imparto de corazón la Bendición Apostólica. Feliz Navidad.
[01825-04.01] [Texto original: Italiano]
● TRADUZIONE IN LINGUA PORTOGHESE
Senhores Cardeais,
Venerados Irmãos no Episcopado e no Presbiterado,
Amados irmãos e irmãs!
É com vivo prazer que vos revejo, amados Membros do Colégio Cardinalício, Representantes da Cúria Roma e do Governatorato, neste encontro tradicional. Dirijo a cada um a minha cordial saudação, a começar pelo Cardeal Angelo Sodano, a quem agradeço as expressões de estima e comunhão e votos ardentes que me formulou em nome de todos. Prope est jam Dominus, venite, adoremus! Contemplemos como uma única família o mistério do Emanuel, de Deus-connosco, como disse o Cardeal Decano. De bom grado retribuo os votos expressos e desejo agradecer vivamente a todos, incluindo os Representantes Pontifícios espalhados pelo mundo, pela competente e generosa contribuição que cada um presta ao Vigário de Cristo e à Igreja.
«Excita, Domine, potentiam tuam et veni» – com estas e outras palavras semelhantes a liturgia da Igreja reza repetidamente nos dias do Advento. Trata-se de invocações formuladas provavelmente quando o Império Romano estava no seu ocaso. O desmoronamento dos ordenamentos basilares do direito e das atitudes morais de fundo, que lhes davam força, causou a ruptura das margens que até então protegeram a convivência pacífica entre os homens. Um mundo estava no seu ocaso. Frequentes cataclismos naturais aumentavam ainda mais esta experiência de insegurança. E não se vendo qualquer força que pudesse pôr um freio a tal declínio, tanto mais insistente era a invocação da força própria de Deus: que Ele viesse e protegesse os homens de todas estas ameaças.
«Excita, Domine, potentiam tuam et veni». Também hoje temos variados motivos para nos associarmos a esta oração de Advento da Igreja. O mundo, com todas as suas novas esperanças e possibilidades, sente-se ao mesmo tempo angustiado com a impressão de que o consenso moral se esteja a dissolver, um consenso sem o qual as estruturas jurídicas e políticas não funcionam; consequentemente, as forças mobilizadas para a defesa de tais estruturas parecem destinadas ao insucesso.
Excita – a oração lembra o brado dirigido ao Senhor, que estava a dormir na barca dos discípulos fustigada pela tempestade e quase a afundar. Quando a sua palavra potente aplacou a tempestade, Ele censurou os discípulos pela sua pouca fé (cf. Mt 8, 26 e paralelos). Queria dizer: em vós mesmos, adormeceu a fé. E o mesmo nos quer dizer a nós; também em nós, muitíssimas vezes, a fé dorme. Por isso peçamos-Lhe que nos acorde do sono de uma fé que se sente cansada e restitua à fé o poder de mover os montes, isto é, de conferir a ordem justa às coisas do mundo.
«Excita, Domine, potentiam tuam et veni»: nas grandes angústias, a que nos vimos expostos neste ano, voltou-me sem cessar à mente e aos lábios esta oração de Advento. Com grande alegria, tínhamos começado o Ano Sacerdotal e, graças a Deus, pudemos concluí-lo também com imensa gratidão, apesar de se ter desenrolado muito diversamente de como o tínhamos esperado. Em nós, sacerdotes, e nos leigos – concretamente nos jovens – renovou-se a consciência do grande dom que representa o sacerdócio da Igreja Católica, que nos foi confiado pelo Senhor. De novo nos demos conta de como é belo que seres humanos estejam autorizados a pronunciar, em nome de Deus e com pleno poder, a palavra do perdão, tornando-se assim capazes de mudar o mundo, a vida; como é belo que seres humanos estejam autorizados a pronunciar as palavras da consagração, pelas quais o Senhor atrai para dentro de Si um pedaço de mundo, e assim, num determinado lugar, transforma-o na sua substância; como é belo poder estar, com a força do Senhor, junto dos homens nas suas alegrias e sofrimentos, tanto nas horas importantes como nas horas negras da existência; como é belo ter na vida por missão não esta pessoa ou aquela, mas pura e simplesmente o ser mesmo do homem, procurando ajudar para que se abra a Deus e viva a partir de Deus. Com tal consciência, ainda mais atónitos ficámos quando, precisamente neste ano e numa dimensão que não podíamos imaginar, tivemos conhecimento de abusos contra os menores cometidos por sacerdotes, que desvirtuam o Sacramento no seu contrário, sob o manto do sagrado ferem profundamente a pessoa humana na sua infância e causam-lhe um dano para a vida inteira.
