Sala Stampa

www.vatican.va

Sala Stampa Back Top Print Pdf
Sala Stampa


Esortazione Apostolica “Dilexi te” del Santo Padre Leone XIV sull’amore verso i poveri, 09.10.2025


Testo in lingua italiana

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Traduzione in lingua araba

Testo in lingua italiana

ESORTAZIONE APOSTOLICA

DILEXI TE

DEL SANTO PADRE LEONE XIV

SULL’AMORE VERSO I POVERI

1. «Ti ho amato» (Ap 3,9), dice il Signore a una comunità cristiana che, a differenza di altre, non aveva alcuna rilevanza o risorsa ed era esposta alla violenza e al disprezzo: «Per quanto tu abbia poca forza […] li farò venire perché si prostrino ai tuoi piedi» (Ap 3,8-9). Questo testo richiama le parole del cantico di Maria: «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili. Ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,52-53).

2. La dichiarazione d’amore dell’Apocalisse rimanda al mistero inesauribile che Papa Francesco ha approfondito nell’Enciclica Dilexit nos sull’amore divino e umano del Cuore di Cristo. In essa abbiamo ammirato il modo in cui Gesù si identifica «con i più piccoli della società» e come, col suo amore donato sino alla fine, mostra la dignità di ogni essere umano, soprattutto quando «più è debole, misero e sofferente».[1] Contemplare l’amore di Cristo «ci aiuta a prestare maggiore attenzione alle sofferenze e ai bisogni degli altri, ci rende forti per partecipare alla sua opera di liberazione, come strumenti per la diffusione del suo amore».[2]

3. Per questa ragione, in continuità con l’Enciclica Dilexit nos, Papa Francesco stava preparando, negli ultimi mesi della sua vita, un’Esortazione apostolica sulla cura della Chiesa per i poveri e con i poveri, intitolata Dilexi te, immaginando che Cristo si rivolga ad ognuno di loro dicendo: Hai poca forza, poco potere, ma «io ti ho amato» (Ap 3,9). Avendo ricevuto come in eredità questo progetto, sono felice di farlo mio – aggiungendo alcune riflessioni – e di proporlo ancora all’inizio del mio pontificato, condividendo il desiderio dell’amato Predecessore che tutti i cristiani possano percepire il forte nesso che esiste tra l’amore di Cristo e la sua chiamata a farci vicini ai poveri. Anch’io infatti ritengo necessario insistere su questo cammino di santificazione, perché nel «richiamo a riconoscerlo nei poveri e nei sofferenti si rivela il cuore stesso di Cristo, i suoi sentimenti e le sue scelte più profonde, alle quali ogni santo cerca di conformarsi».[3]

CAPITOLO PRIMO

ALCUNE PAROLE INDISPENSABILI

4. I discepoli di Gesù criticarono la donna che aveva versato sul suo capo un olio profumato molto prezioso: «Perché questo spreco? – dicevano – Si poteva venderlo per molto denaro e darlo ai poveri!». Ma il Signore disse loro: «I poveri li avete sempre con voi, ma non sempre avete me» (Mt 26,8-9.11). Quella donna aveva compreso che Gesù era il Messia umile e sofferente su cui riversare il suo amore: che consolazione quell’unguento sul capo che da lì a qualche giorno sarebbe stato tormentato dalle spine! Era un piccolo gesto, certo, ma chi soffre sa quanto sia grande anche un piccolo gesto di affetto e quanto sollievo possa recare. Gesù lo comprende e ne sancisce la perennità: «Dovunque sarà annunciato questo Vangelo, nel mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche ciò che ella ha fatto» (Mt 26,13). La semplicità di quel gesto rivela qualcosa di grande. Nessun gesto di affetto, neanche il più piccolo, sarà dimenticato, specialmente se rivolto a chi è nel dolore, nella solitudine, nel bisogno, com’era il Signore in quell’ora.

5. Ed è proprio in tale prospettiva che l’affetto per il Signore si unisce a quello per i poveri. Quel Gesù che dice: «I poveri li avete sempre con voi» (Mt 26,11) esprime il medesimo significato quando promette ai discepoli: «Io sono con voi tutti i giorni» (Mt 28,20). E nello stesso tempo ci tornano alla mente quelle parole del Signore: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Non siamo nell’orizzonte della beneficenza, ma della Rivelazione: il contatto con chi non ha potere e grandezza è un modo fondamentale di incontro con il Signore della storia. Nei poveri Egli ha ancora qualcosa da dirci.

San Francesco

6. Papa Francesco, ricordando la scelta del proprio nome, ha raccontato che, dopo la sua elezione, un Cardinale amico lo abbracciò, lo baciò e gli disse: «Non dimenticarti dei poveri!».[4] Si tratta della stessa raccomandazione fatta a San Paolo dalle autorità della Chiesa quando salì a Gerusalemme per verificare la propria missione (cfr Gal 2,1-10). A distanza di anni, l’Apostolo può affermare: «È quello che mi sono preoccupato di fare» (Gal 2,10). Ed è stata anche la scelta di San Francesco d’Assisi: nel lebbroso fu Cristo stesso ad abbracciarlo, cambiandogli la vita. La figura luminosa del Poverello non cesserà mai di ispirarci.

7. Fu lui, otto secoli fa, a provocare una rinascita evangelica nei cristiani e nella società del suo tempo. Dapprima ricco e baldanzoso, il giovane Francesco rinacque dall’impatto con la realtà di chi è espulso dalla convivenza. La spinta da lui impressa non cessa di muovere gli animi dei credenti e di tanti non credenti e «ha cambiato la storia».[5] Lo stesso Concilio Vaticano II, come afferma San Paolo VI, si trova su questa via: «L’antica storia del buon samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio».[6] Sono convinto che la scelta prioritaria per i poveri genera un rinnovamento straordinario sia nella Chiesa che nella società, quando siamo capaci di liberarci dall’autoreferenzialità e riusciamo ad ascoltare il loro grido.

Il grido dei poveri

8. A tale riguardo c’è un testo della Sacra Scrittura dal quale occorre sempre ripartire. Si tratta della rivelazione di Dio a Mosè presso il roveto ardente: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo […] Perciò va’! Io ti mando» (Es 3,7-8.10).[7] Dio si mostra sollecito verso le necessità dei poveri: «Gridarono al Signore ed egli fece sorgere per loro un salvatore» (Gdc 3,15). Perciò, ascoltando il grido del povero, siamo chiamati a immedesimarci col cuore di Dio, che è premuroso verso le necessità dei suoi figli e specialmente dei più bisognosi. Rimanendo invece indifferenti a quel grido, il povero griderebbe al Signore contro di noi e un peccato sarebbe su di noi (cfr Dt 15,9) e ci allontaneremmo dal cuore stesso di Dio.

9. La condizione dei poveri rappresenta un grido che, nella storia dell’umanità, interpella costantemente la nostra vita, le nostre società, i sistemi politici ed economici e, non da ultimo, anche la Chiesa. Sul volto ferito dei poveri troviamo impressa la sofferenza degli innocenti e, perciò, la stessa sofferenza del Cristo. Allo stesso tempo, dovremmo parlare forse più correttamente dei numerosi volti dei poveri e della povertà, poiché si tratta di un fenomeno variegato; infatti, esistono molte forme di povertà: quella di chi non ha mezzi di sostentamento materiale, la povertà di chi è emarginato socialmente e non ha strumenti per dare voce alla propria dignità e alle proprie capacità, la povertà morale e spirituale, la povertà culturale, quella di chi si trova in una condizione di debolezza o fragilità personale o sociale, la povertà di chi non ha diritti, non ha spazio, non ha libertà.

10. In questo senso, si può dire che l’impegno a favore dei poveri e per rimuovere le cause sociali e strutturali della povertà, pur essendo diventato importante negli ultimi decenni, rimane sempre insufficiente; anche perché le società in cui viviamo spesso privilegiano criteri di orientamento dell’esistenza e della politica segnati da numerose disuguaglianze e, perciò, a vecchie povertà di cui abbiamo preso coscienza e che si tenta di contrastare, se ne aggiungono di nuove, talvolta più sottili e pericolose. Da questo punto di vista, è da salutare con favore il fatto che le Nazioni Unite abbiano posto la sconfitta della povertà come uno degli obiettivi del Millennio.

11. All’impegno concreto per i poveri occorre anche associare una trasformazione di mentalità che possa incidere a livello culturale. Infatti, l’illusione di una felicità che deriva da una vita agiata spinge molte persone verso una visione dell’esistenza imperniata sull’accumulo della ricchezza e sul successo sociale a tutti i costi, da conseguire anche a scapito degli altri e profittando di ideali sociali e sistemi politico-economici ingiusti, che favoriscono i più forti. Così, in un mondo dove sempre più numerosi sono i poveri, paradossalmente vediamo anche crescere alcune élite di ricchi, che vivono nella bolla di condizioni molto confortevoli e lussuose, quasi in un altro mondo rispetto alla gente comune. Ciò significa che ancora persiste – a volte ben mascherata – una cultura che scarta gli altri senza neanche accorgersene e tollera con indifferenza che milioni di persone muoiano di fame o sopravvivano in condizioni indegne dell’essere umano. Qualche anno fa, la foto di un bambino riverso senza vita su una spiaggia del Mediterraneo provocò grande sconcerto; purtroppo, a parte una qualche momentanea emozione, fatti simili stanno diventando sempre più irrilevanti come notizie marginali.

12. Sulla povertà non dobbiamo abbassare la guardia. In particolare ci preoccupano le gravi condizioni in cui versano moltissime persone a causa della mancanza di cibo e di acqua. Ogni giorno muoiono migliaia di persone per cause legate alla malnutrizione. Anche nei Paesi ricchi le cifre relative al numero dei poveri non sono meno preoccupanti. In Europa sono sempre di più le famiglie che non riescono ad arrivare alla fine del mese. In generale si nota che sono aumentate le diverse manifestazioni della povertà. Essa non si configura più come un’unica condizione omogenea, bensì si declina in molteplici forme di depauperamento economico e sociale, riflettendo il fenomeno delle crescenti disuguaglianze anche in contesti generalmente benestanti. Ricordiamo che «doppiamente povere sono le donne che soffrono situazioni di esclusione, maltrattamento e violenza, perché spesso si trovano con minori possibilità di difendere i loro diritti. Tuttavia, anche tra di loro troviamo continuamente i più ammirevoli gesti di quotidiano eroismo nella difesa e nella cura della fragilità delle loro famiglie».[8] Sebbene in alcuni Paesi si osservino importanti cambiamenti, «l’organizzazione delle società in tutto il mondo è ancora lontana dal rispecchiare con chiarezza che le donne hanno esattamente la stessa dignità e identici diritti degli uomini. A parole si affermano certe cose, ma le decisioni e la realtà gridano un altro messaggio»,[9] soprattutto se pensiamo alle donne più povere.

Pregiudizi ideologici

13. Al di là dei dati – che a volte vengono “interpretati” in modo tale da convincere che la situazione dei poveri non sia così grave –, la realtà generale è abbastanza chiara: «Ci sono regole economiche che sono risultate efficaci per la crescita, ma non altrettanto per lo sviluppo umano integrale. È aumentata la ricchezza, ma senza equità, e così ciò che accade è che nascono nuove povertà. Quando si dice che il mondo moderno ha ridotto la povertà, lo si fa misurandola con criteri di altre epoche non paragonabili con la realtà attuale. Infatti, in altri tempi, per esempio, non avere accesso all’energia elettrica non era considerato un segno di povertà e non era motivo di grave disagio. La povertà si analizza e si intende sempre nel contesto delle possibilità reali di un momento storico concreto».[10] Tuttavia, al di là delle situazioni specifiche e contestuali, in un documento della Comunità Europea, nel 1984, si affermava che «per persone povere s’intendono: i singoli individui, le famiglie e i gruppi di persone le cui risorse (materiali, culturali e sociali) sono così scarse da escluderli dal tenore di vita minimo accettabile nello Stato membro in cui vivono».[11] Ma se riconosciamo che tutti gli esseri umani hanno la stessa dignità, indipendentemente dal luogo di nascita, non si devono ignorare le grandi differenze che esistono tra i Paesi e le regioni.

14. I poveri non ci sono per caso o per un cieco e amaro destino. Tanto meno la povertà, per la maggior parte di costoro, è una scelta. Eppure, c’è ancora qualcuno che osa affermarlo, mostrando cecità e crudeltà. Ovviamente, tra i poveri c’è pure chi non vuole lavorare, magari perché i suoi antenati, che hanno lavorato tutta la vita, sono morti poveri. Ma ce ne sono tanti – uomini e donne – che comunque lavorano dalla mattina alla sera, forse raccogliendo cartoni o facendo altre attività del genere, pur sapendo che questo sforzo servirà solo a sopravvivere e mai a migliorare veramente la loro vita. Non possiamo dire che la maggior parte dei poveri lo sono perché non hanno acquistato dei “meriti”, secondo quella falsa visione della meritocrazia dove sembra che abbiano meriti solo quelli che hanno avuto successo nella vita.

15. Anche i cristiani, in tante occasioni, si lasciano contagiare da atteggiamenti segnati da ideologie mondane o da orientamenti politici ed economici che portano a ingiuste generalizzazioni e a conclusioni fuorvianti. Il fatto che l’esercizio della carità risulti disprezzato o ridicolizzato, come se si trattasse della fissazione di alcuni e non del nucleo incandescente della missione ecclesiale, mi fa pensare che bisogna sempre nuovamente leggere il Vangelo, per non rischiare di sostituirlo con la mentalità mondana. Non è possibile dimenticare i poveri, se non vogliamo uscire dalla corrente viva della Chiesa che sgorga dal Vangelo e feconda ogni momento storico.

CAPITOLO SECONDO

DIO SCEGLIE I POVERI

La scelta dei poveri

16. Dio è amore misericordioso e il suo progetto d’amore, che si estende e si realizza nella storia, è anzitutto il suo discendere e venire in mezzo a noi per liberarci dalla schiavitù, dalle paure, dal peccato e dal potere della morte. Con uno sguardo misericordioso e il cuore colmo d’amore, Egli si è rivolto alle sue creature, prendendosi cura della loro condizione umana e, quindi, della loro povertà. Proprio per condividere i limiti e le fragilità della nostra natura umana, Egli stesso si è fatto povero, è nato nella carne come noi e lo abbiamo conosciuto nella piccolezza di un bambino deposto in una mangiatoia e nell’estrema umiliazione della croce, laddove ha condiviso la nostra radicale povertà, che è la morte. Si comprende bene, allora, perché si può anche teologicamente parlare di un’opzione preferenziale da parte di Dio per i poveri, un’espressione nata nel contesto del continente latino-americano e in particolare nell’Assemblea di Puebla, ma che è stata ben integrata nel successivo magistero della Chiesa.[12] Questa “preferenza” non indica mai un esclusivismo o una discriminazione verso altri gruppi, che in Dio sarebbero impossibili; essa intende sottolineare l’agire di Dio che si muove a compassione verso la povertà e la debolezza dell’umanità intera e che, volendo inaugurare un Regno di giustizia, di fraternità e di solidarietà, ha particolarmente a cuore coloro che sono discriminati e oppressi, chiedendo anche a noi, alla sua Chiesa, una decisa e radicale scelta di campo a favore dei più deboli.

17. Si comprendono in questa prospettiva le numerose pagine dell’Antico Testamento in cui Dio viene presentato come amico e liberatore dei poveri, Colui che ascolta il grido del povero e interviene per liberarlo (cfr Sal 34,7). Dio, rifugio del povero, attraverso i profeti – ricordiamo in particolare Amos e Isaia – denuncia le iniquità a danno dei più deboli e rivolge a Israele l’esortazione a rinnovare dal di dentro anche il culto, perché non si può pregare e offrire sacrificio mentre si opprimono i più deboli e i più poveri. Dall’inizio la Scrittura manifesta con così viva intensità l’amore di Dio attraverso la protezione dei deboli e dei meno abbienti, al punto che si potrebbe parlare di una sorta di “debolezza” di Dio nei loro confronti. «Nel cuore di Dio c’è un posto preferenziale per i poveri […]. Tutto il cammino della nostra redenzione è segnato dai poveri».[13]

Gesù, Messia povero

18. Tutta la vicenda veterotestamentaria della predilezione di Dio per i poveri e il desiderio divino di ascoltare il loro grido – che ho brevemente richiamato – trova in Gesù di Nazaret la sua piena realizzazione.[14] Nella sua incarnazione, Egli «svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo» (Fil 2,7) e in quella forma portò la nostra salvezza. Si tratta di una povertà radicale, fondata sulla sua missione di rivelare il vero volto dell’amore divino (cfr Gv 1,18; 1Gv 4,9). Pertanto, con una delle sue mirabili sintesi, San Paolo può affermare: «Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8,9).

19. In effetti, il Vangelo mostra che questa povertà toccava ogni aspetto della sua vita. Fin dal suo ingresso nel mondo, Gesù ha fatto esperienza delle difficoltà relative al rifiuto. L’evangelista Luca, narrando l’arrivo a Betlemme di Giuseppe e Maria, ormai prossima al parto, osserva con rammarico: «Per loro non c’era posto nell’alloggio» (Lc 2,7). Gesù nacque in umili condizioni; appena nato fu adagiato in una mangiatoia; e ben presto, per salvarlo dalla morte, i suoi genitori fuggirono in Egitto (cfr Mt 2,13-15). All’inizio della sua vita pubblica, fu scacciato da Nazaret dopo che nella sinagoga aveva annunciato l’adempiersi in Lui dell’anno di grazia di cui gioiscono i poveri (cfr Lc 4,14-30). Non vi fu luogo accogliente nemmeno per la sua morte: lo condussero fuori da Gerusalemme per la crocifissione (cfr Mc 15,22). È in questa condizione che si può riassumere in maniera chiara la povertà di Gesù. Si tratta della stessa esclusione che caratterizza la definizione dei poveri: essi sono gli esclusi dalla società. Gesù è la rivelazione di questo privilegium pauperum. Egli si presenta al mondo non solo come Messia povero, ma anche come Messia dei poveri e per i poveri.

20. Vi sono alcuni indizi a proposito della condizione sociale di Gesù. Anzitutto, egli svolge il mestiere di artigiano o carpentiere, téktōn (cfr Mc 6,3). Si tratta di una categoria di persone che vivono con il loro lavoro manuale. Non essendo possessori di terra, venivano considerati inferiori rispetto ai contadini. Quando il piccolo Gesù viene presentato al Tempio da Giuseppe e Maria, i suoi genitori offrirono una coppia di tortore o di colombi (cfr Lc 2,22-24), che secondo le prescrizioni del Libro del Levitico (cfr 12,8) era l’offerta dei poveri. Un episodio evangelico abbastanza significativo è quello che ci racconta di come Gesù, insieme ai suoi discepoli, raccogliessero delle spighe di cui nutrirsi mentre attraversavano i campi (cfr Mc 2,23-28) e questo – lo spigolare nei campi – era consentito soltanto a chi era povero. Gesù stesso, poi, dice di sé: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Mt 8,20; Lc 9,58). Egli, infatti, è un maestro itinerante, la cui povertà e precarietà è segno del legame con il Padre ed è richiesta anche a chi vuole seguirlo sulla via del discepolato, proprio perché la rinuncia ai beni, alle ricchezze e alle sicurezze di questo mondo diventi segno visibile dell’affidarsi a Dio e alla sua provvidenza.

21. All’inizio del suo ministero pubblico, Gesù si presenta nella sinagoga di Nazaret leggendo il rotolo del profeta Isaia e applicando a sé stesso la parola del profeta: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio» (Lc 4,18; cfr Is 61,1). Egli, dunque, si manifesta come Colui che, nell’oggi della storia, viene a realizzare la vicinanza amorevole di Dio, che è anzitutto opera di liberazione per chi è prigioniero del male, per i deboli e i poveri. I segni che accompagnano infatti la predicazione di Gesù sono manifestazione dell’amore e della compassione con cui Dio guarda gli ammalati, i poveri e i peccatori che, in virtù della loro condizione, erano emarginati nella società ma anche dalla religione; Egli apre gli occhi dei ciechi, risana i lebbrosi, risuscita i morti e ai poveri annuncia la buona notizia: Dio si è fatto vicino, Dio vi ama (cfr Lc 7,22). Questo spiega perché Egli proclama: «Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio» (Lc 6,20). Verso i poveri, infatti, Dio mostra predilezione: prima di tutto a loro è rivolta la parola di speranza e di liberazione del Signore e, perciò, pur nella condizione di povertà o debolezza, nessuno deve sentirsi più abbandonato. E la Chiesa, se vuole essere di Cristo, dev’essere Chiesa delle Beatitudini, Chiesa che fa spazio ai piccoli e cammina povera con i poveri, luogo in cui i poveri hanno un posto privilegiato (cfr Gc 2,2-4).

22. Indigenti e malati, incapaci di procurarsi il necessario per vivere, si trovavano sovente costretti all’accattonaggio. A ciò si aggiungeva il peso della vergogna sociale, alimentato dalla convinzione che la malattia e la povertà fossero legate a qualche peccato personale. Gesù contrastò con fermezza tale modo di pensare, affermando che «Dio fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45). Anzi ribaltò completamente quella concezione, come ben esemplificato nella parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro: «Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti» (Lc 16,25).

23. Allora diventa chiaro che «dalla nostra fede in Cristo fattosi povero, e sempre vicino ai poveri e agli esclusi, deriva la preoccupazione per lo sviluppo integrale dei più abbandonati della società».[15] Tante volte mi domando perché, pur essendoci tale chiarezza nelle Sacre Scritture a proposito dei poveri, molti continuano a pensare di poter escludere i poveri dalle loro attenzioni. Per il momento restiamo ancora nell’ambito biblico e tentiamo di riflettere sul nostro rapporto con gli ultimi della società e sul loro posto fondamentale nel popolo di Dio.

La misericordia verso i poveri nella Bibbia

24. L’apostolo Giovanni scrive: «Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20). Allo stesso modo, nella sua replica al dottore della legge, Gesù riprende i due antichi comandamenti: «Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,5) e «Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19,18), fondendoli in un unico comandamento. L’evangelista Marco riporta la risposta di Gesù in questi termini: «Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più importante di questi» (Mc 12,29-31).

25. Il passo citato del Levitico esorta a onorare il proprio connazionale, mentre in altri testi si trova un insegnamento che invita al rispetto – se non addirittura all’amore – anche del nemico: «Quando incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asino dispersi, glieli dovrai ricondurre. Quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a sé stesso: mettiti con lui ad aiutarlo» (Es 23,4-5). Da ciò traspare il valore intrinseco del rispetto per la persona: chiunque, perfino il nemico, si trovi in difficoltà, merita sempre il nostro soccorso.

26. È innegabile che il primato di Dio nell’insegnamento di Gesù si accompagna all’altro punto fermo che non si può amare Dio senza estendere il proprio amore ai poveri. L’amore per il prossimo rappresenta la prova tangibile dell’autenticità dell’amore per Dio, come attesta l’apostolo Giovanni: «Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi. […] Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1Gv 4,12.16). Sono due amori distinti, ma non separabili. Anche nei casi in cui il rapporto con Dio non è esplicito, il Signore stesso ci insegna che ogni atto di amore verso il prossimo è in qualche modo un riflesso della carità divina: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).

27. Per questa ragione sono raccomandate le opere di misericordia, come segno dell’autenticità del culto che, mentre rende lode a Dio, ha il compito di renderci aperti alla trasformazione che lo Spirito può compiere in noi, affinché diventiamo tutti immagine del Cristo e della sua misericordia verso i più deboli. In tal senso, la relazione con il Signore, che si esprime nel culto, intende anche liberarci dal rischio di vivere le nostre relazioni nella logica del calcolo e del tornaconto, per aprirci alla gratuità che circola tra coloro che si amano e che, perciò, mettono tutto in comune. A questo proposito, Gesù consiglia: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti» (Lc 14,12-14).

28. La chiamata del Signore alla misericordia verso i poveri ha trovato un’espressione piena nella grande parabola del giudizio finale (cfr Mt 25,31-46), che è anche un’illustrazione plastica della beatitudine dei misericordiosi. Lì il Signore ci ha offerto la chiave per raggiungere la nostra pienezza, perché «se cerchiamo quella santità che è gradita agli occhi di Dio, in questo testo troviamo proprio una regola di comportamento in base alla quale saremo giudicati».[16] Le parole forti e chiare del Vangelo dovrebbero essere vissute «senza commenti, senza elucubrazioni e scuse che tolgano ad esse forza. Il Signore ci ha lasciato ben chiaro che la santità non si può capire né vivere prescindendo da queste sue esigenze».[17]

29. Nella prima comunità cristiana il programma di carità non derivava da analisi o da progetti, ma direttamente dall’esempio di Gesù, dalle parole stesse del Vangelo. La Lettera di Giacomo dedica molto spazio al problema del rapporto tra ricchi e poveri, lanciando ai credenti due appelli fortissimi che mettono in questione la loro fede: «A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha le opere? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: “Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi”, ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in sé stessa è morta» (Gc 2,14-17).

30. «Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si leverà ad accusarvi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni! Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, e che voi non avete pagato, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore onnipotente. Sulla terra avete vissuto in mezzo a piaceri e delizie, e vi siete ingrassati per il giorno della strage» (Gc 5,3-5). Che forza hanno queste parole, anche se preferiamo fare i sordi! Nella Prima Lettera di Giovanni troviamo un appello simile: «Se uno ha ricchezze di questo mondo e, vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui l’amore di Dio?» (1Gv 3,17).

31. Quello della Parola rivelata «è un messaggio così chiaro, così diretto, così semplice ed eloquente, che nessuna ermeneutica ecclesiale ha il diritto di relativizzarlo. La riflessione della Chiesa su questi testi non dovrebbe oscurare o indebolire il loro significato esortativo, ma piuttosto aiutare a farli propri con coraggio e fervore. Perché complicare ciò che è così semplice? Gli apparati concettuali esistono per favorire il contatto con la realtà che si vuole spiegare e non per allontanarci da essa».[18]

32. D’altra parte, un chiaro esempio ecclesiale di condivisione dei beni e di attenzione alla povertà, lo troviamo nella vita quotidiana e nello stile della prima comunità cristiana. Possiamo ricordare in particolare il modo in cui fu risolta la questione della distribuzione quotidiana di sussidi alle vedove (cfr At 6,1-6). Si trattava di un problema non facile, anche perché alcune di queste vedove, provenienti da altri Paesi, venivano a volte trascurate in quanto straniere. Di fatto, l’episodio raccontato dagli Atti degli Apostoli mette in luce un certo malcontento da parte degli ellenisti, ebrei di cultura greca. Gli Apostoli rispondono non con qualche discorso astratto, ma, rimettendo al centro la carità verso tutti, riorganizzano l’assistenza alle vedove chiedendo alla comunità di cercare persone sagge e stimate a cui affidare la gestione delle mense, mentre essi si occupano della predicazione della Parola.

33. Quando Paolo andò a Gerusalemme a consultare gli Apostoli «per non correre o aver corso invano» (Gal 2,2), gli fu chiesto di non dimenticare i poveri (cfr Gal 2,10). Egli pertanto organizzò diverse collette per aiutare le comunità povere. Tra le motivazioni che offre per tale gesto va sottolineata la seguente: «Dio ama chi dona con gioia» (2Cor 9,7). A quanti di noi sono poco inclini ai gesti gratuiti, senza alcun interesse, la Parola di Dio indica che la generosità verso i poveri è un vero bene per chi la esercita: infatti, comportandoci così, veniamo amati da Dio in modo speciale. In effetti, le promesse bibliche rivolte a chi dà con generosità sono molte: «Chi ha pietà del povero fa un prestito al Signore, che gli darà la sua ricompensa» (Pr 19,17). «Date e vi sarà dato: […] con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio» (Lc 6,38). «Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto» (Is 58,8). I primi cristiani ne erano convinti.

34. La vita delle prime comunità ecclesiali, narrata nel canone biblico e giunta a noi come Parola rivelata, ci viene offerta come esempio da imitare e come testimonianza della fede che opera per mezzo della carità, e rimane quale monito permanente per le generazioni a venire. Nel corso dei secoli, queste pagine hanno sollecitato il cuore dei cristiani ad amare e a generare opere di carità, come semi fecondi che non smettono di produrre frutti.

CAPITOLO TERZO

UNA CHIESA PER I POVERI

35. Tre giorni dopo la sua elezione, il mio Predecessore espresse ai rappresentanti dei media il desiderio che la cura e l’attenzione per i poveri fossero più chiaramente presenti nella Chiesa: «Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!».[19]

36. Questo desiderio riflette la consapevolezza che la Chiesa «riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di sollevarne la indigenza e in loro cerca di servire il Cristo».[20] Infatti, essendo stata chiamata a configurarsi agli ultimi, al suo interno «non devono restare dubbi né sussistono spiegazioni che indeboliscano questo messaggio tanto chiaro […]. Occorre affermare senza giri di parole che esiste un vincolo inseparabile tra la nostra fede e i poveri».[21] In merito abbiamo abbondanti testimonianze lungo la storia quasi bimillenaria dei discepoli di Gesù.[22]

La vera ricchezza della Chiesa

37. San Paolo riferisce che tra i fedeli della nascente comunità cristiana non c’erano «molti sapienti, né molti potenti, né molti nobili» (1Cor 1,26). Tuttavia, nonostante la loro povertà, i primi cristiani erano chiaramente consapevoli della necessità di prendersi cura di coloro che erano soggetti a maggiori privazioni. Già agli albori del cristianesimo gli Apostoli imposero le mani su sette uomini scelti dalla comunità e, in un certo grado, li integrarono nel proprio ministero, istituendoli per il servizio – diakonía in greco – dei più poveri (cfr At 6,1-5). È significativo che il primo discepolo a dare testimonianza della sua fede in Cristo fino allo spargimento del proprio sangue sia stato Stefano, che faceva parte di questo gruppo. In lui si uniscono la testimonianza di vita nella cura dei poveri e il martirio.

38. Poco più di due secoli dopo, un altro diacono mostrerà la sua adesione a Gesù Cristo in modo simile, unendo nella sua vita il servizio ai poveri e il martirio: San Lorenzo.[23] Dal resoconto di Sant’Ambrogio apprendiamo che Lorenzo, diacono a Roma durante il Pontificato di Papa Sisto II, costretto dalle autorità romane a consegnare i tesori della Chiesa, «il giorno seguente condusse i poveri. Interrogato dove fossero i tesori promessi, indicò i poveri dicendo: “Questi sono i tesori della Chiesa”».[24] Narrando questo episodio, Ambrogio si chiede: «Quali tesori più preziosi ha Gesù di quelli in cui ama mostrarsi?».[25] E, ricordando che i ministri della Chiesa non devono mai trascurare la cura dei poveri e meno ancora accumulare beni a proprio beneficio, dice: «Bisogna che quest’incarico sia compiuto con fede sincera e saggia previdenza. Certamente, se uno ne ricava vantaggio personale, commette un delitto; ma se distribuisce ai poveri il ricavato, riscatta un prigioniero, compie opera di misericordia».[26]

I Padri della Chiesa e i poveri

39. Fin dai primi secoli, i Padri della Chiesa riconoscevano nei poveri una via privilegiata di accesso a Dio, un modo speciale per incontrarlo. La carità verso i bisognosi non era intesa come una semplice virtù morale, ma come espressione concreta della fede nel Verbo incarnato. La comunità dei fedeli, sostenuta dalla forza dello Spirito Santo, era radicata nella vicinanza ai poveri, che non considerava un’appendice, ma una parte essenziale del suo Corpo vivo. Sant’Ignazio di Antiochia, ad esempio, mentre andava incontro al martirio, esortava i fedeli della comunità di Smirne a non trascurare il dovere della carità verso i più bisognosi, ammonendoli a non comportarsi come coloro che si oppongono a Dio: «Considerate quelli che hanno un’opinione diversa sulla grazia di Gesù Cristo che è venuto a noi, come sono contrari al disegno di Dio. Non si curano della carità, né della vedova, né dell’orfano, né dell’oppresso, né di chi è prigioniero o libero, né di chi ha fame e sete».[27] Il Vescovo di Smirne, Policarpo, raccomandava espressamente ai ministri della Chiesa di prendersi cura dei poveri: «I presbiteri siano indulgenti e misericordiosi verso tutti, richiamino gli sviati e visitino tutti gli infermi senza trascurare la vedova, l’orfano e il povero, ma solleciti del bene davanti a Dio e agli uomini».[28] Da queste due testimonianze vediamo che la Chiesa appare come madre dei poveri, luogo di accoglienza e di giustizia.

40. San Giustino, da parte sua, nella sua prima Apologia, indirizzata all’imperatore Adriano, al Senato e al popolo romano, spiegava che i cristiani portavano tutto ciò che potevano ai bisognosi, perché vedevano in loro dei fratelli e delle sorelle in Cristo. Scrivendo dell’assemblea in preghiera nel primo giorno della settimana, sottolineava che, al centro della liturgia cristiana, non si può separare il culto a Dio dall’attenzione ai poveri. Perciò, a un certo punto della celebrazione, «i facoltosi e volonterosi spontaneamente danno ciò che vogliono; e il raccolto è consegnato al capo, il quale ne sovviene gli orfani, le vedove, i bisognosi per malattie o altro, i detenuti e i forestieri capitati; egli soccorre, in una parola, chiunque si trovi in bisogno».[29] Ciò dimostra che la Chiesa nascente non separava il credere dall’azione sociale: la fede che non era accompagnata dalla testimonianza delle opere, come insegna San Giacomo, era considerata morta (cfr Gc 2,17).

San Giovanni Crisostomo

41. Tra i Padri orientali, il più ardente predicatore della giustizia sociale fu forse San Giovanni Crisostomo, Arcivescovo di Costantinopoli tra il IV e il V secolo. Nelle sue omelie, egli esortava i fedeli a riconoscere Cristo nei bisognosi: «Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non trascurare la sua nudità; non onorarlo qui con vesti di seta, non trascurarlo fuori mentre è consunto dal freddo e dalla nudità […]. [Il corpo di Cristo che sta sull’altare] non ha bisogno di vesti, ma di un’anima pura; quello invece ha bisogno di molta cura. Impariamo dunque ad essere sapienti e ad onorare Cristo come lui vuole; per colui che è onorato l’onore più gradito è quello che egli vuole, non quello che pensiamo noi […]. Così anche tu onoralo con questo onore che egli stesso ha prescritto, profondendo la ricchezza ai poveri. Dio non ha bisogno di vasi d’oro, ma di anime d’oro».[30] Affermando con chiarezza cristallina che, se i fedeli non incontrano Cristo nei poveri che stanno alla porta, non potranno adorarlo nemmeno sull’Altare, continua: «Che vantaggio c’è, se la sua mensa è piena di calici d’oro e lui è sfinito dalla fame? Prima sazia la sua fame e poi, per soprappiù, orna anche la sua mensa».[31] Intendeva l’Eucaristia, quindi, anche come espressione sacramentale della carità e della giustizia che la precedevano, la accompagnavano e dovevano continuarla, nell’amore e nell’attenzione ai poveri.

42. Di conseguenza, la carità non è un percorso opzionale, ma il criterio del vero culto. Il Crisostomo denunciava con veemenza il lusso eccessivo, che coesisteva con l’indifferenza verso i poveri. L’attenzione dovuta a loro, più che una mera esigenza sociale, è condizione per la salvezza, il che attribuisce alla ricchezza ingiusta un peso di condanna: «C’è un gran freddo e il povero mal vestito sta buttato sul pavimento, mezzo morto per il gelo, battendo i denti, e basta vederlo per sentirsi commuovere. E tu, ben caldo ed ubriaco, gli passi accanto e tiri diritto; e come puoi pretendere che Dio ti liberi quando sarai nella sventura? […] Spesso un cadavere che non sente più niente e che non si accorge dell’onore, tu lo avvolgi in molte vesti preziose; e quel corpo che soffre dolori, tormenti e spasimi e sente crampi per la fame e il freddo, tu lo disprezzi, e ti dai più pensiero della vanagloria che del timore di Dio».[32] Questo profondo senso di giustizia sociale lo porta ad affermare che «non dare ai poveri parte dei propri beni, è privarli della loro stessa vita; e che quanto possediamo non è nostro, ma loro». [33]

Sant’Agostino

43. Agostino ebbe come maestro spirituale Sant’Ambrogio, che insisteva sull’esigenza etica della condivisione dei beni: «Non dai al povero del tuo, ma gli restituisci del suo: perché quello che era stato dato a tutti perché l’usassero insieme, tu lo hai usurpato per te solo».[34] Per il Vescovo di Milano, l’elemosina è giustizia ristabilita, non un gesto di paternalismo. Nella sua predicazione, la misericordia assume un carattere profetico: denuncia le strutture di accumulo e riafferma la comunione come vocazione ecclesiale.

44. Formatosi in questa tradizione, il santo Vescovo di Ippona ha insegnato a sua volta l’amore preferenziale per i poveri. Pastore vigile e teologo di rara chiaroveggenza, egli si rende conto che la vera comunione ecclesiale si esprime anche nella comunione dei beni. Nei suoi Commenti ai Salmi, ricorda che i veri cristiani non trascurano l’amore per i più bisognosi: «Voi, osservando i vostri fratelli, conoscete se abbiano bisogno di qualcosa, ma se in voi abita il Cristo, fate beneficenza anche agli estranei».[35] Questa condivisione dei beni nasce dunque dalla carità teologale e ha come fine ultimo l’amore di Cristo. Per Agostino, il povero non è solo una persona da aiutare, ma la presenza sacramentale del Signore.

45. Il Dottore della Grazia vedeva nel prendersi cura dei poveri una prova concreta della sincerità della fede. Chi dice di amare Dio e non ha compassione per i bisognosi mente (cfr 1Gv 4,20). Commentando l’incontro di Gesù con il giovane ricco e il “tesoro in cielo” che è riservato a coloro che danno i loro beni ai poveri (cfr Mt 19,21), Agostino mette sulla bocca del Signore le seguenti parole: «Ho ricevuto la terra, darò il cielo; ho ricevuto beni temporali, restituirò beni eterni; ho ricevuto il pane, darò la vita. […] Ho avuto ospitalità in casa, ma io darò la casa; sono stato visitato quand’ero malato, ma io darò la salute; sono stato visitato in carcere, ma io darò la libertà. Il pane dato da voi ai miei poveri è stato consumato, mentre il pane che io darò, non solo vi ristorerà, ma non finirà giammai».[36] L’Altissimo non si lascia vincere in generosità nei confronti di coloro che lo servono nei più bisognosi: maggiore è l’amore per i poveri, maggiore è la ricompensa da parte di Dio.

46. Questa prospettiva cristocentrica e profondamente ecclesiale porta a sostenere che le offerte, quando nascono dall’amore, non solo alleviano i bisogni del fratello, ma purificano anche il cuore di chi dona, se disposto a cambiare: «L’elemosina infatti serve a cancellare i peccati della vita passata se uno muta vita».[37] È, per così dire, la via ordinaria alla conversione per chi vuole seguire Cristo con cuore indiviso.

47. In una Chiesa che riconosce nei poveri il volto di Cristo e nei beni lo strumento della carità, il pensiero agostiniano rimane una luce sicura. Oggi la fedeltà agli insegnamenti di Agostino esige non solo lo studio delle sue opere, ma la prontezza a vivere radicalmente il suo invito alla conversione, che include necessariamente il servizio della carità.

48. Molti altri Padri della Chiesa, d’Oriente e d’Occidente, si sono pronunciati sul primato dell’attenzione ai poveri nella vita e nella missione di ogni fedele cristiano. Da questa prospettiva, in sintesi, si può dire che la teologia patristica era pratica, puntando a una Chiesa povera e per i poveri, ricordando che il Vangelo è annunciato correttamente solo quando spinge a toccare la carne degli ultimi e avvertendo che il rigore dottrinale senza misericordia è un discorso vuoto.

Cura dei malati

49. La compassione cristiana si è manifestata in modo peculiare nella cura dei malati e dei sofferenti. Sulla base dei segni presenti nel ministero pubblico di Gesù – la guarigione di ciechi, lebbrosi e paralitici –, la Chiesa comprende che la cura dei malati, nei quali riconosce prontamente il Signore crocifisso, è una parte importante della sua missione. Durante una pestilenza nella città di Cartagine, dove era Vescovo, San Cipriano ricordò ai cristiani l’importanza della cura dei malati: «Questa peste e questa epidemia, all’apparenza orribili e funeste, accertino la giustizia dei singoli ed esaminino i sentimenti umani! Tale peste mostra se i sani assistano i malati, se i parenti amino i loro consanguinei come devono, se i padroni abbiano compassione dei loro schiavi colpiti dal male, se i medici non trascurino i malati che hanno bisogno di aiuto».[38] La tradizione cristiana di visitare i malati, lavare le loro ferite e confortare gli afflitti non si riduce semplicemente a un’opera di filantropia, ma è un’azione ecclesiale attraverso la quale, nei malati, i membri della Chiesa «toccano la carne sofferente di Cristo».[39]

50. Nel XVI secolo, San Giovanni di Dio, fondando l’Ordine Ospedaliero che porta il suo nome, creò ospedali-modello che accoglievano tutti, indipendentemente dalla condizione sociale o economica. La sua celebre espressione “Fate del bene, fratelli miei!” divenne un motto per la carità attiva verso i malati. Contemporaneamente, San Camillo de Lellis fondò l’Ordine dei Ministri degli Infermi – i Camilliani – facendo sua la missione di servire i malati con totale dedizione. La sua regola comanda: «Ognuno domandi grazia al Signore che gli dia un affetto materno verso il suo prossimo acciocché possiamo servirlo con ogni carità così dell’anima, come del corpo, perché desideriamo con la grazia di Dio servire a tutti gl’infermi con quell’affetto che suol avere una amorevole madre per il suo unico figliuolo infermo».[40] Negli ospedali, nei campi di battaglia, nelle prigioni e nelle strade, i Camilliani hanno incarnato la misericordia di Cristo Medico.

51. Prendendosi cura dei malati con affetto materno, come una madre si prende cura del suo bambino, molte donne consacrate hanno svolto un ruolo ancora più diffuso nell’assistenza sanitaria ai poveri. Le Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli, le Suore Ospedaliere, le Piccole Suore della Divina Provvidenza e molte altre congregazioni femminili sono diventate una presenza materna e discreta negli ospedali, nelle case di cura e nelle case di riposo. Hanno portato lenimento, ascolto, presenza e, soprattutto, tenerezza. Hanno costruito, spesso con le proprie mani, strutture sanitarie in zone prive di assistenza medica. Hanno insegnato l’igiene, assistito al parto e somministrato medicine con naturale saggezza e profonda fede. Le loro case sono diventate oasi di dignità dove nessuno era escluso. Il tocco della compassione è stato la prima medicina. Santa Luisa de Marillac scrisse alle sue sorelle, Figlie della Carità, ricordando loro che avevano «ricevuto una speciale benedizione da Dio per servire i poveri malati negli ospedali».[41]

52. Oggi, questa eredità continua negli ospedali cattolici, nei luoghi di cura aperti in regioni remote, nelle missioni sanitarie operanti nelle foreste, nei centri di accoglienza per tossicodipendenti e negli ospedali da campo in zone di guerra. La presenza cristiana vicino ai malati rivela che la salvezza non è un’idea astratta, ma azione concreta. Nell’atto di curare una ferita, la Chiesa annuncia che il Regno di Dio inizia tra i più vulnerabili. E così facendo, rimane fedele a Colui che ha detto: «Ero […] malato e mi avete visitato» (Mt 25,35.36). Quando la Chiesa si inginocchia accanto a un lebbroso, a un bambino denutrito o a un morente anonimo, realizza la sua vocazione più profonda: amare il Signore là dove Egli è più sfigurato.

La cura dei poveri nella vita monastica

53. La vita monastica, nata nel silenzio dei deserti, fu fin dall’inizio una testimonianza di solidarietà. I monaci lasciavano tutto – ricchezza, prestigio, famiglia – non solo perché disprezzavano i beni del mondo – contemptus mundi – ma per incontrare, in questo distacco radicale, il Cristo povero. San Basilio Magno, nella sua Regola, non vedeva alcuna contraddizione tra la vita di preghiera e di raccoglimento dei monaci e il loro lavoro a favore dei poveri. Per lui, l’ospitalità e la cura dei bisognosi erano parte integrante della spiritualità monastica e i monaci, anche dopo aver lasciato tutto per abbracciare la povertà, dovevano aiutare i più poveri con il loro lavoro, perché «per avere di che dare a chi ha bisogno […] è chiaro come si debba lavorare con diligenza […]. Tale regola di vita non ci è utile soltanto per castigare il corpo, ma anche per l’amore verso il prossimo, affinché, per mezzo nostro Iddio provveda anche ai fratelli deboli ciò di cui hanno bisogno».[42]

54. A Cesarea, dove era Vescovo, costruì un luogo noto come Basiliade, che comprendeva alloggi, ospedali e scuole per i poveri e i malati. Il monaco, quindi, non era solo un asceta, ma un servitore. Basilio dimostrò così che, per essere vicini a Dio, bisogna essere vicini ai poveri. L’amore concreto era il criterio della santità. Pregare e curare, contemplare e guarire, scrivere e accogliere: tutto era espressione dello stesso amore per Cristo.

55. In Occidente, San Benedetto da Norcia redasse una Regola che sarebbe divenuta la spina dorsale della spiritualità monastica europea. In essa, l’accoglienza dei poveri e dei pellegrini occupa un posto di primo piano: «Si usi sollecitudine soprattutto nell’accogliere i poveri e i pellegrini, perché è in loro che si accoglie maggiormente Cristo».[43] Non erano solo parole: per secoli i monasteri benedettini sono stati luoghi di rifugio per vedove, bambini abbandonati, pellegrini e mendicanti. Per Benedetto, la vita comunitaria era una scuola di carità. Il lavoro manuale non aveva solo una funzione pratica, ma formava anche il cuore al servizio. La condivisione tra i monaci, l’attenzione ai malati e l’ascolto dei più vulnerabili preparavano ad accogliere Cristo che giunge nella persona del povero e dello straniero. L’ospitalità monastica benedettina rimane ancora oggi segno di una Chiesa che apre le porte, che accoglie senza chiedere, che guarisce senza esigere nulla in cambio.

56. Nel corso del tempo, i monasteri benedettini divennero luoghi che contrastavano la cultura dell’esclusione. I monaci coltivavano la terra, producevano cibo, preparavano medicine e le offrivano, con semplicità, ai più bisognosi. Il loro lavoro silenzioso era il lievito di una nuova civiltà, dove i poveri non erano un problema da risolvere, ma fratelli e sorelle da accogliere. La regola della condivisione, il lavoro comune e l’assistenza ai vulnerabili strutturavano un’economia solidale, in contrasto con la logica dell’accumulo. La testimonianza dei monaci mostrava che la povertà volontaria, lungi dall’essere miseria, è un cammino di libertà e di comunione. Essi non si limitavano ad aiutare i poveri: si facevano loro vicini, fratelli nello stesso Signore. Nelle celle e nei chiostri si è formata una mistica della presenza di Dio nei piccoli.

57. Oltre a fornire assistenza materiale, i monasteri svolgevano un ruolo fondamentale nella formazione culturale e spirituale dei più umili. In tempi di peste, guerra e carestia, erano luoghi in cui i bisognosi trovavano pane e medicine, ma anche dignità e parola. È lì che gli orfani venivano educati, gli apprendisti ricevevano una formazione e i contadini venivano istruiti nelle tecniche agricole e nella lettura. La conoscenza era condivisa come un dono e una responsabilità. L’abate era sia maestro che padre e la scuola monastica era un luogo di liberazione attraverso la verità. Infatti, come scrive Giovanni Cassiano, il monaco deve essere caratterizzato da «umiltà di cuore […], la quale conduce, non alla scienza che gonfia, ma alla scienza che illumina per mezzo della completezza della carità».[44] Formando le coscienze e trasmettendo sapienza, i monaci contribuirono a una pedagogia cristiana dell’inclusione. La cultura, segnata dalla fede, veniva condivisa con semplicità. La conoscenza, illuminata dalla carità, diventava servizio. Così, la vita monastica si rivelava uno stile di santità e una via concreta per trasformare la società.

58. La tradizione monastica insegna in questo modo che preghiera e carità, silenzio e servizio, celle e ospedali, formano un unico tessuto spirituale. Il monastero è un luogo di ascolto e di azione, di culto e di condivisione. San Bernardo di Chiaravalle, il grande riformatore cistercense, «richiamò con decisione la necessità di una vita sobria e misurata, nella mensa come negli indumenti e negli edifici monastici, raccomandando il sostentamento e la cura dei poveri».[45] Per lui la compassione non era una scelta accessoria, ma il vero cammino della sequela di Cristo. La vita monastica, quindi, se fedele alla sua vocazione originaria, mostra che la Chiesa è pienamente sposa del Signore solo quando è anche sorella dei poveri. Il chiostro non è solo un rifugio dal mondo, ma una scuola dove si impara a servirlo meglio. Là dove i monaci hanno aperto le loro porte ai poveri, la Chiesa ha rivelato con umiltà e fermezza che la contemplazione non esclude la misericordia, ma la esige come suo frutto più puro.

Liberare i prigionieri

59. Fin dai tempi apostolici, la Chiesa ha visto nella liberazione degli oppressi un segno del Regno di Dio. Gesù stesso, all’inizio della sua missione pubblica, ha proclamato: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione» (Lc 4,18). I primi cristiani, anche in condizioni precarie, pregavano e assistevano i loro fratelli e sorelle prigionieri, come testimoniano gli Atti degli Apostoli (cfr 12,5; 24,23) e vari scritti dei Padri. Questa missione di liberazione è continuata nei secoli attraverso azioni concrete, soprattutto quando il dramma della schiavitù e della prigionia ha segnato intere società.

60. Tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII, quando molti cristiani erano catturati nel Mediterraneo o ridotti in schiavitù nelle guerre, sorsero due Ordini religiosi: l’Ordine della Santissima Trinità per la Redenzione degli Schiavi (Trinitari), fondato da San Giovanni de Matha e San Felice di Valois, e l’Ordine della Beata Vergine Maria della Mercede (Mercedari), fondato da San Pietro Nolasco con l’appoggio di San Raimondo di Peñafort, domenicano. Queste comunità di consacrati sono nate con il carisma specifico di liberare i cristiani fatti schiavi, mettendo a loro disposizione i propri beni[46] e, spesso, offrendo in cambio la propria vita. I Trinitari, con il loro motto Gloria Tibi Trinitas et captivis libertas (Gloria a te, Trinità, e ai prigionieri, libertà), e i Mercedari, che aggiunsero un quarto voto[47] ai voti religiosi di povertà, obbedienza e castità, testimoniarono che la carità può essere eroica. La liberazione dei prigionieri è un’espressione dell’amore trinitario: un Dio che libera non solo dalla schiavitù spirituale, ma anche dall’oppressione concreta. Il gesto di riscattare dalla schiavitù e dalla prigionia è visto come un’estensione del sacrificio redentivo di Cristo, il cui sangue è prezzo del nostro riscatto (cfr 1Cor 6,20).

61. La spiritualità originale di questi Ordini era profondamente radicata nella contemplazione della Croce. Cristo è per eccellenza il Redentore dei prigionieri e la Chiesa, suo Corpo, prolunga questo mistero nel tempo.[48] I religiosi non vedevano il riscatto come un’azione politica o economica, ma come un atto quasi liturgico, l’offerta sacramentale di sé stessi. Molti davano i loro propri corpi per sostituire i prigionieri, adempiendo letteralmente al comandamento: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13). La tradizione di questi Ordini non si è conclusa. Al contrario, ha ispirato nuove forme di azione di fronte alle schiavitù moderne: il traffico di esseri umani, il lavoro forzato, lo sfruttamento sessuale, le diverse forme di dipendenza.[49] La carità cristiana, quando si incarna, diventa liberatrice. E la missione della Chiesa, quando è fedele al suo Signore, è sempre quella di annunciare la liberazione. Ancora oggi, quando «milioni di persone – bambini, uomini e donne di ogni età – vengono private della libertà e costrette a vivere in condizioni assimilabili a quelle della schiavitù»,[50] tale eredità viene portata avanti da questi Ordini e da altre istituzioni e congregazioni che lavorano nelle periferie urbane, nelle zone di conflitto e nei corridoi migratori. Quando la Chiesa si inchina per spezzare le nuove catene che legano i poveri, diventa un segno pasquale.

62. Non si può concludere questa riflessione sulle persone private di libertà senza menzionare i carcerati che si trovano in diversi penitenziari e centri di detenzione. A questo proposito, ricordiamo le parole che Papa Francesco ha rivolto a un gruppo di loro: «Per me entrare in un carcere è sempre un momento importante, perché il carcere è un luogo di grande umanità […]. Di umanità provata, talvolta affaticata da difficoltà, sensi di colpa, giudizi, incomprensioni, sofferenze, ma nello stesso tempo carica di forza, di desiderio di perdono, di voglia di riscatto».[51] Questa volontà, tra l’altro, è stata assunta anche dagli Ordini dediti al riscatto dei prigionieri come servizio preferenziale alla Chiesa. Come proclamava San Paolo: «Cristo ci ha liberati per la libertà!» (Gal 5,1). E questa libertà non è solo interiore: si manifesta nella storia come amore che si prende cura e libera da ogni legame di schiavitù.

Testimoni della povertà evangelica

63. Nel XIII secolo, di fronte alla crescita delle città, alla concentrazione delle ricchezze e all’emergere di nuove forme di povertà, lo Spirito Santo diede origine a un nuovo tipo di consacrazione nella Chiesa: gli Ordini mendicanti. A differenza del modello monastico stabile, i mendicanti adottarono una vita itinerante, senza proprietà personale o comunitaria, interamente affidati alla Provvidenza. Non si limitavano a servire i poveri: si facevano poveri con loro. Vedevano la città come un nuovo deserto e gli emarginati come nuovi maestri spirituali. Questi Ordini, come i Francescani, i Domenicani, gli Agostiniani e i Carmelitani, rappresentarono una rivoluzione evangelica, in cui lo stile di vita semplice e povero divenne un segno profetico per la missione, facendo rivivere l’esperienza della prima comunità cristiana (cfr At 4,32). La testimonianza dei mendicanti sfidava sia l’opulenza clericale che la freddezza della società urbana.

64. San Francesco d’Assisi divenne l’icona di questa primavera spirituale. Prendendo in sposa la povertà, volle imitare Cristo povero, nudo e crocifisso. Nella sua Regola, chiede che «i frati non si approprino di nulla, né casa, né luogo, né alcun’altra cosa. E come pellegrini e forestieri in questo mondo, servendo al Signore in povertà e umiltà, vadano per l’elemosina con fiducia, e non si devono vergognare, perché il Signore per noi si è fatto povero in questo mondo».[52] La sua vita fu una continua spogliazione: dal palazzo al lebbroso, dall’eloquenza al silenzio, dal possesso al dono totale. Francesco non ha fondato una realtà di servizio sociale, ma una fraternità evangelica. Nei poveri ha visto fratelli e vive immagini del Signore. La sua missione era di stare con loro, per una solidarietà che superava le distanze, per un amore compassionevole. La sua povertà era relazionale: lo portava a farsi prossimo, uguale, anzi, minore. La sua santità germogliava dalla convinzione che si può ricevere veramente Cristo solo donandosi generosamente ai fratelli.

65. Santa Chiara d’Assisi, ispirata da Francesco, fondò l’Ordine delle Povere Dame, poi chiamate Clarisse. La sua lotta spirituale consistette nel mantenere fedelmente l’ideale della povertà radicale. Rifiutò i privilegi pontifici che potevano garantire sicurezza materiale al suo monastero e, con fermezza, ottenne da Papa Gregorio IX il cosiddetto Privilegium Paupertatis, che garantiva il diritto di vivere senza il possesso di alcun bene materiale.[53] Questa scelta esprimeva la sua totale fiducia in Dio e la sua consapevolezza che la povertà volontaria era una forma di libertà e di profezia. Chiara insegnò alle sue sorelle che Cristo era la loro unica eredità e che nulla doveva oscurare la comunione con Lui. La sua vita orante e nascosta fu un grido contro la mondanità e una difesa silenziosa dei poveri e dei dimenticati.

66. San Domenico di Guzmán, contemporaneo di Francesco, fondò l’Ordine dei Predicatori, con un altro carisma, ma con la stessa radicalità. Voleva proclamare il Vangelo con l’autorevolezza che deriva da una vita povera, convinto che la Verità abbia bisogno di testimoni coerenti. L’esempio della povertà di vita accompagnava la Parola predicata. Liberi dal peso dei beni terreni, i frati domenicani potevano dedicarsi meglio all’opera principale, cioè la predicazione. Si recavano nelle città, soprattutto quelle universitarie, per insegnare la verità di Dio.[54] Nella dipendenza dagli altri, dimostravano che la fede non si impone, ma si offre. E, vivendo tra i poveri, imparavano la verità del Vangelo “dal basso”, come discepoli del Cristo umiliato.

67. Gli Ordini mendicanti furono quindi una risposta viva all’esclusione e all’indifferenza. Non proposero espressamente riforme sociali, ma una conversione personale e comunitaria alla logica del Regno. Per loro la povertà non era una conseguenza della scarsità di beni, ma una libera scelta: farsi piccoli per accogliere i piccoli. Come disse di Francesco Tommaso da Celano: «Dimostrava di amare intensamente i poveri […]. Spesso si spogliava per rivestire i poveri, ai quali cercava di rendersi simile».[55] I mendicanti sono diventati il simbolo di una Chiesa pellegrina, umile e fraterna, che vive tra i poveri non per proselitismo, ma per identità. Insegnano che la Chiesa è luce solo quando si spoglia di tutto, e che la santità passa attraverso un cuore umile e dedito ai più piccoli.

La Chiesa e l’educazione dei poveri

68. Rivolgendosi ad alcuni educatori, Papa Francesco ricordava che l’educazione è sempre stata una delle espressioni più alte della carità cristiana: «La vostra è una missione piena di ostacoli ma anche di gioie. […] Una missione di amore, perché non si può insegnare senza amare».[56] In questo senso, fin dai tempi più antichi, i cristiani hanno capito che la conoscenza libera, dà dignità e avvicina alla verità. Per la Chiesa, insegnare ai poveri era un atto di giustizia e di fede. Ispirata dall’esempio del Maestro che insegnava alla gente le verità divine e umane, essa ha assunto la missione di formare i bambini e i ragazzi, soprattutto i più poveri, nella verità e nell’amore. Questa missione ha preso forma con la fondazione di Congregazioni dedicate all’educazione popolare.

69. Nel XVI secolo, San Giuseppe Calasanzio, colpito dalla mancanza di istruzione e formazione dei giovani poveri della città di Roma, in alcune stanze attigue alla chiesa di Santa Dorotea in Trastevere, diede vita alla prima scuola pubblica popolare gratuita d’Europa. Era il seme da cui poi sarebbe nato e si sarebbe sviluppato, non senza difficoltà, l’Ordine dei Chierici Regolari Poveri della Madre di Dio delle Scuole Pie, detto degli Scolopi, con lo scopo di trasmettere ai giovani «oltre alla scienza profana anche la sapienza del Vangelo, insegnando loro a cogliere, nelle vicende personali e nella storia, l’azione amorevole di Dio Creatore e Redentore».[57] Di fatto possiamo considerare questo coraggioso sacerdote come il «vero fondatore della moderna scuola cattolica, tesa alla formazione integrale dell’uomo e aperta a tutti».[58] Animato dalla medesima sensibilità, nel XVII secolo, San Giovanni Battista de La Salle, rendendosi conto dell’ingiustizia causata dall’esclusione dei figli degli operai e dei contadini dal sistema educativo della Francia del suo tempo, fondò i Fratelli delle Scuole Cristiane, con l’ideale di offrire loro istruzione gratuita, formazione solida e un ambiente fraterno. La Salle vedeva nell’aula uno spazio di promozione umana, ma anche di conversione. Nei suoi collegi si univano preghiera, metodo, disciplina e condivisione. Ogni bambino era considerato un dono unico di Dio e l’atto dell’insegnamento un servizio al Regno di Dio.

70. Nel XIX secolo, sempre in Francia, San Marcellino Champagnat fondò l’Istituto dei Fratelli Maristi delle Scuole, «sensibile ai bisogni spirituali ed educativi del suo tempo, soprattutto all’ignoranza religiosa e alle situazioni di abbandono vissute in particolare dai giovani»,[59] dedicandosi con tutto il cuore, in un’epoca in cui l’accesso all’istruzione continuava ad essere privilegio di pochi, alla missione di educare ed evangelizzare i bambini e i giovani, soprattutto quelli più bisognosi. Con lo stesso spirito, in Italia, San Giovanni Bosco iniziò la grande opera Salesiana, basata sui tre principi del “metodo preventivo” – ragione, religione e amorevolezza –[60] e il Beato Antonio Rosmini fondò l’Istituto della Carità, in cui la “carità intellettuale” – assieme a quella “materiale” e con all’apice quella “spirituale-pastorale” – veniva presentata come dimensione indispensabile di qualsiasi azione caritativa che mirasse al bene e allo sviluppo integrale della persona.[61]

71. Molte Congregazioni femminili furono protagoniste di questa rivoluzione pedagogica. Le Orsoline, le monache della Compagnia di Maria Nostra Signora, le Maestre Pie e tante altre, fondate specialmente nei secoli XVIII e XIX, occuparono spazi dove lo Stato era assente. Crearono scuole in piccoli villaggi, nelle periferie e nei quartieri popolari. L’istruzione delle ragazze, in particolare, divenne una priorità. Le suore alfabetizzavano, evangelizzavano, si occupavano delle questioni pratiche della vita quotidiana, elevavano lo spirito attraverso la coltivazione delle arti e, soprattutto, formavano le coscienze. La loro pedagogia era semplice: vicinanza, pazienza, dolcezza. Insegnavano con la vita, prima che con le parole. In tempi di analfabetismo diffuso e di esclusione strutturale, queste donne consacrate erano fari di speranza. La loro missione era formare il cuore, insegnare a pensare, promuovere la dignità. Coniugando vita di pietà e dedizione al prossimo, hanno combattuto l’abbandono con la tenerezza di chi educa in nome di Cristo.

72. L’educazione dei poveri, per la fede cristiana, non è un favore, ma un dovere. I piccoli hanno diritto alla conoscenza, come requisito fondamentale per il riconoscimento della dignità umana. Insegnare ad essi è affermarne il valore, dotandoli degli strumenti per trasformare la loro realtà. La tradizione cristiana considera il sapere come un dono di Dio e una responsabilità comunitaria. L’educazione cristiana non forma solo professionisti, ma persone aperte al bene, al bello e alla verità. La scuola cattolica, di conseguenza, quando è fedele al suo nome, si configura come uno spazio di inclusione, formazione integrale e promozione umana; coniugando fede e cultura, semina futuro, onora l’immagine di Dio e costruisce una società migliore.

