VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO
nella REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO e in SUD SUDAN
(Pellegrinaggio Ecumenico di Pace in Sud Sudan)
[31 gennaio - 5 febbraio 2023]
INCONTRO CON I VESCOVI, I SACERDOTI, I DIACONI, I CONSACRATI,
LE CONSACRATE E I SEMINARISTI
DISCORSO DEL SANTO PADRE
Cattedrale di Santa Teresa (Giuba)
Sabato, 4 febbraio 2023
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Cari fratelli Vescovi, presbiteri e diaconi,
cari consacrati e consacrate,
cari seminaristi, novizie e novizi e aspiranti, buongiorno a tutti!
Da tempo coltivavo il desiderio di incontrarvi; per questo oggi vorrei ringraziare il Signore. Sono grato a Mons. Tombe Trille per il suo saluto e a tutti voi per la presenza e per il vostro saluto! Alcuni hanno fatto giorni di strada per essere qui oggi! Porto sempre scolpiti nel cuore alcuni momenti vissuti prima di questa visita: la celebrazione a San Pietro nel 2017, durante la quale abbiamo elevato la supplica a Dio per il dono della pace; e il ritiro spirituale del 2019 con i Leader politici, invitati affinché, attraverso la preghiera, prendessero nel cuore la ferma decisione di perseguire la riconciliazione e la fraternità nel Paese. Abbiamo anzitutto bisogno di questo: di accogliere Gesù, nostra pace e nostra speranza.
Nel mio discorso di ieri mi sono ispirato al corso delle acque del Nilo, che attraversa il vostro Paese come se fosse la sua spina dorsale. Nella Bibbia, all’acqua sono spesso associate l’azione di Dio creatore, la compassione con cui ci disseta quando ci troviamo a vagare nel deserto, la misericordia con cui ci purifica quando cadiamo nelle paludi del peccato; Egli, nel Battesimo, ci ha santificati «con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo» (Tt 3,5). Proprio secondo una prospettiva biblica vorrei guardare nuovamente alle acque del Nilo. Da una parte, nel letto di questo corso d’acqua si riversano le lacrime di un popolo immerso nella sofferenza e nel dolore, martoriato dalla violenza; un popolo che può pregare come il salmista: «Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo» (Sal 137,1). Le acque del grande fiume, infatti, raccolgono i gemiti sofferenti delle vostre comunità, raccolgono il grido di dolore di tante vite spezzate, raccolgono il dramma di un popolo in fuga, l’afflizione del cuore delle donne e la paura impressa negli occhi dei bambini. Si vede, la paura, negli occhi dei bambini. Allo stesso tempo, però, le acque del grande fiume ci riportano alla storia di Mosè e, perciò, sono segno di liberazione e di salvezza: da quelle acque, infatti, Mosè è stato salvato e, conducendo i suoi in mezzo al Mar Rosso, è diventato strumento di liberazione, icona del soccorso di Dio che vede l’afflizione dei suoi figli, ascolta il loro grido e scende a liberarli (cfr Es 3,7). Guardando alla storia di Mosè, che ha guidato il Popolo di Dio attraverso il deserto, chiediamoci che cosa significa essere ministri di Dio in una storia attraversata dalla guerra, dall’odio, dalla violenza, dalla povertà. Come esercitare il ministero in questa terra, lungo le sponde di un fiume bagnato da tanto sangue innocente, mentre i volti delle persone a noi affidate sono solcati dalle lacrime del dolore? Questa è la domanda. E quando parlo di ministero, lo faccio in senso largo: ministero presbiterale, diaconale e ministero catechistico, di insegnamento, che fanno tanti consacrati, consacrate e laici.
Per provare a rispondere, vorrei soffermarmi su due atteggiamenti di Mosè: la docilità e l’intercessione. Credo che queste due cose toccano la nostra vita, qui.
