[Testo consegnato - Non completo di eventuali aggiunte a braccio]
Lunedì 2 ottobre 2023 - alle LODI
“Benedire”
“ .. e tu bambino” – labbra dissigillate al sacerdote ammutolito
“Benedetto il Signore Dio” (Lc 1,68): quotidianamente per la Chiesa in preghiera il giorno si apre, in canto, sulla benedizione. E questo tono impresso dalla celebrazione dà l’impronta al tempo che, al ritmo dei giorni, inizia.
La benedizione con cui celebriamo l’inizio di un sempre nuovo giorno, è un atto sovversivo. Con essa evangelizziamo i giorni, riscattandoli – qualora mostrassero di essere ammorbati da spiriti “cattivi” (Ef 5,16). Se interiorizzata, la benedizione illumina anche il percorso sinodale.
Anche un evento così significativo come la chiesa radunata in sinodo – sosta di verità, di conversione, di dialogo – di fatto è chiamato a ricevere, ad assumere il passo e il proprio ritmo quotidiano dal mistero che celebra, sotteso tra il Benedictus delle lodi mattutine e il Magnificat vespertino. Tra la benedizione per la visita del Signore – incessantemente liberante - e la meraviglia dinanzi alla maggior grandezza del Signore Dio, che raduna i poveri, gli affamati, i molti e i differenti. Penso siamo chiamati a esporci radicalmente a queste due luci generative nei giorni che verranno, per trarne visione e orientamento.
Ogni mattina la Chiesa in cammino anzitutto benedice. Mai e poi mai dovrà perdere di vista questa consegna. L’ha imparato da Gesù, più volte (Mt 11,25-27; Lc 10,21-22) e fino alla benedizione ultima – al Cenacolo (Mt 26,26) e oltre la risurrezione (Lc 24,50-51). Il benedire raccoglie e condensa come in una sintesi suprema ogni parola di Gesù, ogni rito memoriale mediante il quale Egli rimane nella sua chiesa.
Questo inizio di assemblea sinodale è chiamato, mi pare, a questo esercizio elementare della fede: assumere come tono di fondo la benedizione, per ogni giorno di confronto sinodale. Per ogni sua discreta uscita dalla mutezza.
Dopo l’incredulità e il mutismo che avevano come impietrito e sospeso il servizio cultuale di Zaccaria al tempio, la benedizione del sacerdote era rimasta sospesa: egli non poteva orami più lui benedire il popolo in attesa (Lc 1,21-22). Ma ora l’evento della nascita del “puer, vocatus propheta” scioglie il mutismo, l’incredulità, pone fine alla notte E per noi?
Benedire, mi pare, è l’atteggiamento sinodale di fondo, da che esiste il popolo di Dio: «A questo infatti siete stati chiamati da Dio per avere in eredità la sua benedizione» (1Pt 3,9). Come considerato ieri a proposito dei Salmi, tale atteggiamento presuppone un evento nella vita del singolo, che dilata la stretta e apre ai molti: dal singolo si rifrange, passa contagiando l’intera assemblea: “Benedirò il Signore, in ogni tempo, esaltiamo insieme il suo nome” (Sal 33,4).
La chiesa agli inizi ha fatto una scelta carica di futuro (ma chiediamoci: quanto sarà effettivamente vissuta oggi?) nel ricevere dalla preghiera e assumere il Benedictus quale vademecum e stile della propria chiamata a essere “homo vivens, gloria Dei” (Ireneo, Adversus haereses, IV, 20,7). Benedicendo dà inizio al nuovo giorno quale tempo affidato alla sua libertà; da capo acquista lo sguardo per leggere le vicende proprie e del mondo alla luce della grazia. Sarà, quella scelta degli inizi, effettivamente vissuta oggi?
Atteggiamento contrario al benedire è quella della ragione calcolante e strumentale, che persegue il bieco utile. La ragione calcolante guarda la realtà per cercarne il dominio attraverso congetture e strategie. La ragione calcolante vanta il possesso arrogante della verità ed è indisponibile al confronto. La ragione calcolante strumentalizza l’altro, le situazioni, il creato. Vuole dominare a ogni costo, anche con sacri pretesti - e non sa benedire.