Accompagnare i migranti

73. L’esperienza della migrazione accompagna la storia del Popolo di Dio. Abramo parte senza sapere dove andrà; Mosè guida il popolo pellegrino attraverso il deserto; Maria e Giuseppe fuggono con il Bambino in Egitto. Lo stesso Cristo, che «venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1,11), ha vissuto in mezzo a noi come uno straniero. Per questo motivo, la Chiesa ha sempre riconosciuto nei migranti una presenza viva del Signore che, nel giorno del giudizio, dirà a quelli che sono alla sua destra: «Ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35).

74. Nel XIX secolo, quando milioni di Europei emigravano in cerca di migliori condizioni di vita, due grandi santi si distinsero nella cura pastorale dei migranti: San Giovanni Battista Scalabrini e Santa Francesca Saverio Cabrini. Scalabrini, Vescovo di Piacenza, fondò i Missionari di San Carlo per accompagnare i migranti nelle comunità di destinazione, offrendo loro assistenza spirituale, legale e materiale. Vedeva nei migranti i destinatari di una nuova evangelizzazione, mettendo in guardia dai rischi di sfruttamento e di perdita della fede in terra straniera. Rispondendo generosamente al carisma che il Signore gli aveva donato, «Scalabrini guardava oltre, guardava avanti, a un mondo e a una Chiesa senza barriere, senza stranieri».[62] Santa Francesca Cabrini, nata in Italia e naturalizzata americana, è stata la prima cittadina statunitense ad essere canonizzata. Per adempiere alla sua missione di assistere i migranti, attraversò più volte l’Atlantico e, «armata di singolare audacia, dal nulla iniziò scuole, ospedali, orfanotrofi per masse di diseredati avventuratisi nel nuovo mondo in cerca di lavoro, privi della conoscenza della lingua e di mezzi capaci di permettere loro un decoroso inserimento nella società americana e spesso vittime di persone senza scrupoli. Il suo cuore materno, che non si dava pace, li raggiungeva dappertutto: nei tuguri, nelle carceri, nelle miniere».[63] Nell’Anno Santo del 1950, Papa Pio XII la proclamò Patrona di tutti i migranti.[64]

75. La tradizione dell’attività della Chiesa per e con i migranti continua e oggi questo servizio si esprime in iniziative come i centri di accoglienza per i rifugiati, le missioni di frontiera, gli sforzi di Caritas Internationalis e di altre istituzioni. Il Magistero contemporaneo ribadisce chiaramente questo impegno. Papa Francesco ha ricordato che la missione della Chiesa verso i migranti e i rifugiati è ancora più ampia, insistendo sul fatto che «la risposta alla sfida posta dalle migrazioni contemporanee si può riassumere in quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Ma questi verbi non valgono solo per i migranti e i rifugiati. Essi esprimono la missione della Chiesa verso tutti gli abitanti delle periferie esistenziali, che devono essere accolti, protetti, promossi e integrati».[65] E diceva anche: «Ogni essere umano è figlio di Dio! In lui è impressa l’immagine di Cristo! Si tratta, allora, di vedere noi per primi e di aiutare gli altri a vedere nel migrante e nel rifugiato non solo un problema da affrontare, ma un fratello e una sorella da accogliere, rispettare e amare, un’occasione che la Provvidenza ci offre per contribuire alla costruzione di una società più giusta, una democrazia più compiuta, un Paese più solidale, un mondo più fraterno e una comunità cristiana più aperta, secondo il Vangelo».[66] La Chiesa, come una madre, cammina con coloro che camminano. Dove il mondo vede minacce, lei vede figli; dove si costruiscono muri, lei costruisce ponti. Sa che il suo annuncio del Vangelo è credibile solo quando si traduce in gesti di vicinanza e accoglienza. E sa che in ogni migrante respinto è Cristo stesso che bussa alle porte della comunità.

Accanto agli ultimi

76. La santità cristiana spesso fiorisce nei luoghi più dimenticati e feriti dell’umanità. I più poveri tra i poveri – coloro che non solo mancano di beni, ma anche di voce e di riconoscimento della loro dignità – occupano un posto speciale nel cuore di Dio. Sono i prediletti del Vangelo, gli eredi del Regno (cfr Lc 6,20). È in loro che Cristo continua a soffrire e a risorgere. È in loro che la Chiesa ritrova la chiamata a mostrare la sua realtà più autentica.

77. Santa Teresa di Calcutta, canonizzata nel 2016, è diventata un’icona universale della carità vissuta fino all’estremo in favore dei più indigenti, degli scartati dalla società. Fondatrice delle Missionarie della Carità, dedicò la sua vita ai moribondi abbandonati per le strade dell’India. Raccoglieva i rifiutati, lavava le loro ferite e li accompagnava fino al momento della morte con una tenerezza che era preghiera. Il suo amore per i più poveri tra i poveri ha fatto sì che non si occupasse solo dei loro bisogni materiali, ma che annunciasse loro la buona notizia del Vangelo: «Vogliamo annunciare ai poveri la buona notizia che Dio li ama, che noi li amiamo, che sono qualcuno per noi, che sono stati creati dalla stessa mano amorevole di Dio, per amare ed essere amati. I nostri poveri sono persone fantastiche, molto gentili, non hanno bisogno della nostra pietà o compassione, ma del nostro amore comprensivo. Hanno bisogno del nostro rispetto, hanno bisogno che li trattiamo con dignità».[67] Tutto questo nasceva da una profonda spiritualità che vedeva il servizio ai più poveri come frutto della preghiera e dell’amore, generatore di vera pace, come ricordava Papa Giovanni Paolo II ai pellegrini giunti a Roma per la sua beatificazione: «Dove ha trovato, Madre Teresa, la forza per porsi completamente al servizio degli altri? L’ha trovata nella preghiera e nella contemplazione silenziosa di Gesù Cristo, del suo Santo Volto, del suo Sacro Cuore. Lo ha detto lei stessa: “Il frutto del silenzio è la preghiera; il frutto della preghiera è la fede; il frutto della fede è l’amore; il frutto dell’amore è il servizio, il frutto del servizio è la pace” […]. Era una preghiera che riempiva il suo cuore della pace di Cristo e le consentiva di irradiare tale pace agli altri».[68] Teresa non si considerava una filantropa o un’attivista, ma una sposa di Cristo crocifisso, che serviva con amore totale nei fratelli sofferenti.

78. In Brasile, Santa Dulce dei Poveri – conosciuta come “l’angelo buono di Bahia” – ha incarnato lo stesso spirito evangelico con caratteristiche brasiliane. Riferendosi a lei e ad altre due religiose, canonizzate nel corso della stessa celebrazione, Papa Francesco ha ricordato il loro amore per i più emarginati della società e ha detto che le nuove Sante «ci mostrano che la vita religiosa è un cammino di amore nelle periferie esistenziali del mondo».[69] Suor Dulce ha affrontato la precarietà con creatività, gli ostacoli con tenerezza, il bisogno con fede incrollabile. Ha iniziato ospitando i malati in un pollaio e da lì ha fondato una delle più grandi opere sociali del Paese. Assisteva migliaia di persone al giorno, senza mai perdere la sua delicatezza. Si è fatta povera con i poveri per amore del sommamente Povero. Viveva con poco, pregava con fervore e serviva con gioia. La sua fede non l’allontanava dal mondo, ma la spingeva ancora più profondamente dentro il dolore degli ultimi.

79. Si potrebbero ricordare anche San Benedetto Menni e le Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù, accanto alle persone con disabilità; San Charles de Foucauld tra le comunità del Sahara; Santa Katharine Drexel accanto ai gruppi più svantaggiati nel Nord America; Suor Emmanuelle, con i raccoglitori di rifiuti nel quartiere di Ezbet El Nakhl, al Cairo; e moltissimi altri. Ognuno, a modo suo, ha scoperto che i più poveri non sono solo oggetto della nostra compassione, ma maestri del Vangelo. Non si tratta di “portar loro” Dio, ma di incontrarlo presso di loro. Tutti questi esempi ci insegnano che servire i poveri non è un gesto da fare “dall’alto verso il basso”, ma un incontro tra pari, dove Cristo viene rivelato e adorato. San Giovanni Paolo II ci ricordava che «c’è una presenza speciale di Cristo nella persona dei poveri, che obbliga la Chiesa a fare un’opzione preferenziale per loro».[70] La Chiesa, quindi, quando si china a prendersi cura dei poveri, assume la sua postura più elevata.

Movimenti popolari

80. Dobbiamo riconoscere pure che, lungo i secoli di storia cristiana, l’aiuto ai poveri e la lotta per i loro diritti non hanno riguardato soltanto i singoli, alcune famiglie, le istituzioni o le comunità religiose. Ci sono stati, e ci sono, diversi movimenti popolari, costituiti da laici e guidati da leader popolari, tante volte sospettati e addirittura perseguitati. Mi riferisco a un «insieme di persone che non camminano come individui ma come il tessuto di una comunità di tutti e per tutti, che non può permettere che i più poveri e i più deboli rimangano indietro. [...] I leader popolari, quindi, sono coloro che hanno la capacità di coinvolgere tutti. [...] Non provano disagio né sono spaventati dai giovani piagati e crocifissi». [71]

81. Questi leader popolari sanno che la solidarietà «è anche lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, della terra e della casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi. È far fronte agli effetti distruttori dell’impero del denaro [...]. La solidarietà, intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia, ed è questo che fanno i movimenti popolari».[72] Per tale ragione, quando le diverse istituzioni pensano ai bisogni dei poveri è necessario «che includano i movimenti popolari e animino le strutture di governo locali, nazionali e internazionali con quel torrente di energia morale che nasce dal coinvolgimento degli esclusi nella costruzione del destino comune».[73] I movimenti popolari, infatti, invitano a superare «quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli».[74] Se i politici e i professionisti non li ascoltano, «la democrazia si atrofizza, diventa un nominalismo, una formalità, perde rappresentatività, va disincarnandosi perché lascia fuori il popolo nella sua lotta quotidiana per la dignità, nella costruzione del suo destino».[75] Lo stesso si deve dire delle istituzioni della Chiesa.

CAPITOLO QUARTO

UNA STORIA CHE CONTINUA

Il secolo della Dottrina Sociale della Chiesa

82. L’accelerazione delle trasformazioni tecnologiche e sociali degli ultimi due secoli, piena di tragiche contraddizioni, non è stata solo subita, ma anche affrontata e pensata dai poveri. I movimenti dei lavoratori, delle donne, dei giovani, così come la lotta contro le discriminazioni razziali hanno comportato una nuova coscienza della dignità di chi è ai margini. Anche il contributo della Dottrina Sociale della Chiesa ha in sé questa radice popolare da non dimenticare: sarebbe inimmaginabile la sua rilettura della Rivelazione cristiana entro le moderne circostanze sociali, lavorative, economiche e culturali senza i laici cristiani alle prese con le sfide del loro tempo. Al loro fianco operarono religiose e religiosi testimoni di una Chiesa in uscita dalle vie già percorse. Il cambiamento d’epoca che stiamo affrontando rende oggi ancora più necessaria la continua interazione tra battezzati e Magistero, tra cittadini ed esperti, tra popolo e istituzioni. In particolare, va nuovamente riconosciuto che la realtà si vede meglio dai margini e che i poveri sono soggetti di una specifica intelligenza, indispensabile alla Chiesa e all’umanità.

83. Il Magistero degli ultimi centocinquant’anni offre una vera miniera di insegnamenti che riguardano i poveri. Così, i Vescovi di Roma si sono fatti voce di nuove consapevolezze, passate al vaglio del discernimento ecclesiale. Ad esempio, nella Lettera enciclica Rerum novarum (1891), Leone XIII affrontò la questione del lavoro, mettendo a nudo la situazione intollerabile di molti operai dell’industria, proponendo l’instaurazione di un ordine sociale giusto. In questa linea si sono espressi pure altri Pontefici. Con l’Enciclica Mater et Magistra (1961) San Giovanni XXIII si fece promotore di una giustizia dalle dimensioni mondiali: i Paesi ricchi non potevano rimanere indifferenti davanti ai Paesi oppressi dalla fame e dalla miseria; erano chiamati a soccorrerli generosamente con tutti i loro beni.

84. Il Concilio Vaticano II rappresenta una tappa fondamentale nel discernimento ecclesiale riguardo ai poveri, alla luce della Rivelazione. Sebbene nei documenti preparatori tale tema fosse marginale, sin dal Radiomessaggio dell’11 settembre 1962, a un mese dall’apertura del Concilio, San Giovanni XXIII accese l’attenzione su di esso con parole indimenticabili: «La Chiesa si presenta quale è e quale vuole essere, come la Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei poveri».[76] Fu poi il grande lavoro di vescovi, teologi ed esperti preoccupati del rinnovamento della Chiesa – con l’appoggio dello stesso San Giovanni XXIII – a riorientare il Concilio. È fondamentale la natura cristocentrica, quindi dottrinale e non solo sociale, di un simile fermento. Numerosi Padri conciliari, infatti, favorirono il consolidarsi della coscienza, ben espressa dal Cardinale Lercaro nel suo memorabile intervento del 6 dicembre 1962, che «il mistero di Cristo nella Chiesa è sempre stato ed è, ma oggi lo è particolarmente, il mistero di Cristo nei poveri»[77] e che «non si tratta di qualunque tema, ma in un certo senso è l’unico tema di tutto il Vaticano II».[78] L’Arcivescovo di Bologna, preparando il testo di questo intervento, annotava: «Questa è l’ora dei poveri, dei milioni di poveri che sono su tutta la terra, questa è l’ora del mistero della chiesa madre dei poveri, questa è l’ora del mistero di Cristo soprattutto nel povero».[79] Si prospettava così la necessità di una nuova forma ecclesiale, più semplice e sobria, coinvolgente l’intero popolo di Dio e la sua figura storica. Una Chiesa più simile al suo Signore che alle potenze mondane, tesa a stimolare in tutta l’umanità un impegno concreto per la soluzione del grande problema della povertà nel mondo.

85. San Paolo VI, in occasione dell’apertura della seconda sessione del Concilio, riprese il tema posto dal suo predecessore, vale a dire che la Chiesa guarda con particolare interesse «ai poveri, ai bisogno­si, agli afflitti, agli affamati, ai sofferenti, ai carcerati, cioè guarda a tutta l’umanità che soffre e che piange: essa le appartiene, per diritto evangelico».[80] Nell’Udienza generale dell’11 novembre 1964 egli sottolineò che «il Povero è rappresentante di Cristo» e, accostando l’immagine del Signore negli ultimi a quella che si manifesta nel Papa, affermò: «La rappresentanza di Cristo nel Povero è universale, ogni Povero rispecchia Cristo; quella del Papa è personale. […] Il Povero e Pietro possono coincidere, possono essere la stessa persona, rivestita d’una duplice rappresentanza, della Povertà e dell’Autorità».[81] In tal modo, il legame intrinseco tra Chiesa e poveri veniva espresso simbolicamente con inedita chiarezza.

86. Nella Costituzione pastorale Gaudium et spes, attualizzando l’eredità dei Padri della Chiesa, il Concilio ribadisce con forza la destinazione universale dei beni della terra e la funzione sociale della proprietà che ne deriva: «Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene, all’uso di tutti gli uomini e popoli, e pertanto i beni creati debbono, secondo un equo criterio, essere partecipati a tutti […]. Perciò l’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che posso­no giovare non solo a lui ma anche agli altri. Del resto, a tutti gli uomini spetta il diritto di avere una parte di beni sufficienti a sé e alla propria famiglia. […] Colui che si trova in estre­ma necessità ha il diritto di procurarsi il necessario dalle ricchezze altrui. […] Ogni proprietà privata ha per sua natura una funzione sociale che si fonda sulla comune destinazione dei beni. Se si trascura questa funzione sociale, la proprietà può diventare in molti modi occasione di cupidigia e di gravi disordini».[82] Questa convinzione è rilanciata da San Paolo VI nell’Enciclica Populorum progressio, dove leggiamo che nessuno può ritenersi «autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario». [83] Nel suo intervento alle Nazioni Unite, Papa Montini si presentò come l’avvocato dei popoli poveri,[84] sollecitando la comunità internazionale a edificare un mondo solidale.

87. Con San Giovanni Paolo II si consolida, almeno in ambito dottrinale, il rapporto preferenziale della Chiesa con i poveri. Il suo magistero ha infatti riconosciuto che l’opzione per i poveri è una «forma speciale di primazia nell’esercizio della carità cristiana, della quale dà testimonianza tutta la tradizione della Chiesa».[85] Nell’Enciclica Sollicitudo rei socialis scrive ancora che oggi, attesa la dimensione mondiale che la questione sociale ha assunto, «questo amore preferenziale, con le decisioni che esso ci ispira, non può non abbracciare le immense moltitudini di affamati, di mendicanti, di senza tetto, senza assistenza medica e, soprattutto, senza speranza di un futuro migliore: non si può non prendere atto dell’esistenza di queste realtà. L’ignorarle significherebbe assimilarci al “ricco epulone”, che fingeva di non conoscere Lazzaro, il mendicante, giacente fuori della sua porta (cfr Lc 16,19-31)».[86] Il suo insegnamento sul lavoro acquista importanza quando vogliamo pensare al ruolo attivo dei poveri nel rinnovamento della Chiesa e della società, lasciandoci alle spalle il paternalismo della sola assistenza ai loro bisogni immediati. Nell’Enciclica Laborem exercens egli afferma che «il lavoro umano è una chiave, e probabilmente la chiave essenziale, di tutta la questione sociale».[87]

88. A fronte delle molteplici crisi che hanno contraddistinto l’inizio del terzo millennio, la lettura di Benedetto XVI si fa più marcatamente politica. Così, nella Lettera enciclica Caritas in veritate, afferma che «si ama tanto più efficacemente il prossimo, quanto più ci si adopera per un bene comune rispondente anche ai suoi reali bisogni».[88] Inoltre osserva che «la fame non dipende tanto da scarsità materiale, quanto piuttosto da scarsità di risorse sociali, la più importante delle quali è di natura istituzionale. Manca, cioè, un assetto di istituzioni economiche in grado sia di garantire un accesso al cibo e all’acqua regolare e adeguato dal punto di vista nutrizionale, sia di fronteggiare le necessità connesse con i bisogni primari e con le emergenze di vere e proprie crisi alimentari, provocate da cause naturali o dall’irresponsabilità politica nazionale e internazionale».[89]

89. Papa Francesco ha riconosciuto come, oltre al magistero dei Vescovi di Roma, negli ultimi decenni si sono fatte sempre più frequenti anche le prese di posizione da parte delle Conferenze Episcopali nazionali e regionali. In prima persona, ad esempio, ha potuto testimoniare il particolare impegno dell’Episcopato latino-americano nel ripensare il rapporto della Chiesa con i poveri. Nel dopo Concilio, in quasi tutti i Paesi dell’America Latina, si è sentita forte l’identificazione della Chiesa con i poveri e un’attiva partecipazione al loro riscatto. Era il cuore stesso della Chiesa a muoversi di fronte a tanti poveri afflitti da disoccupazione, sottoccupazione, salari iniqui, e costretti a vivere in condizioni miserabili. Il martirio di Sant’Oscar Romero, Arcivescovo di San Salvador, è stato insieme una testimonianza e una viva esortazione per la Chiesa. Lui sentiva come proprio il dramma della stragrande maggioranza dei suoi fedeli e fece di loro il centro della sua scelta pastorale. Le Conferenze dell’Episcopato Latino-americano a Medellín, a Puebla, a Santo Domingo e ad Aparecida costituiscono tappe significative anche per la Chiesa intera. Io stesso, per lunghi anni missionario in Perù, devo molto a questo cammino di discernimento ecclesiale, che Papa Francesco ha saputo sapientemente legare a quello delle altre Chiese particolari, specie del Sud globale. Adesso vorrei riprendere due temi specifici di questo magistero episcopale.

Strutture di peccato che creano povertà e disuguaglianze estreme

90. A Medellín i Vescovi si pronunciarono a favore della scelta preferenziale per i poveri: «Il Cristo nostro salvatore non solo amò i poveri, bensì, “essendo ricco, si fece povero” visse nella povertà, incentrò la sua missione nell’annunciare la loro liberazione e fondò la sua Chiesa come segno di questa povertà fra gli uomini. [...] La povertà di tanti fratelli invoca giustizia, solidarietà, testimonianza, impegno, sforzo e superamento perché si compia pienamente la missione salvifica affidata da Cristo».[90] I Vescovi affermano con forza che la Chiesa, per essere pienamente fedele alla sua vocazione, deve non solo condividere la condizione dei poveri, ma mettersi anche al loro fianco e impegnarsi fattivamente per la loro promozione integrale. La Conferenza di Puebla, di fronte a un aggravarsi della miseria in America Latina, confermò la decisione di Medellín con un’opzione franca e profetica in favore dei poveri e qualificò come “peccato sociale” le strutture di ingiustizia.

91. La carità è una forza che cambia la realtà, un’autentica potenza storica di cambiamento. Questa è la sorgente a cui deve attingere ogni impegno per «risolvere le cause strutturali della povertà»[91] e per avviarlo con urgenza. Auspico pertanto che «cresca il numero dei politici capaci di entrare in un autentico dialogo che si orienti efficacemente a sanare le radici profonde e non l’apparenza dei mali del mondo»,[92] perché «si tratta di ascoltare il grido di interi popoli, dei popoli più poveri della terra».[93]

92. È pertanto doveroso continuare a denunciare la “dittatura di un’economia che uccide” e riconoscere che «mentre i guadagni di pochi crescono esponenzialmente, quelli della maggioranza si collocano sempre più distanti dal benessere di questa minoranza felice. Tale squilibrio procede da ideologie che difendono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria. Perciò negano il diritto di controllo degli Stati, incaricati di vigilare per la tutela del bene comune. Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone, in modo unilaterale e implacabile, le sue leggi e le sue regole».[94] Sebbene non manchino diverse teorie che tentano di giustificare lo stato attuale delle cose, o di spiegare che la razionalità economica esige da noi di aspettare che le forze invisibili del mercato risolvano tutto, la dignità di ogni persona umana dev’essere rispettata adesso, non domani, e la situazione di miseria di tante persone a cui viene negata questa dignità dev’essere un richiamo costante per la nostra coscienza.

93. Nell’Enciclica Dilexit nos Papa Francesco ha ricordato che il peccato sociale prende forma come “struttura di peccato” nella società, che «fa spesso parte di una mentalità dominante che considera normale o razionale quello che in realtà è solo egoismo e indifferenza. Tale fenomeno si può definire alienazione sociale».[95] Diventa normale ignorare i poveri e vivere come se non esistessero. Si presenta come la scelta ragionevole organizzare l’economia chiedendo sacrifici al popolo, per raggiungere certi scopi che interessano ai potenti. Intanto per i poveri rimangono solo promesse di “gocce” che cadranno, finché una nuova crisi globale non li porterà di nuovo alla situazione precedente. È una vera e propria alienazione quella che porta a trovare solo scuse teoriche e non a cercare di risolvere oggi i problemi concreti di coloro che soffrono. Lo diceva già San Giovanni Paolo II: «È alienata la società che, nelle sue forme di organizzazione sociale, di produzione e di consumo, rende più difficile la realizzazione di questo dono ed il costituirsi di questa solidarietà interumana».[96]

94. Dobbiamo impegnarci sempre di più a risolvere le cause strutturali della povertà. È un’urgenza che «non può attendere, non solo per un’esigenza pragmatica di ottenere risultati e di ordinare la società, ma per guarirla da una malattia che la rende fragile e indegna e che potrà solo portarla a nuove crisi. I piani assistenziali, che fanno fronte ad alcune urgenze, si dovrebbero considerare solo come risposte provvisorie».[97] La mancanza di equità «è la radice dei mali sociali».[98] Infatti, «molte volte si constata che, di fatto, i diritti umani non sono uguali per tutti».[99]

95. Accade che «nel vigente modello “di successo” e “privatistico”, non sembra abbia senso investire affinché quelli che rimangono indietro, i deboli o i meno dotati possano farsi strada nella vita».[100] La domanda che ritorna è sempre la stessa: i meno dotati non sono persone umane? I deboli non hanno la stessa nostra dignità? Quelli che sono nati con meno possibilità valgono meno come esseri umani, devono solo limitarsi a sopravvivere? Dalla risposta che diamo a queste domande dipende il valore delle nostre società e da essa dipende pure il nostro futuro. O riconquistiamo la nostra dignità morale e spirituale o cadiamo come in un pozzo di sporcizia. Se non ci fermiamo a prendere le cose sul serio continueremo, in modi espliciti o dissimulati, a «legittimare l’attuale modello distributivo, in cui una minoranza si crede in diritto di consumare in una proporzione che sarebbe impossibile generalizzare, perché il pianeta non potrebbe nemmeno contenere i rifiuti di un simile consumo».[101]

96. Tra le questioni strutturali che non si può immaginare di risolvere dall’alto e che al più presto domandano di essere prese in carico c’è quella dei luoghi, degli spazi, delle case, delle città dove i poveri vivono e camminano. Lo sappiamo: «Come sono belle le città che superano la sfiducia malsana e integrano i differenti, e che fanno di tale integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!».[102] Allo stesso tempo «non possiamo tralasciare di considerare gli effetti del degrado ambientale, dell’attuale modello di sviluppo e della cultura dello scarto sulla vita delle persone».[103] Infatti «il deterioramento dell’ambiente e quello della società colpiscono in modo speciale i più deboli del pianeta».[104]

97. Pertanto, è compito di tutti i membri del Popolo di Dio far sentire, pur in modi diversi, una voce che svegli, che denunci, che si esponga anche a costo di sembrare degli “stupidi”. Le strutture d’ingiustizia vanno riconosciute e distrutte con la forza del bene, attraverso il cambiamento delle mentalità ma anche, con l’aiuto delle scienze e della tecnica, attraverso lo sviluppo di politiche efficaci nella trasformazione della società. Va ricordato sempre che la proposta del Vangelo non è soltanto quella di un rapporto individuale e intimo col Signore. La proposta è più ampia: «È il Regno di Dio (cfr Lc 4,43); si tratta di amare Dio che regna nel mondo. Nella misura in cui Egli riuscirà a regnare tra di noi, la vita sociale sarà uno spazio di fraternità, di giustizia, di pace, di dignità per tutti. Dunque, tanto l’annuncio quanto l’esperienza cristiana tendono a provocare conseguenze sociali. Cerchiamo il suo Regno».[105]

98. Un documento, infine, che inizialmente non è stato ben accolto da tutti, ci offre una riflessione sempre attuale: «I difensori della “ortodossia” sono talvolta rimproverati di passività, di indulgenza o di complicità colpevoli nei confronti delle intollerabili situazioni di ingiustizia e dei regimi politici che mantengono tali situazioni. Si richiede da parte di tutti, e specialmente da parte dei pastori e dei responsabili, la conversione spirituale, l’intensità dell’amore di Dio e del prossimo, lo zelo per la giustizia e la pace, il senso evangelico dei poveri e della povertà. La preoccupazione della purezza della fede non deve essere disgiunta dalla preoccupazione di dare, mediante una vita teologale integrale, la risposta di un’efficace testimonianza di servizio del prossimo, e in modo tutto particolare del povero e dell’oppresso».[106]

I poveri come soggetti

99. Un dono fondamentale al cammino della Chiesa universale è rappresentato dal discernimento della Conferenza di Aparecida, in cui i Vescovi latino-americani esplicitarono che la scelta preferenziale per i poveri da parte della Chiesa «è inscritta nella fede cristologica che ha portato Dio a farsi povero per noi, per arricchirci con la sua povertà».[107] Nel documento si contestualizza la missione nell’attuale situazione del mondo globalizzato con i suoi nuovi e drammatici squilibri[108] e, nel messaggio finale, i Vescovi scrivono: «Le forti differenze tra ricchi e poveri ci invitano a lavorare con maggiore impegno per essere discepoli capaci di condividere la mensa della vita, mensa di tutti i figli e figlie del Padre, mensa aperta, includente, dalla quale non sia escluso nessuno. Perciò ribadiamo la nostra opzione preferenziale ed evangelica per i poveri».[109]

100. Allo stesso tempo, il documento, approfondendo un tema già presente nelle Conferenze precedenti dell’Episcopato dell’America Latina, insiste sulla necessità di considerare le comunità emarginate quali soggetti capaci di creare una propria cultura, più che come oggetti di beneficenza. Ciò implica che tali comunità hanno il diritto di vivere il Vangelo e celebrare e comunicare la fede secondo i valori presenti nelle loro culture. L’esperienza della povertà dà loro la capacità di riconoscere aspetti della realtà che altri non riescono a vedere, e per questo la società ha bisogno di ascoltarli. Lo stesso vale per la Chiesa, che deve valutare positivamente il loro modo “popolare” di vivere la fede. Un bel testo del Documento finale di Aparecida ci aiuta a riflettere su questo punto per trovare l’atteggiamento giusto: «Solo la vicinanza che ci rende amici ci permette di apprezzare profondamente i valori dei poveri di oggi, i loro legittimi desideri e il loro modo di vivere la fede. [...] Giorno dopo giorno, i poveri diventano soggetti di evangelizzazione e di promozione umana integrale: educano i figli alla fede, vivono una costante solidarietà tra parenti e vicini, cercano costantemente Dio e danno vita al pellegrinaggio della Chiesa. Alla luce del Vangelo ne riconosciamo l’immensa dignità e il valore sacro agli occhi di Cristo, povero come loro ed escluso tra loro. Da questa esperienza di fedeltà, condivideremo con loro la difesa dei loro diritti».[110]

101. Tutto ciò comporta la presenza di un aspetto nell’opzione per i poveri che dobbiamo ricordare costantemente: quest’opzione esige, infatti, da noi «un’attenzione rivolta all’altro […]. Questa attenzione d’amore è l’inizio di una vera preoccupazione per la sua persona e a partire da essa desidero cercare effettivamente il suo bene. Questo implica apprezzare il povero nella sua bontà propria, col suo modo di essere, con la sua cultura, con il suo modo di vivere la fede. L’amore autentico è sempre contemplativo, ci permette di servire l’altro non per necessità o vanità, ma perché è bello, al di là delle apparenze. […] Solo a partire da questa vicinanza reale e cordiale possiamo accompagnarli adeguatamente nel loro cammino di liberazione».[111] Per questa ragione, rivolgo un sincero ringraziamento a tutti coloro che hanno scelto di vivere tra i poveri: a coloro, cioè, che non vanno a fare loro una visita ogni tanto, ma che vivono con loro e come loro. Questa è un’opzione che deve trovare posto tra le forme più alte di vita evangelica.

102. In questa prospettiva appare chiara la necessità che «tutti ci lasciamo evangelizzare»[112] dai poveri, e che tutti riconosciamo «la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro».[113] Cresciuti nell’estrema precarietà, imparando a sopravvivere nelle condizioni più avverse, fidandosi di Dio con la certezza che nessun altro li prenda sul serio, aiutandosi a vicenda nei momenti più bui, i poveri hanno imparato tante cose che conservano nel mistero del loro cuore. Quelli fra noi che non hanno avuto esperienze simili, di vita vissuta al limite, certamente hanno molto da ricevere da quella fonte di saggezza che è l’esperienza dei poveri. Solo mettendo in relazione le nostre lamentele con le loro sofferenze e privazioni è possibile ricevere un rimprovero che ci invita a semplificare la nostra vita.

CAPITOLO QUINTO

UNA SFIDA PERMANENTE

103. Ho scelto di ricordare questa bimillenaria storia di attenzione ecclesiale verso i poveri e con i poveri per mostrare che essa è parte essenziale dell’ininterrotto cammino della Chiesa. La cura dei poveri fa parte della grande Tradizione della Chiesa, come un faro di luce che, dal Vangelo in poi, ha illuminato i cuori e i passi dei cristiani di ogni tempo. Pertanto, dobbiamo sentire l’urgenza di invitare tutti a immettersi in questo fiume di luce e di vita che proviene dal riconoscimento di Cristo nel volto dei bisognosi e dei sofferenti. L’amore per i poveri è un elemento essenziale della storia di Dio con noi e, dal cuore stesso della Chiesa, prorompe come un continuo appello ai cuori dei credenti, sia delle comunità che dei singoli fedeli. In quanto è Corpo di Cristo, la Chiesa sente come propria “carne” la vita dei poveri, i quali sono parte privilegiata del popolo in cammino. Per questo l’amore a coloro che sono poveri – in qualunque forma si manifesti tale povertà – è la garanzia evangelica di una Chiesa fedele al cuore di Dio. Infatti, ogni rinnovamento ecclesiale ha sempre avuto fra le sue priorità questa attenzione preferenziale ai poveri, che si differenzia, sia nelle motivazioni sia nello stile, dall’attività di qualunque altra organizzazione umanitaria.

104. Il cristiano non può considerare i poveri solo come un problema sociale: essi sono una “questione familiare”. Sono “dei nostri”. Il rapporto con loro non può essere ridotto a un’attività o a un ufficio della Chiesa. Come insegna la Conferenza di Aparecida, «ci viene chiesto di dedicare tempo ai poveri, di dare loro un’attenzione amorevole, di ascoltarli con interesse, di accompagnarli nei momenti difficili, scegliendoli per condividere ore, settimane o anni della nostra vita, e cercando, a partire da loro, la trasformazione della loro situazione. Non possiamo dimenticare che Gesù stesso lo ha proposto con il suo modo di agire e con le sue parole». [114]

Di nuovo il buon samaritano

105. La cultura dominante dell’inizio di questo millennio spinge ad abbandonare i poveri al loro destino, a non considerarli degni di attenzione e tanto meno di apprezzamento. Nell’Enciclica Fratelli tutti Papa Francesco ci ha invitato a riflettere sulla parabola del buon samaritano (cfr Lc 10,25-37), proprio per approfondire questo punto. Nella parabola, infatti, vediamo che, di fronte a quell’uomo ferito e abbandonato lungo la strada, quelli che passano hanno atteggiamenti diversi. Soltanto il buon samaritano se ne prende cura. Allora torna la domanda che interpella ciascuno in prima persona: «Con chi ti identifichi? Questa domanda è dura, diretta e decisiva. A quale di loro assomigli? Dobbiamo riconoscere la tentazione che ci circonda di disinteressarci degli altri, specialmente dei più deboli. Diciamolo, siamo cresciuti in tanti aspetti ma siamo analfabeti nell’accompagnare, curare e sostenere i più fragili e deboli delle nostre società sviluppate. Ci siamo abituati a girare lo sguardo, a passare accanto, a ignorare le situazioni finché queste non ci toccano direttamente».[115]

106. E ci fa tanto bene scoprire che quella scena del buon samaritano si ripete anche oggi. Ricordiamo una situazione dei nostri giorni: «Quando incontro una persona che dorme alle intemperie, in una notte fredda, posso sentire che questo fagotto è un imprevisto che mi intralcia, un delinquente ozioso, un ostacolo sul mio cammino, un pungiglione molesto per la mia coscienza, un problema che devono risolvere i politici, e forse anche un’immondizia che sporca lo spazio pubblico. Oppure posso reagire a partire dalla fede e dalla carità e riconoscere in lui un essere umano con la mia stessa dignità, una creatura infinitamente amata dal Padre, un’immagine di Dio, un fratello redento da Cristo. Questo è essere cristiani! O si può forse intendere la santità prescindendo da questo riconoscimento vivo della dignità di ogni essere umano?».[116] Cosa fece il buon samaritano?

107. La domanda diventa urgente perché ci aiuta a renderci conto di una grave mancanza nelle nostre società e anche nelle nostre comunità cristiane. Il fatto è che tante forme d’indifferenza che troviamo oggi «sono segni di uno stile di vita generalizzato, che si manifesta in vari modi, forse più sottili. Inoltre, poiché tutti siamo molto concentrati sulle nostre necessità, vedere qualcuno che soffre ci dà fastidio, ci disturba, perché non vogliamo perdere tempo per colpa dei problemi altrui. Questi sono sintomi di una società malata, perché mira a costruirsi voltando le spalle al dolore. Meglio non cadere in questa miseria. Guardiamo il modello del buon samaritano».[117] Le parole finali della parabola evangelica – «Va’ e anche tu fa’ così» (Lc 10,37) – sono un comando che un cristiano deve sentire risuonare ogni giorno nel suo cuore.

Una sfida ineludibile per la Chiesa di oggi

108. In un tempo particolarmente difficile per la Chiesa di Roma, quando le istituzioni imperiali stavano crollando sotto la pressione dei barbari, il Papa San Gregorio Magno ammoniva così i suoi fedeli: «Ogni giorno possiamo trovare Lazzaro, se lo cerchiamo, e ogni giorno ci imbattiamo in lui, anche senza metterci a cercarlo. I poveri si presentano a noi anche in modo importuno e ci rivolgono delle richieste, essi che un giorno potranno intercedere per noi. [...] Non sciupate dunque le occasioni di agire con misericordia e non trascurate di ricorrere ai rimedi di cui potete disporre».[118] Coraggiosamente egli sfidava i diffusi pregiudizi nei confronti dei poveri, come quello che li vedeva come responsabili della propria stessa miseria: «Quando vedete dei poveri compiere qualche azione da biasimare, non abbiate disprezzo o sfiducia nei loro confronti, perché il fuoco della povertà sta forse purificando ciò che essi compiono contraendo delle colpe anche se lievissime».[119] Non di rado il benessere rende ciechi, al punto che pensiamo che la nostra felicità possa realizzarsi soltanto se riusciamo a fare a meno degli altri. In questo, i poveri possono essere per noi come dei maestri silenziosi, riportando a una giusta umiltà il nostro orgoglio e la nostra arroganza.

109. Se è vero che i poveri vengono sostenuti da chi ha mezzi economici, si può affermare con certezza anche l’inverso. È questa una sorprendente esperienza attestata dalla tradizione cristiana e che diventa una vera e propria svolta nella nostra vita personale, quando ci accorgiamo che sono proprio i poveri a evangelizzarci. In che modo? Nel silenzio della loro condizione, essi ci pongono di fronte alla nostra debolezza. L’anziano, ad esempio, con la fragilità del suo corpo, ci ricorda la nostra vulnerabilità, anche se cerchiamo di nasconderla dietro il benessere o l’apparenza. Inoltre, i poveri ci fanno riflettere sull’inconsistenza di quell’orgoglio aggressivo con cui spesso affrontiamo le difficoltà della vita. In sostanza, essi rivelano la nostra precarietà e la vacuità di una vita apparentemente protetta e sicura. A questo proposito, ascoltiamo di nuovo San Gregorio Magno: «Nessuno dunque si senta sicuro dicendo: io non derubo gli altri, perché mi limito a far uso dei beni a me concessi secondo giustizia. Il ricco epulone infatti non fu punito perché volle per sé i beni altrui, ma per aver trascurato sé stesso dopo aver ricevuto tante ricchezze. La sua condanna all’inferno fu determinata dal fatto che nella felicità egli non conservò il sentimento del timore, divenne arrogante per i doni ricevuti, non ebbe alcun sentimento di compassione».[120]

110. Per noi cristiani, la questione dei poveri riconduce all’essenziale della nostra fede. L’opzione preferenziale per i poveri, ossia l’amore della Chiesa verso di loro, come insegnava San Giovanni Paolo II, «è determinante e appartiene alla sua costante tradizione, la spinge a rivolgersi al mondo nel quale, nonostante il progresso tecnico-economico, la povertà minaccia di assumere forme gigantesche».[121] La realtà è che i poveri per i cristiani non sono una categoria sociologica, ma la stessa carne di Cristo. Infatti, non è sufficiente limitarsi a enunciare in modo generale la dottrina dell’incarnazione di Dio; per entrare davvero in questo mistero, invece, bisogna specificare che il Signore si fa carne che ha fame, che ha sete, che è malata, carcerata. «Una Chiesa povera per i poveri incomincia con l’andare verso la carne di Cristo. Se noi andiamo verso la carne di Cristo, incominciamo a capire qualcosa, a capire che cosa sia questa povertà del Signore. E questo non è facile».[122]

111. Il cuore della Chiesa, per sua stessa natura, è solidale con coloro che sono poveri, esclusi ed emarginati, con quanti sono considerati uno “scarto” della società. I poveri sono nel centro stesso della Chiesa, perché è dalla «fede in Cristo fattosi povero, e sempre vicino ai poveri e agli esclusi, [che] deriva la preoccupazione per lo sviluppo integrale dei più abbandonati delle società».[123] Si trova nel cuore di ognuno dei fedeli «l’esigenza di ascoltare quel grido [che] deriva dalla stessa opera liberatrice della grazia in ciascuno di noi, per cui non si tratta di una missione riservata solo ad alcuni».[124]

112. Talvolta si riscontra in alcuni movimenti o gruppi cristiani la carenza o addirittura l’assenza dell’impegno per il bene comune della società e, in particolare, per la difesa e la promozione dei più deboli e svantaggiati. A tale proposito, occorre ricordare che la religione, specialmente quella cristiana, non può essere limitata all’ambito privato, come se i fedeli non dovessero aver a cuore anche problemi che riguardano la società civile e gli avvenimenti che interessano i cittadini. [125]

113. In realtà, «qualsiasi comunità della Chiesa, nella misura in cui pretenda di stare tranquilla senza occuparsi creativamente e cooperare con efficacia affinché i poveri vivano con dignità e per l’inclusione di tutti, correrà anche il rischio della dissoluzione, benché parli di temi sociali o critichi i governi. Facilmente finirà per essere sommersa dalla mondanità spirituale, dissimulata con pratiche religiose, con riunioni infeconde o con discorsi vuoti».[126]

114. Non parliamo solo dell’assistenza e del necessario impegno per la giustizia. I credenti debbono rendere conto di un’altra forma di incoerenza nei confronti dei poveri. In verità, «la peggior discriminazione di cui soffrono i poveri è la mancanza di attenzione spirituale […]. L’opzione preferenziale per i poveri deve tradursi principalmente in un’attenzione religiosa privilegiata e prioritaria». [127] Tuttavia, tale attenzione spirituale ai poveri viene messa in discussione da certi pregiudizi, anche da parte di cristiani, perché ci sentiamo più a nostro agio senza i poveri. C’è chi continua a dire: “Il nostro compito è di pregare e di insegnare la vera dottrina”. Ma, svincolando questo aspetto religioso dalla promozione integrale, aggiungono che solo il governo dovrebbe prendersi cura di loro, oppure che sarebbe meglio lasciarli nella miseria, insegnando loro piuttosto a lavorare. A volte, invece, si assumono criteri pseudoscientifici per dire che la libertà del mercato porterà spontaneamente alla soluzione del problema della povertà. Oppure, persino, si opta per una pastorale delle cosiddette élite, sostenendo che, al posto di perdere tempo con i poveri, è meglio prendersi cura dei ricchi, dei potenti e dei professionisti, cosicché, attraverso di loro, si potranno raggiungere soluzioni più efficaci. È facile cogliere la mondanità che si cela dietro queste opinioni: esse ci portano a guardare la realtà con criteri superficiali e privi di qualsiasi luce soprannaturale, privilegiando frequentazioni che ci rassicurano e ricercando privilegi che ci accomodano.

Ancora oggi, dare

115. È bene spendere un’ultima parola sull’elemosina, che oggi non gode di buona fama, spesso neppure tra i credenti. Non solo essa viene raramente praticata, ma a volte addirittura disprezzata. Da una parte, ribadisco che l’aiuto più importante per una persona povera è aiutarla ad avere un buon lavoro, perché possa guadagnarsi una vita più consona alla sua dignità sviluppando le sue capacità e offrendo il suo sforzo personale. Il fatto è che «la mancanza di lavoro è molto più del venire meno di una sorgente di reddito per poter vivere. Il lavoro è anche questo, ma è molto, molto di più. Lavorando noi diventiamo più persona, la nostra umanità fiorisce, i giovani diventano adulti soltanto lavorando. La Dottrina sociale della Chiesa ha sempre visto il lavoro umano come partecipazione alla creazione che continua ogni giorno, anche grazie alle mani, alla mente e al cuore dei lavoratori».[128] Dall’altra parte, se non c’è ancora questa possibilità concreta, non dobbiamo correre il rischio di lasciare una persona abbandonata alla sua sorte, senza quello che è indispensabile per vivere degnamente. E quindi l’elemosina rimane un momento necessario di contatto, di incontro e di immedesimazione nella condizione altrui.

116. È evidente, per chi ama davvero, che l’elemosina non scarica dalle proprie responsabilità le autorità competenti, né elimina l’impegno organizzativo delle istituzioni, e nemmeno sostituisce la legittima lotta per la giustizia. Essa però invita almeno a fermarsi e a guardare in faccia la persona povera, a toccarla e a condividere con lei qualcosa del proprio. In ogni caso, l’elemosina, anche se piccola, infonde pietas in una vita sociale in cui tutti si preoccupano del proprio interesse personale. Dice il Libro dei Proverbi: «Chi è generoso sarà benedetto, perché egli dona del suo pane al povero» (Pr 22,9).

117. Sia l’Antico che il Nuovo Testamento contengono veri e propri inni all’elemosina: «Tuttavia sii paziente con il misero, e non fargli attendere troppo a lungo l’elemosina. […] Riponi l’elemosina nei tuoi scrigni ed essa ti libererà da ogni male» (Sir 29,8.12). E Gesù riprende questo insegnamento: «Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli» (Lc 12,33).

118. Si attribuiva a San Giovanni Crisostomo questa esortazione: «L’elemosina è l’ala della preghiera. Se non aggiungi un’ala alla tua preghiera, a malapena potrà volare».[129] E San Gregorio di Nazianzo concludeva una sua celebre orazione con queste parole: «Se dunque mi date retta, o servi di Cristo, fratelli e coeredi, finché è il momento visitiamo Cristo, curiamo Cristo, sfamiamo Cristo, vestiamo Cristo, accogliamo Cristo, onoriamo Cristo: non solo con una mensa, come certuni, non solo con degli unguenti, come Maria; non solo con un sepolcro, come Giuseppe d’Arimatea; non solo con quei riti che riguardano la sepoltura, come Nicodemo, che amava Cristo solo a metà; non solo con oro, incenso e mirra, come i Magi; ma poiché il Signore misericordia vuole e non sacrificio […] questa offriamogli nei poveri, affinché quando ce ne andremo di quaggiù, ci accolgano nei templi eterni».[130]

119. L’amore e le convinzioni più profonde vanno alimentate, e lo si fa con gesti. Rimanere nel mondo delle idee e delle discussioni, senza gesti personali, frequenti e sentiti, sarà la rovina dei nostri sogni più preziosi. Per questa semplice ragione come cristiani non rinunciamo all’elemosina. Un gesto che si può fare in diverse maniere, e che possiamo tentare di fare nel modo più efficace, ma dobbiamo farlo. E sempre sarà meglio fare qualcosa che non fare niente. In ogni caso ci toccherà il cuore. Non sarà la soluzione alla povertà nel mondo, che va cercata con intelligenza, tenacia, impegno sociale. Ma noi abbiamo bisogno di esercitarci nell’elemosina per toccare la carne sofferente dei poveri.

120. L’amore cristiano supera ogni barriera, avvicina i lontani, accomuna gli estranei, rende familiari i nemici, valica abissi umanamente insuperabili, entra nelle pieghe più nascoste della società. Per sua natura, l’amore cristiano è profetico, compie miracoli, non ha limiti: è per l’impossibile. L’amore è soprattutto un modo di concepire la vita, un modo di viverla. Ebbene, una Chiesa che non mette limiti all’amore, che non conosce nemici da combattere, ma solo uomini e donne da amare, è la Chiesa di cui oggi il mondo ha bisogno.

121. Sia attraverso il vostro lavoro, sia attraverso il vostro impegno per cambiare le strutture sociali ingiuste, sia attraverso quel gesto di aiuto semplice, molto personale e ravvicinato, sarà possibile per quel povero sentire che le parole di Gesù sono per lui: «Io ti ho amato» (Ap 3,9).

Dato a Roma, presso San Pietro, il 4 ottobre, festa di San Francesco d’Assisi, dell’anno 2025, primo del mio Pontificato.

LEONE PP. XIV

[1] Francesco, Lett. enc. Dilexit nos (24 ottobre 2024), 170: AAS 116 (2024), 1422.

[2] Ibid., 171: AAS 116 (2024), 1422-1423.

[3] Id., Esort. ap. Gaudete et exsultate (19 marzo 2018), 96: AAS 110 (2018), 1137.

[4] Francesco, Incontro con i rappresentanti dei media (16 marzo 2013): AAS 105 (2013), 381.

[5] J. Bergoglio – A. Skorka, Sobre el cielo y la tierra, Buenos Aires 2013, 214.

[6] S. Paolo VI, Omelia nella Messa in occasione dell’ultima sessione pubblica del Concilio Ecumenico Vaticano II (7 dicembre 1965): AAS 58 (1966), 55-56.

[7] Cfr Francesco, Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 187: AAS 105 (2013), 1098.

[8] Ibid., 212: AAS 105 (2013), 1108.

[9] Id., Lett. enc. Fratelli tutti (3 ottobre 2020), 23: AAS 112 (2020), 977.

[10] Ibid., 21: AAS 112 (2020), 976.

[11] Consiglio delle Comunità Europee, Decisione (85/8/CEE) relativa ad un’azione specifica comunitaria di lotta contro la povertà (19 dicembre 1984), art. 1, par. 2: Gazzetta ufficiale delle Comunità Europee, N. L 2/24.

[12] Cfr S. Giovanni Paolo II, Catechesi (27 ottobre 1999): L’Osservatore Romano, 28 ottobre 1999, 4.

[13] Francesco, Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 197: AAS 105 (2013), 1102.

[14] Cfr Id., Messaggio per la V Giornata Mondiale dei Poveri (13 giugno 2021), 3: AAS 113 (2021), 691: «Gesù non solo sta dalla parte dei poveri, ma condivide con loro la stessa sorte. Questo è un forte insegnamento anche per i suoi discepoli di ogni tempo».

[15] Id., Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 186: AAS 105 (2013), 1098.

[16] Id., Esort. ap. Gaudete et exsultate (19 marzo 2018), 95: AAS 110 (2018), 1137.

[17] Ibid., 97: AAS 110 (2018), 1137.

[18] Id., Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 194: AAS 105 (2013), 1101.

[19] Francesco, Incontro con i rappresentanti dei media (16 marzo 2013): AAS 105 (2013), 381.

[20] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, 8.

[21] Francesco, Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 48: AAS 105 (2013), 1040.

[22] In questo capitolo proponiamo alcuni di questi esempi di santità, che non pretendono di essere esaustivi, ma piuttosto indicativi di quella cura dei poveri che sempre ha caratterizzato la presenza della Chiesa nel mondo. Una riflessione approfondita sulla storia di questa attenzione per i più bisognosi si può trovare nel libro di V. Paglia, Storia della povertà, Milano 2014.

[23] Cfr S. Ambrogio, De officiis ministrorum I, cap. 41, 205-206: CCSL 15, Turnhout 2000, 76-77; II, cap. 28, 140-143: CCSL 15, 148-149.

[24] Ibid., II, cap. 28, 140: CCSL 15, 148.

[25] Ibid.

[26] Ibid. II, cap. 28, 142: CCSL 15, 148.

[27] S. Ignazio di Antiochia, Epistula ad Smyrnaeos, 6, 2: SCh 10bis, Parigi 2007, 136-138.

[28] S. Policarpo, Epistula ad Philippenses, 6, 1: SCh 10bis, 186.

[29] S. Giustino, Apologia prima, 67, 6-7: SCh 507, Parigi 2006, 310.

[30] S. Giovanni Crisostomo, Homiliae in Matthaeum, 50, 3: PG 58, Parigi 1862, 508.

[31] Ibid., 50, 4: PG 58, 509.

[32] Id., Homilia in Epistula ad Hebraeos 11, 3: PG 63, Parigi 1862, 94.

[33] Id., Homilia II De Lazaro, 6: PG 48, Parigi 1862, 992.

[34] S. Ambrogio, De Nabuthae, 12, 53: CSEL 32/2, Praga-Vienna-Lipsia 1897, 498.

[35] S. Agostino, Enarrationes in Psalmos, 125, 12: CSEL 95/3, Vienna 2001, 181.

[36] Id., Sermo LXXXVI, 5: CCSL 41Ab, Turnhout 2019, 411-412.

[37] Pseudo-Agostino, Sermo CCCLXXXVIII, 2: PL 39, Parigi 1862, 1700.

[38] S. Cipriano, De mortalitate, 16: CCSL 3A, Turnhout 1976, 25.

[39] Francesco, Messaggio per la XXX Giornata Mondiale del Malato (10 dicembre 2021), 3: AAS 114 (2022), 51.

[40] S. Camillo de Lellis, Regole della Compagnia dei Servi degli Infermi, 27: M. Vanti (ed.), Scritti di San Camillo de Lellis, Milano 1965, 67.

[41] S. Luisa de Marillac, Lettera alle sorelle Claude Carré e Marie Gaudoin (28 novembre 1657): E. Charpy (ed.), Sainte Louise de Marillac. Écrits, Parigi 1983, 576.

[42] S. Basilio Magno, Regulae fusius tractatae, 37, 1: PG 31, Parigi 1857, 1009 C-D.

[43] Regula Benedicti, 53, 15: SCh 182, Parigi 1972, 614.

[44] S. Giovanni Cassiano, Collationes, XIV, 10: CSEL 13, Vienna 2004, 410.

[45] Benedetto XVI, Catechesi (21 ottobre 2009): L’Osservatore Romano, 22 ottobre 2009, 1.

[46] Cfr Innocenzo III, Bolla Operante divinae dispositionisRegola Primitiva dei Trinitari (17 dicembre 1198), 2: J.L. Aurrecoechea – A. Moldón (edd.), Fuentes históricas de la Orden Trinitaria (s. XII-XV), Córdoba 2003, 6: «Tutti i beni, da qualunque parte provengano legittimamente, siano divisi in tre parti uguali; e per quanto due parti siano sufficienti, con essi si compiano opere di misericordia, insieme a un moderato sostentamento per sé e per i domestici che sono al loro servizio per necessità. Tuttavia, la terza parte sia riservata alla redenzione dei prigionieri a causa della loro fede in Cristo».

[47] Cfr Costituzioni dell’Ordine dei Mercedari, n. 14: Orden de la Bienaventurada Virgen María de la Merced, Regla y Constituciones, Roma 2014, 53: «Per compiere questa missione, spinti dalla carità, ci consacriamo a Dio con un voto particolare, chiamato di Redenzione, in virtù del quale promettiamo di dare la vita, se necessario, come Cristo l’ha data per noi, per salvare i cristiani che si trovano nell’estremo pericolo di perdere la loro fede nelle nuove forme di schiavitù».

[48] Cfr S. Giovanni Battista della Concezione, La regla de la Orden de la Santísima Trinidad, XX, 1: BAC Maior 60, Madrid 1999, 90: «In questo i poveri e i prigionieri sono come Cristo, sul quale sono posti i dolori del mondo [...]. Questo santo Ordine della Santissima Trinità li convoca e li invita a venire a bere l’acqua del Salvatore, il che significa che, se Cristo appeso alla croce fu redenzione e salvezza per gli uomini, l’Ordine ha preso questa redenzione e vuole distribuirla ai poveri e salvare e liberare i prigionieri».

[49] Cfr Id., El recogimiento interior, XL, 4: BAC Maior 48, Madrid 1995, 689: «Il libero arbitrio rende l’uomo libero e padrone tra tutte le creature, ma, Dio mi aiuti!, quanti sono coloro che, per questa via, diventano schiavi e prigionieri del diavolo, imprigionati e incatenati dalle loro passioni e concupiscenze».

[50] Francesco, Messaggio per la XLVIII Giornata Mondiale della Pace (8 dicembre 2014), 3: AAS 107 (2015), 69.

[51] Id., Incontro con gli agenti di Polizia Penitenziaria, i detenuti e i volontari (Verona, 18 maggio 2024): AAS 116 (2024), 766.

[52] Onorio III, Bolla Solet annuereRegula bullata (29 novembre 1223), cap. VI: SCh 285, Parigi 1981, 192.

[53] Cfr Gregorio IX, Bolla Sicut manifestum est (17 settembre 1228), 7: SCh 325, Parigi 1985, 200: «Sicut igitur supplicastis, altissimae paupertatis propositum vestrum favore apostolico roboramus, auctoritate vobis praesentium indulgentes, ut recipere possessiones a nullo compelli possitis».

[54] Cfr S.C. Tugwell (ed.), Early Dominicans. Selected Writings, Mahwah 1982, 16-19.

[55] Tommaso da Celano, Vita Secunda - pars prima, cap. IV, 8: AnalFranc, 10, Firenze 1941, 135.

[56] Francesco, Discorso dopo la visita alla tomba di don Lorenzo Milani (Barbiana, 20 giugno 2017), 2: AAS 109 (2017), 745.

[57] S. Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al Capitolo Generale dei Chierici Regolari Poveri della Madre di Dio delle Scuole Pie (Scolopi) (5 luglio 1997), 2: L’Osservatore Romano, 6 luglio 1997, 5.

[58] Ibid.

[59] Id., Omelia nella Messa di canonizzazione (18 aprile 1999): AAS 91 (1999), 930.

[60] Cfr Id., Lett. Iuvenum Patris (31 gennaio 1988), 9: AAS 80 (1988), 976.

[61] Cfr Francesco, Discorso ai partecipanti al Capitolo Generale dell’Istituto della Carità (Rosminiani) (1° ottobre 2018): L’Osservatore Romano, 1-2 ottobre 2018, 7.

[62] Id., Omelia nella Messa di canonizzazione (9 ottobre 2022): AAS 114 (2022), 1338.

[63] S. Giovanni Paolo II, Messaggio alla Congregazione delle Missionarie del Sacro Cuore (31 maggio 2000), 3: L’Osservatore Romano, 16 luglio 2000, 5.

[64] Cfr Pio XII, Breve ap. Superiore Iam Aetate (8 settembre 1950): AAS 43 (1951), 455-456.

[65] Francesco, Messaggio per la CV Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato (27 maggio 2019): AAS 111 (2019), 911.

[66] Id., Messaggio per la C Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato (5 agosto 2013): AAS 105 (2013), 930.

[67] S. Teresa di Calcutta, Discorso in occasione del conferimento del Premio Nobel per la Pace (Oslo, 10 dicembre 1979): Id., Aimer jusqu’à en avoir mal, Lione 2017, 19-20.

[68] S. Giovanni Paolo II, Discorso ai pellegrini convenuti a Roma per la beatificazione di Madre Teresa di Calcutta (20 ottobre 2003), 3: L’Osservatore Romano, 20-21 ottobre 2003, 10.

[69] Francesco, Omelia nella Messa di canonizzazione (13 ottobre 2019): AAS 111 (2019), 1712.

[70] S. Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte (6 gennaio 2001), 49: AAS 93 (2001), 302.

[71] Francesco, Esort. ap. Christus vivit (25 marzo 2019), 231: AAS 111 (2019), 458.

[72] Id., Discorso ai partecipanti all’Incontro mondiale dei movimenti popolari (28 ottobre 2014): AAS 106 (2014), 851-852.

[73] Ibid.: AAS 106 (2014), 859.

[74] Id., Discorso ai partecipanti all’Incontro mondiale dei movimenti popolari (5 novembre 2016): L’Osservatore Romano, 7-8 novembre 2016, 5.

[75] Ibid.

[76] S. Giovanni XXIII, Radiomessaggio a tutti i fedeli del mondo ad un mese dall’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II (11 settembre 1962): AAS 54 (1962), 682.

[77] G. Lercaro, Intervento nella XXXV Congregazione Generale del Concilio Ecumenico Vaticano II (6 dicembre 1962), 2: AS I/IV, 327-328.

[78] Ibid., 4: AS I/IV, 329.

[79] Istituto per le Scienze Religiose (ed.), Per la forza dello Spirito. Discorsi conciliari del Card. Giacomo Lercaro, Bologna 1984, 115.

[80] S. Paolo VI, Allocuzione nella solenne inaugurazione della II Sessione del Concilio Ecumenico Vaticano II (29 settembre 1963): AAS 55 (1963), 857.

[81] Id., Catechesi (11 novembre 1964): Insegnamenti di Paolo VI, II (1964), 984.

[82] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 69.71.

[83] S. Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio (26 marzo 1967), 23: AAS 59 (1967), 269.

[84] Cfr ibid., 4: AAS 59 (1967), 259.

[85] S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis (30 dicembre 1987), 42: AAS 80 (1988), 572.

[86] Ibid.: AAS 80 (1988), 573.

[87] Id., Lett. enc. Laborem exercens (14 settembre 1981), 3: AAS 73 (1981), 584.

[88] Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 7: AAS 101 (2009), 645.

[89] Ibid., 27: AAS 101 (2009), 661.

[90] II Conferenza Generale dell’Episcopato Latino-americano, Documento di Medellín (24 ottobre 1968), 14, n. 7: CELAM, Medellín. Conclusiones, Lima 2005, 131-132.

[91] Francesco, Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 202: AAS 105 (2013), 1105.

[92] Ibid., 205: AAS 105 (2013), 1106.

[93] Ibid., 190: AAS 105 (2013), 1099.

[94] Ibid., 56: AAS 105 (2013), 1043.

[95] Id., Lett. enc. Dilexit nos (24 ottobre 2024), 183: AAS 116 (2024), 1427.

[96] S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus (1° maggio 1991), 41: AAS 83 (1991), 844-845.

[97] Francesco, Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 202: AAS 105 (2013), 1105.

[98] Ibid.

[99] Id., Lett. enc. Fratelli tutti (3 ottobre 2020), 22: AAS 112 (2020), 976.

[100] Id., Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 209: AAS 105 (2013), 1107.

[101] Id., Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 50: AAS 107 (2015), 866.

[102] Id., Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 210: AAS 105 (2013), 1107.

[103] Id., Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 43: AAS 107 (2015), 863.

[104] Ibid., 48: AAS 107 (2015), 865.

[105] Id., Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 180: AAS 105 (2013), 1095.

[106] Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione su alcuni aspetti della “Teologia della liberazione” (6 agosto 1984), XI, 18: AAS 76 (1984), 907-908.

[107] V Conferenza Generale dell’Episcopato Latino-americano e dei Caraibi, Documento di Aparecida (29 giugno 2007), n. 392, Bogotá 2007, pp. 179-180. Cfr Benedetto XVI, Discorso nella sessione inaugurale dei lavori della V Conferenza Generale dell’Episcopato Latino-americano e dei Caraibi (13 maggio 2007), 3: AAS 99 (2007), 450.

[108] Cfr V Conferenza Generale dell’Episcopato Latino-americano e dei Caraibi, Documento di Aparecida (29 giugno 2007), nn. 43-87, pp. 31-47.

