Testo in lingua italiana
Traduzione in lingua francese
Traduzione in lingua inglese
Traduzione in lingua tedesca
Traduzione in lingua spagnola
Traduzione in lingua portoghese
Traduzione in lingua polacca
Testo in lingua italiana
Nel centenario della fondazione del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, sento il dovere e la gioia di condividere alcune riflessioni che ritengo importanti per il cammino della Chiesa nei tempi presenti. Lo faccio con cuore grato, consapevole che la memoria del passato, illuminata dalla fede e purificata dalla carità, è nutrimento della speranza.
Nel 1925 era stato indetto il “Giubileo della pace”, che intendeva alleviare le atroci ferite del primo conflitto mondiale; ed è significativo che la ricorrenza del centenario dell’Istituto coincida con un nuovo Giubileo, che anche oggi vuole dare prospettive di speranza all’umanità, travagliata da numerose guerre.
Il nostro tempo, segnato da rapidi mutamenti, da crisi umanitarie e transizioni culturali, richiede, insieme con il ricorso ad antichi e nuovi saperi, anche la ricerca di una sapienza profonda, capace di custodire e tramandare al futuro ciò che è veramente essenziale. È in questa prospettiva che desidero riaffermare con forza quanto l’archeologia sia una componente imprescindibile dell’interpretazione del cristianesimo e, per conseguenza, della formazione catechetica e teologica. Essa non è solo una disciplina specialistica, riservata a pochi esperti, ma una via accessibile a tutti coloro che vogliono comprendere l’incarnazione della fede nel tempo, nei luoghi e nelle culture. Per noi cristiani la storia è un fondamento cruciale: infatti compiamo il pellegrinaggio della vita nel concreto della storia, che è anche lo scenario in cui si svolge il mistero della salvezza. Ogni cristiano è chiamato a basare la propria esistenza su una Buona Novella che parte dall’Incarnazione storica del Verbo di Dio (cfr Gv 1,14).
Come ci ha ricordato l’amato Papa Francesco, «nessuno può conoscere veramente chi è e che cosa intende essere domani senza nutrire il legame che lo connette con le generazioni che lo precedono. E questo vale non solo a livello di vicenda dei singoli, ma anche ad un livello più ampio di comunità. Infatti, studiare e raccontare la storia aiuta a mantenere accesa la fiamma della coscienza collettiva. Altrimenti rimane solo la memoria personale dei fatti legati al proprio interesse o alle proprie emozioni, senza un vero collegamento con la comunità umana ed ecclesiale nella quale ci troviamo a vivere».[1]
La Casa dell’archeologia
Col Motu Proprio “I primitivi cemeteri”, dell’11 dicembre 1925, Papa Pio XI sanciva un progetto ambizioso e lungimirante: la fondazione di un istituto di alta formazione, cioè dottorale, che, coordinandosi con la Commissione di Archeologia Sacra e con la Pontificia Accademia Romana di Archeologia, avrebbe avuto il compito di indirizzare, con il massimo rigore scientifico, gli studi sui monumenti del cristianesimo antico per ricostruire la vita delle prime comunità, formando «così Professori di archeologia cristiana per le Università e i Seminari, Direttori di scavi di antichità, Conservatori di monumenti sacri, musei, ecc.».[2] Nella visione di Pio XI l’archeologia è indispensabile per l’esatta ricostruzione della storia, la quale, come «luce di verità e testimonio dei tempi, se rettamente consultata e diligentemente esaminata»,[3] indica ai popoli la fecondità delle radici cristiane e i frutti di bene comune che ne possono derivare, accreditando in tal modo anche l’opera di evangelizzazione.
In tutti questi anni, il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana ha formato centinaia di archeologi del cristianesimo antico provenienti, come gli stessi professori, da tutte le parti del mondo, i quali, rientrati nei propri Paesi, hanno ricoperto importanti incarichi di docenza o di tutela; ha promosso ricerche a Roma e nell’intero orbe cristiano; ha svolto un efficace ruolo internazionale per la promozione dell’archeologia cristiana, sia con l’organizzazione dei ciclici congressi e con numerose altre iniziative scientifiche, sia per le strette relazioni e gli scambi costanti con università e centri di studio di tutto il mondo.
L’Istituto ha saputo essere, in alcuni momenti, promotore di pace e di dialogo religioso, ad esempio organizzando il XIII Congresso internazionale a Spalato durante la guerra nella ex-Jugoslavia – scelta difficile e con molti dissensi nell’ambiente accademico –[4] o confermando la propria operatività con missioni all’estero in Paesi politicamente instabili. Non ha mai derogato agli obiettivi dell’alta formazione, privilegiando il contatto diretto con le fonti scritte e i monumenti, tracce visibili e inequivocabili delle prime comunità cristiane, attraverso visite, soprattutto alle catacombe e alle chiese di Roma, e i viaggi annuali di studio nelle aree geografiche interessate dalla diffusione del Cristianesimo.
Quando le esigenze della didattica e le sollecitazioni dall’esterno lo hanno richiesto, soprattutto negli anni recenti con il Processo di Bologna, sottoscritto dalla Santa Sede, per la costruzione di un sistema di istruzione superiore coerente in Europa, l’Istituto ha aggiornato le discipline e i percorsi formativi, senza mai discostarsi dagli obiettivi e dallo spirito dei suoi fondatori. Esso ha continuato a calcare le orme degli iniziatori dell’archeologia cristiana, specialmente di Giovanni Battista de Rossi, «studioso instancabile, che pose le basi di una disciplina scientifica».[5] A lui si devono, nella seconda metà del XIX secolo, la scoperta della gran parte dei cimiteri cristiani intorno alle mura di Roma, come pure lo studio dei santuari dei Martiri delle persecuzioni, quelle di Decio, di Valeriano e di Diocleziano soprattutto, e dei loro sviluppi dall’età di Costantino, attrattori di un pellegrinaggio sempre più fiorente fino all’alto medioevo.
Questo è stato rendere un servizio alla Chiesa, che ha potuto contare sull’Istituto come promotore delle conoscenze sulle testimonianze materiali del cristianesimo delle origini, sui Martiri che ancora oggi rappresentano esempi di una fede brillante e coraggiosa. Il servizio dell’Istituto è stato anche pratico, poiché è intervenuto nello scavo – intrapreso dalla Fabbrica di San Pietro – della tomba dell’Apostolo Pietro sotto l’Altare della Confessione della Basilica Vaticana e, più recentemente, nelle indagini dei Musei Vaticani presso San Paolo fuori le mura.
L’archeologia come scuola di incarnazione
Oggi siamo chiamati a chiederci: quanto ancora può essere proficuo, nell’epoca dell’intelligenza artificiale e delle investigazioni nelle infinite galassie dell’universo, il ruolo dell’archeologia cristiana nella società e per la Chiesa?
Il cristianesimo non è nato da un’idea, ma da una carne. Non da un concetto astratto, ma da un grembo, da un corpo, da un sepolcro. La fede cristiana, nel suo cuore più autentico, è storica: si fonda su eventi concreti, su volti, su gesti, su parole pronunciate in una lingua, in un’epoca, in un ambiente.[6] È questo che l’archeologia rende evidente, palpabile. Essa ci ricorda che Dio ha scelto di parlare in una lingua umana, di camminare su una terra, di abitare luoghi, case, sinagoghe, strade.
Non si può comprendere fino in fondo la teologia cristiana senza l’intelligenza dei luoghi e delle tracce materiali che testimoniano la fede dei primi secoli. Non è un caso che l’evangelista Giovanni apra la sua Prima Lettera con una sorta di dichiarazione sensoriale: «Quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita» (1Gv 1,1). L’archeologia cristiana è, in un certo senso, una risposta fedele a queste parole. Essa vuole toccare, vedere, ascoltare il Verbo che si è fatto carne. Non per fermarsi a ciò che è visibile, ma per lasciarsi condurre al Mistero che vi si cela.
L’archeologia, occupandosi dei vestigi materiali della fede, educa a una teologia dei sensi: una teologia che sa vedere, toccare, odorare, ascoltare. L’archeologia cristiana educa a questa sensibilità. Scavando tra le pietre, tra le rovine, tra gli oggetti, essa ci insegna che nulla di ciò che è stato toccato dalla fede è insignificante. Anche un frammento di mosaico, un’iscrizione dimenticata, un graffito su una parete catacombale possono raccontare la biografia della fede. In tal senso, l’archeologia è anche scuola di umiltà: insegna a non disprezzare ciò che è piccolo, ciò che è apparentemente secondario. Insegna a leggere i segni, a interpretare il silenzio e l’enigma delle cose, a intuire ciò che non è più scritto. È una scienza della soglia, che sta tra la storia e la fede, tra la materia e lo Spirito, tra l’antico e l’eterno.
Viviamo in un’epoca in cui l’uso e il consumo hanno preso il sopravvento sulla custodia e sul rispetto. L’archeologia, invece, ci insegna che anche la più piccola testimonianza merita attenzione, che ogni traccia ha un valore, che nulla può essere scartato. In questo senso, essa è una scuola di sostenibilità culturale e di ecologia spirituale. È un’educazione al rispetto della materia, della memoria, della storia. L’archeologo non butta via, ma conserva. Non consuma, ma contempla. Non distrugge, ma decifra. Il suo sguardo è paziente, preciso, rispettoso. È lo sguardo che sa cogliere in un pezzo di ceramica, in una moneta corrosa, in un’incisione consunta il respiro di un’epoca, il senso di una fede, il silenzio di una preghiera. È uno sguardo che può insegnare molto anche alla pastorale e alla catechesi di oggi.
D’altra parte, i più moderni strumenti tecnologici permettono di ricavare nuove informazioni da reperti un tempo considerati insignificanti. Questo ci ricorda che nulla è veramente inutile o perduto. Anche ciò che appare marginale può, alla luce di nuove domande e nuovi metodi, restituire significati profondi. L’archeologia, in questo, è anche scuola di speranza.
Nelle Norme applicative della Costituzione apostolica Veritatis gaudium si afferma che l’Archeologia, insieme alla Storia della Chiesa e alla Patrologia, deve far parte delle discipline fondamentali per la formazione teologica.[7] Non si tratta di un’aggiunta accessoria, dunque, ma di un principio pedagogico profondo: chi studia teologia deve sapere da dove viene la Chiesa, come ha vissuto, quali forme ha assunto la fede nel corso dei secoli. L’archeologia non ci parla solo di cose, ma di persone: delle loro case, delle loro tombe, delle loro chiese, delle loro preghiere. Ci parla della vita quotidiana dei primi cristiani, dei luoghi del culto, delle forme dell’annuncio. Ci parla di come la fede ha modellato spazi, città, paesaggi, mentalità. E ci aiuta a comprendere come la rivelazione si sia incarnata nella storia, come il Vangelo abbia trovato parole e forme dentro le culture. Una teologia che ignora l’archeologia rischia di diventare disincarnata, astratta, ideologica. Al contrario, una teologia che accoglie l’archeologia come alleata è una teologia che ascolta il corpo della Chiesa, che interroga le sue ferite, che legge i suoi segni, che si lascia toccare dalla sua storia.
La professione archeologica è, in gran parte, una professione “tattile”. Gli archeologi sono i primi a toccare, dopo secoli, una materia sepolta che conserva l’energia del tempo. Ma il compito dell’archeologo cristiano non si ferma alla materia, va oltre, fino all’umano. Non studia soltanto i reperti, ma anche le mani che li hanno forgiati, le menti che li hanno concepiti, i cuori che li hanno amati. Dietro ogni oggetto c’è una persona, un’anima, una comunità. Dietro ogni rovina, un sogno di fede, una liturgia, una relazione. L’archeologia cristiana, allora, è anche una forma di carità: è un modo per far parlare i silenzi della storia, per restituire dignità a chi è stato dimenticato, per riportare alla luce la santità anonima di tanti fedeli che hanno fatto la Chiesa.
Una memoria per evangelizzare
Fin dalle origini del cristianesimo, la memoria ha avuto un ruolo fondamentale nell’evangelizzazione. Non si tratta di un semplice ricordo, ma di una riattualizzazione viva della salvezza. Le prime comunità cristiane custodivano, insieme con le parole di Gesù, anche i luoghi, gli oggetti, i segni della sua presenza. La tomba vuota, la casa di Pietro a Cafarnao, le tombe dei martiri, le catacombe romane: tutto concorreva a testimoniare che Dio era entrato davvero nella storia e che la fede non era una filosofia, ma un cammino concreto nella carne del mondo.
Papa Francesco scrisse che, nei percorsi catacombali, «si trovano i tanti segni del pellegrinaggio cristiano delle origini: penso, ad esempio, agli importantissimi graffiti della cosiddetta triclia delle catacombe di San Sebastiano, la Memoria Apostolorum, dove si veneravano insieme le reliquie degli Apostoli Pietro e Paolo. Scopriamo poi, in questi percorsi, i simboli e le raffigurazioni cristiane più antiche, che testimoniano la speranza cristiana. Nelle catacombe tutto parla di speranza, tutto: parla di vita oltre la morte, di liberazione dai pericoli e dalla morte stessa per opera di Dio, che in Cristo, il Pastore buono, ci chiama a partecipare alla beatitudine del Paradiso, evocata con figure di piante rigogliose, fiori, prati verdeggianti, pavoni e colombe, pecorelle al pascolo… Tutto parla di speranza e di vita!».[8]
Questo è ancora oggi il compito dell’archeologia cristiana: aiutare la Chiesa a ricordare la propria origine, a custodire la memoria viva dei suoi inizi, a narrare la storia della salvezza non solo con parole, ma anche con immagini, forme, spazi. In un tempo che spesso smarrisce le radici, l’archeologia diventa così strumento prezioso di un’evangelizzazione che parte dalla verità della storia per aprire alla speranza cristiana e alla novità dello Spirito.
L’archeologia cristiana ci fa vedere come il Vangelo sia stato accolto, interpretato, celebrato in contesti culturali diversi; ci mostra come la fede abbia plasmato il quotidiano, la città, l’arte, il tempo. E ci invita a continuare questo processo di inculturazione, perché il Vangelo oggi possa ancora trovare casa nei cuori e nelle culture del mondo contemporaneo. In questo senso, non guarda soltanto al passato: parla al presente e orienta verso il futuro. Parla ai credenti, che riscoprono le radici della loro fede; ma parla anche ai lontani, ai non credenti, a quanti si interrogano sul senso della vita e trovano, nel silenzio delle tombe e nella bellezza delle basiliche paleocristiane, un’eco di eternità. Parla ai giovani, che spesso cercano autenticità e concretezza; parla agli studiosi, che vedono nella fede non un’astrazione ma una realtà storicamente documentata; parla ai pellegrini, che ritrovano nelle catacombe e nei santuari il senso del cammino e l’invito alla preghiera per la Chiesa.
In un tempo nel quale la Chiesa è chiamata ad aprirsi alle periferie – geografiche ed esistenziali – l’archeologia può essere strumento potente di dialogo; può contribuire a creare ponti tra mondi distanti, tra culture diverse, tra generazioni; può testimoniare che la fede cristiana non è mai stata una realtà chiusa, ma una forza dinamica, capace di penetrare nei tessuti più profondi della storia umana.
Saper vedere oltre: la Chiesa tra tempo ed eternità
La grandezza della missione archeologica si misura anche nella capacità di collocare la Chiesa dentro la tensione tra il tempo e l’eternità. Ogni reperto, ogni frammento portato alla luce ci dice che il cristianesimo non è un’idea sospesa, ma un corpo che ha vissuto, che ha celebrato, che ha abitato lo spazio e il tempo. La fede non è fuori dal mondo, ma nel mondo. Non è contro la storia, ma dentro la storia.
Eppure l’archeologia non si limita a descrivere la materialità delle cose. Essa ci conduce oltre: ci fa intuire la forza di un’esistenza che trascende i secoli, che non si esaurisce nella materia, ma la oltrepassa. Così, ad esempio, nella lettura delle sepolture cristiane vediamo, oltre, la morte, l’attesa della risurrezione; nella disposizione delle absidi cogliamo, oltre un calcolo architettonico, l’orientamento verso Cristo; nelle tracce del culto riconosciamo, oltre un rituale, l’anelito al Mistero.
In una prospettiva più sistematica, è possibile affermare che l’archeologia ha una rilevanza specifica anche nella teologia della Rivelazione. Dio ha parlato nel tempo, attraverso eventi e persone. Ha parlato nella storia di Israele, nella vicenda di Gesù, nel cammino della Chiesa. La Rivelazione è dunque sempre anche storica. Ma se è così, allora la comprensione della Rivelazione non può prescindere da un’adeguata conoscenza dei contesti storici, culturali e materiali nei quali essa si è realizzata. L’archeologia cristiana contribuisce a questa conoscenza. Essa illumina i testi con le testimonianze materiali. Interroga le fonti scritte, le completa, le problematizza. In alcuni casi, conferma l’autenticità delle tradizioni; in altri, le ricolloca nel loro giusto contesto; in altri ancora, apre nuove domande. Tutto questo è teologicamente rilevante. Perché una teologia che voglia essere fedele alla Rivelazione deve restare aperta alla complessità della storia.
L’archeologia, inoltre, mostra come il cristianesimo si sia progressivamente articolato nel tempo, affrontando sfide, conflitti, crisi, momenti di splendore e di oscurità. Questo aiuta la teologia ad abbandonare visioni idealizzate o lineari del passato e a entrare nella verità del reale: una verità fatta di grandezza e di limite, di santità e di fragilità, di continuità e di rottura. Ed è proprio in questa storia reale, concreta, spesso contraddittoria, che Dio ha voluto manifestarsi.
Non è un caso, infine, che ogni approfondimento del mistero della Chiesa sia accompagnato da un ritorno alle origini. Non per un mero desiderio di ripristino, ma per una ricerca di autenticità. La Chiesa si sveglia e rinnova quando torna a interrogarsi su ciò che l’ha fatta nascere, su ciò che la definisce in profondità. L’archeologia cristiana può offrire un grande contributo in questo senso. Essa ci aiuta a distinguere l’essenziale dal secondario, il nucleo originario dalle incrostazioni della storia.
Ma attenzione: non si tratta di un’operazione che riduce la vita ecclesiale a un culto del passato. La vera archeologia cristiana non è conservazione sterile, ma memoria viva. È capacità di far parlare il passato al presente. È sapienza nel discernere ciò che lo Spirito Santo ha suscitato nella storia. È fedeltà creativa, non imitazione meccanica. Per questo motivo, l’archeologia cristiana può offrire un linguaggio comune, una base condivisa, una memoria riconciliata. Può aiutare a riconoscere la pluralità delle esperienze ecclesiali, la varietà delle forme, l’unità nella diversità. E può diventare luogo di ascolto, spazio di dialogo, strumento di discernimento.
Il valore della comunione accademica
Quando, nel 1925, Pio XI volle istituire il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, lo fece nonostante le difficoltà economiche e il clima incerto del dopoguerra. Lo fece con coraggio, con lungimiranza, con fiducia nella scienza e nella fede. Oggi, a cento anni di distanza, quel gesto ci interpella. Ci chiede se siamo capaci, anche noi, di credere nella forza dello studio, della formazione, della memoria; ci chiede se siamo disposti a investire nella cultura nonostante la crisi, a promuovere la conoscenza nonostante l’indifferenza, a difendere la bellezza anche quando essa sembra marginale. Essere fedeli allo spirito dei fondatori significa non accontentarsi del già fatto, ma rilanciare. Significa formare persone capaci di pensare, di interrogare, di discernere, di narrare. Significa non chiudersi in un sapere elitario, ma condividere, divulgare, coinvolgere.
In questo centenario, desidero anche ribadire l’importanza della comunione tra le diverse istituzioni che si occupano di archeologia. La Pontificia Accademia Romana di Archeologia, la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, la Pontificia Accademia Cultorum Martyrum, il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana: ciascuna con la propria specificità, tutte condividono una medesima missione. È necessario che esse collaborino, si parlino, si sostengano. Che stabiliscano sinergie, elaborino progetti comuni, promuovano reti internazionali.
L’archeologia cristiana non è una riserva per pochi, ma una risorsa per tutti. Essa può offrire un contributo originale alla conoscenza dell’umanità, al rispetto della diversità, alla promozione della cultura.
Anche il rapporto con l’Oriente cristiano può trovare, nell’archeologia, un terreno fecondo. Le catacombe comuni, le chiese condivise, le pratiche liturgiche analoghe, i martirologi convergenti: tutto questo costituisce un patrimonio spirituale e culturale da valorizzare insieme.
Educare alla memoria, custodire la speranza
Viviamo in un mondo che tende a dimenticare, che corre veloce, che consuma immagini e parole senza sedimentare senso. La Chiesa, invece, è chiamata a educare alla memoria, e l’archeologia cristiana è uno dei suoi strumenti più nobili per farlo. Non per rifugiarsi nel passato, ma per abitare il presente con coscienza, per costruire il futuro con radici.
Chi conosce la propria storia, sa chi è. Sa dove andare. Sa di chi è figlio e a quale speranza è chiamato. I cristiani non sono orfani: hanno una genealogia di fede, una tradizione viva, una comunione di testimoni. L’archeologia cristiana rende visibile questa genealogia, ne custodisce i segni, li interpreta, li racconta, li trasmette. In questo senso, essa è anche ministero di speranza. Perché mostra che la fede ha già attraversato epoche difficili. Ha resistito alle persecuzioni, alle crisi, ai cambiamenti. Ha saputo rinnovarsi, reinventarsi, radicarsi in nuovi popoli, fiorire in nuove forme. Chi studia le origini cristiane, vede che il Vangelo ha sempre avuto una forza generativa, che la Chiesa è sempre rinata, che la speranza non è mai venuta meno.
***
Mi rivolgo ai Vescovi e ai responsabili di cultura e di educazione: incoraggiate i giovani, laici e sacerdoti, a studiare l’archeologia, che offre tante prospettive formative e professionali all’interno delle istituzioni ecclesiastiche e civili, nel mondo accademico e sociale, nei campi della cultura e della conservazione.