Neste contexto, veio-me à mente uma visão de Santa Hildegarda de Bingen, que descreve de modo impressionante o que vivemos neste ano. «No ano de 1170 depois do nascimento de Cristo, estive durante longo tempo doente na cama. Então, física e mentalmente acordada, vi uma mulher de uma beleza tal que a mente humana não é capaz de compreender. A sua figura erguia-se da terra até ao céu. O seu rosto brilhava com um esplendor sublime. O seu olhar estava voltado para o céu. Trajava um vestido luminoso e fulgurante de seda branca e uma manto guarnecido de pedras preciosas. Nos pés, calçava sapatos de ónix. Mas o seu rosto estava salpicado de pó, o seu vestido estava rasgado do lado direito. Também o manto perdera a sua beleza singular e os seus sapatos estavam sujos por cima. Com voz alta e pesarosa, a mulher gritou para o céu: "Escuta, ó céu: o meu rosto está manchado! Aflige-te, ó terra: o meu vestido está rasgado! Treme, ó abismo: os meus sapatos estão sujos!"
E continuou: "Estava escondida no coração do Pai, até que o Filho do Homem, concebido e dado à luz na virgindade, derramou o seu sangue. Com este sangue por seu dote, tomou-me como sua esposa.
Os estigmas do meu esposo mantêm-se em chaga fresca e aberta, enquanto se abrirem as feridas dos pecados dos homens. Este facto de permanecerem abertas as feridas de Cristo é precisamente por culpa dos sacerdotes. Estes rasgam o meu vestido, porque são transgressores da Lei, do Evangelho e do seu dever sacerdotal. Tiram o esplendor ao meu manto, porque descuidam totalmente os preceitos que lhes são impostos. Sujam os meus sapatos, porque não caminham por estradas direitas, isto é, pelas estradas duras e severas da justiça, nem dão bom exemplo aos seus súbditos. Em alguns deles, porém, encontro o esplendor da verdade".
E ouvi uma voz do céu que dizia: "Esta imagem representa a Igreja. Por isso, ó ser humano que vês tudo isto e ouves as palavras de lamentação, anuncia-o aos sacerdotes que estão destinados à guia e à instrução do povo de Deus, tendo-lhes sido dito, como aos apóstolos: ‘Ide por todo o mundo e proclamai o Evangelho a toda a criatura’ (Mc 16, 15)"» (Carta a Werner von Kirchheim e à sua comunidade sacerdotal: PL 197, 269ss).
Na visão de Santa Hildegarda, o rosto da Igreja está coberto de pó, e foi assim que nós o vimos. O seu vestido está rasgado, por culpa dos sacerdotes. Como ela o viu e expressou, assim nós o vimos neste ano. Devemos acolher esta humilhação como uma exortação à verdade e um apelo à renovação. Só a verdade salva. Devemos interrogar-nos sobre o que podemos fazer para reparar o mais possível a injustiça sucedida. Devemos perguntar-nos o que estava errado no nosso anúncio, em todo o nosso modo de configurar o ser cristão, para que pudesse acontecer semelhante coisa. Devemos encontrar uma nova determinação na fé e no bem. Devemos ser capazes de penitência. Devemos esforçar-nos por tentar tudo o possível, na preparação para o sacerdócio, a fim de que uma tal coisa não possa voltar a acontecer. Este é também o lugar para agradecer de coração a todos quantos se empenham por ajudar as vítimas e suscitar neles de novo a confiança na Igreja, a capacidade de acreditar na sua mensagem. Nos meus encontros com as vítimas deste pecado, sempre encontrei também pessoas que, com grande dedicação, estão ao lado de quem sofre e foi lesado. Esta é a ocasião para agradecer também a tantos bons sacerdotes que transmitem, humilde e fielmente, a bondade do Senhor e, no meio das devastações, são testemunhas da beleza não perdida do sacerdócio.