La prima cosa che colpisce della storia di Mosè è la sua docilità all’iniziativa di Dio. Non dobbiamo pensare, però, che sia sempre stato così: in un primo tempo egli aveva preteso di portare avanti da solo il tentativo di combattere l’ingiustizia e l’oppressione. Salvato dalla figlia del faraone nelle acque del Nilo, quando aveva scoperto la sua identità si era lasciato toccare dalla sofferenza e dall’umiliazione dei suoi fratelli, tanto che un giorno aveva deciso di fare giustizia da solo, colpendo a morte un egiziano che maltrattava un ebreo. A seguito di questo episodio, però, era dovuto scappare e restare per lunghi anni nel deserto. Lì sperimentò una sorta di deserto interiore: aveva pensato di affrontare l’ingiustizia con le sue sole forze e adesso, come conseguenza, si ritrovava ad essere un fuggitivo, a doversi nascondere, a vivere nella solitudine, a sperimentare il senso amaro del fallimento. Mi domando: qual era stato l’errore di Mosè? Pensare di essere lui il centro, contando solo sulle sue forze. Ma così era rimasto prigioniero dei peggiori metodi umani, come quello di rispondere alla violenza con la violenza.
A volte qualcosa di simile può capitare anche nella nostra vita di sacerdoti, diaconi, religiosi, seminaristi, consacrate, consacrati, tutti: sotto sotto pensiamo di essere noi il centro, di poterci affidare, se non in teoria almeno in pratica, quasi esclusivamente alla nostra bravura; o, come Chiesa, di trovare la risposta alle sofferenze e ai bisogni del popolo attraverso strumenti umani, come il denaro, la furbizia, il potere. Invece, la nostra opera viene da Dio: Lui è il Signore e noi siamo chiamati a essere docili strumenti nelle sue mani. Mosè apprende questo quando, un giorno, Dio gli viene incontro, apparendogli «in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto» (Es 3,2). Mosè si lascia attrarre, fa spazio allo stupore, si mette nell’atteggiamento della docilità per lasciarsi illuminare dal fascino di quel fuoco, di fronte al quale pensa: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?» (v. 3). Ecco la docilità che serve al nostro ministero: avvicinarci a Dio con stupore e umiltà. Sorelle e fratelli, non perdete lo stupore dell’incontro con Dio! Non perdete lo stupore del contatto con la Parola di Dio. Mosè si è lasciato attrarre e orientare da Dio. Il primato non è a noi, il primato è a Dio: affidarci alla sua Parola prima di servirci delle nostre parole, accogliere docilmente la sua iniziativa prima di puntare sui nostri progetti personali ed ecclesiali.
È questo lasciarci plasmare docilmente che ci fa vivere in modo rinnovato il ministero. Davanti al Buon Pastore, comprendiamo che non siamo capi tribù, ma Pastori compassionevoli e misericordiosi; non padroni del popolo, ma servi che si chinano a lavare i piedi dei fratelli e delle sorelle; non siamo un’organizzazione mondana che amministra beni terreni, ma siamo la comunità dei figli di Dio. Sorelle e fratelli, facciamo allora come Mosè al cospetto di Dio: togliamoci i sandali con umile rispetto (cfr v. 5), spogliamoci della nostra presunzione umana, lasciamoci attrarre dal Signore e coltiviamo l’incontro con Lui nella preghiera; accostiamoci ogni giorno al mistero di Dio, perché ci stupisca e perché bruci le sterpaglie del nostro orgoglio e delle nostre ambizioni smodate e ci renda umili compagni di viaggio di quanti ci sono affidati.
Purificato e illuminato dal fuoco divino, Mosè diventa strumento di salvezza per i suoi che soffrono; la docilità verso Dio lo rende capace di intercedere per i fratelli. Ecco il secondo atteggiamento di cui vorrei parlarvi oggi: l’intercessione. Mosè ha fatto esperienza di un Dio compassionevole, che non resta indifferente davanti al grido del suo popolo e scende a liberarlo. È bello questo: scendere. Dio scende a liberarlo. Dio, per la sua condiscendenza nei nostri riguardi, viene in mezzo a noi fino ad assumere in Gesù la nostra carne, provare la nostra morte e i nostri inferi. Sempre scende per rialzarci e chi fa esperienza di Lui è portato a imitarlo. Così fa Mosè, che “scende” in mezzo ai suoi: lo farà più volte durante la traversata nel deserto. Egli, infatti, nei momenti più importanti e difficili, sale e scende dal monte della presenza di Dio al fine di intercedere per il popolo, cioè di mettersi dentro alla sua storia per avvicinarlo a Dio. Fratelli e sorelle, intercedere «non vuol dire semplicemente “pregare per qualcuno”, come spesso pensiamo. Etimologicamente significa “fare un passo in mezzo”, fare un passo in modo da mettersi nel mezzo di una situazione» (C.M. Martini, Un grido di intercessione, Milano, 29 gennaio 1991). A volte non si ottiene molto, ma bisogna farlo: un grido di intercessione. Intercedere è quindi scendere per mettersi in mezzo al popolo, “farsi ponti” che lo collegano a Dio.