[109] Id., Messaggio finale (29 maggio 2007), n. 4, Bogotá 2007, p. 275.

[110] Id., Documento di Aparecida (29 giugno 2007), n. 398, p. 182.

[111] Francesco, Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 199: AAS 105 (2013), 1103-1104.

[112] Ibid., 198: AAS 105 (2013), 1103.

[113] Ibid.

[114] V Conferenza Generale dell’Episcopato Latino-americano e dei Caraibi, Documento di Aparecida (29 giugno 2007), n. 397, p. 182.

[115] Francesco, Lett. enc. Fratelli tutti (3 ottobre 2020), 64: AAS 112 (2020), 992.

[116] Id., Esort. ap. Gaudete et exsultate (19 marzo 2018), 98: AAS 110 (2018), 1137.

[117] Id., Lett. enc. Fratelli tutti (3 ottobre 2020), 65-66: AAS 112 (2020), 992.

[118] S. Gregorio Magno, Homilia 40, 10: SCh 522, Parigi 2008, 552-554.

[119] Ibid., 6: SCh 522, 546.

[120] Ibid., 3: SCh 522, 536.

[121] S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus (1° maggio 1991), 57: AAS 83 (1991), 862-863.

[122] Francesco, Veglia di Pentecoste con i Movimenti, le nuove Comunità, le Associazioni, le Aggregazioni laicali (18 maggio 2013): L’Osservatore Romano, 20-21 maggio 2013, 5.

[123] Id., Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 186: AAS 105 (2013), 1098.

[124] Ibid., 188: AAS 105 (2013), 1099.

[125] Cfr ibid., 182-183: AAS 105 (2013), 1096-1097.

[126] Ibid., 207: AAS 105 (2013), 1107.

[127] Ibid., 200: AAS 105 (2013), 1104.

[128] Id., Discorso in occasione dell’Incontro con il mondo del lavoro presso lo stabilimento ILVA di Genova (27 maggio 2017): AAS 109 (2017), 613.

[129] Pseudo-Crisostomo, Homilia de jejunio et eleemosyna: PG 48, 1060.

[130] S. Gregorio Nazianzeno, Oratio XIV, 40: PG 35, Parigi 1886, 910.

[01290-IT.01] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

EXHORTATION APOSTOLIQUE

DILEXI TE

DU SAINT-PÈRE LÉON XIV

SUR L’AMOUR ENVERS LES PAUVRES

1. « Je t’ai aimé » (Ap 3, 9), a dit le Seigneur à une communauté chrétienne qui n’avait ni importance ni ressources, contrairement à d’autres, et qui était exposée à la violence et au mépris : « Disposant pourtant de peu de puissance […] je les forcerai à venir se prosterner devant tes pieds » (Ap 3, 8-9). Ce texte rappelle les paroles du Cantique de Marie : « Il a renversé les puissants de leurs trônes et élevé les humbles. Il a comblé de biens les affamés, renvoyé les riches les mains vides » (Lc 1, 52-53).

2. La déclaration d’amour de l’Apocalypse renvoie au mystère inépuisable que le Pape François a approfondi dans l’encyclique Dilexit nos sur l’amour divin et humain du Cœur du Christ. Nous y admirons la manière dont Jésus s’est identifié “avec les plus petits de la société” et comment, par son amour donné jusqu’à la fin, il a révélé la dignité de tous les êtres humains, surtout lorsqu’« ils sont plus faibles, plus misérables et plus souffrants ».[1] Contempler l’amour du Christ « nous aide à être plus attentifs aux souffrances et aux besoins des autres, nous rend assez forts pour participer à son œuvre de libération en tant qu’instruments de diffusion de son amour ».[2]

3. C’est pourquoi dans les derniers mois de sa vie le Pape François prépara, en continuité avec l’encyclique Dilexit nos, une Exhortation apostolique sur l’attention de l’Église envers les pauvres et avec les pauvres, intitulée Dilexi te, imaginant que le Christ s’adresse à chacun d’eux en leur disant : tu as peu de force, peu de pouvoir, mais « moi, je t’ai aimé » (Ap 3, 9). Ayant reçu en héritage ce projet, je suis heureux de le faire mien – ajoutant quelques réflexions – et de le proposer au début de mon Pontificat, partageant ainsi le désir de mon bien-aimé Prédécesseur que tous les chrétiens puissent percevoir le lien fort qui existe entre l’amour du Christ et son appel à nous faire proches des pauvres. En effet, je pense moi aussi qu’il est nécessaire d’insister sur ce chemin de sanctification, parce que dans « cet appel à le reconnaître dans les pauvres et les souffrants, se révèle le cœur même du Christ, ses sentiments et ses choix les plus profonds, auxquels tout saint essaie de se conformer ».[3]

PREMIER CHAPITRE

QUELQUES PAROLES INDISPENSABLES

4. Les disciples de Jésus critiquèrent la femme qui avait versé sur sa tête une huile parfumée très précieuse : « À quoi bon ce gaspillage ? – disaient-ils – Cela pouvait être vendu bien cher et donné à des pauvres ! ». Mais le Seigneur leur dit : « Les pauvres, vous les aurez toujours avec vous » (Mt 26, 8-9.11). Cette femme avait compris que Jésus était le Messie humble et souffrant sur lequel déverser son amour : quelle consolation ce baume sur sa tête qui, quelques jours plus tard, serait tourmentée par les épines ! C’était un petit geste, certes, mais ceux qui souffrent savent combien même un petit geste d’affection peut être grand, et quel soulagement il peut apporter. Jésus le comprend et en atteste la pérennité : « Partout où sera proclamé cet Évangile, dans le monde entier, on redira à sa mémoire ce qu’elle vient de faire » (Mt 26, 13). La simplicité de ce geste révèle quelque chose de grand. Aucun geste d’affection, même le plus petit, ne sera oublié, surtout s’il est adressé à ceux qui sont dans la souffrance, dans la solitude, dans le besoin, comme l’était le Seigneur à cette heure.

5. C’est précisément dans cette perspective que l’affection envers le Seigneur s’unit à celle envers les pauvres. Ce Jésus qui dit : « Les pauvres, vous les aurez toujours avec vous » exprime la même chose lorsqu’il promet aux disciples : « Je suis avec vous pour toujours » (Mt 28, 20). Et en même temps, ces paroles du Seigneur nous reviennent à l’esprit : « Dans la mesure où vous l’avez fait à l’un de ces plus petits de mes frères, c’est à moi que vous l’avez fait » (Mt 25, 40). Nous ne sommes pas dans le domaine de la bienfaisance, mais dans celui de la Révélation : le contact avec ceux qui n’ont ni pouvoir ni grandeur est une manière fondamentale de rencontrer le Seigneur de l’histoire. À travers les pauvres, Il a encore quelque chose à nous dire.

Saint François

6. Le Pape François, à propos du choix de son nom, a raconté qu’après son élection un Cardinal ami l’avait embrassé et lui avait dit : « N’oublie pas les pauvres ! ».[4] Il s’agit de la même recommandation faite à saint Paul par les autorités de l’Église lorsqu’il se rendit à Jérusalem pour rendre compte de sa mission (cf. Ga 2, 1-10). Des années plus tard, l’Apôtre pourra affirmer : c’est « ce que précisément j’ai eu à cœur de faire » (Ga 2, 10). Cela a été aussi le choix de saint François d’Assise : dans le lépreux, c’est le Christ Lui-même qui l’a embrassé, en changeant sa vie. La figure lumineuse du Poverello ne cessera jamais de nous inspirer.

7. C’est lui qui, il y a huit siècles, provoqua une renaissance évangélique chez les chrétiens et dans la société de son temps. D’abord riche et arrogant, le jeune François renaît après avoir été confronté à la réalité de ceux qui sont exclus de la société. L’élan qu’il a donné ne cesse d’animer les cœurs des croyants et de nombreux non-croyants, et « il a changé l’histoire ».[5] Le Concile Vatican II lui-même, selon les paroles de saint Paul VI, est sur cette voie : « L’antique histoire du bon Samaritain a été le paradigme de la spiritualité du Concile ».[6] Je suis convaincu que le choix prioritaire en faveur des pauvres engendre un renouveau extraordinaire, tant dans l’Église que dans la société, lorsque nous sommes capables de nous libérer de l’autoréférentialité et que nous parvenons à écouter leur cri.

Le cri des pauvres

8. À ce sujet, il y a un texte de l’Écriture Sainte d’où il faut toujours repartir. Il s’agit de la révélation de Dieu à Moïse dans le buisson ardent : « J’ai vu la misère de mon peuple qui est en Égypte. J’ai entendu son cri devant ses oppresseurs ; oui, je connais ses angoisses. Je suis descendu pour le délivrer […]. Maintenant va, je t’envoie » (Ex 3, 7-8.10).[7] Dieu se montre attentif aux besoins des pauvres : « Ils crièrent vers le Seigneur et le Seigneur leur suscita un sauveur » (Jg 3, 15). C’est pourquoi, en écoutant le cri du pauvre, nous sommes appelés à nous identifier au cœur de Dieu qui est attentif aux besoins de ses enfants, en particulier les plus démunis. Le pauvre crierait vers le Seigneur contre nous si nous restions indifférents à ce cri, et un péché serait sur nous (cf. Dt 15, 9), et nous nous éloignerions du cœur même de Dieu.

9. La condition des pauvres est un cri qui, dans l’histoire de l’humanité, interpelle constamment notre vie, nos sociétés, nos systèmes politiques et économiques et, enfin et surtout, l’Église. Sur le visage meurtri des pauvres, nous voyons imprimée la souffrance des innocents et, par conséquent, la souffrance même du Christ. En même temps, il serait peut-être plus correct de parler des nombreux visages des pauvres et de la pauvreté, car il s’agit d’un phénomène diversifié. Il existe en effet de nombreuses formes de pauvreté : celle de ceux qui n’ont pas les moyens de subvenir à leurs besoins matériels, la pauvreté de ceux qui sont socialement marginalisés et n’ont pas les moyens d’exprimer leur dignité et leurs potentialités, la pauvreté morale et spirituelle, la pauvreté culturelle, celle de ceux qui se trouvent dans une situation de faiblesse ou de fragilité personnelle ou sociale, la pauvreté de ceux qui n’ont pas de droits, pas de place, pas de liberté.

10. En ce sens, on peut dire que l’engagement en faveur des pauvres et pour l’élimination des causes sociales et structurelles de la pauvreté, bien qu’il ait pris de l’importance au cours des dernières décennies, reste toujours insuffisant. Cela est aussi dû au fait que les sociétés dans lesquelles nous vivons privilégient souvent des critères d’orientation de l’existence et de la politique marqués par de nombreuses inégalités. Par conséquent, aux vieilles pauvretés dont nous avons pris conscience et que nous essayons de combattre, s’ajoutent de nouvelles, parfois plus subtiles et plus dangereuses. De ce point de vue, il faut se féliciter que les Nations Unies aient fait de la lutte contre la pauvreté l’un des objectifs du Millénaire.

11. L’engagement concret en faveur des pauvres doit également s’accompagner d’un changement de mentalité susceptible de se répercuter au niveau culturel. En effet, l’illusion d’un bonheur qui découlerait d’une vie aisée pousse nombre de personnes à avoir une vision de l’existence axée sur l’accumulation de richesses et la réussite sociale à tout prix, y compris au détriment des autres et en profitant d’idéaux sociaux et de systèmes politico-économiques injustes qui favorisent les plus forts. Ainsi, dans un monde où les pauvres sont de plus en plus nombreux, nous assistons paradoxalement à la croissance de certaines élites riches qui vivent dans une bulle de conditions très confortables et luxueuses, presque dans un autre monde par rapport aux gens ordinaires. Cela signifie que persiste encore - parfois bien masquée - une culture qui rejette les autres sans même s’en rendre compte et qui tolère avec indifférence que des millions de personnes meurent de faim ou survivent dans des conditions indignes de l’être humain. Il y a quelques années, la photo d’un enfant gisant sans vie sur une plage de la Méditerranée avait fait grand bruit. Malheureusement, à part une émotion momentanée, de tels événements deviennent de plus en plus insignifiants, relégués au rang d’informations marginales.

12. Nous ne devons pas baisser la garde face à la pauvreté. Nous sommes particulièrement préoccupés par les conditions difficiles dans lesquelles vivent nombre de personnes en raison d’un manque de nourriture et d’eau. Chaque jour, plusieurs milliers de personnes meurent de causes liées à la malnutrition. Dans les pays riches également, les chiffres relatifs à la pauvreté ne sont pas moins préoccupants. En Europe, de plus en plus de familles ont du mal à joindre les deux bouts. On constate de manière générale une augmentation des différentes manifestations de la pauvreté. Celle-ci ne se présente plus comme une condition unique et homogène, mais se décline sous de multiples formes d’appauvrissement économique et social, reflétant un phénomène d’inégalités croissantes, même dans des contextes généralement prospères. Rappelons que « doublement pauvres sont les femmes qui souffrent de situations d’exclusion, de maltraitance et de violence, parce que, souvent, elles se trouvent avec de plus faibles possibilités de défendre leurs droits. Cependant, nous trouvons tout le temps chez elles les plus admirables gestes d’héroïsme quotidien dans la protection et dans le soin de la fragilité de leurs familles ».[8] Bien que des changements importants soient observés dans certains pays, « l’organisation des sociétés dans le monde entier est loin de refléter clairement le fait que les femmes ont exactement la même dignité et les mêmes droits que les hommes. On affirme une chose par la parole, mais les décisions et la réalité livrent à cor et à cri un autre message »,[9] surtout si nous pensons en particulier aux femmes les plus pauvres.

Préjugés idéologiques

13. Au-delà des données – qui sont parfois “interprétées” de manière à convaincre que la situation des pauvres n’est pas si grave –, la réalité générale est assez claire : « Des règles économiques se sont révélées efficaces pour la croissance, mais pas pour le développement humain intégral. La richesse a augmenté, mais avec des inégalités ; et ainsi, il se fait que de nouvelles pauvretés apparaissent. Lorsqu’on affirme que le monde moderne a réduit la pauvreté, on le fait en la mesurant avec des critères d’autres temps qui ne sont pas comparables avec la réalité actuelle. En effet, par exemple, ne pas avoir accès à l’énergie électrique n’était pas autrefois considéré comme un signe de pauvreté ni comme un motif d’anxiété. La pauvreté est toujours analysée et comprise dans le contexte des possibilités réelles d’un moment historique concret ».[10] Cependant, au-delà des situations spécifiques et contextuelles, dans un document de la Communauté européenne de 1984, « on entend par personnes pauvres les individus, les familles et les groupes de personnes dont les ressources (matérielles, culturelles et sociales) sont si faibles qu’ils sont exclus des modes de vie minimaux acceptables dans l’État membre dans lequel ils vivent ».[11] Mais si nous reconnaissons que tous les êtres humains ont la même dignité indépendamment du lieu de naissance, il ne faut pas ignorer les grandes différences qui existent entre les pays et les régions.

14. Les pauvres ne sont pas là par hasard ni en raison d’un destin aveugle et amer. La pauvreté n’est pas non plus, pour la plupart d’entre eux, un choix. Certains osent pourtant encore l’affirmer, faisant preuve d’aveuglement et de cruauté. Bien sûr, parmi les pauvres, il y a ceux qui ne veulent pas travailler peut-être parce que leurs ancêtres, qui ont travaillé toute leur vie, sont morts pauvres. Mais il y en a beaucoup – hommes et femmes – qui travaillent du matin au soir, en ramassant des cartons ou en faisant des activités de ce genre, même s’ils savent que leurs efforts ne serviront qu’à les faire survivre et jamais à améliorer véritablement leur vie. Nous ne pouvons pas dire que la majorité des pauvres le sont parce qu’ils n’auraient pas acquis de “mérites”, selon cette fausse vision de la méritocratie où seuls ceux qui ont réussi dans la vie semblent avoir des mérites.

15. Même les chrétiens, en de nombreuses occasions, se laissent contaminer par des attitudes marquées par des idéologies mondaines ou par des orientations politiques et économiques qui conduisent à des généralisations injustes et à des conclusions trompeuses. Le fait que l’exercice de la charité soit méprisé ou ridiculisé, comme s’il s’agissait d’une obsession de quelques-uns et non du cœur brûlant de la mission ecclésiale me fait penser qu’il faut toujours relire l’Évangile pour ne pas risquer de le remplacer par la mentalité mondaine. Il n’est pas possible d’oublier les pauvres si nous ne voulons pas sortir du courant vivant de l’Église qui jaillit de l’Évangile et féconde chaque moment de l’histoire.

DEUXIÈME CHAPITRE

DIEU CHOISIT LES PAUVRES

Le choix des pauvres

16. Dieu est amour miséricordieux et son projet d’amour, qui s’étend et se réalise dans l’histoire, consiste avant tout à descendre parmi nous afin de nous libérer de l’esclavage, des peurs, du péché et du pouvoir de la mort. Le regard miséricordieux et le cœur rempli d’amour, il s’est tourné vers ses créatures, prenant soin de leur condition humaine, et donc de leur pauvreté. C’est précisément pour partager les limites et les fragilités de notre nature humaine qu’Il s’est fait Lui-même pauvre, qu’Il est né dans la chair comme nous, que nous l’avons connu dans la petitesse d’un enfant couché dans une mangeoire et dans l’humiliation extrême de la croix, là où Il a partagé notre pauvreté radicale qui est la mort. On comprend bien pourquoi on peut aussi parler théologiquement d’une option préférentielle de Dieu pour les pauvres, expression née dans le contexte du continent latino-américain, et en particulier lors de l’Assemblée de Puebla, mais qui a été bien intégrée dans le magistère ultérieur.[12] Cette “préférence” n’indique pas une exclusion ou une discrimination envers d’autres groupes, qui seraient impossibles en Dieu. Elle entend souligner l’action de Dieu qui est pris de compassion pour la pauvreté et la faiblesse de l’humanité tout entière et qui, voulant relever et inaugurer un Règne de justice, de fraternité et de solidarité, a particulièrement à cœur ceux qui sont discriminés et opprimés, demandant à nous aussi, son Église, un choix décisif et radical en faveur des plus faibles.

17. Dans cette perspective, on comprend les nombreuses pages de l’Ancien Testament où Dieu est présenté comme l’ami et le libérateur des pauvres, Celui qui écoute le cri du pauvre et intervient pour le libérer (cf. Ps 34, 7). Dieu, refuge du pauvre, dénonce à travers les prophètes – rappelons en particulier Amos et Isaïe – les injustices commises envers les plus faibles et exhorte Israël à renouveler, également de l’intérieur, le culte, car on ne peut prier et offrir des sacrifices tout en opprimant les plus faibles et les plus pauvres. Dès le début, l’Écriture manifeste avec une telle intensité l’amour de Dieu à travers la protection des faibles et des moins fortunés, que l’on pourrait parler d’une sorte de “faiblesse” de Dieu à leur égard. « Les pauvres ont une place de choix dans le cœur de Dieu […]. Tout le chemin de notre rédemption est marqué par les pauvres ».[13]

Jésus, Messie pauvre

18. L’histoire vétérotestamentaire de la prédilection de Dieu pour les pauvres et du désir divin d’écouter leur cri – que j’ai brièvement rappelée – trouve en Jésus de Nazareth sa pleine réalisation.[14] Dans son incarnation, Il « s’est dépouillé prenant la condition d’esclave ; devenant semblable aux hommes et reconnu à son aspect comme un homme » (Ph 2, 7), Il nous a apporté le salut sous cette forme. Il s’agit d’une pauvreté radicale, fondée sur sa mission de révéler le vrai visage de l’amour divin (cf. Jn 1, 18 ; 1 Jn 4, 9). C’est pourquoi, dans l’une de ses admirables synthèses, saint Paul peut affirmer : « Vous connaissez, en effet, la libéralité de notre Seigneur Jésus Christ, qui pour vous s’est fait pauvre, de riche qu’Il était, afin de vous enrichir par sa pauvreté » (2 Co 8, 9).

19. L’Évangile montre en effet que cette pauvreté touchait tous les aspects de la vie du Christ. Dès son entrée dans le monde, Jésus fait l’expérience des difficultés liées au rejet. L’évangéliste Luc, racontant l’arrivée à Bethléem de Joseph et de Marie, alors sur le point d’accoucher, observe avec regret : « Il n’y avait pas de place pour eux dans le logement » (Lc 2, 7). Jésus naît dans d’humbles conditions ; dès sa naissance, il est couché dans une mangeoire ; et très tôt, pour le sauver de la mort, ses parents fuient en Égypte (cf. Mt 2, 13-15). Au début de sa vie publique, il est chassé de Nazareth après avoir, dans la synagogue, annoncé en Lui l’accomplissement de l’année de grâce dont se réjouissent les pauvres (cf. Lc 4, 14-30). Il n’y a pas de lieu accueillant, même pour sa mort : ils le conduisent hors de Jérusalem pour le crucifier (cf. Mc 15, 22). C’est à cette condition que l’on peut résumer de manière claire la pauvreté de Jésus. Il s’agit de la même exclusion qui caractérise la définition des pauvres : ils sont les exclus de la société. Jésus est la révélation de ce privilegium pauperum. Il se présente au monde non seulement comme le Messie pauvre, mais aussi comme le Messie des pauvres et pour les pauvres.

20. Il y a des indices concernant la condition sociale de Jésus. En premier lieu, il exerce le métier d’artisan ou de charpentier, téktōn (cf. Mc 6, 3). Il s’agit de personnes vivant du travail manuel. N’étant pas propriétaires de terres, elles sont considérées comme inférieurs aux paysans. Lorsque le petit Jésus est présenté au Temple par Joseph et Marie, ses parents offrent une paire de tourterelles ou de colombes (cf. Lc 2, 22-24) qui, selon les prescriptions du Livre du Lévitique (cf. 12, 8), était l’offrande des pauvres. Un épisode évangélique assez significatif nous raconte comment Jésus, avec ses disciples, cueille des épis pour se nourrir en traversant les champs (cf. Mc 2, 23-28), et cela – glaner dans les champs – n’était permis qu’aux pauvres. Jésus lui-même dit à son sujet : « Les renards ont des tanières et les oiseaux du ciel ont des nids ; le Fils de l’homme, lui, n’a pas où reposer la tête » (Mt 8, 20 ; Lc 9, 58). Il est en effet un maître itinérant dont la pauvreté et la précarité sont le signe de son lien avec le Père, et qui sont exigées aussi de ceux qui veulent le suivre sur le chemin du disciple, précisément pour que le renoncement aux biens, aux richesses et aux sécurités de ce monde devienne un signe visible de l’abandon à Dieu et à sa providence.

21. Au début de son ministère public, Jésus se présente dans la synagogue de Nazareth en lisant le rouleau du prophète Isaïe et en appliquant à lui-même la parole du prophète : « L’Esprit du Seigneur est sur moi, parce qu’il m’a consacré par l’onction, pour porter la bonne nouvelle aux pauvres » (Lc 4, 18 ; cf. Is 61, 1). Il se manifeste donc comme Celui qui, aujourd’hui dans l’histoire, vient réaliser la proximité aimante de Dieu, qui est avant tout une œuvre de libération pour ceux qui sont prisonniers du mal, pour les faibles et les pauvres. Les signes qui accompagnent la prédication de Jésus sont en effet une manifestation de l’amour et de la compassion avec lesquels Dieu regarde les malades, les pauvres et les pécheurs qui, en raison de leur condition, sont marginalisés par la société mais également par la religion. Il ouvre les yeux des aveugles, guérit les lépreux, ressuscite les morts et annonce aux pauvres la bonne nouvelle : Dieu s’est fait proche, Dieu vous aime (cf. Lc 7, 22). Cela explique pourquoi Il proclame : « Heureux, vous les pauvres, car le Royaume de Dieu est à vous » (Lc 6, 20). Dieu montre en effet une prédilection pour les pauvres : c’est d’abord à eux que s’adresse la parole d’espérance et de libération du Seigneur et, par conséquent, même dans la pauvreté ou la faiblesse, personne ne doit plus se sentir abandonné. Et l’Église, si elle veut être celle du Christ, doit être l’Église des Béatitudes, l’Église qui fait place aux petits et qui marche pauvre avec les pauvres, le lieu où les pauvres ont une place privilégiée (cf. Jc 2, 2-4).

22. Les indigents et les malades, incapables de se procurer le nécessaire pour vivre, étaient souvent contraints de mendier. À cela s’ajoutait le poids de la honte sociale, alimentée par la conviction que la maladie et la pauvreté étaient liées à quelque péché personnel. Jésus s’est fermement opposé à cette façon de penser, affirmant que « Dieu fait lever son soleil sur les méchants et sur les bons, et tomber la pluie sur les justes et sur les injustes » (Mt 5, 45). Il a même complètement renversé cette conception, comme l’illustre bien la parabole du riche repu et du pauvre Lazare : « Mon enfant, souviens-toi que tu as reçu tes biens pendant ta vie, et Lazare pareillement ses maux ; maintenant ici il est consolé, et toi, tu es tourmenté » (Lc 16, 25).

23. Il apparaît alors clairement que « de notre foi au Christ qui s’est fait pauvre, et toujours proche des pauvres et des exclus, découle la préoccupation pour le développement intégral des plus abandonnés de la société ».[15] Je me demande souvent pourquoi, malgré cette clarté des Écritures à propos des pauvres, beaucoup continuent à penser qu’ils peuvent tranquillement les exclure de leurs préoccupations. Mais restons dans le domaine biblique et essayons de réfléchir à notre relation avec les derniers de la société, et à leur place fondamentale dans le peuple de Dieu.

La miséricorde envers les pauvres dans la Bible

24. L’apôtre Jean écrit : « Celui qui n’aime pas son frère, qu’il voit, ne saurait aimer Dieu qu’il ne voit pas » (1 Jn 4, 20). De même, dans sa réponse au docteur de la loi, Jésus reprend les deux anciens commandements : « Tu aimeras le Seigneur ton Dieu de tout ton cœur, de toute ton âme et de toute ta force » (Dt 6, 5) et « Tu aimeras ton prochain comme toi-même » (Lv 19, 18), en les fusionnant en un seul commandement. L’évangéliste Marc rapporte la réponse de Jésus en ces termes : « Le premier c’est : Écoute, Israël, le Seigneur notre Dieu est l’unique Seigneur, et tu aimeras le Seigneur ton Dieu de tout ton cœur, de toute ton âme, de tout ton esprit et de toute ta force. Voici le second : Tu aimeras ton prochain comme toi-même. Il n’y a pas de commandement plus grand que ceux-là » (Mc 12, 29-31).

25. Le passage tiré du Lévitique exhorte à honorer son compatriote, alors que dans d’autres textes on trouve un enseignement qui appelle au respect – sinon à l’amour – même de l’ennemi : « Si tu rencontres le bœuf ou l’âne de ton ennemi qui vague, tu dois le lui ramener. Si tu vois l’âne de celui qui te déteste tomber sous sa charge, cesse de te tenir à l’écart ; tu lui viendras en aide » (Ex 23, 4-5). Cela montre la valeur intrinsèque du respect de la personne : quiconque se trouve en difficulté, même un ennemi, mérite toujours notre aide.

26. Il est indéniable que la primauté de Dieu dans l’enseignement de Jésus s’accompagne d’un autre point ferme : que l’on ne peut aimer Dieu sans étendre son amour aux pauvres. L’amour du prochain est la preuve tangible de l’authenticité de l’amour pour Dieu, comme l’atteste l’apôtre Jean : « Dieu, personne ne l’a jamais contemplé. Si nous nous aimons les uns les autres, Dieu demeure en nous, en nous son amour est accompli. [...] Dieu est Amour : celui qui demeure dans l’amour demeure en Dieu et Dieu demeure en lui » (1 Jn 4, 12.16). Il s’agit de deux amours distincts, mais non séparables. Même dans les cas où la relation avec Dieu n’est pas explicite, le Seigneur lui-même nous enseigne que tout acte d’amour envers le prochain est en quelque sorte un reflet de la charité divine : « En vérité je vous le dis, dans la mesure où vous l’avez fait à l’un de ces plus petits de mes frères, c’est à moi que vous l’avez fait » (Mt 25, 40).

27. C’est pourquoi les œuvres de miséricorde sont recommandées comme signes de l’authenticité du culte qui, tout en rendant gloire à Dieu, a pour tâche de nous ouvrir à la transformation que l’Esprit peut opérer en nous, afin que nous devenions tous des images du Christ et de sa miséricorde envers les plus faibles. En ce sens, la relation avec le Seigneur, qui s’exprime dans le culte, vise également à nous libérer du risque de vivre nos relations dans une logique de calcul et d’intérêt, pour nous ouvrir à la gratuité qui existe entre ceux qui s’aiment et qui, par conséquent, mettent tout en commun. À ce sujet, Jésus conseille : « Lorsque tu donnes un déjeuner ou un diner, ne convie ni tes amis, ni tes frères, ni tes parents, ni de riches voisins, de peur qu’eux aussi ne t’invitent à leur tour et qu’on ne te rende la pareille. Mais lorsque tu donnes un festin, invite des pauvres, des estropiés, des boiteux, des aveugles ; heureux seras-tu alors de ce qu’ils n’ont pas de quoi te le rendre » (Lc 14, 12-14).

28. L’appel du Seigneur à la miséricorde envers les pauvres trouve sa pleine expression dans la grande parabole du jugement dernier (cf. Mt 25, 31-46), qui est aussi une illustration réaliste de la béatitude des miséricordieux. Le Seigneur nous y offre la clé pour atteindre notre plénitude, car « si nous recherchons cette sainteté qui plaît aux yeux de Dieu, nous trouvons précisément dans ce texte un critère sur la base duquel nous serons jugés ».[16] Les paroles fortes et claires de l’Évangile doivent être vécues « sans commentaire, sans élucubrations et sans des excuses qui les privent de leur force.

Le Seigneur nous a précisé que la sainteté ne peut pas être comprise ni être vécue en dehors de ces exigences ».[17]

29. Dans la première communauté chrétienne, le programme de charité ne découlait pas d’analyses ou de projets, mais directement de l’exemple de Jésus, des paroles mêmes de l’Évangile. La Lettre de Jacques consacre beaucoup de place au problème des relations entre riches et pauvres, mais elle lance aussi aux croyants deux appels très forts qui mettent en question leur foi : « À quoi cela sert-il, mes frères, que quelqu’un dise : “J’ai la foi”, s’il n’a pas les œuvres ? La foi peut-elle le sauver ? Si un frère ou une sœur sont nus, s’ils manquent de leur nourriture quotidienne, et que l’un d’entre vous leur dise : “Allez en paix, chauffez-vous, rassasiez-vous”, sans leur donner ce qui est nécessaire à leur corps, à quoi cela sert-il ? Ainsi en est-il de la foi : si elle n’a pas les œuvres, elle est tout à fait morte » (Jc 2, 14-17).

30 « Votre or et votre argent sont rouillés, et leur rouille témoignera contre vous : elle dévorera vos chairs ; c’est un feu que vous avez thésaurisé dans les derniers jours ! Voyez : le salaire dont vous avez frustré les ouvriers qui ont fauché vos champs crie, et les clameurs des moissonneurs sont parvenues aux oreilles du Seigneur des Armées. Vous avez vécu sur terre dans la mollesse et le luxe, vous vous êtes repus au jour du carnage » (Jc 5, 3-5). Quelle force ont ces paroles, même si nous préférons faire la sourde oreille ! Dans la Première Lettre de Jean, nous trouvons un appel similaire : « Si quelqu’un, jouissant des biens de ce monde, voit son frère dans la nécessité et lui ferme ses entrailles, comment l’amour de Dieu demeurerait-il en lui ? » (1 Jn 3, 17).

31. La Parole révélée « est un message si clair, si direct, si simple et éloquent qu’aucune herméneutique ecclésiale n’a le droit de le relativiser. La réflexion de l’Église sur ces textes ne devrait pas obscurcir ni affaiblir leur sens exhortatif, mais plutôt aider à les assumer avec courage et ferveur. Pourquoi compliquer ce qui est si simple ? Les appareils conceptuels sont faits pour favoriser le contact avec la réalité que l’on veut expliquer, et non pour nous en éloigner ».[18]

32. D’autre part, nous trouvons un exemple ecclésial clair de partage des biens et d’attention à la pauvreté dans la vie quotidienne et le style de la première communauté chrétienne. Nous pouvons notamment rappeler la manière dont fut résolue la question de la distribution quotidienne des aides aux veuves (cf. Ac 6, 1-6). Il s’agissait d’un problème difficile, notamment parce que certaines de ces veuves, originaires d’autres pays, étaient parfois négligées en tant qu’étrangères. L’épisode rapporté dans les Actes des Apôtres met en évidence un certain mécontentement de la part des hellénistes, les juifs de culture grecque. Les apôtres ne répondent pas par un discours abstrait mais, en remettant au centre la charité envers tous, ils réorganisent l’aide aux veuves en demandant à la Communauté de rechercher des personnes sages et estimées à qui confier la gestion des tables, tandis qu’eux-mêmes s’occuperont de la prédication de la Parole.

33. Lorsque Paul se rend à Jérusalem pour consulter les apôtres « de peur de courir ou d’avoir couru pour rien » (Ga 2, 2), on lui demande de ne pas oublier les pauvres (cf. Ga 2, 10). Il organisera donc plusieurs collectes pour aider les communautés pauvres. Parmi les motivations qu’il invoque pour justifier ce geste, il convient de souligner celle-ci : « Dieu aime celui qui donne avec joie » (2 Co 9, 7). À ceux d’entre nous qui sont peu enclins aux gestes gratuits et n’y portent aucun intérêt, la Parole de Dieu indique que la générosité envers les pauvres est un véritable bien pour ceux qui l’exercent : en agissant ainsi, nous sommes aimés de Dieu d’une manière particulière. Mais les promesses bibliques adressées à ceux qui donnent généreusement sont nombreuses : « Qui fait la charité au pauvre prête au Seigneur qui paiera le bienfait de retour » (Pr 19, 17). « Donnez et l’on vous donnera [...] car de la mesure dont vous mesurez on mesurera pour vous en retour » (Lc 6, 38). « Alors ta lumière éclatera comme l’aurore, ta blessure se guérira rapidement » (Is 58, 8). Les premiers chrétiens en étaient convaincus.

34. La vie des premières communautés ecclésiales, racontée dans le canon biblique et parvenu jusqu’à nous comme Parole révélée, nous est offerte comme un exemple à imiter et comme un témoignage de la foi qui agit par la charité. Elle demeure comme une leçon permanente pour les générations à venir. Au cours des siècles, ces pages ont incité le cœur des chrétiens à aimer et à produire des œuvres de charité, comme des semences fertiles qui ne cessent de porter des fruits

TROISIÈME CHAPITRE

UNE ÉGLISE POUR LES PAUVRES

35. Trois jours après son élection, mon Prédécesseur avait exprimé aux représentants des médias son souhait que le soin et l’attention aux pauvres soient plus clairement présents dans l’Église : « Ah, comme je voudrais une Église pauvre et pour les pauvres ! ».[19]

36. Ce désir reflète la conscience que l’Église « reconnaît l’image de son fondateur pauvre et souffrant, elle s’efforce de soulager leur misère et en eux c’est le Christ qu’elle veut servir ».[20] Ayant en effet été appelée à se configurer aux derniers, en son sein « aucun doute ni aucune explication, qui affaiblissent ce message si clair, ne doivent subsister […]. Il faut affirmer sans détour qu’il existe un lien inséparable entre notre foi et les pauvres ».[21] Nous en trouvons de nombreux témoignages tout au long de l’histoire bimillénaire des disciples de Jésus. [22]

La vraie richesse de l’Église

37. Saint Paul rapporte que parmi les fidèles de la communauté chrétienne naissante, il n’y a « pas beaucoup de sages selon la chaire, pas beaucoup de puissants, pas beaucoup de gens bien nés » (1 Co 1, 26). Cependant, malgré leur pauvreté, les premiers chrétiens sont clairement conscients de la nécessité de prendre soin de ceux qui se trouvent davantage dans le besoin. Dès les débuts du christianisme, les Apôtres imposent les mains à sept hommes choisis par la communauté et, dans une certaine mesure, les intègrent à leur ministère en les instituant pour le service – diakonía en grec – des plus pauvres (cf. Ac 6, 1-5). Il est significatif que le premier disciple à avoir témoigné de sa foi dans le Christ jusqu’à l’effusion de son sang ait été Étienne qui faisait partie de ce groupe. En lui s’unissent le témoignage de vie dans le soin des pauvres et dans le martyre.

38. Un peu plus de deux siècles plus tard, un autre diacre manifestera son adhésion à Jésus-Christ de manière similaire, en unissant dans sa vie le service des pauvres et le martyre : saint Laurent.[23] D'après le récit de saint Ambroise, Laurent, diacre à Rome sous le pontificat du Pape Sixte II, contraint par les autorités romaines à livrer les trésors de l’Église, « amena des pauvres le lendemain. Interrogé sur l’endroit où se trouvaient les trésors promis, il les désigna en disant : “Ce sont eux les trésors de l’Église”».[24] En racontant cet épisode, Ambroise se demande : « Quels trésors plus précieux Jésus possède-t-il que ceux en qui il aime se montrer ? ». [25] Et, rappelant que les ministres de l’Église ne doivent jamais négliger le soin des pauvres et encore moins accumuler des biens pour leur propre profit, il dit : « Cette tâche doit être accomplie avec une foi sincère et une sage prévoyance. Certes, si quelqu'un en tire un avantage personnel, il commet un crime ; mais s'il distribue le produit aux pauvres ou rachète un prisonnier, il accomplit une œuvre de miséricorde ».[26]

Les Pères de l’Église et les Pauvres

39. Dès les premiers siècles, les Pères de l’Église ont reconnu dans les pauvres un moyen privilégié d’accéder à Dieu, une manière particulière de le rencontrer. La charité envers les nécessiteux était comprise non seulement comme une vertu morale, mais aussi comme une expression concrète de la foi dans le Verbe incarné. La communauté des fidèles, soutenue par la force de l’Esprit Saint, était enracinée dans la proximité avec les pauvres qu’elle considérait, non pas comme un appendice, mais comme une partie essentielle de son Corps vivant. Saint Ignace d’Antioche, par exemple, alors qu’il allait au martyre, exhortait les fidèles de la communauté de Smyrne à ne pas négliger le devoir de charité envers les plus démunis, les avertissant de ne pas se comporter comme ceux qui s’opposent à Dieu : « Considérez ceux qui ont une autre opinion sur la grâce de Jésus-Christ qui est venu sur nous : comme ils sont opposés à la pensée de Dieu ! De la charité ils n’ont aucun souci, ni de la veuve, ni de l’orphelin, ni de l’opprimé, ni des prisonniers ou des libérés, ni de l’affamé ou de l’assoiffé ».[27] L’évêque de Smyrne, Polycarpe, recommandait expressément aux ministres de l’Église de prendre soin des pauvres : « Les presbytes eux aussi doivent être compatissants, miséricordieux envers tous ; qu’ils ramènent les égarés, qu’ils visitent tous les malades, sans négliger la veuve, l’orphelin, le pauvre ; mais qu’ils pensent toujours à faire le bien devant Dieu et devant les hommes ».[28] À partir de ces deux témoignages, nous voyons que l’Église apparaît comme la mère des pauvres, un lieu d’accueil et de justice.

40. Saint Justin, quant à lui, dans sa première Apologie adressée à l’empereur Hadrien, au Sénat et au peuple romain, expliquait que les chrétiens apportaient tout ce qu’ils pouvaient aux nécessiteux car ils voyaient en eux des frères et des sœurs dans le Christ. Écrivant à propos de l’assemblée en prière le premier jour de la semaine, il soulignait qu’au cœur de la liturgie chrétienne on ne peut séparer le culte de Dieu de l’attention aux pauvres. C’est pourquoi, à un certain moment de la célébration, « ceux qui ont du bien et qui le veulent donnent librement ce qu’ils veulent, chacun selon son gré ; ce qui est recueilli est mis en réserve auprès du président. C’est lui qui assure les secours aux orphelins, aux veuves, à ceux qui sont dans l’indigence du fait de la maladie ou de quelque autre cause, ainsi qu’aux prisonniers, aux hôtes étrangers ; en un mot il prend soin de tous ceux qui sont dans le besoin ».[29] Cela montre que l’Église naissante ne séparait pas le fait de croire de l’action sociale : la foi qui n’était pas accompagnée du témoignage des œuvres, comme l’enseigne saint Jacques, était considérée comme morte (cf. Jc 2, 17).

Saint Jean Chrysostome

41. Parmi les Pères orientaux, le prédicateur le plus ardent de la justice sociale fut peut-être saint Jean Chrysostome, archevêque de Constantinople entre le IVème et le Vème siècle. Dans ses homélies, il exhortait les fidèles à reconnaître le Christ dans les nécessiteux : « Veux-tu honorer le corps du Christ ? Ne le méprise pas lorsqu’il est nu et, pendant qu’ici tu l’honores par des étoffes de soie, ne le méprise pas à l’extérieur en le laissant souffrir le froid et la nudité […]. En effet, [le corps de Jésus-Christ qui est sur l’autel] n’a pas besoin de vêtements, mais d’une âme pure, au lieu que cet autre a besoin de beaucoup de soin. Apprenons donc à être sages et à honorer le Christ comme Il le veut lui-même. L’honneur le plus agréable à celui que nous voulons honorer, c’est l’honneur qu’il désire lui-même, non celui auquel nous pensons […]. Honore-le donc aussi de la manière qu’Il a établie, c’est-à-dire en donnant ses richesses à des pauvres. Dieu n’a pas besoin d’objets en or, mais d’âmes en or ».[30] Affirmant avec une clarté cristalline que si les fidèles ne rencontrent pas le Christ dans les pauvres qui se trouvent à la porte, ils ne pourront pas non plus l’adorer sur l’autel, il poursuit : « À quoi lui sert une table pleine de coupes en or, tandis qu’il meurt de faim ? Commence par combler sa faim et, de ce qu’il restera, orne ensuite sa table ».[31] Il comprenait donc l’Eucharistie également comme l’expression sacramentelle de la charité et de la justice qui la précédent, qui l’accompagnent et qui doivent la prolonger, dans l’amour et l’attention aux pauvres.

42. Par conséquent, la charité n’est pas une voie facultative, mais le critère du vrai culte. Chrysostome dénonçait avec véhémence le luxe excessif coexistant avec l’indifférence envers les pauvres. L’attention qui leur est due, plus qu’une simple exigence sociale, est une condition du salut, ce qui confère à la richesse injuste un poids condamnable : « Il fait un grand froid, et le pauvre en haillons est jeté au sol, mourant de froid, claquant des dents, capable d’interpeller simplement par sa vue et son aspect. Et toi, bien au chaud et dans l’ivresse, tu passes à côté ; comment mériteras-tu que Dieu te tire du malheur, quand tu y seras ? […] Souvent tu jettes mille manteaux variés brodés d’or autour d’un corps mort et insensible, désormais incapable de percevoir le sens des honneurs, tandis que tu dédaignes un corps souffrant, roué de coups, éprouvé et écartelé par la faim et le froid : tu fais plus de cas de la vaine gloire que de la crainte de Dieu ».[32] Ce sens profond de la justice sociale l’amène à affirmer que « ne pas donner à la pauvreté ce qui vient de nos propres biens, c’est voler les pauvres et les priver de leur vie : ce ne sont pas nos biens, mais les leurs, que nous gardons pour nous ».[33]

Saint Augustin

43. Augustin a eu pour maître spirituel saint Ambroise qui insistait sur l’exigence éthique du partage des biens : « Tu ne donnes pas à un pauvre en prenant sur ce qui t’appartient, mais tu lui rends en prenant sur ce qui lui appartient. En effet, ce qui a été donné pour l’usage commun, toi seul te l’appropries ».[34] Pour l’évêque de Milan, l’aumône est le rétablissement de la justice, et non un geste paternaliste. Dans sa prédication, la miséricorde prend un caractère prophétique : elle dénonce les structures d’accumulation et réaffirme la communion comme vocation ecclésiale.

44. Formé dans cette tradition, le saint évêque d’Hippone enseigna à son tour l’amour préférentiel pour les pauvres. Pasteur vigilant et théologien d’une rare clairvoyance, il se rend compte que la véritable communion ecclésiale s’exprime aussi dans la communion des biens. Dans ses Commentaires sur les Psaumes, il rappelle que les vrais chrétiens ne négligent pas l’amour pour les plus démunis : « Vous faites attention à vos frères, pour savoir s’ils ont besoin de quelque chose, mais si le Christ habite en vous, vous donnez aussi aux étrangers ».[35] Ce partage des biens naît donc de la charité théologale et a pour fin ultime l’amour du Christ. Pour Augustin, le pauvre n’est pas seulement une personne à aider, mais la présence sacramentelle du Seigneur.

45. Le Docteur de la Grâce voyait dans le soin apporté aux pauvres une preuve concrète de la sincérité de la foi. Celui qui dit aimer Dieu et n’a pas compassion des nécessiteux est un menteur (cf. 1 Jn 4, 20). Commentant la rencontre de Jésus avec le jeune homme riche et le “trésor dans le ciel” réservé à ceux qui donnent leurs biens aux pauvres (cf. Mt 19, 21), Augustin met dans la bouche du Seigneur les paroles suivantes : « J’ai reçu la terre, je donnerai le ciel ; j’ai reçu des biens temporels, je rendrai des biens éternels ; j’ai reçu du pain, je donnerai la vie. […] J’ai reçu l’hospitalité, mais je donnerai une maison ; on m’a visité quand j’étais malade, mais je donnerai la santé ; on est venu me voir en prison, mais je donnerai la liberté. Le pain que vous avez donné à mes pauvres a été consommé ; le pain que je donnerai vous rassasiera, sans jamais s’épuiser ».[36] Le Très-Haut ne se laisse pas vaincre en générosité envers ceux qui le servent dans les plus démunis : plus grand est l’amour pour les pauvres, plus grande est la récompense de Dieu.

46. Cette perspective christocentrique et profondément ecclésiale conduit à affirmer que les offrandes, lorsqu’elles naissent de l’amour, non seulement soulagent les besoins du frère, mais purifient également le cœur de celui qui donne, s’il est disposé à changer : « Les aumônes peuvent te servir à détruire les péchés du passé, si tu changes de comportement ».[37] C’est, pour ainsi dire, la voie ordinaire de la conversion pour ceux qui veulent suivre le Christ d’un cœur sans partage.

47. Dans une Église qui reconnaît dans les pauvres le visage du Christ et dans les biens l’instrument de la charité, la pensée augustinienne reste une lumière sûre. Aujourd’hui, la fidélité aux enseignements d’Augustin exige non seulement l’étude de ses œuvres, mais aussi la disponibilité à vivre radicalement son invitation à la conversion, qui inclut nécessairement le service de la charité.

48. De nombreux autres Pères de l’Église, d’Orient et d’Occident, se sont prononcés sur la primauté de l’attention aux pauvres dans la vie et la mission de tout fidèle chrétien. Dans cette perspective, on peut dire en résumé que la théologie patristique est pratique, elle vise une Église pauvre et pour les pauvres, rappelant que l’Évangile n’est annoncé correctement que lorsqu’il pousse à toucher la chair des derniers et avertissant que la rigueur doctrinale sans miséricorde est un discours vide.

Le soin des malades

49. La compassion chrétienne se manifeste de manière particulière dans le soin des malades et des souffrants. Sur la base des signes présents dans le ministère public de Jésus – la guérison des aveugles, des lépreux et des paralytiques –, l’Église comprend que le soin des malades, dans lesquels elle reconnaît immédiatement le Seigneur crucifié, est une partie importante de sa mission. Lors d’une épidémie dans la ville de Carthage où il était évêque, saint Cyprien rappela aux chrétiens l’importance du soin des malades : « Cette épidémie, qui semble si horrible et fatale, met à l’épreuve la justice de chaque individu et jauge l’esprit des hommes, vérifiant si les bien-portants se mettent au service des infirmes, si les parents s’aiment sincèrement, si les maîtres ont pitié de la souffrance de leurs serviteurs, si les médecins n’abandonnent pas les malades qui les supplient ».[38] La tradition chrétienne de visiter les malades, de laver leurs blessures et de réconforter les affligés ne se réduit pas simplement à une œuvre philanthropique, mais elle est une action ecclésiale à travers laquelle, chez les malades, les membres de l’Église « touchent la chair souffrante du Christ ».[39]

50. Au XVIème siècle, Saint Jean de Dieu, en fondant l’Ordre hospitalier qui porte son nom, créa des hôpitaux modèles qui accueillaient tout le monde, indépendamment de la condition sociale ou économique. Sa célèbre expression “Faites le bien, mes frères !” devint une devise pour la charité active envers les malades. À la même époque, Saint Camille de Lellis fonda l’Ordre des Clercs Réguliers Ministres des Infirmes – les Camilliens – dont la mission était de servir les malades avec un dévouement total. Sa règle commande : « Que chacun demande au Seigneur de lui donner un amour maternel envers son prochain afin que nous puissions le servir avec toute la charité de notre âme et de notre corps, car nous désirons, avec la grâce de Dieu, servir tous les malades avec l’amour qu’une mère aimante porte à son fils unique malade ».[40] Dans les hôpitaux, sur les champs de bataille, dans les prisons et dans les rues, les Camilliens ont incarné la miséricorde du Christ Médecin.

51. En prenant soin des malades avec une affection maternelle, comme une mère prend soin de son enfant, de nombreuses femmes consacrées ont joué un rôle encore plus répandu dans les soins de santé aux pauvres. Les Filles de la Charité de Saint Vincent de Paul, les Sœurs Hospitalières, les Petites Sœurs de la Divine Providence et de nombreuses autres congrégations féminines, ont été une présence maternelle et discrète dans les hôpitaux, les maisons de santé et les maisons de retraite. Elles ont apporté réconfort, écoute, présence et, surtout, tendresse. Elles ont construit, souvent de leurs propres mains, des structures sanitaires dans des lieux dépourvus d’assistance médicale. Elles ont enseigné l’hygiène, assisté aux accouchements et administré des médicaments avec une sagesse naturelle et une foi profonde. Leurs maisons sont devenues des oasis de dignité dont personne n’était exclu. Le toucher de la compassion était le premier remède. Sainte Louise de Marillac écrivait à ses sœurs, les Filles de la Charité, leur rappelant qu’elles avaient reçu « une bénédiction de Dieu toute particulière pour le service des pauvres malades de hôpitaux ». [41]

52. Aujourd’hui, cet héritage se perpétue dans les hôpitaux catholiques, dans les centres de soins ouverts dans des régions reculées, dans les missions sanitaires opérant dans les forêts, dans les centres d’accueil pour toxicomanes et dans les hôpitaux de campagne en zones de guerre. La présence chrétienne auprès des malades révèle que le salut n’est pas une idée abstraite, mais une action concrète. En soignant une blessure, l’Église annonce que le Royaume de Dieu commence chez les plus vulnérables. Ce faisant, elle reste fidèle à Celui qui a dit : « J’étais [...] malade et vous m’avez visité » (Mt 25, 35.36). Lorsque l’Église s’agenouille auprès d’un lépreux, d’un enfant sous-alimenté ou d’un mourant anonyme, elle réalise sa vocation la plus profonde : aimer le Seigneur là où il est le plus défiguré.

Le soin des pauvres dans la vie monastique

53. La vie monastique, née dans le silence des déserts, a rendu dès ses débuts un témoignage de solidarité. Les moines abandonnaient tout – richesse, prestige, famille – non seulement parce qu’ils méprisaient les biens du monde – contemptus mundi – mais aussi pour rencontrer dans ce détachement radical le Christ pauvre. Saint Basile le Grand, dans sa Règle, ne voyait aucune contradiction entre la vie de prière et de recueillement des moines et leur travail en faveur des pauvres. Pour lui, l’hospitalité et le soin des nécessiteux faisaient partie intégrante de la spiritualité monastique et les moines, même après avoir tout quitté pour embrasser la pauvreté, devaient aider les plus pauvres par leur travail, car « pour pouvoir partager avec qui en a besoin, nous devons bien évidemment travailler avec ardeur [...]. Une telle manière de vivre nous est profitable non seulement parce qu’elle mortifie le corps, mais aussi parce qu’elle favorise la charité pour le prochain : par notre intermédiaire, Dieu offre l’indépendance matérielle à nos frères les plus faibles ».[42]

54. À Césarée, où il était évêque, il construisit un lieu connu sous le nom de Basiliade, qui comprenait des logements, des hôpitaux et des écoles pour les pauvres et les malades. Le moine n’était donc pas seulement un ascète, mais aussi un serviteur. Basile démontra ainsi que pour être proche de Dieu, il faut être proche des pauvres. L’amour concret est le critère de la sainteté. Prier et soigner, contempler et guérir, écrire et accueillir : tout est expression du même amour pour le Christ.

55. En Occident, saint Benoît de Nursie rédigea une règle qui allait devenir la colonne vertébrale de la spiritualité monastique européenne. L’accueil des pauvres et des pèlerins y occupe une place prépondérante : « On accordera le maximum de soin et de sollicitude à la réception des pauvres et des étrangers, puisque l’on reçoit le Christ davantage en leur personne ».[43] Ce ne sont pas que des mots : pendant des siècles, les monastères bénédictins ont été des lieux de refuge pour les veuves, les enfants abandonnés, les pèlerins et les mendiants. Pour Benoît, la vie communautaire est une école de charité. Le travail manuel n’a pas seulement une fonction pratique, mais forme également le cœur au service. Le partage entre les moines, l’attention aux malades et l’écoute des plus vulnérables préparent à accueillir le Christ qui vient dans la personne du pauvre et de l’étranger. L’hospitalité monastique bénédictine reste encore aujourd’hui le signe d’une Église qui ouvre ses portes, qui accueille sans demander, qui guérit sans rien exiger en retour.

56. Au fil du temps, les monastères bénédictins sont devenus des lieux s’opposant à la culture de l’exclusion. Les moines cultivaient la terre, produisaient de la nourriture, préparaient des médicaments et les offraient avec simplicité aux plus démunis. Leur travail silencieux était le levain d’une nouvelle civilisation où les pauvres n’étaient pas un problème à résoudre, mais des frères et sœurs à accueillir. La règle du partage, le travail commun et l’assistance aux plus vulnérables structuraient une économie solidaire, en contraste avec la logique de l’accumulation. Le témoignage des moines montrait que la pauvreté volontaire, loin d’être une misère, est un chemin de liberté et de communion. Ils ne se limitaient pas à aider les pauvres : ils se faisaient leurs proches, leurs frères dans le même Seigneur. Dans les cellules et les cloîtres se forma une mystique de la présence de Dieu dans les petits.

57. Outre l’aide matérielle, les monastères jouaient un rôle fondamental dans la formation culturelle et spirituelle des plus humbles. En temps de peste, de guerre et de famine, ils étaient des lieux où les nécessiteux trouvaient du pain et des médicaments, mais également dignité et parole. C’est là que les orphelins étaient éduqués, que les apprentis recevaient une formation et que les paysans étaient initiés aux techniques agricoles et à la lecture. Le savoir était partagé comme un don et une responsabilité. L’Abbé était à la fois maître et père, et l’école monastique était un lieu de libération par la vérité. En effet, comme l’écrit Jean Cassien, le moine doit se caractériser par « l’humilité du cœur […], qui conduit, non pas à la science qui enfle, mais à celle qui éclaire par une charité parfaite ».[44] En formant les consciences et en transmettant la sagesse, les moines contribuèrent à une pédagogie chrétienne de l’inclusion. La culture, marquée par la foi, était partagée avec simplicité. La connaissance, éclairée par la charité, devenait service. Ainsi, la vie monastique se révèle comme un style de sainteté et un moyen concret de transformer la société.

58. La tradition monastique enseigne ainsi que la prière et la charité, le silence et le service, les cellules et les hôpitaux forment un unique tissu spirituel. Le monastère est un lieu d’écoute et d’action, de culte et de partage. Saint Bernard de Clairvaux, le grand réformateur cistercien, « rappela avec fermeté la nécessité d’une vie sobre et mesurée, à table comme dans l’habillement et dans les édifices monastiques, recommandant de soutenir et de prendre soin des pauvres ».[45] Pour lui, la compassion n’est pas un choix accessoire, mais le véritable chemin de la suite du Christ. La vie monastique, si elle est fidèle à sa vocation originelle, montre que l’Église n’est pleinement épouse du Seigneur que lorsqu’elle est également sœur des pauvres. Le cloître n’est pas seulement un refuge du monde, mais une école où l’on apprend à mieux le servir. Là où les moines ont ouvert leurs portes aux pauvres, l’Église a révélé avec humilité et fermeté que la contemplation n’exclut pas la miséricorde mais l’exige comme son fruit le plus pur.

Libérer les captifs

59. Dès les temps apostoliques l’Église a vu dans la libération des opprimés un signe du Royaume de Dieu. Jésus lui-même, au début de sa mission publique, a proclamé : « L’Esprit du Seigneur est sur moi, parce qu’il m’a consacré par l’onction, pour porter la bonne nouvelle aux pauvres, annoncer aux captifs la délivrance » (Lc 4, 18). Les premiers chrétiens, même dans des conditions précaires, priaient et assistaient leurs frères et sœurs prisonniers, comme en témoignent les Actes des Apôtres (cf. 12, 5 ; 24, 23) et divers écrits des Pères. Cette mission de libération s’est poursuivie au cours des siècles à travers des actions concrètes, surtout lorsque le drame de l’esclavage et de la captivité marqua des sociétés entières.

60. Entre la fin du XIIème siècle et le début du XIIIème siècle, alors que nombre de chrétiens sont capturés en Méditerranée ou réduits en esclavage dans les guerres, deux ordres religieux voient le jour : l’Ordre de la Très Sainte Trinité et de la Rédemption des Captifs (Trinitaires), fondé par saint Jean de Matha et saint Félix de Valois, et l’Ordre de Notre Dame de la Merci (Mercédaires), fondé par saint Pierre Nolasque avec le soutien de saint Raymond de Peñafort, dominicain. Ces communautés de consacrés ont le charisme spécifique de libérer les chrétiens réduits en esclavage, en mettant à leur disposition leurs propres biens[46] et, souvent, en offrant leur vie en échange. Les Trinitaires, avec leur devise Gloria Tibi Trinitas et captivis libertas (Gloire à toi, Trinité, et liberté aux captifs), et les Mercédaires, qui ajoutèrent un quatrième vœu[47] aux vœux religieux de pauvreté, d’obéissance et de chasteté, ont témoigné que la charité peut être héroïque. La libération des prisonniers est une expression de l’amour trinitaire : un Dieu qui libère non seulement de l’esclavage spirituel, mais aussi de l’oppression concrète. Le geste de racheter de l’esclavage et de la captivité est considéré comme une extension du sacrifice rédempteur du Christ dont le sang est le prix de notre rachat (cf. 1 Co 6, 20).

61. La spiritualité originale de ces Ordres était profondément enracinée dans la contemplation de la Croix. Le Christ est par excellence le Rédempteur des prisonniers et l’Église, son Corps, prolonge ce mystère dans le temps.[48] Les religieux ne considèrent pas la rançon comme une action politique ou économique, mais comme un acte quasi liturgique, l’offrande sacramentelle de soi-même. Beaucoup donnaient leur propre corps pour remplacer les prisonniers, accomplissant à la lettre le commandement : « Nul n’a plus grand amour que celui-ci : déposer sa vie pour ses amis » (Jn 15, 13). La tradition de ces Ordres n’est pas terminée. Elle a au contraire inspiré de nouvelles formes d’action face aux esclavages modernes : la traite des êtres humains, le travail forcé, l’exploitation sexuelle, les différentes formes de dépendance.[49] La charité chrétienne, lorsqu’elle s’incarne, devient libératrice. Et la mission de l’Église, lorsqu’elle est fidèle à son Seigneur, est toujours d’annoncer la libération. Aujourd’hui encore, lorsque « des millions de personnes – enfants, hommes et femmes de tout âge – sont privées de liberté et contraintes à vivre dans des conditions assimilables à celles de l’esclavage »,[50] cet héritage est perpétué par ces ordres, et par d’autres institutions et congrégations qui travaillent dans les périphéries urbaines, dans les zones de conflit et sur les routes migratoires. Lorsque l’Église s’incline pour briser les nouvelles chaînes qui entravent les pauvres, elle devient un signe pascal.

62. On ne peut conclure cette réflexion sur les personnes privées de liberté sans mentionner les détenus se trouvant dans des pénitenciers et centres de détention. À ce sujet, rappelons les paroles que le Pape François adressa à certains d’entre eux : « Entrer dans une prison est toujours un moment important pour moi, car la prison est un lieu d’une grande humanité [...]. Une humanité éprouvée, parfois accablée par les difficultés, la culpabilité, les jugements, les incompréhensions, les souffrances, mais en même temps chargée de force, de désir de pardon, de volonté de rédemption ».[51] Cette volonté a d’ailleurs été reprise par les Ordres dédiés au rachat des prisonniers comme service préférentiel à l’Église. Comme le proclamait saint Paul : « C’est pour que nous restions libres que le Christ nous a libérés » (Ga 5, 1). Et cette liberté n’est pas seulement intérieure : elle se manifeste dans l’histoire comme un amour qui prend soin et libère de tout lien d’esclavage.

Témoins de la pauvreté évangélique

63. Au XIIIème siècle, face à la croissance des villes, la concentration des richesses et l’émergence de nouvelles formes de pauvreté, l’Esprit Saint donna naissance à un nouveau type de consécration dans l’Église : les Ordres mendiants. À la différence du modèle monastique stable, les mendiants adoptent une vie itinérante, sans propriété personnelle ni communautaire, entièrement livrés à la Providence. Ils ne se limitent pas à servir les pauvres : ils se font pauvres avec eux. Ils voient la ville comme un nouveau désert et les marginaux comme de nouveaux maîtres spirituels. Ces Ordres, comme les Franciscains, les Dominicains, les Augustins et les Carmes, représentent une révolution évangélique dans laquelle le style de vie simple et pauvre devient un signe prophétique pour la mission, faisant revivre l’expérience de la première communauté chrétienne (cf. Ac 4, 32). Le témoignage des mendiants défie à la fois l’opulence cléricale et la froideur de la société urbaine.