Estamos cientes da particular gravidade deste pecado cometido por sacerdotes e da responsabilidade que nos cabe. Mas não podemos deixar de falar também sobre o contexto do nosso tempo que é testemunha destes acontecimentos. Existe um mercado da pornografia que envolve as crianças, e que de algum modo parece ser considerado cada vez mais pela sociedade como algo normal. A devastação psicológica de crianças, na qual pessoas humanas são reduzidas a um artigo de mercado, é um terrível sinal dos tempos. Continuo a ouvir, de Bispos de países do Terceiro Mundo, que o turismo sexual está a ameaçar toda uma geração e danificá-la na sua liberdade e na sua dignidade humana. O Apocalipse de São João menciona entre os grandes pecados de Babilónia – símbolo das grandes cidades irreligiosas do mundo – o facto de comercializar os corpos e as almas, fazendo deles uma mercadoria (cf. Ap 18, 13). Neste contexto, coloca-se também o problema da droga, que estende fortemente os seus tentáculos como um polvo por todo o globo terrestre – eloquente expressão da ditadura do dinheiro que perverte o homem. Todo o prazer se torna insuficiente e o excesso no engano da alucinação torna-se uma violência que dilacera regiões inteiras, e isto em nome de um equívoco fatal da liberdade, no qual a própria liberdade do homem acaba minada e por fim completamente anulada.
Para nos opormos a estas forças, devemos lançar um olhar sobre os seus alicerces ideológicos. Nos anos Setenta, teorizou-se sobre a pedofilia como sendo algo totalmente consentâneo ao homem e também à criança. Mas isto fazia parte duma perversão fundamental do conceito de vida moral. Defendia-se – mesmo no âmbito da teologia católica – que o mal em si e o bem em si não existiriam. Haveria apenas um «melhor que» e um «pior que». Nada seria em si mesmo bem ou mal; tudo dependeria das circunstâncias e do fim pretendido. Segundo os fins e as circunstâncias, tudo poderia ser bem ou então mal. A moral é substituída por um cálculo das consequências, e assim deixa de existir. Os efeitos de tais teorias são, hoje, evidentes. Contra elas, o Papa João Paulo II, na sua Encíclica Veritatis splendor de 1993, com vigor profético apontou na grande tradição racional da vida moral cristã as bases essenciais e permanentes do agir moral. Hoje, deve-se colocar de novo no centro este texto como caminho na formação da consciência. É nossa responsabilidade tornar de novo audíveis e compreensíveis entre os homens estes critérios como caminhos da verdadeira humanidade, no contexto de preocupação pelo homem em que estamos imersos.
Como segundo ponto, quero dizer uma palavra sobre o Sínodo das Igrejas do Médio Oriente. Teve início com a minha viagem a Chipre, onde pude entregar o Instrumentum laboris do Sínodo aos Bispos daqueles países lá reunidos. Inesquecível foi a hospitalidade da Igreja Ortodoxa, que pudemos experimentar imensamente agradecidos. Embora ainda não nos tenha sido concedida a plena comunhão, todavia constatámos com alegria que a forma basilar da Igreja antiga nos une profundamente uns aos outros: o ministério sacramental dos Bispos enquanto portador da tradição apostólica, a leitura da Escritura segundo a hermenêutica da Regula fidei, a compreensão da Escritura na unidade multiforme centrada em Cristo desenvolvida graças à inspiração de Deus e, por fim, a fé na centralidade da Eucaristia na vida da Igreja. Assim encontrámos ao vivo a riqueza dos ritos da Igreja antiga mesmo dentro da Igreja Católica. Tivemos liturgias com Maronitas e Melquitas, celebrámos em rito latino e tivemos momentos de oração ecuménica com os Ortodoxos e pudemos ver, em manifestações imponentes, a rica cultura cristã do Oriente cristão. Mas vimos também o problema do país dividido. Tornavam-se visíveis culpas do passado e feridas profundas, mas também o desejo de paz e de comunhão como existiram antes. Todos estamos cientes do facto de que a violência não traz qualquer progresso; de facto, foi ela que criou a situação actual. Só com o acordo e a compreensão mútua se pode restabelecer a unidade. Preparar a gente para esta atitude de paz é uma missão essencial da pastoral.