Infine, la mia parola va a voi, fratelli e sorelle, studiosi, docenti, studenti, ricercatori, operatori dei beni culturali, responsabili ecclesiastici e laici: il vostro lavoro è prezioso. Non lasciatevi scoraggiare dalle difficoltà. L’archeologia cristiana è un servizio, è una vocazione, è una forma di amore per la Chiesa e per l’umanità. Continuate a scavare, a studiare, a insegnare, a raccontare. Siate instancabili nel cercare, rigorosi nell’analizzare, appassionati nel trasmettere. E soprattutto siate fedeli al senso profondo del vostro impegno: rendere visibile il Verbo della vita, testimoniare che Dio ha preso carne, che la salvezza ha lasciato impronte, che il Mistero si è fatto narrazione storica.
Vi accompagni tutti la benedizione del Signore. Vi sostenga la comunione della Chiesa. Vi ispiri la luce dello Spirito Santo, che è memoria viva e creatività inesauribile. E vi custodisca la Vergine Maria, che ha saputo meditare ogni cosa nel suo cuore, unendo passato e futuro nello sguardo della fede.
Dal Vaticano, 11 dicembre 2025
LEONE PP. XIV
________________
[1] Francesco, Lettera sul rinnovamento dello studio della Storia della Chiesa (21 novembre 2024): AAS 116 (2024), 1590.
[2] Regolamento per il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana (11 dicembre 1925), art. 1: Rivista di Archeologia Cristiana della Pontificia Commissione di archeologia sacra, 3 (1926), 21.
[3] Pio XI, Lett. enc. Lux Veritatis (25 dicembre 1931), Proemio: AAS 23 (1931), 493.
[4] Cfr P. Saint-Roch, Discours inaugural: a cura di N. Cambi - E. Marin, Acta XIII Congressus Internationalis Archaeologiae Christianae, I, Città del Vaticano 1998, 66-67.
[5] Francesco, Lettera al Cardinale Gianfranco Ravasi in occasione della XXV Seduta pubblica delle Pontificie Accademie (1° febbraio 2022): AAS 114 (2022), 211.
[6] Ad esempio, nel Credo abbiamo il riferimento a Ponzio Pilato, un personaggio storico, che permette di datare gli eventi ricordati.
[7] Congrezione per l’Educazione Cattolica, Norme applicative per la fedele esecuzione della Cost. ap. Veritatis gaudium (27 dicembre 2017), art. 55, 1º b: AAS 110 (2018), 149.
[8] Francesco, Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra (17 maggio 2024): AAS 116 (2024), 697-698.
[01765-IT.01] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua francese
LETTRE APOSTOLIQUE
DU SAINT-PÈRE
LÉON XIV
SUR L’IMPORTANCE DE L’ARCHÉOLOGIE
À L’OCCASION DU CENTENAIRE
DE L’INSTITUT PONTIFICAL D’ARCHÉOLOGIE CHRÉTIENNE
À l’occasion du centenaire de la fondation de l’Institut Pontifical d’Archéologie Chrétienne, je ressens le devoir et la joie de partager quelques réflexions que je considère importantes pour le cheminement de l’Église à notre époque. Je le fais avec un cœur reconnaissant, conscient que la mémoire du passé, éclairée par la foi et purifiée par la charité, nourrit l’espérance.
En 1925, un “Jubilé de la paix” avait été proclamé dans le but d’apaiser les atroces blessures de la Première Guerre mondiale ; et il est significatif que le centenaire de l’Institut coïncide avec un nouveau Jubilé, qui, aujourd’hui encore, veut offrir des perspectives d’espérance à une humanité tourmentée par de nombreuses guerres.
Notre époque, marquée par des changements rapides, des crises humanitaires et des transitions culturelles, exige non seulement le recours à des connaissances anciennes et nouvelles, mais aussi la recherche d’une sagesse profonde capable de préserver et de transmettre pour l’avenir ce qui est vraiment essentiel. C’est dans cette perspective que je tiens à réaffirmer avec force que l’archéologie est une composante indispensable de l’interprétation du christianisme et donc de la formation catéchétique et théologique. Elle n’est pas seulement une discipline spécialisée réservée à quelques experts, mais une voie accessible à tous ceux qui souhaitent comprendre l’incarnation de la foi dans le temps, dans les lieux et dans les cultures. Pour nous, chrétiens, l’histoire est un fondement crucial : nous accomplissons en effet notre pèlerinage de la vie dans la réalité concrète de l’histoire qui est aussi le cadre dans lequel se déploie le mystère du salut. Chaque chrétien est appelé à fonder son existence sur une Bonne Nouvelle qui part de l’Incarnation historique du Verbe de Dieu (cf. J 1, 14).
Comme nous l’a rappelé notre bien-aimé Pape François, « Personne ne peut vraiment savoir qui il est et ce qu’il entend être demain sans nourrir le lien qui l’unit aux générations qui l’ont précédé. Et ce, non seulement au niveau de l’histoire de l’individu, mais aussi au niveau plus large des communautés. En effet, étudier et raconter l’histoire aide à maintenir allumée la flamme de la conscience collective, faute de quoi il ne reste que la mémoire personnelle de faits liés à l’intérêt personnel ou à ses émotions, sans lien réel avec la communauté humaine et ecclésiale dans laquelle nous vivons ».[1]
La Maison de l’archéologie
Avec le Motu Proprio “I primitivi cemeteri” (Les premiers cimetières) du 11 décembre 1925, le Pape Pie XI consacrait un projet ambitieux et visionnaire : la fondation d’un Institut de formation supérieure, c’est-à-dire doctorale, qui, en coordination avec la Commission d’Archéologie Sacrée et l’Académie Pontificale Romaine d’Archéologie, aurait pour mission d’orienter, avec la plus grande rigueur scientifique, les études sur les monuments du christianisme antique afin de reconstituer la vie des premières communautés, formant ainsi « des Professeurs d’archéologie chrétienne pour les universités et les séminaires, des directeurs de fouilles archéologiques, des conservateurs de monuments sacrés, de musées, etc. ».[2] Selon la vision de Pie XI, l’archéologie est indispensable à la reconstruction exacte de l’histoire qui, en tant que « lumière de vérité et témoin des temps, si elle est correctement consultée et diligemment examinée »,[3] montre aux peuples la fécondité des racines chrétiennes et les fruits pour le bien commun qui peuvent en découler, accréditant ainsi également l’œuvre d’évangélisation.
Au cours de toutes ces années, l’Institut Pontifical d’Archéologie Chrétienne a formé des centaines d’archéologues du christianisme antique provenant, comme les professeurs eux-mêmes, de toutes les parties du monde, qui, de retour dans leur pays, ont occupé d’importantes fonctions d’enseignement ou de conservation. Il a promu la recherche, à Rome et dans tout le monde chrétien. Il a joué un rôle international efficace dans la promotion de l’archéologie chrétienne, tant par l’organisation de congrès cycliques et de nombreuses autres initiatives scientifiques, que par des relations étroites et des échanges constants avec des universités et des centres d’études du monde entier.
À certains moments, l’Institut a su promouvoir la paix et le dialogue religieux, en organisant par exemple le XIIIe Congrès international à Split pendant la guerre en ex-Yougoslavie – un choix difficile et controversé dans le milieu universitaire – [4] ou en confirmant son opérationnalité par des missions à l’étranger dans des pays politiquement instables. Il n’a jamais dérogé à ses objectifs de formation supérieure, privilégiant le contact direct avec les sources écrites et les monuments, traces visibles et incontestables des premières communautés chrétiennes, à travers des visites, notamment des catacombes et des églises de Rome, et des voyages d’étude annuels dans les zones géographiques concernées par la diffusion du christianisme.
Lorsque les exigences pédagogiques et les sollicitations extérieures l’ont exigé, notamment ces dernières années avec le processus de Bologne, signé par le Saint-Siège, pour l’élaboration d’un système d’enseignement supérieur cohérent en Europe, l’Institut a mis à jour les disciplines et les parcours de formation, sans jamais s’écarter des objectifs et de l’esprit de ses fondateurs. Il a continué à suivre les traces des pionniers de l’archéologie chrétienne, en particulier Giovanni Battista de Rossi, « chercheur infatigable, qui jeta les bases d’une discipline scientifique ».[5] C’est à lui que l’on doit, dans la seconde moitié du XIXe siècle, la découverte de la plupart des cimetières chrétiens hors des murs de Rome, ainsi que l’étude des sanctuaires des martyrs des persécutions – notamment celles de Dèce, Valérien et Dioclétien – et de leur évolution à partir de l’époque de Constantin qui ont attiré un pèlerinage de plus en plus florissant jusqu’au haut Moyen Âge.
Cela a permis de rendre service à l’Église qui a pu compter sur l’Institut comme promoteur des connaissances sur les témoignages matériels du christianisme des origines, et sur les martyrs qui représentent encore aujourd’hui des exemples d’une foi brillante et courageuse. Le service rendu par l’Institut a également été concret puisqu’il est intervenu dans les fouilles – entreprises par la Fabrique de Saint-Pierre – de la tombe de l’Apôtre Pierre sous l’autel de la Confession de la basilique du Vatican et, plus récemment, dans les recherches menées par les Musées du Vatican à Saint-Paul-hors-les-Murs.
L’archéologie comme école d’incarnation
Aujourd’hui, nous sommes appelés à nous demander : à l’ère de l’intelligence artificielle et des recherches dans les galaxies infinies de l’univers, quel peut encore être le rôle fructueux de l’archéologie chrétienne pour la société et pour l’Église ?
Le christianisme n’est pas né d’une idée, mais d’une chair ; ni d’un concept abstrait, mais d’un sein, d’un corps, d’un tombeau. La foi chrétienne, dans son cœur le plus authentique, est historique : elle se fonde sur des événements concrets, sur des visages, sur des gestes, sur des paroles prononcées dans une langue, à une époque, dans un environnement.[6] C’est ce que l’archéologie rend évident, palpable. Elle nous rappelle que Dieu a choisi de parler dans un langage humain, de marcher sur une terre, d’habiter des lieux, des maisons, des synagogues, des rues.
On ne peut pas comprendre pleinement la théologie chrétienne sans comprendre les lieux et les traces matérielles qui témoignent de la foi des premiers siècles. Ce n’est pas un hasard si l’évangéliste Jean ouvre sa première Lettre par une sorte de déclaration sensorielle : « Ce que nous avons entendu, ce que nous avons vu de nos yeux, ce que nous avons contemplé et que nos mains ont touché du Verbe de vie » (1 Jn 1, 1). L’archéologie chrétienne est, en quelque sorte, une réponse fidèle à ces paroles. Elle cherche à toucher, à voir, à écouter le Verbe qui s’est fait chair. Non pas pour s’arrêter à ce qui est visible, mais pour se laisser conduire au Mystère qui s’y cache.
L’archéologie, en s’occupant des vestiges matériels de la foi, éduque à une théologie des sens : une théologie qui sait voir, toucher, sentir, écouter. L’archéologie chrétienne éduque à cette sensibilité. En fouillant parmi les pierres, les ruines, les objets, elle nous enseigne que rien de ce qui a été touché par la foi n’est insignifiant. Même un fragment de mosaïque, une inscription oubliée, un graffiti sur un mur de catacombe peuvent raconter la biographie de la foi. En ce sens, l’archéologie est aussi une école d’humilité : elle nous enseigne à ne pas mépriser ce qui est petit, ce qui est apparemment secondaire. Elle nous apprend à lire les signes, à interpréter le silence et l’énigme des choses, à deviner ce qui n’est plus écrit. C’est une science du seuil, qui se situe entre l’histoire et la foi, entre la matière et l’Esprit, entre l’ancien et l’éternel.
Nous vivons à une époque où l’usage et la consommation ont pris le dessus sur la conservation et le respect. L’archéologie, en revanche, nous enseigne que même le plus petit témoignage mérite notre attention, que chaque trace a une valeur, que rien ne peut être rejeté. En ce sens, elle est une école de durabilité culturelle et d’écologie spirituelle. C’est une éducation au respect de la matière, de la mémoire, de l’histoire. L’archéologue ne jette pas, mais conserve. Il ne consomme pas, mais contemple. Il ne détruit pas, mais déchiffre. Son regard est patient, précis, respectueux. C’est un regard qui sait saisir dans un morceau de céramique, dans une pièce de monnaie corrodée, dans une gravure usée, le souffle d’une époque, le sens d’une foi, le silence d’une prière. C’est un regard qui peut aussi enseigner beaucoup à la pastorale et à la catéchèse d’aujourd’hui.
D’autre part, les outils technologiques les plus modernes permettent d’obtenir de nouvelles informations à partir de découvertes autrefois considérées comme insignifiantes. Cela nous rappelle que rien n’est vraiment inutile ou perdu. Même ce qui semble marginal peut, à la lumière de nouvelles questions et de nouvelles méthodes, restituer des significations profondes. En cela, l’archéologie est aussi une école d’espérance.
Dans la Constitution apostolique Veritatis gaudium, il est affirmé que l’archéologie, tout comme l’histoire de l’Église et la patrologie, doit faire partie des disciplines fondamentales de la formation théologique.[7] Il ne s’agit donc pas d’un ajout accessoire mais d’un principe pédagogique profond : ceux qui étudient la théologie doivent savoir d’où vient l’Église, comment elle a vécu, quelles formes la foi a prises au fil des siècles. L’archéologie ne nous parle pas seulement d’objets mais aussi de personnes : leurs maisons, leurs tombes, leurs églises, leurs prières. Elle nous parle de la vie quotidienne des premiers chrétiens, des lieux de culte, des formes de l’annonce. Elle nous parle de la manière dont la foi a façonné les espaces, les villes, les paysages, les mentalités. Elle nous aide à comprendre comment la révélation s’est incarnée dans l’histoire, comment l’Évangile a trouvé des mots et des formes au sein des cultures. Une théologie qui ignore l’archéologie risque de devenir désincarnée, abstraite, idéologique. En revanche, une théologie qui accueille l’archéologie comme une alliée est une théologie qui écoute le corps de l’Église, qui interroge ses blessures, qui lit ses signes, qui se laisse toucher par son histoire.
La profession d’archéologue est, en grande partie, une profession “tactile”. Les archéologues sont les premiers, après des siècles, à toucher une matière enfouie qui conserve l’énergie du temps. Mais la tâche de l’archéologue chrétien ne s’arrête pas à la matière, elle va au-delà, jusqu’à l’humain. Il étudie non seulement les vestiges, mais aussi les mains qui les ont forgés, les esprits qui les ont conçus, les cœurs qui les ont aimés. Derrière chaque objet, il y a une personne, une âme, une communauté. Derrière chaque ruine, un rêve de foi, une liturgie, une relation. L’archéologie chrétienne est donc aussi une forme de charité : elle est une manière de faire parler les silences de l’histoire, de redonner leur dignité à ceux qui ont été oubliés, de mettre en lumière la sainteté anonyme de tant de fidèles qui ont fait l’Église.
Une mémoire pour évangéliser
Depuis les origines du christianisme, la mémoire a joué un rôle fondamental dans l’évangélisation. Il ne s’agit pas d’un simple souvenir, mais d’une réactualisation vivante du salut. Les premières communautés chrétiennes conservaient, outre les paroles de Jésus, les lieux, les objets et les signes de sa présence. Le tombeau vide, la maison de Pierre à Capharnaüm, les tombes des martyrs, les catacombes romaines : tout concourait à témoigner que Dieu était véritablement entré dans l’histoire et que la foi n’était pas une philosophie, mais un chemin concret dans la chair du monde.
Le Pape François a écrit que, dans les catacombes, « on trouve les nombreux signes du pèlerinage chrétien des origines : je pense, par exemple, aux graffitis très importants de la triclia des catacombes de Saint-Sébastien, la Memoria Apostolorum, où l’on vénérait ensemble les reliques des apôtres Pierre et Paul. Nous découvrons ensuite, dans ces galeries, les symboles et les représentations chrétiennes les plus anciens, qui témoignent de l’espérance chrétienne. Dans les catacombes, tout parle d’espérance, tout : on y parle de la vie après la mort, de la libération des dangers et de la mort elle-même par l’œuvre de Dieu qui, dans le Christ, le Bon Pasteur, nous appelle à participer à la béatitude du Paradis, évoquée par des représentations de plantes luxuriantes, de fleurs, de prairies verdoyantes, de paons et de colombes, de brebis au pâturage... Tout parle d’espérance et de vie ! ».[8]
C’est encore aujourd’hui la tâche de l’archéologie chrétienne : aider l’Église à se souvenir de ses origines, à conserver la mémoire vivante de ses débuts, à raconter l’histoire du salut non seulement avec des mots, mais aussi avec des images, des formes, des espaces. À une époque où l’on perd souvent ses racines, l’archéologie devient ainsi un instrument précieux d’évangélisation qui part de la vérité de l’histoire pour ouvrir à l’espérance chrétienne et à la nouveauté de l’Esprit.
L’archéologie chrétienne nous montre comment l’Évangile a été accueilli, interprété, célébré dans différents contextes culturels ; elle nous montre comment la foi a façonné la vie quotidienne, la ville, l’art, le temps. Elle nous invite à poursuivre ce processus d’inculturation, afin que l’Évangile puisse encore aujourd’hui trouver sa place dans les cœurs et les cultures du monde contemporain. En ce sens, elle ne se contente pas de regarder vers le passé : elle s’adresse au présent et oriente vers l’avenir. Elle s’adresse aux croyants qui redécouvrent les racines de leur foi, mais elle s’adresse aussi à ceux qui sont éloignés, aux non-croyants, à ceux qui s’interrogent sur le sens de la vie et trouvent, dans le silence des tombes et la beauté des basiliques paléochrétiennes, un écho d’éternité. Elle parle aux jeunes qui recherchent souvent l’authenticité et le concret ; elle parle aux chercheurs qui voient dans la foi non pas une abstraction mais une réalité historiquement documentée ; elle parle aux pèlerins qui retrouvent dans les catacombes et les sanctuaires le sens du cheminement et l’invitation à la prière pour l’Église.
À une époque où l’Église est appelée à s’ouvrir aux périphéries – géographiques et existentielles –, l’archéologie peut être un puissant instrument de dialogue. Elle peut contribuer à créer des ponts entre des mondes éloignés, entre des cultures différentes, entre les générations. Elle peut témoigner que la foi chrétienne n’a jamais été une réalité fermée, mais une force dynamique, capable de pénétrer dans les tissus les plus profonds de l’histoire humaine.
Savoir voir au-delà : l’Église entre temps et éternité
La grandeur de la mission archéologique se mesure également à sa capacité à situer l’Église dans la tension entre le temps et l’éternité. Chaque découverte, chaque fragment mis au jour nous dit que le christianisme n’est pas une idée suspendue, mais un corps qui a vécu, qui a célébré, qui a habité l’espace et le temps. La foi n’est pas en dehors du monde, mais dans le monde. Elle n’est pas contre l’histoire, mais dans l’histoire.
Pourtant, l’archéologie ne se limite pas à décrire la matérialité des choses. Elle nous conduit au-delà : elle nous fait entrevoir la force d’une existence qui transcende les siècles, qui ne s’épuise pas dans la matière, mais la dépasse. Ainsi, par exemple, dans la lecture des sépultures chrétiennes, nous voyons l’attente de la résurrection au-delà de la mort ; dans la disposition des absides, nous percevons, au-delà d’un calcul architectural, l’orientation vers le Christ ; dans les traces du culte, nous reconnaissons, au-delà d’un rituel, l’aspiration au Mystère.
Dans une perspective plus systématique, on peut affirmer que l’archéologie a aussi une importance spécifique en théologie de la Révélation. Dieu a parlé dans le temps, à travers des événements et des personnes. Il a parlé dans l’histoire d’Israël, dans l’histoire de Jésus, dans le cheminement de l’Église. La Révélation est donc toujours historique. Mais si tel est le cas, alors la compréhension de la Révélation ne peut faire abstraction d’une connaissance adéquate des contextes historiques, culturels et matériels dans lesquels elle s’est réalisée. L’archéologie chrétienne contribue à cette connaissance. Elle éclaire les textes par des témoignages matériels. Elle interroge les sources écrites, les complète, les problématise. Dans certains cas, elle confirme l’authenticité des traditions ; dans d’autres, elle les replace dans leur juste contexte ; dans d’autres encore, elle soulève de nouvelles questions. Tout cela est théologiquement pertinent. Car une théologie qui se veut fidèle à la Révélation doit rester ouverte à la complexité de l’histoire.
L’archéologie montre en outre comment le christianisme s’est progressivement articulé dans le temps, en affrontant des défis, des conflits, des crises, des moments de splendeur et d’obscurité. Cela aide la théologie à abandonner les visions idéalisées ou linéaires du passé et à entrer dans la vérité du réel : une vérité faite de grandeur et de limites, de sainteté et de fragilité, de continuité et de ruptures. Et c’est précisément dans cette histoire réelle, concrète, souvent contradictoire, que Dieu a voulu se manifester.
Ce n’est pas un hasard, enfin, si chaque approfondissement du mystère de l’Église s’accompagne d’un retour aux origines. Non pas par un simple désir de restauration, mais par une recherche d’authenticité. L’Église se réveille et se renouvelle lorsqu’elle revient s’interroger sur ce qui l’a fait naître, sur ce qui la définit en profondeur. L’archéologie chrétienne peut apporter une grande contribution en ce sens. Elle nous aide à distinguer l’essentiel du secondaire, le noyau originel des incrustations de l’histoire.
Mais attention : il ne s’agit pas d’une opération qui réduirait la vie ecclésiale à un culte du passé. La véritable archéologie chrétienne n’est pas une conservation stérile, mais une mémoire vivante. Elle est une capacité à faire parler le passé. Elle est une sagesse dans le discernement de ce que le Saint-Esprit a suscité dans l’histoire. Elle est une fidélité créative, non une imitation mécanique. C’est pourquoi l’archéologie chrétienne peut offrir un langage commun, une base partagée, une mémoire réconciliée. Elle peut aider à reconnaître la pluralité des expériences ecclésiales, la variété des formes, l’unité dans la diversité. Elle peut devenir un lieu d’écoute, un espace de dialogue, un instrument de discernement.
La valeur de la communion académique
En 1925, lorsque Pie XI voulut fonder l’Institut Pontifical d’Archéologie Chrétienne, il le fit malgré les difficultés économiques et le climat incertain de l’après-guerre. Il le fit avec courage, avec clairvoyance, avec confiance dans la science et dans la foi. Aujourd’hui, cent ans plus tard, ce geste nous interpelle. Il nous demande si nous sommes, nous aussi, capables de croire en la force de l’étude, de la formation, de la mémoire ; il nous demande si nous sommes prêts à investir dans la culture malgré la crise, à promouvoir la connaissance malgré l’indifférence, à défendre la beauté même lorsqu’elle semble marginale. Être fidèle à l’esprit des fondateurs ce n’est pas se contenter de ce qui a déjà été fait, mais relancer. C’est former des personnes capables de penser, d’interroger, de discerner, de raconter. Ce n’est pas se fermer dans un savoir élitiste, mais partager, diffuser, impliquer.