Ai Pastori è richiesto di sviluppare proprio quest’arte di “camminare in mezzo”. Dev’essere la specialità dei pastori, camminare in messo: in mezzo alle sofferenze, in mezzo alle lacrime, in mezzo alla fame di Dio e alla sete di amore dei fratelli e delle sorelle. Il nostro primo dovere non è quello di essere una Chiesa perfettamente organizzata – questo lo può fare qualsiasi ditta –, ma una Chiesa che, in nome di Cristo, sta in mezzo alla vita sofferta del popolo e si sporca le mani per la gente. Mai dobbiamo esercitare il ministero inseguendo il prestigio religioso e sociale – quel brutto “fare carriera” –, ma camminando in mezzo e insieme, imparando ad ascoltare e a dialogare, collaborando tra noi ministri e con i laici. Ecco, vorrei ripetere questa parola importante: insieme. Non dimentichiamola: insieme. Vescovi e preti, preti e diaconi, pastori e seminaristi, ministri ordinati e religiosi, sempre nutrendo rispetto per la meravigliosa specificità della vita religiosa: cerchiamo di vincere tra di noi la tentazione dell’individualismo, degli interessi di parte. È molto triste quando i Pastori non sono capaci di comunione, non riescono a collaborare, addirittura si ignorano tra loro! Coltiviamo il rispetto reciproco, la vicinanza, la collaborazione concreta. Se ciò non accade tra di noi, come possiamo predicarlo agli altri?
Torniamo a Mosè e, per approfondire l’arte dell’intercessione, guardiamo alle sue mani. La Scrittura ci offre tre immagini al riguardo: Mosè col bastone in mano, Mosè con le mani protese, Mosè con le mani alzate al cielo.
La prima immagine, quella di Mosè col bastone in mano, ci dice che egli intercede con la profezia. Con quel bastone compirà dei prodigi, segni della presenza e della potenza di Dio, nel nome del quale parla, denunciando ad alta voce il male che il popolo soffre e chiedendo al faraone di lasciarlo partire. Fratelli e sorelle, per intercedere a favore del nostro popolo siamo chiamati anche noi ad alzare la voce contro l’ingiustizia e la prevaricazione, che schiacciano la gente e si servono della violenza per gestire gli affari all’ombra dei conflitti. Se vogliamo essere Pastori che intercedono, non possiamo restare neutrali dinanzi al dolore provocato dalle ingiustizie e dalle violenze perché, là dove una donna o un uomo vengono feriti nei loro diritti fondamentali, Cristo stesso è offeso. Sono stato contento di ascoltare nella testimonianza di Padre Luka che la Chiesa non smette di portare avanti un ministero insieme profetico e pastorale. Grazie! Grazie perché, se c’è una tentazione da cui dobbiamo guardarci, è quella di lasciare le cose come stanno e non interessarci delle situazioni per paura di perdere privilegi e convenienze.
