CONFERENZA STAMPA DI PRESENTAZIONE DELLA DICHIARAZIONE DOMINUS IESUS CIRCA L’UNICITÀ E L’UNIVERSALITÀ SALVIFICA DI GESÙ CRISTO E DELLA CHIESA ● INTERVENTO DEL CARD. JOSEPH RATZINGER
● INTERVENTO DI S.E. MONS. TARCISIO BERTONE
● INTERVENTO DEL REV. DON ANGELO AMATO, S.D.B.
● INTERVENTO DI MONS. FERNANDO OCÁRIZ
Alle ore 11.30 di oggi, nell’Aula Giovanni Paolo II della Sala Stampa della Santa Sede, si tiene la Conferenza Stampa per la presentazione della Dichiarazione Dominus Iesus circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, a cura della Congregazione per la Dottrina della Fede.
Prendono parte alla Conferenza Stampa: l’Em.mo Card. Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede; S.E. Mons. Tarcisio Bertone, Segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede; Mons. Fernando Ocáriz, Consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede; il Rev. Don Angelo Amato, S.D.B., Consultore della medesima Congregazione.
Ne pubblichiamo di seguito gli interventi:
● INTERVENTO DEL CARD. JOSEPH RATZINGER
Contesto e significato della Dichiarazione "Dominus Iesus".
È mia intenzione limitarmi a descrivere brevemente il contesto e il significato della Dichiarazione Dominus Iesus, mentre gli interventi successivi illustreranno il valore e l'autorità dottrinale del Documento, ed i suoi contenuti specifici, cristologici ed ecclesiologici.
1. Nel vivace dibattito contemporaneo sul rapporto tra il Cristianesimo e le altre religioni, si fa sempre più strada l'idea che tutte le religioni siano per i loro seguaci vie ugualmente valide di salvezza. Si tratta di una persuasione ormai diffusa non solo in ambienti teologici, ma anche in settori sempre più vasti dell'opinione pubblica cattolica e non, specialmente quella più influenzata dall'orientamento culturale oggi prevalente in Occidente, che si può definire, senza timore di essere smentiti, con la parola: relativismo.
La cosiddetta teologia del pluralismo religioso in verità si era già affermata gradualmente fin dagli anni cinquanta del secolo XX, ma soltanto oggi ha assunto un'importanza fondamentale per la coscienza cristiana. Naturalmente le sue configurazioni sono molto diverse e non sarebbe giusto voler omologare tutte le posizioni teologiche che si rifanno alla teologia del pluralismo religioso in uno stesso sistema. La Dichiarazione pertanto non si propone nemmeno di descrivere i tratti essenziali di tali tendenze teologiche né tanto meno pretende di rinchiuderle in una formula unica. Piuttosto il nostro Documento segnala alcuni presupposti di natura sia filosofica sia teologica che stanno alla base delle pur diverse teologie del pluralismo religioso attualmente diffuse: la convinzione della inafferrabilità e inesprimibilità completa della verità divina; l'atteggiamento relativistico nei confronti della verità, per cui ciò che è vero per alcuni non lo sarebbe per altri; la contrapposizione radicale tra mentalità logica occidentale e mentalità simbolica orientale; il soggettivismo esasperato di chi considera la ragione come unica fonte di conoscenza; lo svuotamento metafisico del mistero dell'incarnazione; l'eclettismo di chi nella riflessione teologica assume categorie derivate da altri sistemi filosofici e religiosi, senza badare né alla loro coerenza interna, né alla loro incompatibilità con la fede cristiana; la tendenza infine a interpretare testi della Scrittura, al di fuori della Tradizione e del Magistero della Chiesa (cf. Dich. Dominus Iesus, n.4).
Qual è la conseguenza fondamentale di questo modo di pensare e sentire in relazione al centro e al nucleo della fede cristiana ? E' il sostanziale rigetto dell'identificazione della singola figura storica, Gesù di Nazareth, con la realtà stessa di Dio, del Dio vivente. Ciò che è Assoluto, oppure Colui che è l'Assoluto, non può darsi mai nella storia in una rivelazione piena e definitiva. Nella storia si hanno soltanto dei modelli, delle figure ideali che ci rinviano al Totalmente Altro, il quale però non si può afferrare come tale nella storia. Alcuni teologi più moderati confessano che Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo, ma ritengono che a causa della limitatezza della natura umana di Gesù, la rivelazione di Dio in lui non può essere ritenuta completa e definitiva, ma sempre deve essere considerata in relazione ad altre possibili rivelazioni di Dio espresse nei geni religiosi dell'umanità e nei fondatori delle religioni del mondo. In tal modo, oggettivamente parlando, si introduce l'idea errata che le religioni del mondo siano complementari alla rivelazione cristiana. È chiaro pertanto che anche la Chiesa, il dogma, i sacramenti non possono avere il valore di necessità assoluta. Attribuire a questi mezzi finiti un carattere assoluto e considerarli anzi come uno strumento per un incontro reale con la verità di Dio, valida universalmente, significherebbe collocare su un piano assoluto ciò che è particolare e travisare la realtà infinita del Dio Totalmente Altro.