En ce centenaire, je tiens également à réaffirmer l’importance de la communion entre les différentes institutions qui s’occupent d’archéologie. L’Académie Pontificale Romaine d’Archéologie, la Commission Pontificale d’Archéologie Sacrée, l’Académie Pontificale Cultorum Martyrum, l’Institut Pontifical d’Archéologie Chrétienne. Chacune a sa spécificité, mais toutes partagent la même mission. Il est nécessaire qu’elles collaborent, qu’elles communiquent, qu’elles se soutiennent, qu’elles établissent des synergies, qu’elles élaborent des projets communs, qu’elles promeuvent des réseaux internationaux.
L’archéologie chrétienne n’est pas réservée à quelques-uns mais elle est une ressource pour tous. Elle peut apporter une contribution originale à la connaissance de l’humanité, au respect de la diversité, à la promotion de la culture.
Même les relations avec l’Orient chrétie peuvent trouver un terrain fertile dans l’archéologie. Les catacombes communes, les églises partagées, les pratiques liturgiques similaires, les martyrologes convergents : tout cela constitue un patrimoine spirituel et culturel qu’il convient de valoriser ensemble.
Éduquer à la mémoire, préserver l’espérance
Nous vivons dans un monde qui tend à oublier, qui va vite, qui consomme des images et des mots sans en retenir le sens. L’Église, en revanche, est appelée à éduquer à la mémoire, et l’archéologie chrétienne est l’un de ses instruments les plus nobles pour le faire. Non pas pour se réfugier dans le passé, mais pour habiter le présent en pleine conscience, pour construire l’avenir avec des racines.
Celui qui connaît son histoire sait qui il est. Il sait où aller. Il sait de qui il est le fils et quelle est l’espérance à laquelle il est appelé. Les chrétiens ne sont pas orphelins : ils ont une généalogie dans la foi, une tradition vivante, une communion avec des témoins. L’archéologie chrétienne rend visible cette généalogie, elle en conserve les signes, les interprète, les raconte, les transmet. En ce sens, elle est aussi un ministère d’espérance. Car elle montre que la foi a déjà traversé des époques difficiles. Elle a résisté aux persécutions, aux crises, aux changements. Elle a su se renouveler, se réinventer, s’enraciner dans de nouveaux peuples, s’épanouir sous de nouvelles formes. Ceux qui étudient les origines chrétiennes constatent que l’Évangile a toujours eu une force génératrice, que l’Église est toujours renaissante, que l’espérance n’a jamais failli.
***
Je m’adresse aux évêques et aux responsables de la culture et de l’éducation : encouragez les jeunes, laïcs et prêtres, à étudier l’archéologie qui offre de nombreuses perspectives de formation et de professions au sein des institutions ecclésiastiques et civiles, dans le monde universitaire et social, dans les domaines de la culture et de la conservation.
Enfin, je m’adresse à vous, frères et sœurs, savants, enseignants, étudiants, chercheurs, professionnels du patrimoine culturel, responsables ecclésiastiques et laïcs : votre travail est précieux. Ne vous laissez pas décourager par les difficultés. L’archéologie chrétienne est un service, une vocation, une forme d’amour pour l’Église et pour l’humanité. Continuez à fouiller, à étudier, à enseigner, à raconter. Soyez infatigables dans la recherche, rigoureux dans l’analyse, passionnés dans la transmission. Et surtout, restez fidèles au sens profond de votre engagement : rendre visible le Verbe de vie, témoigner que Dieu s’est fait chair, que le salut a laissé des traces, que le Mystère s’est fait récit historique.
Que la Bénédiction du Seigneur vous accompagne tous. Que la communion de l’Église vous soutienne. Que la lumière du Saint-Esprit, qui est mémoire vivante et créativité inépuisable, vous inspire. Et que la Vierge Marie, qui a su méditer toute chose dans son cœur, unissant le passé et l’avenir dans le regard de la foi, vous garde.
Du Vatican, le 11 décembre 2025
LÉON PP. XIV
_______________________
[1] François, Lettre sur le renouveau de l’étude de l’histoire de l'Église (21 novembre 2024) : AAS 116 (2024), 1590.
[2] Règlement de l’Institut Pontifical d’Archéologie Chrétienne (11 décembre 1925), art. 1: Rivista di Archeologia Cristiana della Pontificia Commissione di archeologia sacra, 3 (1926), 21.
[3] Pie XI, Lett. enc. Lux Veritatis (25 décembre 1931), Préambule : AAS 23 (1931), 493.
[4] P. Saint-Roch, Discours inaugural : sous la direction de N. Cambi - E. Marin, Acta XIII Congressus Internationalis Archaeologiae Christianae, I, Cité du Vatican 1998, 66-67.
[5] François, Lettre du Saint-Père François au Cardinal Gianfranco Ravasi à l’occasion de la XXVe séance publique des Académies pontificales (1er février 2022) : AAS 114 (2022), 211.
[6] Par exemple, dans le Credo, nous avons la référence à Ponce Pilate, un personnage historique qui permet de dater les événements rappelés.
[7] Congrégation pour l’Éducation Catholique, Normes d’application pour l’exécution fidèle de la Const. ap.Veritatis gaudium (27 décembre 2017), art. 55, 1º b : AAS 110 (2018), 149.
[8] François, Discours aux participants à la Session plénière de la Commission Pontificale d’Archéologie Sacrée (17 mai 2024) : AAS 116 (2024), 697-698.
[01765-FR.01] [Texte original: Italien]
Traduzione in lingua inglese
APOSTOLIC LETTER
OF THE HOLY FATHER
POPE LEO XIV
ON THE IMPORTANCE OF ARCHAEOLOGY
ON THE OCCASION OF THE CENTENARY OF
THE PONTIFICAL INSTITUTE OF CHRISTIAN ARCHAEOLOGY
In this centenary year of the establishment of the Pontifical Institute of Christian Archaeology, it is both my responsibility and my pleasure to share some reflections that I consider important for the Church in our present time. I do so with a grateful heart, knowing that when our memory of the past is illuminated by faith and purified by charity, it nourishes hope.
In 1925, the “Jubilee of Peace” was proclaimed with the intention of easing the terrible wounds of the First World War. Significantly, the centenary of the Institute coincides with another Jubilee, which also seeks to offer a new vision of hope to a humanity troubled by numerous wars.
The present age is marked by rapid changes, humanitarian crises and cultural transitions, and requires that we not only draw on ancient and new knowledge, but also search for a profound wisdom capable of preserving and passing on to future generations what is truly essential. In this light, I strongly wish to reaffirm the essential role of archaeology in understanding Christianity and, consequently, its application within catechetical and theological formation. Archaeology is not just a specialized discipline reserved to a few experts, but a path accessible to anyone who wishes to understand how faith is embodied in time, place and culture. For us Christians, history is a vital foundation. Indeed, we journey through life in the concrete realm of history, which is the same setting for the unfolding of the mystery of salvation. All Christians are called to ground their lives in the Good News that begins with the Incarnation of the Word of God within human history (cf. Jn 1:14).
As our beloved Pope Francis once reminded us, “No one can truly know their deepest identity, or what they wish to be in the future, without attending to the bonds that link them to preceding generations. This is true not only of us as individuals, but also as a community. Indeed, the study and writing of history helps to keep ‘the flame of collective conscience’ alive. Otherwise, all that remains is the personal memory of facts bound to our own interests or sensibilities, with no real connection to the human and ecclesial community in which we live.”[1]
The house of Archaeology
On 11 December 1925, Pope Pius XI published the Motu Proprio “I Primitivi Cemeteri,” sanctioning an ambitious and forward-looking project: the foundation of a doctoral-level institute of higher education. In coordination with the Pontifical Commission for Sacred Archaeology and the Pontifical Roman Academy of Archaeology, this Institute was tasked with directing studies on the monuments of ancient Christianity with the utmost scientific rigor. The goal was to reconstruct the lives of the early communities and to train “professors of Christian archaeology for universities and seminaries, directors of archaeological excavations, curators of sacred monuments and museums, etc.”[2] In Pius XI’s vision, archaeology was indispensable for the accurate reconstruction of history. As “the light of truth and the witness of the ages, if rightly discerned and diligently examined,”[3] history reveals the fruitfulness of Christianity and the benefits it has born for the common good, lending credibility to the work of evangelization.
Over the years, the Pontifical Institute of Christian Archaeology has trained hundreds of archaeologists who specialize in ancient Christianity. Like the professors themselves, these archaeologists are from all parts of the world and, upon returning to their countries, they assume important positions in education and preservation. The Institute has also promoted research in Rome and throughout the Christian world. It has played an effective international role in promoting Christian archaeology, both through the organization of periodic conferences and numerous other scientific initiatives, and through maintaining close relations and constant exchanges with universities and study centers around the world.
The Institute has also served to promote peace and religious dialogue at various times, for example, when it organized the 13th International Congress in Split during the war in the former Yugoslavia — a difficult decision that was met with much dissent in academic circles.[4] The Institute has demonstrated its operational capacity through foreign missions in politically unstable countries, while never wavering in its commitment to higher education. It favors direct contact with written sources and monuments, as they are visible and unequivocal traces of the early Christian communities. As a result, it organizes visits to places such as the catacombs and the churches in Rome and annual study trips to geographical areas relevant to the spread of Christianity.
In recent years, the Institute has had to update its study programs and training courses in order to keep pace with teaching requirements and external demands, particularly in light of the Bologna Process. The aim of this agreement was to establish a consistent higher education system across Europe, an objective endorsed by the Holy See. Nonetheless, the Institute has never deviated from the objectives and spirit of its founders. It continues to follow in the footsteps of pioneers of Christian archaeology such as Giovanni Battista de Rossi, “a tireless scholar who laid the foundations of a scientific discipline.”[5] In the second half of the 19th century, he was credited with discovering most of the Christian cemeteries around the walls of Rome. He was also responsible for studying the shrines of the martyrs, particularly those who were persecuted under Decius, Valerian and Diocletian. Starting with the time of Constantine, he later outlined the development of these shrines, which increasingly flourished as pilgrimage sites up to the High Middles Ages.
This was a service to the Church, which has been able to rely on the Institute as a promoter of knowledge regarding the material evidence of early Christianity and the martyrs who, still today, represent examples of a brilliant and courageous faith. The Institute also played an active role in the excavations organized by the Fabric of Saint Peter around the tomb of the Apostle Peter under the Altar of Confession in the Vatican Basilica, and more recently in investigations carried out by the Vatican Museums at Saint Paul Outside the Walls.
Archaeology as a school of Incarnation
Today we are invited to ask ourselves how fruitful can the role of Christian archaeology still be for society and the Church in an age marked by artificial intelligence and by the exploration of the innumerable galaxies of the universe.
Christianity was not born from an idea, but through flesh. It was not born from an abstract concept, but through a womb, a body and a tomb. At its most authentic core, the Christian faith is historical, grounded in specific events, faces, gestures and words spoken in a particular language, era and environment.[6] This is what archaeology uncovers and makes tangible. It reminds us that God chose to speak in a human language, to walk the earth and to inhabit places, houses, synagogues and streets.
Christian theology cannot be fully understood without understanding the places and material evidence that bear witness to the faith of the early centuries. It is no coincidence that the evangelist John opens his First Letter with a kind of sensory declaration: “What we have heard, what we have seen with our eyes, what we have looked at and touched with our hands, concerning the word of life” (1:1). In a sense, Christian archaeology is a faithful response to these words. It seeks to touch, see and hear the Word made flesh. This is done not to remain focused on what is visible, but to allow oneself to be led to the Mystery that lies hidden within.
By concentrating on the physical traces of faith, archeology educates us in a theology of the senses: a theology that knows how to see, touch, smell and listen. Christian archeology is a school of the senses. By examining stones, ruins and other artifacts, it teaches us that nothing touched by faith is insignificant. Even a fragment of a mosaic, a forgotten inscription, or graffiti on a catacomb wall can recount the story of faith. In this sense, archaeology is also a school of humility. It teaches us not to despise what is small or seemingly secondary. It teaches us to read the signs, to interpret the silence and the enigma of reality, and to decipher what is no longer written. Christian archaeology is a science that lies at the threshold between history and faith, matter and Spirit, the ancient and the eternal.
We live in an age in which misuse and overconsumption have taken precedence over preservation and respect. Archaeology, on the other hand, teaches us that even the smallest piece of evidence deserves attention, that every detail has value and that nothing can be discarded. In this sense, archaeology is a school of cultural sustainability and spiritual ecology. It teaches us to respect matter, memory and history. Archaeologists do not throw things away, they preserve them. They do not consume, but contemplate. They do not destroy, but decipher. Their gaze is patient, precise and respectful. It is a gaze that can identify the spirit of an era, the meaning of faith and the silence of prayer on a piece of pottery, a corroded coin or a faded engraving. It is a gaze that can teach us a great deal about pastoral care and catechesis today.
At the same time, modern technological tools enable us to glean new information from findings once considered insignificant. This shows us that nothing is truly useless or lost. Even that which appears marginal can reveal profound meaning in the light of new questions and methods. In this respect, archaeology is also a school of hope.
The Apostolic Constitution Veritatis Gaudium states that archaeology, along with church history and patrology, should be numbered among the fundamental disciplines of theological formation.[7] This is not an incidental addition, but a profound pedagogical principle: those who study theology must understand the origins of the Church, how Christians have lived, and the various forms that faith has taken over the centuries. Archaeology does not merely tell us about artifacts, but about people: their homes, tombs, churches and prayers. It brings to light the daily life of the early Christians, their places of worship and the ways they proclaimed the faith. It shows us how the faith shaped their spaces, cities, landscapes and mentalities. Moreover, it helps us understand how Revelation became incarnated in history, how the Gospel came to be expressed and formulated within cultures. Theological studies that disregard archaeology run the risk of becoming disembodied, abstract or even ideological. On the contrary, when it embraces archaeology, theology listens to the body of the Church, assesses its wounds, reads its signs and is touched by its history.
Archaeology is largely a “hands-on” profession. Archaeologists are the first to handle buried material that conserves its vitality even after centuries. The task of Christian archaeologists, however, is not limited to material things but extends to what is truly human. They study not only the artifacts, but also the hands that forged them, the minds that conceived them and the hearts that loved them. Behind every object there is a person, a soul and a community. Behind the ruins, there is a vision of faith, a liturgy and a relationship. In a sense, Christian archaeology is also a form of charity because it gives a voice to the silence of history, restoring dignity to the forgotten and bringing to light the anonymous holiness of many faithful who have contributed to building up the Church.
A memory that evangelizes
Since the beginning of Christianity, memory has played a fundamental role in evangelization. Memory is more than a simple recollection; it is a living actualization of salvation. Christian communities safeguarded not only Jesus’ words, but also the places, objects and signs of his presence. The empty tomb, Peter’s house in Capernaum, the tombs of the martyrs and the Roman catacombs all testify that God has truly entered history, and that faith is not a mere philosophy, but a tangible path within the reality of the world.
Pope Francis wrote that the catacombs “reveal many signs of the early Christian pilgrimage. A prime example are the important graffiti of the so-called triclia of the Catacombs of Saint Sebastian, known as the Memoria Apostolorum, where the relics of the Apostles Peter and Paul were venerated together. On these pathways, we discover the oldest Christian symbols and depictions, which bear witness to Christian hope. Everything in the catacombs speaks of hope: of life beyond death, of liberation from danger and even from death itself through God’s work. In Christ, the Good Shepherd, God calls us to share in the bliss of Paradise, evoked by images of lush plants, flowers, verdant meadows, peacocks, doves and grazing sheep... Everything speaks of hope and life!”[8]
It is still the mission of Christian archaeology to help the Church remember its origins, preserve the memory of its beginnings and recount the history of salvation not only through words, but also through images, forms and spaces. In an era when culture often loses sight of its roots, archaeology becomes a valuable instrument for an evangelization that builds on historical truth to inspire Christian hope in the newness of the Spirit.
Christian archaeology reveals how the Gospel has been received, interpreted and celebrated in different cultural contexts, demonstrating at the same time how faith has shaped daily life, cities, art and historical periods. It also invites us to continue the process of inculturation so that the Gospel can find a place in the hearts and cultures of the contemporary world. In this sense, Christian archaeology does not simply look towards the past; it also speaks to the present day and points towards the future. It speaks to believers, helping them rediscover the roots of their faith. It also speaks to those who are distant, to non-believers and to those who question the meaning of life, because they find an echo of eternity in the silence of the tombs and in the beauty of the early Christian basilicas. Moreover, archaeology speaks to young people, who often seek authenticity and significance; to scholars, who view faith as a historically documented reality rather than an abstraction; to pilgrims, who find in the catacombs and shrines a sense of purpose and an invitation to pray for the Church.
At a time when the Church is called to be open to the geographical and existential peripheries, archaeology can be a powerful tool for dialogue, helping to build bridges between distant worlds, cultures and generations. It can bear witness to the fact that the Christian faith has never been a static reality, but is a dynamic force, capable of permeating the deepest layers of human history.
Knowing how to see beyond: the Church between time and eternity
The significance of archeology’s mission is also measured by its ability to situate the Church within the tension between time and eternity. Each discovery and each artifact brought to light bears witness that Christianity is not an abstract concept, but rather a body that has lived, celebrated and inhabited space and time. Faith is not separate from the world, but rather a part of it. It is not against history, but embedded within it.
However, archaeology is not limited to describing the materiality of things. It takes us further, allowing us to glimpse the power of an existence that transcends time and surpasses matter. When studying Christian burials, for instance, we can see beyond death and grasp the expectation of the resurrection. As we observe the structure of apses, we can transcend architectural calculations by recognizing their orientation towards Christ. In investigating the evidence of worship, we can rise above the rituals to perceive in them the yearning for Mystery.
From a systematic perspective, it is possible to affirm that archaeology is particularly relevant for the theology of Revelation. God has in time spoken through events and people. He has spoken in the history of Israel, in the life of Jesus and in the journey of the Church. Indeed, Revelation is always history. If this is so, then understanding Revelation requires an adequate knowledge of the historical, cultural and material contexts in which it took place. Christian archaeology contributes to this knowledge. It illuminates the texts with material evidence. It examines, completes and scrutinizes written sources. In some cases, it confirms the authenticity of traditions. Other times, it places them in their proper context, or even raises new questions. All of this is theologically relevant. If theology is to be faithful to Revelation, it must remain open to the complexity of history.
Archaeology also illustrates how Christianity has progressively developed over time in the face of new challenges, conflicts and crises, in moments of darkness as well as of splendor. These insights help theology to lay aside idealized or linear visions of the past and thus enter into the truth of reality, which entails both greatness and limitation, holiness and fragility, continuity and rupture. It is precisely in this real, palpable history — often riddled with contradictions — that God chose to make himself known.
Ultimately, it is no coincidence that a deeper understanding of the mystery of the Church goes hand in hand with a return to its origins. This is prompted not by a mere desire for restoration, but by the search for authenticity. The Church awakens and renews itself by studying how it was born and what most deeply defines it. In this regard, Christian archaeology can provide a significant contribution by helping to distinguish what is essential from what is secondary, the original core from the later additions of history.
However, it is important to bear in mind that this is not about reducing ecclesial life to a cult of the past. True Christian archaeology is not a matter of sterile conservation, but of living memory. It is the ability to make the past speak to the present, and the wisdom of being able to recognize the role of the Holy Spirit in guiding history. In this sense, Christian archaeology can offer a common language, a shared foundation and a reconciled memory. It can help us recognize the multiplicity of ecclesial experiences, the variety of forms and the unity that exists within diversity. It is also capable of becoming a place of listening, a space for dialogue and an instrument of discernment.
The value of academic communion
In 1925, Pius XI established the Pontifical Institute of Christian Archaeology notwithstanding the economic difficulties and the reigning uncertainty of the post-war period. He acted with courage and foresight, confident in both science and faith. Today, a century later, his resolution is a cause for reflection. Do we too believe in the power of study, formation and memory? Are we willing to invest in culture despite today’s crises, to promote knowledge despite indifference and to defend beauty even when it seems irrelevant? Fidelity to the spirit of the founders means renewing efforts, rather than becoming complacent about what has already been achieved. It means training people who are capable of thinking, questioning, discerning and narrating. It means sharing, communicating and involving others, rather than confining oneself to elitist knowledge.
On this centenary, I would also like to reaffirm the importance of communion among the various institutions dedicated to archaeology. The Pontifical Roman Academy of Archaeology, the Pontifical Commission for Sacred Archaeology, the Pontifical Academy Cultorum Martyrum and the Pontifical Institute of Christian Archaeology each have their own specific role, but they all share the same mission. It is essential that they cooperate and communicate with each other, as well as provide mutual support. They should develop synergies, organize joint projects and promote international networks.
Christian archaeology is not a privilege for a select few, but a resource for everyone. It can offer unique contributions to humanity’s intellectual patrimony, inspire respect for diversity and promote culture.
Archaeology can also provide opportunities for fruitful cooperation with the Christian East. Shared catacombs and churches, as well as similar liturgical practices and converging martyrologies all constitute a spiritual and cultural heritage that are to be valued together.
Education in memory, fostering hope
In today’s fast-paced world, there is a tendency to forget and to consume images and words without reflecting on their meaning. The Church, on the other hand, is called to educate people in memory, and Christian archaeology is one of its most noble tools for doing so — not in order to take refuge in the past, but consciously to live in the present and work towards an enduring future.
Those who know their own history know who they are. They know where to go. They know whose children they are and the hope to which they are called. Christians are not orphans: we have a genealogy of faith, a living tradition and a communion of witnesses. Christian archaeology reveals this lineage and preserves its signs, interpreting them, recounting them and passing them on. In this sense, it is also a ministry of hope, for it shows that faith has already survived difficult times and resisted persecution, crises and changes. Faith has been renewed and regenerated, taking root in new peoples and flourishing in new forms. Those who study the origins of Christianity discover that the Gospel has always had a generative force, that the Church is always reborn, and that hope has never faded.