64. Saint François d’Assise est devenu l’icône de ce printemps spirituel. En épousant la pauvreté, il a voulu imiter le Christ pauvre, nu et crucifié. Dans sa Règle, il demande que « les frères ne s’approprient rien, ni maison, ni lieu, ni quoi que ce soit. Et comme des pèlerins et des étrangers en ce siècle, servant le Seigneur dans la pauvreté et l’humilité, qu’ils aillent à l’aumône avec confiance ; et il ne faut pas qu’ils en aient honte, car le Seigneur s’est fait pauvre pour nous en ce monde ».[52] Sa vie a été un dépouillement permanent : du palais au lépreux, de l’éloquence au silence, de la possession au don total. François n’a pas fondé une réalité de service social, mais une fraternité évangélique. Il a vu dans les pauvres des frères et des images vivantes du Seigneur. Sa mission était d’être avec eux, dans une solidarité qui dépassait les distances, dans un amour compatissant. Sa pauvreté était relationnelle : elle le conduisait à se faire proche, égal, voire inférieur. Sa sainteté germait de la conviction que l’on ne peut vraiment recevoir le Christ qu’en se donnant généreusement aux frères.

65. Sainte Claire d’Assise, inspirée par François, fonda l’Ordre des Pauvres Dames, plus tard appelées Clarisses. Son combat spirituel consista à maintenir fidèlement l’idéal de la pauvreté radicale. Elle refusa les privilèges pontificaux qui auraient pu garantir la sécurité matérielle de son monastère et obtint avec fermeté du Pape Grégoire IX le fameux Privilegium Paupertatis qui garantissait le droit de vivre sans posséder aucun bien matériel.[53] Ce choix exprimait sa confiance totale en Dieu et sa conscience que la pauvreté volontaire est une forme de liberté et de prophétie. Claire enseigna à ses sœurs que le Christ était leur seul héritage et que rien ne devait obscurcir la communion avec Lui. Sa vie cachée de prière fut un cri contre la mondanité et une défense silencieuse des pauvres et des oubliés.

66. Saint Dominique de Guzmán, contemporain de François, fonda l’Ordre des Prêcheurs, avec un autre charisme mais dans la même radicalité. Il voulait proclamer l’Évangile avec l’autorité qui découle d’une vie pauvre, convaincu que la Vérité a besoin de témoins cohérents. L’exemple de la pauvreté de vie accompagnait la Parole prêchée. Libérés du poids des biens terrestres, les frères dominicains pouvaient mieux se consacrer à leur tâche principale, à savoir la prédication. Ils se rendaient dans les villes, surtout celles qui avaient une université, pour enseigner la vérité de Dieu.[54] En dépendant des autres, ils démontraient que la foi ne s’impose pas, mais s’offre. Et, en vivant parmi les pauvres, ils apprenaient la vérité de l’Évangile “d'en bas”, comme des disciples du Christ humilié.

67. Les Ordres mendiants ont donc été une réponse vivante à l’exclusion et à l’indifférence. Ils n’ont pas expressément proposé des réformes sociales, mais une conversion, personnelle et communautaire, à la logique du Royaume. Pour eux, la pauvreté n’est pas une conséquence du manque de biens, mais un libre choix : se faire petit pour accueillir les petits. Comme le disait François Thomas de Celano : « Il montrait qu’il aimait intensément les pauvres [...]. Il se dépouillait souvent pour vêtir les pauvres, auxquels il cherchait à se rendre semblable ».[55] Les mendiants sont devenus le symbole d’une Église pèlerine, humble et fraternelle, qui vit parmi les pauvres non par prosélytisme, mais par identité. Ils enseignent que l’Église est lumière lorsqu’elle se dépouille de tout et que la sainteté passe à travers un cœur humble et tourné vers les petits.

L’Église et l’éducation des pauvres

68. S’adressant à des éducateurs, le Pape François rappelait que l’éducation a toujours été l’une des plus hautes expressions de la charité chrétienne : « Votre mission est une mission remplie de difficultés mais aussi de joies. […] Une mission d’amour, car on ne peut enseigner sans aimer ».[56] En ce sens, depuis les temps les plus reculés, les chrétiens ont compris que la connaissance libère, donne de la dignité et rapproche de la vérité. Pour l’Église, enseigner aux pauvres est un acte de justice et de foi. Inspirée par l’exemple du Maître qui enseignait aux gens les vérités divines et humaines, elle a assumé la mission de former les enfants et les jeunes, surtout les plus pauvres, à la vérité et à l’amour. Cette mission a pris forme avec la fondation de Congrégations consacrées à l’éducation populaire.

69. Au XVIème siècle, Saint Joseph de Calasanz, frappé par le manque d’instruction et de formation des jeunes pauvres de la ville de Rome, créa dans des pièces adjacentes à l’église Santa Dorotea in Trastevere la première école publique gratuite d’Europe. C’était le germe duquel devait naître et se développer, non sans difficultés, l’Ordre des Clerc Réguliers Pauvres de la Mère de Dieu des Écoles Pies, dite des Piaristes, dans le but de transmettre aux jeunes « outre la science profane, la sagesse de l’Évangile, en leur enseignant à saisir dans les événements personnels et dans l’histoire l’action aimante de Dieu Créateur et Rédempteur ».[57] En fait, on peut considérer ce courageux prêtre comme le « véritable fondateur de l’école catholique moderne, visant à la formation intégrale de l’homme et ouverte à tous ».[58] Au XVIIème siècle, animé par la même sensibilité, saint Jean-Baptiste de La Salle, se rendant compte de l’injustice causée par l’exclusion des enfants des ouvriers et des paysans du système éducatif français de son temps, fonda les Frères des Écoles Chrétiennes avec l’idéal d’offrir une instruction gratuite, une formation solide et un environnement fraternel. La Salle considérait la classe comme un lieu de promotion humaine, mais également de conversion. Dans ses collèges, prière, méthode, discipline et partage étaient réunis. Chaque enfant était considéré comme un don unique de Dieu et l’acte d’enseigner comme un service rendu au Royaume de Dieu.

70. Au XIXème siècle, toujours en France, saint Marcellin Champagnat fonda l’Institut des Frères Maristes des Écoles. « Sensible aux besoins spirituels et éducatifs de son époque, spécialement à l’ignorance religieuse et aux situations d’abandon que connaissait particulièrement la jeunesse »,[59] il se consacra de tout cœur, en des temps où l’accès à l’éducation restait l’apanage de quelques privilégiés, à la mission d’éduquer et d’évangéliser les enfants et les jeunes, surtout les plus démunis. Dans le même esprit, en Italie, saint Jean Bosco initia la grande œuvre salésienne fondée sur les trois principes du “système préventif” – raison, religion et affection – [60] et le bienheureux Antonio Rosmini fonda l’Institut de la Charité, où la “charité intellectuelle” – avec la “charité matérielle” et, au sommet, la “charité spirituelle-pastorale” – était présentée comme une dimension indispensable de toute action caritative visant le bien et le développement intégral de la personne.[61]

71. De nombreuses Congrégations féminines ont également été les protagonistes de cette révolution pédagogique. Les Ursulines, les moniales de la Compagnie de Marie-Notre-Dame, les Maestre Pie et beaucoup d’autres, fondées principalement au XVIIIème et XIXème siècles, ont occupé des espaces où l’État était absent. Elles créèrent des écoles dans les petits villages, les banlieues et les quartiers populaires. L’instruction des filles, en particulier, devint une priorité. Les religieuses alphabétisaient, évangélisaient, s’occupaient des questions pratiques de la vie quotidienne, élevaient l’esprit par la culture des arts et, surtout, formaient les consciences. Leur pédagogie était simple : proximité, patience, douceur. Elles enseignaient par leur vie plus que par leurs paroles. À une époque marquée par l’analphabétisme généralisé et l’exclusion structurelle, ces femmes consacrées ont été des lumières d’espoir. Leur mission était de former le cœur, apprendre à penser, promouvoir la dignité. Alliant vie de piété et dévouement envers le prochain, elles ont combattu l’abandon par la tendresse de celles qui éduquent au nom du Christ.

72. Pour la foi chrétienne, l’éducation des pauvres n’est pas une faveur, mais un devoir. Les petits ont droit à la connaissance, condition fondamentale pour la reconnaissance de la dignité humaine. Les enseigner, c’est affirmer leur valeur en leur donnant des outils pour transformer leur réalité. La tradition chrétienne considère le savoir comme un don de Dieu et une responsabilité communautaire. L’éducation chrétienne ne forme pas seulement des professionnels, mais des personnes ouvertes au bien, à la beauté et à la vérité. L’école catholique, par conséquent, lorsqu’elle est fidèle à son nom, constitue un espace d’inclusion, de formation intégrale et de promotion humaine ; en conjuguant foi et culture, elle sème l’avenir, honore l’image de Dieu et construit une société meilleure.

Accompagner les migrants

73. L’expérience de la migration accompagne l’histoire du Peuple de Dieu. Abraham part sans savoir où il va ; Moïse guide le peuple en pèlerinage à travers le désert ; Marie et Joseph fuient en Égypte avec l’Enfant. Le Christ lui-même, qui « est venu chez lui, et les siens ne l’ont pas accueilli » (Jn 1, 11), a vécu parmi nous comme un étranger. C’est pourquoi l’Église a toujours reconnu dans les migrants une présence vivante du Seigneur qui, au jour du jugement, dira à ceux qui seront à sa droite : « J’étais étranger et vous m’avez accueilli » (Mt 25, 35).

74. Au XIXème siècle, alors que des millions d’Européens émigraient à la recherche de meilleures conditions de vie, deux grands saints se distinguèrent dans la prise en charge pastorale des migrants : saint Jean-Baptiste Scalabrini et sainte Françoise-Xavière Cabrini. Scalabrini, évêque de Plaisance, fonda les Missionnaires de Saint-Charles pour accompagner les migrants dans leurs communautés de destination, leur offrant une assistance spirituelle, juridique et matérielle. Il voyait dans les migrants les destinataires d’une nouvelle évangélisation, mettant en garde contre les risques d’exploitation et de perte de la foi en terre étrangère. Répondant généreusement au charisme que le Seigneur lui avait donné, « Scalabrini regardait au-delà, il regardait en avant, vers un monde et une Église sans barrières, sans étrangers ».[62] Sainte Françoise Cabrini, née en Italie et naturalisée américaine, fut la première citoyenne américaine à être canonisée. Pour accomplir sa mission d’assistance aux migrants, elle traversa plusieurs fois l’Atlantique et, « armée d’une singulière audace, elle créa à partir de rien des écoles, des hôpitaux, des orphelinats pour les foules de déshérités qui s’étaient aventurés dans le nouveau monde à la recherche de travail, privés de la connaissance de la langue et des moyens en mesure de leur permettre une insertion digne dans la société américaine, et souvent victimes de personnes sans scrupules. Son cœur maternel, qui ne se mettait jamais au repos, les rejoignait partout : dans les taudis, dans les prisons, dans les mines ».[63] Au cours de l'Année Sainte 1950, le Pape Pie XII la proclama Patronne de tous les migrants. [64]

75. La tradition de l’activité de l’Église pour et avec les migrants se poursuit et, aujourd’hui, ce service s’exprime à travers des initiatives telles que les centres d’accueil pour les réfugiés, les missions frontalières, les efforts de Caritas Internationalis et d’autres institutions. Le Magistère contemporain réaffirme clairement cet engagement. Le Pape François a rappelé que la mission de l’Église envers les migrants et les réfugiés est encore plus large, insistant sur le fait que « la réponse au défi posé par les migrations contemporaines peut se résumer en quatre verbes : accueillir, protéger, promouvoir et intégrer. Mais ces verbes ne valent pas seulement pour les migrants et pour les réfugiés. Ils expriment la mission de l’Église envers tous les habitants des périphéries existentielles qui doivent être accueillis, protégés, promus et intégrés ».[65] Et il disait également : « Tout être humain est enfant de Dieu ! L’image du Christ est imprimée en lui ! Il s’agit alors de voir, nous d’abord et d’aider ensuite les autres à voir, dans le migrant et dans le réfugié, non pas seulement un problème à affronter, mais un frère et une sœur à accueillir, à respecter et à aimer, une occasion que la Providence nous offre pour contribuer à la construction d’une société plus juste, une démocratie plus accomplie, un pays plus solidaire, un monde plus fraternel et une communauté chrétienne plus ouverte, selon l’Évangile ».[66] L’Église, comme une mère, marche avec ceux qui marchent. Là où le monde voit des menaces, elle voit des fils; là où l’on construit des murs, elle construit des ponts. Elle sait que son annonce de l’Évangile est crédible seulement lorsqu’elle se traduit en gestes de proximité et d’accueil ; et que dans tout migrant rejeté, le Christ lui-même frappe à la porte de la communauté.

Auprès des derniers

76. La sainteté chrétienne fleurit souvent dans les lieux les plus oubliés et les plus blessés de l’humanité. Les plus pauvres parmi les pauvres – ceux qui manquent non seulement de biens, mais aussi de voix et de reconnaissance de leur dignité – occupent une place spéciale dans le cœur de Dieu. Ils sont les préférés de l’Évangile, les héritiers du Royaume (cf. Lc 6, 20). C’est en eux que le Christ continue de souffrir et de ressusciter. C’est en eux que l’Église retrouve sa vocation à montrer sa réalité la plus authentique.

77. Sainte Thérèse de Calcutta, canonisée en 2016, est devenue une icône universelle de la charité vécue jusqu’à l'extrême en faveur des plus indigents, des exclus de la société. Fondatrice des Missionnaires de la Charité, elle a consacré sa vie aux mourants abandonnés sur les routes de l’Inde. Elle recueillait les rejetés, lavait leurs blessures et les accompagnait jusqu’à leur mort avec une tendresse qui était prière. Son amour des plus pauvres parmi les pauvres a fait qu’elle ne s’est pas seulement occupée de leurs besoins matériels, mais elle leur a aussi annoncé la bonne nouvelle de l’Évangile : « Nous voulons annoncer la Bonne Nouvelle aux pauvres : que Dieu les aime, que nous les aimons, qu’ils sont quelqu’un pour nous, que, eux aussi, ont été créés par la même main amoureuse de Dieu pour aimer et pour être aimés. Nos pauvres gens, nos splendides gens, sont des gens tout à fait dignes d’amour. Ils n’ont pas besoin de notre pitié ni de notre compassion. Ils ont besoin de notre amour compréhensif, ils ont besoin de notre respect, ils ont besoin que nous les traitions avec dignité ». [67] Tout cela venait d’une spiritualité profonde qui considérait le service des plus pauvres comme le fruit de la prière et de l’amour, générateur de paix véritable comme le rappela le Pape Jean-Paul II aux pèlerins venus à Rome pour sa béatification : « Où Mère Teresa a-t-elle trouvé la force de se mettre tout entière au service des autres? Elle la trouva dans la prière et dans la contemplation silencieuse de Jésus-Christ, de sa Sainte Face, de son Sacré Cœur. Elle l’a dit elle-même : “Le fruit du silence c’est la prière : le fruit de la prière c’est la foi ; le fruit de la foi c’est l’amour ; le fruit de l’amour c’est le service ; le fruit du service c’est la paix”. […] La prière emplissait son cœur de la paix du Christ et lui permettait de faire rayonner cette paix sur les autres ».[68] Teresa ne se considérait pas comme une philanthrope ou une militante, mais comme une épouse du Christ crucifié, qui servait avec un amour total les frères souffrants.

78. Au Brésil, Sainte Dulce des Pauvres – connue comme “le bon ange de Bahia” – a incarné le même esprit évangélique avec des caractéristiques brésiliennes. En faisant référence à elle et à deux autres religieuses canonisées au cours de la même célébration, le Pape François rappela leur amour pour les plus marginalisés de la société et déclara que les nouvelles Saintes « nous montrent que la vie religieuse est un chemin d’amour dans les périphéries existentielles du monde ».[69] Sœur Dulce a affronté la précarité avec créativité, les obstacles avec tendresse, le besoin avec une foi inébranlable. Elle commença par accueillir des malades dans un poulailler, puis fonda l’une des plus grandes œuvres sociales du pays. Elle assistait des milliers de personnes chaque jour, sans jamais perdre sa délicatesse. Elle se fit pauvre avec les pauvres par amour du plus Pauvre. Elle vivait avec peu, priait avec ferveur et servait avec joie. Sa foi ne l’éloignait pas du monde, mais l’introduisait encore plus profondément dans la souffrance des derniers.

79. On pourrait citer aussi saint Benoît Menni et les Sœurs Hospitalières du Sacré-Cœur de Jésus, aux côtés des personnes handicapées ; saint Charles de Foucauld dans les communautés du désert ; sainte Catherine Drexel auprès des groupes les plus défavorisés en Amérique du Nord ; sœur Emmanuelle avec les ramasseurs d’ordures dans le quartier d’Ezbet El Nakhl, au Caire ; et bien d’autres encore. Chacun, à sa manière, a découvert que les plus pauvres ne sont pas seulement objet de notre compassion, mais des maîtres d’Évangile. Il ne s’agit pas de “leur apporter” Dieu, mais de le rencontrer en eux. Tous ces exemples nous enseignent que servir les pauvres n’est pas un geste à faire du haut vers le bas, mais une rencontre entre égaux où le Christ est révélé et adoré. Saint Jean-Paul II nous rappelait que « dans la personne des pauvres il y a une présence spéciale du Fils de Dieu qui impose à l’Église une option préférentielle pour eux ».[70] C’est donc en se penchant pour prendre soin des pauvres que l’Église assume sa posture la plus élevée.

Les Mouvements populaires

80. Nous devons également reconnaître que, tout au long des siècles de l’histoire chrétienne, l’aide aux pauvres et la lutte pour leurs droits n’ont pas seulement concerné des individus, certaines familles, les institutions ou les communautés religieuses. Il y a eu, et il y a encore, des mouvements populaires variés, constitués de laïcs et guidés par des leaders populaires, souvent soupçonnés et même persécutés. Je fais référence à un « ensemble de personnes qui ne marchent pas comme des individus mais comme le tissu d’une communauté de tous et pour tous, et qui ne peut pas laisser les plus pauvres et les plus faibles rester en arrière. [...] Les leaders populaires sont ceux qui ont la capacité d’intégrer tout le monde. [...] Ils n’ont ni dégoût ni peur des jeunes blessés et crucifiés ».[71]

81. Ces leaders populaires savent que la solidarité « c’est également lutter contre les causes structurelles de la pauvreté, de l’inégalité, du manque de travail, de terre et de logement, de la négation des droits sociaux et du travail. C’est faire face aux effets destructeurs de l’empire de l’argent […]. La solidarité, entendue dans son sens le plus profond, est une façon de faire l’histoire et c’est ce que font les mouvements populaires ».[72] C’est pourquoi lorsque les institutions réfléchissent aux besoins des pauvres, il est nécessaire qu’elles « incluent les mouvements populaires et animent les structures de gouvernement locales, nationales et internationales, avec le torrent d’énergie morale qui naît de la participation des exclus à la construction d’un avenir commun ».[73] Les mouvements populaires invitent en effet à dépasser « cette idée des politiques sociales conçues comme une politique vers les pauvres, mais jamais avec les pauvres, jamais des pauvres, et encore moins insérée dans un projet réunissant les peuples ».[74]Si les hommes politiques et les professionnels ne les écoutent pas, « la démocratie s’atrophie, devient un nominalisme, une formalité, perd de sa représentativité, se désincarne en laissant le peuple en dehors, dans sa lutte quotidienne pour la dignité, dans la construction de son destin ».[75] Il en va de même pour les institutions de l’Église.

QUATRIÈME CHAPITRE

UNE HISTOIRE QUI CONTINUE

Le siècle de la Doctrine Sociale de l’Église

82. L’accélération des transformations technologiques et sociales des deux derniers siècles, qui abonde de contradictions tragiques, n’a pas seulement été subie mais aussi affrontée et pensée par les pauvres. Les mouvements de travailleurs, de femmes, de jeunes, de même que la lutte contre les discriminations raciales ont entraîné l’éveil d’une nouvelle conscience de la dignité de ceux qui sont en marge. La contribution de la Doctrine sociale de l’Église, depuis la révolution industrielle, a en soi également cette racine populaire qu’il ne faut pas oublier : sa relecture de la Révélation chrétienne dans les circonstances sociales modernes, professionnelles, économiques et culturelles modernes serait inimaginable sans les laïcs chrétiens confrontés aux défis de leur temps. À leurs côtés, travaillent des religieux et religieuses témoins d’une Église qui sort des sentiers battus. Le changement d’époque auquel nous sommes confrontés rend aujourd’hui encore plus nécessaire l’interaction continue entre les baptisés et le Magistère, entre les citoyens et les experts, entre le peuple et les institutions. En particulier, il faut reconnaître à nouveau que la réalité se voit mieux à partir des marges et que les pauvres sont dotés d’une intelligence particulière, indispensable à l’Église et à l’humanité.

83. Le Magistère des 150 dernières années offre une véritable mine d’enseignements concernant les pauvres. Les Évêques de Rome se sont ainsi faits des porte-paroles de nouvelles prises de conscience passées au crible du discernement ecclésial. Par exemple, dans la Lettre encyclique Rerum novarum (15 mai 1891), Léon XIII aborda la question du travail en dénonçant la situation intolérable de nombreux ouvriers de l’industrie et proposant l’instauration d’un ordre social juste. D’autres Pontifes se sont exprimés dans ce sens. Saint Jean XXIII, dans la Lettre encyclique Mater et Magistra (1961), se fit le promoteur d’une justice à dimension mondiale : les pays riches ne peuvent rester indifférents face aux pays opprimés par la faim et la misère ; ils sont appelés à les secourir généreusement avec tous leurs biens.

84. Le Concile Vatican II représente une étape fondamentale dans le discernement ecclésial sur les pauvres à la lumière de la Révélation. Bien que cette attention ait été marginale dans les documents préparatoires, un mois avant l’ouverture du Concile, dans le message radiophonique du 11 septembre 1962, saint Jean XXIII attira l’attention sur ce thème avec des mots inoubliables : « L’Église se présente telle qu’elle est et telle qu’elle veut être, comme l’Église de tous et en particulier l’Église des pauvres ».[76] Ce fut ensuite le grand travail d’évêques, de théologiens et d’experts soucieux du renouveau de l’Église – avec le soutien du même saint Jean XXIII – que de réorienter le Concile. La nature christocentrique, donc doctrinale et non seulement sociale, d’une telle effervescence est fondamentale. De nombreux pères conciliaires ont en effet favorisé le renforcement de la conscience, bien exprimé par le Cardinal Lercaro dans son intervention mémorable du 6 décembre 1962, que « le mystère du Christ dans l’Église a toujours été et est encore aujourd’hui, mais de manière particulière, le mystère du Christ dans les pauvres » [77] et qu’ « il ne s’agit pas d’un thème quelconque, mais en un certain sens, du seul thème de tout Vatican II ».[78] L’archevêque de Bologne notait en préparant le texte de cette intervention : « C’est l’heure des pauvres, des millions de pauvres qui sont sur toute la terre, c’est l’heure du mystère de l’Église mère des pauvres, c’est l’heure du mystère du Christ surtout dans le pauvre ».[79] S’annonçait ainsi la nécessité d’une nouvelle forme ecclésiale, plus simple et plus sobre, impliquant tout le peuple de Dieu et sa figure historique. Une Église plus semblable à son Seigneur qu’aux puissances mondaines, déterminée à stimuler dans toute l’humanité un engagement concret pour la résolution du grand problème de la pauvreté dans le monde

85. Saint Paul VI, lors de l’ouverture de la deuxième session du Concile, reprit le thème voulu par son prédécesseur, c’est-à-dire le fait que l’Église regarde avec un intérêt particulier « les pauvres, les nécessiteux, les affligés, les affamés, les souffrants, les prisonniers, c’est-à-dire toute l’humanité qui souffre et qui pleure : celle-ci lui appartient, de droit évangélique ».[80] Lors de l’audience générale du 11 novembre 1964, il souligna que « le pauvre est représentant du Christ » et, rapprochant l’image du Seigneur présente dans les derniers à celle qui se manifeste chez le Pape, il affirma : « La représentation du Christ dans le pauvre est universelle, chaque pauvre reflète le Christ. Celle du Pape est personnelle. […] Le Pauvre et Pierre peuvent coïncider, ils peuvent être la même personne, revêtue d’une double représentation, celle de la Pauvreté et celle de l’Autorité ».[81] Le lien intrinsèque entre l’Église et les pauvres était ainsi exprimé symboliquement avec une clarté inédite.

86. Dans la Constitution pastorale Gaudium et spes, actualisant l’héritage des Pères de l’Église, le Concile réaffirme avec force la destination universelle des biens de la terre et la fonction sociale de la propriété qui en découle : « Dieu a destiné la terre et tout ce qu’elles contient à l’usage de tous les hommes et de tous les peuples, en sorte que les biens de la création doivent équitablement affluer entre les mains de tous [...]. C’est pourquoi l’homme, dans l’usage qu’il en fait, ne doit jamais tenir les choses qu’il possède légitimement comme n’appartenant qu’à lui, mais les regarder aussi comme communes : en ce sens qu’elles puissent profiter non seulement à lui, mais aussi aux autres. D’ailleurs, tous les hommes ont le droit d’avoir une part suffisante de biens pour eux-mêmes et leur famille. [...] Celui qui se trouve dans l’extrême nécessité a le droit de se procurer l’indispensable à partir des richesses d’autrui. [...] De par sa nature même, la propriété privée a aussi un caractère social, fondé dans la loi de commune destination des biens. Là où ce caractère social n’est pas respecté, la propriété peut devenir une occasion fréquente de convoitises et de graves désordres ».[82] Cette conviction est reprise par saint Paul VI dans l’encyclique Populorum progressio, où nous lisons que « nul n’est fondé à réserver à son usage exclusif ce qui passe son besoin, quand les autres manquent du nécessaire ».[83] Dans son discours aux Nations Unies, le Pape Montini se présenta comme l’avocat des peuples pauvres[84] exhortant la communauté internationale à construire un monde solidaire.

87. Avec saint Jean-Paul II, la relation préférentielle de l’Église pour les pauvres s’est consolidée, du moins sur le plan doctrinal. Son magistère a en effet reconnu que l’option pour les pauvres est une « forme spéciale de primauté dans l’exercice de la charité chrétienne, dont toute la tradition de l’Église témoigne ».[85] Dans l’encyclique Sollicitudo rei socialis, il écrit également qu’aujourd’hui, étant donné la dimension mondiale prise par la question sociale, « cet amour préférentiel, de même que les décisions qu’il nous inspire, ne peut pas ne pas embrasser les multitudes immenses des affamés, des mendiants, des sans-abri, des personnes sans assistance médicale et, par-dessus tout, sans espérance d’un avenir meilleur : on ne peut pas ne pas prendre acte de l’existence de ces réalités. Les ignorer reviendrait à s’identifier au “riche bon vivant” qui feignait de ne pas connaître Lazare le mendiant gisant près de sa porte (cf. Lc 16, 19-31) ».[86] Son enseignement sur le travail prend toute son importance lorsque nous voulons réfléchir au rôle actif des pauvres dans le renouveau de l’Église et de la société, en laissant derrière nous le paternalisme de la simple assistance à leurs besoins immédiats. Dans l’encyclique Laborem exercens, il affirme que « le travail humain est une clé, et probablement la clé essentielle, de toute la question sociale ».[87]

88. Face aux multiples crises qui ont marqué le début du troisième millénaire, la lecture de Benoît XVI devient plus nettement politique. Ainsi, dans la lettre encyclique Caritas in veritate, il affirme que « l’on aime d’autant plus efficacement le prochain que l’on travaille davantage en faveur du bien commun qui répond également à ses besoins réels ».[88] Il observe de plus que « la faim ne dépend pas tant d’une carence de ressources matérielles, que d’une carence de ressources sociales, la plus importante d’entre elles étant de nature institutionnelle. Il manque en effet un ensemble d’institutions économiques qui soit en mesure aussi bien de garantir un accès à la nourriture et à l’eau, régulier et adapté du point de vue nutritionnel, que de faire face aux nécessités liées aux besoins primaires et aux urgences des véritables crises alimentaires, provoquées par des causes naturelles ou par l’irresponsabilité politique nationale ou internationale ».[89]

89. Le Pape François a reconnu combien, outre le magistère des évêques de Rome au cours des dernières décennies, les prises de position des Conférences Épiscopales nationales et régionales se sont multipliées. Il a pu constater personnellement, par exemple, l’engagement particulier de l’épiscopat latino-américain dans la réflexion sur la relation de l’Église avec les pauvres. Après le Concile, dans presque tous les pays d’Amérique latine, on a ressenti une forte identification de l’Église avec les pauvres ainsi qu’une participation active à leur rédemption. C’était le cœur même de l’Église qui s’émouvait devant tant de pauvres frappés par le chômage, le sous-emploi, les salaires de misère, et contraints de vivre dans des conditions misérables. Le martyre de saint Oscar Romero, archevêque de San Salvador, a été à la fois un témoignage et une vigoureuse exhortation pour l’Église. Il ressentait comme sien le drame de la grande majorité de ses fidèles et les plaça au centre de son choix pastoral. Les Conférences de l’Épiscopat latino-américain à Medellín, Puebla, Saint-Domingue et Aparecida constituent également des étapes importantes pour l’Église tout entière. Moi-même, qui ai été missionnaire au Pérou pendant de longues années, je dois beaucoup à ce cheminement de discernement ecclésial, que le Pape François a su habilement relier à celui des autres Églises particulières, notamment celles du Sud global. Je voudrais maintenant reprendre deux thèmes spécifiques de ce magistère épiscopal.

Des Structures de péché qui créent pauvreté et inégalités extrêmes

90. À Medellín, les évêques se sont prononcés en faveur de l’option préférentielle pour les pauvres : « Le Christ, notre Sauveur, n’a pas seulement aimé les pauvres. Bien plus, “étant riche, il s’est fait pauvre”, il a vécu dans la pauvreté, il a centré sa mission sur l’annonce de leur libération et il a fondé son Église comme signe de cette pauvreté parmi les hommes. [...] La pauvreté de tant de frères demande justice, solidarité, témoignage, engagement, effort et dépassement pour que s’accomplisse pleinement la mission salvifique confiée par le Christ ».[90] Les évêques affirment avec force que l’Église, pour être pleinement fidèle à sa vocation, doit non seulement partager la condition des pauvres, mais aussi se mettre à leurs côtés et s’engager activement pour leur promotion intégrale. Face à l’aggravation de la misère en Amérique latine, la Conférence de Puebla confirma les décisions de Medellín en vue d’une option franche et prophétique en faveur des pauvres et qualifia les structures d’injustice de “péché social”.

91. La charité est une force qui change la réalité, une authentique puissance historique de changement. C’est à cette source que doit puiser tout engagement visant à « résoudre les causes structurelles de la pauvreté »[91] et à le mettre en œuvre de toute urgence. Je souhaite donc « que s’accroisse le nombre d’hommes politiques capables d’entrer dans un authentique dialogue qui s’oriente efficacement pour soigner les racines profondes, et non l’apparence, des maux de notre monde »[92], car « il s’agit d’écouter le cri de peuples entiers, des peuples les plus pauvres de la terre ».[93]

92. Il est donc nécessaire de continuer à dénoncer la “dictature d’une économie qui tue” et de reconnaître qu’« alors que les gains d’un petit nombre s’accroissent exponentiellement, ceux de la majorité se situent d’une façon toujours plus éloignée du bien-être de cette minorité heureuse. Ce déséquilibre procède d’idéologies qui défendent l’autonomie absolue des marchés et la spéculation financière. Par conséquent, ils nient le droit de contrôle des États chargés de veiller à la préservation du bien commun. Une nouvelle tyrannie invisible s’instaure, parfois virtuelle, qui impose ses lois et ses règles de façon unilatérale et implacable ».[94] Bien qu’il existe différentes théories qui tentent de justifier l’état actuel des choses ou d’expliquer que la rationalité économique exige que nous attendions que les forces invisibles du marché résolvent tout, la dignité de toute personne humaine doit être respectée maintenant, pas demain, et la situation de misère de tant de personnes à qui cette dignité est refusée doit être un rappel constant à notre conscience.

93. Dans l’encyclique Dilexit nos, le Pape François a rappelé que le péché social prend forme comme “structure de péché” dans la société, qui « est souvent ancrée dans une mentalité dominante qui considère normal ou rationnel ce qui n’est rien d’autre que de l’égoïsme et de l’indifférence. Ce phénomène peut être défini comme une aliénation sociale ».[95] Il devient normal d’ignorer les pauvres et de vivre comme s’ils n’existaient pas. Le choix semble raisonnable d’organiser l’économie en demandant des sacrifices au peuple pour atteindre certains objectifs qui concernent les puissants. Pendant ce temps, seules les “miettes” qui tomberont sont promises aux pauvres jusqu’à ce qu’une nouvelle crise mondiale les ramène à leur situation antérieure. C’est une véritable aliénation qui conduit à ne trouver que des excuses théoriques et à ne pas chercher à résoudre aujourd’hui les problèmes concrets de ceux qui souffrent. Saint Jean-Paul II le disait déjà : « Une société est aliénée quand, dans les formes de son organisation sociale, de la production et de la consommation, elle rend plus difficile la réalisation de ce don et la constitution de cette solidarité entre les hommes ».[96]

94. Nous devons nous engager davantage à résoudre les causes structurelles de la pauvreté. C’est une urgence qui « ne peut attendre, non seulement en raison d’une exigence pragmatique d’obtenir des résultats et de mettre en ordre la société, mais pour la guérir d’une maladie qui la rend fragile et indigne, et qui ne fera que la conduire à de nouvelles crises. Les plans d’assistance qui font face à certaines urgences devraient être considérés seulement comme des réponses provisoires ».[97] Le manque d’équité « est la racine des maux de la société ».[98] En effet, « on s’aperçoit bien des fois que, de fait, les droits humains ne sont pas les mêmes pour tout le monde ».[99]

95. Il arrive que « dans le modèle actuel de “succès” et de “droit privé”, il ne semble pas que cela ait un sens de s’investir afin que ceux qui restent en arrière, les faibles ou les moins pourvus, puissent se faire un chemin dans la vie ».[100] La question qui revient est toujours la même : les moins pourvus ne sont-ils pas des personnes humaines ? Les faibles n’ont-ils pas la même dignité que nous ? Ceux qui sont nés avec moins de possibilités ont-ils moins de valeur en tant qu’êtres humains, doivent-ils se contenter de survivre ? La réponse que nous apportons à ces questions détermine la valeur de nos sociétés et donc notre avenir. Soit nous reconquérons notre dignité morale et spirituelle, soit nous tombons dans un puits d’immondices. Si nous ne nous arrêtons pas pour prendre les choses au sérieux, nous continuerons, de manière explicite ou dissimulée, à « légitimer le modèle de distribution actuel où une minorité se croit le droit de consommer dans une proportion qu’il serait impossible de généraliser, parce que la planète ne pourrait même pas contenir les déchets d’une telle consommation ».[101]

96. Parmi les questions structurelles que l’on ne peut imaginer résoudre d’en haut et qui doivent être prises en compte au plus vite, il y a celle des lieux, des espaces, des maisons, des villes où vivent et marchent les pauvres. Nous le savons : « Comme elles sont belles les villes qui dépassent la méfiance malsaine et intègrent ceux qui sont différents, et qui font de cette intégration un nouveau facteur de développement ! Comme elles sont belles les villes qui, même dans leur architecture, sont remplies d’espaces qui regroupent, mettent en relation et favorisent la reconnaissance de l’autre ».[102] En même temps, « nous ne pouvons pas ne pas prendre en considération les effets de la dégradation de l’environnement, du modèle actuel de développement et de la culture du déchet, sur la vie des personnes ».[103] En effet, « la détérioration de l’environnement et celle de la société affectent d’une manière spéciale les plus faibles de la planète ».[104]

97. Il incombe donc à tous les membres du Peuple de Dieu de faire entendre, même de différentes manières, une voix qui réveille, qui dénonce, qui s’expose même au risque de passer pour des “idiots”. Les structures d’injustice doivent être reconnues et détruites par la force du bien, par un changement de mentalités, mais aussi, avec l’aide des sciences et de la technique, par le développement de politiques efficaces pour la transformation de la société. Il faut toujours se rappeler que la proposition de l’Évangile n’est pas seulement celle d’une relation individuelle et intime avec le Seigneur. La proposition est plus large : « elle est le Royaume de Dieu (cf. Lc 4, 43) ; il s’agit d’aimer Dieu qui règne dans le monde. Dans la mesure où il réussira à régner parmi nous, la vie sociale sera un espace de fraternité, de justice, de paix, de dignité pour tous. Donc, aussi bien l’annonce que l’expérience chrétienne tendent à provoquer des conséquences sociales. Cherchons son Royaume ».[105]

98. Enfin, un document qui, au départ, n’a pas été bien accueilli par tous, nous offre une réflexion toujours d’actualité : « Aux défenseurs de “l’orthodoxie”, on adresse parfois le reproche de passivité, d’indulgence ou de complicité coupables à l’égard de situations d’injustice intolérables et de régimes politiques qui entretiennent ces situations. La conversion spirituelle, l’intensité de l’amour de Dieu et du prochain, le zèle pour la justice et pour la paix, le sens évangélique des pauvres et de la pauvreté, sont requis de tous, et tout spécialement des pasteurs et des responsables. Le souci de la pureté de la foi ne va pas sans le souci d’apporter, par une vie théologale intégrale, la réponse d’un témoignage efficace de service du prochain, et tout particulièrement du pauvre et de l’opprimé ».[106]

Les pauvres comme sujets

99. Un don fondamental pour le cheminement de l’Église universelle est représenté par le document de la Conférence d’Aparecida, dans lequel les évêques latino-américains ont expliqué que le choix préférentiel de l’Église pour les pauvres « est inscrit dans la foi christologique en ce Dieu qui s’est fait pauvre pour nous, pour nous enrichir de sa pauvreté ».[107] Le document replace la mission dans le contexte actuel d’un monde globalisé marqué par de nouveaux déséquilibres dramatiques,[108] et les évêques écrivent dans le message final : « Les disparités criantes entre riches et pauvres nous invitent à travailler davantage à être des disciples qui sachent dresser pour tous la table de la vie, la table de tous les fils et filles du Père, une table ouverte, accueillante, où il ne manque personne. C’est pourquoi nous réaffirmons notre option préférentielle et évangélique en faveur des pauvres ».[109]

100. Dans le même temps, le document, approfondissant un thème déjà présent dans les Conférences précédentes de l’épiscopat latino-américain, insiste sur la nécessité de considérer les communautés marginalisées comme des sujets capables de créer leur propre culture, plutôt que comme des objets de bienfaisance. Cela implique que ces communautés ont le droit de vivre l’Évangile, de célébrer et de communiquer la foi selon les valeurs présentes dans leurs cultures. L’expérience de la pauvreté leur donne la capacité de reconnaître des aspects de la réalité que d’autres ne réussissent pas à voir, et c’est pourquoi la société a besoin de les écouter. Il en va de même pour l’Église qui doit évaluer positivement leur manière “populaire” de vivre la foi. Un beau texte du document final d’Aparecida nous aide à réfléchir sur ce point afin de trouver la bonne attitude : « C’est seulement la fréquentation des pauvres qui fait que nous devenons leurs amis, qui nous permet d’apprécier profondément leurs valeurs d’aujourd’hui, leurs légitimes désirs et leur manière propre de vivre la foi. [...] Jour après jour, les pauvres seront sujets de l’évangélisation et de la promotion humaine intégrale : car ils éduquent leurs enfants dans la foi, ils vivent une constante solidarité entre parents et voisins, ils cherchent Dieu continuellement et donnent vie à la marche de l’Église. À la lumière de l’Évangile, nous reconnaissons leur immense dignité et leur valeur sacrée aux yeux du Christ, lui qui fut pauvre comme eux et exclu comme eux. À partir de cette expérience croyante, nous partagerons avec eux la défense de leurs droits ».[110]

101. Tout cela implique la présence d’un aspect dans l’option pour les pauvres que nous devons constamment garder à l’esprit : cette option exige en effet de nous « une attention à l’autre […]. Cette attention aimante est le début d’une véritable préoccupation pour sa personne, à partir de laquelle je désire chercher effectivement son bien. Cela implique de valoriser le pauvre dans sa bonté propre, avec sa manière d’être, avec sa culture, avec sa façon de vivre la foi. Le véritable amour est toujours contemplatif, il nous permet de servir l’autre non par nécessité ni par vanité, mais parce qu’il est beau, au-delà de ses apparences. […] C’est seulement à partir de cette proximité réelle et cordiale que nous pouvons les accompagner comme il convient sur leur chemin de libération ».[111] C’est pourquoi j’adresse mes sincères remerciements à tous ceux qui ont choisi de vivre parmi les pauvres : ceux qui ne se contentent pas de leur rendre visite de temps en temps, mais qui vivent avec eux et comme eux. C’est une option qui doit trouver sa place parmi les formes les plus élevées de la vie évangélique.

102. Dans cette perspective, il apparaît clairement qu’ « il est nécessaire que tous nous nous laissions évangéliser »[112] par les pauvres, et que nous reconnaissions tous « la mystérieuse sagesse que Dieu veut nous communiquer à travers eux ». [113] Ayant grandi dans une extrême précarité, apprenant à survivre dans les conditions les plus défavorables, faisant confiance à Dieu avec la certitude que personne d’autre ne les prend au sérieux, s’aidant mutuellement dans les moments les plus sombres, les pauvres ont appris beaucoup de choses qu’ils gardent dans le mystère de leur cœur. Ceux d’entre nous qui n’ont pas connu les expériences similaires d’une vie vécue à la limite ont certainement beaucoup à recevoir de cette source de sagesse qu’est l’expérience des pauvres. Ce n’est qu’en mettant en relation nos plaintes avec leurs souffrances et leurs privations que nous pouvons recevoir une réprimande qui nous invite à simplifier notre vie.

CINQUIÈME CHAPITRE

UN DÉFI PERMANENT

103. J’ai voulu rappeler cette histoire bimillénaire d’attention ecclésiale envers les pauvres et avec les pauvres pour montrer qu’elle fait partie intégrante du cheminement ininterrompu de l’Église. Le souci des pauvres fait partie de la grande Tradition de l’Église comme un phare lumineux qui, à partir de l’Évangile, a éclairé les cœurs et les pas des chrétiens de tous les temps. C’est pourquoi nous devons sentir l’urgence d’inviter chacun à entrer dans ce fleuve de lumière et de vie qui jaillit de la reconnaissance du Christ dans le visage des nécessiteux et des souffrants. L’amour des pauvres est un élément essentiel de l’histoire de Dieu avec nous et, du cœur même de l’Église, il jaillit comme un appel continu aux cœurs des croyants, aussi bien des communautés que des fidèles individuels. En tant que Corps du Christ, l’Église ressent comme sa “chair” propre la vie des pauvres, lesquels sont une partie privilégiée du peuple en marche. C’est pourquoi l’amour des pauvres – quelle que soit la forme sous laquelle se manifeste cette pauvreté – est la garantie évangélique d’une Église fidèle au cœur de Dieu. En effet, tout renouveau ecclésial a toujours eu parmi ses priorités cette attention préférentielle envers les pauvres, une attention qui se distingue, aussi bien dans ses motivations que dans son style, de l’activité de n’importe quelle autre organisation humanitaire.

104. Le chrétien ne peut pas considérer les pauvres seulement comme un problème social : ils sont une “question de famille” ; ils sont “des nôtres”. La relation avec eux ne peut pas être réduite à une activité ou à une fonction de l’Église. Comme l’enseigne la Conférence d’Aparecida : « On demande de consacrer du temps aux pauvres, de leur prêter une aimable attention, de les écouter avec intérêt, de les accompagner dans les moments plus difficiles ; de les choisir eux, pour partager des heures, des semaines ou des années de notre vie, en cherchant, à partir d’eux, à transformer leur situation. Nous ne pouvons oublier que Jésus lui-même l’a proposé, dans sa manière d’agir et de parler ».[114]

De nouveau le bon Samaritain

105. La culture dominante au début de ce millénaire pousse à abandonner les pauvres à leur sort, à ne pas les considérer dignes d’attention et encore moins de rconnaissance. Dans l’encyclique Fratelli tutti, le Pape François nous a invités à réfléchir sur la parabole du bon Samaritain (cf. Lc 10, 25-37), précisément pour approfondir ce point. Dans la parabole, en effet, nous voyons que, face à cet homme blessé et abandonné sur le bord de la route, ceux qui passent ont des attitudes différentes. Seul le bon Samaritain s’occupe de lui. Alors revient la question qui interpelle chacun personnellement : « À qui t’identifies-tu ? Cette question est crue, directe et capitale. Parmi ces personnes à qui ressembles-tu ? Nous devons reconnaître la tentation qui nous guette de nous désintéresser des autres, surtout des plus faibles. Disons-le, nous avons progressé sur plusieurs plans, mais nous sommes analphabètes en ce qui concerne l’accompagnement, l’assistance et le soutien aux plus fragiles et aux plus faibles de nos sociétés développées. Nous sommes habitués à regarder ailleurs, à passer outre, à ignorer les situations jusqu’à ce qu’elles nous touchent directement ».[115]

106. Et cela nous fait beaucoup de bien de découvrir que cette scène du bon Samaritain se répète encore aujourd’hui. Rappelons-nous une situation actuelle : « Quand je rencontre une personne dormant exposée aux intempéries, dans une nuit froide, je peux considérer que ce tas est un imprévu qui m’arrête, un délinquant désœuvré, un obstacle sur mon chemin, un aiguillon gênant pour ma conscience, un problème que doivent résoudre les hommes politiques, et peut-être même un déchet qui pollue l’espace public. Ou bien je peux réagir à partir de la foi et de la charité, et reconnaître en elle un être humain doté de la même dignité que moi, une créature infiniment aimée par le Père, une image de Dieu, un frère racheté par Jésus-Christ. C’est cela être chrétien ! Est-il possible de comprendre la sainteté en dehors de cette reconnaissance vivante de la dignité de tout être humain ? ».[116] Que fit le bon Samaritain ?

107. La question est urgente car elle nous aide à prendre conscience d’une grave lacune dans nos sociétés et même dans nos communautés chrétiennes. Le fait est que de nombreuses formes d’indifférence que nous constatons aujourd’hui sont « des signes d’un mode de vie répandu qui se manifeste de diverses manières, peut-être plus subtiles. De plus, comme nous sommes tous obnubilés par nos propres besoins, voir quelqu’un souffrir nous dérange, nous perturbe, parce que nous ne voulons pas perdre notre temps à régler les problèmes d’autrui. Ce sont les symptômes d’une société qui est malade parce qu’elle cherche à se construire en tournant le dos à la souffrance. Mieux vaut ne pas tomber dans cette misère. Regardons le modèle du bon Samaritain ».[117] Les derniers mots de la parabole évangélique – « va, toi aussi, fais de même » (Lc 10, 37) – sont un commandement qu’un chrétien doit entendre résonner chaque jour dans son cœur.

Un défi incontournable pour l’Église d’aujourd’hui

108. À une époque particulièrement difficile pour l’Église de Rome, alors que les institutions impériales s’effondraient sous la pression des barbares, le Pape saint Grégoire le Grand avertissait ainsi ses fidèles : « Chaque jour, si nous cherchons bien, nous trouvons Lazare ; chaque jour nous voyons Lazare, même sans le chercher. Voici que les pauvres se présentent à nous ; importuns ils nous prient, eux qui seront un jour nos intercesseurs. […] Ne perdez donc pas le temps de la miséricorde, ne négligez pas les remèdes que vous avez reçus ».[118] Il défiait courageusement les préjugés répandus à l’égard des pauvres, qui les considéraient comme responsables de leur propre misère : « Quand vous voyez des pauvres accomplir des actes répréhensibles, ne les méprisez pas et ne désespérez pas, car peut être le feu de la pauvreté purifie-t-il en eux les traces laissées par une très légère malice ».[119] Il n’est pas rare que le bien-être nous rende aveugles, au point de penser que notre bonheur ne peut se réaliser que si nous parvenons à nous passer des autres. En cela, les pauvres peuvent être pour nous comme des maîtres silencieux, ramenant notre orgueil et notre arrogance à une juste humilité.

109. S’il est vrai que les pauvres sont soutenus par ceux qui ont des moyens économiques, on peut également affirmer avec certitude l’inverse. C’est une expérience surprenante attestée par la tradition chrétienne et qui devient un véritable tournant dans notre vie personnelle, quand nous nous rendons compte que ce sont précisément les pauvres qui nous évangélisent. De quelle manière ? Dans le silence de leur condition, ceux-ci nous confrontent à notre faiblesse. La personne âgée, par exemple, de par la fragilité de son corps, nous rappelle notre vulnérabilité, même si nous essayons de la cacher derrière le bien-être ou les apparences. De plus, les pauvres nous font réfléchir sur l’inconsistance de cet orgueil agressif avec lequel nous affrontons souvent les difficultés de la vie. En substance, ils révèlent notre précarité et la vacuité d’une vie en apparence protégée et sûre. À ce propos, écoutons à nouveau saint Grégoire le Grand : « Que personne ne s’estime donc en sécurité en disant : “je ne prends pas le bien d’autrui, je jouis de biens reçus licitement”, puisque ce riche n’a pas été puni pour avoir pris le bien d’autrui, mais parce qu’ayant reçu des biens, il s’est oublié lui-même de façon coupable. Ce qui l’a livré à l’enfer c’est aussi le fait qu’il n’a éprouvé aucune crainte dans son opulence, qu’il a fait servir les dons reçus à son orgueil, qu’il a ignoré la tendresse et la compassion ».[120]

110. Pour nous chrétiens, la question des pauvres nous ramène à l’essentiel de notre foi. L’option préférentielle pour les pauvres, c’est-à-dire l’amour de l’Église envers eux, comme l’enseignait saint Jean-Paul II, « est capitale et fait partie de sa tradition constante, la pousse à se tourner vers le monde dans lequel, malgré le progrès technique et économique, la pauvreté menace de prendre des proportions gigantesques ».[121] La réalité est que, pour les chrétiens, les pauvres ne sont pas une catégorie sociologique, mais la chair même du Christ. En effet, il ne suffit pas d’énoncer de manière générale la doctrine de l’incarnation de Dieu. Pour entrer véritablement dans ce mystère, il faut préciser que le Seigneur s’est fait chair, qu’il a faim, qu’il a soif, qu’il est malade et emprisonné. « Une Église pauvre pour les pauvres commence par aller vers la chair du Christ. Si nous allons vers la chair du Christ, nous commençons à comprendre quelque chose, à comprendre ce qu’est cette pauvreté, la pauvreté du Seigneur. Et cela n’est pas facile ».[122]

111. Le cœur de l’Église, de par sa nature même, est solidaire avec ceux qui sont pauvres, exclus et marginalisés, ceux qui sont considérés comme des “rebuts” de la société. Les pauvres sont au centre même de l’Église, car c’est de « notre foi au Christ qui s’est fait pauvre, et toujours proche des pauvres et des exclus, [que] découle la préoccupation pour le développement intégral des plus abandonnés de la société ». [123] Il y a au cœur de chacun des fidèles « l’exigence d’écouter ce cri [qui] vient de l’œuvre libératrice de la grâce elle-même en chacun de nous ; il ne s’agit donc pas d’une mission réservée seulement à quelques-uns ».[124]

112. On constate parfois dans certains mouvements ou groupes chrétiens un manque, voire une absence, d’engagement pour le bien commun de la société et, en particulier, pour la défense et la promotion des plus faibles et des plus défavorisés. Il convient de rappeler que la religion, en particulier la religion chrétienne, ne peut se limiter à la sphère privée comme si elle n’avait pas à se préoccuper des problèmes touchant la société civile et les événements qui intéressent les citoyens.[125]

113. En réalité, « toute communauté d’Église, dans la mesure où elle prétend rester tranquille sans se préoccuper de manière créative et sans coopérer avec efficacité pour que les pauvres vivent avec dignité et pour l’intégration de tous, court le risque de se désagréger, même si elle s’occupe de thèmes sociaux ou de critique aux gouvernements. Elle finira par être facilement dominée par la mondanité spirituelle, dissimulée sous des pratiques religieuses, avec des réunions infécondes et des discours vides ».[126]

114. Nous ne parlons pas seulement de l’assistance et du nécessaire combat pour la justice. Les croyants doivent rendre compte d’une autre forme d’incohérence à l’égard des pauvres. En vérité, « la pire discrimination dont souffrent les pauvres est le manque d’attention spirituelle [...]. L’option préférentielle pour les pauvres doit se traduire principalement par une attention religieuse préférentielle et prioritaire ».[127] Or cette attention spirituelle aux pauvres est remise en question par certains préjugés, y compris chez les chrétiens, parce que nous nous sentons plus à l’aise sans les pauvres. Certains continuent à dire : “Notre tâche est de prier et d’enseigner la vraie doctrine”. Mais, en dissociant cet aspect religieux de la promotion intégrale, ils ajoutent que seul le gouvernement devrait s’occuper d’eux, ou qu’il vaudrait mieux les laisser dans la misère, en leur apprenant plutôt à travailler. Quelques fois, on adopte des critères pseudo-scientifiques pour affirmer que la liberté du marché conduira spontanément à la solution du problème de la pauvreté. Ou même on choisit une pastorale des soi-disant élites, en soutenant qu’au lieu de perdre son temps avec les pauvres, il vaut mieux prendre soin des riches, des puissants et des professionnels afin qu’à travers eux l’on puisse parvenir à des solutions plus efficaces. Il est facile de saisir la mondanité qui se cache derrière ces opinions : elles nous conduisent à regarder la réalité au moyen de critères superficiels et dépourvus de toute lumière surnaturelle, en privilégiant des fréquentations qui nous rassurent et en recherchant des privilèges qui nous arrangent.

Donner, encore aujourd’hui

115. Il convient de dire un dernier mot sur l’aumône, qui n’a pas bonne réputation aujourd’hui, souvent même parmi les croyants. Non seulement elle est rarement pratiquée, mais elle est parfois même méprisée. Je répète d’une part que l’aide la plus importante à une personne pauvre consiste à l’aider à trouver un bon travail, afin qu’elle puisse gagner sa vie de manière plus conforme à sa dignité en développant ses capacités et en offrant ses efforts personnels. Le fait est que « le manque de travail c’est beaucoup plus que le manque d’une source de revenus pour vivre. Le travail c’est aussi cela, mais il représente beaucoup, beaucoup plus. En travaillant, nous devenons davantage des personnes, notre humanité fleurit, les jeunes ne deviennent adultes qu’en travaillant. La Doctrine sociale de l’Église a toujours considéré le travail humain comme une participation à la création qui continue chaque jour, également grâce aux mains, à l’esprit et au cœur des travailleurs ».[128] D’autre part, si cette possibilité concrète n’existe pas encore, nous ne devons pas courir le risque de laisser une personne abandonnée à son sort, sans ce qui est indispensable pour vivre dignement. Et donc, l’aumône reste, entre-temps, un moment nécessaire de contact, de rencontre et d’identification à la condition d’autrui.

116. Il est évident, pour ceux qui aiment vraiment, que l’aumône ne dégage pas les autorités compétentes de leurs responsabilités, ni n’élimine l’engagement organisationnel des institutions, ni ne remplace la lutte légitime pour la justice. Mais elle invite au moins à s’arrêter et à regarder la personne pauvre en face, à la toucher et à partager avec elle quelque chose de soi-même. En tout état de cause, l’aumône, même modeste, apporte un peu de pietas dans une vie sociale où chacun court après son intérêt personnel. Le Livre des Proverbes dit : « L’homme bienveillant sera béni, car il donne de son pain au pauvre » (Pr 22, 9).

117. Tant l’Ancien que le Nouveau Testament contiennent de véritables hymnes à l’aumône : « Sois indulgent pour les malheureux, ne leur fais pas attendre tes aumônes. [...] Serre tes aumônes dans tes greniers, elles te délivreront de tout malheur » (Sir 29, 8.12). Et Jésus reprend cet enseignement : « Vendez vos biens et donnez-les en aumône ; faites-vous des bourses qui ne s’usent pas, un trésor inépuisable dans les cieux » (Lc 12, 33).

118. On attribue à saint Jean Chrysostome l’expression : « L’aumône est l’aile de la prière. Si donc tu ne donnes pas une aile à ta prière, elle ne vole pas ».[129] Et saint Grégoire de Nazianze concluait l’un de ses célèbres discours par ces mots : « Si donc vous m’écoutez, serviteurs du Christ, frères et cohéritiers, pendant qu’il en est encore temps, visitons le Christ, soignons le Christ, nourrissons le Christ, habillons le Christ, accueillons le Christ, honorons le Christ, non seulement avec une table, comme certains, avec des onguents, comme Marie, avec un tombeau, comme Joseph d’Arimathie, par des rites funéraires, comme Nicodème, qui n’aimait le Christ qu’à moitié, par l’or, l’encens et la myrrhe, comme les mages, mais puisque le Maître de tout veut la miséricorde et non le sacrifice [...], offrons-la-lui dans les pauvres, afin qu’à notre départ d’ici, ils nous accueillent dans les tentes éternelles ». [130]

119. L’amour et les convictions les plus profondes doivent être nourris, et cela se fait par des gestes. Rester dans le monde des idées et des discussions, sans gestes personnels, fréquents et sincères, sera la ruine de nos rêves les plus précieux. Pour cette simple raison, en tant que chrétiens, ne renonçons pas à l’aumône. Un geste qui peut être fait de différentes manières, et que nous pouvons essayer de faire de la manière la plus efficace possible, mais nous devons le faire. Et il vaudra toujours mieux faire quelque chose que ne rien faire. Dans tous les cas, cela touchera notre cœur. Ce ne sera pas la solution à la pauvreté dans le monde, qui doit être recherchée avec intelligence, lutte et engagement social. Mais nous avons besoin de nous exercer à l’aumône pour toucher la chair souffrante des pauvres.

120. L’amour chrétien brise toutes les barrières, rapproche ceux qui sont éloignés, unit les étrangers, rend familiers les ennemis, franchit des abîmes humainement insurmontables, pénètre dans les replis les plus cachés de la société. De par sa nature, l’amour chrétien est prophétique, il accomplit même des miracles, il n’a pas de limites : il est pour l’impossible. L’amour est avant tout une façon de concevoir la vie, une façon de la vivre. Eh bien, une Église qui ne met pas de limites à l’amour, qui ne connaît pas d’ennemis à combattre, mais seulement des hommes et des femmes à aimer, est l’Église dont le monde a besoin aujourd’hui.

121. Que ce soit par votre travail, votre lutte pour changer les structures sociales injustes, ou encore par ce geste d’aide simple, très personnel et proche, il sera possible pour ce pauvre de sentir que les paroles de Jésus s’adressent à lui : « Je t’ai aimé » (Ap 3, 9).

Fait à Rome, près de Saint-Pierre, le 4 octobre, mémoire de Saint François d’Assise, de l’année 2025, la première de mon Pontificat.

LÉON PP. XIV

_________________

[1] François, Lett. enc. Dilexit nos (24 octobre 2024), n. 170: AAS 116 (2024), 1422.

[2] Ibid., n. 171: AAS 116 (2024), 1422-1423.

[3] Id., Exhort. ap. Gaudete et exsultate (19 mars 2018), 96: AAS 110 (2018), 1137.

[4] François, Rencontre avec les représentants des media (16 mars 2013): AAS 105 (2013), 381.

[5] J. Bergoglio – A. Skorka, Sobre el cielo y la tierra, Buenos Aires 2013, 214.

[6] S. Paul VI, Homélie de la Messe de la dernière session publique du Concile œcuménique Vatican II (7 décembre 1965): AAS 58 (1966), 55-56.

[7] Cf. François, Exhort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 187: AAS 105 (2013), 1098.

[8] Ibid., 212: AAS 105 (2013), 1108

[9] Id., Lett. enc. Fratelli tutti (3 octobre 2020), 23: AAS 112 (2020), 977.

[10] Ibíd., 21: AAS 112 (2020), 976.

[11] Conseil des Communautés Européennes, Décision (85/8/CEE) concernant une action communautaire spécifique de lutte contre la pauvreté (19 décembre 1984), art 1, § 2: Journal officiel des Communautés Européennes, N. L 2/24.

[12] Cf. S. Jean-Paul II, Catéchèse (27 octobre 1999): L’Osservatore Romano, 28 octobre 1999, 4.

[13] François, Exhort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 197: AAS 105 (2013), 1102.

[14] Cf. Id., Message pour la 5èmeJournée mondiale des pauvres (13 juin 2021), 3: AAS 113 (2021), 691: « Jésus est non seulement du côté des pauvres, mais partage avec eux le même sort. C’est aussi un enseignement fort pour ses disciples de tous les temps ».

[15] Id., Exhort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 186: AAS 105 (2013), 1098.

[16] Id., Exhort. ap. Gaudete et exsultate (19 mars 2018), 95: AAS 110 (2018), 1137.

[17] Ibid, 97: AAS 110 (2018), 1137.

[18] Id., Exhort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 194: AAS 105 (2013), 1101.

[19] François, Rencontre avec les représentants des médias (16 mars 2013): AAS 105 (2013), 381.

[20] Conc. œcum. Vat. II, Const. dogm. Lumen Gentium, 8.

[21] François, Exhort. ap. Evangelii Gaudium (24 novembre 2013), 48: AAS 105 (2013), 1040.

[22] Dans ce chapitre, nous proposons quelques exemples de sainteté qui ne prétendent pas être exhaustifs mais qui illustrent plutôt cette attention aux pauvres qui a toujours caractérisé la présence de l'Église dans le monde. Une réflexion approfondie sur l'histoire de cette attention aux plus démunis se trouve dans le livre de V. Paglia, Storia della povertà, Milan 2014.

[23] Cf. S. Ambroise, De officiis ministrorum I, chap. 41, 205-206: CCSL 15, Turnhout 2000, 76-77; II, chap. 28, 140-143: CCSL 15, 148-149.

[24] Ibid., II, chap. 28, 140 : PL 16, 149.

[25] Ibid.

[26] Ibid., II, chap. 28, 142 : PL 16, 150.

[27] S. Ignace d’Antioche, Epistula ad Smyrnaeos, 6, 2: SCh 10bis, Paris 2007, 136-138.

[28] S. Polycarpe, Epistula ad Philippenses, 6, 1: SCh 10bis, 186.

[29] S. Justin, Apologia prima, 67, 6-7: SCh 507, Paris 2006, 310.

[30] S. Jean Chrysostome, Homiliae in Matthaeum, 50, 3: PG 58, Paris 1862, 508.

[31] Ibid., 50, 4 : PG 58, 509.

[32] Id., Homilia in Epistula ad Hebraeos 11, 3: PG 63, Paris 1862, 94.

[33] Id., Homilia II de Lazaro, 6: PG 48, Paris 1862, 992.

[34] S. Ambroise, De Nabuthae, 12, 53: CSEL 32/2, Prague-Vienne-Leipzig 1897, 498.

[35] S. Augustin, Enarrationes in Psalmos, 125, 12: CSEL 95/3, Vienne 2001, 181.

[36] Id., Sermo LXXXVI, 5: CCSL 41Ab, Turnhout 2019, 411-412.