Il Benedictus offre, con stupenda densità simbolica, l’avvio per il cammino. Dal sacerdote incredulo e quindi muto, incapace di benedire il popolo, Zaccaria è trasformato dallo Spirito in profeta che esultante benedice. Benedice per la visita trasformante di Dio. Benedice per il “puer, vocatus propheta”, l’infante reso sommo profeta (Mt 11,11; 21,23-27). Il profeta è bambino per antonomasia: lo vediamo già in Geremia, l’essere umano reso per grazia dall’Alto è giovane, si percepisce radialmente bisognoso di aiuto per essere profeta: occhio che vede - dal cuore di Dio - presente, passato e futuro, l’invisibile se non agli occhi del cuore in ascolto.
Solo chi riceve cuore di puer è profeta. Non per prevedere il futuro, ma per vedere il presente con il suo infallibile sensorium, già vigile nel buio del grembo. È il cuore di puer che consente di benedire pur e proprio appartenendo a un mondo umiliato dal disfacimento.
Benedire Dio che in modo misterioso compie prodigi, restituisce ogni giorno anima alla chiesa, segnata da attese e inerzie, mutismi e sterilità, da molte rughe d’incredulità. Restituisce un’anima nel tempo - e oltre il tempo (Ap 14,3; 15,3-4).
Urge appropriarsi di questa forma di chiesa che è la benedizione, anche nei percorsi sinodali; soltanto così è possibile procedere “sulla via della pace” (Lc 1,79).
L’augurio intenerito dallo stupore di un anziano padre al figlio neonato – “et tu puer” (1,76) –, è dalla Liturgia posto sulle labbra della chiesa in cammino. E la storia di ogni giorno si riapre su una confessione di lode, perché – questo è il passaggio decisivo - “Dio ha visitato” (1,68). Ha compiuto la su episkopè, visita premurosa, visita fecondante, visita di giudizio e invito alla conversione; visita di misericordia. Mai si dovrà perdere di vista, nei passi del Sinodo, l’episkopè - la visita del Signore. Che altro potranno essere questi faticosi passi del percorso sinodale finora attraversati, se non il luogo e il tempo della sua visita?
Al bambino stesso salutato dal canto paterno è affidato il compito profetico di “camminare avanti”, di precorrere l’Astro che sorge dall’alto. “Et tu, puer”: il futuro Precursore, il ruvido uomo del deserto, è identificato come profeta nella sua qualità di “puer”. Ebbene, penso che la Chiesa sinodale cantando il Benedictus possa riconoscersi chiamata a identificarsi nel “puer” che, destinato a uno spazio relazionale più vasto della sua parentela: prepara la via al cammino dei popoli – di Israele e di tutti coloro che giacciono nelle tenebre. Cammina e apre la via, come ci rivela lo stesso Vangelo di oggi.
“Per viscera misericordiae Dei nostri”: il cammino nel quale è impegnata la Chiesa, è interpretato dal Cantico al modo di un cammino attraverso il grembo, il grembo, quello della misericordia di Dio. Noi, guardiamo a noi stessi e in tutte le direzioni, dovunque guardiamo il nostro sguardo, comunque ci muoviamo, in qualunque direzione ci smarriamo e percepiamo una certa trepidazione. Ebbene il cantico rivela che noi stiamo attraversando il grembo di nuova nascita. È dalla misericordia che sorge, nuovo mattino, la pace.
Uscita dalle tenebre, dall'ombra della morte. È la luce del giorno che sorge per non tramontare mai più
- ed è quella luce che sorge per spiegarci come le tenebre erano già in modo straordinariamente fecondo e pacificante rivelazione della misericordia, del grembo generativo del Dio vivente.
Sapranno i passi del cammino sinodale registrarsi sulla lunghezza d’onda della benedizione mattutina?