***
I would like to invite the bishops, as well as leaders and guides in the areas of culture and education, to encourage young people, lay people and priests to study archaeology. It offers many formative and professional opportunities within ecclesiastical and civil institutions, in academic and social realms, as well as in the fields of culture and heritage conservation.
Finally, I address you, brothers and sisters, scholars, teachers, students, researchers, cultural heritage professionals and ecclesiastical and lay leaders. Your work is of immense value. Do not be discouraged by difficulties. Christian archaeology is a service, a vocation and a form of love for the Church and for humanity. Please continue your excavations. Continue to study, teach and recount history. Be tireless in your search, rigorous in your analysis and passionate in communicating with others. Above all, remain faithful to the true and profound purpose of your commitment: the endeavor to make visible the Word of life, bearing witness that God became flesh, that salvation has left its mark, and that this Mystery has become a historical narrative.
May the Lord bless you all, and may the communion of the Church sustain you. May the light of the Holy Spirit, who is living memory and inexhaustible creativity, inspire you, and may the Blessed Virgin Mary, who united the past and the future in one vision of faith by meditating on everything in her heart, protect you always.
From the Vatican, 11 December 2025
LEO PP. XIV
_______________
[1] Francis, Letter on the Renewal of the Study of Church History, 21 November 2024: AAS 116 (2024), 1590.
[2] Regulations for the Pontifical Institute of Christian Archaeology (11 December 1925), art. 1: Rivista di Archeologia Cristiana of the Pontifical Commission for Sacred Archaeology, 3 (1926), 21.
[3] Pius XI, Encyclical Letter Lux Veritatis (25 December 1931), Preface: AAS 23 (1931), 493.
[4] Cf. P. Saint-Roch, Discours inaugural: edited by N. Cambi and E. Marin, Acta XIII Congressus Internationalis Archaeologiae Christianae, I, Vatican City 1998, 66-67.
[5] Francis, Letter to Cardinal Gianfranco Ravasi on the Occasion of the XXV Public Session of the Pontifical Academies (1 February 2022): AAS 114 (2022), 211.
[6] For example, the Creed contains a reference to Pontius Pilate, a historical figure that allows us to date the events remembered.
[7] Congregation for Catholic Education, General norms for the application of the Apostolic Constitution Veritatis Gaudium, (27 December 2017), art. 55, 1º b: AAS 110 (2018), 149.
[8] Francis, Address to participants in the Plenary Assembly of the Pontifical Commission for Sacred Archaeology (17 May 2024): AAS 116 (2024), 697-698.
[01765-EN.01] [Original text: Italian]
Traduzione in lingua tedesca
APOSTOLISCHES SCHREIBEN
DES HEILIGEN VATERS
LEO XIV.
ÜBER DIE BEDEUTUNG DER ARCHÄOLOGIE
ANLÄSSLICH DES HUNDERTJÄHRIGEN BESTEHENS
DES PÄPSTLICHEN INSTITUTS FÜR CHRISTLICHE ARCHÄOLOGIE
Anlässlich des hundertsten Jahrestages der Gründung des Päpstlichen Instituts für Christliche Archäologie empfinde ich es als meine Pflicht und Freude, einige Überlegungen zu teilen, die ich für den Weg der Kirche in unserer Zeit für wichtig halte. Ich tue dies mit dankbarem Herzen, in dem Bewusstsein, dass die Erinnerung an die Vergangenheit, erleuchtet durch den Glauben und geläutert durch die Liebe, die Hoffnung nährt.
Im Jahr 1925 wurde das „Heilige Jahr des Friedens” ausgerufen, das die grausamen Wunden des Ersten Weltkriegs lindern sollte; und es ist bezeichnend, dass der hundertste Jahrestag der Gründung des Instituts mit einem weiteren Heiligen Jahr zusammenfällt, das der unter zahlreichen Kriegen leidenden Menschheit auch heute Perspektiven der Hoffnung geben will.
Unsere Zeit, die von raschen Veränderungen, humanitären Krisen und kulturellen Umbrüchen geprägt ist, erfordert neben dem Rückgriff auf altes und neues Wissen auch die Suche nach einer tiefen Weisheit, die in der Lage ist, das wirklich Wesentliche zu bewahren und an die Zukunft weiterzugeben. Unter diesem Blickwinkel möchte ich erneut betonen, wie sehr die Archäologie ein unverzichtbarer Bestandteil für das Verständnis des Christentums und folglich auch für die katechetische und theologische Bildung ist. Sie ist nicht bloß eine Fachdisziplin, die wenigen Experten vorbehalten ist, sondern ein Weg, der allen offensteht, die die konkrete Gestaltwerdung des Glaubens in der Zeit, an einzelnen Orten und in den Kulturen verstehen wollen. Für uns Christen ist die Geschichte ein entscheidendes Fundament: Wir vollziehen die Pilgerreise unseres Lebens nämlich in der ganz konkreten Geschichte, die auch der Ort ist, an dem sich das Geheimnis der Erlösung vollzieht. Jeder Christ ist gerufen, sein Leben auf die Frohe Botschaft zu gründen, die von der geschichtlichen Menschwerdung des Wortes Gottes ausgeht (vgl. Joh 1,14).
Wie uns der geliebte Papst Franziskus in Erinnerung gerufen hat, kann niemand »wirklich wissen, wer er ist und was er morgen sein will, ohne das Band zu pflegen, das ihn mit den Generationen verbindet, die ihm vorausgegangen sind. Und das gilt nicht nur hinsichtlich der Geschichte der Einzelnen, sondern auch für die weitere Ebene der Gemeinschaft. Das Studium und die Weitergabe der Geschichte tragen nämlich dazu bei, das kollektive Bewusstsein lebendig zu erhalten. Ansonsten bleibt nur die persönliche Erinnerung an Sachverhalte, die mit dem eigenen Interesse oder den eigenen Gefühlen zu tun haben, ohne echte Verbindung zu der menschlichen und kirchlichen Gemeinschaft, in der wir leben.«[1]
Das Haus der Archäologie
Mit dem Motu Proprio „I primitivi cemeteri” vom 11. Dezember 1925 billigte Papst Pius XI. ein anspruchsvolles und weitsichtiges Projekt: die Gründung einer Hochschuleinrichtung, also mit Promotionsrecht, die in Abstimmung mit der Kommission für Sakrale Archäologie und der Römischen Päpstlichen Akademie der Archäologie die Aufgabe haben sollte, mit einem Höchstmaß an Wissenschaftlichkeit die Denkmäler des frühen Christentums zu erforschen, um das Leben der ersten Gemeinden zu rekonstruieren und »auf diese Weise Professoren für christliche Archäologie an Universitäten und in Seminaren, Ausgrabungsleiter, Konservatoren für sakrale Denkmäler, Museen usw. auszubilden«.[2] Aus der Sicht von Pius XI. ist die Archäologie für die genaue Rekonstruktion der Geschichte unverzichtbar, die als »Licht der Wahrheit und Zeugin der Zeit, wenn sie in rechter Weise zu Rate gezogen und sorgfältig geprüft wird«,[3] den Völkern die Fruchtbarkeit der christlichen Wurzeln und die Früchte des Gemeinwohls, die daraus hervorgehen können, aufzeigt und damit auch das Werk der Evangelisierung beglaubigt.
In all diesen Jahren hat das Päpstliche Institut für Christliche Archäologie Hunderte von Archäologen für das frühe Christentum ausgebildet, die wie die Professoren selbst aus allen Teilen der Welt stammen und die nach ihrer Rückkehr in ihre Heimatländer wichtige Funktionen in der Lehre oder im Denkmalschutz übernommen haben. Es hat Forschungen in Rom und im gesamten christlichen Raum unterstützt; es hat bei der Förderung der christlichen Archäologie eine wichtige Rolle auf internationaler Ebene gespielt, sowohl durch die Organisation regelmäßiger Kongresse und zahlreiche weitere wissenschaftliche Initiativen als auch durch enge Beziehungen und einen kontinuierlichen Austausch mit Universitäten und Forschungszentren in der ganzen Welt.
Das Institut hat sich bisweilen als Förderer des Friedens und des religiösen Dialogs erwiesen, beispielsweise durch die Organisation des XIII. Internationalen Kongresses in Split während des Krieges im ehemaligen Jugoslawien – eine schwierige Entscheidung, die in akademischen Kreisen viel Widerspruch hervorrief –[4] oder dadurch, dass es seine Wirksamkeit durch Auslandsmissionen in politisch instabilen Ländern bestätigte. Es ist nie von den akademischen Bildungszielen abgewichen, wobei es den direkten Kontakt zu schriftlichen Quellen und Denkmälern, den sichtbaren und eindeutigen Spuren der ersten christlichen Gemeinden, in den Vordergrund gestellt hat: durch Exkursionen, insbesondere zu den Katakomben und Kirchen Roms, sowie durch die jährlichen Studienreisen in diejenigen geografischen Gegenden, in denen sich das Christentum ausgebreitet hat.
Als es die Anforderungen der Lehre und Vorgaben von außen notwendig machten, insbesondere in den letzten Jahren mit dem vom Heiligen Stuhl unterzeichneten Bologna-Prozess zur Schaffung eines einheitlichen Hochschulsystems in Europa, hat das Institut seine Fachrichtungen und Ausbildungsgänge aktualisiert, ohne dabei je von den Zielen und dem Geist seiner Gründer abzuweichen. Es ist weiterhin in die Fußstapfen der Begründer der christlichen Archäologie getreten, insbesondere von Giovanni Battista de Rossi, jenem »unermüdliche[n] Wissenschaftler, der die Grundlagen schuf für eine wissenschaftliche Disziplin«.[5] Ihm verdanken wir in der zweiten Hälfte des 19. Jahrhunderts die Entdeckung eines Großteils der christlichen Friedhöfe rund um die römischen Stadtmauern sowie die Erforschung der Verehrungsstätten der Märtyrer aus den Verfolgungszeiten, insbesondere derer unter Decius, Valerian und Diokletian, und ihrer Entwicklung seit der Zeit Konstantins, die bis ins Hochmittelalter hinein immer mehr Pilger anzogen.
Dies war ein Dienst an der Kirche, die sich auf das Institut als Förderer des Wissens über die materiellen Zeugnisse des Urchristentums und über die Märtyrer verlassen konnte, die heute noch Beispiele für einen strahlenden und mutigen Glauben sind. Der Dienst des Instituts war auch praktischer Natur, da es an den von der Dombauhütte von Sankt Peter durchgeführten Ausgrabungen am Grab des Apostels Petrus unter dem Confessio-Altar im Petersdom sowie in jüngerer Zeit an den von den Vatikanischen Museen durchgeführten Untersuchungen in Sankt Paul vor den Mauern beteiligt war.
Archäologie als Schule der Inkarnation
Heute dürfen wir uns fragen: Von welchem Nutzen kann der Beitrag der christlichen Archäologie für die Gesellschaft und die Kirche im Zeitalter der künstlichen Intelligenz und der Erforschung der unendlichen Weiten des Universums noch sein?
Das Christentum ist nicht aus einer Idee, sondern aus dem Fleisch entstanden; nicht aus einem abstrakten Konzept, sondern aus einem Schoß, aus einem Körper, aus einem Grab. Der christliche Glaube ist in seinem authentischsten Kern historisch: Er gründet auf konkreten Ereignissen, auf Gesichtern, auf Gesten, auf Worten, die in einer Sprache, in einer gewissen Zeit, in einem Umfeld gesprochen wurden.[6] Die Archäologie macht dies sichtbar und anfassbar. Sie erinnert uns daran, dass Gott sich entschieden hat, in einer menschlichen Sprache zu sprechen, in einer Gegend unterwegs zu sein, an Orten, in Häusern, in Synagogen und auf Straßen zugegen zu sein.
Ohne das Verständnis der Orte und materiellen Spuren, die vom Glauben der ersten Jahrhunderte zeugen, kann man die christliche Theologie nicht vollständig begreifen. Es ist kein Zufall, dass der Evangelist Johannes seinen ersten Brief mit so etwas wie einer Erklärung zur Sinneswahrnehmung beginnt: »Was von Anfang an war, was wir gehört, was wir mit unseren Augen gesehen, was wir geschaut und was unsere Hände angefasst haben vom Wort des Lebens« (1 Joh 1,1). Die christliche Archäologie ist in gewisser Weise eine Antwort, die sich diesen Worten verpflichtet weiß. Sie möchte das fleischgewordene Wort berühren, sehen, hören. Nicht um beim Sichtbaren stehen zu bleiben, sondern um sich zu jenem Geheimnis führen zu lassen, das sich dahinter verbirgt.
Die Archäologie, die sich mit den materiellen Spuren des Glaubens befasst, vermittelt eine Theologie der Sinne: eine Theologie, die sehen, berühren, riechen und hören kann. Die christliche Archäologie lehrt uns diese Sensibilität. Indem sie zwischen Steinen, Ruinen und Gegenständen gräbt, lehrt sie uns, dass nichts, was mit dem Glauben in Berührung gekommen ist, unbedeutend ist. Selbst ein Mosaikfragment, eine vergessene Inschrift, eine Graffitischrift an einer Katakombenwand können die Biografie des Glaubens erzählen. In diesem Sinne ist die Archäologie auch eine Schule der Demut: Sie lehrt uns, das Kleine, das scheinbar Nebensächliche nicht zu verachten. Sie lehrt uns, die Zeichen zu lesen, die Stille und das Rätsel der Dinge zu deuten, das zu erahnen, was nicht mehr geschrieben steht. Sie ist eine Grenzwissenschaft, die zwischen Geschichte und Glauben, zwischen Materie und Geist, zwischen dem Alten und dem Ewigen steht.
Wir leben in einer Zeit, in der Verbrauch und Konsum Vorrang vor Bewahrung und Respekt haben. Die Archäologie lehrt uns hingegen, dass auch das kleinste Zeugnis Beachtung verdient, dass jede Spur einen Wert hat, dass nichts weggeworfen werden darf. In diesem Sinne ist sie eine Schule kultureller Nachhaltigkeit und geistlicher Ökologie. Sie erzieht zum Respekt vor der Materie, der Erinnerung, der Geschichte. Der Archäologe wirft nicht einfach weg, sondern bewahrt auf. Er konsumiert nicht, sondern betrachtet. Er zerstört nicht, sondern entschlüsselt. Sein Blick ist geduldig, genau, respektvoll. Es ist jener Blick, der in einem Stück Keramik, in einer verrosteten Münze, in einer verschlissenen Gravur den Atem einer Epoche, den Sinn eines Glaubens, die Stille eines Gebets zu erkennen vermag. Es ist ein Blick, von dem auch die heutige Seelsorge und Katechese viel lernen kann.
Andererseits ermöglichen modernste technologische Instrumente es, neue Informationen aus Fundstücken zu gewinnen, die einst als unbedeutend galten. Dies erinnert uns daran, dass nichts wirklich nutzlos oder verloren ist. Auch das, was nebensächlich zu sein scheint, kann im Lichte neuer Fragestellungen und Methoden eine tiefe Bedeutung erlangen. In dieser Hinsicht ist die Archäologie auch eine Schule der Hoffnung.
In den Anwendungsbestimmungen der Apostolischen Konstitution Veritatis gaudium heißt es, dass die Archäologie zusammen mit der Kirchengeschichte und der Patrologie zu den Grundlagenfächern in der theologischen Ausbildung gehören muss.[7] Es handelt sich also nicht um bloßes Beiwerk, sondern um ein grundlegendes pädagogisches Prinzip: Wer Theologie studiert, muss wissen, woher die Kirche kommt, wie sie gelebt hat und welche Formen der Glaube im Laufe der Jahrhunderte angenommen hat. Die Archäologie informiert uns nicht nur über Dinge, sondern über Menschen: über ihre Häuser, ihre Gräber, ihre Kirchen, ihre Gebete. Sie erzählt uns vom Alltagsleben der ersten Christen, von den Gottesdienstorten, von den Formen der Verkündigung. Sie sagt uns, wie der Glaube Räume, Städte, Landschaften und Denkweisen geprägt hat. Und sie hilft uns zu verstehen, wie die Offenbarung in der Geschichte konkrete Gestalt angenommen hat, wie das Evangelium innerhalb der Kulturen zu Worten und Formen gefunden hat. Eine Theologie, die die Archäologie ignoriert, läuft Gefahr, entleiblicht, abstrakt und ideologisch zu werden. Eine Theologie hingegen, die die Archäologie als Verbündete annimmt, ist eine Theologie, die auf den Leib der Kirche hört, seine Wunden erforscht, seine Zeichen deutet und sich von seiner Geschichte berühren lässt.
Der Beruf des Archäologen ist ein in hohem Maße „haptischer“ Beruf. Archäologen sind die ersten, die nach Jahrhunderten vergrabenes Material berühren, das die Kraft der Zeit in sich birgt. Die Aufgabe des christlichen Archäologen beschränkt sich jedoch nicht auf das Materielle, sondern geht darüber hinaus und umfasst das Menschliche. Er untersucht nicht nur die Fundstücke, sondern auch die Hände, die sie geformt haben, die Köpfe, die sie erdacht haben, und die Herzen, die sie geliebt haben. Hinter jedem Gegenstand steht eine Person, eine Seele, eine Gemeinschaft. Hinter jeder Ruine steckt eine Vorstellung von Glauben, eine Liturgie, eine Beziehung. Die christliche Archäologie ist daher auch eine Form der Nächstenliebe: Sie ist eine Möglichkeit, das Schweigen der Geschichte zum Sprechen zu bringen, denjenigen Würde zurückzugeben, die in Vergessenheit geraten sind, die namenlose Heiligkeit so vieler Gläubiger, die die Kirche geformt haben, wieder ans Licht zu bringen.
Erinnern, um zu evangelisieren
Seit den Anfängen des Christentums spielt die Erinnerung bei der Verkündigung des Evangeliums eine entscheidende Rolle. Es geht dabei nicht um ein einfaches Gedenken, sondern um eine lebendige Vergegenwärtigung des Heils. Die ersten christlichen Gemeinschaften bewahrten zusammen mit den Worten Jesu auch die Orte, Gegenstände und Zeichen seiner Gegenwart. Das leere Grab, das Haus des Petrus in Kafarnaum, die Gräber der Märtyrer, die römischen Katakomben: All dies trug dazu bei, zu bezeugen, dass Gott wirklich in die Geschichte eingetreten war und dass der Glaube keine Philosophie war, sondern ein konkreter Weg in der leibhaftigen Welt.
Papst Franziskus schrieb: »In den Katakombenanlagen […] finden sich die vielen Zeichen der christlichen Pilgerschaft der Anfänge: Ich denke zum Beispiel an die sehr wichtigen Graffiti der sogenannten Triclia in der Katakombe des heiligen Sebastian: die Memoria Apostolorum, wo die Reliquien der Apostel Petrus und Paulus gemeinsam verehrt wurden. Außerdem entdecken wir auf diesen Wegen die ältesten christlichen Symbole und Abbildungen, die Zeugnis geben von der christlichen Hoffnung. In den Katakomben spricht alles von Hoffnung, alles spricht vom Leben über den Tod hinaus, von der Befreiung aus Gefahren und vom Tod durch das Wirken Gottes, der uns in Christus, dem Guten Hirten, ruft, an der Glückseligkeit des Paradieses teilzuhaben, das mit Darstellungen von üppigen Pflanzen, Blumen, grünen Wiesen, Pfauen und Tauben, weidenden Lämmern ... Alles spricht von Hoffnung und von Leben!«.[8]
Dies ist auch heute noch die Aufgabe der christlichen Archäologie: der Kirche zu helfen, sich an ihren Ursprung zu erinnern, die lebendige Erinnerung an ihre Anfänge zu bewahren und die Heilsgeschichte nicht nur mit Worten, sondern auch mit Bildern, Formen und Räumen zu erzählen. In einer Zeit, in der die Wurzeln oft verloren gehen, wird die Archäologie so zu einem wertvollen Instrument der Evangelisierung, die von der Wahrheit der Geschichte ihren Ausgang nimmt, um für die christliche Hoffnung und die Neuheit des Geistes zu öffnen.
Die christliche Archäologie lässt uns erkennen, wie das Evangelium in verschiedenen kulturellen Kontexten aufgenommen, interpretiert und gefeiert wurde; sie zeigt uns, wie der Glaube das Alltagsleben, die Stadt, die Kunst und die Zeit geprägt hat. Und sie lädt uns ein, diesen Prozess der Inkulturation fortzusetzen, damit das Evangelium auch in den Herzen und Kulturen der Welt von heute heimisch werden kann. In diesem Sinne blickt sie nicht nur auf die Vergangenheit, sondern spricht zur Gegenwart und weist den Weg in die Zukunft. Sie spricht zu den Gläubigen, die die Wurzeln ihres Glaubens wiederentdecken, aber auch zu den Fernstehenden, zu den Nichtgläubigen, zu denen, die sich nach dem Sinn des Lebens fragen und in der Stille der Gräber und in der Schönheit der frühchristlichen Basiliken ein Echo der Ewigkeit finden. Sie spricht zu den jungen Menschen, die oft nach dem Authentischen und Konkreten suchen; sie spricht zu den Wissenschaftlern, die im Glauben keine Abstraktion, sondern eine historisch dokumentierte Wirklichkeit sehen; sie spricht zu den Pilgern, die in den Katakomben und Heiligtümern den Sinn ihres Weges und die Einladung zum Gebet für die Kirche erkennen.
In einer Zeit, in der die Kirche dazu gerufen ist, sich gegenüber den geografischen und existenziellen Rändern zu öffnen, kann die Archäologie ein wirkungsvolles Instrument des Dialogs sein. Sie kann dazu beitragen, Brücken zwischen fernen Welten, zwischen verschiedenen Kulturen und zwischen Generationen zu schlagen. Sie kann bezeugen, dass der christliche Glaube nie eine in sich verschlossene Wirklichkeit war, sondern eine dynamische Kraft, die in der Lage ist, in die tiefsten Schichten der Geschichte des Menschen einzudringen.
Über den Horizont hinausblicken können: die Kirche zwischen Zeit und Ewigkeit
Die Bedeutung der archäologischen Aufgabe lässt sich auch an der Fähigkeit messen, die Kirche im Spannungsfeld zwischen Zeit und Ewigkeit zu verorten. Jeder Fund, jedes ans Licht gebrachte Fragment zeigt uns, dass das Christentum keine abstrakte Idee ist, sondern ein Organismus, der gelebt, gefeiert, den Raum und die Zeit bewohnt hat. Der Glaube steht nicht außerhalb der Welt, sondern in der Welt. Er ist nicht gegen die Geschichte, sondern in der Geschichte.