In base a tali concezioni, ritenere che vi sia una verità universale, vincolante e valida nella storia stessa, che si compie nella figura di Gesù Cristo ed è trasmessa dalla fede della Chiesa, viene considerato una specie di fondamentalismo che costituirebbe un attentato contro lo spirito moderno e rappresenterebbe una minaccia contro la tolleranza e la libertà. Lo stesso concetto di dialogo assume un significato radicalmente diverso da quello inteso nel Concilio Vaticano II. Il dialogo, o meglio, l'ideologia del dialogo, si sostituisce alla missione e all'urgenza dell'appello alla conversione: il dialogo non è più la via per scoprire la verità, il processo attraverso cui si dischiude all'altro la profondità nascosta di ciò che egli ha sperimentato nella sua esperienza religiosa, ma che attende di compiersi e purificarsi nell'incontro con la rivelazione definitiva e completa di Dio in Gesù Cristo; il dialogo nelle nuove concezioni ideologiche, penetrate purtroppo anche all'interno del mondo cattolico e di certi ambienti teologici e culturali, è invece l'essenza del "dogma" relativista e l'opposto della "conversione" e della "missione". In un pensiero relativista dialogo significa porre sullo stesso piano la propria posizione o la propria fede e le convinzioni degli altri, cosicché tutto si riduce ad uno scambio tra posizioni fondamentalmente paritetiche e perciò tra loro relative, con lo scopo superiore di raggiungere il massimo di collaborazione e di integrazione tra le diverse concezioni religiose.
Il dissolvimento della cristologia e quindi dell'ecclesiologia, ad essa subordinata, ma con essa inscindibilmente collegata, diventa perciò la conclusione logica di tale filosofia relativista, che paradossalmente si ritrova sia alla base del pensiero post-metafisico dell'Occidente sia della teologia negativa dell'Asia. Il risultato è che la figura di Gesù Cristo perde il suo carattere di unicità e di universalità salvifica. Il fatto poi che il relativismo si presenti, all'insegna dell'incontro con le culture, come la vera filosofia dell'umanità, in grado di garantire la tolleranza e la democrazia, conduce a marginalizzare ulteriormente chi si ostina nella difesa della identità cristiana e nella sua pretesa di diffondere la verità universale e salvifica di Gesù Cristo. In realtà la critica alla pretesa di assolutezza e definitività della rivelazione di Gesù Cristo rivendicata dalla fede cristiana, si accompagna ad un falso concetto di tolleranza. Il principio della tolleranza come espressione del rispetto della libertà di coscienza, di pensiero e di religione, difeso e promosso dal Concilio Vaticano II, e nuovamente riproposto dalla stessa Dichiarazione, è una posizione etica fondamentale, presente nell'essenza del Credo cristiano, poiché prende sul serio la libertà della decisione di fede. Ma questo principio di tolleranza e rispetto della libertà viene oggi manipolato e indebitamente oltrepassato, quando esso si estende all'apprezzamento dei contenuti, quasi che tutti i contenuti delle diverse religioni e pure delle concezioni areligiose della vita fossero da porre sullo stesso piano, e non esistesse più una verità oggettiva e universale, poiché Dio o l'Assoluto si rivelerebbe sotto innumerevoli nomi , ma tutti i nomi sarebbero veri. Questa falsa idea di tolleranza è connessa con la perdita e la rinuncia alla questione della verità, che infatti oggi è sentita da molti come una questione irrilevante o di second'ordine. Viene così alla luce la debolezza intellettuale della cultura attuale: venendo a mancare la domanda di verità, l'essenza della religione non si differenzia più dalla sua "non essenza", la fede non si distingue dalla superstizione, l'esperienza dall'illusione. Infine senza una seria pretesa di verità, anche l'apprezzamento delle altre religioni diventa assurdo e contraddittorio, poiché non si possiede il criterio per constatare ciò che è positivo in una religione, distinguendolo da ciò che è negativo o frutto di superstizione e inganno.
2. A questo proposito la Dichiarazione riprende l'insegnamento di Giovanni Paolo II nell'Enciclica Redemptoris missio: «Quanto lo Spirito opera nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e nelle religioni, assume un ruolo di preparazione evangelica» (RM 29).