Depois, no Sínodo, o olhar alargou-se sobre todo o Médio Oriente, onde convivem fiéis pertencentes a religiões diversas e também a variadas tradições e diferentes ritos. No caso dos cristãos, há as Igrejas pré-calcedónias e as calcedónias; Igrejas em comunhão com Roma e outras que estão fora desta comunhão, e em ambas existem, um ao lado do outro, variados ritos. Nos tumultos dos últimos anos, foi abalada a história de partilha, as tensões e as divisões cresceram, de tal modo que somos testemunhas sempre de novo e com terror de actos de violência nos quais se deixou de respeitar aquilo que para o outro é sagrado, e, pior ainda, desmoronam-se as regras mais elementares da humanidade. Na situação actual, os cristãos são a minoria mais oprimida e atormentada. Durante séculos, viveram pacificamente juntos com os seus vizinhos judeus e muçulmanos. No Sínodo, ouvimos palavras sábias do Conselheiro do Mufti da República do Líbano contra os actos de violência aos cristãos. Ele dizia: com o ferimento dos cristãos, acabamos feridos nós próprios. Infelizmente, porém, esta e análogas vozes da razão, pelas quais nos sentimos profundamente agradecidos, são demasiado débeis. Também aqui o obstáculo é a ligação entre avidez de lucro e cegueira ideológica. Com base no espírito da fé e na sua razoabilidade, o Sínodo desenvolveu um grande conceito do diálogo, do perdão, do acolhimento recíproco; conceito esse, que agora queremos gritar ao mundo. O ser humano é um só e a humanidade é uma só. Aquilo que é feito em qualquer lugar contra o homem, no fim fere a todos. Assim, as palavras e os pensamentos do Sínodo devem ser um forte brado, dirigido a todas as pessoas com responsabilidade política ou religiosa, para que detenham a cristianofobia; para que se levantem em defesa dos prófugos e dos atribulados e na revitalização do espírito da reconciliação. Em última análise, a regeneração só pode vir de uma fé profunda no amor reconciliador de Deus. Fortalecer esta fé, alimentá-la e fazê-la resplandecer é a missão principal da Igreja nesta hora.
Deter-me-ia de bom grado a falar detalhadamente da inesquecível viagem à Grã-Bretanha, mas quero limitar-me a dois pontos que estão relacionados com o tema da responsabilidade dos cristãos neste tempo e com a missão eclesial de anunciar o Evangelho. Recordo, antes de mais nada, o encontro com o mundo da cultura na Westminster Hall, um encontro onde a consciência da responsabilidade comum neste momento histórico suscitou grande atenção, que em última análise se concentrou na questão acerca da verdade e da própria fé. Que, neste debate, a Igreja deve prestar a própria contribuição, era evidente para todos. No seu tempo, Alexis de Tocqueville observara que, na América, a democracia se tornara possível e funcionara, porque existia um consenso moral de base que, ultrapassando as diversas denominações, a todos unia. Só se houver um tal consenso acerca do essencial é que podem funcionar as constituições e o direito. Este consenso de fundo proveniente do património cristão está em perigo sempre que no seu lugar, no lugar da razão moral, entra a mera racionalidade dos fins, de que há pouco falei. Combater contra esta cegueira da razão e manter-lhe a capacidade de ver o essencial, de ver Deus e o homem, aquilo que é bom e o que é verdadeiro, é o interesse comum que deve unir todos os homens de boa vontade. Está em jogo o futuro do mundo.
Por fim, queria ainda recordar a beatificação do Cardeal John Henry Newman. Por que motivo foi beatificado? Que tem ele a dizer-nos? A estas perguntas podem-se dar muitas respostas, que foram desenvolvidas no contexto da beatificação. Quero destacar apenas dois aspectos que estão interligados e, no fim de contas, exprimem a mesma coisa. O primeiro é que devemos aprender das três conversões de Newman, porque são passos de um caminho espiritual que nos interessa a todos. Aqui desejo pôr em evidência apenas a primeira: a conversão à fé no Deus vivo. Até àquele momento, Newman pensava como a média dos homens do seu tempo e como a média dos homens também de hoje, que não excluem pura e simplesmente a existência de Deus, mas consideram-na em todo o caso como algo incerto, que não tem qualquer função essencial na própria vida. Como verdadeiramente real apresentava-se-lhe, a ele como aos homens do seu e do nosso tempo, o empírico, aquilo que se pode materialmente agarrar. Esta é a «realidade» segundo a qual nos orientamos. O «real» é aquilo que se pode agarrar, são as coisas que se podem calcular e pegar na mão. Na sua conversão, Newman reconhece precisamente que as coisas estão ao contrário: Deus e a alma, o próprio ser do homem a nível espiritual constituem aquilo que é verdadeiramente real, aquilo que conta. São muito mais reais que os objectos palpáveis. Esta conversão significa uma viragem copernicana. Aquilo que até então lhe apareceu irreal e secundário, revela-se agora como a realidade verdadeiramente decisiva. Onde se dá uma tal conversão, não é simplesmente um teoria que é mudada; muda a forma fundamental da vida. De tal conversão todos nós temos incessante necessidade: então estaremos no recto caminho.