Die Archäologie beschränkt sich jedoch nicht darauf, die Materialität der Dinge zu beschreiben. Sie führt uns darüber hinaus: Sie lässt uns die Kraft einer Wirklichkeit erahnen, die die Jahrhunderte überdauert, die sich nicht in der Materie erschöpft, sondern diese übersteigt. So sehen wir beispielsweise im Betrachten christlicher Gräber über den Tod hinaus die Erwartung der Auferstehung; in der Anordnung der Apsiden erkennen wir über die architektonische Berechnung hinaus die Ausrichtung auf Christus; in den Spuren, die von Gottesdiensten zeugen, erkennen wir über das Ritual hinaus die Sehnsucht nach dem Geheimnis.
Aus einer systematischeren Perspektive lässt sich sagen, dass die Archäologie auch in der Offenbarungstheologie eine besondere Bedeutung hat. Gott hat in der Zeit durch Ereignisse und Personen gesprochen. Er hat in der Geschichte Israels, in der Geschichte Jesu, zur Kirche auf ihrem Weg gesprochen. Die Offenbarung ist also immer auch geschichtlich. Wenn dem aber so ist, dann kann das Verständnis der Offenbarung nicht ohne eine angemessene Kenntnis der historischen, kulturellen und materiellen Zusammenhänge auskommen, in denen sie erfolgt ist. Die christliche Archäologie trägt zu dieser Kenntnis bei. Sie erhellt die Texte mit materiellen Zeugnissen. Sie befragt die schriftlichen Quellen, ergänzt sie und problematisiert sie. In einigen Fällen bestätigt sie die Authentizität der Überlieferungen, in anderen stellt sie sie in ihren richtigen Kontext, in wieder anderen wirft sie neue Fragen auf. All dies ist theologisch relevant. Denn eine Theologie, die der Offenbarung treu bleiben will, muss für die Komplexität der Geschichte offenbleiben.
Die Archäologie zeigt zudem, wie sich das Christentum im Laufe der Zeit zunehmend entfaltet hat, indem es Herausforderungen, Konflikte, Krisen, Momente des Glanzes und der Dunkelheit bewältigt hat. Dies hilft der Theologie dabei, idealisierte oder lineare Sichtweisen der Vergangenheit aufzugeben und sich der Wahrheit der Wirklichkeit zuzuwenden: einer Wahrheit, die aus Größe und Begrenztheit, Heiligkeit und Schwachheit, Kontinuität und Bruch besteht. Und gerade in dieser realen, konkreten, oft widersprüchlichen Geschichte wollte Gott sich zeigen.
Es ist schließlich kein Zufall, dass jede Vertiefung des Geheimnisses der Kirche mit einer Rückkehr zu den Ursprüngen einhergeht. Nicht aufgrund des bloßen Wunsches nach Wiederherstellung, sondern aufgrund der Suche nach Authentizität. Die Kirche erwacht und erneuert sich, wenn sie sich wieder fragt, was sie entstehen ließ, was sie in ihrer Tiefe ausmacht. Die christliche Archäologie kann in dieser Hinsicht einen wichtigen Beitrag leisten. Sie hilft uns, das Wesentliche vom Nebensächlichen, den ursprünglichen Kern von den Krusten der Geschichte zu unterscheiden.
Aber Vorsicht: Es handelt sich nicht um einen Vorgang, der das kirchliche Leben auf eine Verherrlichung der Vergangenheit reduziert. Wahre christliche Archäologie ist nicht sterile Konservierung, sondern lebendige Erinnerung. Sie ist die Fähigkeit, die Vergangenheit zur Gegenwart sprechen zu lassen. Sie ist die Weisheit, zu erkennen, was der Heilige Geist in der Geschichte gewirkt hat. Sie ist kreative Treue, nicht mechanische Nachahmung. Aus diesem Grund kann die christliche Archäologie eine gemeinsame Sprache, eine gemeinsame Grundlage, eine versöhnte Erinnerung vermitteln. Sie kann helfen, die Vielfalt der kirchlichen Erfahrungen, die Vielzahl der Formen, die Einheit in der Verschiedenheit anzuerkennen. Und sie kann zu einem Ort des Zuhörens, zu einem Raum des Dialogs, zu einem Werkzeug der geistlichen Unterscheidung werden.
Der Wert der akademischen Gemeinschaft
Als Pius XI. 1925 das Päpstliche Institut für Christliche Archäologie gründen wollte, tat er dies trotz der wirtschaftlichen Schwierigkeiten und der unsicheren Lage nach dem Krieg. Er tat dies mit Mut, Weitsicht und Vertrauen in die Wissenschaft und den Glauben. Heute, hundert Jahre später, fordert uns diese Geste heraus. Sie fragt uns, ob auch wir in der Lage sind, an die Kraft des Studiums, der Bildung und der Erinnerung zu glauben; sie fragt uns, ob wir bereit sind, trotz der Krise in die Kultur zu investieren, trotz der Gleichgültigkeit das Wissen zu fördern, die Schönheit auch dann zu verteidigen, wenn sie nebensächlich zu sein scheint. Dem Geist der Gründer treu zu bleiben bedeutet, sich nicht mit dem Erreichten zufrieden zu geben, sondern stets neu anzufangen. Es bedeutet, Menschen auszubilden, die in der Lage sind, zu denken, Fragen zu stellen, zu unterscheiden und zu erzählen. Es bedeutet, sich nicht in einem elitären Wissen zu verschließen, sondern zu teilen, zu verbreiten und einzubeziehen.
Anlässlich dieser Hundert-Jahr-Feier möchte ich auch die Bedeutung der Gemeinschaft zwischen den verschiedenen Institutionen, die sich mit Archäologie befassen, bekräftigen. Die Römische Päpstliche Akademie für Archäologie, die Päpstliche Kommission für Sakrale Archäologie, die Päpstliche Akademie Cultorum Martyrum, das Päpstliche Institut für Christliche Archäologie: Jede hat ihre Besonderheiten, aber alle teilen sich dieselbe Aufgabe. Es ist notwendig, dass sie zusammenarbeiten, sich austauschen und sich gegenseitig unterstützen. Dass sie Synergien schaffen, gemeinsame Projekte entwickeln und internationale Netzwerke fördern.
Die christliche Archäologie ist nichts, das für einige wenige reserviert ist, sondern eine Ressource für alle. Sie kann einen echten Beitrag zum Wissen über die Menschheit, zur Achtung der Verschiedenheit und zur Förderung der Kultur leisten.
Auch die Beziehung zum christlichen Osten kann in der Archäologie einen fruchtbaren Boden finden. Die gemeinsamen Katakomben, die gemeinsam genutzten Kirchen, die analogen liturgischen Bräuche, die übereinstimmenden Martyrologien: All dies bildet ein geistliches und kulturelles Erbe, das es gemeinsam zur Geltung zu bringen gilt.
Zur Erinnerung erziehen, die Hoffnung bewahren
Wir leben in einer Welt, die dazu neigt, zu vergessen, die schnelllebig ist, die Bilder und Worte konsumiert, ohne dass es zu einer Anreicherung von Sinn kommt. Die Kirche ist hingegen dazu berufen, zur Erinnerung zu erziehen, und die christliche Archäologie ist eines ihrer edelsten Instrumente, um dies zu tun. Nicht, um sich in die Vergangenheit zu flüchten, sondern um bewusst in der Gegenwart zu leben und eine Zukunft aufzubauen, die fest verwurzelt ist.
Wer die eigene Geschichte kennt, weiß, wer er ist. Er weiß, wohin er zu gehen hat. Er weiß, wessen Kind er ist und zu welcher Hoffnung er berufen ist. Christen sind keine Waisen: Sie haben einen Stammbaum des Glaubens, eine lebendige Tradition, eine Gemeinschaft von Zeugen. Die christliche Archäologie macht diese Genealogie sichtbar, bewahrt ihre Zeichen, interpretiert sie, erzählt sie und gibt sie weiter. In diesem Sinne ist sie auch ein Dienst der Hoffnung. Denn sie zeigt, dass der Glaube bereits schwierige Zeiten durchlebt hat. Er hat Verfolgungen, Krisen und Veränderungen überstanden. Er hat es vermocht, sich zu erneuern, sich neu zu finden, in neuen Völkern Wurzeln zu schlagen und in neuen Formen zu erblühen. Wer die christlichen Ursprünge erforscht, sieht, dass das Evangelium immer eine schöpferische Kraft hatte, dass die Kirche immer wieder neu geboren wurde, dass die Hoffnung nie verloren gegangen ist.
***
Ich wende mich an die Bischöfe und an die Verantwortlichen für Kultur und Bildung: Ermutigt die jungen Menschen, Laien und Priester, Archäologie zu studieren, die innerhalb der kirchlichen und zivilen Institutionen, im akademischen und gesellschaftlichen Bereich, auf dem Gebiet der Kultur und der Denkmalpflege viele Ausbildungs- und Berufsperspektiven bietet.
Abschließend richte ich meine Worte an euch, Brüder und Schwestern, Wissenschaftler, Dozenten, Studenten, Forscher, im Bereich der Kulturgüter Tätige, verantwortliche Geistliche und Laien: Eure Arbeit ist wertvoll. Lasst euch nicht von Schwierigkeiten entmutigen. Die christliche Archäologie ist ein Dienst, eine Berufung, eine Form der Liebe zur Kirche und zur Menschheit. Fahrt fort mit den Ausgrabungen, dem Studium, dem Unterrichten und dem Erzählen. Seid unermüdlich in eurer Suche, genau in eurer Analyse, leidenschaftlich bei der Weitergabe der Erkenntnisse. Und bleibt vor allem dem tiefen Sinn eures Engagements treu: das Wort des Lebens sichtbar zu machen, zu bezeugen, dass Gott Mensch geworden ist, dass die Erlösung Spuren hinterlassen hat, dass das Geheimnis zu einer geschichtlichen Erzählung geworden ist.
Der Segen des Herrn begleite euch alle. Die Gemeinschaft der Kirche gebe euch Halt. Das Licht des Heiligen Geistes, der lebendige Erinnerung und unerschöpfliche Kreativität ist, inspiriere euch. Und die Jungfrau Maria, die alles in ihrem Herzen zu betrachten wusste und Vergangenheit und Zukunft im Blick des Glaubens vereinte, behüte euch.
Aus dem Vatikan, am 11. Dezember 2025
LEO XIV.
________________
[1] Franziskus, Brief zur Erneuerung des Studiums der Kirchengeschichte (21. November 2024): AAS 116 (2024), 1590.
[2] Regolamento per il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana (11. Dezember 1925), Art. 1: Rivista di Archeologia Cristiana della Pontificia Commissione di archeologia sacra, 3 (1926), 21.
[3] Pius XI, Enzyklika Lux Veritatis (25. Dezember 1931), Proömium: AAS 23 (1931), 493.
[4] Vgl. P. Saint-Roch, Discours inaugural, in: N. Cambi – E. Marin (Hrsg.) Acta XIII Congressus Internationalis Archaeologiae Christianae, I, Vatikanstadt-Split 1998, 66-67.
[5] Franziskus, Schreiben an Kardinal Ravasi zur öffentlichen Sitzung der Päpstlichen Akademien (1. Februar 2022): AAS 114 (2022), 211.
[6] Im Glaubensbekenntnis wird beispielsweise auf Pontius Pilatus Bezug genommen, eine Persönlichkeit der Geschichte, die es ermöglicht, die erwähnten Ereignisse zu datieren.
[7] Kongregation für das Katholische Bildungswesen, Ordinationes der Kongregation für das Katholische Bildungswesen zur richtigen Anwendung der Apostolischen Konstitution Veritatis Gaudium (27. Dezember 2017), Zweiter Teil, Titel I, Art. 55, Abs. 1, Buchst. b: AAS 110 (2018), 149.
[8] Franziskus, Ansprache an die Teilnehmer der Vollversammlung der Päpstlichen Kommission für sakrale Archäologie (17. Mai 2024): AAS 116 (2024), 697-698.
[01765-DE.01] [Originalsprache: Italienisch]
Traduzione in lingua spagnola
CARTA APOSTÓLICA
DEL SANTO PADRE
LEÓN XIV
SOBRE LA IMPORTANCIA DE LA ARQUEOLOGÍA
CON MOTIVO DEL CENTENARIO
DEL PONTIFICIO INSTITUTO DE ARQUEOLOGÍA CRISTIANA
En el centenario de la fundación del Pontificio Instituto de Arqueología Cristiana, siento el deber y la alegría de compartir algunas reflexiones que considero importantes para el camino de la Iglesia en los tiempos actuales. Lo hago con corazón agradecido, consciente de que la memoria del pasado, iluminada por la fe y purificada por la caridad, es alimento de la esperanza.
En 1925 se convocó el “Jubileo de la paz”, que deseaba aliviar las atroces heridas de la Primera Guerra Mundial; y es significativo que el centenario del Instituto coincida con un nuevo Jubileo, que también hoy quiere ofrecer horizontes de esperanza a la humanidad, atribulada por numerosas guerras.
Nuestra época, marcada por rápidos cambios, crisis humanitarias y transiciones culturales, exige, junto con el uso de conocimientos antiguos y nuevos, también la búsqueda de una sabiduría profunda, capaz de custodiar y transmitir al futuro lo que es verdaderamente esencial. En esta perspectiva, deseo reafirmar con fuerza que la arqueología es un componente imprescindible de la interpretación del cristianismo y, por consiguiente, de la formación catequética y teológica. No es sólo una disciplina especializada, reservada a unos pocos expertos, sino un camino accesible a todos aquellos que quieren comprender la encarnación de la fe en el tiempo, en los lugares y en las culturas. Para nosotros, los cristianos, la historia es un fundamento crucial; en efecto, realizamos la peregrinación de la vida en la concreción de la historia, que es también el escenario en el que se desarrolla el misterio de la salvación. Todo cristiano está llamado a basar su existencia en una Buena Nueva que parte de la Encarnación histórica del Verbo de Dios (cf. Jn 1,14).
Como nos recordó el querido Papa Francisco,«nadie puede saber verdaderamente quién es y qué pretende ser mañana sin nutrir el vínculo que lo une con las generaciones que lo preceden. Y esto es válido no sólo a nivel de situaciones personales, sino también a un nivel más amplio de comunidad. En efecto, estudiar y narrar la historia ayuda a mantener encendida “la llama de la conciencia colectiva”. De lo contrario, permanece sólo la memoria personal de los hechos ligados al propio interés o a las propias emociones, sin un verdadero nexo con la comunidad humana y eclesial en la que estamos viviendo». [1]
La casa de la arqueología
Con el Motu Proprio «Los cementerios primitivos», del 11 de diciembre de 1925, el Papa Pío XI sancionó un proyecto ambicioso y visionario: la fundación de un instituto de alta formación, es decir, de doctorado, que, en coordinación con la Comisión de Arqueología Sacra y con la Pontificia Academia Romana de Arqueología, tendría la tarea de orientar, con el máximo rigor científico, los estudios sobre los monumentos del cristianismo antiguo para reconstruir la vida de las primeras comunidades, formando así a «profesores de arqueología cristiana para las universidades y seminarios, directores de excavaciones de antigüedades, conservadores de monumentos sagrados, museos, etc.».[2] En la visión de Pío XI, la arqueología es indispensable para la reconstrucción exacta de la historia, la cual, como «luz de verdad y testimonio de los tiempos, si se consulta correctamente y se examina con diligencia»,[3] indica a los pueblos la fecundidad de las raíces cristianas y los frutos del bien común que pueden derivarse de ellas, acreditando así también la obra de evangelización.
A lo largo de todos estos años, el Pontificio Instituto de Arqueología Cristiana ha formado a cientos de arqueólogos del cristianismo antiguo, así como a profesores, procedentes de todas partes del mundo, que han desempeñado, al regresar a sus países, importantes cargos docentes o de tutela; ha promovido investigaciones en Roma y en todo el mundo cristiano; ha desempeñado un eficaz papel internacional en la promoción de la arqueología cristiana, tanto con la organización de congresos cíclicos y otras numerosas iniciativas científicas, como por las estrechas relaciones y los intercambios constantes con universidades y centros de estudio de todo el mundo.
El Instituto ha sabido ser, en algunos momentos, promotor de la paz y del diálogo religioso, por ejemplo, organizando el XIII Congreso Internacional en Espalato durante la guerra en la antigua Yugoslavia —una decisión difícil y con muchas discrepancias en el ámbito académico—[4] o confirmando su operatividad con misiones en el extranjero en países políticamente inestables. Nunca ha renunciado a los objetivos de la formación superior, privilegiando el contacto directo con las fuentes escritas y los monumentos, huellas visibles e inequívocas de las primeras comunidades cristianas, a través de visitas, sobre todo a las catacumbas y las iglesias de Roma, y los viajes anuales de estudio a las zonas geográficas que atañen a la difusión del cristianismo.
Cuando las exigencias de la enseñanza y las presiones externas lo han requerido, sobre todo en los últimos años con el Proceso de Bolonia, suscrito por la Santa Sede, para la construcción de un sistema de educación superior coherente en Europa, el Instituto ha actualizado las disciplinas y los itinerarios formativos, sin apartarse nunca de los objetivos y el espíritu de sus fundadores. Ha seguido los pasos de los iniciadores de la arqueología cristiana, especialmente de Giovanni Battista de Rossi, «incansable estudioso que sentó las bases de una disciplina científica».[5] A él se debe, en la segunda mitad del siglo XIX, el descubrimiento de la mayor parte de los cementerios cristianos alrededor de las murallas de Roma, así como el estudio de los santuarios de los mártires de las persecuciones las de Decio, Valeriano y, sobre todo, Diocleciano, y su evolución desde la época de Constantino, que atrajeron una peregrinación cada vez más floreciente hasta la Alta Edad Media.
Esto ha sido un servicio a la Iglesia, que pudo contar con el Instituto como promotor del conocimiento sobre los testimonios materiales del cristianismo primitivo y sobre los mártires, que aún hoy representan ejemplos de una fe brillante y valiente. El servicio del Instituto también ha sido práctico, ya que ha intervenido en la excavación —emprendida por la Fábrica de San Pedro— de la tumba del apóstol Pedro bajo el Altar de la Confesión de la Basílica Vaticana y, más recientemente, en las investigaciones de los Museos Vaticanos en San Pablo Extramuros.
La arqueología como escuela de encarnación
Hoy estamos llamados a preguntarnos: ¿hasta qué punto puede seguir siendo provechoso, en la era de la inteligencia artificial y de las investigaciones en las infinitas galaxias del universo, el papel de la arqueología cristiana en la sociedad y para la Iglesia?
El cristianismo no nació de una idea, sino de una carne; no de un concepto abstracto, sino de un vientre, de un cuerpo, de un sepulcro. La fe cristiana, en su esencia más auténtica, es histórica: se basa en hechos concretos, en rostros, en gestos y en palabras pronunciadas en una lengua, en una época y en un entorno.[6] Esto es lo que la arqueología hace evidente, palpable. Nos recuerda que Dios eligió hablar en una lengua humana, caminar en una tierra, habitar lugares, casas, sinagogas, calles.
No se puede comprender plenamente la teología cristiana sin la inteligencia de los lugares y las huellas materiales que dan testimonio de la fe de los primeros siglos. No es casualidad que el evangelista Juan dé inicio a su primera carta con una especie de declaración sensorial: «Lo que hemos oído, lo que hemos visto con nuestros ojos, lo que hemos contemplado y lo que hemos tocado con nuestras manos acerca de la Palabra de Vida» (1 Jn 1,1). La arqueología cristiana es, en cierto sentido, una respuesta fiel a estas palabras, pues quiere tocar, ver, escuchar al Verbo que se hizo carne. No para detenerse en lo visible, sino para dejarse guiar hacia el Misterio que allí se esconde.
La arqueología, al ocuparse de los vestigios materiales de la fe, educa en una teología de los sentidos: una teología que sabe ver, tocar, oler y escuchar. La arqueología cristiana educa en esta sensibilidad. Excavando entre piedras, ruinas y objetos, nos enseña que nada de lo que ha sido tocado por la fe es insignificante. Incluso un fragmento de mosaico, una inscripción olvidada, un grafito en una pared de las catacumbas pueden contar la biografía de la fe. En este sentido, la arqueología es también una escuela de humildad: enseña a no despreciar lo que es pequeño, lo que es aparentemente secundario. Enseña a leer los signos, a interpretar el silencio y el enigma de las cosas, a intuir eso que ya no está escrito. Es una ciencia del umbral, que se encuentra entre la historia y la fe, entre la materia y el Espíritu, entre lo antiguo y lo eterno.
Vivimos en una época en la que el uso y el consumo han prevalecido sobre la conservación y el respeto. La arqueología, en cambio, nos enseña que incluso el más pequeño testimonio merece atención, que cada rastro tiene valor, que nada puede descartarse. En este sentido, es una escuela de sostenibilidad cultural y ecología espiritual. Es una educación para aprender a respetar la materia, la memoria y la historia. El arqueólogo no descarta nada, sino que conserva. No consume, sino que contempla. No destruye, sino que descifra. Su mirada es paciente, precisa, respetuosa. Es la mirada que sabe captar en un trozo de cerámica, en una moneda corroída o en un grabado desgastado, el aliento de una época, el sentido de una fe y el silencio de una oración. Es una mirada que puede enseñar mucho también a la pastoral y a la catequesis de hoy.
Por otra parte, los instrumentos tecnológicos más modernos permiten obtener nueva información de hallazgos que antes se consideraban insignificantes. Esto nos recuerda que nada es realmente inútil o perdido. Incluso lo que parece marginal puede, a la luz de nuevas preguntas y nuevos métodos, devolver significados profundos. La arqueología, en este sentido, es también una escuela de esperanza.