Questo testo si riferisce esplicitamente all'azione dello Spirito non solo «nel cuore degli uomini», ma anche «nelle religioni». Tuttavia il contesto pone questa azione dello Spirito all'interno del mistero di Cristo, da cui non può mai essere separata; inoltre le religioni sono accostate alla storia e alle culture dei popoli, dove la mescolanza tra bene e male non può mai essere messa in dubbio. Quindi è da considerarsi come praeparatio evangelica non tutto ciò che si trova nelle religioni, ma soltanto «quanto lo Spirito opera» in esse. Da ciò segue una importantissima conseguenza: via alla salvezza è il bene presente nelle religioni, come opera dello Spirito di Cristo, ma non le religioni in quanto tali. Ciò è del resto confermato dalla stessa dottrina del Vaticano II a proposito dei semi di verità e di bontà presenti nelle altre religioni e culture, esposta nella Dichiarazione conciliare Nostra Aetate: "La Chiesa nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini"(NA, 2). Tutto ciò che di vero e buono esiste nelle religioni non deve andare perduto, anzi va riconosciuto e valorizzato. Il bene e il vero, dovunque si trovi, proviene dal Padre ed è opera dello Spirito; i semi del Logos sono sparsi ovunque. Ma non si possono chiudere gli occhi sugli errori e inganni che sono pure presenti nelle religioni. La stessa Costituzione Dogmatica del Vaticano II Lumen Gentium afferma: " Molto spesso gli uomini, ingannati dal Maligno, vaneggiano nei loro pensamenti, e hanno scambiato la verità divina con la menzogna, servendo la creatura piuttosto che il Creatore" (LG, 16).
È comprensibile che in un mondo che cresce sempre più assieme, anche le religioni e le culture si incontrino. Ciò non conduce soltanto ad un avvicinamento esteriore di uomini di religioni diverse, bensì anche ad una crescita di interesse verso mondi religiosi sconosciuti. In questo senso, in ordine cioè alla conoscenza reciproca, è legittimo parlare di arricchimento vicendevole. Ciò però non ha nulla a che vedere con l'abbandono della pretesa da parte della fede cristiana di aver ricevuto in dono da Dio in Cristo la rivelazione definitiva e completa del mistero della salvezza, e anzi si deve escludere quella mentalità indifferentista improntata ad un relativismo religioso che porta a ritenere che "una religione vale l'altra" (Lett. Enc. Redemptoris missio, 36).
La stima e il rispetto verso le religioni del mondo, così come per le culture che hanno portato un obiettivo arricchimento alla promozione della dignità dell'uomo e allo sviluppo della civiltà, non diminuisce l'originalità e l'unicità della rivelazione di Gesù Cristo e non limita in alcun modo il compito missionario della Chiesa: "la Chiesa annuncia ed è tenuta ad annunciare, incessantemente Cristo che è la via, la verità e la vita (Gv 14,16) in cui gli uomini trovano la pienezza della vita religiosa e nel quale Dio ha riconciliato a sé tutte le cose" (Nostra Aetate, 2). Nello stesso tempo queste semplici parole indicano il motivo della convinzione che ritiene che la pienezza, universalità e compimento della rivelazione di Dio sono presenti soltanto nella fede cristiana. Tale motivo non risiede in una presunta preferenza accordata ai membri della Chiesa, né tanto meno nei risultati storici raggiunti dalla Chiesa nel suo pellegrinaggio terreno, ma nel mistero di Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo, presente nella Chiesa. La pretesa di unicità e universalità salvifica del Cristianesimo proviene essenzialmente dal mistero di Gesù Cristo che continua la sua presenza nella Chiesa, suo Corpo e sua Sposa. Perciò la Chiesa si sente impegnata, costitutivamente, nella evangelizzazione dei popoli. Anche nel contesto attuale, segnato dalla pluralità delle religioni e dall'esigenza di libertà di decisione e di pensiero, la Chiesa è consapevole di essere chiamata "a salvare e rinnovare ogni creatura, perché tutte le cose siano ricapitolate in Cristo e gli uomini costituiscano in lui una sola famiglia e un solo popolo" (Decr. Ad Gentes 1).
Riaffermando le verità che la fede della Chiesa ha sempre creduto e tenuto riguardo questi argomenti, e salvaguardando i fedeli da errori o da interpretazioni ambigue attualmente diffusi, la Dichiarazione "Dominus Iesus" della Congregazione per la Dottrina della Fede, approvata e confermata certa scientia e apostolica sua auctoritate dal Santo Padre stesso, svolge un duplice compito: da un lato si presenta come un'ulteriore e rinnovata testimonianza autorevole per mostrare al mondo "lo splendore del glorioso vangelo di Cristo" (2 Cor 4,4); dall'altro indica come vincolante per tutti i fedeli la base dottrinale irrinunciabile che deve guidare, ispirare e orientare sia la riflessione teologica sia l'azione pastorale e missionaria di tutte le comunità cattoliche sparse nel mondo.