[37] Pseudo-Agostino, Sermo CCCLXXXVIII, 2: PL 39, Paris 1862, 1700.

[38] S. Cyprien, De mortalitate, 16: CCSL 3A, Turnhout 1976, 25.

[39] François, Message pour la 30èmeJournée Mondiale des Malades (10 décembre 2021), 3: AAS 114 (2022), 51.

[40] S. Camille de Lellis, Règle de l’Ordre des Clercs Réguliers Ministres des Infirmes, n. 27: M. Vanti (ed.), Scritti di San Camillo de Lellis, Milan 1965, 67.

[41] S. Louise de Marillac, Lettre aux sœurs Claude Carré et Marie Gaudoin (28 novembre 1657): E. Charpy (ed.), Sainte Louise de Marillac. Écrits, Paris 1983, 576.

[42] S. Basile le Grand, Regulae fusius tractatae, 37, 1: PG 31, Paris 1857, 1009 C-D.

[43] Regula Benedicti, 53, 15: SCh 182, Paris 1972, 614.

[44] S. Jean Cassien, Collationes, XIV, 10: CSEL 13, Vienne 2004, 410.

[45] Benoît XVI, Catéchèse (21 octobre 2009): L’Osservatore Romano, 22 ottobre 2009, 1.

[46] Cf. Innocent III, Bulle Operante divinae dispositionis Règle Primitive des Trinitaires (17 décembre 1198), 2: J.L. Aurrecoechea – A. Moldón (edd.), Fuentes históricas de la Orden Trinitaria (s. XII-XV), Cordoue 2003, 6: « Tous les biens, quelle que soit leur provenance légitime, doivent être divisés en trois parts égales ; et dans la mesure où deux parts suffisent, ils doivent servir à accomplir des œuvres de miséricorde, ainsi qu'à assurer une subsistance modérée à eux-mêmes et aux domestiques qui sont à leur service par nécessité. Cependant, la troisième part doit être réservée à la rançon des prisonniers en raison de leur foi en Christ ».

[47] Cf. Constitution de l’Ordre des Mercédaires, n.14: Orden de la Beata Virgen María de la Merced, Regla y Constituciones, Rome 2014, 53: « Pour accomplir cette mission, poussés par la charité, nous nous consacrons à Dieu par un vœu particulier, appelé de Rédemption, en vertu duquel nous promettons de donner notre vie, si nécessaire, comme le Christ l'a donnée pour nous, afin de sauver les chrétiens qui se trouvent en danger extrême de perdre leur foi dans les nouvelles formes d'esclavage ».

[48] Cf. S. Jean-Baptiste de la Conception, La regla de la Orden de la Santísima Trinidad, XX, 1: BAC Maior 60, Madrid 1999, 90: « En cela, les pauvres et les prisonniers sont comme le Christ, sur qui reposent les douleurs du monde [...]. Ce saint Ordre de la Très Sainte Trinité les appelle et les invite à venir boire l'eau du Sauveur, ce qui signifie que, si le Christ suspendu à la croix a été la rédemption et le salut des hommes, l'Ordre a pris cette rédemption et veut la distribuer aux pauvres et sauver et libérer les prisonniers ».

[49] Cf. Id., El recogimiento interior, XL, 4: BAC Maior 48, Madrid 1995, 689: « Le libre arbitre rend l'homme libre et maître parmi toutes les créatures, mais, que Dieu me vienne en aide, combien sont ceux qui, par ce biais, deviennent esclaves et prisonniers du diable, emprisonnés et enchaînés par leurs passions et leurs convoitises ».

[50] François, Message pour la 48ème Journée Mondiale de la Paix (8 décembre 2014), 3: AAS 107 (2015), 69.

[51] Id., Rencontre avec les agents de police pénitentiaire, les détenus et les bénévoles (Vérone, 18 mai 2024): AAS 116 (2024), 766.

[52] Honorius III, Bulle Solet annuere - Regula bullata (29 novembre 1223), chap. VI: SCh 285, Paris 1981, 192.

[53] Cf. Grégoire IX, Bulle Sicut manifestum est (17 septembre 1228), 7: SCh 325, Paris 1985, 200: « Sicut igitur supplicastis, altissimae paupertatis propositum vestrum favore apostolico roboramus, auctoritate vobis praesentium indulgentes, ut recipere possessiones a nullo compelli possitis ».

[54] Cf. S. C. Tugwell (ed), Early Dominicans. Selected Writings, Mahwah 1982, 16-19.

[55] Thomas de Celano, Vita Secunda - pars prima, chap. IV, 8: AnalFranc, 10, Florence 1941, 135.

[56] François, Discours après la visite à la tombe de Don Lorenzo Milani, (Barbiana, 20 juin 2017), 2: AAS 109 (2017), 745.

[57] S. Jean-Paul II, Discours aux participants au Chapitre général des Clercs Réguliers Pauvres de la Mère de Dieu des Écoles Pies (Piaristes) (5 juillet 1997), 2: L’Osservatore Romano, 6 juillet 1997, 5.

[58] Ibid.

[59] Id., Homélie de la messe de canonisation, (18 avril 1999): AAS 91 (1999), 930.

[60] Cf. Id., Lett. Iuvenum Patris (31 janvier 1988), 9: AAS 80 (1988), 976.

[61] Cf. François, Discours aux participants au Chapitre Général de l'Institut de la Charité (Rosminiens) (1er octobre 2018): L’Osservatore Romano, 1-2 octobre 2018, 7.

[62] Id., Homélie de la Messe de canonisation (9 octobre 2022): AAS 114 (2022), 1338.

[63] S. Jean-Paul II, Message à la Congrégation des Missionnaires du Sacré-Cœur (31 mai 2000), 3: L’Osservatore Romano, 16 juillet 2000, 5.

[64] Cf. Pie XII, Breve ap. Superiore Iam Aetate (8 septembre 1950): AAS 43 (1951), 455-456.

[65] François, Message pour la 105èmeJournée Mondiale du Migrant et du Réfugié (27 mai 2019): AAS 111 (2019), 911.

[66] Id., Message pour la 100èmeJournée Mondiale du Migrant et du Réfugié (5 août 2013): AAS 105 (2013), 930.

[67] S. Teresa de Calcutta, Discours à l'occasion de la remise du Prix Nobel de la Paix (Oslo, 10 décembre 1979): Id., Aimer jusqu’à en avoir mal, Lyon 2017, 19-20.

[68] S. Jean-Paul II, Discours aux pèlerins venus à Rome pour la béatification de Mère Teresa de Calcutta (20 octobre 2003), 3: L’Osservatore Romano, 20-21 octobre 2003, 10.

[69] François, Homélie de la messe et canonisation (13 octobre 2019): AAS 111 (2019), 1712.

[70] S. Jean-Paul II, Lett. ap. Novo millennio ineunte (6 janvier 2001), 49: AAS 93 (2001), 302.

[71] François, Exhort. ap. Christus vivit (25 mars 2019), 231: AAS 111 (2019), 458

[72] Id., Discours aux participants à la Rencontre mondiale des mouvements populaires (28 octobre 2014): AAS 106 (2014), 851-852.

[73] Ibid.: AAS 106 (2014), 859.

[74] Id., Discours aux participants à la Rencontre mondiale des mouvements populaires (5 novembre 2016): L’Osservatore Romano, 7-8 novembre 2016, 5.

[75] Ibid.

[76] S. Jean XXIII, Message radiophonique à tous les fidèles du monde à un mois de l’ouverture du Concile Œcuménique Vatican II (11 septembre 1962): AAS 54 (1962), 682.

[77] G. Lercaro, Intervention lors de la 35ème Congrégation Générale du Concile Œcuménique Vatican II (6 décembre 1962): AS I/IV, 329.

[78] Ibid., 4: AS I/IV, 329.

[79] Istituto per le Scienze Religiose (ed.), Per la forza dello Spirito. Discorsi conciliari del Card. Giacomo Lercaro, Bologne 1984, 115.

[80] S. Paul VI, Allocution lors de l’ouverture solennelle de la 2ème Session du Conc. Œcum. Vat. II (29 settembre 1963): AAS 55 (1963), 857.

[81]Id., Catéchèse (11 novembre 1964): Insegnamenti di Paolo VI, II (1964), 984.

[82] Conc. Œcum. Vat. II, Const. past. Gaudium et spes, 69.71: AAS 58 (1966), 1090-1092.

[83] S. Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio (26 mars 1967), 23: AAS 59 (1967), 269.

[84] Cf. ibid., 4: AAS 59 (1967), 259.

[85] S. Jean-Paul II, Lett. enc. Siilicitudo rei socialis (30 décembre 1987), 42: AAS 80 (1988), 572.

[86] Ibid.: AAS 80 (1988), 573.

[87] Id., Lett. enc. Laborem exercens (14 septembre 1981), 3: AAS 73 (1981), 584.

[88] Benoît XVI, Lett. enc. Caritas in veritate (29 juin 2009), 7: AAS 101 (2009), 645.

[89] Ibid., 27: AAS 101 (2009), 661.

[90] 2ème Conférence générale de l’épiscopat latino-américain et des Caraïbes, Document de Medellin (24 octobre 1968), 14, n. 7: CELAM, Medellín. Conclusiones, Lima 2005, 131-132.

[91] François, Exhort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 202: AAS 105 (2013), 1105.

[92] Ibid., 205: AAS 105 (2013), 1106.

[93] Ibid., 190: AAS 105 (2013), 1099.

[94] Ibid., 56: AAS 105 (2013), 1043.

[95] Id., Lett. enc. Dilexit nos (24 octobre 2024), 183: AAS 116 (2024), 1427.

[96] S. Jean-Paul II, Lett. enc. Centesimus annus (1er mai 1991), 41: AAS 83 (1991), 844-845.

[97] François, Exhort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 202: AAS 105 (2013), 1105.

[98] Ibid.

[99] Id., Lett. enc. Fratelli tutti (3 octobre 2020), 22: AAS 112 (2020), 976.

[100] Id., Exhort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 209: AAS 105 (2013), 1107.

[101] Id., Lett. enc. Laudato si’ (24 mai 2015), 50: AAS 107 (2015), 866.

[102] Id., Exhort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 210: AAS 105 (2013), 1107.

[103] Id., Lett. enc. Laudato si’ (24 mai 2015), 43: AAS 107 (2015), 863.

[104] Ibid., 48: AAS 107 (2015), 865.

[105] Id., Exhort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 180: AAS 105 (2013), 1095.

[106] Congrégation pour la Doctrine de la Foi, Instruction sur certains aspects de la « Théologie de la libération », 6 août 1984, XI, 18: AAS 76 (1984), 907-908.

[107] 5ème Conférence générale de l’épiscopat d'Amérique latine et des Caraïbes, Document d’Aparecida (29 juin 2007), n. 392, Bogota 2007, pp. 179-180. Cf. Benoît XVI, Discours lors de la séance inaugurale des travaux de la 5ème Conférence générale de l'épiscopat d'Amérique latine et des Caraïbes (13 mai 2007), 3: AAS 99 (2007), 450.

[108] Cf. 5ème Conférence générale de l’épiscopat d'Amérique latine et des Caraïbes, Document d’Aparecida (29 juin 2007), nn. 43-87, pp. 31-47.

[109] Id., Message final (29 mai 2007) n. 4, Bogota 2007, p. 275.

[110] Id., Document d’Aparecida (29 giugno 2007), n. 398, p. 182.

[111] François, Exhort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 199: AAS 105 (2013), 1103-1104.

[112] Ibid., 198: AAS 105 (2013), 1103.

[113] Ibid.

[114] 5ème Conférence générale de l’épiscopat Latino-américain et des Caraïbes, Document d’Aparecida (29 juin 2007), n. 397, p. 182.

[115] François, Lett. enc. Fratelli tutti (3 octobre 2020), 64: AAS 112 (2020), 992.

[116] Id., Exhort. ap. Gaudete et exsultate (19 mars 2018), 98: AAS 110 (2018), 1137.

[117] Id., Lett. enc. Fratelli tutti (3 octobre 2020), 65-66: AAS 112 (2020), 992.

[118] S. Grégoire le Grand, Homilia 40, 10: SCh 522, Paris 2008, 552-554.

[119] Ibid., 6: SCh 522, 546.

[120] Ibid., 3: SCh 522, 536.

[121] S. Jean-Paul II, Lett. enc. Centesimus annus (1er mai 1991), 57: AAS 83 (1991), 862-863.

[122] François, Vigile de Pentecôte avec les Mouvements Ecclésiaux (18 mai 2013): L’Osservatore Romano, 20-21 mai 2013, 5.

[123] Id., Exhort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 186: AAS 105 (2013), 1098.

[124] Ibid., 188: AAS 105 (2013), 1099.

[125] Cf. ibid., 182-183: AAS 105 (2013), 1096-1097.

[126] Ibid., 207: AAS 105 (2013), 1107.

[127] Ibid., 200: AAS 105 (2013), 1104.

[128] Id., Discours à l’occasion de la rencontre avec le monde du travail à l’usine ILVA de Gênes (27 mai 2017): AAS 109 (2017), 613.

[129] Pseudo Chrysostome, Homilia de jejunio et eleemosyna: PG 48, 1060.

[130] S. Grégoire de Nazianze, Oratio XIV, 40: PG 35, Paris 1886, 910.

[01290-FR.01] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

APOSTOLIC EXHORTATION

DILEXI TE

OF THE HOLY FATHER

LEO XIV

TO ALL CHRISTIANS

ON LOVE FOR THE POOR

1. “I HAVE LOVED YOU” (Rev3:9). The Lord speaks these words to a Christian community that, unlike some others, had no influence or resources, and was treated instead with violence and contempt: “You have but little power… I will make them come and bow down before your feet” (Rev3:8-9). This text reminds us of the words of the canticle of Mary: “He has cast down the mighty from their thrones, and lifted up the lowly; he has filled the hungry with good things, and sent the rich away empty” (Lk1:52-53).

2. This declaration of love, taken from the Book of Revelation, reflects the inexhaustible mystery that Pope Francis reflected upon in the EncyclicalDilexit Noson the human and divine love of the heart of Jesus Christ. There we saw how Jesus identified himself “with the lowest ranks of society” and how, with his love poured out to the end, he confirms the dignity of every human being, especially when “they are weak, scorned, or suffering.”[1] As we contemplate Christ’s love, “we too are inspired to be more attentive to the sufferings and needs of others, and confirmed in our efforts to share in his work of liberation as instruments for the spread of his love.”[2]

3. For this reason, in continuity with the EncyclicalDilexit Nos, Pope Francis was preparing in the last months of his life an Apostolic Exhortation on the Church’s care for the poor, to which he gave the title Dilexi Te, as if Christ speaks those words to each of them, saying: “You have but little power,” yet “I have loved you” (Rev3:9). I am happy to make this document my own — adding some reflections — and to issue it at the beginning of my own pontificate, since I share the desire of my beloved predecessor that all Christians come to appreciate the close connection between Christ’s love and his summons to care for the poor. I too consider it essential to insist on this path to holiness, for “in this call to recognize him in the poor and the suffering, we see revealed the very heart of Christ, his deepest feelings and choices, which every saint seeks to imitate.”[3]

CHAPTER ONE

A FEW ESSENTIAL WORDS

4. Jesus’ disciples criticized the woman who poured costly perfumed oil on his head. They said: “Why this waste? For this ointment could have been sold for a large sum, and the money given to the poor.” However, the Lord said to them in response: “You always have the poor with you, but you will not always have me” (Mt26:8-9,11). That woman saw in Jesus the lowly and suffering Messiah on whom she could pour out all her love. What comfort that anointing must have brought to the very head that within a few days would be pierced by thorns! It was a small gesture, of course, but those who suffer know how great even a small gesture of affection can be, and how much relief it can bring. Jesus understood this and told the disciples that the memory of her gesture would endure: “Wherever this good news is proclaimed in the whole world, what she has done will be told in remembrance of her” (Mt26:13). The simplicity of that woman’s gesture speaks volumes. No sign of affection, even the smallest, will ever be forgotten, especially if it is shown to those who are suffering, lonely or in need, as was the Lord at that time.

5. Love for the Lord, then, is one with love for the poor. The same Jesus who tells us, “The poor you will always have with you” (Mt26:11), also promises the disciples: “I am with you always” (Mt28:20). We likewise think of his saying: “Just as you did it to one of the least of these brothers and sisters of mine, you did it to me” (Mt25:40). This is not a matter of mere human kindness but a revelation: contact with those who are lowly and powerless is a fundamental way of encountering the Lord of history. In the poor, he continues to speak to us.

Saint Francis

6. Pope Francis, explaining his choice of that name, related how, after his election, a Cardinal friend of his embraced him, kissed him and told him: “Do not forget the poor!”[4] It is the same appeal that the leaders of the Church made to Saint Paul when he went up to Jerusalem to confirm his mission (cf.Gal2:1-10). Years later, the Apostle could still reaffirm that this was “actually what I was eager to do” (Gal2:10). Care for the poor was also a great concern of Saint Francis of Assisi: in the person of a leper, Christ himself embraced Francis and changed his life. Even today, Saint Francis, as the Poor Man of Assisi, continues to inspire us by his outstanding example.

7. Eight centuries ago, Saint Francis prompted an evangelical renewal in the Christians and society of his time. Wealthy and self-confident, the young Francis was taken aback and converted by his direct contact with the poor and outcast of society. The story of his life continues to appeal to the minds and hearts of believers, and many non-believers as well. It “changed history.”[5] A further step on the same path was taken by the Second Vatican Council, as Saint Paul VI pointed out when he said that “the ancient parable of the Samaritan served as the model for the Council’s spirituality.”[6] I am convinced that the preferential choice for the poor is a source of extraordinary renewal both for the Church and for society, if we can only set ourselves free of our self-centeredness and open our ears to their cry.

The cry of the poor

8. The passage of Sacred Scripture in which God reveals himself to Moses in the burning bush can serve as a constant starting-point for this effort. There he says: “I have observed the misery of my people who are in Egypt; I have heard their cry on account of their taskmasters. Indeed, I know their sufferings, and I have come down to deliver them... So come, I will send you” (Ex3:7-8,10).[7] God thus shows his concern for the needs of the poor: “When the Israelites cried out to the Lord, he raised up for them a deliverer” (Judg3:15). In hearing the cry of the poor, we are asked to enter into the heart of God, who is always concerned for the needs of his children, especially those in greatest need. If we remain unresponsive to that cry, the poor might well cry out to the Lord against us, and we would incur guilt (cf.Deut15:9) and turn away from the very heart of God.

9. The condition of the poor is a cry that, throughout human history, constantly challenges our lives, societies, political and economic systems, and, not least, the Church. On the wounded faces of the poor, we see the suffering of the innocent and, therefore, the suffering of Christ himself. At the same time, we should perhaps speak more correctly of the many faces of the poor and of poverty, since it is a multifaceted phenomenon. In fact, there are many forms of poverty: the poverty of those who lack material means of subsistence, the poverty of those who are socially marginalized and lack the means to give voice to their dignity and abilities, moral and spiritual poverty, cultural poverty, the poverty of those who find themselves in a condition of personal or social weakness or fragility, the poverty of those who have no rights, no space, no freedom.

10. In this sense, it can be said that the commitment to the poor and to removing the social and structural causes of poverty has gained importance in recent decades, but it remains insufficient. This is also the case because our societies often favor criteria for orienting life and politics that are marked by numerous inequalities. As a result, the old forms of poverty that we have become aware of and are trying to combat are being joined by new ones, sometimes more subtle and dangerous. From this point of view, it is to be welcomed that the United Nations has made the eradication of poverty one of its Millennium Goals.

11. A concrete commitment to the poor must also be accompanied by a change in mentality that can have an impact at the cultural level. In fact, the illusion of happiness derived from a comfortable life pushes many people towards a vision of life centered on the accumulation of wealth and social success at all costs, even at the expense of others and by taking advantage of unjust social ideals and political-economic systems that favor the strongest. Thus, in a world where the poor are increasingly numerous, we paradoxically see the growth of a wealthy elite, living in a bubble of comfort and luxury, almost in another world compared to ordinary people. This means that a culture still persists — sometimes well disguised — that discards others without even realizing it and tolerates with indifference that millions of people die of hunger or survive in conditions unfit for human beings. A few years ago, the photo of a lifeless child lying on a Mediterranean beach caused an uproar; unfortunately, apart from some momentary outcry, similar events are becoming increasingly irrelevant and seen as marginal news items.

12. We must not let our guard down when it comes to poverty. We should be particularly concerned about the serious conditions in which many people find themselves due to lack of food and water. In wealthy countries too, the growing numbers of the poor are equally a source of concern. In Europe, more and more families find themselves unable to make it to the end of the month. In general, we are witnessing an increase in different kinds of poverty, which is no longer a single, uniform reality but now involves multiple forms of economic and social impoverishment, reflecting the spread of inequality even in largely affluent contexts. Let us not forget that “doubly poor are those women who endure situations of exclusion, mistreatment and violence, since they are frequently less able to defend their rights. Even so, we constantly witness among them impressive examples of daily heroism in defending and protecting their vulnerable families.”[8] While significant changes are under way in some countries, “the organization of societies worldwide is still far from reflecting clearly that women possess the same dignity and identical rights as men. We say one thing with our words, but our decisions and reality tell another story,”[9] especially if we consider the numbers of women who are in fact destitute.

Ideological prejudices

13. Looking beyond the data — which is sometimes “interpreted” to convince us that the situation of the poor is not so serious — the overall reality is quite evident: “Some economic rules have proved effective for growth, but not for integral human development. Wealth has increased, but together with inequality, with the result that ‘new forms of poverty are emerging.’ The claim that the modern world has reduced poverty is made by measuring poverty with criteria from the past that do not correspond to present-day realities. In other times, for example, lack of access to electric energy was not considered a sign of poverty, nor was it a source of hardship. Poverty must always be understood and gauged in the context of the actual opportunities available in each concrete historical period.”[10] Looking beyond specific situations and contexts, however, a 1984 document of the European Community declared that “‘the poor’ shall be taken to mean persons, families and groups of persons whose resources (material, cultural and social) are so limited as to exclude them from the minimum acceptable way of life in the Member States in which they live.”[11] Yet if we acknowledge that all human beings have the same dignity, independent of their place of birth, the immense differences existing between countries and regions must not be ignored.

14. The poor are not there by chance or by blind and cruel fate. Nor, for most of them, is poverty a choice. Yet, there are those who still presume to make this claim, thus revealing their own blindness and cruelty. Of course, among the poor there are also those who do not want to work, perhaps because their ancestors, who worked all their lives, died poor. However, there are so many others — men and women — who nonetheless work from dawn to dusk, perhaps collecting scraps or the like, even though they know that their hard work will only help them to scrape by, but never really improve their lives. Nor can it be said that most of the poor are such because they do not “deserve” otherwise, as maintained by that specious view of meritocracy that sees only the successful as “deserving.”

15. Christians too, on a number of occasions, have succumbed to attitudes shaped by secular ideologies or political and economic approaches that lead to gross generalizations and mistaken conclusions. The fact that some dismiss or ridicule charitable works, as if they were an obsession on the part of a few and not the burning heart of the Church’s mission, convinces me of the need to go back and re-read the Gospel, lest we risk replacing it with the wisdom of this world. The poor cannot be neglected if we are to remain within the great current of the Church’s life that has its source in the Gospel and bears fruit in every time and place.

CHAPTER TWO

GOD CHOOSES THE POOR

The choice of the poor

16. God is merciful love, and his plan of love, which unfolds and is fulfilled in history, is above all his descent and coming among us to free us from slavery, fear, sin and the power of death. Addressing their human condition with a merciful gaze and a heart full of love, he turned to his creatures and thus took care of their poverty. Precisely in order to share the limitations and fragility of our human nature, he himself became poor and was born in the flesh like us. We came to know him in the smallness of a child laid in a manger and in the extreme humiliation of the cross, where he shared our radical poverty, which is death. It is easy to understand, then, why we can also speak theologically of a preferential option on the part of God for the poor, an expression that arose in the context of the Latin American continent and in particular in the Puebla Assembly, but which has been well integrated into subsequent teachings of the Church.[12] This “preference” never indicates exclusivity or discrimination towards other groups, which would be impossible for God. It is meant to emphasize God’s actions, which are moved by compassion toward the poverty and weakness of all humanity. Wanting to inaugurate a kingdom of justice, fraternity and solidarity, God has a special place in his heart for those who are discriminated against and oppressed, and he asks us, his Church, to make a decisive and radical choice in favor of the weakest.

17. It is in this perspective that we can understand the numerous pages of the Old Testament in which God is presented as the friend and liberator of the poor, the one who hears the cry of the poor and intervenes to free them (cf.Ps34:7). God, the refuge of the poor, denounces through the prophets — we recall in particular Amos and Isaiah — the injustices committed against the weakest, and exhorts Israel to renew its worship from within, because one cannot pray and offer sacrifice while oppressing the weakest and poorest. From the beginning of Scripture, God’s love is vividly demonstrated by his protection of the weak and the poor, to the extent that he can be said to have a particular fondness for them. “God’s heart has a special place for the poor... The entire history of our redemption is marked by the presence of the poor.”[13]

Jesus, the poor Messiah

18. The Old Testament history of God’s preferential love for the poor and his readiness to hear their cry — to which I have briefly alluded — comes to fulfillment in Jesus of Nazareth.[14] By his Incarnation, he “emptied himself, taking the form of a slave, being born in human likeness” (Phil2:7), and in that form he brought us salvation. His was a radical poverty, grounded in his mission to reveal fully God’s love for us (cf.Jn1:18; 1Jn4:9). As Saint Paul puts it in his customarily brief but striking manner: “You know well the grace of our Lord Jesus Christ, that though he was rich, yet for your sakes he became poor, so that by his poverty you might become rich” (2Cor8:9).

19. The Gospel shows us that poverty marked every aspect of Jesus’ life. From the moment he entered the world, Jesus knew the bitter experience of rejection. The Evangelist Luke tells how Joseph and Mary, who was about to give birth, arrived in Bethlehem, and then adds, poignantly, that “there was no place for them in the inn” (Lk2:7). Jesus was born in humble surroundings and laid in a manger; then, to save him from being killed, they fled to Egypt (cf.Mt2:13-15). At the dawn of his public ministry, after announcing in the synagogue of Nazareth that the year of grace which would bring joy to the poor was fulfilled in him, he was driven out of town (cf.Lk4:14-30). He died as an outcast, led out of Jerusalem to be crucified (cf.Mk15:22). Indeed, that is how Jesus’ poverty is best described: he experienced the same exclusion that is the lot of the poor, the outcast of society. Jesus is a manifestation of this privilegium pauperum. He presented himself to the world not only as a poor Messiah, but also as the Messiah of and for the poor.

20. There are some clues about Jesus’ social status. First of all, he worked as a craftsman or carpenter, téktōn (cf.Mk6:3). These were people who earned their living by manual labor. Not owning land, they were considered inferior to farmers. When the baby Jesus was presented in the Temple by Joseph and Mary, his parents offered a pair of turtledoves or pigeons (cf.Lk2:22-24), which according to the prescriptions of the Book of Leviticus (cf. 12:8) was the offering of the poor. A fairly significant episode in the Gospel tells us how Jesus, together with his disciples, gathered heads of grain to eat as they passed through the fields (cf.Mk2:23-28). Only the poor were allowed to do this gleaning in the fields. Moreover, Jesus says of himself: “Foxes have holes, and birds of the air have nests; but the Son of Man has nowhere to lay his head” (Mt8:20;Lk9:58). He is, in fact, an itinerant teacher, whose poverty and precariousness are signs of his bond with the Father. They are also conditions for those who wish to follow him on the path of discipleship. In this way, the renunciation of goods, riches and worldly securities becomes a visible sign of entrusting oneself to God and his providence.

21. At the beginning of his public ministry, Jesus appeared in the synagogue of Nazareth reading the scroll of the prophet Isaiah and applying the prophet’s words to himself: “The Spirit of the Lord is upon me, because he has anointed me to bring good news to the poor” (Lk4:18; cf.Is61:1). He thus reveals himself as the One who, in the here and now of history, comes to bring about God’s loving closeness, which is above all a work of liberation for those who are prisoners of evil, and for the weak and the poor. The signs that accompany Jesus’ preaching are manifestations of the love and compassion with which God looks upon the sick, the poor and sinners who, because of their condition, were marginalized by society and even people of faith. He opens the eyes of the blind, heals lepers, raises the dead and proclaims the good news to the poor: God is near, God loves you (cf.Lk7:22). This explains why he proclaims: “Blessed are you poor, for yours is the kingdom of God” (Lk6:20). God shows a preference for the poor: the Lord’s words of hope and liberation are addressed first of all to them. Therefore, even in their poverty or weakness, no one should feel abandoned. And the Church, if she wants to be Christ’s Church, must be a Church of the Beatitudes, one that makes room for the little ones and walks poor with the poor, a place where the poor have a privileged place (cf.Jas2:2-4).

22. In that time, the needy and the sick, lacking the necessities of life, frequently found themselves forced to beg. They thus bore the added burden of social shame, due to the belief that sickness and poverty were somehow linked to personal sin. Jesus firmly countered this mentality by insisting that God “makes his sun rise on the evil and on the good, and sends rain on the righteous and on the unrighteous” (Mt 5:45). Indeed, he completely overturned that notion, as we see from the ending of the parable of the rich man and Lazarus: “Child, remember that during your lifetime you received your good things, and Lazarus in like manner evil things; but now he is comforted here, and you are in agony” (Lk16:25).

23. It becomes clear, then, that “our faith in Christ, who became poor, and was always close to the poor and the outcast, is the basis of our concern for the integral development of society’s most neglected members.”[15] I often wonder, even though the teaching of Sacred Scripture is so clear about the poor, why many people continue to think that they can safely disregard the poor. For the moment, though, let us pursue our reflection on what the Scriptures have to tell us about our relationship with the poor and their essential place in the people of God.

Mercy towards the poor in the Bible

24. The Apostle John writes: “Those who do not love a brother or sister whom they have seen, cannot love God whom they have not seen” (1Jn4:20). Similarly, in his reply to the scribe’s question, Jesus quotes the two ancient commandments: “You shall love the Lord your God with all your heart, and with all your soul, and with all your might” (Deut6:5), and “You shall love your neighbor as yourself” (Lev19:18), uniting them in a single commandment. The Evangelist Mark reports Jesus’ response in these terms: “The first is, ‘Hear, O Israel: the Lord our God, the Lord is one; you shall love the Lord your God with all your heart, and with all your soul, and with all your mind, and with all your strength.’ The second is this, ‘You shall love your neighbor as yourself.’ There is no other commandment greater than these” (12:29-31).

25. The passage from the Book of Leviticus teaches love for one’s neighbor, while other texts call for respect — if not also love — even for one’s enemy: “When you come upon your enemy’s ox or donkey going astray, you shall bring it back. When you see the donkey of one who hates you lying under its burden and you would hold back from setting it free, you must help to set it free” (Ex 23:4-5). Here the intrinsic value of respect for others is expressly stated: anyone in need, even an enemy, always deserves our assistance.

26. Jesus’ teaching on the primacy of love for God is clearly complemented by his insistence that one cannot love God without extending one’s love to the poor. Love for our neighbor is tangible proof of the authenticity of our love for God, as the Apostle John attests: “No one has ever seen God; if we love one another, God lives in us, and his love is perfected in us… God is love, and those who abide in love abide in God, and God abides in them” (1Jn4:12,16). The two loves are distinct yet inseparable. Even in cases where there is no explicit reference to God, the Lord himself teaches that every act of love for one’s neighbor is in some way a reflection of divine charity: “Truly I tell you, just as you did it to one of the least of these my brethren, you did it to me” (Mt25:40).

27. For this reason, works of mercy are recommended as a sign of the authenticity of worship, which, while giving praise to God, has the task of opening us to the transformation that the Spirit can bring about in us, so that we may all become an image of Christ and his mercy towards the weakest. In this sense, our relationship with the Lord, expressed in worship, also aims to free us from the risk of living our relationships according to a logic of calculation and self-interest. We are instead open to the gratuitousness that surrounds those who love one another and, therefore, share everything in common. In this regard, Jesus advises: “When you give a dinner or a banquet, do not invite your friends or your brothers or your relatives or rich neighbors, lest they also invite you in return, and you be repaid. But when you give a feast, invite the poor, the maimed, the lame, the blind, and you will be blessed, because they cannot repay you” (Lk 14:12-14).

28. The Lord’s appeal to show mercy to the poor culminates in the great parable of the last judgment (cf.Mt25:31-46), which can serve as a vivid illustration of the Beatitude of the merciful. In that parable, the Lord offers us the key to our fulfillment in life; indeed, “if we seek the holiness pleasing to God’s eyes, this text offers us one clear criterion on which we will be judged.”[16] The clear and forceful words of the Gospel must be put into practice “without any ‘ifs or buts’ that could lessen their force. Our Lord made it very clear that holiness cannot be understood or lived apart from these demands.”[17]

29. In the early Christian community, acts of charity were performed on the basis not of preliminary studies or advance planning, but directly following Jesus’ example as presented in the Gospel. The Letter of James deals at length with the problem of relations between rich and poor, and asks the faithful two questions in order to examine the authenticity of their faith: “What good is it, my brothers and sisters, if you say you have faith but do not have works? Can faith save you? If a brother or sister is naked and lacks daily food, and one of you says to them, ‘Go in peace; keep warm and eat your fill,’ and yet you do not supply their bodily needs, what is the good of that? So faith by itself, if it has no works, is dead” (2:14-17).

30. James goes on to say: “Your gold and silver have rusted, and their rust will be evidence against you, and it will eat your flesh like fire. You have laid up treasure for the last days. Listen! The wages of the laborers who mowed your fields, which you kept back by fraud, cry out, and the cries of the harvesters have reached the ears of the Lord of hosts. You have lived on the earth in luxury and in pleasure; you have fattened your hearts in a day of slaughter” (5:3-5). These are powerful words, even if we would rather not hear them! A similar appeal can be found in the First Letter of John: “How does God’s love abide in anyone who has the world’s goods and sees a brother or sister in need and yet refuses help?” (3:17).

31. The message of God’s word is “so clear and direct, so simple and eloquent, that no ecclesial interpretation has the right to relativize it. The Church’s reflection on these texts ought not to obscure or weaken their force, but urge us to accept their exhortations with courage and zeal. Why complicate something so simple? Conceptual tools exist to heighten contact with the realities they seek to explain, not to distance us from them.”[18]

32. Indeed, we find a clear ecclesial example of sharing goods and caring for the poor in the daily life of the first Christian community. We can recall in particular the way in which the question of the daily distribution of subsidies to widows was resolved (cf.Acts6:1-6). This was not an easy problem, partly because some of these widows, who came from other countries, were sometimes neglected because they were foreigners. In fact, the episode recounted in the Acts of the Apostles highlights a certain discontent on the part of the Hellenists, the Jews who were culturally Greek. The Apostles do not respond with abstract words, but by placing charity towards all at the center, reorganizing assistance to widows by asking the community to seek wise and respected people to whom they could entrust food distribution, while they take care of preaching the Word.

33. When Paul went to Jerusalem to consult the Apostles lest somehow he “should be running or had run in vain” (Gal2:2), he was asked not to forget the poor (cf.Gal2:10). Therefore, he organized various collections in order to help the poor communities. Among the reasons for which Paul makes this gesture, the following stands out: “God loves a cheerful giver” (2Cor9:7). The word of God reminds those of us not normally prone to benevolent and disinterested gestures, that generosity to the poor actually benefits those who exercise it: God has a special love for them. In fact, the Bible is full of promises addressed to those who give generously to others: “Whoever is kind to the poor lends to the Lord, and will be repaid in full” (Prov19:17). “Give, and it will be given to you... for the measure you give will be the measure you get back” (Lk6:38). “Then your light shall break forth like the dawn, and your healing shall spring up quickly” (Is58:8). Of this, the early Christians had no doubt.

34. The life of the first ecclesial communities, described in the pages of the Bible and handed down to us as God’s revealed word, has been given to us as an example to imitate, but also as a witness to the faith that works through charity and an enduring inspiration for generations yet to come. Throughout the centuries, those pages have moved the hearts of Christians to love and to perform works of charity, which, like fruitful seeds, never cease to produce a rich harvest.

CHAPTER THREE

A CHURCH FOR THE POOR

35. Three days after his election, my predecessor expressed to the representatives of the media his desire that care and attention for the poor be more clearly present in the Church: “How I would like a Church which is poor and for the poor!”[19]

36. This desire reflects the understanding that the Church “recognizes in those who are poor and who suffer, the likeness of its poor and suffering founder.”[20] Indeed, since the Church is called to identify with those who are least, at her core “[T]here can be no room for doubt or for explanations which weaken so clear a message… We have to state, without mincing words, that there is an inseparable bond between our faith and the poor.”[21] In this regard, we have numerous witnesses from disciples of Christ spanning almost two millennia.[22]

The true riches of the Church

37. Saint Paul recounts that among the faithful of the nascent Christian community not many were “wise according to the flesh, not many were powerful, not many were of noble birth” (1Cor1:26). However, despite their poverty, the early Christians were clearly aware of the necessity to care for those who were most in need. Already at the dawn of Christianity, the Apostles laid their hands on seven men chosen from the community. To a certain extent, they integrated them into their own ministry, instituting them for the service — diakonía in Greek — of the poorest (cf.Acts6:1-5). It is significant that the first disciple to bear witness to his faith in Christ to the point of shedding his blood was Stephen, who belonged to this group. In him, the witness of caring for the poor and of martyrdom are united.

38. A little less than two centuries later, another deacon, Saint Lawrence, will demonstrate his fidelity to Jesus Christ in a similar way by uniting martyrdom and service to the poor.[23] From Saint Ambrose’s account, we learn that Lawrence, a deacon in Rome during the pontificate of Pope Sixtus II, was forced by the Roman authorities to turn over the treasures of the Church. “The following day he brought the poor with him. Questioned about where the promised treasures might be, he pointed to the poor saying, ‘These are the treasures of the Church’.”[24] While narrating this event, Saint Ambrose asks: “What treasures does Jesus have that are more precious than those in which he loves to show himself?”[25] And, remembering that ministers of the Church must never neglect the care of the poor, much less accumulate goods for their own benefit, he says: “This task must be carried out with sincere faith and wise foresight. Certainly, if anyone derives personal advantage from it, he commits a crime; but if he distributes the proceeds to the poor or redeems a prisoner, he performs a work of mercy.”[26]

The Fathers of the Church and the Poor

39. From the first centuries, the Fathers of the Church recognized in the poor a privileged way to reach God, a special way to meet him. Charity shown to those in need was not only seen as a moral virtue, but a concrete expression of faith in the incarnate Word. The community of the faithful, sustained by the strength of the Holy Spirit, was rooted in being close to the poor, whom they considered not just an “appendage,” but an essential part of Christ’s living body. For example, while he was on his way to face martyrdom, Saint Ignatius of Antioch exhorted the community of Smyrna not to neglect the duty to carry out acts of charity for those most in need, admonishing them not to behave like those who oppose God. “But consider those who are of a different opinion with respect to the grace of Christ, which has come to us, how opposed they are to the will of God. They have no regard for love; no care for the widow, or the orphan, or the oppressed; of the bond, or of the free; of the hungry, or of the thirsty.”[27] The Bishop of Smyrna, Polycarp, expressly stated that ministers of the Church should take care of the poor: “And let the presbyters be compassionate and merciful to all, bringing back those that wander, visiting all the sick, and not neglecting the widow, the orphan, or the poor, but always ‘providing for that which is becoming in the sight of God and man’.”[28] From these two witnesses, we see that the Church appears as a mother of the poor, a place of welcome and justice.

40. For his part, Saint Justin, who addressed his First Apology to Emperor Adrian, the Senate and people of Rome, explained that Christians bring all that they can to those in need because they see them as brothers and sisters in Christ. Writing about the assembly gathered in prayer on the first day of the week, he underscored that at the heart of the Christian liturgy, it is not possible to separate the worship of God from concern for the poor. Consequently, at a certain point in the celebration: “they who are well-to-do, and willing, give what each thinks fit; and what is collected is deposited with the president, who succors the orphans and widows, and those who, through sickness or any other cause, are in want, and those who are in bonds, and the strangers sojourning among us, and in a word takes care of all who are in need.”[29] This demonstrates that the nascent Church did not separate belief from social action: faith without witness through concrete actions was considered dead, as Saint James taught us (cf. 2:17).

Saint John Chrysostom

41. Among the Eastern Fathers, perhaps the most ardent preacher on social justice was Saint John Chrysostom, Archbishop of Constantinople from the late 300s to the early 400s. In his homilies, he exhorted the faithful to recognize Christ in the needy: “Do you wish to honor the body of Christ? Do not allow it to be despised in its members, that is, in the poor, who have no clothes to cover themselves. Do not honor Christ’s body here in church with silk fabrics, while outside you neglect it when it suffers from cold and nakedness… [The body of Christ on the altar] does not need cloaks, but pure souls; while the one outside needs much care. Let us therefore learn to think of and honor Christ as he wishes. For the most pleasing honor we can give to the one we want to venerate is that of doing what he himself desires, not what we devise… So you too, give him the honor he has commanded, and let the poor benefit from your riches. God does not need golden vessels, but golden souls.”[30] Affirming with crystal clarity that, if the faithful do not encounter Christ in the poor who stand at the door, they will not be able to worship him even at the altar, he continues: “What advantage does Christ gain if the sacrificial table is laden with golden vessels, while he himself dies of hunger in the person of the poor? Feed the hungry first, and only afterward adorn the altar with what remains.”[31] He understood the Eucharist, therefore, as a sacramental expression of the charity and justice that both preceded and accompanied it. That same charity and justice should perpetuate the Eucharist through love and attention to the poor.

42. Consequently, charity is not optional but a requirement of true worship. Chrysostom vehemently denounced excessive wealth connected with indifference for the poor. The attention due to them, rather than a mere social requirement, is a condition for salvation, which gives unjust wealth a condemnatory weight. “It is very cold and the poor man lies in rags, dying, freezing, shivering, with an appearance and clothing that should move you. You, however, red in the face and drunk, pass by. And how do you expect God to deliver you from misfortune?... You often adorn an unfeeling corpse, which no longer understands honor, with many varied and gilded garments. Yet you despise the one who feels pain, who is torn apart, tortured, tormented by hunger and cold.”[32] This profound sense of social justice leads him to affirm that “not giving to the poor is stealing from them, defrauding them of their lives, because what we have belongs to them.”[33]

Saint Augustine

43. Augustine’s spiritual guide was Saint Ambrose, who insisted on the ethical requirement to share material goods: “What you give to the poor is not your property, but theirs. Why have you appropriated what was given for common use?”[34] For the Bishop of Milan, almsgiving is justice restored, not a gesture of paternalism. In his preaching, mercy takes on a prophetic character: he denounces structures that accumulate things and reaffirms communion as the Church’s vocation.

44. Formed in this tradition, the holy Bishop of Hippo taught for his part about the preferential love for the poor. A vigilant pastor and theologian of rare insight, he realizes that true ecclesial communion is expressed also in the communion of goods. In his Commentaries on the Psalms, he reminds us that true Christians do not neglect love for those most in need: “Observing your brothers and sisters, you know if they are in need, but if Christ dwells in you, also be charitable to strangers.”[35] This sharing of goods therefore stems from theological charity and has as its ultimate goal the love of Christ. For Augustine, the poor are not just people to be helped, but the sacramental presence of the Lord.

45. The Doctor of Grace saw caring for the poor as concrete proof of the sincerity of faith. Anyone who says they love God and has no compassion for the needy is lying (cf. 1Jn4:20). Commenting on Jesus’ encounter with the rich young man and the “treasure in heaven” reserved for those who give their possessions to the poor (cf.Mt19:21), Augustine puts the following words in the Lord’s mouth: “I received the earth, I will give heaven; I received temporal goods, I will give back eternal goods; I received bread, I will give life… I have been given hospitality, but I will give a home; I was visited when I was sick, but I will give health; I was visited in prison, but I will give freedom. The bread you have given to my poor has been consumed, but the bread I will give will not only refresh you, but will never end.”[36] The Almighty will not be outdone in generosity to those who serve the people most in need: the greater the love for the poor, the greater the reward from God.

46. This Christocentric and deeply ecclesial perspective leads us to affirm that offerings, when born of love, not only alleviate the needs of one’s brother or sister, but also purify the heart of the giver, if he or she is willing to change. Indeed, in the words of Pseudo-Augustine: “almsgiving can be beneficial to you in erasing past sins, if you have amended your ways.”[37] It is, so to speak, the ordinary path to conversion for those who wish to follow Christ with an undivided heart.

47. In a Church that recognizes in the poor the face of Christ and in material goods the instrument of charity, Augustine’s thought remains a sure light. Today, fidelity to Augustine’s teachings requires not only the study of his works, but also a readiness to live radically his call to conversion, which necessarily includes the service of charity.

48. Many other Fathers of the Church, both Eastern and Western, have spoken about the primacy of attention to the poor in the life and mission of every Christian. From this perspective, in summary, it can be said that patristic theology was practical, aiming at a Church that was poor and for the poor, recalling that the Gospel is proclaimed correctly only when it impels us to touch the flesh of the least among us, and warning that doctrinal rigor without mercy is empty talk.

Care of the sick

49. Christian compassion has manifested itself in a particular way in the care of the sick and suffering. Based on the signs present in Jesus’ public ministry — the healing of the blind, lepers and paralytics — the Church understands that caring for the sick, in whom she readily recognizes the crucified Lord, is an important part of her mission. During a plague in the city of Carthage, where he was Bishop, Saint Cyprian reminded Christians of the importance of caring for the sick: “This pestilence and plague, which seems so horrible and deadly, searches out the righteousness of each one, and examines the minds of the human race, to see whether the healthy serve the sick; whether relatives love each other with sincerity; whether masters have pity on their sick servants; whether doctors do not abandon the sick who beg for help.”[38] The Christian tradition of visiting the sick, washing their wounds, and comforting the afflicted is not simply a philanthropic endeavor, but an ecclesial action through which the members of the Church “touch the suffering flesh of Christ.”[39]

50. In the sixteenth century, Saint John of God founded the Hospitaller Order that bears his name, creating model hospitals that welcomed everyone, regardless of social or economic status. His famous expression, “Do good, my brothers!” became a motto for active charity towards the sick. At the same time, Saint Camillus de Lellis founded the Order of Ministers of the Sick — the Camillians — taking on the mission of serving the sick with total dedication. His rule commands: “Each person should ask the Lord for a motherly affection for their neighbor so that we may serve them with all charity, both in soul and body, because we desire, with the grace of God, to serve all the sick with the affection that a loving mother has for her only sick child.”[40] In hospitals, on battlefields, in prisons, and on the streets, the Camillians have embodied the mercy of Christ the Physician.

51. Caring for the sick with maternal affection, as a mother cares for her child, many consecrated women have played an even greater role in providing healthcare to the poor. The Daughters of Charity of Saint Vincent de Paul, the Hospital Sisters, the Little Sisters of Divine Providence, and many other women’s congregations have become a maternal and discreet presence in hospitals, nursing homes and retirement homes. They have brought comfort, a listening ear, a presence, and above all, tenderness. They have built, often with their own hands, healthcare facilities in areas lacking medical assistance. They taught hygiene, assisted in childbirth and administered medicine with natural wisdom and deep faith. Their homes became oases of dignity where no one was excluded. The touch of compassion was the first medicine. Saint Louise de Marillac wrote to her sisters, the Daughters of Charity, reminding them that “they have been singularly blessed by God for the service of the sick poor of the hospitals.”[41]

52. Today, this legacy continues in Catholic hospitals, healthcare facilities in remote areas, clinics operating in jungles, shelters for drug addicts and in field hospitals in war zones. The Christian presence among the sick reveals that salvation is not an abstract idea, but concrete action. In the act of healing a wound, the Church proclaims that the Kingdom of God begins among the most vulnerable. In doing so, she remains faithful to the One who said, “I was sick and you visited me” (Mt25:36). When the Church kneels beside a leper, a malnourished child or an anonymous dying person, she fulfills her deepest vocation: to love the Lord where he is most disfigured.

Care of the poor in monastic life

53. Monastic life, which originated in the silence of the desert, was from the outset a witness to solidarity. Monks and nuns left everything — wealth, prestige, family — not only because they despised worldly goods — contemptus mundi — but also to encounter the poor Christ in this radical detachment. Saint Basil the Great, in his Rule, saw no contradiction between the monks’ life of prayer and contemplation and their work on behalf of the poor. For him, hospitality and care for the needy were an integral part of monastic spirituality, and monks, even after having left everything to embrace poverty, had to help the poorest with their work, because “in order to have enough to help the needy… it is clear that we must work diligently... This way of life is profitable not only for subduing the body, but also for charity towards our neighbor, so that through us God may provide enough for our weaker brothers and sisters.”[42]

54. In Caesarea, where he was Bishop, he built a place known as Basiliad, which included lodgings, hospitals and schools for the poor and sick. The monk, therefore, was not only an ascetic, but also a servant. Basil thus demonstrated that to be close to God, one must be close to the poor. Concrete love was the criterion of holiness. Praying and caring, contemplating and healing, writing and welcoming: everything was an expression of the same love for Christ.

55. In the West, Saint Benedict of Norcia formulated a Rule that would become the backbone of European monastic spirituality. Welcoming the poor and pilgrims occupies a prominent place in the document: “The poor and pilgrims are to be received with all care and hospitality, for it is in them that Christ is received.”[43] These were not just words: for centuries Benedictine monasteries were places of refuge for widows, abandoned children, pilgrims and beggars. For Benedict, community life was a school of charity. Manual labor not only had a practical function, but also formed the heart for service. Sharing among the monks, caring for the sick and listening to the most vulnerable prepared them to welcome Christ who comes in the person of the poor and the stranger. Today, Benedictine monastic hospitality remains a sign of a Church that opens its doors, welcomes without asking and heals without demanding anything in return.

56. Over time, Benedictine monasteries became places for overcoming the culture of exclusion. Monks and nuns cultivated the land, produced food, prepared medicines and offered them, with simplicity, to those most in need. Their silent work was the leaven of a new civilization, where the poor were not a problem to be solved, but brothers and sisters to be welcomed. The rule of sharing, working together and helping the vulnerable established an economy of solidarity, in contrast to the logic of accumulation. The monks’ witness showed that voluntary poverty, far from being misery, is a path of freedom and communion. They did not limit themselves to helping the poor: they became their neighbors, brothers and sisters in the same Lord. In the cells and cloisters, they created a mysticism of God’s presence in the little ones.

57. In addition to providing material assistance, monasteries played a fundamental role in the cultural and spiritual formation of the humblest. In times of plague, war and famine, they were places where the needy found bread and medicine, but also dignity and a voice. It was there that orphans were educated, apprentices received training and ordinary people were taught agricultural techniques and how to read. Knowledge was shared as a gift and a responsibility. The abbot was both teacher and father, and the monastic school was a place of freedom through truth. Indeed, as John Cassian writes, the monk must be characterized by “humility of heart… which leads not to knowledge that puffs up, but to knowledge that enlightens through the fullness of charity.”[44] By forming consciences and transmitting wisdom, monks contributed to a Christian pedagogy of inclusion. Culture, marked by faith, was shared with simplicity. Knowledge, illuminated by charity, became service. Monastic life thus revealed itself as a style of holiness and a concrete way to transform society.

58. The monastic tradition teaches us that prayer and charity, silence and service, cells and hospitals form a single spiritual fabric. The monastery is a place of listening and action, of worship and sharing. Saint Bernard of Clairvaux, the great Cistercian reformer, “firmly recalled the need for a sober and measured life, in the refectory as in monastic clothing and buildings, recommending the support and care of the poor.”[45] For him, compassion was not an option, but the true path of following Christ. Monastic life, therefore, if faithful to its original vocation, shows that the Church is fully the bride of the Lord only when she is also the sister of the poor. The cloister is not only a refuge from the world, but a school where one learns to serve it better. Where monks and nuns have opened their doors to the poor, the Church has revealed with humility and firmness that contemplation does not exclude mercy, but demands it as its purest fruit.

Freeing prisoners

59. Since apostolic times, the Church has seen the liberation of the oppressed as a sign of the Kingdom of God. Jesus himself proclaimed at the beginning of his public ministry: “The Spirit of the Lord is upon me, because he has anointed me to bring good news to the poor. He has sent me to proclaim release to the captives” (Lk4:18). The early Christians, even in precarious conditions, prayed for and assisted their brothers and sisters who were prisoners, as the Acts of the Apostles (cf. 12:5; 24:23) and various writings of the Fathers attest. This mission of liberation has continued throughout the centuries through concrete actions, especially when the tragedy of slavery and imprisonment has marked entire societies.

60. Between the late twelfth and the early thirteenth centuries, when many Christians were captured in the Mediterranean or enslaved in wars, two religious orders arose: the Order of the Most Holy Trinity and of the Captives (Trinitarians), founded by Saint John of Matha and Saint Felix of Valois, and the Order of the Blessed Virgin Mary of Mercy (Mercedarians), founded by Saint Peter Nolasco with the support of the Dominican Saint Raymond of Peñafort. These communities of consecrated persons were born with the specific charism of freeing Christians who had been enslaved, placing their own possessions at the disposal of the enslaved[46] and many times offering their own lives in exchange. The Trinitarians, with their motto Gloria tibi Trinitas et captivis libertas (Glory to you, O Trinity, and liberty to the captives), and the Mercedarians, who added a fourth vow[47] to the religious vows of poverty, chastity and obedience, testified that charity can be heroic. The liberation of prisoners is an expression of Trinitarian love: a God who frees not only from spiritual slavery but also from concrete oppression. The act of rescuing someone from slavery and captivity is seen as an extension of Christ’s redemptive sacrifice, whose blood is the price of our redemption (cf. 1Cor6:20).

61. The original spirituality of these orders was deeply rooted in contemplation of the cross. Christ is the Redeemer of prisoners par excellence, and the Church, his Body, prolongs this mystery in time.[48] Religious did not see redemption as a political or economic action, but as a quasi-liturgical act, the sacramental offering of themselves. Many gave their own bodies to replace prisoners, literally fulfilling the commandment: “No one has greater love than this, to lay down one’s life for one’s friends” (Jn15:13). The tradition of these orders did not come to an end. On the contrary, it inspired new forms of action in the face of modern forms of slavery: human trafficking, forced labor, sexual exploitation and various forms of dependency.[49] Christian charity is liberating when it becomes incarnate. Likewise, the mission of the Church, when she is faithful to her Lord, is at all times to proclaim liberation. Even today, when “millions of people — children, women and men of all ages — are deprived of their freedom and forced to live in conditions akin to slavery,”[50] this legacy is carried on by these orders and other institutions and congregations working in urban peripheries, conflict zones and migration routes. When the Church bends down to break the new chains that bind the poor, she becomes a paschal sign.

62. We cannot conclude this reflection on people deprived of their freedom without mentioning those in various prisons and detention centers. In this regard, we recall the words that Pope Francis addressed to a group of prisoners: “For me, entering a prison is always an important moment, because prison is a place of great humanity... Humanity that is tried, sometimes worn down by difficulties, guilt, judgments, misunderstandings, suffering, but at the same time full of strength, desire for forgiveness, and a desire for redemption.”[51] This desire, among other things, has also been taken up by the orders devoted to the ransom of prisoners as a preferential service to the Church. As Saint Paul proclaimed: “For freedom Christ has set us free” (Gal5:1). This freedom is not only interior: it manifests itself in history as love that cares for and frees us from every bond of slavery.

Witnesses of evangelical poverty

63. In the thirteenth century, faced with the growth of cities, the concentration of wealth and the emergence of new forms of poverty, the Holy Spirit gave rise to a new type of consecration in the Church: the mendicant orders. Unlike the stable monastic model, mendicants adopted an itinerant life, without personal or communal property, entrusting themselves entirely to providence. They did not merely serve the poor: they made themselves poor with them. They saw the city as a new desert and the marginalized as new spiritual teachers. These orders, such as the Franciscans, Dominicans, Augustinians and Carmelites, represented an evangelical revolution, in which a simple and poor lifestyle became a prophetic sign for mission, reviving the experience of the first Christian community (cf.Acts4:32). The witness of the mendicants challenged both clerical opulence and the coldness of urban society.

64. Saint Francis of Assisi became the icon of this spiritual springtime. By embracing poverty, he wanted to imitate Christ, who was poor, naked and crucified. In his Rule, he asks that “the brothers should not appropriate anything, neither house, nor place, nor anything else. And as pilgrims and strangers in this world, serving the Lord in poverty and humility, they should go about begging with confidence, and should not be ashamed, because the Lord made himself poor for us in this world.”[52] His life was one of continuous self-emptying: from the palace to the leper, from eloquence to silence, from possession to total gift. Francis did not found a social service organization, but an evangelical fraternity. In the poor, he saw brothers and sisters, living images of the Lord. His mission was to be with them, and he did so through a solidarity that overcame distances and a compassionate love. Francis’ poverty was relational: it led him to become neighbor, equal to, or indeed lesser than others. His holiness sprang from the conviction that Christ can only be truly received by giving oneself generously to one’s brothers and sisters.

65. Saint Clare of Assisi, who was inspired by Francis, founded the Order of Poor Ladies, later called the Poor Clares. Her spiritual struggle consisted in faithfully maintaining the ideal of radical poverty. She refused the papal privileges that could have guaranteed material security for her monastery and, with firmness, obtained from Pope Gregory IX the so-called Privilegium Paupertatis, which guaranteed the right to live without any material goods.[53] This choice expressed her total trust in God and her awareness that voluntary poverty was a form of freedom and prophecy. Clare taught her sisters that Christ was their only inheritance and that nothing should obscure their communion with him. Her prayerful and hidden life was a cry against worldliness and a silent defense of the poor and forgotten.

66. Saint Dominic de Guzmán, a contemporary of Francis, founded the Order of Preachers, with a different charism but the same radicalism of life. He wanted to proclaim the Gospel with the authority that comes from a life of poverty, convinced that the Truth needs witnesses of integrity. The example of poverty in their lives accompanied the Word they preached. Free from the weight of earthly goods, the Dominican Friars were better able to dedicate themselves to their principal work of preaching. They went to the cities, especially the universities, in order to teach the truth about God.[54] In their dependence on others, they showed that faith is not imposed but offered. And by living among the poor, they learned the truth of the Gospel “from below,” as disciples of the humiliated Christ.

67. The mendicant orders were therefore a living response to exclusion and indifference. They did not expressly propose social reforms, but an individual and communal conversion to the logic of the Kingdom. For them, poverty was not a consequence of a scarcity of goods, but a free choice: to make themselves small in order to welcome the small. As Thomas of Celano said of Francis: “He showed that he loved the poor intensely… He often stripped himself naked to clothe the poor, whom he sought to resemble.”[55] Beggars became the symbol of a pilgrim, humble and fraternal Church, living among the poor not to proselytize but as an expression of their true identity. They teach us that the Church is a light when she strips herself of everything, and that holiness passes through a humble heart devoted to the least among us.

The Church and the education of the poor

68. Addressing educators, Pope Francis recalled that education has always been one of the highest expressions of Christian charity: “Yours is a mission full of obstacles as well as joys... A mission of love, because you cannot teach without loving.”[56] In this sense, since ancient times, Christians have understood that knowledge liberates, gives dignity, and brings us closer to the truth. For the Church, teaching the poor was an act of justice and faith. Inspired by the example of the Master who taught people divine and human truths, she took on the mission of forming children and young people, especially the poorest, in truth and love. This mission took shape with the founding of congregations dedicated to education.

69. In the sixteenth century, Saint Joseph Calasanz, struck by the lack of education and training among the poor young people of Rome, established Europe’s first free public school in some rooms adjacent to the church of Santa Dorotea in Trastevere. This was the seed from which the Poor Clerics Regular of the Mother of God of the Pious Schools, known as the Piarists, would later emerge and develop, though not without difficulty. Their goal was that of transmitting to young people “not only secular knowledge but also the wisdom of the Gospel, teaching them to recognize, in their personal lives and in history, the loving action of God the Creator and Redeemer.”[57] In fact, we can consider this courageous priest as the “true founder of the modern Catholic school, aimed at the integral formation of people and open to all.”[58] Inspired by the same sensitivity, Saint John Baptist de La Salle, realizing the injustice caused by the exclusion of the children of workers and ordinary people from the educational system of France at that time, founded the Brothers of the Christian Schools in the seventeenth century, with the ideal of offering them free education, solid formation, and a fraternal environment. De La Salle saw the classroom as a place for human development, but also for conversion. In his colleges, prayer, method, discipline and sharing were combined. Each child was considered a unique gift from God, and the act of teaching was a service to the Kingdom of God.

70. In the nineteenth century, also in France, Saint Marcellin Champagnat founded the Institute of the Marist Brothers of the Schools. “He was sensitive to the spiritual and educational needs of his time, especially to religious ignorance and the situation of neglect experienced in a particular way by the young.”[59] He dedicated himself wholeheartedly to the mission of educating and evangelizing children and young people, especially those most in need, during a period when access to education continued to be the privilege of a few. In the same spirit, Saint John Bosco began the great work of the Salesians in Italy based on the three principles of the “preventive method” — reason, religion, and loving kindness.[60] Blessed Antonio Rosmini founded the Institute of Charity, in which “intellectual charity” was placed alongside “material charity,” with “spiritual-pastoral charity” at the top, as an indispensable dimension of any charitable action aimed at the good and integral development of the person.[61]

71. Many female congregations were protagonists of this pedagogical revolution. Founded in the eighteenth and nineteenth centuries, the Ursulines, the Sisters of the Company of Mary Our Lady, the Maestre Pie and many others, stepped into the spaces where the state was absent. They created schools in small villages, suburbs and working-class neighborhoods. In particular, the education of girls became a priority. The religious sisters taught literacy, evangelized, took care of practical matters of daily life, elevated their spirits through the cultivation of the arts, and, above all, formed consciences. Their pedagogy was simple: closeness, patience and gentleness. They taught by the example of their lives before teaching with words. In times of widespread illiteracy and systemic exclusion, these consecrated women were beacons of hope. Their mission was to form hearts, teach people to think and promote dignity. By combining a life of piety and dedication to others, they fought abandonment with the tenderness of those who educate in the name of Christ.

72. For the Christian faith, the education of the poor is not a favor but a duty. Children have a right to knowledge as a fundamental requirement for the recognition of human dignity. Teaching them affirms their value, giving them the tools to transform their reality. Christian tradition considers knowledge a gift from God and a community responsibility. Christian education does not only form professionals, but also people open to goodness, beauty and truth. Catholic schools, therefore, when they are faithful to their name, are places of inclusion, integral formation and human development. By combining faith and culture, they sow the seeds of the future, honor the image of God and build a better society.