Em Newman, a forma motriz que impelia pelo caminho da conversão era a consciência. Com isto, porém, que se entende? No pensamento moderno, a palavra «consciência» significa que, em matéria de moral e de religião, a dimensão subjectiva, o indivíduo, constitui a última instância de decisão. O mundo é repartido pelos âmbitos do objectivo e do subjectivo. Ao objectivo pertencem as coisas que se podem calcular e verificar através da experiência. Uma vez que a religião e a moral se subtraem a estes métodos, são consideradas como âmbito do subjectivo. Aqui não haveria, em última análise, critérios objectivos. Por isso a última instância que aqui pode decidir seria apenas o sujeito; e é isto precisamente o que se exprime com a palavra «consciência»: neste âmbito, pode decidir apenas o indivíduo, o individuo com as suas intuições e experiências. A concepção que Newman tem da consciência é diametralmente oposta. Para ele, «consciência» significa a capacidade de verdade do homem: a capacidade de reconhecer, precisamente nos âmbitos decisivos da sua existência – religião e moral –, uma verdade, a verdade. E, com isto, a consciência, a capacidade do homem de reconhecer a verdade, impõe-lhe, ao mesmo tempo, o dever de se encaminhar para a verdade, procurá-la e submeter-se a ela onde quer que a encontre. Consciência é capacidade de verdade e obediência à verdade, que se mostra ao homem que procura de coração aberto. O caminho das conversões de Newman é um caminho da consciência: um caminho não da subjectividade que se afirma, mas, precisamente ao contrário, da obediência à verdade que pouco a pouco se abria para ele. A sua terceira conversão, a conversão ao Catolicismo, exigia-lhe o abandono de quase tudo o que lhe era caro e precioso: os seus haveres e a sua profissão, o seu grau académico, os laços familiares e muitos amigos. A renúncia que a obediência à verdade, a sua consciência, lhe pedia, ia mais além ainda. Newman sempre estivera consciente de ter uma missão para a Inglaterra. Mas, na teologia católica do seu tempo, dificilmente podia ser ouvida a sua voz. Era demasiado alheia à forma dominante do pensamento teológico e mesmo da devoção. Em Janeiro de 1863, escreveu no seu diário estas palavras impressionantes: «Como protestante, a minha religião parecia-me miserável, mas não a minha vida. E agora, como católico, a minha vida é miserável, mas não a minha religião». Não chegara ainda a hora da sua eficácia. Na humildade e na escuridão da obediência, ele teve de esperar até que a sua mensagem fosse utilizada e compreendida. Para poder afirmar a identidade entre o conceito que Newman tinha da consciência e a noção subjectiva moderna da consciência, comprazem-se em fazer referência à sua palavra, segundo a qual ele – no caso de ter de fazer um brinde – teria brindado primeiro à consciência e depois ao Papa. Mas, nesta afirmação, «consciência» não significa a obrigatoriedade última da intuição subjectiva; é a expressão da acessibilidade e da força vinculadora da verdade: nisto se funda o seu primado. Ao Papa pode ser dedicado o segundo brinde, porque a sua missão é exigir a obediência à verdade.
Tenho de renunciar a falar das viagens tão significativas a Malta, a Portugal e à Espanha. Nelas, de novo se tornou visível que a fé não é uma realidade do passado, mas um encontro com o Deus que vive e actua agora. Ele chama-nos em causa e opõe-se à nossa preguiça, mas é precisamente assim que nos abre a estrada para a verdadeira alegria.
«Excita, Domine, potentiam tuam et veni». Começámos pela invocação da presença da força de Deus no nosso tempo e pela experiência da sua aparente ausência. Se abrirmos os nossos olhos, precisamente com um olhar retrospectivo sobre o ano que caminha para o seu termo, é possível ver que a força e a bondade de Deus estão presentes de variadas maneiras também hoje. Assim todos nós temos motivos para Lhe dar graças. Com o agradecimento ao Senhor, renovo a minha gratidão a todos os colaboradores. Oxalá Deus nos dê a todos um Santo Natal e nos acompanhe com a sua bondade no próximo ano.
Confio estes votos à intercessão da Vigem Santa, Mãe do Redentor, e de coração concedo a todos vós e à grande família da Cúria Romana a Bênção Apostólica. Feliz Natal!