Seconda immagine: Mosè con le mani protese. Egli, dice la Scrittura, «stese la mano sul mare» (Es 14,21). Le sue mani distese sono il segno che Dio sta per operare. In seguito, Mosè terrà tra le mani le tavole della Legge (cfr Es 34,29) per mostrarle al popolo; le sue mani protese indicano la vicinanza di Dio che è all’opera e accompagna il suo popolo. Per liberare dal male non basta infatti la profezia, occorre protendere le braccia ai fratelli e alle sorelle, sostenere il loro cammino. Accarezzare il gregge di Dio. Possiamo immaginare Mosè che indica il percorso e stringe le mani dei suoi per incoraggiarli ad andare avanti. Per quarant’anni, da anziano, rimane accanto ai suoi: ecco la vicinanza. E non è stato un compito facile: egli spesso ha dovuto rianimare un popolo scoraggiato e stanco, affamato e assetato, a volte anche capriccioso, che si lasciava andare alla mormorazione e alla pigrizia. E per esercitare tale compito ha dovuto anche lottare con sé stesso, perché a volte ha vissuto momenti di oscurità e di desolazione, come quello in cui disse al Signore: «Perché hai fatto del male al tuo servo? Perché non ho trovato grazia ai tuoi occhi, al punto di impormi il peso di tutto questo popolo? [...] Non posso io da solo portare il peso di tutto questo popolo; è troppo pesante per me» (Nm 11,11.14). Guarda la preghiera di Mosè: è stanco. Eppure, Mosè non si è ritirato: sempre vicino a Dio, non si è mai allontanato dai suoi. Anche noi abbiamo questo compito: tendere le mani, rialzare i fratelli, ricordare loro che Dio è fedele alle sue promesse, esortarli ad andare avanti. Le nostre mani sono state “unte di Spirito” non solo per i sacri riti, ma per incoraggiare, aiutare, accompagnare le persone ad uscire da ciò che le paralizza, le chiude e le rende timorose.
Infine – terza immagine –: le mani alzate al cielo. Quando il popolo cade nel peccato e si costruisce un vitello d’oro, Mosè sale di nuovo sul Monte – pensiamo a quanta pazienza! – e pronuncia una preghiera che è una vera e propria lotta con Dio perché non abbandoni Israele. Arriva a dire: «Questo popolo ha commesso un grande peccato: si sono fatti un dio d’oro. Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato… Altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto!» (Es 32,31-32). Si schiera dalla parte del popolo fino alla fine, alza la mano in suo favore. Non pensa a salvarsi da solo, non vende il popolo per i propri interessi! Intercede. Mosè intercede, Mosè lotta con Dio; tiene le braccia alzate in preghiera mentre i suoi fratelli combattono a valle (cfr Es 17,8-16). Sostenere con la preghiera davanti a Dio le lotte del popolo, attirare il perdono, amministrare la riconciliazione come canali della misericordia di Dio che rimette i peccati: questo è il nostro compito di intercessori!
Carissimi, queste mani profetiche, protese e alzate costano fatica, non è facile. Essere profeti, accompagnatori, intercessori, mostrare con la vita il mistero della vicinanza di Dio al suo Popolo può richiedere la vita stessa. Tanti sacerdoti, religiose e religiosi – come suor Regina ci ha detto delle sue sorelle – sono rimasti vittime di violenze e attentati in cui hanno perso la vita. In realtà, l’esistenza l’hanno offerta per la causa del Vangelo e la loro vicinanza ai fratelli e alle sorelle è una testimonianza meravigliosa che ci lasciano e che ci invita a portare avanti il loro cammino. Possiamo ricordare San Daniele Comboni, che con i suoi fratelli missionari ha compiuto in questa terra una grande opera di evangelizzazione: egli diceva che il missionario dev’essere disposto a tutto per Cristo e per il Vangelo, e che c’è bisogno di anime ardite e generose che sappiano patire e morire per l’Africa.
Allora io vorrei ringraziarvi per quello che fate in mezzo a tante prove e fatiche. Grazie, a nome della Chiesa intera, per la vostra dedizione, il vostro coraggio, i vostri sacrifici, la vostra pazienza. Grazie! Vi auguro, cari fratelli e sorelle, di essere sempre Pastori e testimoni generosi, armati solo di preghiera e di carità; pastori testimoni, che docilmente si lasciano sorprendere dalla grazia di Dio e diventano strumenti di salvezza per gli altri; pastori e profeti di vicinanza che accompagnano il popolo, intercessori con le braccia alzate. La Vergine Santa vi custodisca. In questo momento, pensiamo in silenzio a questi nostri fratelli e sorelle che hanno dato la vita in questo ministero pastorale qui, e ringraziamo il Signore perché è stato vicino. Ringraziamo il Signore per la loro vicinanza martiriale. Preghiamo in silenzio.
Grazie per la vostra testimonianza. E se avete un pochettino di tempo, pregate per me. Grazie.
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