Accompanying migrants

73. The experience of migration accompanies the history of the People of God. Abraham sets out without knowing where he is going; Moses leads the pilgrim people through the desert; Mary and Joseph flee with the child Jesus to Egypt. Christ himself, who “came to what was his own, and his own people did not accept him” (Jn1:11), lived among us as a stranger. For this reason, the Church has always recognized in migrants a living presence of the Lord who, on the day of judgment, will say to those on his right: “I was a stranger and you welcomed me” (Mt25:35).

74. In the nineteenth century, when millions of Europeans emigrated in search of better living conditions, two great saints distinguished themselves in the pastoral care of migrants: Saint John Baptist Scalabrini and Saint Frances Xavier Cabrini. Scalabrini, Bishop of Piacenza, founded the Missionaries of Saint Charles to accompany migrants to their destinations, offering them spiritual, legal and material assistance. He saw migrants as recipients of a new evangelization, warning of the risks of exploitation and loss of faith in a foreign land. Responding generously to the charism that the Lord had given him, “Scalabrini looked forward to a world and a Church without barriers, where no one was a foreigner.”[62] Saint Frances Cabrini, born in Italy and a naturalized American, was the first citizen of the United States of America to be canonized. To fulfill her mission of assisting migrants, she crossed the Atlantic several times. “Armed with remarkable boldness, she started schools, hospitals and orphanages from nothing for the masses of the poor who ventured into the new world in search of work. Not knowing the language and lacking the wherewithal to find a respectable place in American society, they were often victims of the unscrupulous. Her motherly heart, which allowed her no rest, reached out to them everywhere: in hovels, prisons and mines.”[63] In the Holy Year of 1950, Pope Pius XII proclaimed her Patroness of All Migrants.[64]

75. The Church’s tradition of working for and with migrants continues, and today this service is expressed in initiatives such as refugee reception centers, border missions and the efforts of Caritas Internationalis and other institutions. Contemporary teaching clearly reaffirms this commitment. Pope Francis has recalled that the Church’s mission to migrants and refugees is even broader, insisting that “our response to the challenges posed by contemporary migration can be summed up in four verbs: welcome, protect, promote and integrate. Yet these verbs do not apply only to migrants and refugees. They describe the Church’s mission to all those living in the existential peripheries, who need to be welcomed, protected, promoted and integrated.”[65] He also said: “Every human being is a child of God! He or she bears the image of Christ! We ourselves need to see, and then to enable others to see, that migrants and refugees do not only represent a problem to be solved, but are brothers and sisters to be welcomed, respected and loved. They are an occasion that Providence gives us to help build a more just society, a more perfect democracy, a more united country, a more fraternal world and a more open and evangelical Christian community.”[66] The Church, like a mother, accompanies those who are walking. Where the world sees threats, she sees children; where walls are built, she builds bridges. She knows that her proclamation of the Gospel is credible only when it is translated into gestures of closeness and welcome. And she knows that in every rejected migrant, it is Christ himself who knocks at the door of the community.

At the side of the least among us

76. Christian holiness often flourishes in the most forgotten and wounded places of humanity. The poorest of the poor — those who lack not only material goods but also a voice and the recognition of their dignity — have a special place in God’s heart. They are the beloved of the Gospel, the heirs to the Kingdom (cf. Lk 6:20). It is in them that Christ continues to suffer and rise again. It is in them that the Church rediscovers her call to show her most authentic self.

77. Saint Teresa of Calcutta, canonized in 2016, has become a universal icon of charity lived to the fullest extent in favor of the most destitute, those discarded by society. Foundress of the Missionaries of Charity, she dedicated her life to the dying abandoned on the streets of India. She gathered the rejected, washed their wounds and accompanied them to the moment of death with the tenderness of prayer. Her love for the poorest of the poor meant that she did not only take care of their material needs, but also proclaimed the good news of the Gospel to them: “We are wanting to proclaim the good news to the poor that God loves them, that we love them, that they are somebody to us, that they too have been created by the same loving hand of God, to love and to be loved. Our poor people are great people, are very lovable people, they do not need our pity and sympathy, they need our understanding love. They need our respect; they need that we treat them with dignity.”[67] All this came from a deep spirituality that saw service to the poorest as the fruit of prayer and love, the source of true peace, as Pope John Paul II reminded the pilgrims who came to Rome for her beatification: “Where did Mother Teresa find the strength to place herself completely at the service of others? She found it in prayer and in the silent contemplation of Jesus Christ, his Holy Face, his Sacred Heart. She herself said as much: ‘The fruit of silence is prayer; the fruit of prayer is faith; the fruit of faith is love; the fruit of love is service.’ It was prayer that filled her heart with Christ’s own peace and enabled her to radiate that peace to others.”[68] Teresa did not consider herself a philanthropist or an activist, but a bride of Christ crucified, serving with total love her suffering brothers and sisters.

78. In Brazil, Saint Dulce of the Poor — known as “the good angel of Bahia” — embodied the same evangelical spirit with Brazilian characteristics. Referring to her and two other religious women canonized during the same celebration, Pope Francis recalled their love for the most marginalized members of society and said that the new saints “show us that the consecrated life is a journey of love at the existential peripheries of the world.”[69] Sister Dulce responded to precariousness with creativity, obstacles with tenderness and need with unshakeable faith. She began by taking in the sick in a chicken coop and from there founded one of the largest social services in the country. She assisted thousands of people a day, without ever losing her gentleness, making herself poor with the poor for the love of the Poorest One. She lived with little, prayed fervently and served with joy. Her faith did not distance her from the world, but drew her even more deeply into the pain of the least among us.

79. We could also mention individuals such as Saint Benedict Menni and the Sisters Hospitallers of the Sacred Heart of Jesus, who worked alongside people with disabilities; Saint Charles de Foucauld among the communities of the Sahara; Saint Katharine Drexel for the most underprivileged groups in North America; Sister Emmanuelle, with the garbage collectors in the Ezbet El Nakhl neighborhood of Cairo; and many others. Each in their own way discovered that the poorest are not only objects of our compassion, but teachers of the Gospel. It is not a question of “bringing” God to them, but of encountering him among them. All of these examples teach us that serving the poor is not a gesture to be made “from above,” but an encounter between equals, where Christ is revealed and adored. Saint John Paul II reminded us that “there is a special presence of Christ in the poor, and this requires the Church to make a preferential option for them.”[70] Therefore, when the Church bends down to care for the poor, she assumes her highest posture.

Popular Movements

80. We must also recognize that, throughout centuries of Christian history, helping the poor and advocating for their rights has not only involved individuals, families, institutions, or religious communities. There have been, and still are, various popular movements made up of lay people and led by popular leaders, who have often been viewed with suspicion and even persecuted. I am referring to “all those persons who journey, not as individuals, but as a closely-bound community of all and for all, one that refuses to leave the poor and vulnerable behind... ‘Popular’ leaders, then, are those able to involve everyone... They do not shun or fear those young people who have experienced hurt or borne the weight of the cross.”[71]

81. These popular leaders know that solidarity “also means fighting against the structural causes of poverty and inequality; of the lack of work, land and housing; and of the denial of social and labor rights. It means confronting the destructive effects of the empire of money… Solidarity, understood in its deepest sense, is a way of making history, and this is what the popular movements are doing.”[72] For this reason, when different institutions think about the needs of the poor, it is necessary to “include popular movements and invigorate local, national and international governing structures with that torrent of moral energy that springs from including the excluded in the building of a common destiny.”[73] Popular movements, in fact, invite us to overcome “the idea of social policies being a policy for the poor, but never with the poor and never of the poor, much less part of a project which can bring people back together.”[74] If politicians and professionals do not listen to them, “democracy atrophies, turns into a slogan, a formality; it loses its representative character and becomes disembodied, since it leaves out the people in their daily struggle for dignity, in the building of their future.”[75] The same must be said of the institutions of the Church.

CHAPTER FOUR

A HISTORY THAT CONTINUES

The century of the Church’s Social Doctrine

82. The acceleration of technological and social change in the past two centuries, with all its contradictions and conflicts, not only had an impact on the lives of the poor but also became the object of debate and reflection on their part. The various movements of workers, women and young people, and the fight against racial discrimination, gave rise to a new appreciation of the dignity of those on the margins of society. The Church’s social doctrine also emerged from this matrix. Its analysis of Christian revelation in the context of modern social, labor, economic and cultural issues would not have been possible without the contribution of the laity, men and women alike, who grappled with the great issues of their time. At their side were those men and women religious who embodied a Church forging ahead in new directions. The epochal change we are now undergoing makes even more necessary a constant interaction between the faithful and the Church’s Magisterium, between ordinary citizens and experts, between individuals and institutions. Here too, it needs to be acknowledged once more that reality is best viewed from the sidelines, and that the poor are possessed of unique insights indispensable to the Church and to humanity as a whole.

83. The Church’s Magisterium in the past 150 years is a veritable treasury of significant teachings concerning the poor. The Bishops of Rome have given voice to new insights refined through a process of ecclesial discernment. By way of example, in his Encyclical Letter Rerum Novarum, Leo XIII addressed the labor question, pointing to the intolerable living conditions of many industrial workers and arguing for the establishment of a just social order. Other popes also spoke on this theme. Saint John XXIII, in his Encyclical Mater et Magistra (1961), called for justice on a global scale: rich countries could no longer remain indifferent to countries suffering from hunger and extreme poverty; instead, they were called upon to assist them generously with all their goods.

84. The Second Vatican Council represented a milestone in the Church’s understanding of the poor in God’s saving plan. Although this theme remained marginal in the preparatory documents, Saint John XXIII, in his Radio Message of 11 September 1962, a month before the opening of the Council, called attention to the issue. In his memorable words, “the Church presents herself as she is and as she wishes to be: the Church of all and in particular the Church of the poor.”[76] The intense efforts of bishops, theologians and experts concerned with the renewal of the Church — with the support of Saint John XXIII himself — gave the Council a new direction. The centrality of Christ in these considerations both on a doctrinal and social level would prove fundamental. Many Council Fathers supported this approach, as eloquently expressed by Cardinal Lercaro in his intervention of 6 December 1962: “The mystery of Christ in the Church has always been and today is, in a particular way, the mystery of Christ in the poor.”[77] He went on to say that, “this is not simply one theme among others, but in some sense the only theme of the Council as a whole.”[78] The Archbishop of Bologna, in preparing the text for this intervention, noted the following: “This is the hour of the poor, of the millions of the poor throughout the world. This is the hour of the mystery of the Church as mother of the poor. This is the hour of the mystery of Christ, present especially in the poor.”[79] There was a growing sense of the need for a new image of Church, one simpler and more sober, embracing the entire people of God and its presence in history. A Church more closely resembling her Lord than worldly powers and working to foster a concrete commitment on the part of all humanity to solving the immense problem of poverty in the world.

85. At the opening of the second session of the Council, Saint Paul VI took up this concern voiced by his predecessor, namely that the Church looks with particular attention “to the poor, the needy, the afflicted, the hungry, the suffering, the imprisoned, that is, she looks to all humanity that suffers and weeps: she is part of them by evangelical right.”[80] In his General Audience of 11 November 1964, he pointed out that “the poor are representatives of Christ,” and compared the image of the Lord in the poor to that seen in the Pope. He affirmed this truth with these words: “The representation of Christ in the poor is universal; every poor person reflects Christ; that of the Pope is personal... The poor man and Peter can be one in the same person, clothed in a double representation; that of poverty and that of authority.”[81] In this way, the intrinsic link between the Church and the poor was expressed symbolically and with unprecedented clarity.

86. The Pastoral ConstitutionGaudium et Spes, building on the teachings of the Church Fathers, forcefully reaffirms the universal destination of earthly goods and the social function of property that derives from it. The Constitution states that “God destined the earth and all it contains for all people and nations so that all created things would be shared fairly by all humankind under the guidance of justice tempered by charity… In their use of things people should regard the external goods they lawfully possess as not just their own but common to others as well, in the sense that they can benefit others as well as themselves. Therefore, everyone has the right to possess a sufficient amount of the earth’s goods for themselves and their family… Persons in extreme necessity are entitled to take what they need from the riches of others… By its nature, private property has a social dimension that is based on the law of the common destination of earthly goods. Whenever the social aspect is forgotten, ownership can often become the object of greed and a source of serious disorder.”[82] This conviction was reiterated by Saint Paul VI in his Encyclical Populorum Progressio. There we read that no one can feel authorized to “appropriate surplus goods solely for his [or her] own private use when others lack the bare necessities of life.”[83] In his address to the United Nations, Pope Paul VI spoke as the advocate of poor peoples[84] and urged the international community to build a world of solidarity.

87. With Saint John Paul II, the Church’s preferential relationship with the poor was consolidated, particularly from a doctrinal standpoint. His teaching saw in the option for the poor a “special form of primacy in the exercise of Christian charity, to which the whole tradition of the Church bears witness.”[85] In his Encyclical Sollicitudo Rei Socialis, he went on to say: “Today, furthermore, given the worldwide dimension which the social question has assumed, this love of preference for the poor, and the decisions which it inspires in us, cannot but embrace the immense multitudes of the hungry, the needy, the homeless, those without medical care and, above all, those without hope of a better future. It is impossible not to take account of the existence of these realities. To ignore them would mean becoming like the ‘rich man’ who pretended not to know the beggar Lazarus lying at his gate (cf.Lk16:19-31).”[86] Saint John Paul II’s teaching on work is likewise important for our consideration of the active role that the poor ought to play in the renewal of the Church and society, thus leaving behind a certain “paternalism” that limited itself to satisfying only the immediate needs of the poor. In his Encyclical Laborem Exercens, he forthrightly stated that “human work is a key, probably the essential key, to the whole social question.”[87]

88. Amid the multiple crises that marked the beginning of the third millennium, the teaching of Benedict XVI took a more distinctly political turn. Hence, in the EncyclicalCaritas in Veritate, he affirms that “the more we strive to secure a common good corresponding to the real needs of our neighbors, the more effectively we love them.”[88] He observed, moreover, that “hunger is not so much dependent on lack of material things as on shortage of social resources, the most important of which are institutional. What is missing, in other words, is a network of economic institutions capable of guaranteeing regular access to sufficient food and water for nutritional needs, and also capable of addressing the primary needs and necessities ensuing from genuine food crises, whether due to natural causes or political irresponsibility, nationally and internationally.”[89]

89. Pope Francis recognized that in recent decades, alongside the teachings of the Bishops of Rome, national and regional Bishops’ Conferences have increasingly spoken out. He could personally attest, for example, to the particular commitment of the Latin American episcopate to rethinking the Church’s relationship with the poor. In the immediate post-conciliar period, in almost all Latin American countries, there was a strong sense of the Church’s need to identify with the poor and to participate actively in securing their freedom. The Church was moved by the masses of the poor suffering from unemployment, underemployment, unjust wages and sub-standard living conditions. The martyrdom of Saint Oscar Romero, the Archbishop of San Salvador, was a powerful witness and an inspiration for the Church. He had made his own the plight of the vast majority of his flock and made them the center of his pastoral vision. The Conferences of the Latin American Bishops held in Medellín, Puebla, Santo Domingo and Aparecida were also significant events for the life of the Church as a whole. For my part, having served as a missionary in Peru for many years, I am greatly indebted to this process of ecclesial discernment, which Pope Francis wisely linked to that of other particular Churches, especially those in the global South. I would now like to take up two specific themes of this episcopal teaching.

Structures of sin that create poverty and extreme inequality

90. At Medellín, the bishops declared themselves in favor of a preferential option for the poor: “Christ our Savior not only loved the poor, but, ‘being rich, he became poor.’ He lived a life of poverty, focused his mission on preaching their liberation, and founded his Church as a sign of this poverty in our midst… The poverty endured by so many of our brothers and sisters cries out for justice, solidarity, witness, commitment and efforts directed to ending it, so that the saving mission entrusted by Christ may be fully accomplished.”[90] The bishops stated forcefully that the Church, to be fully faithful to her vocation, must not only share the condition of the poor, but also stand at their side and work actively for their integral development. Faced with a situation of worsening poverty in Latin America, the Puebla Conference confirmed the Medellín decision in favor of a frank and prophetic option for the poor and described structures of injustice as a “social sin.”

91. Charity has the power to change reality; it is a genuine force for change in history. It is the source that must inspire and guide every effort to “resolve the structural causes of poverty,”[91] and to do so with urgency. It is my hope that we will see more and more “politicians capable of sincere and effective dialogue aimed at healing the deepest roots — and not simply the appearances — of the evils in our world.”[92] For “it is a matter of hearing the cry of entire peoples, the poorest peoples of the earth.”[93]

92. We must continue, then, to denounce the “dictatorship of an economy that kills,” and to recognize that “while the earnings of a minority are growing exponentially, so too is the gap separating the majority from the prosperity enjoyed by those happy few. This imbalance is the result of ideologies that defend the absolute autonomy of the marketplace and financial speculation. Consequently, they reject the right of states, charged with vigilance for the common good, to exercise any form of control. A new tyranny is being born, invisible and often virtual, which unilaterally and relentlessly imposes its own laws and rules.”[94] There is no shortage of theories attempting to justify the present state of affairs or to explain that economic thinking requires us to wait for invisible market forces to resolve everything. Nevertheless, the dignity of every human person must be respected today, not tomorrow, and the extreme poverty of all those to whom this dignity is denied should constantly weigh upon our consciences.

93. In his EncyclicalDilexit Nos, Pope Francis reminded us that social sin consolidates a “structure of sin” within society, and is frequently “part of a dominant mindset that considers normal or reasonable what is merely selfishness and indifference. This then gives rise to social alienation.”[95] It then becomes normal to ignore the poor and live as if they do not exist. It then likewise seems reasonable to organize the economy in such a way that sacrifices are demanded of the masses in order to serve the needs of the powerful. Meanwhile, the poor are promised only a few “drops” that trickle down, until the next global crisis brings things back to where they were. A genuine form of alienation is present when we limit ourselves to theoretical excuses instead of seeking to resolve the concrete problems of those who suffer. Saint John Paul II had already observed that, “a society is alienated if its forms of social organization, production and consumption make it more difficult to offer the gift of self and to establish solidarity between people.”[96]

94. We need to be increasingly committed to resolving the structural causes of poverty. This is a pressing need that “cannot be delayed, not only for the pragmatic reason of its urgency for the good order of society, but because society needs to be cured of a sickness which is weakening and frustrating it, and which can only lead to new crises. Welfare projects, which meet certain urgent needs, should be considered merely provisional responses.”[97] I can only state once more that inequality “is the root of social ills.”[98] Indeed, “it frequently becomes clear that, in practice, human rights are not equal for all.”[99]

95. As it is, “the current model, with its emphasis on success and self-reliance, does not appear to favor an investment in efforts to help the slow, the weak or the less talented to find opportunities in life.”[100] The same questions keep coming back to us. Does this mean that the less gifted are not human beings? Or that the weak do not have the same dignity as ourselves? Are those born with fewer opportunities of lesser value as human beings? Should they limit themselves merely to surviving? The worth of our societies, and our own future, depends on the answers we give to these questions. Either we regain our moral and spiritual dignity or we fall into a cesspool. Unless we stop and take this matter seriously, we will continue, openly or surreptitiously, “to legitimize the present model of distribution, where a minority believes that it has the right to consume in a way which can never be universalized, since the planet could not even contain the waste products of such consumption.”[101]

96. One structural issue that cannot realistically be resolved from above and needs to be addressed as quickly as possible has to do with the locations, neighborhoods, homes and cities where the poor live and spend their time. All of us appreciate the beauty of “those cities which overcome paralyzing mistrust, integrate those who are different and make this very integration a new factor of development! How attractive are those cities which, even in their architectural design, are full of spaces which connect, relate and favor the recognition of others!”[102] Yet, at the same time, “we cannot fail to consider the effects on people’s lives of environmental deterioration, current models of development and the throwaway culture.”[103] For “the deterioration of the environment and of society affects the most vulnerable people on the planet.”[104]

97. All the members of the People of God have a duty to make their voices heard, albeit in different ways, in order to point out and denounce such structural issues, even at the cost of appearing foolish or naïve. Unjust structures need to be recognized and eradicated by the force of good, by changing mindsets but also, with the help of science and technology, by developing effective policies for societal change. It must never be forgotten that the Gospel message has to do not only with an individual’s personal relationship with the Lord, but also with something greater: “the Kingdom of God (cf.Lk4:43); it is about loving God who reigns in our world. To the extent that he reigns within us, the life of society will be a setting for universal fraternity, justice, peace and dignity. Both Christian preaching and life, then, are meant to have an impact on society. We are seeking God’s Kingdom.”[105]

98. Finally, in a document that was not initially well received by everyone, we find a reflection that remains timely today: “The defenders of orthodoxy are sometimes accused of passivity, indulgence, or culpable complicity regarding the intolerable situations of injustice and the political regimes which prolong them. Spiritual conversion, the intensity of the love of God and neighbor, zeal for justice and peace, the Gospel meaning of the poor and of poverty, are required of everyone, and especially of pastors and those in positions of responsibility. The concern for the purity of the faith demands giving the answer of effective witness in the service of one’s neighbor, the poor and the oppressed in particular, in an integral theological fashion.”[106]

The poor as subjects

99. The life of the universal Church was enriched by the discernment of the Aparecida Conference, in which the Latin American bishops made clear that the Church’s preferential option for the poor “is implicit in the Christological faith in the God who became poor for us, so as to enrich us with his poverty.”[107] The Aparecida Document situates the Church’s mission in the present context of a globalized world marked by new and dramatic imbalances.[108] In their Final Message, the bishops wrote: “The stark differences between rich and poor invite us to work with greater commitment to being disciples capable of sharing the table of life, the table of all the sons and daughters of the Father, a table that is open and inclusive, from which no one is excluded. We therefore reaffirm our preferential and evangelical option for the poor.”[109]

100. At the same time, the Document, taking up a theme treated in earlier Conferences of the Latin American episcopate, insists on the need to consider marginalized communities as subjects capable of creating their own culture, rather than as objects of charity on the part of others. This means that such communities have the right to embrace the Gospel and to celebrate and communicate their faith in accord with the values present within their own cultures. Their experience of poverty gives them the ability to recognize aspects of reality that others cannot see; for this reason, society needs to listen to them. The same holds true for the Church, which should regard positively their “popular” practice of the faith. A fine passage from the Aparecida Document can help us reflect on this point and our proper response: “Only the closeness that makes us friends enables us to appreciate deeply the values of the poor today, their legitimate desires, and their own manner of living the faith… Day by day, the poor become agents of evangelization and of comprehensive human promotion: they educate their children in the faith, engage in ongoing solidarity among relatives and neighbors, constantly seek God, and give life to the Church’s pilgrimage. In the light of the Gospel, we recognize their immense dignity and their sacred worth in the eyes of Christ, who was poor like them and excluded among them. Based on this experience of faith, we will share with them the defense of their rights.”[110]

101. All this entails one aspect of the option for the poor that we must constantly keep in mind, namely that it demands of us an attitude of attentiveness to others. “This loving attentiveness is the beginning of a true concern for their person which inspires me effectively to seek their good. This entails appreciating the poor in their goodness, in their experience of life, in their culture, and in their ways of living the faith. True love is always contemplative, and permits us to serve the other not out of necessity or vanity, but rather because he or she is beautiful above and beyond mere appearances… Only on the basis of this real and sincere closeness can we properly accompany the poor on their path of liberation.”[111] For this reason, I express my heartfelt gratitude to all those who have chosen to live among the poor, not merely to pay them an occasional visit but to live with them as they do. Such a decision should be deemed one of the highest forms of evangelical life.

102. In light of this, it is evident that all of us must “let ourselves be evangelized”[112] by the poor and acknowledge “the mysterious wisdom which God wishes to share with us through them.”[113] Growing up in precarious circumstances, learning to survive in the most adverse conditions, trusting in God with the assurance that no one else takes them seriously, and helping one another in the darkest moments, the poor have learned many things that they keep hidden in their hearts. Those of us who have not had similar experiences of living this way certainly have much to gain from the source of wisdom that is the experience of the poor. Only by relating our complaints to their sufferings and privations can we experience a reproof that can challenge us to simplify our lives.

CHAPTER FIVE

A CONSTANT CHALLENGE

103. I have chosen to recall the age-old history of the Church’s care for the poor and with the poor in order to make clear that it has always been a central part of her life. Indeed, caring for the poor is part of the Church’s great Tradition, a beacon as it were of evangelical light to illumine the hearts and guide the decisions of Christians in every age. That is why we must feel bound to invite everyone to share in the light and life born of recognizing Christ in the faces of the suffering and those in need. Love for the poor is an essential element of the history of God’s dealings with us; it rises up from the heart of the Church as a constant appeal to the hearts of the faithful, both individually and in our communities. As the Body of Christ, the Church experiences the lives of the poor as her very “flesh,” for theirs is a privileged place within the pilgrim people of God. Consequently, love for the poor — whatever the form their poverty may take — is the evangelical hallmark of a Church faithful to the heart of God. Indeed, one of the priorities of every movement of renewal within the Church has always been a preferential concern for the poor. In this sense, her work with the poor differs in its inspiration and method from the work carried out by any other humanitarian organization.

104. No Christian can regard the poor simply as a societal problem; they are part of our “family.” They are “one of us.” Nor can our relationship to the poor be reduced to merely another ecclesial activity or function. In the words of the Aparecida Document, “we are asked to devote time to the poor, to give them loving attention, to listen to them with interest, to stand by them in difficult moments, choosing to spend hours, weeks or years of our lives with them, and striving to transform their situations, starting from them. We cannot forget that this is what Jesus himself proposed in his actions and by his words.”[114]

The Good Samaritan, once again

105. The dominant culture at the beginning of this millennium would have us abandon the poor to their fate and consider them unworthy of attention, much less our respect. Pope Francis, in his Encyclical Fratelli Tutti, challenged us to reflect on the parable of the Good Samaritan (cf.Lk10:25-37), which presents the different reactions of those confronted by the sight of a wounded man lying on the road. Only the Good Samaritan stops and cares for him. Pope Francis went on to ask each of us: “Which of these persons do you identify with? This question, blunt as it is, is direct and incisive. Which of these characters do you resemble? We need to acknowledge that we are constantly tempted to ignore others, especially the weak. Let us admit that, for all the progress we have made, we are still ‘illiterate’ when it comes to accompanying, caring for and supporting the most frail and vulnerable members of our developed societies. We have become accustomed to looking the other way, passing by, and ignoring situations until they affect us directly.”[115]

106. It is important for us to realize that the story of the Good Samaritan remains timely even today. “If I encounter a person sleeping outdoors on a cold night, I can view him or her as an annoyance, an idler, an obstacle in my path, a troubling sight, a problem for politicians to sort out, or even a piece of refuse cluttering a public space. Or I can respond with faith and charity, and see in this person a human being with a dignity identical to my own, a creature infinitely loved by the Father, an image of God, a brother or sister redeemed by Jesus Christ. That is what it is to be a Christian! Can holiness somehow be understood apart from this lively recognition of the dignity of each human being?”[116] What did the Good Samaritan do?

107. These questions become all the more urgent in light of a serious flaw present in the life of our societies, but also in our Christian communities. The many forms of indifference we see all around us are in fact “signs of an approach to life that is spreading in various and subtle ways. What is more, caught up as we are with our own needs, the sight of a person who is suffering disturbs us. It makes us uneasy, since we have no time to waste on other people’s problems. These are symptoms of an unhealthy society. A society that seeks prosperity but turns its back on suffering. May we not sink to such depths! Let us look to the example of the Good Samaritan.”[117] The final words of the Gospel parable — “Go and do likewise” (Lk10:37) — represent a mandate that every Christian must daily take to heart.

An inescapable challenge for the Church today

108. At a particularly critical time in the history of the Church in Rome, when the imperial institutions were collapsing under the pressure of the barbarian invasions, Pope Saint Gregory the Great felt it necessary to remind the faithful: “Every minute we can find a Lazarus if we seek him, and every day, even without seeking, we find one at our door. Now beggars besiege us, imploring alms; later they will be our advocates... Therefore do not waste the opportunity of doing works of mercy; do not store unused the good things you possess.”[118] Gregory courageously denounced contemporary forms of prejudice against the poor, including the belief that they were responsible for their plight: “Whenever you see the poor doing something reprehensible, do not despise or discredit them, for the fire of poverty is perhaps purifying their sinful actions, however slight they be.”[119] Not infrequently, our prosperity can make us blind to the needs of others, and even make us think that our happiness and fulfillment depend on ourselves alone, apart from others. In such cases, the poor can act as silent teachers for us, making us conscious of our presumption and instilling within us a rightful spirit of humility.

109. While it is true that the rich care for the poor, the opposite is no less true. This is a remarkable fact confirmed by the entire Christian tradition. Lives can actually be turned around by the realization that the poor have much to teach us about the Gospel and its demands. By their silent witness, they make us confront the precariousness of our existence. The elderly, for example, by their physical frailty, remind us of our own fragility, even as we attempt to conceal it behind our apparent prosperity and outward appearance. The poor, too, remind us how baseless is the attitude of aggressive arrogance with which we frequently confront life’s difficulties. They remind us how uncertain and empty our seemingly safe and secure lives may be. Here again, Saint Gregory the Great has much to tell us: “Let no one consider himself secure, saying, ‘I do not steal from others, but simply enjoy what is rightfully mine.’ The rich man was not punished because he took what belonged to others, but because, while possessing such great riches, he had become impoverished within. This was indeed the reason for his condemnation to hell: in his prosperity, he preserved no sense of justice; the wealth he had received made him proud and caused him to lose all sense of compassion.”[120]

110. For us Christians, the problem of the poor leads to the very heart of our faith. Saint John Paul II taught that the preferential option for the poor, namely the Church’s love for the poor, “is essential for her and a part of her constant tradition, and impels her to give attention to a world in which poverty is threatening to assume massive proportions in spite of technological and economic progress.”[121] For Christians, the poor are not a sociological category, but the very “flesh” of Christ. It is not enough to profess the doctrine of God’s Incarnation in general terms. To enter truly into this great mystery, we need to understand clearly that the Lord took on a flesh that hungers and thirsts, and experiences infirmity and imprisonment. “A poor Church for the poor begins by reaching out to the flesh of Christ. If we reach out to the flesh of Christ, we begin to understand something, to understand what this poverty, the Lord’s poverty, actually is; and this is far from easy.”[122]

111. By her very nature the Church is in solidarity with the poor, the excluded, the marginalized and all those considered the outcast of society. The poor are at the heart of the Church because “our faith in Christ, who became poor, and was always close to the poor and the outcast, is the basis of our concern for the integral development of society’s most neglected members.”[123] In our hearts, we encounter “the need to heed this plea, born of the liberating action of grace within each of us, and so it is not a matter of a mission reserved only to a few.”[124]

112. At times, Christian movements or groups have arisen which show little or no interest in the common good of society and, in particular, the protection and advancement of its most vulnerable and disadvantaged members. Yet we must never forget that religion, especially the Christian religion, cannot be limited to the private sphere, as if believers had no business making their voice heard with regard to problems affecting civil society and issues of concern to its members.[125]

113. Indeed, “any Church community, if it thinks it can comfortably go its own way without creative concern and effective cooperation in helping the poor to live with dignity and reaching out to everyone, will also risk breaking down, however much it may talk about social issues or criticize governments. It will easily drift into a spiritual worldliness camouflaged by religious practices, unproductive meetings and empty talk.”[126]

114. Nor is it a question merely of providing for welfare assistance and working to ensure social justice. Christians should also be aware of another form of inconsistency in the way they treat the poor. In reality, “the worst discrimination which the poor suffer is the lack of spiritual care… Our preferential option for the poor must mainly translate into a privileged and preferential religious care.”[127] Yet, this spiritual attentiveness to the poor is called into question, even among Christians, by certain prejudices arising from the fact that we find it easier to turn a blind eye to the poor. There are those who say: “Our task is to pray and teach sound doctrine.” Separating this religious aspect from integral development, they even say that it is the government’s job to care for them, or that it would be better not to lift them out of their poverty but simply to teach them to work. At times, pseudo-scientific data are invoked to support the claim that a free market economy will automatically solve the problem of poverty. Or even that we should opt for pastoral work with the so-called elite, since, rather than wasting time on the poor, it would be better to care for the rich, the influential and professionals, so that with their help real solutions can be found and the Church can feel protected. It is easy to perceive the worldliness behind these positions, which would lead us to view reality through superficial lenses, lacking any light from above, and to cultivate relationships that bring us security and a position of privilege.

Almsgiving today

115. I would like to close by saying something about almsgiving, which nowadays is not looked upon favorably even among believers. Not only is it rarely practiced, but it is even at times disparaged. Let me state once again that the most important way to help the disadvantaged is to assist them in finding a good job, so that they can lead a more dignified life by developing their abilities and contributing their fair share. In this sense, “lack of work means far more than simply not having a steady source of income. Work is also this, but it is much, much more. By working we become a fuller person, our humanity flourishes, young people become adults only by working. The Church’s social doctrine has always seen human work as a participation in God’s work of creation that continues every day, also thanks to the hands, mind and heart of the workers.”[128] On the other hand, where this is not possible, we cannot risk abandoning others to the fate of lacking the necessities for a dignified life. Consequently, almsgiving remains, for the time being, a necessary means of contact, encounter and empathy with those less fortunate.

116. Those inspired by true charity know full well that almsgiving does not absolve the competent authorities of their responsibilities, eliminate the duty of government institutions to care for the poor, or detract from rightful efforts to ensure justice. Almsgiving at least offers us a chance to halt before the poor, to look into their eyes, to touch them and to share something of ourselves with them. In any event, almsgiving, however modest, brings a touch of pietas into a society otherwise marked by the frenetic pursuit of personal gain. In the words of the Book of Proverbs: “Those who are generous are blessed, for they share their bread with the poor” (22:9).

117. Both the Old and New Testaments contain veritable hymns in praise of almsgiving: “Be patient with someone in humble circumstances, and do not keep him waiting for your alms… Store up almsgiving in your treasury, and it will rescue you from every disaster” (Sir29:8,12). Jesus himself adds: “Sell your possessions, and give alms. Make purses for yourselves that do not wear out, an unfailing treasure in heaven, where no thief comes near and no moth destroys” (Lk12:33).

118. Saint John Chrysostom is known for saying: “Almsgiving is the wing of prayer. If you do not provide your prayer with wings, it will hardly fly.”[129] In the same vein, Saint Gregory of Nazianzus concluded one of his celebrated orations with these words: “If you think that I have something to say, servants of Christ, his brethren and co-heirs, let us visit Christ whenever we may; let us care for him, feed him, clothe him, welcome him, honor him, not only at a meal, as some have done, or by anointing him, as Mary did, or only by lending him a tomb, like Joseph of Arimathea, or by arranging for his burial, like Nicodemus, who loved Christ half-heartedly, or by giving him gold, frankincense and myrrh, like the Magi before all these others. The Lord of all asks for mercy, not sacrifice... Let us then show him mercy in the persons of the poor and those who today are lying on the ground, so that when we come to leave this world they may receive us into everlasting dwelling places.”[130]

119. Our love and our deepest convictions need to be continually cultivated, and we do so through our concrete actions. Remaining in the realm of ideas and theories, while failing to give them expression through frequent and practical acts of charity, will eventually cause even our most cherished hopes and aspirations to weaken and fade away. For this very reason, we Christians must not abandon almsgiving. It can be done in different ways, and surely more effectively, but it must continue to be done. It is always better at least to do something rather than nothing. Whatever form it may take, almsgiving will touch and soften our hardened hearts. It will not solve the problem of world poverty, yet it must still be carried out, with intelligence, diligence and social responsibility. For our part, we need to give alms as a way of reaching out and touching the suffering flesh of the poor.

120. Christian love breaks down every barrier, brings close those who were distant, unites strangers, and reconciles enemies. It spans chasms that are humanly impossible to bridge, and it penetrates to the most hidden crevices of society. By its very nature, Christian love is prophetic: it works miracles and knows no limits. It makes what was apparently impossible happen. Love is above all a way of looking at life and a way of living it. A Church that sets no limits to love, that knows no enemies to fight but only men and women to love, is the Church that the world needs today.

121. Through your work, your efforts to change unjust social structures or your simple, heartfelt gesture of closeness and support, the poor will come to realize that Jesus’ words are addressed personally to each of them: “I have loved you” (Rev3:9).

Given in Rome, at Saint Peter’s, on 4 October, the Memorial of Saint Francis of Assisi, in the year 2025, the first of my Pontificate.

LEO PP. XIV

_____________________________

[1] Francis, Encyclical LetterDilexit Nos(24 October 2024), 170: AAS 116 (2024), 1422. [2]Ibid., 171:AAS116 (2024), 1422-1423.

[3] Francis, Apostolic ExhortationGaudete et Exsultate(19 March 2018), 96:AAS110 (2018), 1137.

[4] Francis,Audience with Representatives of the Communications Media(16 March 2013):AAS105 (2013), 381.

[5] J. Bergoglio - A. Skorka,Sobre el cielo y la tierra, Buenos Aires 2013, 214.

[6] Paul VI,Homily at the Mass for the Last Public Session of the Second Vatican Ecumenical Council(7 December 1965):AAS58 (1966), 55-56.

[7] Cf. Francis, Apostolic ExhortationEvangelii Gaudium(24 November 2013), 187:AAS105 (2013), 1098.

[8] Ibid., 212:AAS105 (2013), 1108.

[9] Francis, Encyclical LetterFratelli Tutti(3 October 2020), 23:AAS112 (2020), 977.

[10] Ibid., 21:AAS112 (2020), 976.

[11] Council of the European Communities,Decision (85/8/EEC) on Specific Community Action to Combat Poverty(19 December 1984), Art. 1(2): Official Journal of the European Communities, No. L 2/24.

[12] Cf. John Paul II,Catechesis(27 October 1999): L’Osservatore Romano, 28 October 1999, 4.

[13] Francis, Apostolic ExhortationEvangelii Gaudium(24 November 2013), 197:AAS105 (2013), 1102.

[14] Cf. Francis,Message for the 5th World Day of the Poor(13 June 2021), 3:AAS113 (2021), 691: “Jesus not only sides with the poor; he also shares their lot. This is a powerful lesson for his disciples in every age.”

[15] Francis, Apostolic ExhortationEvangelii Gaudium(24 November 2013), 186:AAS105 (2013), 1098.

[16] Francis, Apostolic ExhortationGaudete et Exsultate(19 March 2018), 95:AAS110 (2018), 1137.

[17]Ibid., 97:AAS110 (2018), 1137.

[18] Francis, Apostolic ExhortationEvangelii Gaudium(24 November 2013), 194:AAS105 (2013), 1101.

[19] Francis,Audience with Representatives of the Communications Media(16 March 2013):AAS105 (2013), 381.

[20]Second Vatican Ecumenical Council, Dogmatic ConstitutionLumen Gentium, 8.

[21]Francis, Apostolic ExhortationEvangelii Gaudium(24 November 2013), 48:AAS105 (2013), 1040.

[22] In this chapter, some of these witnesses are being put forward. This is not being done in an exhaustive manner but rather to demonstrate that care for the poor has always characterized the presence of the Church in the world. A more in-depth reflection on the attention given to those most in need can be found in the following book: V. Paglia, Storia della povertà, Milan 2014.

[23] Cf. Ambrose,De officiis ministrorumI, cap. 41, 205-206:CCSL15, Turnhout 2000, 76-77; II, cap. 28, 140-143:CCSL15, 148-149.

[24] Ibid., II, cap. 28, 140:CCSL15, 148.

[25] Ibid.

[26] Ibid., II, cap. 28, 142:CCSL15, 148.

[27] Ignatius of Antioch,Epistula ad Smyrnaeos, 6, 2: SC 10bis, Paris 2007, 136-138.

[28] Polycarp,Epistula ad Philippenses, 6, 1: SC 10bis, 186.

[29] Justin,Apologia prima, 67, 6-7: SC 507, Paris 2006, 310.

[30] John Chrysostom,Homiliae in Matthaeum, 50, 3:PG58, Paris 1862, 508.

[31] Ibid. 50, 4:PG58, 509.

[32] John Chrysostom,Homilia in Epistula ad Hebraeos, 11, 3:PG63, Paris 1862, 94.

[33] John Chrysostom,Homilia II De Lazaro, 6:PG48, Paris 1862, 992.

[34] Ambrose,De Nabuthae, 12, 53:CSEL32/2, Prague-Vienna-Leipzig 1897, 498.

[35] Augustine,Enarrationes in Psalmos, 125, 12:CSEL95/3, Vienna 2001, 181.

[36] Augustine,SermoLXXXVI, 5:CCSL41Ab, Turnhout 2019, 411-412.

[37] Pseudo-Augustine,SermoCCCLXXXVIII, 2: PL 39, Paris 1862, 1700.

[38] Cyprian,De mortalitate, 16:CCSL3A, Turnhout 1976, 25.

[39] Francis,Message for the 30th World Day of the Sick(10 December 2021), 3:AAS114 (2022), 51.

[40] Camillus de Lellis,Rule of the Order of Ministers of the Sick, 27: M. Vanti (ed.),Scritti di San Camillo de Lellis, Milan 1965, 67.

[41] Louise de Marillac,Letter to Sisters Claudia Carré and Maria Gaudoin(28 November 1657): E. Charpy (ed.),Sainte Louise de Marillac. Écrits, Paris 1983, 576.

[42] Basil the Great,Regulae fusius tractatae, 37, 1:PG31, Paris 1857, 1009 C-D.

[43]Regula Benedicti, 53, 15: SC 182, Paris 1972, 614.

[44] John Cassian,Collationes, XIV, 10: CSEL 13, Vienna 2004, 410.

[45] Benedict XVI,Catechesis(21 October 2009): L’Osservatore Romano, 22 October 2009, 1.

[46] Cf. Innocent III, BullOperante divinae dispositionisPrimitive Rule of the Trinitarians(17 December 1198), 2: J.L. Aurrecoechea – A. Moldón (eds.),Fuentes históricas de la Orden Trinitaria(s. XII-XV), Córdoba 2003, 6: “All things, from whatever lawful source they may come, the brothers are to divide them into three equal parts. Insofar as two parts will be sufficient, the works of mercy are to be performed from them, as well as providing for a moderate sustenance for themselves and their necessary household members. The third part is to be reserved for the ransom of captives who are incarcerated for the faith of Christ.”

[47] Cf.Constitutions of the Mercedarian Order, n. 14: Orden de la Bienaventurada Virgen María de la Merced,Regla y Constituciones, Rome 2014, 53: “To fulfill this mission, driven by charity, we consecrate ourselves to God with a special vow, called Redemption, by virtue of which we promise to give our lives, if necessary, as Christ gave his for us, to save Christians who are in extreme danger of losing their faith in new forms of slavery.”

[48] Cf. Saint John Baptist of the Conception,La regla de la Orden de la Santísima Trinidad, XX, 1:BAC Maior60, Madrid, 1999, 90: “In this, the poor and prisoners are like Christ, on whom the sufferings of the world are laid... This holy Order of the Most Holy Trinity summons them and invites them to come and drink the water of the Savior, which means that, if Christ hanging on the cross was redemption and salvation for men, the Order has taken this redemption and wants to distribute it to the poor and save and free the prisoners.”

[49]Cf. Saint John Baptist of the Conception,El recogimiento interior, XL, 4:BAC Maior 48, Madrid 1995, 689: “Free will makes man free and master among all creatures, but, God help me, how many are those who, by this way, become slaves and prisoners of the devil, imprisoned and chained by their passions and lusts.”

[50] Francis,Message for the 48th World Day of Peace(8 December 2014), 3:AAS107 (2015), 69.

[51] Francis,Meeting with Police Prison Officers, Detainees, and Volunteers(Verona, May 18 May 2024):AAS116 (2024), 766.

[52]Honorius III, BullSolet annuere – Regula bullata(29 November 1223), chap. VI:SC285, Paris 1981, 192.

[53] Cf. Gregory IX, BullSicut manifestum est(17 September 1228), 7: SC 325, Paris 1985, 200: “Sicut igitur supplicastis, altissimae paupertatis propositum vestrum favore apostolico roboramus, auctoritate vobis praesentium indulgentes, ut recipere possessiones a nullo compelli possitis.”

[54] Cf. S.C. Tugwell, (ed.),Early Dominicans. Selected Writings, Mahwah 1982, 16-19.

[55] Thomas of Celano,Vita Seconda, pars prima, cap. IV, 8:AnalFranc, 10, Florence 1941, 135.

[56] Francis,Address following the visit to the tomb of Don Lorenzo Milani, (Barbiana, 20 June 2017), 2:AAS109 (2017), 745.

[57]John Paul II,Address to the Participants in the General Chapter of the Poor Clerics Regular of the Mother of God of the Pious Schools (Piarists)(5 July 1997), 2:L’Osservatore Romano, 6 July 1997, 5.

[58] Ibid.

[59] John Paul II,Homily for the Mass of Canonization(18 April 1999):AAS91 (1999), 930.

[60] Cf. John Paul II, LetterIuvenum Patris(31 January 1988), 9:AAS80 (1988), 976.

[61] Cf. Francis,Address to the Participants in the General Chapter of the Institute of Charity (Rosminians)(1 October 2018):L’Osservatore Romano, 1-2 October 2018, 7.

[62] Francis,Homily for the Mass of Canonization(9 October 2022):AAS114 (2022), 1338.

[63] John Paul II,Message to the Congregation of the Missionary Sisters of the Sacred Heart(31 May 2000), 3:L’Osservatore Romano, 16 July 2000, 5.

[64]Cf. Pius XII, Papal BriefSuperior Iam Aetate(8 September 1950):AAS43 (1951), 455-456.

[65] Francis,Message for the 105th World Day of Migrants and Refugees(27 May 2019):AAS111 (2019), 911.

[66] Francis,Message for the 100th World Day of Migrants and Refugees(5 August 2013): AAS 105 (2013), 930.

[67]Teresa of Calcutta,Speech on the occasion of the awarding of the Nobel Peace Prize(Oslo, 10 December 1979):Aimer jusqu’à en avoir mal, Lyon 2017, 19-20.

[68] John Paul II,Address to the Pilgrims who had come to Rome for the Beatification of Mother Teresa(20 October 2003), 3:L’Osservatore Romano, 20-21 October 2003, 10.

[69] Francis,Homily for the Mass and Canonization(13 October 2019):AAS111 (2019), 1712.

[70] John Paul II, Apostolic LetterNovo Millennio Ineunte(6 January 2001), 49:AAS93 (2001), 302.

[71] Francis, Apostolic ExhortationChristus Vivit(25 March 2019), 231:AAS111 (2019), 458.

[72] Francis,Address to Participants in the World Meeting of Popular Movements(28 October 2014):AAS106 (2014), 851-852.

[73] Ibid.:AAS106 (2014), 859.

[74] Francis,Address to Participants in the World Meeting of Popular Movements(November 5, 2016):L’Osservatore Romano, 7-8 November, 2016, 5.

[75] Ibid.

[76] John XXIII,Radio Message to all the Christian faithful one month before the opening of the Second Vatican Ecumenical Council(11 September 1962):AAS54 (1962), 682.

[77] G. LERCARO,Intervention in the XXXV General Congregation of the Second Vatican Ecumenical Council(6 December 1962), 2:ASI/IV, 327-328.

[78] Ibid., 4:ASI/IV, 329.

[79]Institute for Religious Sciences (ed.),Per la forza dello Spirito. Discorsi conciliari del Card. Giacomo Lercaro, Bologna 1984, 115.

[80]Paul VI,Address for the Solemn Inauguration of the Second Session of the Second Vatican Ecumenical Council(29 September 1963): AAS 55 (1963) 857.

[81]Paul VI,Catechesis(11 November 1964):Insegnamenti di Paolo VI, II (1964), 984.

[82]Second Vatican Ecumenical Council, Pastoral ConstitutionGaudium et Spes, 69, 71.

[83]Paul VI, Encyclical LetterPopulorum Progressio(26 March 1967), 23:AAS59 (1967), 269.

[84] Cf. ibid., 4:AAS59 (1967), 259.

[85]John Paul II, Encyclical LetterSollicitudo Rei Socialis(30 December 1987), 42:AAS80 (1988), 572.

[86] Ibid.,AAS80 (1988), 573.

[87]John Paul II, Encyclical LetterLaborem Exercens(14 September 1981), 3:AAS73 (1981), 584.

[88] Benedict XVI, Encyclical LetterCaritas in Veritate(29 June 2009), 7:AAS101 (2009), 645.

[89] Ibid., 27:AAS101 (2009), 661.

[90] Second General Conference of the Latin American Bishops,Medellín Document(24 October 1968), 14, n. 7: Celam, Medellín.Conclusiones, Lima 2005, 131-132.

[91] Francis, Apostolic ExhortationEvangelii Gaudium(24 November 2013), 202:AAS105 (2013), 1105.

[92] Ibid., 205:AAS105 (2013), 1106.

[93] Ibid., 190:AAS105 (2013), 1099.

[94] Ibid., 56:AAS105 (2013), 1043.

[95] Francis, Encyclical LetterDilexit Nos(24 October 2024), 183:AAS116 (2024), 1427.

[96] John Paul II, Encyclical LetterCentesimus Annus(1 May 1991), 41:AAS83 (1991), 844-845.

[97] Francis, Apostolic ExhortationEvangelii Gaudium(24 November 2013), 202:AAS105 (2013), 1105.

[98] Ibid.

[99] Francis, Encyclical LetterFratelli Tutti(3 October 2020), 22:AAS112 (2020), 976.

[100] Francis, Apostolic ExhortationEvangelii Gaudium(24 November 2013), 209:AAS105 (2013), 1107.

[101] Francis, EncyclicalLetter Laudato Si’(24 May 2015), 50:AAS107 (2015), 866.

[102] Francis, Apostolic ExhortationEvangelii Gaudium(24 November 2013), 210:AAS105 (2013), 1107.

[103] Francis, Encyclical LetterLaudato Si’(24 May 2015), 43:AAS107 (2015), 863.

[104] Ibid., 48:AAS107 (2015), 865.

[105] Francis, Apostolic ExhortationEvangelii Gaudium(24 November 2013), 180:AAS105 (2013), 1095.

[106] Congregation for the Doctrine of the Faith,Instruction on Certain Aspects of the “Theology of Liberation”(6 August 1984) XI, 18:AAS76 (1984), 907-908.

[107] Fifth General Conference of the Latin American and Caribbean Bishops,Aparecida Document,(29 June 2007), n. 392, Bogotá 2007, pp. 179-180. Cf. Benedict XVI,Address at the Inaugural Session of the Fifth General Conference of the Bishops of Latin America and the Caribbean(13 May 2007), 3:AAS99 (2007), 450.

[108] Cf. Fifth General Conference of the Latin American and Caribbean Bishops,Aparecida Document(29 June 2007), nn. 43-87, pp. 31-47.

[109] Fifth General Conference of the Latin American and Caribbean Bishops,Final Message(29 May 2007), n. 4, Bogotá 2007, p. 275.

[110] Fifth General Conference of the Latin American and Caribbean Bishops,Aparecida Document(29 June 2007), n. 398, p. 182.

[111] Francis, Apostolic ExhortationEvangelii Gaudium(24 November 2013), 199:AAS105 (2013), 1103-1104.

[112] Ibid., 198:AAS105 (2013), 1103.

[113] Ibid.

[114] Fifth General Conference of the Bishops of Latin America and the Caribbean,Aparecida Document(29 June 2007), n. 397, p. 182.

[115] Francis, Encyclical LetterFratelli Tutti(3 October 2020), 64:AAS112 (2020), 992.

[116] Francis, Apostolic ExhortationGaudete et Exsultate(19 March 2018), 98:AAS110 (2018), 1137.

[117] Francis, Encyclical LetterFratelli Tutti(3 October 2020), 65-66:AAS112 (2020), 992.

[118] Gregory the Great,Homilia40, 10: SC 522, Paris 2008, 552-554.

[119]Ibid., 6: SC 522, 546.

[120] Ibid., 3: SC 522, 536.

[121] John Paul II, Encyclical LetterCentesimus Annus(1 May 1991), 57:AAS83 (1991), 862-863.

[122] Francis,Vigil of Pentecost with the Ecclesial Movements(18 May 2013):L’Osservatore Romano20-21 May 2013, 5.

[123] Francis, Apostolic ExhortationEvangelii Gaudium(24 November 2013), 186:AAS105 (2013), 1098.

[124] Ibid., 188:AAS105 (2013), 1099.

[125] Cf. ibid., 182-183:AAS105 (2013), 1096-1097.

[126] Ibid., 207:AAS105 (2013), 1107.

[127] Ibid., 200:AAS105 (2013), 1104.

[128] Francis,Address at the Meeting with Representatives of the World of Labor at the Ilva Factory in Genoa(27 May 2017):AAS109 (2017), 613.

[129] Pseudo-Chrysostom,Homilia de Jejunio et Eleemosyna:PG48, 1060.

[130] Gregory Nazianzus,Oratio XIV, 40:PG35, Paris 1886, 910.

[01290-EN.01] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

APOSTOLISCHE EXHORTATION

DILEXI TE

DES HEILIGEN VATERS LEO XIV.

ÜBER DIE LIEBE ZU DEN ARMEN

1. »Ich [habe] dir meine Liebe zugewandt« (Offb 3,9), sagt der Herr zu einer christlichen Gemeinde, die im Gegensatz zu anderen keine Bedeutung oder Ressourcen hatte und Gewalt und Verachtung ausgesetzt war: Auch wenn »du nur geringe Kraft hast, werde ich sie kommen lassen, damit sie sich vor dir niederwerfen« (vgl. Offb 3,8-9). Dieser Text erinnert an die Worte des Lobgesangs Marias: »Er stürzt die Mächtigen vom Thron und erhöht die Niedrigen. Die Hungernden beschenkt er mit seinen Gaben und lässt die Reichen leer ausgehen« (Lk 1,52-53).

2. Die Liebeserklärung im Buch der Offenbarung des Johannes verweist auf das unerschöpfliche Geheimnis, das Papst Franziskus in seiner Enzyklika Dilexit nos über die göttliche und menschliche Liebe des Herzens Christi vertieft hat. Darin haben wir bewundert, wie Jesus sich »mit den Geringsten der Gesellschaft« identifizierte und wie er durch seine vollendete liebende Hingabe die Würde jedes Menschen sichtbar gemacht hat, umso mehr, »je schwächer, elender und leidender er ist«.[1] Die Liebe Christi zu betrachten »hilft uns, den Leiden und Nöten der anderen mehr Aufmerksamkeit zu schenken, und macht uns stark, an seinem Werk der Befreiung mitzuwirken, als Werkzeuge für die Verbreitung seiner Liebe«.[2]

3. Aus diesem Grund bereitete Papst Franziskus, in Fortsetzung der Enzyklika Dilexit nos, in den letzten Monaten seines Lebens eine Apostolische Exhortation über die Sorge der Kirche für die Armen und mit den Armen vor, die den Titel Dilexi te tragen sollte, mit dem Gedanken, dass Christus sich an jeden Einzelnen von ihnen wendet und sagt: Du hast wenig Kraft, wenig Macht, aber »ich [habe] dir meine Liebe zugewandt« (Offb 3,9). Da ich dieses Projekt gewissermaßen als Erbe erhalten habe, freue ich mich, es mir – unter Hinzufügung einiger Überlegungen – zu eigen zu machen und es noch in der Anfangsphase meines Pontifikats vorzulegen. Ich teile den Wunsch meines verehrten Vorgängers, dass alle Christen den tiefen Zusammenhang zwischen der Liebe Christi und seinem Ruf, den Armen nahe zu sein, erkennen mögen. Auch ich halte es nämlich für nötig, auf diesen Weg der Heiligung zu dringen, denn in dem »Aufruf, ihn in den Armen und Leidenden zu erkennen, offenbart sich das Herz Christi selbst, seine Gesinnung und seine innersten Entscheidungen, die jeder Heilige nachzuahmen sucht«. [3]

KAPITEL I

EINIGE WESENTLICHE PUNKTE

4. Die Jünger Jesu kritisierten die Frau, die ihm ein sehr kostbares wohlriechendes Öl über das Haupt gegossen hatte: »Wozu diese Verschwendung?«, sagten sie, »Man hätte das Öl teuer verkaufen und das Geld den Armen geben können!«. Aber der Herr sagte zu ihnen: »Die Armen habt ihr immer bei euch, mich aber habt ihr nicht immer« (Mt 26,8-9.11). Diese Frau hatte verstanden, dass Jesus der demütige und leidende Messias war, über den sie ihre Liebe ausgießen konnte: Was für ein Trost war dieses Salböl auf dem Haupt, das wenige Tage später unter Dornen leiden sollte! Es war zwar nur eine kleine Tat, aber wer leidet, weiß, wie groß auch eine kleine Geste der Zuneigung ist und wie viel Trost sie bringen kann. Jesus versteht das und bestätigt ihre zeitlose Gültigkeit: »Auf der ganzen Welt, wo dieses Evangelium verkündet wird, wird man auch erzählen, was sie getan hat, zu ihrem Gedächtnis« (Mt 26,13). Die Einfachheit dieser Tat offenbart etwas Großes. Keine Geste der Zuneigung, auch nicht die kleinste, wird vergessen werden, besonders wenn sie denen gilt, die in Schmerz, Einsamkeit und Not sind, wie es der Herr in dieser Stunde war.

5. Und eben in dieser Perspektive verbindet sich die Liebe zum Herrn mit der Liebe zu den Armen. Jener Jesus, der sagt: »Die Armen habt ihr immer bei euch« (Mt 26,11), drückt dasselbe aus, wenn er seinen Jüngern verspricht: »Ich bin bei euch alle Tage« (Mt 28,20). Gleichzeitig kommen uns wieder die Worte des Herrn in den Sinn: »Was ihr für einen meiner geringsten Brüder getan habt, das habt ihr mir getan« (Mt 25,40). Hier geht es nicht um Wohltätigkeit, sondern um Offenbarung: Der Kontakt mit denen, die keine Macht und kein Ansehen haben, ist eine grundlegende Form der Begegnung mit dem Herrn der Geschichte. In den Armen hat er uns auch weiterhin noch etwas zu sagen.

Der heilige Franziskus

6. Papst Franziskus erinnerte an die Wahl seines Namens und erzählte, dass ihn nach seiner Wahl ein befreundeter Kardinal umarmte, küsste und ihm sagte: »Vergiss die Armen nicht!«[4] Es handelt sich um dieselbe Empfehlung, die die kirchlichen Autoritäten dem heiligen Paulus gaben, als er nach Jerusalem hinaufging, um seine Sendung prüfen zu lassen (vgl. Gal 2,1-10). Jahre später konnte der Apostel sagen: »Das zu tun, habe ich mich eifrig bemüht« (Gal 2,10). Und das war auch die Entscheidung des heiligen Franz von Assisi: Christus selbst war es, der ihn in dem Aussätzigen umarmte und sein Leben veränderte. Die leuchtende Gestalt des Poverello wird uns stets weiter inspirieren.

7. Er war es, der vor acht Jahrhunderten eine dem Evangelium entsprechende Erneuerung unter den Christen und in der Gesellschaft seiner Zeit bewirkte. Der junge Franziskus, der zunächst reich und übermütig war, wurde durch die Begegnung mit denen, die aus der Gemeinschaft ausgeschlossen waren, neu geboren. Der von ihm ausgehende Impuls bewegt bis heute die Herzen der Gläubigen und vieler Nichtgläubiger und »hat die Geschichte verändert«.[5] Das Zweite Vatikanische Konzil hat nach den Worten des heiligen Paul VI. diesen Weg beschritten: »Die alte Geschichte vom barmherzigen Samariter war das Paradigma der Spiritualität des Konzils.«[6] Ich bin überzeugt, dass die vorrangige Option für die Armen eine außerordentliche Erneuerung sowohl in der Kirche als auch in der Gesellschaft bewirkt, wenn wir dazu fähig sind, uns von unserer Selbstbezogenheit zu befreien und auf ihren Schrei zu hören.

Der Schrei der Armen

8. Hierzu gibt es einen Text aus der Heiligen Schrift, von dem wir immer ausgehen müssen. Es handelt sich um die Offenbarung Gottes an Mose am brennenden Dornbusch: »Ich habe das Elend meines Volkes in Ägypten gesehen und ihre laute Klage über ihre Antreiber habe ich gehört. Ich kenne sein Leid. Ich bin herabgestiegen, um es der Hand der Ägypter zu entreißen […]. Und jetzt geh! Ich sende dich« (Ex 3,7-8.10).[7] Gott zeigt sich in Sorge angesichts der Not der Armen: „Als sie zum Herrn schrien, setzte ihnen der Herr einen Retter ein“ (vgl. Ri 3,15). Wenn wir also den Schrei der Armen hören, sind wir aufgerufen, mit dem Herzen Gottes zu fühlen, der sich um die Nöte seiner Kinder und besonders der Bedürftigsten kümmert. Bleiben wir hingegen diesem Schrei gegenüber gleichgültig, würde der Arme gegen uns zum Herrn schreien, und eine Sünde läge auf uns (vgl. Dtn 15,9), und wir würden uns vom Herzen Gottes selbst entfernen.

9. Die Lebenssituation der Armen ist ein Schrei, der in der Geschichte der Menschheit unser eigenes Leben, unsere Gesellschaften, die politischen und wirtschaftlichen Systeme und nicht zuletzt auch die Kirche beständig hinterfragt. Im verwundeten Gesicht der Armen sehen wir das Leiden der Unschuldigen und damit das Leiden Christi selbst. Zugleich sollten wir vielleicht besser von den vielen Gesichtern der Armen und der Armut sprechen, weil es sich um eine facettenreiche Problematik handelt. Es gibt nämlich viele Formen der Armut: die derjenigen, denen es materiell am Lebensnotwendigen fehlt, die Armut derer, die sozial ausgegrenzt sind und keine Mittel haben, um ihrer Würde und ihren Fähigkeiten Ausdruck zu verleihen, die moralische und geistliche Armut, die kulturelle Armut, die Armut derjenigen, die sich in einer Situation persönlicher oder sozialer Schwäche oder Fragilität befinden, die Armut derer, die keine Rechte, keinen Raum und keine Freiheit haben.

10. In diesem Sinne kann man sagen, dass das Engagement für die Armen und für die Beseitigung der sozialen und strukturellen Ursachen der Armut in den vergangenen Jahrzehnten zwar an Bedeutung gewonnen hat, aber nach wie vor unzureichend bleibt: Auch weil die Gesellschaften, in denen wir leben, oft Lebens- und Politikorientierungen bevorzugen, die von zahlreichen Ungleichheiten geprägt sind, und daher zu den alten Formen der Armut, deren wir uns bewusst geworden sind und die wir zu bekämpfen versuchen, neue, manchmal subtilere und gefährlichere Formen hinzukommen. Aus dieser Perspektive ist es sehr zu begrüßen, dass die Vereinten Nationen die Beseitigung der Armut zu einem der Millenniumsziele erklärt haben.