En la Constitución apostólica Veritatis gaudium se afirma que la arqueología, junto con la historia de la Iglesia y la patrística, debe formar parte de las disciplinas fundamentales para la formación teológica.[7] No se trata, pues, de un añadido accesorio, sino de un principio pedagógico profundo: quien estudia teología debe conocer el origen de la Iglesia, cómo ha vivido, qué formas ha adoptado la fe a lo largo de los siglos. La arqueología no sólo nos habla de cosas, sino también de personas: de sus casas, sus tumbas, sus iglesias, sus oraciones. Nos habla de la vida cotidiana de los primeros cristianos, de los lugares de culto, de las formas de evangelización. Nos habla de cómo la fe ha modelado espacios, ciudades, paisajes y mentalidades. Y nos ayuda a comprender cómo la revelación se ha encarnado en la historia, cómo el Evangelio ha encontrado palabras y formas dentro de las culturas. Una teología que ignora la arqueología corre el riesgo de volverse desencarnada, abstracta, ideológica. Por el contrario, una teología que acoge a la arqueología como aliada es una teología que escucha al cuerpo de la Iglesia, que interroga sus heridas, que lee sus signos, que se deja interpelar por su historia.
La profesión arqueológica es, en gran parte, una profesión “táctil”. Los arqueólogos son los primeros en tocar, después de siglos, una materia enterrada que conserva la energía del tiempo. Pero la tarea del arqueólogo cristiano no se limita a la materia, va más allá, hasta lo humano. No sólo estudia los hallazgos, sino también las manos que los forjaron, las mentes que los concibieron, los corazones que los amaron. Detrás de cada objeto hay una persona, un alma, una comunidad. Detrás de cada ruina, un sueño de fe, una liturgia, una relación. La arqueología cristiana, entonces, es también una forma de caridad; es una manera de hacer hablar los silencios de la historia, de devolver la dignidad a los olvidados, de sacar a la luz la santidad anónima de tantos fieles que han formado parte de la Iglesia.
Una memoria para evangelizar
Desde los orígenes del cristianismo, la memoria ha desempeñado un papel fundamental en la evangelización. No se trata de un simple recuerdo, sino de una reactualización viva de la salvación. Las primeras comunidades cristianas conservaban, junto con las palabras de Jesús, también los lugares, los objetos y los signos de su presencia. La tumba vacía, la casa de Pedro en Cafarnaúm, las tumbas de los mártires, las catacumbas romanas: todo contribuía a dar testimonio de que Dios había entrado realmente en la historia y que la fe no era una filosofía, sino un camino concreto en la carne del mundo.
El Papa Francisco escribió que, en los recorridos de las catacumbas, «encontramos los numerosos signos de la peregrinación cristiana de los orígenes: pienso, por ejemplo, en los importantísimos grafitis de los llamados triclia de las catacumbas de San Sebastián, laMemoria Apostolorum, donde se veneraban juntas las reliquias de los apóstoles Pedro y Pablo. A continuación, descubriremos, en estos caminos, los símbolos y representaciones cristianas más antiguas, que dan testimonio de la esperanza cristiana. En las catacumbas, todo habla de esperanza, todo: habla de la vida más allá de la muerte, de la liberación de los peligros y de la propia muerte por obra de Dios, que en Cristo el buen Pastor, nos llama a participar en la bienaventuranza del Paraíso, evocada con figuras de plantas exuberantes, flores, prados verdes, pavos reales y palomas, ovejas apacentando... ¡Todo habla de esperanza y de vida!».[8]
Esta sigue siendo hoy la tarea de la arqueología cristiana: ayudar a la Iglesia a recordar sus orígenes, a custodiar la memoria viva de sus comienzos, a narrar la historia de la salvación no sólo con palabras, sino también con imágenes, formas y espacios. En una época que a menudo pierde sus raíces, la arqueología se convierte así en un instrumento precioso de evangelización que parte de la verdad de la historia para abrirse a la esperanza cristiana y a la novedad del Espíritu.
La arqueología cristiana nos muestra cómo el Evangelio ha sido acogido, interpretado y celebrado en diferentes contextos culturales; nos muestra cómo la fe ha moldeado la vida cotidiana, la ciudad, el arte y el tiempo. Y nos invita a continuar este proceso de inculturación, para que el Evangelio pueda seguir encontrando hoy un hogar en los corazones y en las esculturas del mundo contemporáneo. En este sentido, no sólo mira al pasado, también habla al presente y orienta hacia el futuro. Habla a los creyentes, que redescubren las raíces de su fe; pero también habla a los alejados, a los no creyentes, a cuantos se interrogan sobre el sentido de la vida y encuentran, en el silencio de las tumbas y en la belleza de las basílicas paleocristianas, un eco de eternidad. Se dirige a los jóvenes, que a menudo buscan autenticidad y concreción; se dirige a los estudiosos, que ven en la fe no una abstracción, sino una realidad históricamente documentada; se dirige a los peregrinos, que encuentran en las catacumbas y en los santuarios el sentido del camino y la invitación a la oración por la Iglesia.
En un momento en el que la Iglesia está llamada a abrirse a las periferias —geográficas y existenciales—, la arqueología puede ser un poderoso instrumento de diálogo; puede contribuir a tender puentes entre mundos distantes, entre culturas diferentes, entre generaciones; puede dar testimonio de que la fe cristiana nunca ha sido una realidad cerrada, sino una fuerza dinámica, capaz de penetrar en los tejidos más profundos de la historia humana.
Saber ver más allá: la Iglesia entre el tiempo y la eternidad
La grandeza de la misión arqueológica se mide también en la capacidad de situar a la Iglesia en la tensión entre el tiempo y la eternidad. Cada hallazgo, cada fragmento sacado a la luz nos dice que el cristianismo no es una idea suspendida, sino un cuerpo que ha vivido, ha celebrado y ha habitado el espacio y el tiempo. La fe no está fuera del mundo, sino en el mundo. No está contra la historia, sino dentro de la historia.
Sin embargo, la arqueología no se limita a describir la materialidad de las cosas, sino que nos lleva más allá: nos hace intuir la fuerza de una existencia que trasciende los siglos, que no se agota en la materia, sino que la trasciende. Así, por ejemplo, en la lectura de los entierros cristianos vemos, más allá de la muerte, la espera de la resurrección; en la disposición de los ábsides captamos, más allá de un cálculo arquitectónico, la orientación hacia Cristo; en las huellas del culto reconocemos, más allá de un ritual, el anhelo por el Misterio.
Desde una perspectiva más sistemática, se puede afirmar que la arqueología tiene una relevancia específica también en la teología de la Revelación. Dios ha hablado a lo largo del tiempo, a través de acontecimientos y personas; ha hablado en la historia de Israel, en la historia de Jesús, en el camino de la Iglesia. La Revelación, por tanto, también es histórica. Y si es así, entonces la comprensión de la Revelación no puede prescindir de un conocimiento adecuado de los contextos históricos, culturales y materiales en los que se ha realizado. La arqueología cristiana contribuye a este conocimiento: ilumina los textos con testimonios materiales, interroga las fuentes escritas, las completa, las problematiza. En algunos casos, confirma la autenticidad de las tradiciones; en otros, vuelve a colocarlas en su contexto preciso; y en otros, abre nuevas preguntas. Todo esto es teológicamente relevante. Porque una teología que quiera ser fiel a la Revelación debe permanecer abierta a la complejidad de la historia.
Además, la arqueología muestra cómo el cristianismo se ha articulado progresivamente a lo largo del tiempo, enfrentándose a desafíos, conflictos, crisis, momentos de esplendor y de oscuridad. Esto ayuda a la teología a abandonar visiones idealizadas o lineales del pasado y a entrar en la verdad de lo real: una verdad hecha de grandeza y de límite, de santidad y de fragilidad, de continuidad y de ruptura. Y es precisamente en esta historia real, concreta, a menudo contradictoria, donde Dios ha querido manifestarse.
No es casualidad, por último, que cada profundización en el misterio de la Iglesia vaya acompañada de un retorno a los orígenes. No por un mero deseo de restauración, sino por una búsqueda de autenticidad. La Iglesia despierta y se renueva cuando vuelve a preguntarse sobre lo que la hizo nacer, sobre lo que la define en profundidad. La arqueología cristiana puede ofrecer una gran contribución en este sentido, pues nos ayuda a distinguir lo esencial de lo secundario, el núcleo original de las incrustaciones de la historia.
Pero atención: no se trata de una operación que reduzca la vida eclesial a un culto del pasado. La verdadera arqueología cristiana no es conservación estéril, sino memoria viva. Es la capacidad de hacer que el pasado hable al presente. Es sabiduría para discernir lo que el Espíritu Santo ha suscitado en la historia. Es fidelidad creativa, no imitación mecánica. Por esta razón, la arqueología cristiana puede ofrecer un lenguaje común, una base compartida, una memoria reconciliada. Puede ayudar a reconocer la pluralidad de las experiencias eclesiales, la variedad de formas, la unidad en la diversidad. Y puede convertirse en un lugar de escucha, un espacio de diálogo y un instrumento de discernimiento.
El valor de la comunión académica
Cuando, en 1925, Pío XI quiso fundar el Pontificio Instituto de Arqueología Cristiana, lo hizo a pesar de las dificultades económicas y el clima incierto de la posguerra. Lo hizo con valentía, con visión de futuro, con confianza en la ciencia y en la fe. Hoy, cien años después, ese gesto nos interpela. Nos pregunta si también nosotros somos capaces de creer en la fuerza del estudio, de la formación, de la memoria; nos pregunta si estamos dispuestos a invertir en la cultura a pesar de la crisis, a promover el conocimiento a pesar de la indiferencia, a defender la belleza incluso cuando parece marginal. Ser fieles al espíritu de los fundadores significa no conformarse con lo ya hecho, sino relanzarlo. Significa formar personas capaces de pensar, de cuestionar, de discernir, de narrar. Significa no encerrarse en un saber elitista, sino compartir, divulgar, involucrar.
En este centenario, deseo también reiterar la importancia de la comunión entre las diferentes instituciones que se ocupan de la arqueología. La Pontificia Academia Romana de Arqueología, la Pontificia Comisión de Arqueología Sagrada, la Pontificia Academia Cultorum Martyrum, el Pontificio Instituto de Arqueología Cristiana: cada una con su especificidad, todas comparten una misma misión. Es necesario que colaboren, dialoguen y se apoyen entre ellas; que establezcan sinergias, elaboren proyectos comunes y promuevan redes internacionales.
La arqueología cristiana no es un privilegio para unos pocos, sino un recurso para todos, que puede ofrecer una contribución original al conocimiento de la humanidad, al respeto de la diversidad y a la promoción de la cultura.
También la relación con el Oriente cristiano puede encontrar en la arqueología un terreno fértil. Las catacumbas comunes, las iglesias compartidas, las prácticas litúrgicas análogas, los martirologios convergentes: todo ello constituye un patrimonio espiritual y cultural que hay que valorizar juntos.
Educar en la memoria, custodiar la esperanza
Vivimos en un mundo que tiende a olvidar, que corre rápidamente, que consume imágenes y palabras sin sedimentar el sentido. La Iglesia, en cambio, está llamada a educar en la memoria, y la arqueología cristiana es uno de sus instrumentos más nobles para hacerlo. No para refugiarse en el pasado, sino para habitar el presente con conciencia, para construir el futuro con raíces.
Quien conoce su propia historia sabe quién es, sabe adónde ir, sabe de quién es hijo y a qué esperanza está llamado. Los cristianos no son huérfanos: tienen una genealogía de fe, una tradición viva y una comunión de testigos. La arqueología cristiana hace visible esta genealogía, custodia sus signos, los interpreta, los narra y los transmite. En este sentido, es también un ministerio de esperanza. Porque muestra que la fe ya ha atravesado épocas difíciles; ha resistido persecuciones, crisis, cambios; ha sabido renovarse, reinventarse, echar raíces en nuevos pueblos, florecer en nuevas formas. Quien estudia los orígenes cristianos ve que el Evangelio siempre ha tenido una fuerza generativa, que la Iglesia siempre ha renacido, que la esperanza nunca ha fallado.
***
Me dirijo a los obispos y a los responsables de la cultura y la educación: animen a los jóvenes, laicos y sacerdotes a estudiar arqueología, que ofrece muchas perspectivas formativas y profesionales dentro de las instituciones eclesiásticas y civiles, en el mundo académico y social, en los campos de la cultura y la conservación.
Por último, mi palabra va dirigida a ustedes, hermanos y hermanas, estudiosos, profesores, estudiantes, investigadores, agentes del patrimonio cultural, responsables eclesiásticos y laicos: su trabajo es valioso. No se dejen desanimar por las dificultades. La arqueología cristiana es un servicio, una vocación, una forma de amor a la Iglesia y a la humanidad. Sigan excavando, estudiando, enseñando, narrado. Sean incansables en la búsqueda, rigurosos en el análisis, apasionados en la divulgación. Y, sobre todo, sean fieles al sentido profundo de su compromiso: hacer visible el Verbo de la vida, dar testimonio de que Dios se ha hecho carne, que la salvación ha dejado huellas, que el Misterio se ha convertido en narración histórica.
Que la bendición del Señor los acompañe a todos. Que la comunión de la Iglesia los sostenga. Que los inspire la luz del Espíritu Santo, que es memoria viva y creatividad inagotable. Y que los proteja la Virgen María, que supo meditar todo en su corazón, uniendo el pasado y el futuro en la mirada de la fe.
Vaticano, 11 de diciembre de 2025.
LEÓN PP. XIV
________________
[1] Francisco, Carta sobre la renovación del estudio de la Historia de la Iglesia (21 noviembre 2024):AAS116 (2024), 1590.
[2] Reglamento del Pontificio Instituto de Arqueología Cristiana (11 diciembre 1925), art. 1: Rivista di Archeologia Cristiana della Pontificia Commissione di archeologia sacra, 3 (1926), 21.
[3] Pío XI, Carta enc.Lux Veritatis (25 diciembre 1931), Proemio: AAS 23 (1931), 493.
[4]Cf. P. Saint-Roch, Discours inaugural: N. Cambi - E. Marin (eds.), Acta XIII Congressus Internationalis Archaeologiae Christianae,I, Ciudad del Vaticano 1998, 66-67.
[5] Francisco, Carta al cardenal GianfrancoRavasi con motivo de la XXV Sesión pública de las Academias Pontificias (1 febrero 2022): AAS 114 (2022), 211.
[6] Por ejemplo, en el Credo tenemos la referencia a Poncio Pilato, un personaje histórico, que permite datar los acontecimientos recordados.
[7] Congregación para la Educación Católica, Normas aplicativas para la recta ejecución de la Const. ap. Veritatis gaudium (27 diciembre 2017), art. 55, 1º b: AAS 110 (2018), 149.
[8] Francisco, Discurso a los participantes en la Plenaria de la Pontificia Comisión de Arqueología Sagrada (17 mayo 2024):AAS 116 (2024), 697-698.
[01765-ES.01] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua portoghese
CARTA APOSTÓLICA
DO SANTO PADRE
LEÃO XIV
SOBRE A IMPORTÂNCIA DA ARQUEOLOGIA
POR OCASIÃO DO CENTENÁRIO
DO PONTIFÍCIO INSTITUTO DE ARQUEOLOGIA CRISTÃ
No centenário da fundação do Pontifício Instituto de Arqueologia Cristã, sinto o dever e a alegria de partilhar algumas reflexões que considero importantes para o caminho da Igreja nos tempos atuais. Faço-o com coração agradecido, consciente de que a memória do passado, iluminada pela fé e purificada pela caridade, é alimento da esperança.
Em 1925, havia sido proclamado o “Jubileu da Paz”, que pretendia aliviar as feridas atrozes da Primeira Guerra Mundial; e é significativo que o centenário do Instituto coincida também com um novo Jubileu que quer, hoje, dar perspectivas de esperança à humanidade, atormentada por numerosas guerras.
O nosso tempo, marcado por rápidas mudanças, crises humanitárias e transições culturais, exige, com o recurso a conhecimentos antigos e novos, a busca de uma sabedoria profunda, capaz de guardar e transmitir ao futuro o que é verdadeiramente essencial. Nesta perspectiva, desejo reafirmar com veemência que a arqueologia é uma componente imprescindível para a interpretação do cristianismo e, consequentemente, para a formação catequética e teológica. Não é apenas uma disciplina especializada, reservada a poucos especialistas, mas um caminho acessível a todos aqueles que desejam compreender a encarnação da fé no tempo, nos lugares e nas culturas. Para nós, cristãos, a história é um fundamento crucial, pois fazemos a peregrinação da vida no concreto da história, que é também o cenário em que se desenrola o mistério da salvação. Cada cristão é chamado a basear a sua existência numa Boa Nova que parte da Encarnação histórica do Verbo de Deus (cf. Jo 1, 14).
Como nos lembrou o amado Papa Francisco, «ninguém pode saber verdadeiramente quem é, e nem o que pretende ser amanhã, se não alimentar o laço que o liga às gerações que o precederam. E isto não se aplica somente ao nível da história do indivíduo, mas também ao nível mais amplo da história da comunidade. Com efeito, estudar e contar a história ajuda a manter acesa a chama da consciência coletiva. Caso contrário, restaria apenas a memória pessoal de eventos ligados ao próprio interesse ou às próprias emoções, sem uma verdadeira ligação com a comunidade humana e eclesial em que vivemos».[1]
A Casa da Arqueologia
Com o Motu Proprio “I primitivi cemeteri” (Os cemitérios primitivos), de 11 de dezembro de 1925, o Papa Pio XI sancionou um projeto ambicioso e visionário: a fundação de um instituto de ensino superior, ou seja, de estudos de doutoramento, que, em coordenação com a Comissão de Arqueologia Sacra e a Pontifícia Academia Romana de Arqueologia, com o máximo rigor científico, teria a tarefa de orientar os estudos sobre os monumentos do cristianismo antigo para reconstruir a vida das primeiras comunidades, formando «assim Professores de arqueologia cristã para as Universidades e Seminários, Diretores de escavações arqueológicas, Conservadores de monumentos sagrados, museus, etc.».[2] Na perspectiva de Pio XI, a arqueologia é indispensável para a reconstrução exata da história, que, como «luz da verdade e testemunha dos tempos, se consultada corretamente e examinada diligentemente»,[3] indica aos povos a fecundidade das raízes cristãs e os frutos de bem comum que podem derivar delas, dando credibilidade, deste modo, também à obra de evangelização.
Ao longo de todos estes anos, o Pontifício Instituto de Arqueologia Cristã formou centenas de arqueólogos do cristianismo antigo provenientes, tal como os próprios professores, de todas as partes do mundo, os quais, regressados aos seus países, assumiram importantes cargos de docência ou tutela; promoveu investigações em Roma e em todo o orbe cristão; desempenhou um papel eficaz, a nível internacional, na promoção da arqueologia cristã, tanto com a organização de congressos periódicos e inúmeras outras iniciativas científicas, como pelas relações estreitas e intercâmbios constantes com universidades e centros de estudo de todo o mundo.
O Instituto soube ser, em alguns momentos, promotor de paz e de diálogo religioso: por exemplo, organizando o XIII Congresso Internacional em Split durante a guerra na ex-Jugoslávia – uma escolha difícil e não consensual no meio académico –[4] ou confirmando a sua operatividade com missões estrangeiras em países politicamente instáveis. Nunca se desviou dos objetivos da formação superior, privilegiando o contato direto com as fontes escritas e os monumentos, vestígios visíveis e inequívocos das primeiras comunidades cristãs, através de visitas, sobretudo às catacumbas e igrejas de Roma, e das viagens anuais de estudo a áreas geográficas relacionadas com a difusão do cristianismo.
Quando as exigências didáticas e as solicitações externas assim o exigiram, sobretudo nos últimos anos – após a Declaração de Bolonha, assinada pela Santa Sé, para a construção de um sistema de ensino superior coerente na Europa – o Instituto atualizou as disciplinas e os percursos formativos, sem nunca se afastar dos objetivos e do espírito dos seus fundadores. Continuou a seguir os passos dos pioneiros da arqueologia cristã, especialmente Giovanni Battista de Rossi, «estudioso incansável, que assentou as bases de uma disciplina científica».[5] A ele se deve, na segunda metade do século XIX, a descoberta da maior parte dos cemitérios cristãos ao redor das muralhas de Roma, bem como o estudo dos santuários dos mártires das perseguições – especialmente as de Décio, Valeriano e Diocleciano – e do seu desenvolvimento desde a época de Constantino, focos de uma peregrinação cada vez mais florescente até a alta Idade Média.
Tudo isto foi um serviço prestado à Igreja, que pôde contar com o Instituto como promotor do conhecimento sobre os testemunhos materiais do cristianismo das origens e sobre os mártires, que ainda hoje representam exemplos de uma fé brilhante e corajosa. O serviço do Instituto foi também prático, uma vez que interveio na escavação – empreendida pela Fábrica de São Pedro – do túmulo do Apóstolo Pedro sob o Altar da Confissão da Basílica Vaticana e, mais recentemente, nas investigações dos Museus Vaticanos junto de São Paulo Extramuros.
A Arqueologia como escola de encarnação
Hoje somos chamados a perguntar-nos: em que sentido pode ainda ser proveitoso, na era da inteligência artificial e das investigações nas infinitas galáxias do universo, o papel da arqueologia cristã na sociedade e para a Igreja?
O cristianismo não nasceu de uma ideia, mas de uma carne. Não de um conceito abstrato, mas de um ventre, de um corpo, de um túmulo. A fé cristã, na sua essência mais autêntica, é histórica: baseia-se em acontecimentos concretos, em rostos, em gestos, em palavras pronunciadas numa língua, numa época, num ambiente.[6] É isso que a arqueologia torna evidente, palpável. Ela recorda-nos que Deus escolheu falar numa língua humana, caminhar sobre a terra, habitar lugares, casas, sinagogas, ruas.
Não se pode compreender plenamente a teologia cristã sem a inteligência dos lugares e dos vestígios materiais que testemunham a fé dos primeiros séculos. Não é por acaso que o evangelista João abre a sua Primeira Carta com uma espécie de declaração sensorial: «o que ouvimos, o que vimos com os nossos olhos, o que contemplámos e as nossas mãos tocaram relativamente ao Verbo da Vida» (1 Jo 1, 1). A arqueologia cristã é, em certo sentido, uma resposta fiel a estas palavras e quer tocar, ver, ouvir o Verbo que se fez carne. Não para se deter no que é visível, mas para se deixar conduzir ao Mistério que ali se esconde.