[01824-06.01] [Texto original: Italiano]
● INDIRIZZO DI OMAGGIO DEL DECANO DEL COLLEGIO CARDINALIZIO
Padre Santo,
La Solennità del Natale è ormai vicina. In questi giorni d’attesa, la liturgia delle Ore ci invita a sostare in preghiera, dicendoci: "Prope est jam Dominus, venite, adoremus!". Il Signore è ormai vicino, venite, adoriamo!
Intanto, nelle nostre case ognuno prepara il suo Presepio, sull’esempio di quanto fece S. Francesco nell’umile campagna di Greccio.
Inoltre in questi giorni tutto ci trasporta verso la bellezza del mistero cristiano, come quando eravamo bambini, rapiti di fronte all’evento che celebravamo.
Al riguardo mi è caro ricordare ciò che Vostra Santità scriveva nel suo libro "La mia vita", accennando agli anni della sua formazione. Ella notava in proposito: "L’anno liturgico dava al tempo il suo ritmo ed io avevo percepito questo fatto fin da bambino, anzi, proprio da bambino, con grande gioia e riconoscenza. In Avvento, al mattino presto venivano celebrate solennemente le Messe Rorate nella chiesa ancora buia, illuminata solo dalle candele. L’attesa gioiosa del Natale dava a quei giorni malinconici (sono gli anni della guerra) un loro particolare carattere" (Ibidem, Ed. S. Paolo 1997, pag. 16).
Con questa visione di fede anche noi oggi ci prostriamo riverenti di fronte al mistero dell’Emmanuele, del "Dio con noi", cantando insieme la sua gloria.
Padre Santo,
Con quest’atteggiamento interiore oggi i Membri della Curia Romana e del Governatorato del Vaticano si stringono con Colui che Cristo ci ha dato come "Vicario del suo amore" (S. Ambrogio, In Lucam, 175). A Lei offriamo i voti più fervidi di liete e sante Feste Natalizie e La ringraziamo per la guida con cui ci segue, con mente vigile e con grande cuore.
In un’ora difficile per la vita della Chiesa, San Cipriano, Vescovo di Cartagine, scriveva al Papa Cornelio, lodando l’unità del clero e dei fedeli di Roma intorno al Successore di Pietro, dicendo loro: "In voi tutta la Chiesa di Roma ha dato la sua magnifica testimonianza, tutta unita com’è in un solo spirito ed in una sola voce" (Lettera n. 60, 1-2; CSEL 3, 691 ss.).
Oggi noi vorremmo che si possa dire altrettanto di noi, che ci sentiamo profondamente uniti a Lei ed alla Sua paterna sollecitudine per la Chiesa universale.
Anche i tempi attuali non sono facili, ma notiamo con gioia che i messaggi del Papa continuano a diffondere sul mondo quella luce chiara e gentile, di cui parlava il Card. Newman, che Ella ha voluto beatificare nel Suo viaggio nel Regno Unito. E’ quella "kindly light" che porta dolcemente l’uomo d’oggi a scoprire la verità sulla sua vita e sul suo destino.
Anzi, il magistero che proviene dalla Cattedra di Pietro rivela oggi al mondo quella sapienza di cui ci parla l’Apostolo San Giacomo nella sua Lettera, e cioè quella "sapienza che viene dall’alto" e che porta alla mitezza ed alla misericordia (Gc. 3, 13-17).
Da parte nostra vorremmo anche dirLe, Padre Santo, che in questi giorni cercheremo di seguire il Suo esempio di grande solidarietà verso chi soffre, memori delle parole del Signore: "Qualunque cosa farete al più piccolo dei miei fratelli, l’avete fatto a me" (Mt 25, 40). A tale proposito credo doveroso dirLe che i Confratelli Cardinali hanno voluto per Natale venir incontro ai poveri di Haiti e dell’Iraq con un loro generoso contributo, che in questi giorni sarà inviato a destinazione per il tramite delle Organizzazioni cattoliche locali.
Santità,
Vorrei infine assicurarLa che si uniscono ai nostri auguri anche i Rappresentanti Pontifici sparsi per il mondo, oggi impegnati più che mai a diffondere nelle Nazioni e fra i responsabili degli Organismi Internazionali quel messaggio di solidarietà, di pace e di riconciliazione che promana dalla Cattedra di Pietro.
Padre Santo, ci senta tutti vicini a Lei in questi giorni di grazia e ci voglia confortare con la Sua Benedizione!
[01825-01.01] [Testo originale: Italiano]
[B0794-XX.02]