11. Mit dem konkreten Engagement für die Armen muss auch ein Mentalitätswandel einhergehen, der sich auf kultureller Ebene bemerkbar macht. Die Illusion, dass ein Leben in Wohlstand glücklich macht, führt viele Menschen nämlich zu einer Lebenseinstellung, die auf Ansammlung von Reichtum und sozialen Erfolg um jeden Preis ausgerichtet ist, auch wenn dies auf Kosten anderer geschieht und man dabei von ungerechten gesellschaftlichen Idealen bzw. politisch-wirtschaftlichen Verhältnissen profitiert, die die Stärkeren begünstigen. So sehen wir in einer Welt, in der es immer mehr arme Menschen gibt, paradoxerweise auch die Zunahme einiger reicher Eliten, die in einer Blase sehr komfortabler und luxuriöser Bedingungen leben, beinahe in einer anderen Welt im Vergleich zu den einfachen Menschen. Das bedeutet, dass es nach wie vor – manchmal gut getarnt – eine Kultur gibt, die andere ausgrenzt, ohne dies überhapt zu bemerken, und die es gleichgültig hinnimmt, dass Millionen von Menschen verhungern oder unter menschenunwürdigen Bedingungen überleben. Vor ein paar Jahren sorgte das Foto eines leblosen Kindes an einem Mittelmeerstrand für erhebliches Aufsehen; leider werden derartige Vorkommnisse, von einer kurzzeitigen Gefühlsregung abgesehen, immer mehr zu irrelevanten Randnotizen.

12. Wir dürfen im Hinblick auf die Armut nicht unachtsam werden. Besonders besorgen uns die gravierenden Umstände, in denen sich sehr viele Menschen wegen Nahrungs- und Wassermangels befinden. Jeden Tag sterben Tausende von Menschen an den Folgen von Unterernährung. Auch in den reichen Ländern sind die Zahlen der Armen nicht weniger besorgniserregend. In Europa gibt es immer mehr Familien, die mit ihrem Einkommen nicht bis zum Monatsende auskommen. Generell ist eine Zunahme verschiedener Formen der Armut zu beobachten. Armut ist nicht mehr als ein einheitlicher Zustand zu verstehen, sondern äußert sich in vielfältigen Formen wirtschaftlicher und sozialer Verarmung und spiegelt das Phänomen wachsender Ungleichheit auch in allgemein wohlhabenden Lebensumfeldern wider. Wir erinnern daran: »Doppelt arm sind die Frauen, die Situationen der Ausschließung, der Misshandlung und der Gewalt erleiden, denn oft haben sie geringere Möglichkeiten, ihre Rechte zu verteidigen. Und doch finden wir auch unter ihnen fortwährend die bewundernswertesten Gesten eines täglichen Heroismus im Schutz und in der Fürsorge für die Gebrechlichkeit in ihren Familien.«[8] Obwohl in einigen Ländern wichtige Veränderungen zu beobachten sind, sind »die Gesellschaften auf der ganzen Erde noch lange nicht so organisiert, dass sie klar widerspiegeln, dass die Frauen genau die gleiche Würde und die gleichen Rechte haben wie die Männer. Mit Worten behauptet man bestimmte Dinge, aber die Entscheidungen und die Wirklichkeit schreien eine andere Botschaft heraus«,[9] vor allem wenn man an die ärmsten Frauen denkt.

Ideologische Vorurteile

13. Jenseits der Daten – die manchmal so „interpretiert” werden, dass man glauben könnte, die Situation der Armen sei gar nicht so schlimm –, ist die allgemeine Lage ziemlich klar: »Es gibt wirtschaftliche Regeln, die sich für das Wachstum als wirksam erwiesen haben, aber nicht für die ganzheitliche Entwicklung des Menschen. Der Reichtum ist gewachsen, aber ohne Gerechtigkeit, und so entsteht neue Armut. Wenn man sagt, dass die moderne Welt die Armut verringert hat, dann misst man sie mit Kriterien aus anderen Epochen, die mit der heutigen Realität nicht vergleichbar sind. In anderen Zeiten galt beispielsweise der fehlende Zugang zu Elektrizität nicht als Zeichen von Armut und war kein Grund für große Not. Armut wird immer im Kontext der realen Möglichkeiten eines konkreten historischen Moments analysiert und verstanden.«[10] Jenseits von besonderen und kontextbezogenen Situationen wurde 1984 in einem Dokument der Europäischen Gemeinschaft festgestellt, dass »verarmte Personen Einzelpersonen, Familien und Personengruppen [sind], die über so geringe (materielle, kulturelle und soziale) Mittel verfügen, dass sie von der Lebensweise ausgeschlossen sind, die in dem Mitgliedstaat, in dem sie leben, als Minimum annehmbar ist«.[11] Wenn wir jedoch anerkennen, dass alle Menschen unabhängig von ihrem Geburtsort die gleiche Würde haben, dürfen wir die großen Unterschiede zwischen den Ländern und Regionen nicht außer Acht lassen.

14. Die Armen gibt es nicht zufällig oder aufgrund eines blinden und bitteren Schicksals. Noch weniger ist Armut für die meisten von ihnen eine freie Entscheidung. Und doch gibt es immer noch Personen, die dies behaupten und damit ihre Blindheit und Grausamkeit offenbaren. Natürlich gibt es unter den Armen auch solche, die nicht arbeiten wollen, vielleicht weil ihre Vorfahren, die ihr ganzes Leben lang gearbeitet haben, in Armut gestorben sind. Aber es gibt viele – Männer und Frauen –, die dennoch von morgens bis abends arbeiten, vielleicht Kartons sammeln oder ähnliche Tätigkeiten ausüben, obwohl sie wissen, dass diese Anstrengungen nur dem Überleben dienen und ihr Leben nicht wirklich verbessern werden. Wir dürfen nicht sagen, dass die meisten Armen arm sind, weil sie sich keine „Verdienste” erworben haben, gemäß jener falschen Vorstellung der Meritokratie, nach der scheinbar nur diejenigen Verdienste haben, die im Leben erfolgreich gewesen sind.

15. Auch Christen lassen sich oft von weltlichen Ideologien oder politischen und wirtschaftlichen Orientierungen anstecken, die zu ungerechten Verallgemeinerungen und abwegigen Schlussfolgerungen führen. Die Tatsache, dass praktizierte Nächstenliebe verachtet oder lächerlich gemacht wird, als handle es sich um die Fixierung einiger weniger und nicht um den glühenden Kern der kirchlichen Sendung, bringt mich zu der Überzeugung, dass wir das Evangelium immer wieder neu lesen müssen, um nicht Gefahr zu laufen, dass eine weltliche Gesinnung an seine Stelle tritt. Wenn wir nicht aus dem lebendigen Strom der Kirche herausfallen wollen, der dem Evangelium entspringt und jeden Moment der Geschichte fruchtbar werden lässt, dürfen wir auf gar keinen Fall die Armen vergessen.

KAPITEL II

GOTT ERWÄHLT DIE ARMEN

Die Erwählung der Armen

16. Gott ist barmherzige Liebe, und sein Heilsplan der Liebe, der sich über die Geschichte erstreckt und sich in ihr verwirklicht, besteht vor allem darin, dass er zu uns hinabgestiegen und mitten unter uns gewesen ist, um uns von der Knechtschaft, von den Ängsten, von der Sünde und von der Macht des Todes zu befreien. Mit barmherzigem Blick und mit einem Herzen voller Liebe hat er sich seinen Geschöpfen zugewandt und sich ihrer menschlichen Bedingtheit und damit ihrer Armut angenommen. Er ist selbst arm geworden, gerade um die Beschränkungen und Schwächen unserer menschlichen Natur zu teilen. Er ist wie wir im Fleisch geboren, und wir haben ihn in der Kleinheit eines in eine Krippe gelegten Kindes sowie in der äußersten Erniedrigung des Kreuzes gesehen, wo er unsere radikale Armut geteilt hat, welche der Tod ist. Es ist also gut nachvollziehbar, warum man auch theologisch von einer vorrangigen Option Gottes für die Armen sprechen kann, ein Ausdruck, der im Kontext Lateinamerikas, speziell bei der Vollversammlung von Puebla, aufgekommen ist, der aber im nachfolgenden Lehramt der Kirche gut integriert ist.[12] Diese „Präferenz” stellt niemals eine Ausgrenzung oder Diskriminierung anderer Gruppen dar, was bei Gott unmöglich wäre. Sie soll vielmehr das Handeln Gottes betonen, der voller Mitgefühl für die Armut und die Schwäche der ganzen Menschheit ist: Indem er ein Reich der Gerechtigkeit, der Geschwisterlichkeit und der Solidarität errichten will, trägt er insbesondere diejenigen im Herzen, die diskriminiert und unterdrückt werden, und er fordert auch von uns, seiner Kirche, eine entschiedene und radikale Parteinahme für die Schwächsten.

17. In diesem Zusammenhang sind die zahlreichen Stellen des Alten Testaments zu verstehen, in denen Gott als Freund und Befreier der Armen dargestellt wird, als derjenige, der den Schrei des Armen hört und eingreift, um ihn zu befreien (vgl. Ps 34,7). Gott, die Zuflucht der Armen, prangert durch die Propheten – denken wir besonders an Amos und Jesaja – die Ungerechtigkeiten gegenüber den Schwächsten an und ermahnt Israel, auch den Kult von innen heraus zu erneuern: Denn man kann nicht beten und Opfer darbringen, während man die Schwächsten und Ärmsten unterdrückt. Von Anfang an macht die Heilige Schrift die Liebe Gottes durch den Schutz der Schwachen und Bedürftigen mit solcher Intensität sichtbar, dass man von einer Art „Schwäche“ Gottes ihnen gegenüber sprechen könnte. »Im Herzen Gottes gibt es einen so bevorzugten Platz für die Armen […]. Der ganze Weg unserer Erlösung ist von den Armen geprägt.«[13]

Jesus, der arme Messias

18. Die gesamte alttestamentliche Geschichte der Vorliebe Gottes für die Armen und des göttlichen Wunsches, auf ihren Schrei zu hören – an die ich kurz erinnert habe –, findet in Jesus von Nazaret ihre volle Verwirklichung.[14] In seiner Menschwerdung »entäußerte [er] sich und wurde wie ein Sklave und den Menschen gleich. Sein Leben war das eines Menschen« (Phil 2,7) und in dieser Gestalt wirkte er unser Heil. Es handelt sich um eine radikale Armut, die auf seiner Sendung beruht, das wahre Antlitz der göttlichen Liebe zu offenbaren (vgl. Joh 1,18; 1 Joh 4,9). Daher kann der heilige Paulus in einer seiner wunderbaren Zusammenfassungen sagen: »Denn ihr kennt die Gnade unseres Herrn Jesus Christus: Er, der reich war, wurde euretwegen arm, um euch durch seine Armut reich zu machen« (2 Kor 8,9).

19. Tatsächlich zeigt das Evangelium, dass diese Armut jeden Aspekt seines Lebens betraf. Seit seinem Kommen in diese Welt erlebte Jesus Schwierigkeiten, die etwas mit Ablehnung zu tun haben. Der Evangelist Lukas berichtet von der Ankunft Josefs und Marias, die kurz vor der Geburt stand, in Betlehem und stellt mit Bedauern fest, dass »in der Herberge kein Platz für sie war« (vgl. Lk 2,7). Jesus wurde in bescheidenen Verhältnissen geboren; gleich nach seiner Geburt wurde er in eine Krippe gelegt; und schon bald flohen seine Eltern nach Ägypten, um ihn vor dem Tod zu retten (vgl. Mt 2,13-15). Zu Beginn seines öffentlichen Lebens wurde er aus Nazaret vertrieben, nachdem er in der Synagoge verkündet hatte, dass das Jahr der Gnade, über das sich die Armen freuen, in ihm seine Erfüllung finde (vgl. Lk 4,14-30). Auch als er starb, gab es keinen Platz für ihn: Sie führten ihn zur Kreuzigung aus Jerusalem hinaus (vgl. Mk 15,22). Von diesen Umständen her lässt sich die Armut Jesu klar zusammenfassen. Es handelt sich um dieselbe Ausgrenzung, die die Definition der Armen ausmacht: Sie sind die von der Gesellschaft Ausgeschlossenen. Jesus ist die Offenbarung dieses privilegium pauperum. Er zeigt sich der Welt nicht nur als armer Messias, sondern auch als Messias der Armen und für die Armen.

20. Es gibt einige Hinweise zur sozialen Stellung Jesu. Zunächst einmal übt er den Beruf eines Handwerkers oder Zimmermanns aus, téktōn (vgl. Mk 6,3). Es handelt sich bei dieser Berufsgruppe um Menschen, die von ihrer Hände Arbeit leben. Da sie keinen Grundbesitz hatten, standen sie unterhalb der Bauern. Als der kleine Jesus von Josef und Maria im Tempel dem Herrn dargestellt wurde, opferten seine Eltern ein Paar Turteltauben oder Tauben (vgl. Lk 2,22-24), was gemäß den Vorschriften des Buches Levitikus (vgl. 12,8) das Opfer der Armen war. Eine recht bedeutende Episode des Evangeliums erzählt uns, wie Jesus und seine Jünger zusammen durch die Felder gingen und Ähren lasen, um sich zu ernähren (vgl. Mk 2,23-28). Dies – das Ährenlesen auf den Feldern – war nur den Armen erlaubt. Schließlich sagt Jesus über sich selbst: »Die Füchse haben Höhlen und die Vögel des Himmels Nester; der Menschensohn aber hat keinen Ort, wo er sein Haupt hinlegen kann« (Mt 8,20; Lk 9,58). Er ist nämlich ein Wanderprediger, dessen Armut und Bedürftigkeit Zeichen seiner Verbundenheit mit dem Vater sind. Sie werden auch von denen verlangt, die ihm auf dem Weg der Jüngerschaft nachfolgen wollen, gerade damit der Verzicht auf die Güter, die Reichtümer und die Sicherheiten dieser Welt zum sichtbaren Zeichen des Vertrauens auf Gott und seine Vorsehung wird.

21. Zu Beginn seines öffentlichen Wirkens kommt Jesus in die Synagoge von Nazaret, liest aus der Schriftrolle des Propheten Jesaja vor und bezieht die Worte des Propheten auf sich selbst: »Der Geist des Herrn ruht auf mir; denn er hat mich gesalbt. Er hat mich gesandt, damit ich den Armen eine frohe Botschaft bringe« (Lk 4,18; vgl. Jes 61,1). Er offenbart sich also – in diesem Moment der Geschichte – als derjenige, der kommt, um die liebevolle Nähe Gottes zu verwirklichen, die in erster Linie ein Werk der Befreiung für diejenigen ist, die Gefangene des Bösen sind, für die Schwachen und für die Armen. Die Zeichen, die die Verkündigung Jesu nämlich begleiten, sind ein Ausdruck der Liebe und des Mitleids, mit denen Gott auf die Kranken, die Armen und die Sünder schaut, die aufgrund ihrer Situation von der Gesellschaft, aber auch vonseiten der Religion ausgeschlossen waren. Er öffnet den Blinden die Augen, heilt die Aussätzigen, erweckt die Toten und verkündet den Armen die frohe Botschaft: Gott ist euch nahe, Gott liebt euch (vgl. Lk 7,22). Dies erklärt, warum er verkündet: »Selig, ihr Armen, denn euch gehört das Reich Gottes« (Lk 6,20). Denn Gott zeigt den Armen seine Vorliebe: Zuallererst richtet sich das Wort der Hoffnung und der Befreiung des Herrn an sie: Deshalb soll sich niemand verlassen fühlen, auch wenn er in einem Zustand der Armut oder der Schwäche lebt. Und die Kirche, wenn sie Kirche Christi sein will, muss eine Kirche der Seligpreisungen sein, eine Kirche, die den Kleinen Raum schafft, die arm und zusammen mit den Armen auf dem Weg ist, und die ein Ort ist, an dem die Armen einen privilegierten Platz haben (vgl. Jak 2,2-4).

22. Bedürftige und Kranke, die sich nicht selbst versorgen konnten, waren oft gezwungen, zu betteln. Hinzu kam die Last der sozialen Schande, die durch die Überzeugung genährt wurde, dass Krankheit und Armut mit einer persönlichen Sünde verbunden seien. Jesus widersprach dieser Denkweise entschieden und erklärte: Gott »lässt seine Sonne aufgehen über Bösen und Guten und er lässt regnen über Gerechte und Ungerechte« (Mt 5,45). Er kehrte diese Vorstellung sogar völlig um, wie das Gleichnis vom reichen Prasser und dem armen Lazarus deutlich zeigt: »Mein Kind, erinnere dich daran, dass du schon zu Lebzeiten deine Wohltaten erhalten hast, Lazarus dagegen nur Schlechtes. Jetzt wird er hier getröstet, du aber leidest große Qual« (Lk 16,25).

23. Dann wird klar: »Aus unserem Glauben an Christus, der arm geworden und den Armen und Ausgeschlossenen immer nahe ist, ergibt sich die Sorge um die ganzheitliche Entwicklung der am stärksten vernachlässigten Mitglieder der Gesellschaft.«[15] Oft frage ich mich, warum trotz solcher Klarheit der Heiligen Schrift in Bezug auf die Armen viele weiterhin glauben, sie könnten die Armen ausblenden. Bleiben wir vorerst jedoch im Bereich der Bibel und versuchen wir, über unser Verhältnis zu den Letzten der Gesellschaft und ihren grundlegenden Platz im Volk Gottes nachzudenken.

Die Barmherzigkeit gegenüber den Armen in der Bibel

24. Der Apostel Johannes schreibt: »Denn wer seinen Bruder nicht liebt, den er sieht, kann Gott nicht lieben, den er nicht sieht« (1 Joh 4,20). In seiner Antwort an den Gesetzeslehrer greift Jesus die beiden alten Gebote auf: »Du sollst den Herrn, deinen Gott, lieben mit ganzem Herzen, mit ganzer Seele und mit ganzer Kraft« (vgl. Dtn 6,5) und »Du sollst deinen Nächsten lieben wie dich selbst« (Lev 19,18), und fasst sie zu einem einzigen Gebot zusammen. Der Evangelist Markus gibt die Antwort Jesu wie folgt wieder: »Das erste ist: Höre, Israel, der Herr, unser Gott, ist der einzige Herr. Darum sollst du den Herrn, deinen Gott, lieben mit ganzem Herzen und ganzer Seele, mit deinem ganzen Denken und mit deiner ganzen Kraft. Als zweites kommt hinzu: Du sollst deinen Nächsten lieben wie dich selbst. Kein anderes Gebot ist größer als diese beiden« (Mk 12,29-31).

25. Die zitierte Stelle aus dem Buch Levitikus fordert dazu auf, die eigenen Landsleute zu ehren, während in anderen Texten eine Lehre zu finden ist, die zur Achtung – wenn nicht sogar zur Liebe – auch des Feindes auffordert: »Wenn du dem verirrten Rind oder dem Esel deines Feindes begegnest, sollst du ihm das Tier zurückbringen. Wenn du siehst, wie der Esel deines Feindes unter seiner Last zusammenbricht, dann lass ihn nicht im Stich, sondern leiste ihm Hilfe!« (Ex 23,4-5). Hier wird der Wert sichtbar, welcher der Achtung des Menschen innewohnt: Jeder, der in Not ist, sogar der Feind, verdient immer unsere Hilfe.

26. Es ist unbestreitbar, dass die vorrangige Stellung Gottes in der Lehre Jesu mit dem anderen Grundpfeiler einhergeht, dass man Gott nicht lieben kann, wenn man nicht auch den Armen Liebe erweist. Die Nächstenliebe ist der greifbare Beweis für die Echtheit der Liebe zu Gott, wie der Apostel Johannes bezeugt: »Niemand hat Gott je geschaut; wenn wir einander lieben, bleibt Gott in uns und seine Liebe ist in uns vollendet. […] Gott ist Liebe, und wer in der Liebe bleibt, bleibt in Gott und Gott bleibt in ihm« (1 Joh 4,12.16). Es handelt sich um zwei unterschiedliche, aber untrennbare Aspekte der Liebe. Auch in den Fällen, in denen es sich nicht um explizite Gottesbeziehung handelt, so lehrt uns der Herr selbst, ist jeder Akt der Nächstenliebe in gewisser Weise ein Widerschein der Gottesliebe: »Amen, ich sage euch: Was ihr für einen meiner geringsten Brüder getan habt, das habt ihr mir getan« (Mt 25,40).

27. Aus diesem Grund werden die Werke der Barmherzigkeit als ein Zeichen für die Wahrhaftigkeit der Liturgie empfohlen, die Gott lobpreist und zugleich die Aufgabe hat, uns offen zu machen für jene Verwandlung, die der Heilige Geist in uns bewirken kann, damit wir alle zum Abbild Christi und seiner Barmherzigkeit gegenüber den Schwächsten werden. In diesem Sinne will uns die Beziehung zum Herrn, die in der Liturgie zum Ausdruck kommt, auch von der Gefahr befreien, unsere Beziehungen nach der Logik des Kalküls und des eigenen Vorteils zu leben, und uns für jene Uneigennützigkeit öffnen, die zwischen denen herrscht, die sich lieben und deshalb alles miteinander teilen. Diesbezüglich rät Jesus: »Wenn du mittags oder abends ein Essen gibst, lade nicht deine Freunde oder deine Brüder, deine Verwandten oder reiche Nachbarn ein; sonst laden auch sie dich wieder ein und dir ist es vergolten. Nein, wenn du ein Essen gibst, dann lade Arme, Verkrüppelte, Lahme und Blinde ein. Du wirst selig sein, denn sie haben nichts, um es dir zu vergelten« (Lk 14,12-14).

28. Der Aufruf des Herrn zur Barmherzigkeit gegenüber den Armen kommt voll zum Ausdruck in dem großen Gleichnis vom Jüngsten Gericht (vgl. Mt 25,31-46), das auch ein anschauliches Bild der Seligkeit der Barmherzigen vermittelt. Dort hat uns der Herr den Schlüssel zu unserer Vervollkommnung gegeben, denn »wenn wir die Heiligkeit suchen, die in Gottes Augen gefällt, dann entdecken wir gerade in diesem Text einen Maßstab, nach dem wir geurteilt werden«.[16] Die starken und klaren Worte des Evangeliums sollten »ohne Kommentar, ohne Ausflüchte und Ausreden [gelebt werden], die ihnen Kraft entziehen. Der Herr hat uns ganz deutlich gesagt, dass die Heiligkeit weder verstanden noch gelebt werden kann, wenn man von seinen Forderungen absieht.«[17]

29. In der urchristlichen Gemeinde beruhte das Programm der Nächstenliebe nicht auf Analysen oder Projekten, sondern direkt auf dem Beispiel Jesu, auf den Worten des Evangeliums selbst. Der Jakobusbrief gibt dem Problem der Beziehung zwischen Reichen und Armen viel Raum und richtet an die Gläubigen zwei sehr eindringliche Appelle, die ihren Glauben kritisch hinterfragen: »Was nützt es, meine Brüder und Schwestern, wenn einer sagt, er habe Glauben, aber es fehlen die Werke? Kann etwa der Glaube ihn retten? Wenn ein Bruder oder eine Schwester ohne Kleidung sind und ohne das tägliche Brot und einer von euch zu ihnen sagt: Geht in Frieden, wärmt und sättigt euch!, ihr gebt ihnen aber nicht, was sie zum Leben brauchen – was nützt das? So ist auch der Glaube für sich allein tot, wenn er nicht Werke vorzuweisen hat« (Jak 2,14-17).

30. »Euer Gold und Silber verrostet. Ihr Rost wird als Zeuge gegen euch auftreten und euer Fleisch fressen wie Feuer. Noch in den letzten Tagen habt ihr Schätze gesammelt. Siehe, der Lohn der Arbeiter, die eure Felder abgemäht haben, der Lohn, den ihr ihnen vorenthalten habt, schreit zum Himmel; die Klagerufe derer, die eure Ernte eingebracht haben, sind bis zu den Ohren des Herrn Zebaoth gedrungen. Ihr habt auf Erden geschwelgt und geprasst und noch am Schlachttag habt ihr eure Herzen gemästet« (Jak 5,3-5). Welche Kraft diese Worte doch haben, selbst wenn wir uns lieber taub stellen! Im Ersten Brief des Johannes finden wir einen ähnlichen Aufruf: »Wenn jemand die Güter dieser Welt hat und sein Herz vor dem Bruder verschließt, den er in Not sieht, wie kann die Liebe Gottes in ihm bleiben?« (1 Joh 3,17).

31. Das offenbarte Wort ist »eine so klare, so direkte, so einfache und vielsagende Botschaft, dass keine kirchliche Hermeneutik das Recht hat, sie zu relativieren. Die Reflexion der Kirche über diese Texte sollte deren ermahnende Bedeutung nicht verdunkeln oder schwächen, sondern vielmehr helfen, sie sich mutig und eifrig zu eigen zu machen. Warum komplizieren, was so einfach ist? Die begrifflichen Werkzeuge sind dazu da, den Kontakt mit der Wirklichkeit, die man erklären will, zu fördern, und nicht, um uns von ihr zu entfernen.«[18]

32. Ein klares kirchliches Beispiel für die gemeinsame Nutzung von Gütern und die Aufmerksamkeit gegenüber den Armen finden wir auch im Alltag und im Lebensstil der ersten christlichen Gemeinschaft. So sei insbesondere an die Art und Weise erinnert, wie das Problem der täglichen Versorgung der Witwen gelöst wurde (vgl. Apg 6,1-6). Es handelte sich um keine einfache Frage, auch weil einige dieser Witwen aus anderen Ländern stammten und als Fremde manchmal vernachlässigt wurden. Tatsächlich zeigt die in der Apostelgeschichte geschilderte Begebenheit eine gewisse Unzufriedenheit seitens der Hellenisten, also der Juden griechischer Kultur. Die Apostel antworteten nicht mit einer abstrakten Rede, sondern stellten die Nächstenliebe gegenüber allen wieder in den Mittelpunkt und organisierten die Hilfe für die Witwen neu, indem sie die Gemeinde aufforderten, kluge und angesehene Personen zu suchen, denen die Aufgabe des Dienstes an den Tischen anvertraut werden konnte, während sie selbst sich um die Verkündigung des Wortes kümmerten.

33. Als Paulus nach Jerusalem zog, um sich mit den Aposteln zu beraten, „um nicht ins Leere zu laufen oder gelaufen zu sein“ (vgl. Gal 2,2), wurde er gebeten, die Armen nicht zu vergessen (vgl. Gal 2,10). Deshalb veranlasste er mehrere Kollekten, um den armen Gemeinden zu helfen. Unter den Gründen, die er für diese Geste anführt, ist der folgende hervorzuheben: »Gott liebt einen fröhlichen Geber« (2 Kor 9,7). Allen von uns, die zu selbstlosen, uneigennützigen Gesten wenig Neigung verspüren, zeigt das Wort Gottes, dass Großzügigkeit gegenüber den Armen für diejenigen, die sie üben, ein wahres Gut ist: Denn wenn wir so handeln, werden wir von Gott in besonderer Weise geliebt. Tatsächlich gibt es noch viele weitere biblische Verheißungen für diejenigen, die großzügig geben: »Wer Erbarmen hat mit dem Elenden, leiht dem Herrn; er wird ihm seine Wohltat vergelten« (Spr 19,17). »Gebt, dann wird euch gegeben werden: […] nach dem Maß, mit dem ihr messt, wird auch euch zugemessen werden« (Lk 6,38). »Dann wird dein Licht hervorbrechen wie das Morgenrot und deine Heilung wird schnell gedeihen« (Jes 58,8). Die ersten Christen waren davon überzeugt.

34. Das Leben der ersten kirchlichen Gemeinschaften – von dem der Kanon der Bibel erzählt und das uns als offenbartes Wort überliefert worden ist – wird uns als nachzuahmendes Vorbild und als Zeugnis des durch die Liebe wirksamen Glaubens vor Augen gestellt und bleibt für die kommenden Generationen eine bleibende Mahnung. Im Laufe der Jahrhunderte haben diese Seiten das Herz der Christen angeregt, zu lieben und Werke der Nächstenliebe zu tun, wie gute Samen, die nicht aufhören, Früchte hervorzubringen.

KAPITEL III

EINE KIRCHE FÜR DIE ARMEN

35. Drei Tage nach seiner Wahl äußerte mein Vorgänger gegenüber Vertretern der Medien den Wunsch, dass die Sorge und die Aufmerksamkeit für die Armen in der Kirche deutlicher wahrnehmbar sein sollten: »Ach, wie sehr wünsche ich mir eine arme Kirche für die Armen!« [19]

36. Dieser Wunsch spiegelt das Bewusstsein wider, dass die Kirche »in den Armen und Leidenden […] das Bild dessen [erkennt], der sie gegründet hat und selbst ein Armer und Leidender war. Sie müht sich, deren Not zu erleichtern, und sucht Christus in ihnen zu dienen.«[20] Sie ist nämlich aufgerufen, sich den Letzten anzugleichen, und »es dürfen weder Zweifel bleiben, noch halten Erklärungen stand, die diese so klare Botschaft schwächen könnten. […]. Ohne Umschweife ist zu sagen, dass – wie die Bischöfe Nordost-Indiens lehren – ein untrennbares Band zwischen unserem Glauben und den Armen besteht.«[21] Dafür gibt es in der fast zweitausendjährigen Geschichte der Jünger Jesu zahlreiche Zeugnisse.[22]

Der wahre Reichtum der Kirche

37. Der heilige Paulus berichtet, dass unter den Gläubigen der entstehenden christlichen Gemeinde »nicht viele Weise im irdischen Sinn, nicht viele Mächtige, nicht viele Vornehme« (1 Kor 1,26) waren. Trotz ihrer Armut waren sich die ersten Christen jedoch der Notwendigkeit bewusst, sich um diejenigen zu kümmern, die unter größeren Entbehrungen litten. Bereits in den Anfängen des Christentums legten die Apostel sieben aus der Gemeinde gewählten Männern die Hände auf und bezogen sie zu einem gewissen Maß in ihren Dienst mit ein, indem sie sie für den Dienst – auf Griechisch diakonía – an den Ärmsten bestellten (vgl. Apg 6,1-5). Es ist bezeichnend, dass Stephanus, der zu dieser Gruppe gehörte, der erste Jünger war, der seinen Glauben an Christus bis zum Vergießen seines Blutes bezeugte. In ihm verbindet sich das Lebenszeugnis der Sorge für die Armen mit dem Martyrium.

38. Etwas mehr als zwei Jahrhunderte später zeigte ein weiterer Diakon auf ähnliche Weise seine Zugehörigkeit zu Jesus Christus, indem er in seinem Leben den Dienst an den Armen und das Martyrium miteinander verband: der heilige Laurentius.[23] Aus dem Bericht des Heiligen Ambrosius wissen wir, dass Laurentius, der während des Pontifikats von Papst Sixtus II. Diakon in Rom war, von den römischen Behörden gezwungen wurde, die Schätze der Kirche auszuhändigen: »Am folgenden Tage führte er die Armen vor. Auf die Frage, wo die Schätze wären, die er versprochen hatte, zeigte er auf die Armen und sprach: Das sind die Schätze der Kirche.«[24] Ambrosius schildert diese Begebenheit und fragt sich: »Welch bessere Schätze hätte Christus als jene, denen er selbst nach seiner Versicherung innewohnt?«[25] Er erinnert daran, dass die Diener der Kirche niemals die Sorge für die Armen vernachlässigen und noch weniger Güter zu ihrem eigenen Vorteil anhäufen dürfen, und sagt: »Erforderlich ist, dass einer ein solches Handeln in reiner Absicht und aus offensichtlicher Fürsorglichkeit vollbringt. In der Tat, wenn jemand Aufwendungen zu seinem Vorteil macht, so ist es ein Verbrechen; wendet er es für die Armen auf, kauft er einen Gefangenen los, so ist es Barmherzigkeit.«[26]

Die Kirchenväter und die Armen

39. Seit den ersten Jahrhunderten erkannten die Kirchenväter in den Armen einen vorzüglichen Weg zu Gott, eine besondere Möglichkeit, ihm zu begegnen. Die Nächstenliebe gegenüber den Bedürftigen wurde nicht als einfache moralische Tugend verstanden, sondern als konkreter Ausdruck des Glaubens an das fleischgewordene Wort. Die Gemeinschaft der Gläubigen war, getragen von der Kraft des Heiligen Geistes, fest verwurzelt in der Hinwendung zu den Armen, die sie nicht als Anhängsel, sondern als einen wesentlichen Teil ihres lebendigen Leibes betrachtete. So ermahnte beispielsweise der heilige Ignatius von Antiochien auf seinem Weg zum Martyrium die Gläubigen der Gemeinde von Smyrna, ihre Pflicht zur Nächstenliebe gegenüber den Bedürftigsten nicht zu vernachlässigen, und warnte sie, sich nicht wie diejenigen zu verhalten, die sich Gott widersetzen: »Lernt sie kennen, die Sonderlehren aufstellen über die Gnade Jesu Christi, die zu uns gekommen ist, wie sehr sie dem Willen Gottes entgegen sind! Um die (Nächsten-)Liebe kümmern sie sich nicht, nicht um die Witwe, nicht um die Waise, nicht um den Bedrängten, nicht um den Gefangenen oder Freigegebenen, nicht um den Hungernden und Dürstenden.«[27] Der Bischof von Smyrna, Polykarp, empfahl den Amtsträgern der Kirche ausdrücklich, sich um die Armen zu kümmern: »Auch die Presbyter (sollen) wohlwollend (sein), barmherzig gegen alle, (sollen) die Verirrten zurückführen, alle Kranken besuchen, voll Sorge sein für die Witwen, die Waisen und die Armen; stets (sollen) sie bedacht (sein) auf das Gute vor Gott und den Menschen.«[28] Aus diesen beiden Zeugnissen geht hervor, wie die Kirche als Mutter der Armen, als Ort der Annahme und der Gerechtigkeit erscheint.

40. Der heilige Justin erklärte seinerseits in seiner ersten Apologie, die an Kaiser Hadrian, den Senat und das römische Volk gerichtet war, dass die Christen den Bedürftigen alles gaben, was sie konnten, weil sie in ihnen Brüder und Schwestern in Christus sahen. Als er über die Versammlung der Gläubigen am ersten Tag der Woche schrieb, betonte er, dass in der christlichen Liturgie die Verehrung Gottes und die Aufmerksamkeit für die Armen nicht voneinander getrennt werden können. Deshalb gibt zu einem bestimmten Augenblick der liturgischen Feier »wer […] die Mittel und guten Willen hat, […] nach seinem Ermessen, was er will, und das, was da zusammenkommt, wird bei dem Vorsteher hinterlegt; dieser kommt damit Waisen und Witwen zu Hilfe, solchen, die wegen Krankheit oder aus sonst einem Grunde bedürftig sind, den Gefangenen und den Fremdlingen, die in der Gemeinde anwesend sind, kurz, er ist allen, die in der Stadt sind, ein Fürsorger«.[29] Dies zeigt, dass die werdende Kirche den Glauben nicht vom sozialen Handeln trennte: Ein Glaube, der nicht durch Taten begleitet war, galt als tot, wie der heilige Jakobus lehrt (vgl. Jak 2,17).

Der heilige Johannes Chrysostomus

41. Der unter den östlichen Kirchenvätern vielleicht eifrigste Prediger sozialer Gerechtigkeit war der heilige Johannes Chrysostomus, der zwischen dem 4. und 5. Jahrhundert Erzbischof von Konstantinopel war. In seinen Homilien ermahnte er die Gläubigen, Christus in den Bedürftigen zu erkennen: »Willst du also Christi Leib ehren? Geh nicht an ihm vorüber, wenn du ihn nackt siehst; ehre ihn nicht hier mit seidenen Gewändern, während du dich draußen auf der Straße nicht um ihn kümmerst, wo er vor Kälte und Blöße zugrunde geht! […]. Der Leib Christi auf dem Altar bedarf keiner Decken, wohl aber einer reinen Seele; derjenige, der sich draußen befindet, dagegen braucht viel Sorgfalt. Lernen wir also, weise zu sein, und Christus so zu ehren, wie er selbst geehrt sein will. Dem Geehrten ist ja die Ehrenbezeugung die liebste, die er selber wünscht, nicht die, die wir dafür halten. […]. So erweise auch du ihm die Ehre, die er selbst verlangt hat, und verwende deinen Reichtum zugunsten der Armen. Gott braucht keine goldenen Kelche, sondern goldene Seelen.«[30] Er stellt mit glasklarer Deutlichkeit fest, dass die Gläubigen Christus nicht am Altar werden anbeten können, wenn sie ihm nicht in den Armen an der Tür begegnen, und fährt fort: »Oder was nützt es dem Herrn, wenn sein Tisch voll ist von goldenen Kelchen, er selber dagegen vor Hunger stirbt? Stille zuerst seinen Hunger, dann magst du auch seinen Tisch schmücken, soviel du kannst.«[31] Er verstand die Eucharistie also auch als sakramentalen Ausdruck der Nächstenliebe und der Gerechtigkeit, die ihr vorausgingen, sie begleiteten und sie in der Liebe und Aufmerksamkeit gegenüber den Armen fortsetzen sollten.

42. Folglich ist die Nächstenliebe nicht etwas Optionales, sondern das Kriterium für den wahren Gottesdienst. Chrysostomus prangerte vehement den übertriebenen Luxus an, der mit Gleichgültigkeit den Armen gegenüber einherging. Die ihnen geschuldete Aufmerksamkeit ist nicht bloß ein soziales Erfordernis, sondern vielmehr eine Bedingung für das Heil, was zugleich eine Verurteilung ungerechten Reichtums bedeutet: »Es ist große Kälte, und auf dem Boden liegt der Arme in Lumpen gehüllt, halbtodt vor Frost, und klappert mit den Zähnen, und sein Anblick und seine Haltung müssen zur Hilfe stimmen, – du aber gehst wohlgewärmt und weinselig vorüber; und wie kannst du erwarten, dass Gott dich aus dem Unglück erretten werde? […] Einen Leib, der oft schon todt und ohne Gefühl ist und von der Ehre gar Nichts mehr merkt, schmückst du mit unzähligen bunten und goldgestickten Gewändern; jenen (Leib) aber, der von Schmerz erschöpft und von Hunger und Frost gemartert und zu Boden gestreckt ist, beachtest du nicht […].«[32] Dieses ausgeprägte Gespür für soziale Gerechtigkeit lässt ihn behaupten, dass »den Armen nichts zu geben bedeutet, sie auszurauben, sie um ihr Leben zu betrügen, denn das, worüber wir verfügen ist nicht unser, sondern ihr Eigentum«.[33]

Der heilige Augustinus

43. Augustinus hatte den heiligen Ambrosius als geistlichen Lehrer, der auf dem ethischen Erfordernis des Teilens von Gütern bestand: »Du gibst dem Armen nicht von deinem Eigentum, sondern du gibst ihm von dem seinen zurück. Denn du hast dir bloß das angemaßt, was für den gemeinsamen Gebrauch bestimmt war.«[34] Für den Bischof von Mailand ist die Almosengabe Wiederherstellung von Gerechtigkeit und keine Geste der Bevormundung. In seinen Predigten nimmt die Barmherzigkeit einen prophetischen Charakter an: Sie prangert die Strukturen der Anhäufung von Gütern an und bekräftigt die Gemeinschaft als kirchliche Berufung.

44. Der heilige Bischof von Hippo, der von seiner Bildung her in dieser Tradition stand, lehrte seinerseits die vorrangige Liebe zu den Armen. Als wachsamer Hirte und Theologe von seltener Klarsicht erkannte er, dass wahre kirchliche Gemeinschaft auch in einer Gütergemeinschaft zum Ausdruck kommt. In seinen Kommentaren zu den Psalmen erinnert er daran, dass die wirklichen Christen die Liebe zu den Bedürftigsten nicht vernachlässigen: »Wenn ihr auf eure Brüder achtet, erkennt ihr, ob sie etwas benötigen, wenn aber Christus in euch wohnt, dann tut ihr auch dem Fremden Gutes.«[35] Dieses Teilen der Güter entspringt also der theologischen Tugend der Liebe und hat als letztes Ziel die Liebe zu Christus. Für Augustinus ist der Arme nicht nur ein Mensch, dem geholfen werden muss, sondern die sakramentale Gegenwart des Herrn.

45. Der Lehrer der Gnade sah in der Fürsorge für die Armen einen konkreten Beweis für die Aufrichtigkeit des Glaubens. Wer sagt, dass er Gott liebt, und kein Mitleid mit den Bedürftigen hat, der lügt (vgl. 1 Joh 4,20). In seinem Kommentar zur Begegnung Jesu mit dem reichen jungen Mann und zum „Schatz im Himmel“, der jenen vorbehalten ist, die ihre Güter den Armen geben (vgl. Mt 19,21), legt Augustinus dem Herrn folgende Worte in den Mund: »Die Erde habe ich empfangen, den Himmel werde ich geben; vergängliche Güter habe ich empfangen, ewige Güter werde ich zurückgeben; Brot habe ich empfangen, das Leben werde ich geben. […] Gastfreundschaft habe ich erhalten, ein Haus werde ich geben; ich bin besucht worden, als ich krank war, Gesundheit werde ich verleihen; ich bin im Gefängnis aufgesucht worden, Freiheit werde ich schenken. Das Brot, das ihr meinen Armen gegeben habt, ist verbraucht worden, doch das Brot, das ich geben werde, wird euch nicht nur erquicken, sondern es wird niemals zur Neige gehen.«[36] Der Allerhöchste lässt sich in seiner Großzügigkeit gegenüber denen, die ihm in den Bedürftigsten dienen, nicht übertreffen: Je größer die Liebe zu den Armen ist, desto größer ist der Lohn vonseiten Gottes.

46. Diese christozentrische und zutiefst kirchliche Sichtweise führt zu der Überzeugung, dass Gaben, die aus Liebe gegeben werden, nicht bloß die Not des Nächsten lindern, sondern auch das Herz des Gebenden läutern, wenn er bereit ist, sich zu ändern: »denn die Almosengabe kann dir dabei nützen, vergangene Sünden zu tilgen, wenn du deinen Lebenswandel künftig änderst«.[37] Es handelt sich sozusagen um den normalen Weg der Bekehrung für diejenigen, die Christus mit ungeteiltem Herzen nachfolgen wollen.

47. In einer Kirche, die in den Armen das Antlitz Christi erkennt und in den Gütern Werkzeuge der Nächstenliebe sieht, bleibt Augustinus’ Denken eine sichere Orientierung. Die Treue zu den Unterweisungen des Augustinus erfordert heute nicht nur das Studium seiner Werke, sondern auch die Bereitschaft, seine Einladung zur Bekehrung radikal zu leben, die notwendigerweise den Dienst der Nächstenliebe einschließt.

48. Viele andere Kirchenväter aus Ost und West haben sich zum Vorrang der Aufmerksamkeit für die Armen im Leben und in der Mission eines jeden gläubigen Christen geäußert. Aus dieser Perspektive lässt sich zusammenfassend sagen, dass die patristische Theologie eine praktische war, die auf eine arme Kirche für die Armen abzielte, indem sie daran erinnerte, dass das Evangelium nur dann richtig verkündet wird, wenn es dazu anspornt, mit den Geringsten leibhaftig in Berührung zu kommen, und davor warnte, dass strenge Lehren ohne Barmherzigkeit bloß leere Worte sind.

Die Sorge für die Kranken

49. Das christliche Mitgefühl hat sich in besonderer Weise in der Sorge für die Kranken und Leidenden gezeigt. Aufgrund der Zeichen, die das öffentliche Wirken Jesu begleiteten – die Heilung von Blinden, Aussätzigen und Gelähmten –, erkennt die Kirche, dass die Sorge für die Kranken, in denen sie leicht den gekreuzigten Herrn wiedererkennt, ein wichtiger Teil ihrer Sendung ist. Der heilige Cyprian erinnerte die Christen während einer Pestepidemie in Karthago, wo er Bischof war, an die Bedeutung der Sorge für die Kranken: »Diese Pest und Seuche, die so schrecklich und verderblich erscheint, [erforscht] die Gerechtigkeit jedes einzelnen […] und [prüft] die Herzen des Menschengeschlechtes daraufhin […], ob die Gesunden den Kranken dienen, ob die Verwandten ihre Angehörigen innig lieben, ob die Herren sich ihrer leidenden Diener erbarmen, ob die Ärzte die um Hilfe flehenden Kranken nicht im Stiche lassen, […].«[38] Die christliche Tradition, die Kranken zu besuchen, ihre Wunden zu reinigen und die Betrübten zu trösten, ist nicht bloß ein philanthropisches Werk, sondern eine kirchliche Handlung, durch die die Glieder der Kirche in den Kranken »das leidende Fleisch Christi berühren«. [39]

50. Im 16. Jahrhundert gründete der heilige Johannes von Gott den nach ihm benannten Hospitalorden und schuf Modellkrankenhäuser, die alle Menschen unabhängig von deren sozialen oder wirtschaftlichen Verhältnissen aufnahmen. Sein berühmter Ausspruch »Tut Gutes, Brüder!« wurde zum Leitspruch für die aktive Nächstenliebe gegenüber den Kranken. Zur gleichen Zeit gründete der heilige Kamillus von Lellis den Orden der Diener der Kranken – die Kamillianer – und machte es sich zur Aufgabe, den Kranken mit ganzer Hingabe zu dienen. Seine Regel lautet: »Zunächst möge jeder den Herrn um Gnade bitten, dass er ihm mütterliche Zuneigung zu seinem Nächsten schenke, damit wir ihm mit aller Liebe dienen können, sowohl der Seele als auch des Leibes, denn wir wünschen mit Gottes Gnade allen Kranken mit jener Zuneigung zu dienen, die eine liebende Mutter ihrem einzigen Kind entgegenbringt, das krank ist.«[40] In Krankenhäusern, auf Schlachtfeldern, in Gefängnissen und auf den Straßen verkörperten die Kamillianer die Barmherzigkeit Christi, des Arztes.

51. Eine noch weitreichendere Rolle in der Gesundheitsfürsorge für die Armen spielten viele gottgeweihte Frauen, die sich mit mütterlicher Liebe um die Kranken kümmerten wie eine Mutter um ihr Kind. Die Töchter der christlichen Liebe vom heiligen Vinzenz von Paul, die Hospitalerinnen, die Schwestern von der Göttlichen Vorsehung und viele andere Frauenorden sind auf mütterliche und diskrete Weise in Krankenhäusern, Pflegeheimen und Altenheimen für andere da. Vielen brachten sie Linderung, ein offenes Ohr, Nähe und vor allem Zärtlichkeit. Sie errichteten – oft mit ihren eigenen Händen – Gesundheitseinrichtungen in Gebieten ohne medizinische Versorgung. Sie lehrten Hygienemaßnahmen, halfen bei Geburten und verabreichten mit natürlicher Weisheit und in tiefem Glauben die entsprechenden Medikamente. Ihre Häuser wurden zu Oasen der Würde, niemand wurde ausgeschlossen. Mitfühlende Nähe war die wichtigste Medizin. Die heilige Luise von Marillac schrieb an ihre Schwestern, die Töchter der christlichen Liebe, und erinnerte sie daran, dass sie »von Gott einen besonderen Segen für den Dienst an den armen Kranken in den Krankenhäusern erhalten haben«.[41]

52. Heute lebt dieses Erbe in den katholischen Krankenhäusern weiter, in Pflegeeinrichtungen, die in abgelegenen Regionen eröffnet wurden, in Gesundheitsmissionen, die in Urwäldern betrieben werden, in Aufnahmezentren für Drogenabhängige und in Feldlazaretten in Kriegsgebieten. Die christliche Nähe zu den Kranken zeigt, dass die Erlösung nicht eine abstrakte Idee ist, sondern konkretes Handeln. Durch das Versorgen einer Wunde verkündet die Kirche, dass das Reich Gottes unter den Schwächsten seinen Anfang nimmt. Und auf diese Weise bleibt sie demjenigen treu, der gesagt hat: »Ich war krank, und ihr habt mich besucht« (Mt 25,36). Wenn die Kirche sich neben einem Aussätzigen, einem unterernährten Kind oder einen namenlosen Sterbenden auf die Knie begibt, verwirklicht sie ihre tiefste Berufung: den Herrn dort zu lieben, wo er am meisten entstellt ist.

Die Sorge für die Armen im monastischen Leben

53. Das monastische Leben, das in der Stille der Wüsten entstand, war von Anfang an ein Zeugnis der Solidarität. Die „Wüstenväter“ und „Wüstenmütter“ ließen alles hinter sich – Reichtum, Ansehen, Familie –, nicht nur weil sie die Güter der Welt verachteten – contemptus mundi –, sondern um in dieser radikalen Loslösung dem armen Christus zu begegnen. Der heilige Basilius der Große, sah in seiner Regel keinerlei Widerspruch zwischen dem Leben der Mönche in Gebet und Einkehr einerseits und ihrer Arbeit zugunsten der Armen andererseits. Für ihn waren die Gastfreundschaft und die Sorge für die Bedürftigen integraler Bestandteil der monastischen Spiritualität, und auch nachdem sie alles aufgegeben hatten, um in Armut zu leben, mussten die Mönche den Ärmsten mit ihrer Arbeit helfen, denn »um den Notleidenden etwas geben zu können, ist es klar, dass man fleissig arbeiten muss. […] denn eine solche Lebensweise ist uns nicht allein zur Abtötung des Leibes, sondern auch wegen der Nächstenliebe nützlich, damit Gott durch uns auch den schwachen Brüdern das Nothwendige darreiche«[42].

54. In Cäsarea, wo er Bischof war, errichtete er einen Ort namens Basilias, der Unterkünfte, Krankenhäuser und Schulen für Arme und Kranke umfasste. Der Mönch war also nicht nur ein Asket, sondern auch ein Diener. Basilius zeigte auf diese Weise, dass man den Armen nahe sein muss, um Gott nahe zu sein. Die konkrete Liebe war das Kriterium der Heiligkeit. Gebet und Fürsorge, Kontemplation und Pflege, Schreiben und Aufnehmen: Alles war Ausdruck ein und derselben Liebe zu Christus.

55. Im Westen verfasste der heilige Benedikt von Nursia eine Regel, die zum Rückgrat der monastischen Spiritualität in Europa werden sollte. Darin nimmt die Aufnahme der Armen und Pilger einen herausragenden Platz ein: »Vor allem bei der Aufnahme von Armen und Fremden zeige man Eifer und Sorge, denn besonders in ihnen wird Christus aufgenommen.«[43] Das waren nicht nur Worte: Jahrhundertelang waren die Benediktinerklöster Zufluchtsorte für Witwen, verlassene Kinder, Pilger und Bettler. Für Benedikt war das Gemeinschaftsleben eine Schule der Nächstenliebe. Die körperliche Arbeit hatte nicht bloß eine praktische Funktion, sondern sie formte auch das Herz für den Dienst. Das miteinander Teilen unter den Mönchen, die Aufmerksamkeit für die Kranken und das Hören auf die Schwächsten bereiteten darauf vor, Christus aufzunehmen, der in der Person eines Armen und eines Fremden erscheint. Die klösterliche Gastfreundschaft der Benediktiner ist auch heute noch Zeichen einer Kirche, die ihre Türen öffnet, die aufnimmt, ohne zu fragen, die heilt, ohne etwas als Gegenleistung zu verlangen.

56. Im Laufe der Zeit wurden die Benediktinerklöster zu Orten, die einer Kultur der Ausgrenzung entgegenwirkten. Die Mönche bewirtschafteten das Land, produzierten Lebensmittel, stellten Medikamente her und gaben sie auf einfache Weise an die Bedürftigsten weiter. Ihre stille Arbeit war der Sauerteig für eine neue Zivilisation, in der die Armen nicht als ein zu lösendes Problem gesehen wurden, sondern als Brüder und Schwestern, die es aufzunehmen galt. Die Regel des Teilens, die gemeinsame Arbeit und die Hilfe für die Schwachen waren Eckpunkte einer solidarischen Wirtschaft, die im Gegensatz zur Logik des Anhäufens stand. Das Zeugnis der Mönche zeigte, dass freiwillige Armut nichts mit Elend zu tun hat, sondern ein Weg der Freiheit und der Gemeinschaft ist. Sie beschränkten sich nicht darauf, den Armen zu helfen, sondern wurden ihnen zu Nächsten, zu Brüdern im selben Herrn. In den Klosterzellen und in den Kreuzgängen war eine Mystik der Gegenwart Gottes in den Kleinen entstanden.

57. Über die materielle Unterstützung hinaus spielten Klöster eine grundlegende Rolle für die kulturelle und geistliche Bildung der Ärmsten. In Zeiten von Pest, Krieg und Hungersnot waren sie Orte, an denen die Bedürftigen Brot und Medizin, aber auch Würde und Zuspruch fanden. Dort wurden Waisenkinder erzogen, Lehrlinge ausgebildet und Bauern in landwirtschaftlichen Techniken und im Lesen unterrichtet. Das Wissen wurde als Geschenk und als Verantwortung weitergegeben. Der Abt war sowohl Lehrer als auch Vater, und die monastische Schule war ein Ort der Befreiung durch die Wahrheit. Denn, wie Johannes Cassianus schreibt, muss der Mönch sich »bestreben, vor allem eine unveränderliche Demut des Herzens zu erlangen, damit er nicht zu jenem Wissen geführt werde, das aufbläht, sondern zu jenem, das erleuchtet durch die Vollendung der Liebe«.[44] Durch die Bildung des Gewissens und die Weitergabe von Weisheit trugen die Mönche zu einer christlichen Pädagogik der Inklusion bei. Die vom Glauben geprägte Kultur wurde in Einfachheit geteilt. Das von der Liebe erleuchtete Wissen wurde zum Dienst. So erwies sich das monastische Leben als ein Stil der Heiligkeit und als ein konkreter Weg, um die Gesellschaft zu verändern.

58. Die monastische Tradition lehrt auf diese Weise, dass Gebet und Nächstenliebe, Stille und Dienst, Klosterzellen und Krankenhäuser ein einziges geistliches Gewebe bilden. Das Kloster ist ein Ort des Zuhörens und des Handelns, des Gottesdienstes und des miteinander Teilens. Der große Zisterzienser-Reformer Bernhard von Clairvaux »wies […] mit Entschiedenheit auf die Notwendigkeit eines einfachen und maßvollen Lebens hin, sowohl was das Essen wie die Kleidung und die Klosterbauten betraf, und empfahl die Unterstützung und Sorge für die Armen«.[45] Für ihn war Mitgefühl keine Nebensache, sondern der wahre Weg der Nachfolge Christi. Das Klosterleben zeigt also, wenn es seiner ursprünglichen Berufung treu bleibt, dass die Kirche nur dann ganz Braut des Herrn ist, wenn sie auch Schwester der Armen ist. Das Kloster ist nicht nur ein Ort der Zuflucht vor der Welt, sondern eine Schule, in der man lernt, der Welt besser zu dienen. Dort, wo die Mönche ihre Türen für die Armen geöffnet haben, hat die Kirche mit Demut und Entschlossenheit gezeigt, dass die Kontemplation die Barmherzigkeit nicht ausschließt, sondern sie vielmehr als ihre reinste Frucht erfordert.

Die Gefangenen befreien

59. Schon zu Zeiten der Apostel hat die Kirche in der Befreiung der Unterdrückten ein Zeichen des Reiches Gottes gesehen. Jesus selbst hat zu Beginn seines öffentlichen Wirkens verkündet: »Der Geist des Herrn ruht auf mir; denn er hat mich gesalbt. Er hat mich gesandt, damit ich den Armen eine frohe Botschaft bringe; damit ich den Gefangenen die Entlassung verkünde« (Lk 4,18). Auch unter prekären Bedingen beteten die ersten Christen für ihre gefangenen Brüder und Schwestern und standen ihnen bei, wie die Apostelgeschichte (vgl. 12,5; 24,23) und verschiedene Schriften der Kirchenväter bezeugen. Dieses befreiende Wirken setzte sich über die Jahrhunderte in konkreten Taten fort, vor allem als das Drama der Sklaverei und Gefangenschaft ganze Gesellschaften prägte.

60. Zwischen dem Ende des 12. und dem Beginn des 13. Jahrhunderts, als viele Christen im Mittelmeerraum gefangen genommen oder im Zuge der Kriege in die Sklaverei verschleppt wurden, entstanden zwei religiöse Orden: der Orden der Allerheiligsten Dreifaltigkeit von der Befreiung der Gefangenen (Trinitarier), gegründet von den Heiligen Johannes von Matha und Felix von Valois, sowie der Orden der Seligen Jungfrau Maria von der Barmherzigkeit (Mercedarier), gegründet vom heiligen Petrus Nolascus mit Unterstützung des heiligen Dominikaners Raimund von Peñafort. Seit ihrer Entstehung hatten diese Ordensgemeinschaften das besondere Charisma, versklavte Christen zu befreien, indem sie für sie ihren Besitz zur Verfügung stellten[46] und oft sogar ihr Leben einsetzten. Die Trinitarier mit ihrem Motto Gloria Tibi Trinitas et captivis libertas (Ehre sei dir, Dreifaltigkeit, und den Gefangenen Freiheit) und die Mercedarier, die den Ordensgelübden der Armut, des Gehorsams und der Keuschheit ein viertes Gelübde hinzufügten,[47] bezeugten, dass Nächstenliebe heroisch sein kann. Die Befreiung der Gefangenen ist ein Ausdruck der dreifaltigen Liebe: eines Gottes, der nicht nur von geistlicher Knechtschaft befreit, sondern auch von konkreter Unterdrückung. Die Geste der Befreiung aus Sklaverei und Gefangenschaft wird als Fortsetzung des Erlösungsopfers Christi gesehen, dessen Blut der Preis für unsere Befreiung ist (vgl. 1 Kor 6,20).

61. Die ursprüngliche Spiritualität dieser Orden war tief in der Betrachtung des Kreuzes verwurzelt. Christus ist der Erlöser der Gefangenen schlechthin, und die Kirche, sein Leib, lebt weiter dieses Geheimnis.[48] Die Ordensleute sahen das Freikaufen der Gefangenen nicht als eine politische oder wirtschaftliche Handlung, sondern als einen beinahe liturgischen Akt, als sakramentale Hingabe ihrer selbst. Viele stellten sich mit ihrem eigenen Leib zum Tausch für die Gefangenen zur Verfügung und erfüllten damit buchstäblich das Gebot: »Es gibt keine größere Liebe, als wenn einer sein Leben für seine Freunde hingibt« (Joh 15,13). Die Tradition dieser Orden ist nicht vorbei. Im Gegenteil: Angesichts der modernen Formen von Sklaverei wie Menschenhandel, Zwangsarbeit, sexuelle Ausbeutung und verschiedene Arten von Abhängigkeit[49] gab sie wichtige Impulse für neue Formen des Handelns. Wenn die christliche Nächstenliebe konkret gelebt wird, dann wirkt sie befreiend. Und die Sendung der Kirche, wenn sie ihrem Herrn treu ist, besteht immer darin, die Befreiung zu verkünden. Auch heute noch, wenn »Millionen Menschen – Kinder, Männer und Frauen jeden Alters – ihrer Freiheit beraubt und gezwungen [werden], unter Bedingungen zu leben, die denen der Sklaverei vergleichbar sind«,[50] wird dieses Erbe von diesen Orden und anderen Institutionen und Kongregationen weitergetragen, die in städtischen Randgebieten, Konfliktgebieten und auf Migrationsrouten tätig sind. Wenn die Kirche sich hinabbeugt, um die neuen Ketten zu sprengen, die die Armen fesseln, dann wird sie zu einem österlichen Zeichen.

62. Diese Überlegungen über Menschen, denen die Freiheit genommen wurde, können nicht abgeschlossen werden, ohne die Häftlinge in den verschiedenen Haftanstalten und Internierungszentren zu erwähnen. In diesem Zusammenhang sei an die Worte erinnert, die Papst Franziskus an eine Gruppe von ihnen gerichtet hat: »Für mich ist das Betreten eines Gefängnisses immer ein wichtiger Moment, denn das Gefängnis ist ein Ort großer Menschlichkeit. […] Von einer Menschlichkeit, die von Schwierigkeiten, Schuldgefühlen, Urteilen, Missverständnissen und Leiden geplagt ist, die aber gleichzeitig voller Kraft ist, voller Sehnsucht nach Vergebung, voller Sehnsucht nach Erlösung.«[51] Unter anderem diesen Wunsch haben sich auch die Orden, die sich der Befreiung von Gefangenen widmen, als vorrangigen Dienst an der Kirche zu eigen gemacht. Wie der heilige Paulus verkündete: »Zur Freiheit hat uns Christus befreit« (Gal 5,1). Und diese Freiheit ist nicht bloß eine innere: Sie zeigt sich in der Geschichte als Liebe, die sich um andere kümmert und von allen Fesseln der Knechtschaft befreit.

Zeugen evangeliumsgemäßer Armut

63. Im 13. Jahrhundert, als die Städte wuchsen, der Reichtum sich mancherorts häufte und neue Formen der Armut entstanden, brachte der Heilige Geist eine neue Art gottgeweihten Lebens in der Kirche hervor: die Bettelorden. Im Gegensatz zum ortsbeständigen Klosterleben führten die Bettelmönche ein Leben auf der Wanderschaft, ohne persönlichen oder gemeinschaftlichen Besitz, ganz auf die Vorsehung angewiesen. Sie begnügten sich nicht damit, den Armen zu dienen, sondern wurden arm wie sie. Sie sahen die Stadt als eine neue Wüste an und die Ausgegrenzten als neue geistliche Lehrer. Diese Orden – wie die Franziskaner, Dominikaner, Augustiner und Karmeliter – stellten eine Revolution im Sinne des Evangeliums dar und ihre einfache und arme Lebensweise wurde zu einem prophetischen Zeichen für die Mission, indem sie die Erfahrung der ersten christlichen Gemeinschaft wiederaufleben ließen (vgl. Apg 4,32). Das Zeugnis der Bettelorden forderte sowohl die klerikale Opulenz als auch die Kaltherzigkeit der städtischen Gesellschaft heraus.