A arqueologia, ocupando-se dos vestígios materiais da fé, educa para uma teologia dos sentidos: uma teologia que sabe ver, tocar, sentir o cheiro, ouvir. A arqueologia cristã educa para essa sensibilidade. Escavando entre as pedras, entre as ruínas, entre os objetos, ela nos ensina que nada do que foi tocado pela fé é insignificante. Mesmo um fragmento de mosaico, uma inscrição esquecida, um grafite numa das paredes das catacumbas podem contar a biografia da fé. Nesse sentido, a arqueologia é também uma escola de humildade: ensina a não desprezar o que é pequeno, o que é aparentemente secundário. Ensina a ler os sinais, a interpretar o silêncio e o enigma das coisas, a intuir o que já não está escrito. É uma ciência limítrofe, que se situa entre a história e a fé, entre a matéria e o Espírito, entre o antigo e o eterno.
Vivemos numa época em que o uso e o consumo prevaleceram sobre a preservação e o respeito. A arqueologia, por outro lado, ensina-nos que mesmo o menor testemunho merece atenção, que cada vestígio tem valor, que nada pode ser descartado. Neste sentido, é uma escola de sustentabilidade cultural e de ecologia espiritual. É uma educação para o respeito pela matéria, pela memória, pela história. O arqueólogo não descarta nada, mas conserva. Não consome, mas contempla. Não destrói, mas decifra. O seu olhar é paciente, preciso, respeitoso. É o olhar que sabe captar num pedaço de cerâmica, numa moeda corroída, numa gravura desgastada o sopro de uma época, o sentido de uma fé, o silêncio de uma oração. É um olhar que pode ensinar muito também à pastoral e à catequese de hoje.
Por outro lado, os instrumentos tecnológicos mais modernos permitem obter novas informações a partir de achados outrora considerados insignificantes. Isto lembra-nos que nada é realmente inútil ou está perdido. Mesmo o que parece marginal pode, à luz de novas perguntas e novos métodos, restituir significados profundos. A arqueologia, neste sentido, é também uma escola de esperança.
Nas Normas para a aplicação da Constituição Apostólica Veritatis gaudium afirma-se que a Arqueologia, junto à História da Igreja e à Patrologia, deve fazer parte das disciplinas fundamentais para a formação teológica.[7] Não se trata, portanto, de um acréscimo acessório, mas de um princípio pedagógico profundo: quem estuda teologia deve saber de onde vem a Igreja, como ela viveu, quais formas a fé assumiu ao longo dos séculos. A arqueologia não nos fala apenas de coisas, mas de pessoas: das suas casas, dos seus túmulos, das suas igrejas, das suas orações. Fala-nos da vida quotidiana dos primeiros cristãos, dos locais de culto, das formas de evangelização. Fala-nos de como a fé moldou espaços, cidades, paisagens, mentalidades. E ajuda-nos a compreender como a revelação se encarnou na história, como o Evangelho encontrou palavras e formas dentro das culturas. Uma teologia que ignora a arqueologia corre o risco de se tornar desencarnada, abstrata, ideológica. Pelo contrário, uma teologia que acolhe a arqueologia como aliada é uma teologia que escuta o corpo da Igreja, que questiona as suas feridas, que lê os seus sinais, que se deixa tocar pela sua história.
A profissão arqueológica é, em grande parte, uma profissão “palpável”. Os arqueólogos são os primeiros a tocar, após séculos, uma matéria enterrada que conserva a energia do tempo. Mas a tarefa do arqueólogo cristão não se limita à matéria, vai mais além, chega ao humano. Não estuda apenas os achados, mas também as mãos que os forjaram, as mentes que os conceberam, os corações que os amaram. Por trás de cada objeto há uma pessoa, uma alma, uma comunidade. Por trás de cada ruína, um sonho de fé, uma liturgia, uma relação. A arqueologia cristã, então, é também uma forma de caridade: é uma maneira de fazer falar os silêncios da história, de devolver a dignidade àqueles que foram esquecidos, de trazer à luz a santidade anónima de tantos fiéis que fizeram a Igreja.
Uma memória para evangelizar
Desde as origens do cristianismo, a memória tem desempenhado um papel fundamental na evangelização. Não se trata de uma simples lembrança, mas de uma reatualização viva da salvação. As primeiras comunidades cristãs guardavam, junto às palavras de Jesus, também os lugares, os objetos, os sinais da sua presença. O túmulo vazio, a casa de Pedro em Cafarnaum, os túmulos dos mártires, as catacumbas romanas: tudo contribuía para testemunhar que Deus tinha realmente entrado na história e que a fé não era uma filosofia, mas um caminho concreto na carne do mundo.
O Papa Francisco escreveu que, nos percursos das catacumbas, «encontram-se os numerosos sinais da peregrinação cristã das origens: penso, por exemplo, nos importantíssimos graffitis da chamada triclia das catacumbas de São Sebastião, a Memoria Apostolorum, onde se veneravam juntas as relíquias dos apóstolos Pedro e Paulo. Descobrimos então, nestes percursos, os símbolos e as representações cristãs mais antigas, que testemunham a esperança cristã. Nas catacumbas, tudo fala de esperança, tudo: fala da vida após a morte, da libertação dos perigos e da própria morte pela obra de Deus, que em Cristo, o Bom Pastor, nos chama a participar da bem-aventurança do Paraíso, evocada com figuras de plantas exuberantes, flores, prados verdejantes, pavões e pombas, ovelhas a pastar... Tudo fala de esperança e de vida!».[8]
Esta é ainda hoje a tarefa da arqueologia cristã: ajudar a Igreja a recordar a sua origem, a guardar viva a memória dos seus primórdios, a narrar a história da salvação não só com palavras, mas também com imagens, formas, espaços. Numa época que muitas vezes perde as raízes, a arqueologia torna-se assim um instrumento precioso de uma evangelização que parte da verdade da história para abrir à esperança cristã e à novidade do Espírito.
A arqueologia cristã faz-nos ver como o Evangelho foi acolhido, interpretado e celebrado em diferentes contextos culturais; mostra-nos como a fé moldou o quotidiano, a cidade, a arte, o tempo. E convida-nos a continuar este processo de inculturação, para que o Evangelho possa ainda hoje encontrar acolhimento nos corações e nas culturas do mundo contemporâneo. Nesse sentido, não olha apenas para o passado: fala ao presente e orienta para o futuro. Fala aos fiéis, que redescobrem as raízes da sua fé; mas fala também aos que estão distantes, aos que não creem, àqueles que se interrogam sobre o sentido da vida e encontram, no silêncio dos túmulos e na beleza das basílicas paleocristãs, um eco da eternidade. Fala aos jovens, que muitas vezes procuram autenticidade e concretude; fala aos estudiosos, que veem na fé não uma abstração, mas uma realidade historicamente documentada; fala aos peregrinos, que reencontram nas catacumbas e nos santuários o sentido do caminho e o convite à oração pela Igreja.
Numa época em que a Igreja é chamada a abrir-se às periferias – geográficas e existenciais –, a arqueologia pode ser um poderoso instrumento de diálogo; pode contribuir para criar pontes entre mundos distantes, entre culturas diferentes, entre gerações; pode testemunhar que a fé cristã nunca foi uma realidade fechada, mas uma força dinâmica, capaz de penetrar nos tecidos mais profundos da história humana.
Saber ver mais além: a Igreja entre tempo e eternidade
A grandeza da missão arqueológica também se mede pela capacidade de situar a Igreja na tensão entre o tempo e a eternidade. Cada achado, cada fragmento trazido à luz diz-nos que o cristianismo não é uma ideia suspensa, mas um corpo que viveu, que celebrou, que habitou o espaço e o tempo. A fé não está fora do mundo, mas no mundo. Não está contra a história, mas dentro da história.
No entanto, a arqueologia não se limita a descrever a materialidade das coisas. Ela leva-nos mais além: faz-nos intuir a força de uma existência que transcende os séculos, que não se esgota na matéria, mas a ultrapassa. Assim, por exemplo, na leitura dos túmulos cristãos, além da morte, vemos a espera pela ressurreição; na disposição das absides, além de um cálculo arquitetónico, percebemos a orientação para Cristo; nos vestígios do culto, além de um ritual, reconhecemos o anseio pelo Mistério.
Numa perspectiva mais sistemática, é possível afirmar que a arqueologia tem uma relevância específica também na teologia da Revelação. Deus falou ao longo do tempo, através de eventos e pessoas. Falou na história de Israel, na vida de Jesus, no caminho da Igreja. A Revelação é, portanto, sempre também histórica. Mas, se assim é, então a compreensão da Revelação não pode prescindir de um conhecimento adequado dos contextos históricos, culturais e materiais em que ela se realizou. A arqueologia cristã contribui para esse conhecimento. Ela ilumina os textos com testemunhos materiais. Interroga as fontes escritas, completa-as, problematiza-as. Em alguns casos, confirma a autenticidade das tradições; noutros, recoloca-as no seu contexto correto; noutros ainda, abre novas questões. Tudo isto é teologicamente relevante. Porque uma teologia que queira ser fiel à Revelação deve permanecer aberta à complexidade da história.
Além disso, a arqueologia mostra como o cristianismo se articulou progressivamente ao longo do tempo, enfrentando desafios, conflitos, crises, momentos de esplendor e obscuridade. Isto ajuda a teologia a abandonar visões idealizadas ou lineares do passado e a entrar na verdade do real: uma verdade feita de grandeza e limites, de santidade e fragilidade, de continuidade e ruptura. É precisamente nesta história real, concreta, muitas vezes contraditória, que Deus quis manifestar-se.
Não é por acaso que cada aprofundamento do mistério da Igreja seja acompanhado por um retorno às origens. Não se trata de um mero desejo de restauração, mas de uma busca de autenticidade. A Igreja desperta e renova-se quando volta a questionar-se sobre o que a fez nascer, sobre o que a define profundamente. A arqueologia cristã pode oferecer um grande contributo neste sentido. Ela ajuda-nos a distinguir o essencial do secundário, o núcleo original das camadas externas incrustradas pela história.
Mas atenção: não se trata de uma operação que reduz a vida eclesial a um culto do passado. A verdadeira arqueologia cristã não é conservação estéril, mas memória viva. É a capacidade de levar o passado a falar ao presente. É a sabedoria ao discernir o que o Espírito Santo suscitou na história. É fidelidade criativa, não imitação mecânica. Por esta razão, a arqueologia cristã pode oferecer uma linguagem comum, uma base partilhada, uma memória reconciliada. Pode ajudar a reconhecer a pluralidade das experiências eclesiais, a variedade das formas, a unidade na diversidade. E pode tornar-se um lugar de escuta, um espaço de diálogo, um instrumento de discernimento.
O valor da comunhão académica
Quando, em 1925, Pio XI quis instituir o Pontifício Instituto de Arqueologia Cristã, fê-lo apesar das dificuldades económicas e do clima incerto do pós-guerra. Fê-lo com coragem, com visão, com confiança na ciência e na fé. Hoje, cem anos depois, esse gesto interpela-nos, perguntando-nos se também nós somos capazes de acreditar na força do estudo, da formação, da memória; se estamos dispostos a investir na cultura apesar da crise, a promover o conhecimento apesar da indiferença, a defender a beleza mesmo quando ela parece secundária. Ser fiel ao espírito dos fundadores significa não apenas contentar-se com o que já foi feito, mas inovar. Significa formar pessoas capazes de pensar, questionar, discernir, narrar. Significa não se fechar num conhecimento elitista, mas partilhar, divulgar, envolver.
Neste centenário, desejo também reiterar a importância da comunhão entre as diferentes instituições que se ocupam de arqueologia. A Pontifícia Academia Romana de Arqueologia, a Pontifícia Comissão para a Arqueologia Sacra, a Pontifícia Academia Cultorum Martyrum, o Pontifício Instituto de Arqueologia Cristã: cada uma com a sua especificidade, todas partilham a mesma missão. É necessário que elas colaborem, dialoguem, se apoiem. Que estabeleçam sinergias, elaborem projetos comuns, promovam redes internacionais.
A arqueologia cristã não é uma reserva para poucos, mas um recurso para todos. Ela pode oferecer um contributo original ao conhecimento da humanidade, ao respeito pela diversidade, à promoção da cultura.
Também a relação com o Oriente cristão pode encontrar na arqueologia um terreno fértil. Catacumbas comuns, igrejas partilhadas, práticas litúrgicas análogas, martirológios convergentes: tudo isto constitui um património espiritual e cultural a valorizar em conjunto.
Educar para a memória, guardar a esperança
Vivemos num mundo que tende a esquecer, que corre rápido, que consome imagens e palavras sem sedimentar sentido. A Igreja, ao contrário, é chamada a educar para a memória, e a arqueologia cristã é um dos seus instrumentos mais nobres para o fazer. Não para se refugiar no passado, mas para habitar o presente com consciência e construir o futuro com raízes.
Quem conhece a sua história conhece-se a si mesmo e sabe para onde vai. Sabe de quem é filho e qual a esperança a que é chamado. Os cristãos não são órfãos: têm uma genealogia de fé, uma tradição viva, uma comunhão de testemunhas. A arqueologia cristã torna visível esta genealogia, guarda os seus sinais, interpreta-os, conta-os, transmite-os. Nesse sentido, ela é também um ministério de esperança porque mostra que a fé já atravessou épocas difíceis, resistindo a perseguições, crises e mudanças. Soube renovar-se, reinventar-se, enraizar-se em novos povos, florescer em novas formas. Quem estuda as origens cristãs vê que o Evangelho sempre teve uma força geradora, que a Igreja sempre renasceu, que a esperança nunca falhou.
Dirijo-me aos Bispos e aos responsáveis pela cultura e pela educação: encorajai os jovens, leigos e sacerdotes, a estudar arqueologia, que oferece tantas perspectivas formativas e profissionais dentro das instituições eclesiásticas e civis, no mundo académico e social, nos campos da cultura e da conservação.
Por fim, dirijo-me a vós, irmãos e irmãs, estudiosos, professores, alunos, investigadores, agentes dos bens culturais, responsáveis eclesiásticos e leigos: o vosso trabalho é precioso. Não vos deixeis desanimar pelas dificuldades. A arqueologia cristã é um serviço, é uma vocação, é uma forma de amor à Igreja e à humanidade. Continuai a escavar, a estudar, a ensinar, a contar. Sede incansáveis na busca, rigorosos na análise, apaixonados na transmissão. E, acima de tudo, sede fiéis ao sentido profundo do vosso compromisso: tornar visível o Verbo da vida, testemunhar que Deus encarnou, que a salvação deixou marcas, que o Mistério se tornou narrativa histórica.
Que a bênção do Senhor acompanhe todos vós. Que a comunhão da Igreja vos sustente. Que a luz do Espírito Santo, que é memória viva e criatividade inesgotável, vos inspire. E que a Virgem Maria, que soube meditar tudo no seu coração, unindo o passado e o futuro no olhar da fé, vos proteja.
Vaticano, 11 de dezembro de 2025
LEÃO PP. XIV
_________________
[1] Francisco, Carta sobre a renovação do estudo da História da Igreja (21 de novembro de 2024): AAS 116 (2024), 1590.
[2] Regulamento do Pontifício Instituto de Arqueologia Cristã, (11 de dezembro de 1925), art.1: Rivista di Archeologia Cristiana della Pontificia Commissione di archeologia sacra, 3 (1926), 21.
[3] Pio XI, Carta enc. Lux Veritatis (25 de dezembro de 1931), Prólogo: AAS 23 (1931), 493.
[4] Cf. P. Saint-Roch, Discours inaugural: N. Cambi – E. Marin (eds.), Acta XIII Congressus Internationalis Archaeologiae Christianae, I, Cidade do Vaticano 1998, 66-67.
[5] Francisco, Carta ao Cardeal Gianfranco Ravasi por ocasião da XXV Sessão pública das Pontifícias Academias (1º de fevereiro de 2022): AAS 114 (2022), 211.
[6] Por exemplo, no Credo temos a referência a Pôncio Pilatos, uma figura histórica, que permite datar os eventos recordados.
[7] Congregação para a Educação Católica, Normas para a fiel aplicação da Const. Ap. Veritatis gaudium. (27 de dezembro de 2017), art. 55, § 1º, b: AAS 110 (2018), 149.
[8] Francisco, Discurso aos participantes na Plenária da Pontifícia Comissão para a Arqueologia Sacra (17 de maio de 2024): AAS 116 (2024), 697-698.
[01765-PO.01] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua polacca
LIST APOSTOLSKI
OJCA ŚWIĘTEGO LEONA XIV
O ZNACZENIU ARCHEOLOGII
Z OKAZJI STULECIA
PAPIESKIEGO INSTYTUTU ARCHEOLOGII CHRZEŚCIJAŃSKIEJ
W stulecie powstania Papieskiego Instytutu Archeologii Chrześcijańskiej odczuwam zobowiązanie i radość podzielenia się kilkoma refleksjami, które uważam za ważne dla wędrówki Kościoła w dzisiejszych czasach. Czynię to z wdzięcznością w sercu, świadomy, że pamięć o przeszłości, oświecona wiarą i oczyszczona miłością, jest pokarmem nadziei.
W 1925 r. ogłoszony został „Jubileusz pokoju”, mający na celu złagodzenie okrutnych ran pierwszej wojny światowej. Znaczące jest to, że setna rocznica powstania Instytutu zbiega się z nowym Jubileuszem, który również dzisiaj chce roztaczać przed ludzkością, dotkniętą licznymi wojnami, perspektywy nadziei.
Obecne dzieje, naznaczone gwałtownymi zmianami, kryzysami humanitarnymi i przemianami kulturowymi, oprócz sięgania po dawną i nową wiedzę, wymagają również poszukiwania głębokiej mądrości, zdolnej uchronić i przekazać przyszłym pokoleniom to, co naprawdę istotne. W tej perspektywie pragnę z całą mocą potwierdzić, że archeologia jest nieodłącznym elementem interpretacji chrześcijaństwa, a co za tym idzie, formacji katechetycznej i teologicznej. Nie jest to tylko dyscyplina specjalistyczna, zarezerwowana dla nielicznych ekspertów, ale jest to droga dostępna dla wszystkich, którzy chcą zrozumieć wcielenie wiary w czasie, w miejscach i w kulturach. Dla nas, chrześcijan, historia jest fundamentem decydującym: rzeczywiście, odbywamy pielgrzymkę życia w konkretności historii, będącej również scenografią, w której rozgrywa się tajemnica zbawienia. Każdy chrześcijanin jest wezwany do oparcia własnego życia na Dobrej Nowinie, która wywodzi się z historycznego Wcielenia Słowa Bożego (por. J 1, 14).
Jak przypomniał nam umiłowany Papież Franciszek: „Nikt nie może naprawdę wiedzieć, kim jest i kim zamierza być jutro, bez pielęgnowania więzi łączącej go z pokoleniami, które go poprzedziły. Dotyczy to nie tylko poziomu losów poszczególnych osób, ale także szerszego poziomu wspólnoty. Studiowanie i opowiadanie historii pomaga bowiem podtrzymywać «płomień zbiorowej świadomości». W przeciwnym razie pozostaje tylko osobista pamięć o faktach związanych z własnymi zainteresowaniami lub emocjami, bez prawdziwej więzi ze wspólnotą ludzką i kościelną, w której się znajdujemy i żyjemy”[1].
Dom archeologii
W Motu proprio „I primitivi cemeteri”, z 11 grudnia 1925 r., Papież Pius XI zaaprobował ambitny i dalekosiężny projekt: utworzenie instytutu szkolnictwa wyższego, tj. doktoranckiego, który we współpracy z Komisją Archeologii Sakralnej i Papieską Rzymską Akademią Archeologii miałby za zadanie prowadzić, z zachowaniem najwyższej rygorystyczności naukowej, badania nad zabytkami starożytnego chrześcijaństwa w celu odtworzenia życia pierwszych wspólnot, kształcąc „w ten sposób profesorów archeologii chrześcijańskiej dla uniwersytetów i seminariów, dyrektorów wykopalisk starożytnych, konserwatorów zabytków sakralnych, muzeów itp.”[2]. W wizji Piusa XI archeologia jest nieodzownym elementem dokładnej rekonstrukcji historii, która jako „światło prawdy i świadectwo czasów, jeśli jest właściwie badana i starannie rozważana”[3], wskazuje narodom owocność chrześcijańskich korzeni i owoce dobra wspólnego, jakie mogą z nich wyniknąć, potwierdzając w ten sposób również dzieło ewangelizacji.
Przez wszystkie te lata, Papieski Instytut Archeologii Chrześcijańskiej uformował setki archeologów zajmujących się starożytnym chrześcijaństwem, pochodzących, podobnie jak sami profesorowie, ze wszystkich części świata, którzy po powrocie do swoich krajów objęli ważne stanowiska dydaktyczne lub konserwatorskie; [Instytut] promował badania w Rzymie i na całym świecie chrześcijańskim; odegrał skuteczną rolę międzynarodową w promowaniu archeologii chrześcijańskiej, zarówno poprzez organizację cyklicznych kongresów i licznych innych inicjatyw naukowych, jak i poprzez ścisłe relacje i stałą wymianę z uniwersytetami i ośrodkami badawczymi na całym świecie.
W niektórych momentach Instytut potrafił być promotorem pokoju i dialogu religijnego, na przykład organizując XIII Międzynarodowy Kongres w Splicie podczas wojny w byłej Jugosławii – co było trudną decyzją i spotkało się z wieloma sprzeciwami w środowisku akademickim[4] – lub potwierdzając swoją skuteczność poprzez misje zagraniczne w krajach niestabilnych politycznie. Nigdy nie odstąpił od celów wysokiego poziomu kształcenia, preferując bezpośredni kontakt ze źródłami pisanymi i zabytkami, widocznymi i jednoznacznymi śladami pierwszych wspólnot chrześcijańskich, poprzez wizyty, zwłaszcza w katakumbach i w kościołach Rzymu, oraz coroczne wyjazdy studyjne do obszarów geograficznych związanych z rozprzestrzenianiem się chrześcijaństwa.
Kiedy wymagały tego potrzeby dydaktyki i zalecenia zewnętrzne – zwłaszcza w ostatnich latach wraz z Procesem Bolońskim, podpisanym przez Stolicę Apostolską, mającym na celu stworzenie spójnego systemu szkolnictwa wyższego w Europie – Instytut zaktualizował dyscypliny i ścieżki kształcenia, nie odbiegając jednak od celów i ducha swoich założycieli. Nadal podążał on śladami pionierów archeologii chrześcijańskiej, zwłaszcza Giovanniego Battisty de Rossiego, „niestrudzonego badacza, który położył podwaliny pod dyscyplinę naukową”[5]. To jemu zawdzięczamy odkrycie w drugiej połowie XIX w. większości cmentarzy chrześcijańskich wokół murów Rzymu, a także studium nad sanktuariami męczenników prześladowań, zwłaszcza za czasów Decjusza, Waleriana i Dioklecjana, oraz nad rozwojem tych sanktuariów od czasów Konstantyna, które przyciągały coraz bardziej rozkwitające pielgrzymki aż do wczesnego średniowiecza.