[01756-01.02] [Testo originale: Italiano]
● INTERVENTO DI S.E. MONS. TARCISIO BERTONE
Lo scopo di questo intervento è di commentare brevemente il genere letterario della Dichiarazione Dominus Iesus e, in tale contesto, proporre alcune precisazioni circa il suo valore e il suo grado di autorità.
1. Il genere letterario
Si tratta di una Dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede. Il termine Dichiarazione significa che il Documento non insegna dottrine nuove, risultato dello sviluppo e dell'esplicitazione della fede, ma riafferma e riassume la dottrina della fede cattolica definita o insegnata in precedenti Documenti del Magistero della Chiesa, indicandone la retta interpretazione, a fronte di errori e ambiguità dottrinali diffusi nell'ambiente teologico ed ecclesiale odierno. Come è esplicitamente ricordato nell'Introduzione, il Documento non ha la pretesa di trattare in modo organico e sistematico l'intera problematica relativa ai temi cristologici ed ecclesiologici esposti; non si sostituisce quindi al compito della teologia né intende reprimere lo sforzo dei teologi di dare risposte a questioni finora in larga parte inesplorate. La Dichiarazione al contrario sollecita tali esplorazioni, indicandone però al tempo stesso la direzione e i limiti invalicabili per non cadere nell'errore e nello smarrimento. Direzione e limiti che sono originariamente posti dalla rivelazione della verità di Dio compiuta in Gesù Cristo, e trasmessa dalla Sacra Scrittura e dalla Tradizione viva della Chiesa, interpretate autenticamente dal Magistero.
Trattandosi di un Documento dottrinale della Congregazione per la Dottrina della Fede, espressamente approvato dal Sommo Pontefice, esso è di natura magisteriale universale. Questa peculiarità deriva dal fatto che la Congregazione per la Dottrina della Fede è l'organo ausiliare prossimo del Romano Pontefice, con il mandato specifico e unico da Lui ricevuto di promuovere e tutelare in tutto l'orbe cattolico la dottrina sulla fede e sui costumi (cf. Costituzione Apostolica, Pastor Bonus, art. 48). Pertanto i Documenti della Congregazione per la Dottrina della Fede, espressamente approvati dal Papa, partecipano del magistero ordinario del Sommo Pontefice (cf. Istruzione, Donum Veritatis, 18). È bene ricordare che tali Documenti, di natura dottrinale, non sono equiparabili ad atti di natura amministrativa o puramente giurisdizionale, ma sono atti di insegnamento magisteriale, dato lo stretto ed essenziale rapporto che i Membri della Congregazione per la Dottrina della Fede hanno con il Supremo Titolare dell'Ufficio Petrino, che ha una responsabilità unica e particolarissima per la Chiesa universale nell'ambito della potestà di magistero.
Se venisse negato che le decisioni dottrinali della Congregazione, approvate espressamente dal Papa, sono di natura magisteriale universale, ne seguirebbe che tali decisioni avrebbero un valore meramente orientativo e disciplinare o addirittura equivalente al valore di una opinione teologica, per quanto rispettabile. Ciò però contraddice la Tradizione ecclesiale e la volontà e il mandato del Sommo Pontefice stesso.
Per tale ragione, il presente Documento, pur non essendo un atto proprio del Magistero del Sommo Pontefice, tuttavia ne riflette il suo pensiero, poiché è stato esplicitamente approvato e confermato dal Papa, ed indica anche la sua volontà che quanto in esso contenuto sia ritenuto da tutta la Chiesa, poiché è Lui che ne ha ordinato la pubblicazione.
La formula di approvazione, che si trova al termine del Documento, è di speciale ed elevata autorità: certa scientia et apostolica Sua auctoritate. Ciò corrisponde all'importanza ed essenzialità dei contenuti dottrinali insegnati nella Dichiarazione: si tratta di verità di fede divina e cattolica (che appartengono al 1E comma della Formula della Professione di Fede) o di verità della dottrina cattolica da tenersi fermamente (che appartengono al 2E comma della medesima Formula). L'assenso richiesto quindi ai fedeli è di tipo definitivo e irrevocabile.
A scanso di ogni eventuale equivoco, occorre precisare che tale formula di appropriazione da parte del Sommo Pontefice, che esprime certamente un livello di sommità nell'approvazione del Documento, e che riprende letteralmente espressioni ben conosciute, adoperate dai Romani Pontefici nel passato, non indebolisce né attenua in alcun modo il valore degli altri Documenti finora pubblicati dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, e approvati espressamente dal Papa. Se infatti per un verso tutti i Documenti dottrinali della Congregazione, per avere autorità magisteriale, debbono essere approvati espressamente dal Papa, per altro verso tale espressa approvazione può esprimersi con formule diverse, più o meno accentuate, tenendo conto soprattutto dell'oggetto e del diverso ordine o tipo delle categorie di verità contenute nei Documenti stessi.