Była to posługa na rzecz Kościoła, który mógł liczyć na Instytut jako na promotora wiedzy o materialnych świadectwach wczesnego chrześcijaństwa, o męczennikach, którzy do dziś stanowią przykład olśniewającej i odważnej wiary. Służba Instytutu miała również charakter praktyczny, ponieważ uczestniczył on w wykopaliskach – podjętych przez Fabrykę św. Piotra – prowadzonych przy grobie Apostoła Piotra pod Ołtarzem Konfesji w Bazylice Watykańskiej, a ostatnio w badaniach Muzeów Watykańskich przy Bazylice Świętego Pawła za Murami.
Archeologia jako szkoła wcielenia
Dzisiaj jesteśmy wezwani do zadania sobie pytania: na ile w epoce sztucznej inteligencji i badań nad nieskończonymi galaktykami wszechświata rola archeologii chrześcijańskiej może być nadal owocna dla społeczeństwa i Kościoła?
Chrześcijaństwo nie zrodziło się z idei, ale z ciała. Nie z abstrakcyjnej koncepcji, ale z łona, z ciała, z grobu. Wiara chrześcijańska, w swoim najgłębszym sensie, jest historyczna: opiera się na konkretnych wydarzeniach, twarzach, gestach, słowach wypowiedzianych w danym języku, w pewnej epoce, w określonym środowisku[6]. To właśnie archeologia uwidacznia, czyni namacalnym. Przypomina nam, że Bóg zdecydował się mówić ludzkim językiem, chodzić po ziemi, zamieszkiwać różne miejsca, domy, synagogi, ulice.
Nie można w pełni zrozumieć chrześcijańskiej teologii bez świadomości miejsc i materialnych śladów, świadczących o wierze pierwszych wieków. Nie jest przypadkiem, że Ewangelista Jan rozpoczyna swój Pierwszy List od pewnego oświadczenia dotyczącego zmysłów: „[To wam oznajmiamy], cośmy usłyszeli o Słowie życia, co ujrzeliśmy własnymi oczami, na co patrzyliśmy i czego dotykały nasze ręce” (1J 1, 1). Archeologia chrześcijańska jest w pewnym sensie wierną odpowiedzią na te słowa. Chce dotknąć, zobaczyć, usłyszeć Słowo, które stało się Ciałem. Nie po to, aby zatrzymać się na tym, co widzialne, ale aby dać się poprowadzić do Tajemnicy, która się za tym kryje.
Zajmując się materialnymi śladami wiary, archeologia wychowuje do teologii zmysłów: teologii, która potrafi dostrzec, dotknąć, poczuć zapach, usłyszeć. Archeologia chrześcijańska wychowuje do takiej wrażliwości. Drążąc wśród kamieni, ruin i innych obiektów, uczy nas, że nic, co zostało dotknięte przez wiarę, nie jest pozbawione znaczenia. Nawet fragment mozaiki, zapomniana inskrypcja, graffiti na ścianie katakumb mogą opowiadać biografię wiary. W tym sensie archeologia jest również szkołą pokory: uczy nie pogardzać tym, co małe, co pozornie jest drugorzędne. Uczy odczytywać znaki, interpretować milczenie i zagadkę rzeczy, intuicyjnie rozumieć to, co nie jest już zapisane. Jest nauką stojącą na progu, pomiędzy historią a wiarą, między materią a Duchem, między tym, co starożytne, a tym, co wieczne.
Żyjemy w epoce, w której użytkowanie i konsumpcja przeważyły nad troską i szacunkiem. Archeologia natomiast uczy nas, że nawet najmniejsze świadectwo zasługuje na uwagę, że każdy ślad ma wartość, że nic nie powinno być odrzucone. W tym sensie, jest ona szkołą zrównoważonego rozwoju kulturowego i ekologii duchowej. Jest ona wychowaniem do szacunku dla materii, pamięci, historii. Archeolog nie unicestwia, ale zachowuje. Nie konsumuje, lecz kontempluje. Nie niszczy, a rozszyfrowuje. Jego spojrzenie jest cierpliwe, precyzyjne, pełne szacunku. Jest to spojrzenie, które potrafi dostrzec w kawałku ceramiki, w skorodowanej monecie, w zniszczonej rycinie oddech epoki, sens wiary, ciszę modlitwy. Jest to takie spojrzenie, które może wiele nauczyć również współczesne duszpasterstwo i katechezę.
Z drugiej strony, najnowocześniejsze narzędzia technologiczne pozwalają uzyskać nowe informacje ze znalezisk, które niegdyś uważano za pozbawione znaczenia. Przypomina nam to, że nic nie jest naprawdę bezużyteczne lub stracone. Nawet to, co wydaje się marginalne, może – w świetle nowych pytań i nowych metod – przywrócić głębokie znaczenia. Archeologia jest pod tym względem również szkołą nadziei.
W Zarządzeniach wykonawczych do Konstytucji apostolskiej Veritatis gaudium stwierdza się, że archeologia, wraz z historią Kościoła i patrologią, musi stanowić część podstawowych dyscyplin kształcenia teologicznego[7]. Nie chodzi tu zatem o dodatkowy element, ale o głęboką zasadę pedagogiczną: kto studiuje teologię, musi wiedzieć, skąd pochodzi Kościół, jak żył, jakie formy wiara przybierała na przestrzeni wieków. Archeologia nie mówi nam tylko o przedmiotach, ale także o ludziach: o ich domach, grobach, o ich kościołach, o ich modlitwach. Opowiada nam o codziennym życiu pierwszych chrześcijan, miejscach kultu, formach głoszenia. Opowiada nam o tym, w jaki sposób wiara ukształtowała przestrzenie, miasta, krajobrazy, mentalność. Pomaga nam zrozumieć, w jaki sposób Objawienie wcieliło się w historię, jak Ewangelia znalazła słowa i formy w kulturach. Teologia, która ignoruje archeologię, ryzykuje, że stanie się bezcielesna, abstrakcyjna, ideologiczna. Przeciwnie, teologia, która przyjmuje archeologię jako sojusznika, jest teologią, słuchającą ciała Kościoła, pytającą o jego rany, odczytującą jego znaki, pozwalającą się wzruszyć jego historią.
Zawód archeologa jest w dużej mierze profesją „dotykową”. Archeolodzy są pierwszymi, którzy po wiekach dotykają zakopanej materii, zachowującej energię czasu. Jednak zadanie archeologa chrześcijańskiego nie ogranicza się do materii, wykracza poza nią, aż do tego, co ludzkie. Nie bada on tylko znalezisk, ale także ręce, które je ukształtowały, umysły, które je odkryły, serca, które je pokochały. Za każdym przedmiotem znajduje się osoba, dusza, społeczność. Za każdą ruiną kryje się marzenie o wierze, liturgia, relacja. Archeologia chrześcijańska jest zatem również formą miłosierdzia: jest sposobem na to, aby przemówiły milczące karty historii, aby przywrócić godność tym, którzy zostali zapomniani, aby wydobyć na światło dzienne anonimową świętość wielu wiernych, którzy stanowili Kościół.
Pamięć dla ewangelizacji
Od początków chrześcijaństwa pamięć odgrywała fundamentalną rolę w ewangelizacji. Nie chodzi tu o zwykłe wspominanie, ale o ożywcze reaktualizowanie zbawienia. Pierwsze wspólnoty chrześcijańskie zachowywały, wraz ze słowami Jezusa, również miejsca, przedmioty i znaki Jego obecności. Pusty grób, dom Piotra w Kafarnaum, groby męczenników, rzymskie katakumby: wszystko to pozwalało świadczyć o tym, że Bóg naprawdę wszedł w historię i że wiara nie była filozofią, ale konkretną wędrówką w ciele świata.
Papież Franciszek napisał, że na szlakach katakumb „znajduje się wiele śladów pierwotnej pielgrzymki chrześcijańskiej: mam na myśli na przykład niezwykle ważne graffiti tzw. triclia w Katakumbach Świętego Sebastiana, Memoria Apostolorum, gdzie czczono relikwie Apostołów Piotra i Pawła. W tych korytarzach odkrywamy również najstarsze symbole i przedstawienia chrześcijańskie, świadczące o chrześcijańskiej nadziei. W katakumbach o nadziei mówi dosłownie wszystko: o życiu po śmierci, o wyzwoleniu od niebezpieczeństw i samej śmierci dzięki działaniu Boga, który w Chrystusie, Dobrym Pasterzu, wzywa nas do udziału w błogosławieństwie Raju, przywołanym za pomocą wizerunków bujnych roślin, kwiatów, trawiastych łąk, pawi i gołębi, pasących się owiec... Wszystko mówi o nadziei i życiu!”[8].
Takie jest również dzisiaj zadanie archeologii chrześcijańskiej: pomagać Kościołowi rozpamiętywać jego początki, zachowywać żywą pamięć o jego zaraniu, opowiadać historię zbawienia nie tylko słowami, ale także za pomocą obrazów, form i przestrzeni. W czasach, w których często gubi się korzenie, archeologia staje się cennym narzędziem ewangelizacji wychodzącej od prawdy historii, aby otworzyć się na chrześcijańską nadzieję i nowość Ducha.
Archeologia chrześcijańska pokazuje nam, jak Ewangelia była przyjmowana, interpretowana i celebrowana w różnych kontekstach kulturowych; uświadamia nam, jak wiara kształtowała codzienność, miasta, sztukę i czas. Zachęca nas również do kontynuowania tego procesu inkulturacji, by Ewangelia mogła nadal odnajdywać miejsce w sercach i kulturach współczesnego świata. W tym sensie, nie patrzy ona tylko w przeszłość: przemawia do teraźniejszości i kieruje na przyszłość. Przemawia do wierzących, którzy odkrywają na nowo korzenie swojej wiary, ale przemawia również do tych, którzy są daleko, do niewierzących, do tych, którzy zastanawiają się nad sensem życia i w ciszy grobów oraz w pięknie wczesnochrześcijańskich bazylik odnajdują echo wieczności. Przemawia do młodych ludzi, którzy często poszukują autentyczności i konkretności; przemawia do uczonych, widzących w wierze nie abstrakcję, ale historycznie udokumentowaną rzeczywistość; przemawia do pielgrzymów, odnajdujących w katakumbach i sanktuariach sens wędrówki i zaproszenie do modlitwy za Kościół.
W czasie, gdy Kościół jest wezwany do otwarcia się na peryferie – geograficzne i egzystencjalne – archeologia może być potężnym narzędziem dialogu; może przyczynić się do budowania mostów między odległymi światami, między różnymi kulturami, między pokoleniami; może świadczyć o tym, że wiara chrześcijańska nigdy nie była rzeczywistością zamkniętą, ale dynamiczną siłą, zdolną przenikać do najgłębszych tkanek historii ludzkości.
Umiejętność spojrzenia wykraczającego: Kościół między czasem a wiecznością
Wielkość misji archeologicznej mierzy się również zdolnością umiejscowienia Kościoła w napięciu między czasem a wiecznością. Każde znalezisko, każdy odkryty fragment mówi nam, że chrześcijaństwo nie jest ideą w zawieszeniu, ale ciałem, które żyło, świętowało, zamieszkiwało przestrzeń i czas. Wiara nie jest poza światem, ale w świecie. Nie jest przeciwna historii, ale jest w jej wnętrzu.
Niemniej jednak archeologia nie ogranicza się jedynie do opisywania materialności rzeczy. Prowadzi nas dalej: pozwala nam wyobrazić sobie siłę istnienia, które wykracza poza wieki, które nie wyczerpuje się w materii, ale ją przekracza. Tak więc, na przykład, interpretując chrześcijańskie pochówki, dostrzegamy coś więcej niż śmierć – oczekiwanie na zmartwychwstanie; w rozmieszczeniu absyd pojmujemy coś więcej niż tylko kalkulację architektoniczną – orientację na Chrystusa; w śladach kultu rozpoznajemy coś więcej niż rytuał – pragnienie Misterium.
W perspektywie bardziej systematycznej można stwierdzić, że archeologia ma szczególne znaczenie również w teologii Objawienia. Bóg przemówił w czasie, poprzez wydarzenia i osoby. Przemówił w historii Izraela, w wydarzeniach związanych z Jezusem, w wędrówce Kościoła. Objawienie jest zatem zawsze również historyczne. Skoro tak jest, to zrozumienie Objawienia nie może odbywać się bez odpowiedniej znajomości kontekstów historycznych, kulturowych i materialnych, w których się ono dokonało. Archeologia chrześcijańska wspomaga tę wiedzę. Oświetla teksty świadectwami materialnymi. Bada źródła pisane, uzupełnia je, poddaje analizie. W niektórych przypadkach potwierdza autentyczność tradycji, w innych umieszcza je we właściwym kontekście, a w jeszcze innych otwiera nowe pytania. Wszystko to jest istotne z teologicznego punktu widzenia. Teologia, która chce być wierna Objawieniu, musi bowiem pozostać otwarta na złożoność historii.
Archeologia pokazuje ponadto, w jaki sposób chrześcijaństwo kształtowało się stopniowo na przestrzeni czasu, mierząc się z wyzwaniami, konfliktami, kryzysami, momentami świetności i ciemności. Pomaga to teologii porzucić idealizowane lub linearne wizje przeszłości i wkroczyć w prawdę rzeczywistości: prawdę złożoną z wielkości i ograniczeń, świętości i kruchości, ciągłości i zerwania. I właśnie w tej prawdziwej, konkretnej, często sprzecznej historii, chciał objawić się Bóg.
Nie jest przypadkiem, że każdemu pogłębieniu tajemnicy Kościoła towarzyszy powrót do początków. Nie wynika to z samej chęci przywracania przeszłości, ale z poszukiwania autentyczności. Kościół budzi się i odnawia, gdy ponownie zadaje sobie pytanie o to, co go zrodziło, co głęboko go definiuje. Archeologia chrześcijańska może wnieść w tym zakresie ogromny wkład. Pomaga nam odróżnić to, co istotne, od tego, co drugorzędne, pierwotny rdzeń od naleciałości historii.
Jednakże ostrożnie: nie jest to działanie, które sprowadza życie kościelne do kultu przeszłości. Prawdziwa archeologia chrześcijańska nie jest bezpłodną konserwacją, ale żywą pamięcią. Jest to zdolność do przemawiania poprzez przeszłość do teraźniejszości. Jest to mądrość w rozeznawaniu tego, co Duch Święty wzbudził w historii. Jest to twórcza wierność, a nie mechaniczna imitacja. Z tego powodu archeologia chrześcijańska może zaoferować wspólny język, wspólną podstawę, pojednaną pamięć. Może pomóc w rozpoznaniu rozmaitości doświadczeń kościelnych, wielości form, jedności w różnorodności. Może stać się miejscem słuchania, przestrzenią dialogu, narzędziem rozeznawania.
Wartość wspólnoty akademickiej
Kiedy w 1925 r. Pius XI postanowił założyć Papieski Instytut Archeologii Chrześcijańskiej, uczynił to pomimo trudności ekonomicznych i niepewnej sytuacji powojennej. Dokonał tego z odwagą, dalekowzrocznością i zaufaniem do nauki i wiary. Dzisiaj, sto lat później, ten gest stanowi dla nas wyzwanie. Wzywa nas do zastanowienia się, czy my również potrafimy wierzyć w siłę studium, formacji, pamięci; pyta nas, czy jesteśmy gotowi, pomimo kryzysu, inwestować w kulturę, pomimo obojętności promować wiedzę, bronić piękna, nawet gdy wydaje się ono marginalne. Bycie wiernym duchowi założycieli oznacza niezadowalanie się tym, co już zostało zrobione, ale ponawianie wysiłków. Oznacza kształcenie ludzi zdolnych do myślenia, zadawania pytań, rozeznawania, opowiadania. Oznacza niezamykanie się w elitarnej wiedzy, ale dzielenie się nią, rozpowszechnianie jej, angażowanie innych.
Z okazji tej setnej rocznicy pragnę również podkreślić znaczenie współpracy między różnymi instytucjami zajmującymi się archeologią. Papieska Rzymska Akademia Archeologii, Papieska Komisja Archeologii Sakralnej, Papieska Akademia Cultorum Martyrum, Papieski Instytut Archeologii Chrześcijańskiej – każda z tych instytucji ma swoją specyfikę, ale wszystkie mają tę samą misję. Jest konieczne, aby współpracowały, prowadziły dyskusje, wspierały się nawzajem. Aby tworzyły synergie, opracowywały wspólne projekty, promowały międzynarodowe sieci.
Archeologia chrześcijańska nie jest zarezerwowana dla nielicznych, ale stanowi ona zasób dla wszystkich. Może wnieść oryginalny wkład w poznanie ludzkości, poszanowanie różnorodności i promowanie kultury.
Również relacje ze Wschodem chrześcijańskim mogą znaleźć podatny grunt przy wykorzystaniu archeologii. Wspólne katakumby, współdzielone kościoły, podobne praktyki liturgiczne, zbieżne martyrologia: wszystko to stanowi duchowe i kulturowe dziedzictwo, które należy wspólnie docenić.
Wychowywać do pamięci, pielęgnować nadzieję
Żyjemy w świecie, który ma skłonność do zapominania, który pędzi naprzód, który konsumuje obrazy i słowa bez osadzania ich w sensie. Kościół natomiast jest powołany do wychowania do pamięci, a archeologia chrześcijańska jest jednym z jego najszlachetniejszych narzędzi służących temu celowi. Nie po to, aby uciekać się do przeszłości, ale aby świadomie żyć teraźniejszością, by budować przyszłość opartą na korzeniach.
Kto zna własną historię, wie, kim jest. Wie, dokąd zmierza. Wie, czyim jest dzieckiem i do jakiej nadziei jest powołany. Chrześcijanie nie są sierotami: mają genealogię wiary, żywą tradycję, wspólnotę świadków. Archeologia chrześcijańska uwidacznia tę genealogię, strzeże jej znaków, interpretuje je, opowiada o nich i przekazuje dalej. W tym sensie jest ona również służbą nadziei. Pokazuje bowiem, że wiara przetrwała już trudne epoki. Przetrwała prześladowania, kryzysy, zmiany. Potrafiła się odnowić, odkryć na nowo, zakorzenić się w nowych ludach, rozkwitnąć w nowych formach. Kto studiuje chrześcijańskie początki, widzi, że Ewangelia zawsze miała siłę twórczą, że Kościół zawsze odradzał się, a nadzieja nigdy nie osłabła.
***
Zwracam się do biskupów oraz osób odpowiedzialnych za kulturę i wychowanie: zachęcajcie młodych ludzi, świeckich i duchownych, do studiowania archeologii, która oferuje wiele perspektyw kształcenia i rozwoju zawodowego w instytucjach kościelnych i cywilnych, w środowisku akademickim i społecznym, w dziedzinie kultury i konserwacji.
Na koniec kieruję moje słowa do was, bracia i siostry, naukowcy, nauczyciele, studenci, badacze, pracownicy zajmujący się dziedzictwem kulturowym, odpowiedzialni za Kościół i świeccy: wasza praca jest drogocenna. Nie zniechęcajcie się trudnościami. Archeologia chrześcijańska jest służbą, powołaniem, formą miłości do Kościoła i ludzkości. Kontynuujcie wykopaliska, badania, nauczanie, opowiadanie. Bądźcie niestrudzeni w poszukiwaniach, rygorystyczni w analizach, pełni pasji w przekazywaniu wiedzy. A przede wszystkim bądźcie wierni głębokiemu sensowi waszego zaangażowania, jakim jest czynienie widzialnym Słowa życia, świadczenie o tym, że Bóg stał się Ciałem, że zbawienie pozostawiło ślady, a Tajemnica stała się historyczną narracją.
Niech towarzyszy wam wszystkim błogosławieństwo Pana. Niech wspiera was wspólnota Kościoła. Niech inspiruje was światło Ducha Świętego, które jest żywą pamięcią i niewyczerpanym źródłem kreatywności. Niech strzeże was również Maryja Panna, która potrafiła rozważać wszystko w swoim sercu, łącząc przeszłość i przyszłość spojrzeniem wiary.
Z Watykanu, 11 grudnia 2025 r.
LEON PP. XIV
________________
[1] Franciszek, Lettera sul rinnovamento dello studio della Storia della Chiesa [List o odnowie studium Historii Kościoła] (21 listopada 2024): AAS 116 (2024), 1590.
[2] Regolamento per il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana [Regulamin Papieskiego Instytutu Archeologii Chrześcijańskiej] (11 grudnia 1925), art. 1: Rivista di Archeologia Cristiana della Pontificia Commissione di archeologia sacra 3 (1926), 21.
[3] Pius XI, Enc. Lux Veritatis (25 grudnia 1931), Proemio: AAS 23 (1931), 493.
[4] Por. P. Saint-Roch, Discours inaugural: a cura di N. Cambi – E. Marin, Acta XIII Congressus Internationalis Archaeologiae Christianae, I, Città del Vaticano 1998, 66-67.
[5] Franciszek, Lettera al Cardinale Gianfranco Ravasi in occasione della XXV Seduta pubblica delle Pontificie Accademie [List do Kard. Gianfranco Ravasiego z okazji XXV Publicznej Sesji Akademii Papieskich] (1 lutego 2022): AAS 114 (2022), 211.
[6] Na przykład w Credo mamy odniesienie do Poncjusza Piłata, postaci historycznej, która pozwala datować wspominane wydarzenia.
[7] Kongregacja ds. Edukacji Katolickiej, Zarządzenia wykonawcze dla wiernej realizacji Konstytucji apostolskiej „Veritatis gaudium” (27 grudnia 2017), art. 55, 1º b: AAS 110 (2018), 149.
[8] Franciszek, Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra [Przemówienie do uczestników Posiedzenia Plenarnego Papieskiej Komisji Archeologii Sakralnej] (17 maja 2024): AAS 116 (2024), 697-698.
[01765-PL.01] [Testo originale: Italiano]
[B0975-XX.01]