2. Il grado di autorità
Una semplice, ma doverosa puntualizzazione sul grado di autorità della Dichiarazione "Dominus Iesus" si impone, specialmente considerando l'insistenza con cui- anche di recente- interventi e pubblicazioni di certi teologi hanno sollevato critiche al Motu proprio del Santo Padre "Ad tuendam fidem" e alla Nota dottrinale illustrativa della Formula della Professione di fede, pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nel 1998.
L'obiezione riguarda la presunta distinzione tra infallibilità dell'insegnamento e definitività della dottrina. Secondo alcuni la Nota dottrinale della CDF sostiene che il Magistero può proporre come definitive dottrine, che non sono insegnate infallibilmente.
La conclusione che ne viene tratta è che, dato che non sono infallibili, tali dottrine potrebbero essere considerate provvisorie o rivedibili e quindi discutibili da parte dei teologi.
Questa obiezione e la sua relativa conclusione, sono totalmente infondate e immotivate. Se una dottrina è insegnata come definitiva, e quindi irreformabile, ciò presuppone che sia insegnata dal Magistero con atto infallibile, anche se di diversa tipologia. Il vero problema perciò è un altro: una dottrina può essere insegnata dal Magistero come definitiva sia con un atto definitorio e solenne ( dal Papa "ex cathedra" e dal Concilio ecumenico) sia con un atto ordinario non solenne (dal Magistero ordinario e universale del Papa e dei Vescovi in comunione con lui). Entrambi questi atti sono tuttavia infallibili. È inoltre possibile che il Magistero ordinario del Papa confermi o riaffermi dottrine che appartengono d'altronde alla fede della Chiesa: in questo caso, il pronunciamento del Papa, pur non avendo il carattere di una definizione solenne, ripropone alla Chiesa dottrine infallibilmente insegnate come da credersi o da tenersi definitivamente, ed esige quindi dai fedeli un assenso di fede o definitivo.
Nella fattispecie della Dichiarazione "Dominus Iesus", si deve dire che esso resta un Documento della Congregazione per la Dottrina della Fede, che non gode quindi della prerogativa dell'infallibilità, in quanto emanato da un organismo inferiore al Papa e al collegio dei Vescovi in comunione con il Papa. Tuttavia gli insegnamenti delle verità di fede e di dottrina cattolica in esso contenuti, esigono da parte di tutti i fedeli un assenso definitivo e irrevocabile, non già in forza e a partire dalla pubblicazione della Dichiarazione, ma in quanto essi appartengono al patrimonio di fede della Chiesa e sono stati infallibilmente proposti dal Magistero in precedenti atti e documenti.
La Dichiarazione si presenta quindi, per sua propria natura, come un servizio alla fede, sia per salvaguardarla da errori e ambiguità che oscurano o addirittura alterano punti essenziali del suo patrimonio genuino, come il mistero dell'unicità e universalità salvifica di Cristo e il mistero dell'unità e dell'unicità della Chiesa sacramento universale della salvezza, sia per promuoverne una comprensione più approfondita, nella fedeltà e nella continuità con la Tradizione ecclesiale. Tale servizio, che è esattamente l'opposto di una limitazione e di un soffocamento della ricerca teologica, apre l'intelligenza dei credenti, liberandola dal rischio della deviazione e della parzialità, per ricondurla nella direzione giusta verso la comprensione della pienezza della rivelazione divina. In tal senso il Documento è anche un servizio alla carità, a quella che Antonio Rosmini chiamava la «carità intellettuale», poiché la salus animarum, che per la Chiesa vale più di ogni altra cosa, richiede come condizione essenziale l'annuncio e la difesa della verità di fede.
[01757-01.01] [Testo originale: Italiano]
● INTERVENTO DI DON ANGELO AMATO, S.D.B.
I contenuti cristologici della Dichiarazione
Da un punto di vista cristologico, sono sostanzialmente tre i contenuti dottrinali che la Dichiarazione Dominus Iesus intende ribadire per contrastare interpretazioni erronee o ambigue sull’evento centrale della rivelazione cristiana, e cioè sul significato e sul valore universale del mistero dell’incarnazione:
1. la pienezza e la definitività della rivelazione di Gesù (n. 5-8);
2. l’unità dell’economia salvifica del Verbo incarnato e dello Spirito Santo (n. 9-12);
3. l’unicità e l’universalità del mistero salvifico di Gesù Cristo (n. 13-16).
1. La riaffermazione delle pienezza e della definitività della rivelazione cristiana intende opporsi alla tesi circa il carattere limitato, incompleto e imperfetto della rivelazione di Gesù Cristo, considerata quindi complementare a quella presente nelle altre religioni. Il fondamento di questa asserzione erronea sarebbe il fatto che la piena e completa verità su Dio non potrebbe essere monopolio di nessuna religione storica. Nessuna religione, e quindi nemmeno il Cristianesimo, potrebbe adeguatamente esprimere tutto intero il mistero di Dio.
Questa posizione viene respinta come contraria alla fede della Chiesa. Gesù, in quanto Verbo del Padre, è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Ed è lui a rivelare la pienezza del mistero di Dio: «Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18). Giustamente la Dichiarazione rileva che la fonte della pienezza, della completezza e della universalità della rivelazione cristiana è la persona divina del Verbo incarnato: «La verità su Dio non viene abolita o ridotta perché è detta in linguaggio umano. Essa, invece, resta unica, piena e completa perché chi parla e agisce è il Figlio di Dio incarnato» (n. 6). Di conseguenza la rivelazione cristiana compie ogni altra rivelazione salvifica di Dio all’umanità.
In questo contesto, la Dichiarazione propone due chiarimenti. Anzitutto la distinzione tra la fede teologale e la credenza. Alla verità della rivelazione cristiana si risponde con l’obbedienza della fede, virtù teologale che implica un assenso libero e personale a tutta la verità che Dio ha rivelato. Se la fede è accoglienza della verità rivelata da Dio Uno e Trino, la credenza è invece esperienza religiosa ancora alla ricerca della verità assoluta e quindi priva dell’assenso a Dio che si rivela (n. 7).
Un secondo chiarimento riguarda l’ipotesi circa il valore ispirato dei testi sacri di altre religioni. A questo proposito si ribadisce che la tradizione della Chiesa riserva la qualifica di testi ispirati solo ai libri canonici dell’Antico e del Nuovo Testamento, in quanto ispirati dallo Spirito Santo (n. 8). Tuttavia, si riconoscono le ricchezze spirituali dei popoli, pur con lacune, insufficienze ed errori. Di conseguenza «i libri sacri di altre religioni, che di fatto alimentano e guidano l’esistenza dei loro seguaci, ricevono dal mistero di Cristo quegli elementi di bontà e di grazia in essi presenti» (n. 8).
2. Per quanto riguarda l’unità dell’economia salvifica del Verbo la Dichiarazione intende contrastare tre tesi che, per fondare teologicamente il pluralismo religioso, cercano di relativizzare e sminuire l’originalità del mistero di Cristo.
Una prima tesi considera Gesù di Nazaret, come una delle tante incarnazioni storico-salvifiche del Verbo eterno, rivelatrice del divino in misura non esclusiva, ma complementare ad altre figure storiche. Contro tale ipotesi, si ribadisce l’unità tra il Verbo eterno e Gesù di Nazaret. Solo Gesù è il Figlio e il Verbo del Padre. È quindi contrario alla fede cristiana introdurre una qualsiasi separazione tra il Verbo e Gesù Cristo: Gesù è il Verbo incarnato, persona una e indivisibile, fattosi uomo per la salvezza di tutti (n. 10).
Una seconda tesi erronea, derivata dalla prima, pone una distinzione all’interno dell’economia del mistero del Verbo. Per cui si avrebbe una duplice economia salvifica, quella del Verbo eterno distinta da quella del Verbo incarnato: «La prima avrebbe un plusvalore di universalità rispetto alla seconda, limitata ai soli cristiani, anche se in essa la presenza di Dio sarebbe più piena» (n. 9). La Dichiarazione rifiuta questa distinzione e riafferma la fede della Chiesa nell’unicità dell’economia salvifica voluta da Dio Uno e Trino, «alla cui fonte e al cui centro c’è il mistero dell’incarnazione del Verbo, mediatore della grazia divina sul piano della creazione e della redenzione» (n. 11). Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, è l’unico mediatore e redentore di tutta l’umanità: se ci sono elementi di salvezza e di grazia fuori del cristianesimo, essi trovano la loro fonte e il loro centro nel mistero dell’incarnazione del Verbo.
Una terza tesi erronea separa invece l’economia dello Spirito Santo da quella del Verbo incarnato: la prima avrebbe un carattere più universale della seconda. La Dichiarazione rifiuta anche questa ipotesi come contraria alla fede cattolica. L’incarnazione del Verbo è infatti un evento salvifico trinitario: «il mistero di Gesù, Verbo incarnato, costituisce il luogo della presenza dello Spirito Santo e il principio della sua effusione all’umanità non solo nei tempi messianici, ma anche in quelli antecedenti alla sua venuta nella storia» (n. 12). Il mistero di Cristo è intimamente connesso con quello dello Spirito Santo, per cui l’azione salvifica di Gesù Cristo, con e per il suo Spirito, si estende oltre i confini visibili della Chiesa a tutta l’umanità. C’è un’unica economia divina trinitaria che si estende all’umanità intera, per cui «gli uomini non possono entrare in comunione con Dio se non per mezzo di Cristo, sotto l’azione dello Spirito» (n. 12).
3. Infine, contro la tesi che nega l’unicità e l’universalità salvifica del mistero di Cristo, la Dichiarazione ribadisce che «deve essere fermamente creduta, come dato perenne della fede della Chiesa, la verità di Gesù Cristo, Figlio di Dio, Signore e unico salvatore, che nel suo evento di incarnazione morte e risurrezione ha portato a compimento la storia della salvezza, che ha in lui la sua pienezza e il suo centro» (n. 13). Raccogliendo i numerosi dati biblici e magisteriali, si dichiara che «la volontà salvifica universale di Dio Uno e Trino è offerta e compiuta una volta per sempre nel mistero dell’incarnazione, morte e risurrezione del Figlio di Dio» (n. 14).
In questo contesto, alle proposte di evitare in teologia termini come unicità, universalità e assolutezza, che porrebbero un’enfasi eccessiva sul significato e sul valore dell’evento salvifico di Gesù, la Dichiarazione risponde precisando che tale linguaggio intende rimanere fedele al dato rivelato. L’uso di questi termini è assertivo. La Chiesa, cioè, fin dall’inizio ha creduto in Gesù Cristo, Figlio unigenito del Padre, che con la sua incarnazione ha donato all’umanità la verità della rivelazione e la sua vita divina (n. 15).
Riproponendo queste dottrine cristologiche, la Dichiarazione ha inteso ribadire anzitutto la ferma coscienza di fede della Chiesa contro ipotesi ambigue ed erronee. In secondo luogo, ha inteso invitare a una ulteriore e più approfondita esplorazione del significato delle figure e degli elementi positivi di altre religioni. Se «l’unica mediazione del Redentore non esclude, ma suscita nelle creatura una varia cooperazione» (Lumen gentium n. 62), resta ancora «da approfondire il contenuto di questa mediazione partecipata, che deve restare pur sempre normata dal principio dell’unica mediazione di Cristo» (n. 14).
Il dibattito teologico, cioè, resta aperto. Sono state chiuse solo quelle strade che portavano a vicoli ciechi.
[01759-01.01] [Testo originale: Italiano]
● INTERVENTO DI MONS. FERNANDO OCÁRIZ
I contenuti ecclesiologici della Dichiarazione
I capitoli IV, V e VI della Dichiarazione Dominus Iesus trattano delle conseguenze ecclesiologiche della dottrina contenuta nei capitoli precedenti. Innanzitutto viene affermata l'esistenza di un'unica Chiesa, in corrispondenza all'unicità ed universalità della mediazione salvifica di Gesù Cristo (cfr. n. 16). Tale corrispondenza è fondata sulla volontà del Signore, che non stabilì la Chiesa come una semplice comunità di discepoli, ma anche come mistero salvifico. La Chiesa infatti è la presenza dello stesso Cristo che opera nella storia la salvezza nei discepoli ed attraverso i discepoli. Perciò, così come c'è un solo Cristo c'è una sola Chiesa: un solo Capo, un solo Corpo.
La Dichiarazione riprende poi un altro importante insegnamento del Concilio Vaticano II e ne offre la precisa interpretazione: l'unica Chiesa "sussiste" (subsistit) nella Chiesa Cattolica presieduta dal Successore di Pietro e dagli altri Vescovi. Con questa affermazione, il Vaticano II volle dire che l'unica Chiesa di Gesù Cristo continua ad esistere malgrado le divisioni tra i cristiani; e, più precisamente, che soltanto nella Chiesa Cattolica sussiste la Chiesa di Cristo in tutta la sua pienezza, mentre fuori della sua compagine visibile esistono "elementi di santificazione e verità" propri della stessa Chiesa (cfr. n. 17). A questo punto, il testo della Dominus Iesus ricorda che alcune comunità cristiane non cattoliche conservano, tra quegli "elementi di santificazione e verità", il valido Episcopato e la valida Eucaristia e, perciò, sono Chiese particolari, vale a dire porzioni dell'unico Popolo di Dio nelle quali "è presente e opera la Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica" (Conc. Vat. II, Christus Dominus, n. 11), come è il caso delle Chiese Ortodosse. Esiste quindi una sola Chiesa (sussistente nella Chiesa Cattolica) e allo stesso tempo esistono vere Chiese particolari non cattoliche. Non si tratta di un paradosso: esiste una sola Chiesa della quale sono porzioni tutte le Chiese particolari sebbene in alcune di queste (quelle non cattoliche) non vi sia la pienezza ecclesiale in quanto la loro unione con il tutto non è perfetta, per la mancata piena comunione con colui che, secondo la volontà del Signore, è principio e fondamento dell'unità dell'Episcopato e dell'intera Chiesa (il Vescovo di Roma, Successore di Pietro: cfr. Conc. Vat. II, Lumen gentium, n. 23).
L'unicità ed universalità della Chiesa viene poi vista dalla Dichiarazione nel contesto del Regno di Dio. Ricordando che la Chiesa è "germe e inizio" del Regno di Cristo e di Dio (cfr. Conc. Vat. II, Lumen gentium, n. 5), si esprime la sua dimensione escatologica: questo Regno è già una realtà presente nella storia, ma soltanto alla fine dei tempi raggiungerà il suo pieno sviluppo. Riprendendo l'insegnamento dell'Enciclica Redemptoris missio, la Dichiarazione riafferma che il Regno, pur non identificandosi con la Chiesa nella sua realtà visibile e sociale, è indissolubilmente unito a Cristo ed alla Chiesa (cfr. n. 18). Così si escludono alcune tesi contrarie alla fede cattolica, le quali, a partire da presupposti diversi, "negano l'unicità del rapporto che Cristo e la Chiesa hanno con il Regno di Dio" (n. 19).
Infine la Dichiarazione Dominus Iesus affronta direttamente la questione del rapporto che la Chiesa e le religioni non cristiane hanno con la salvezza degli uomini (nn. 20-22). Innanzitutto viene riaffermata la verità di fede secondo cui "la Chiesa pellegrinante è necessaria alla salvezza" (Conc. Vat. II, Lumen gentium, n. 14), verità da non separare da quest'altra: "Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi" (1 Tim 2, 4). La Dichiarazione -seguendo anche qui l'Enciclica Redemptoris missio- ribadisce che "è necessario tener congiunte queste due verità, cioè la reale possibilità della salvezza in Cristo per tutti gli uomini e la necessità della Chiesa in ordine a tale salvezza" (n. 20). Dobbiamo credere che ogni salvezza -anche dei non cristiani- viene da Cristo attraverso la Chiesa, ma non sappiamo come ciò si realizza nel caso dei non cristiani (cfr. n 21). Perciò è specialmente necessario in questo contesto non pensare alla Chiesa soltanto né primariamente nella sua dimensione visibile e sociale, ma prima e soprattutto nella sua realtà di mistero interiore, spirituale, radicato nell'opera di Cristo che, mediante il suo Spirito, edifica il suo Corpo nella Comunione dei santi.
La Dominus Iesus respinge di conseguenza un'interpretazione oggi assai diffusa -ma contraria alla fede cattolica- secondo la quale tutte le religioni, in quanto tali, per se stesse, sarebbero vie di salvezza accanto alla religione cristiana. Riprendendo anche qui l'insegnamento del Vaticano II e dell'Enciclica Redemptoris missio, la Dichiarazione ricorda che le altre religioni contengono "elementi di religiosità che procedono da Dio, e che fanno parte di quanto opera lo Spirito nel cuore, degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e nelle religioni" (n, 21), Questi elementi hanno un valore di "preparazione al Vangelo" (ibid.), sebbene altri elementi ne costituiscano piuttosto degli ostacoli (cfr. ibid.). Rimane quindi pienamente attuale la missione della Chiesa ad gentes, anche perché "se è vero che i seguaci delle altre religioni possono ricevere la grazia divina, è pure certo che oggettivamente si trovano in una situazione gravemente deficitaria se paragonata a quella di coloro che, nella Chiesa, hanno la pienezza dei mezzi salvifici" (n. 22). Tuttavia la Dichiarazione ricorda "a tutti i figli della Chiesa che la loro particolare condizione non va ascritta ai loro meriti, ma ad una speciale grazia di Cristo; se non vi corrispondono col pensiero, con le parole e con le opere, non solo non si salveranno, ma anzi saranno più severamente giudicati" (n. 22; cfr. Conc. Vat. II, Lumen gentium, n. 14).
Per concludere, non è superfluo sottolineare che l'impegno dei cristiani di portare la luce e la forza salvifica del Vangelo a tutti gli uomini, non è né può essere un'affermazione di noi stessi bensì un doveroso servizio agli altri mediante la verità che salva, della quale noi non siamo né origine né proprietari ma gratuiti beneficiari e servitori. Una verità che dev'essere sempre proposta nella carità e nel rispetto della libertà (cfr. Ef 4,15; Gal 5,13).
[01758-01.01] [Testo originale: Italiano]