64. Der heilige Franz von Assisi wurde zur Ikone dieses geistlichen Frühlings. Indem er sich mit der Armut vermählte, wollte er den armen, nackten und gekreuzigten Christus nachahmen. In seiner Regel verlangt er, »die Brüder sollen sich nichts aneignen, weder Haus noch Ort noch irgendeine andere Sache. Und gleichwie Pilger und Fremdlinge in dieser Welt, die dem Herrn in Armut und Demut dienen, mögen sie voll Vertrauen um Almosen bitten gehen; und sie sollen sich dabei nicht schämen, weil der Herr sich für uns in dieser Welt arm gemacht hat.« [52] Sein Leben war eine ständige Entäußerung: vom Palast zum Aussätzigen, von der Beredsamkeit zum Schweigen, vom Besitz zur völligen Hingabe. Franziskus hat keine Sozialeinrichtung gegründet, sondern eine Gemeinschaft von Brüdern im Sinne des Evangeliums. In den Armen sah er Geschwister und lebendige Abbilder des Herrn. Seine Sendung war es, unter ihnen zu sein, aus einer Solidarität und mitfühlenden Liebe heraus, die alle Distanz überwand. Seine Armut war beziehungsorientiert: Sie ließ ihn zum Nächsten seiner Mitmenschen werden, ihnen gleich, ja sogar geringer als sie. Seine Heiligkeit entsprang der Überzeugung, dass man Christus nur dann wahrhaft empfangen kann, wenn man das eigene Leben großzügig zu einer Gabe für die Brüder und Schwestern macht.

65. Die heilige Klara von Assisi gründete, inspiriert von Franziskus, den Orden der Armen Damen, die später Klarissen genannt wurden. Ihr geistlicher Kampf bestand darin, das Ideal der radikalen Armut treu zu bewahren. Sie lehnte die päpstlichen Privilegien ab, die ihrem Kloster materielle Sicherheit garantieren konnten, und mit ihrer Entschlossenheit erhielt sie von Papst Gregor IX. das sogenannte Privilegium Paupertatis verliehen, das das Recht garantierte, ohne jeglichen materiellen Besitz zu leben.[53] Diese Wahl war Ausdruck ihres völligen Vertrauens auf Gott wie auch ihres Bewusstseins, dass die freiwillige Armut eine Form von Freiheit und Prophetie ist. Klara lehrte ihre Schwestern, dass Christus ihr einziges Erbe sei und dass nichts die Gemeinschaft mit ihm trüben dürfe. Ihr Leben im Gebet und im Verborgenen war ein lauter Ruf gegen die Weltlichkeit und eine stille Verteidigung der Armen und Vergessenen.

66. Der heilige Dominikus von Guzmán, ein Zeitgenosse des heiligen Franziskus, gründete den Predigerorden, mit einem anderen Charisma, aber mit derselben Radikalität. Er wollte das Evangelium mit jener Kraft verkünden, die aus einem Leben in Armut kommt, und er war überzeugt davon, dass die Wahrheit glaubwürdige Zeugen braucht. Das Beispiel eines Lebens in Armut ging mit dem gepredigten Wort einher. Frei von der Last weltlicher Güter konnten sich die Dominikaner besser ihrer Hauptaufgabe widmen, nämlich der Predigt. Sie begaben sich in die Städte, vor allem in Universitätsstädte, um die Wahrheit Gottes zu lehren.[54] Durch ihre Abhängigkeit von anderen zeigten sie, dass der Glaube nicht aufgezwungen werden kann, sondern ein Angebot darstellt. Und indem sie unter den Armen lebten, lernten sie die Wahrheit des Evangeliums „von unten”, als Jünger des gedemütigten Christus.

67. Die Bettelorden waren somit eine lebendige Antwort auf Ausgrenzung und Gleichgültigkeit. Sie schlugen nicht ausdrücklich soziale Reformen vor, sondern eine persönliche und gemeinschaftliche Bekehrung hin zur Logik des Reiches Gottes. Für sie war Armut keine Folge eines Mangels an Gütern, sondern eine freie Entscheidung: sich klein zu machen, um sich der Kleinen anzunehmen. Wie Thomas von Celano über Franziskus sagte: »Schon trat Franziskus als besonderer Liebhaber der Armen auf […]. Oft zog er darum seine Kleider aus und tauschte sie mit den Armen, denen er […] ganz ähnlich zu werden sich bemühte.«[55] Die Bettelmönche wurden zum Symbol einer pilgernden, demütigen und geschwisterlichen Kirche, die nicht mit dem Ziel des Proselytismus unter den Armen lebt, sondern um sich mit ihnen zu identifizieren. Sie lehren, dass die Kirche nur dann Licht ist, wenn sie sich aller Dinge entledigt, und dass Heiligkeit aus einem demütigen Herzen kommt, das sich der Kleinsten annimmt.

Die Kirche und die Unterweisung der Armen

68. Als sich Papst Franziskus an einige Erzieher wandte, erinnerte er daran, dass die Erziehung seit jeher eine der höchsten Ausdrucksformen der christlichen Nächstenliebe ist: »Eure Sendung ist voller Hindernisse, aber auch voller Freuden. […] Eine Mission der Liebe, weil man nicht unterrichten kann ohne Liebe.«[56] In diesem Sinne haben die Christen seit frühester Zeit verstanden, dass Wissen befreit, Würde verleiht und näher zur Wahrheit führt. Für die Kirche war die Unterweisung der Armen ein Akt der Gerechtigkeit und des Glaubens. Durch das Beispiel des Meisters inspiriert, der die Menschen die göttlichen und menschlichen Wahrheiten lehrte, hat sie es sich zur Aufgabe gemacht, Kinder und Jugendliche, insbesondere die Ärmsten, in der Wahrheit und der Liebe zu erziehen. Diese Aufgabe hat mit der Gründung von Kongregationen, die sich der Volksbildung widmen, Gestalt angenommen.

69. Im 16. Jahrhundert gründete der heilige Josef von Calasanz, den die mangelnde Bildung und Ausbildung armer Jugendlicher in Rom betroffen machte, in einigen Räumen neben der Kirche Santa Dorotea im Stadtteil Trastevere die erste kostenlose öffentliche Volksschule Europas. Dies war die Keimzelle, aus der sich dann, nicht ohne Schwierigkeiten, der Orden der Armen Regularkleriker der Mutter Gottes von den Frommen Schulen entwickelte, kurz Piaristen genannt. Sie hatte das Ziel, den Jugendlichen »neben weltlichem Wissen auch die Weisheit des Evangeliums [zu vermitteln], indem man sie lehrt, in den persönlichen Ereignissen und in der Geschichte das liebevolle Wirken Gottes zu erkennen, des Schöpfers und Erlösers«.[57] Tatsächlich können wir diesen mutigen Priester als den »wahren Begründer der modernen katholischen Schule [ansehen], die auf die ganzheitliche Bildung des Menschen ausgerichtet ist und allen offensteht«. [58] Mit derselben Motivation, gründete der heilige Johannes Baptist de La Salle im 17. Jahrhundert die Brüder der Christlichen Schulen, als er die Ungerechtigkeit erkannte, die durch den Ausschluss der Kinder von Arbeitern und Bauern aus dem französischen Bildungssystem seiner Zeit verursacht wurde. Sein Ideal war es, ihnen kostenlose Bildung, eine solide Erziehung und ein brüderliches Umfeld zu bieten. La Salle sah im Klassenzimmer einen Ort für die Förderung des Menschen, aber auch der Bekehrung. In seinen Internaten bildeten Gebet, Wissensvermittlung, Disziplin und das Miteinander eine Einheit. Jedes Kind wurde als einzigartiges Geschenk Gottes betrachtet und die Unterweisung als ein Dienst am Reich Gottes.

70. Im 19. Jahrhundert gründete der heilige Marcellin Champagnat ebenfalls in Frankreich das Institut der Maristen-Schulbrüder. »Er hatte ein Gespür für die geistigen und erzieherischen Bedürfnisse seiner Zeit, vor allem für religiöse Unkenntnis und für die Situationen der Verlassenheit, die sich besonders bei der Jugend fanden.«[59] Und er widmete sich in einer Zeit, in der der Zugang zur Bildung noch immer ein Privileg weniger war, von ganzem Herzen der Aufgabe, Kinder und Jugendliche, insbesondere die Bedürftigsten, zu erziehen und ihnen das Evangelium zu verkünden. Im gleichen Geist begann der heilige Johannes Bosco in Italien das große Werk der Salesianer, das sich auf die drei Prinzipien der „vorbeugenden Methode“ – Vernunft, Religion und Liebenswürdigkeit –[60] stützte. Und der selige Antonio Rosmini gründete das Institut der Nächstenliebe, in dem die „intellektuelle Nächstenliebe“ – zusammen mit der „materiellen“ sowie insbesondere der „geistlich-pastoralen“ – als unverzichtbare Dimension jeder karitativen Tätigkeit galt, die das Wohl und die ganzheitliche Entwicklung des Menschen zum Ziel hat.[61]

71. Viele weibliche Kongregationen spielten bei dieser pädagogischen Revolution eine bedeutende Rolle. Die Ursulinen, die Ordensschwestern der Gesellschaft Unserer Lieben Frau Maria, die Maestre Pie und viele andere, die vor allem im 18. und 19. Jahrhundert gegründet wurden, füllten die Räume, wo der Staat eine Lücke ließ. Sie gründeten Schulen in kleinen Dörfern, in Vororten und in Arbeitervierteln. Insbesondere die Bildung von Mädchen wurde zu einer Priorität. Die Ordensschwestern brachten ihnen Lesen und Schreiben bei, unterwiesen sie im Glauben, kümmerten sich um die praktischen Belange des Alltags, förderten den Geist durch die Pflege der Künste und bildeten vor allem das Gewissen. Ihre Pädagogik war einfach: Nähe, Geduld, Sanftmut. Sie lehrten eher durch ihr Leben als durch Worte. In Zeiten eines weit verbreiteten Analphabetismus und struktureller Ausgrenzung waren diese gottgeweihten Frauen Lichtblicke der Hoffnung. Ihre Mission war es, das Herz zu bilden, das Denken zu schulen und die Würde zu fördern. Indem sie ein Leben in Frömmigkeit mit dem hingebungsvollen Einsatz für den Nächsten verbanden, kämpften sie gegen die Verwahrlosung, die ihnen begegnete, mit der Zärtlichkeit derer, die im Namen Christi erziehen.

72. Für den christlichen Glauben ist die Unterweisung der Armen keine Gefälligkeit, sondern eine Pflicht. Die Kleinen haben ein Recht auf Wissen, das wesentlich zur Anerkennung ihrer Menschenwürde gehört. Sie zu unterrichten bedeutet, ihre Würde geltend zu machen und ihnen die Mittel an die Hand zu geben, um ihre Lebenssituation zu verändern. In der christlichen Tradition gilt Wissen als ein Geschenk Gottes und als eine gemeinschaftliche Verantwortung. Die christliche Erziehung bildet nicht bloße Fachleute heran, sondern Menschen, die für das Gute, das Schöne und die Wahrheit offen sind. Wenn eine katholische Schule ihrem Namen gerecht wird, ist sie dementsprechend ein Ort der Inklusion, der ganzheitlichen Bildung und der Förderung des Menschen. Indem sie Glauben und Kultur verbindet, eröffnet sie Zukunft, ehrt sie das Abbild Gottes und trägt sie zum Aufbau einer besseren Gesellschaft bei.

Die Begleitung der Migranten

73. Die Erfahrung der Migration begleitet die Geschichte des Volkes Gottes. Abraham bricht auf, ohne zu wissen, wohin er gehen wird; Moses führt das pilgernde Volk durch die Wüste; Maria und Josef fliehen mit dem Kind nach Ägypten. Christus selbst, „der in sein Eigentum kam, den die Seinen aber nicht aufnahmen“ (vgl. Joh 1,11), hat als Fremder unter uns gelebt. Aus diesem Grund hat die Kirche in den Migranten immer die lebendige Gegenwart des Herrn erkannt, der am Tag des Gerichts zu denen, die zu seiner Rechten stehen, sagen wird: »Ich war fremd und ihr habt mich aufgenommen« (Mt 25,35).

74. Im 19. Jahrhundert, als Millionen Europäer auf der Suche nach besseren Lebensbedingungen auswanderten, zeichneten sich zwei große Heilige in der Seelsorge für Migranten aus: der heilige Giovanni Battista Scalabrini und die heilige Francesca Saverio Cabrini. Scalabrini, Bischof von Piacenza, gründete die Kongregation der Missionare vom Heiligen Karl, um die Migranten in ihren Zielländern zu begleiten und ihnen geistliche, rechtliche und materielle Unterstützung zu bieten. Er sah in den Migranten die Adressaten einer neuen Evangelisierung und warnte vor den Gefahren der Ausbeutung und des Glaubensverlustes in der Fremde. Er antwortete großherzig auf das Charisma, das der Herr ihm geschenkt hatte: »Scalabrini besaß Weitblick, er blickte in die Zukunft, auf eine Welt und eine Kirche ohne Schranken, ohne Fremde«[62]. Die heilige Francesca Cabrini, die in Italien geboren und in den Vereinigten Staaten eingebürgert wurde, war die erste US-Bürgerin, die heiliggesprochen wurde. Um ihre Mission zu erfüllen, den Migranten beizustehen, überquerte sie mehrmals den Atlantik und »für die vielen Menschen, die mittellos waren, ohne Sprachkenntnisse, ohne Möglichkeit, in der amerikanischen Gesellschaft Fuß zu fassen, und die häufig Opfer skrupelloser Menschen wurden, schuf sie – von einzigartigem Mut beseelt – aus dem Nichts Schulen, Krankenhäuser und Waisenheime. Ihr rastloses mütterliches Herz erreichte diese Menschen überall: in den Elendsquartieren, Gefängnissen und Bergwerken.«[63] Im Heiligen Jahr 1950 erklärte Papst Pius XII. sie zur Patronin aller Migranten.[64]

75. Die Tradition des kirchlichen Engagements für und mit Migranten geht weiter und heute kommt dieser Dienst in Initiativen wie Aufnahmezentren für Flüchtlinge, Missionsstationen an den Grenzen, den Bemühungen der Caritas Internationalis und anderer Institutionen zum Ausdruck. Das heutige Lehramt spricht sich sehr für dieses Engagement aus. Papst Franziskus hat daran erinnert, dass die Aufgabe der Kirche gegenüber Migranten und Flüchtlingen noch umfassender ist. Immer wieder hat er betont, dass sich »die Antwort auf die Herausforderung der gegenwärtigen Migration […] in vier Verben zusammenfassen [lässt]: aufnehmen, schützen, fördern und integrieren. Aber diese Verben gelten nicht nur bezüglich der Migranten und Flüchtlinge. Sie beschreiben die Sendung der Kirche zu den Menschen an den Rändern der Existenz, die aufgenommen, geschützt, gefördert und integriert werden müssen.[65] Und er sagte auch: »Jeder Mensch ist Kind Gottes! Ihm ist das Bild Christi eingeprägt! Es geht also darum, dass wir als Erste, und dann mit unserer Hilfe auch die anderen, im Migranten und im Flüchtling nicht nur ein Problem sehen, das bewältigt werden muss, sondern einen Bruder und eine Schwester, die aufgenommen, geachtet und geliebt werden müssen – eine Gelegenheit, welche die Vorsehung uns bietet, um zum Aufbau einer gerechteren Gesellschaft, einer vollkommeneren Demokratie, eines solidarischeren Landes, einer brüderlicheren Welt und einer offeneren christlichen Gemeinschaft entsprechend dem Evangelium beizutragen.«[66] Wie eine Mutter, begleitet die Kirche alle, die unterwegs sind. Wo die Welt Bedrohungen sieht, sieht sie Kinder; wo Mauern errichtet werden, baut sie Brücken. Sie weiß, dass ihre Verkündigung nur dann glaubwürdig ist, wenn sie sich in Gesten der Nähe und der Aufnahme ausdrückt; und dass in jedem zurückgewiesenen Migranten Christus selbst an die Türen der Gemeinschaft klopft.

An der Seite der Geringsten

76. Christliche Heiligkeit blüht oft da, wo Menschen am stärksten in Vergessenheit geraten sind und leiden. Die Ärmsten der Armen – diejenigen, denen es nicht nur an Gütern mangelt, sondern auch an Stimme und Anerkennung ihrer Würde – nehmen einen besonderen Platz im Herzen Gottes ein. Sie sind die Auserwählten des Evangeliums, die Erben des Reiches Gottes (vgl. Lk 6,20). In ihnen fährt Christus fort zu leiden und aufzuerstehen. Durch sie entdeckt die Kirche wieder neu, dass sie gerufen ist, zu zeigen was ihr eigentliches Wesen ist.

77. Die 2016 heiliggesprochene Teresa von Kalkutta ist zu einer universalen Ikone jener Nächstenliebe geworden, die sich bis zum Äußersten für die Ärmsten, für die Ausgestoßenen der Gesellschaft einsetzt. Als Gründerin der Missionarinnen der Nächstenliebe widmete sie ihr Leben den verlassenen Sterbenden auf den Straßen Indiens. Sie nahm die Ausgestoßenen mit, wusch ihre Wunden und begleitete sie bis zu deren Tod mit einer Zärtlichkeit, die einem Gebet gleichkam. Ihre Liebe zu den Ärmsten der Armen führte dazu, dass sie sich nicht bloß um deren materielle Bedürfnisse kümmerte, sondern ihnen auch die frohe Botschaft des Evangeliums verkündete: »Wir möchten den Armen die frohe Botschaft verkünden, dass Gott sie liebt, dass wir sie lieben, dass sie für uns wichtig sind, dass auch sie von derselben liebenden Hand Gottes geschaffen wurden, um zu lieben und um geliebt zu werden. Unsere armen Menschen sind großartige Menschen, sie sind sehr liebenswerte Menschen, sie brauchen nicht unser Mitleid und unser Mitgefühl, sie brauchen unsere einfühlsame Liebe. Sie brauchen unseren Respekt, sie brauchen, dass wir sie mit Würde behandeln.«[67] All dies entsprang einer tiefen Spiritualität, die den Dienst an den Ärmsten als Frucht des Gebets und der Liebe ansah, die die Quelle wahren Friedens ist, wie Papst Johannes Paul II. den Pilgern in Erinnerung rief, die zu ihrer Seligsprechung nach Rom gekommen waren: »Wo fand Mutter Teresa die Kraft, um sich vollkommen in den Dienst an den Mitmenschen zu stellen? Sie fand sie im Gebet und in der stillen Betrachtung Jesu Christi, seines Heiligen Antlitzes und seines Heiligsten Herzens. Sie selbst brachte dies mit folgenden Worten zum Ausdruck: „Die Frucht der Stille ist das Gebet; die Frucht des Gebets ist der Glaube; die Frucht des Glaubens ist die Liebe; die Frucht der Liebe ist der Dienst; die Frucht des Dienstes ist der Friede.“ […] Dies war das Gebet, das ihr Herz mit dem Frieden Christi selbst erfüllte und ihr ermöglichte, diesen Frieden auch auf andere auszustrahlen.« [68] Teresa sah sich nicht als Philanthropin oder Aktivistin, sondern als Braut des gekreuzigten Christus, dem sie in den leidenden Brüdern und Schwestern mit ganzer Liebe diente.

78. In Brasilien verkörperte die heilige Dulce dos Pobres – bekannt als „der gute Engel von Bahia“ – denselben Geist des Evangeliums auf typisch brasilianische Weise. Mit Blick auf sie und zwei weitere Ordensfrauen, die im Rahmen derselben Feier heiliggesprochen wurden, erinnerte Papst Franziskus an ihre Liebe zu denen, die ganz am Rande der Gesellschaft stehen. Die neuen Heiligen, sagte er, »zeigen uns, dass das Ordensleben ein Weg der Liebe an den existentiellen Rändern der Welt ist«.[69] Schwester Dulce begegnete der Unsicherheit mit Kreativität, den Widerständen mit Zärtlichkeit und der Bedürftigkeit mit unerschütterlichem Glauben. Anfangs brachte sie Kranke in einem Hühnerstall unter und von dort aus gründete sie eines der größten sozialen Hilfswerke des Landes. Sie stand täglich Tausenden von Menschen bei, ohne jemals ihr Feingefühl zu verlieren. Aus Liebe zu dem, der im höchsten Maße arm ist, begab sie sich als Arme unter die Armen. Sie lebte mit wenig, betete inbrünstig und diente mit Freude. Ihr Glaube entfernte sie nicht von der Welt, sondern ließ sie das Leid der Geringsten noch tiefer mitfühlen.

79. Man könnte auch an den heiligen Benedetto Menni und die Hospitalschwestern vom Heiligen Herzen Jesu erinnern, die sich um Menschen mit Behinderungen kümmerten; an den heiligen Charles de Foucauld inmitten der Gemeinschaften der Sahara; an die heilige Katharine Drexel, die besonders benachteiligten Bevölkerungsgruppen in Nordamerika beiseitestand; an Schwester Emmanuelle, die mit den Müllsammlern im Kairoer Stadtteil Ezbet El Nakhl lebte; und an sehr viele andere. Alle haben auf ihre Weise entdeckt, dass die Ärmsten nicht bloße Adressaten unseres Mitgefühls sind, sondern Lehrer des Evangeliums. Es geht nicht darum, Gott zu ihnen „zu bringen”, sondern ihm bei ihnen zu begegnen. All diese Beispiele lehren uns, dass der Dienst an den Armen nicht eine Geste „von oben nach unten“ ist, sondern eine Begegnung unter Gleichen, in der Christus offenbar und verehrt wird. Der heilige Johannes Paul II. hat uns daran erinnert, dass »in den Armen Christus in besonderer Weise gegenwärtig [ist], was der Kirche eine vorrangige Option für sie auferlegt«.[70] Wenn die Kirche sich also hinabbeugt, um sich der Armen anzunehmen, dann nimmt sie ihre erhabenste Haltung ein.

Volksbewegungen

80. Wir müssen auch anerkennen, dass im Laufe der Jahrhunderte der christlichen Geschichte die Hilfe für die Armen und der Kampf für ihre Rechte nicht nur einzelne Personen, einige Familien, Institutionen oder religiöse Gemeinschaften betrafen. Es gab und gibt verschiedene Volksbewegungen, die aus Laien bestehen und von volksnahen Führungspersönlichkeiten geleitet werden, und die oft verdächtigt, ja verfolgt werden. Ich beziehe mich auf eine »Gesamtheit von Menschen, die nicht als Einzelpersonen unterwegs sind, sondern als Gefüge einer Gemeinschaft aus allen und für alle, die es nicht zulassen kann, dass die Ärmsten und Schwächsten zurückbleiben: […] Volksnahe Führungsgestalten besitzen also die Fähigkeit, alle zu beteiligen […] Sie empfinden weder Furcht noch Abscheu vor den jungen Menschen, die Verwundungen oder die Last eines Kreuzes zu tragen haben.«[71]

81. Diese volksnahen Führungspersönlichkeiten wissen, dass Solidarität auch bedeutet, »dass man gegen die strukturellen Ursachen der Armut kämpft: Ungleichheit, das Fehlen von Arbeit, Boden und Wohnung, die Verweigerung der sozialen Rechte und der Arbeitsrechte. Es bedeutet, dass man gegen die zerstörerischen Auswirkungen der Herrschaft des Geldes kämpft: […]. Die Solidarität, verstanden in ihrem tiefsten Sinne, ist eine Art und Weise, Geschichte zu machen, und genau das ist es, was die Volksbewegungen tun.«[72] Aus diesem Grund ist es notwendig, dass die verschiedenen Institutionen, wenn sie über die Bedürfnisse der Armen nachdenken, »die Volksbewegungen mit einschließen und die lokalen, nationalen und internationalen Regierungsstrukturen mit jenem Strom moralischer Energie beleben, der der Miteinbeziehung der Ausgeschlossenen in den Aufbau unseres gemeinsamen Schicksals entspringt«.[73] Die Volksbewegungen fordern nämlich dazu auf, die »Vorstellung von einer Sozialpolitik, die verstanden wird als eine Politik gegenüber den Armen, aber nie mit den Armen, die nie die Politik der Armen ist und schon gar nicht in einen völkerverbindenden Plan integriert ist«,[74] zu überwinden. Wenn Politiker und Fachleute ihnen nicht zuhören, »verkümmert die Demokratie, wird sie zum Nominalismus, zur Formalität, verliert sie ihre Repräsentativität, wird sie entleiblicht, weil sie das Volk außen vor lässt in seinem Kampf um die Würde, beim Aufbau seines Schicksals«.[75] Dasselbe gilt für die kirchlichen Institutionen.

KAPITEL IV

EINE GESCHICHTE, DIE WEITERGEHT

Das Jahrhundert der Soziallehre der Kirche

82. Die sich beschleunigenden technologischen und sozialen Veränderungen der vergangenen zwei Jahrhunderte, die von tragischen Widersprüchen geprägt waren, haben die Armen nicht einfach nur hingenommen, sondern sie sind damit umgegangen und haben darüber nachgedacht. Die Arbeiter-, Frauen- und Jugendbewegungen sowie der Kampf gegen rassistische Diskriminierung haben zu einem neuen Bewusstsein für die Würde derjenigen beigetragen, die am Rande der Gesellschaft stehen. Auch der Beitrag der Soziallehre der Kirche hat diese Wurzeln im Volk, die nicht vergessen werden dürfen: Ihre Neuauslegung der christlichen Offenbarung unter den modernen Gesellschafts-, Arbeits-, Wirtschafts- und kulturellen Verhältnissen wäre ohne die Laien undenkbar, die es mit den Herausforderungen ihrer Zeit zu tun hatten. An ihrer Seite wirkten Ordensleute, als Zeugen einer Kirche, die über die bereits beschrittenen Wege hinausgeht. Der Epochenwechsel, den wir erleben, macht die kontinuierliche Interaktion zwischen Getauften und Lehramt, zwischen Bürgern und Experten, zwischen Volk und Institutionen heute noch notwendiger. Insbesondere muss von neuem erkannt werden, dass die Wirklichkeit von den Rändern besser zu sehen ist und dass die Armen über eine ihnen eigene Intelligenz verfügen, die für die Kirche und die Menschheit unverzichtbar ist.

83. Das Lehramt der letzten 150 Jahre bietet eine wahre Fundgrube wertvoller Lehren über die Armen. So machten sich die Bischöfe von Rom zur Stimme neuer Erkenntnisse, die zuvor einen Prozess der Prüfung und Unterscheidung in der Kirche durchlaufen hatten. In der Enzyklika Rerum novarum (1891) befasste sich Leo XIII. beispielsweise mit der Frage der Arbeit, deckte die unerträgliche Lage vieler Industriearbeiter auf und sprach sich für die Schaffung einer gerechten Gesellschaftsordnung aus. In diesem Sinne haben sich auch andere Päpste geäußert. Johannes XXIII. setze sich mit der Enzyklika Mater et Magistra (1961) für eine weltweite Gerechtigkeit ein: Die reichen Länder durften angesichts der von Hunger und Elend bedrängten Länder nicht gleichgültig bleiben, sondern sollten diesen mit all ihren Gütern großzügig helfen.

84. Bezüglich der Frage der Armen stellt das Zweite Vatikanische Konzil einen wesentlichen Meilenstein des kirchlichen Erkenntnisprozesses im Lichte der Offenbarung dar. Obwohl in den Vorbereitungsdokumenten diesem Aspekt nur am Rande Beachtung geschenkt wurde, lenkte der heilige Johannes XXIII. mit seiner Radiobotschaft vom 11. September 1962, einen Monat vor Eröffnung des Konzils, mit unvergesslichen Worten die Aufmerksamkeit auf dieses Thema: »Die Kirche zeigt sich, wie sie ist und wie sie sein will, als die Kirche aller und besonders als die Kirche der Armen.«[76] In der Folge waren es um die Erneuerung der Kirche bemühte Bischöfe, Theologen und Experten – mit der Unterstützung des heiligen Johannes XXIII. selbst –, die durch ihre bedeutende Arbeit eine Neuausrichtung des Konzils bewirkten. Von grundlegender Bedeutung ist der christozentrische, also lehrmäßige und nicht nur soziale Charakter dieser Bewegung. Zahlreiche Konzilsväter förderten die Festigung eines Bewusstseins, das Kardinal Lercaro in seiner denkwürdigen Rede vom 6. Dezember 1962 so treffend zum Ausdruck brachte: »Das Geheimnis Christi in der Kirche war immer, und ist es heute ganz besonders, das Geheimnis Christi in den Armen.«[77] Und weiter: »Es handelt sich nicht um irgendein Thema, sondern in gewisser Weise um das einzige Thema des ganzen Zweiten Vatikanischen Konzils.«[78] Der Erzbischof von Bologna vermerkte bei der Vorbereitung des Textes dieser Rede: »Dies ist die Stunde der Armen, der Millionen Armen auf der ganzen Welt, dies ist die Stunde des Geheimnisses der Kirche als Mutter der Armen, dies ist die Stunde des Geheimnisses Christi insbesondere in den Armen.«[79] Damit wurde die Notwendigkeit einer neuen, einfacheren und schlichteren Form der Kirche deutlich, die das gesamte Volk Gottes und seine geschichtliche Gestalt miteinbezieht. Eine Kirche, die ihrem Herrn ähnlicher ist als den weltlichen Mächten, und der es darum geht, die gesamte Menschheit zu einem konkreten Engagement für die Lösung des großen Problems der Armut in der Welt anzuregen.

85. Der heilige Paul VI. griff bei der Eröffnung der zweiten Sitzungsperiode des Konzils das Thema seines Vorgängers wieder auf, nämlich dass die Kirche mit besonderem Interesse »auf die Armen, die Bedürftigen, die Bedrängten, die Hungrigen, die Leidenden, die Gefangenen [sieht], sie also auf die ganze leidende und weinende Menschheit blickt: Nach dem Recht des Evangeliums gehört sie zu ihr.«[80] In der Generalaudienz vom 11. November 1964 betonte er, dass »der Arme ein Repräsentant Christi ist«, und stellte eine Verbindung her zwischen den beiden Arten, wie Christus einerseits durch die Armen und andererseits durch den Papst repräsentiert wird: »Die Repräsentation Christi durch den Armen ist universal, jeder Arme spiegelt Christus wider; jene des Papstes ist eine persönliche. […] Der Arme und Petrus können zusammenfallen, sie können dieselbe Person sein, der eine doppelte Repräsentation zukommt, die der Armut und die der Autorität.«[81] Auf diese Weise wurde die innere Verbindung zwischen der Kirche und den Armen mit beispielloser Klarheit bildhaft zum Ausdruck gebracht.

86. In der Pastoralkonstitution Gaudium et spes aktualisiert das Konzil das Erbe der Kirchenväter und bekräftigt nachdrücklich die universale Bestimmung der Güter der Erde und die sich daraus ergebende soziale Funktion des Eigentums: »Gott hat die Erde mit allem, was sie enthält, zum Nutzen aller Menschen und Völker bestimmt; darum müssen diese geschaffenen Güter in einem billigen Verhältnis allen zustatten kommen; […]. Darum soll der Mensch, der sich dieser Güter bedient, die äußeren Dinge, die er rechtmäßig besitzt, nicht nur als ihm persönlich zu eigen, sondern muss er sie zugleich auch als Gemeingut ansehen in dem Sinn, dass sie nicht ihm allein, sondern auch anderen von Nutzen sein können. Zudem steht allen das Recht zu, einen für sich selbst und ihre Familien ausreichenden Anteil an den Erdengütern zu haben. […] Wer aber sich in äußerster Notlage befindet, hat das Recht, vom Reichtum anderer das Benötigte an sich zu bringen. […] Aber auch das Privateigentum selbst hat eine ihm wesentliche soziale Seite; sie hat ihre Grundlage in der Widmung der Erdengüter an alle. Bei Außerachtlassung dieser seiner sozialen Seite führt das Eigentum in großem Umfang zu Raffgier und schweren Verirrungen; […].«[82] Diese Überzeugung wird vom heiligen Paul VI. in der Enzyklika Populorum progressio wieder aufgegriffen, wo wir lesen, dass niemand »befugt [ist], seinen Überfluss ausschließlich sich selbst vorzubehalten, wo andern das Notwendigste fehlt«.[83] In seiner Rede vor den Vereinten Nationen zeigte sich Papst Montini als Anwalt der armen Völker[84] und forderte die internationale Gemeinschaft auf, sich für eine solidarische Welt einzusetzen.

87. Mit dem heiligen Johannes Paul II. verstetigt sich, zumindest im Bereich der Lehre, die besondere Beziehung der Kirche zu den Armen. Sein Lehramt hat nämlich anerkannt, dass die Option für die Armen »ein besonderer Vorrang in der Weise [ist], wie die christliche Liebe ausgeübt wird; eine solche Option wird von der ganzen Tradition der Kirche bezeugt«.[85] In der Enzyklika Sollicitudo rei socialis schreibt er weiter: »Heute muss angesichts der weltweiten Bedeutung, die die Soziale Frage erlangt hat, diese vorrangige Liebe mit den von ihr inspirierten Entscheidungen die unzähligen Scharen von Hungernden, Bettlern, Obdachlosen, Menschen ohne medizinische Hilfe und vor allem ohne Hoffnung auf eine bessere Zukunft umfassen: Es ist unmöglich, die Existenz dieser Menschengruppen nicht zur Kenntnis zu nehmen. An ihnen vorbeizusehen würde bedeuten, dass wir dem „reichen Prasser“ gleichen, der so tat, als kenne er den Bettler Lazarus nicht, „der vor seiner Tür lag“ (vgl. Lk 16,19-31).«[86] Seine Worte über die Arbeit sind von Bedeutung, wenn wir etwa an die aktive Rolle der Armen für die Erneuerung der Kirche und der Gesellschaft denken und jenen bevormundenden Ansatz hinter uns lassen, der sich darauf beschränkt, sie in ihren unmittelbaren Bedürfnissen zu unterstützen. In der Enzyklika Laborem exercens sagt er, dass »die menschliche Arbeit ein Schlüssel und wohl der wesentliche Schlüssel in der gesamten sozialen Frage ist«.[87]

88. Angesichts der vielfältigen Krisen, die den Beginn des dritten Jahrtausends geprägt haben, erscheint der Zugang Benedikts XVI. deutlich politischer. So beteuert er in der Enzyklika Caritas in veritate: »Man liebt den Nächsten um so wirkungsvoller, je mehr man sich für ein gemeinsames Gut einsetzt, das auch seinen realen Bedürfnissen entspricht.«[88] Desweiteren bemerkt er: »Hunger hängt nicht so sehr von materieller Knappheit ab, sondern vielmehr von einem Mangel an sozialen Ressourcen, von denen die institutionellen die wichtigsten sind. Es fehlt also ein System wirtschaftlicher Institutionen, das sowohl einen regelmäßigen und ernährungsphysiologisch angemessenen Zugang zu Nahrungsmitteln und Wasser gewährleistet als auch den Bedürfnissen im Zusammenhang mit Grundbedürfnissen und echten Nahrungsmittelkrisen, die durch natürliche Ursachen oder durch nationale und internationale politische Verantwortungslosigkeit verursacht werden, gerecht wird.«[89]

89. Papst Franziskus hat darauf hingewiesen, dass neben dem Lehramt der Bischöfe von Rom in den letzten Jahrzehnten auch die Stellungnahmen der nationalen und regionalen Bischofskonferenzen immer häufiger geworden sind. So konnte er beispielsweise aus erster Hand das besondere Engagement des lateinamerikanischen Episkopats beim Überdenken der Beziehung der Kirche zu den Armen bezeugen. In der Zeit nach dem Konzil war in fast allen Ländern Lateinamerikas eine starke Identifikation der Kirche mit den Armen und eine aktive Beteiligung an ihrer Befreiung zu spüren. Das Herz der Kirche war bewegt angesichts der vielen Armen, die unter Arbeitslosigkeit, Unterbeschäftigung, ungerechten Löhnen und miserablen Lebensbedingungen litten. Das Martyrium des heiligen Oscar Romero, Erzbischof von San Salvador, war für die Kirche zugleich Zeugnis und eindringliche Ermahnung. Die dramatische Situation der überwiegenden Mehrheit seiner Gläubigen ging ihm persönlich nahe und er stellte sie in den Mittelpunkt seines pastoralen Wirkens. Die Versammlungen der lateinamerikanischen Bischöfe in Medellín, Puebla, Santo Domingo und Aparecida stellen für die gesamte Kirche wichtige Meilensteine dar. Ich selbst, der ich viele Jahre als Missionar in Peru tätig gewesen bin, verdanke diesem Weg der Unterscheidung in der Kirche, den Papst Franziskus klug mit dem Weg anderer Teilkirchen, insbesondere im globalen Süden, zu verbinden wusste, sehr viel. Nun möchte ich auf zwei spezifische Themen dieses bischöflichen Lehramtes eingehen.

Strukturen der Sünde, die Armut und extreme Ungleichheit verursachen

90. In Medellín sprachen sich die Bischöfe für die vorrangige Option für die Armen aus: »Christus, unser Erlöser, liebt nicht nur die Armen, sondern „er, der reich war, machte sich arm“, lebte in Armut, konzentrierte seine Sendung darauf, dass er den Armen ihre Befreiung verkündete und gründete seine Kirche als Zeichen dieser Armut unter den Menschen. […] Die Armut so vieler Brüder und Schwestern schreit nach Gerechtigkeit, Solidarität, Zeugnis, Engagement, Anstrengung und Überwindung für die volle Erfüllung des von Christus anvertrauten Heilsauftrages.«[90] Die Bischöfe bekräftigen nachdrücklich, dass die Kirche nicht nur die Lage der Armen teilen, sondern sich auch an ihre Seite stellen und sich aktiv für ihre umfassende Förderung einsetzen müsse, wenn sie ihrer Berufung voll und ganz treu sein wolle. Angesichts der weiter wachsenden Not in Lateinamerika bekräftigte die Versammlung von Puebla die Entscheidung von Medellín mit einer aufrichtigen und prophetischen Option für die Armen und bezeichnete die Strukturen der Ungerechtigkeit als „soziale Sünde“.

91. Die Liebe ist eine Kraft, die die Wirklichkeit verändert, eine echte geschichtsverändernde Kraft. Aus dieser Quelle muss sich alles Bemühen, »die strukturellen Ursachen der Armut zu beheben«[91] und dies unverzüglich anzugehen, speisen. Ich wünsche mir daher, »dass die Zahl der Politiker zunimmt, die fähig sind, in einen echten Dialog einzusteigen, der sich wirksam darauf ausrichtet, die tiefen Wurzeln und nicht den äußeren Anschein der Übel unserer Welt zu heilen«,[92] denn es »geht […] darum, den Schrei ganzer Völker, der ärmsten Völker der Erde zu hören«. [93]

92. Es ist daher notwendig, weiterhin die »Diktatur einer Wirtschaft, die tötet« anzuprangern und anzuerkennen, dass »während die Einkommen einiger weniger exponentiell steigen, […] die der Mehrheit immer weiter entfernt [sind] vom Wohlstand dieser glücklichen Minderheit. Dieses Ungleichgewicht geht auf Ideologien zurück, die die absolute Autonomie der Märkte und die Finanzspekulation verteidigen. Darum bestreiten sie das Kontrollrecht der Staaten, die beauftragt sind, über den Schutz des Gemeinwohls zu wachen. Es entsteht eine neue, unsichtbare, manchmal virtuelle Tyrannei, die einseitig und unerbittlich ihre Gesetze und ihre Regeln aufzwingt.«[94] Obwohl es nicht an Theorien fehlt, die versuchen, den aktuellen Zustand zu rechtfertigen, oder erklären, dass die wirtschaftliche Vernunft von uns verlangt, darauf zu warten, dass die unsichtbaren Kräfte des Marktes alles lösen, ist die Würde eines jeden Menschen jetzt und nicht erst morgen zu respektieren. Das Elend so vieler Menschen, deren Würde negiert wird, muss ein ständiger Appell an unser Gewissen sein.

93. In der Enzyklika Dilexit nos hat Papst Franziskus daran erinnert, dass die soziale Sünde als „Struktur der Sünde“ in der Gesellschaft Gestalt annimmt und »oft Teil einer vorherrschenden Denkweise [ist], die als normal oder rational betrachtet, was in Wirklichkeit bloß Egoismus und Gleichgültigkeit ist. Dieses Phänomen kann man als soziale Entfremdung bezeichnen.«[95] Es wird normal, die Armen zu ignorieren und so zu leben, als ob es sie nicht gäbe. Es erscheint als vernünftige Entscheidung, die Wirtschaft so zu organisieren, dass vom Volk Opfer verlangt werden, um bestimmte Ziele zu erreichen, die für die Mächtigen von Interesse sind. Unterdessen werden den Armen nur „Tropfen” versprochen, die so lange fallen werden, bis eine neue globale Krise sie wieder in die vorherige Situation zurückwirft. Dies ist eine wahre Entfremdung, die dazu führt, dass man nur theoretische Ausreden findet und nicht versucht, die konkreten Probleme der Notleidenden unverzüglich zu lösen. Schon der heilige Johannes Paul II. hat es gesagt: »Entfremdet wird eine Gesellschaft, die in ihren sozialen Organisationsformen, in Produktion und Konsum, die Verwirklichung dieser Hingabe und die Bildung dieser zwischenmenschlichen Solidarität erschwert.«[96]

94. Wir müssen uns immer mehr dafür einsetzen, die strukturellen Ursachen der Armut zu beseitigen. Dies ist eine dringende Aufgabe, die »nicht warten [kann], nicht nur wegen eines pragmatischen Erfordernisses, Ergebnisse zu erzielen und die Gesellschaft zu ordnen, sondern um sie von einer Krankheit zu heilen, die sie anfällig und unwürdig werden lässt und sie nur in neue Krisen führen kann. Die Hilfsprojekte, die einigen dringlichen Erfordernissen begegnen, sollten nur als provisorische Maßnahmen angesehen werden.«[97] Mangelnde Gerechtigkeit ist »die Wurzel der sozialen Übel«[98]. Denn »oft stellt man fest, dass tatsächlich die Menschenrechte nicht für alle gleich gelten«.[99]

95. Es kommt vor, dass es »in dem geltenden „privatrechtlichen“ Erfolgsmodell […] wenig sinnvoll [scheint], zu investieren, damit diejenigen, die auf der Strecke geblieben sind, die Schwachen oder die weniger Begabten es im Leben zu etwas bringen können«.[100] Die Frage, die wiederkehrt, ist stets dieselbe: Sind die weniger Begabten keine Menschen? Haben die Schwachen nicht die gleiche Würde wie wir? Sind diejenigen, die mit weniger Möglichkeiten geboren wurden, als Menschen weniger wert und müssen sich damit begnügen, bloß zu überleben? Von der Antwort, die wir auf diese Fragen geben, hängt der Wert unserer Gesellschaften ab, und von ihr hängt auch unsere Zukunft ab. Entweder wir gewinnen unsere moralische und geistige Würde zurück oder wir fallen gleichsam in ein Schmutzloch. Wenn wir nicht innehalten und die Dinge ernst nehmen, werden wir weiterhin, offen oder verdeckt, »auf diese Weise das gegenwärtige Modell der Verteilung […] legitimieren, in dem eine Minderheit sich für berechtigt hält, in einem Verhältnis zu konsumieren, das unmöglich verallgemeinert werden könnte, denn der Planet wäre nicht einmal imstande, die Abfälle eines solchen Konsums zu fassen«.[101]

96. Zu den strukturellen Herausforderungen, die unmöglich von oben herab gelöst werden können und dringend anzugehen sind, gehören die Orte, Räume, Häuser und Städte, in denen die Armen leben und sich bewegen. Wir wissen: »Wie schön sind die Städte, die das krankhafte Misstrauen überwinden, die anderen mit ihrer Verschiedenheit eingliedern und aus dieser Integration einen Entwicklungsfaktor machen! Wie schön sind die Städte, die auch in ihrer architektonischen Planung reich sind an Räumen, die verbinden, in Beziehung setzen und die Anerkennung des anderen begünstigen!«[102] Gleichzeitig »können wir es nicht unterlassen, die Auswirkungen der Umweltzerstörung, des aktuellen Entwicklungsmodells und der Wegwerfkultur auf das menschliche Leben zu betrachten«.[103] Denn »der Verfall der Umwelt und der der Gesellschaft [schädigen] in besonderer Weise die Schwächsten des Planeten«.[104]

97. Daher ist es die Aufgabe aller Glieder des Gottesvolkes die Stimme auf unterschiedliche Weisen zu erheben, damit sie aufrüttelt, anprangert und sich auch dann exponiert, wenn dies bedeutet, als „dumm“ angesehen zu werden. Die Strukturen der Ungerechtigkeit müssen mit der Kraft des Guten erkannt und zerstört werden, durch einen Gesinnungswandel, aber auch mit Hilfe der Wissenschaften und der Technik, durch die Entwicklung wirksamer politischer Maßnahmen zur Umgestaltung der Gesellschaft. Es ist stets zu bedenken, dass das Anliegen des Evangeliums nicht bloß in einer individuellen und innigen Beziehung zum Herrn besteht. Das Anliegen ist viel umfassender: Es »ist das Reich Gottes (vgl. Lk 4,43); es geht darum, Gott zu lieben, der in der Welt herrscht. In dem Maß, in dem er unter uns herrschen kann, wird das Gesellschaftsleben für alle ein Raum der Brüderlichkeit, der Gerechtigkeit, des Friedens und der Würde sein. Sowohl die Verkündigung als auch die christliche Erfahrung neigen dazu, soziale Konsequenzen auszulösen. Suchen wir sein Reich.«[105]

98. Ein Dokument, das anfangs nicht von allen positiv aufgenommen worden ist, bietet uns schließlich eine nach wie vor aktuelle Überlegung: »Den Verteidigern der „Orthodoxie“ wirft man manchmal Passivität, Nachsichtigkeit und schuldhafte Mitwisserschaft gegenüber unerträglichen Situationen der Ungerechtigkeit und gegenüber politischen Regimen, die diese erhalten, vor. Wie es auch um die Berechtigung dieses Vorwurfs stehen mag, sicher ist von allen, besonders aber von den Hirten und den Verantwortlichen, die geistliche Bekehrung, die intensive Gottes- und Nächstenliebe, der Eifer für Gerechtigkeit und Frieden, der evangelische Sinn für die Armen und die Armut gefordert. Die Sorge um die Reinheit der Lehre geht nicht ohne die Bemühung, durch ein integrales theologales Leben die Antwort eines wirksamen Zeugnisses des Dienstes am Nächsten, besonders aber am Armen und Unterdrückten, zu geben.«[106]

Die Armen als Subjekte

99. Ein wesentliches Geschenk für den Weg der Weltkirche stellt der Unterscheidungsprozess der Versammlung von Aparecida dar, in dem die lateinamerikanischen Bischöfe deutlich machten, die vorrangige Option der Kirche für die Armen sei »im christologischen Glauben an jenen Gott implizit enthalten, der für uns arm geworden ist, um uns durch seine Armut reich zu machen«.[107] Das Dokument kontextualisiert die Mission innerhalb der aktuellen Situation der globalisierten Welt mit ihren neuen und dramatischen Ungleichgewichten,[108] und in der Schlussbotschaft schreiben die Bischöfe: »Die großen Unterschiede zwischen Reichen und Armen fordern uns auf, mit größerem Einsatz Jünger zu werden, die als Tischgemeinschaft das Leben miteinander zu teilen verstehen, die Tischgemeinschaft aller Söhne und Töchter des Vaters, eine offene Tischgemeinschaft, aus der niemand ausgeschlossen sein und bei der niemand fehlen darf. Daher bekräftigen wir die vorrangige, evangeliumsgemäße Option für die Armen.«[109]

100. Zugleich vertieft das Dokument ein Thema, das bereits in früheren Versammlungen des lateinamerikanischen Episkopats behandelt wurde, und betont die Notwendigkeit, Randgruppen als Subjekte anzusehen, die in der Lage sind, eine eigene Kultur zu schaffen, statt sie als Objekte der Wohltätigkeit zu betrachten. Dies impliziert, dass solche Gruppen das Recht haben, das Evangelium gemäß den in ihrer Kultur bestehenden Werten zu leben und entsprechend ihren Glauben zu feiern und zu vermitteln. Die Erfahrung der Armut gibt ihnen die Fähigkeit, Aspekte der Wirklichkeit zu erkennen, die andere nicht zu sehen vermögen, und deshalb ist es für die Gesellschaft notwendig, ihnen zuzuhören. Das Gleiche gilt für die Kirche, die ihre „volkstümliche“ Art, den Glauben zu leben, positiv bewerten muss. Ein schöner Text aus dem Schlussdokument von Aparecida hilft uns, über diesen Punkt nachzudenken, um die richtige Haltung zu finden: »Nur wenn wir den Armen so nahe kommen, dass Freundschaft entstehen kann, werden wir wahrhaft schätzen lernen, was den Armen von heute wichtig ist, wonach sie sich legitim sehnen und wie sie selbst ihren Glauben leben. […] Tag für Tag handeln die Armen selbstverantwortlich für die Evangelisierung und die ganzheitliche menschliche Entwicklung: Sie erziehen ihre Kinder im Glauben, leben stets solidarisch mit Verwandten und Nachbarn, suchen immer nach Gott und schenken der pilgernden Kirche Leben. Im Licht des Evangeliums erkennen wir, dass sie eine unendliche Würde und eine heilige Größe in den Augen Christi besitzen, der arm und ausgeschlossen war wie sie. Mit dieser im Glauben gewonnenen Erfahrung stehen wir ihnen bei der Verteidigung ihrer Rechte zur Seite.«[110]

101. All dies beinhaltet einen Aspekt der Option für die Armen, den wir stets im Auge behalten müssen: Diese Option verlangt von uns »eine aufmerksame Zuwendung zum anderen […]. Diese liebevolle Zuwendung ist der Anfang einer wahren Sorge um seine Person, und von dieser Basis aus bemühe ich mich dann wirklich um sein Wohl. Das schließt ein, den Armen in seinem besonderen Wert zu schätzen, mit seiner Wesensart, mit seiner Kultur und mit seiner Art, den Glauben zu leben. Die echte Liebe ist immer kontemplativ, sie erlaubt uns, dem anderen nicht aus Not oder aus Eitelkeit zu dienen, sondern weil es schön ist, jenseits des Scheins. […] Nur aus dieser echten und herzlichen Nähe heraus können wir sie auf ihrem Weg zur Befreiung angemessen begleiten.«[111] Deshalb danke ich allen aufrichtig, die sich dafür entschieden haben, unter den Armen zu leben: jenen also, die ihnen nicht nur ab und zu einen Besuch abstatten, sondern mit ihnen und wie sie leben. Eine solche Entscheidung gehört zu den höchsten Formen eines evangeliumsgemäßen Lebens.

102. So gesehen ergibt sich klar die Notwendigkeit, »dass wir alle uns von [den Armen] evangelisieren lassen«[112] und dass wir alle »die geheimnisvolle Weisheit [an]nehmen, die Gott uns durch sie mitteilen will«.[113] Die Armen sind in äußerst unsicheren Verhältnissen aufgewachsen, haben gelernt, unter widrigsten Umständen zu überleben, sie vertrauen auf Gott in der Gewissheit, dass niemand sonst sie ernst nimmt, sie helfen sich gegenseitig in den dunkelsten Stunden und haben auf diese Weise vieles gelernt, was sie im Geheimnis ihres Herzens bewahren. Diejenigen unter uns, die keine solchen Grenzerfahrungen in ihrem Leben gemacht haben, können sicherlich viel aus jener Quelle der Weisheit schöpfen, die die Erfahrung der Armen darstellt. Nur wenn wir unser Klagen mit ihren Leiden und Entbehrungen in Beziehung setzen, können wir eine Ermahnung vernehmen, die uns nahelegt, unser Leben einfacher zu gestalten.

KAPITEL V

EINE BESTÄNDIGE HERAUSFORDERUNG

103. Ich habe an diese zweitausendjährige Geschichte kirchlicher Aufmerksamkeit für die Armen und inmitten der Armen erinnern wollen, um zu zeigen, dass sie wesentlicher Bestandteil des ununterbrochenen Weges der Kirche ist. Die Sorge für die Armen ist Teil der großen Tradition der Kirche, wie ein Leuchtfeuer, das von den Anfängen des Evangeliums an die Herzen und die Schritte der Christen aller Zeiten erhellt hat. Daher müssen wir die Dringlichkeit verspüren, alle einzuladen, sich in diesen Strom an Licht und Leben zu begeben, der daraus hervorgeht, dass man Christus im Antlitz der Bedürftigen und Leidenden erkennt. Die Liebe zu den Armen ist ein wesentliches Element der Geschichte Gottes mit uns und sie entströmt dem Herzen der Kirche als ein fortwährender Aufruf an die Herzen der einzelnen Gläubigen wie auch ihrer Gemeinschaften. Als Leib Christi empfindet die Kirche das Leben der Armen, die ein privilegierter Teil des pilgernden Volkes sind, als ihr eigen „Fleisch“. Deshalb ist die Liebe zu den Armen – in welcher Form auch immer sich diese Armut zeigt – die evangeliumsgemäße Garantie für eine Kirche, die dem Herzen Gottes treu ist. Jede kirchliche Erneuerung hat denn auch immer diese vorrangige Aufmerksamkeit für die Armen, die sich sowohl in ihren Beweggründen als auch in ihrem Stil von der Tätigkeit jeder anderen humanitären Organisation unterscheidet, zu ihren Prioritäten gezählt.

104. Christen dürfen die Armen nicht bloß als soziales Problem betrachten: Sie sind eine „Familienangelegenheit“. Sie gehören „zu den Unsrigen“. Die Beziehung zu ihnen darf nicht auf eine Tätigkeit oder eine amtliche Verpflichtung der Kirche reduziert werden. Wie die Versammlung von Aparecida lehrt, »ist von uns [gefordert], dass wir den Armen Zeit widmen, uns ihnen liebevoll zuwenden, ihnen aufmerksam zuhören und ihnen in schwierigsten Momenten beistehen. So entscheiden wir uns für sie und teilen mit ihnen Stunden, Wochen oder auch Jahre unseres Lebens und suchen zusammen mit ihnen ihre Lage zu ändern. Wir dürfen nicht vergessen, dass uns Jesus selbst durch sein Tun und Reden ein Beispiel dafür ist.«[114]

Noch einmal der barmherzige Samariter

105. Die vorherrschende Kultur zu Beginn dieses Jahrtausends neigt stark dazu, die Armen ihrem Schicksal zu überlassen, sie nicht für beachtenswert und noch weniger für schätzenswert zu halten. In der Enzyklika Fratelli tutti hat Papst Franziskus uns aufgefordert, über das Gleichnis vom barmherzigen Samariter (vgl. Lk 10,25-37) nachzudenken, um genau diesen Aspekt zu vertiefen. In dem Gleichnis sehen wir nämlich, dass diejenigen, die an jenem verwundeten und am Straßenrand liegenden Mann vorbeikommen, unterschiedliche Haltungen an den Tag legen. Nur der barmherzige Samariter nimmt sich seiner an. So stellt sich wieder die Frage, die jeden persönlich betrifft: »Mit wem identifizierst du dich? Diese Frage ist hart, direkt und entscheidend. Welchem von ihnen ähnelst du? Wir müssen die uns umgebende Versuchung erkennen, die anderen nicht zu beachten, besonders die Schwächsten. Sagen wir es so, in vieler Hinsicht haben wir Fortschritte gemacht, doch wir sind Analphabeten, wenn es darum geht, die Gebrechlichsten und Schwächsten unserer entwickelten Gesellschaften zu begleiten, zu pflegen und zu unterstützen. Wir haben uns angewöhnt wegzuschauen, vorbeizugehen, die Situationen zu ignorieren, solange uns diese nicht direkt betreffen.«[115]

106. Und es tut uns sehr gut zu entdecken, dass sich jene Szene des barmherzigen Samariters auch heute wiederholt. Erinnern wir uns an eine Situation aus unserer Zeit: »Wenn ich einem Menschen begegne, der in einer kalten Nacht unter freiem Himmel schläft, kann ich fühlen, dass dieser arme Wicht etwas Unvorhergesehenes ist, das mir dazwischenkommt, ein Nichtsnutz und Gauner, ein Störenfried auf meinem Weg, ein lästiger Stachel für mein Gewissen, ein Problem, das die Politiker lösen müssen, und vielleicht sogar ein Abfall, der den öffentlichen Bereich verschmutzt. Oder ich kann aus dem Glauben und der Liebe heraus reagieren und in ihm ein menschliches Wesen erkennen, mit gleicher Würde wie ich, ein vom Vater unendlich geliebtes Geschöpf, ein Abbild Gottes, ein von Jesus Christus erlöster Bruder oder Schwester. Das heißt es, Christ zu sein! Oder kann man etwa die Heiligkeit abseits dieses konkreten Anerkennens der Würde jedes menschlichen Wesens verstehen?«[116] Was hat der barmherzige Samariter getan?

107. Diese Frage ist von großer Bedeutung, da sie uns hilft, einen schwerwiegenden Mangel in unseren Gesellschaften und auch in unseren christlichen Gemeinschaften zu erkennen. Es geht darum, dass viele Formen der Gleichgültigkeit, denen wir heute begegnen, »Zeichen eines verbreiteten Lebensstils [sind], der sich auf verschiedene, vielleicht auch subtilere Weisen zeigt. Da wir alle zudem sehr auf unsere eigenen Bedürfnisse bezogen sind, ist es uns lästig, jemanden leiden zu sehen; es stört uns, weil wir keine Zeit wegen der Probleme anderer verlieren wollen. Dies sind Symptome einer kranken Gesellschaft, die versucht, in ihrem Leben dem Schmerz den Rücken zuzukehren. Besser ist es, nicht in dieses Elend zu verfallen. Betrachten wir das Modell des barmherzigen Samariters.«[117] Die Schlussworte des Gleichnisses aus dem Evangelium – »Dann geh und handle du genauso« (Lk 10,37) – sind ein Gebot, das ein Christ jeden Tag in seinem Herzen verspüren muss.

Eine unausweichliche Herausforderung für die Kirche von heute

108. In einer für die Kirche von Rom besonders schwierigen Zeit, als die kaiserlichen Institutionen unter dem Druck der Barbaren zusammenbrachen, ermahnte Papst Gregor der Große seine Gläubigen wie folgt: »Täglich finden wir einen Lazarus, so wir nur suchen, täglich sehen wir einen Lazarus, auch wenn wir nicht suchen. Siehe, ungelegen bieten sich die Armen, flehen uns die an, die einst als unsere Fürsprecher auftreten werden. […] Lasst also die Zeit des Erbarmens nicht ungenützt vorübergehen, vernachlässigt die empfangenen Heilmittel nicht.«[118] Mutig widersetzte er sich den weit verbreiteten Vorurteilen gegenüber den Armen, wie etwa dem, dass sie für ihr Elend selbst verantwortlich seien: »Und wenn ihr Arme manches Tadelnswerte begehen seht, so verachtet sie nicht, gebt sie nicht auf; denn es reinigt sie wohl vom Schmutz kleiner Verkehrtheiten der Schmelzofen der Armut.«[119] Nicht selten macht Wohlstand blind, so dass wir bisweilen sogar meinen, wir könnten nur dann glücklich werden, wenn wir ohne die anderen auskommen. In dieser Hinsicht können die Armen für uns wie stille Lehrer sein, die unseren Stolz und unsere Arroganz in die richtige Demut zurückführen.

109. Wenn es richtig ist, dass die Armen von denen unterstützt werden, die über wirtschaftliche Mittel verfügen, dann gilt mit Sicherheit auch das Umgekehrte. Dies ist eine überraschende Erfahrung, die durch die christliche Tradition bezeugt wird und die zu einer echten Wende in unserem persönlichen Leben wird, wenn wir uns bewusstwerden, dass gerade die Armen es sind, die uns das Evangelium lehren. Auf welche Weise? Durch ihre Lebensumstände konfrontieren sie uns still mit unserer Schwachheit. Der alte Mensch erinnert uns beispielsweise durch die Gebrechlichkeit seines Körpers an unsere eigene Verletzlichkeit, auch wenn wir versuchen, sie hinter Wohlstand oder Äußerlichkeiten zu verbergen. Außerdem bringen uns die Armen zum Nachdenken über die Unhaltbarkeit jenes aggressiven Stolzes, mit dem wir oft den Schwierigkeiten des Lebens begegnen. Im Grunde lassen sie uns die Unsicherheit und Leere eines scheinbar geschützten und sicheren Lebens erkennen. Hören wir in diesem Zusammenhang noch einmal auf den heiligen Gregor den Großen: »Niemand wiege sich sonach in Sicherheit und sage: Da seht! Ich raube beileibe nicht Fremdes; ich genieße nur die mir zugestandenen Güter; denn dieser Reiche wurde nicht gestraft, weil er Fremdes geraubt, sondern weil er sich selbst gottloserweise an die empfangenen Güter verloren hatte. Was ihn dann ferner noch der Hölle überlieferte, war, dass er in seinem Glücke keine Furcht empfand, die empfangenen Gaben zur Anmaßung missbrauchte, kein Mitleid kannte […].«[120]

110. Für uns Christen führt die Frage nach den Armen zum Wesentlichen unseres Glaubens. Es ist die vorrangige Option für die Armen, das heißt die Liebe der Kirche zu ihnen, wie Johannes Paul II. lehrte, »die entscheidend ist und zu ihrer festen Tradition gehört, [sie] lässt die Kirche sich der Welt zuwenden, in der trotz des technisch-wirtschaftlichen Fortschritts die Armut gigantische Formen anzunehmen droht«.[121] Tatsächlich sind die Armen für die Christen keine soziologische Kategorie, sondern das Fleisch Christi selbst. Es genügt nämlich nicht, die Lehre von der Menschwerdung Gottes allgemein zu verkünden; um wirklich in dieses Geheimnis einzutreten, muss man genauer sagen, dass der Herr Fleisch angenommen hat, das hungert, dürstet, krank ist und gefangen. »Eine arme Kirche für die Armen tut ihren ersten Schritt, indem sie auf den Leib Christi zugeht. Wenn wir auf den Leib Christi zugehen, beginnen wir etwas zu verstehen – zu verstehen, was diese Armut ist: die Armut des Herrn. Und das ist nicht einfach.«[122]

111. Das Herz der Kirche ist ihrem Wesen gemäß solidarisch mit denen, die arm, ausgegrenzt und an den Rand gedrängt sind, mit denen, die als „Abfall“ der Gesellschaft betrachtet werden. Die Armen gehören zur Mitte der Kirche, denn »aus unserem Glauben an Christus, der arm geworden und den Armen und Ausgeschlossenen immer nahe ist, ergibt sich die Sorge um die ganzheitliche Entwicklung der am stärksten vernachlässigten Mitglieder der Gesellschaft«.[123] Im Herzen eines jeden Gläubigen gibt es das Bedürfnis, »auf diesen Ruf zu hören, [der] aus der Befreiung selbst folgt, die die Gnade in jedem von uns wirkt, und deshalb handelt es sich nicht um einen Auftrag, der nur einigen vorbehalten ist«.[124]

112. Manchmal lässt sich in einigen christlichen Bewegungen oder Gruppen ein mangeldes oder gar fehlendes Engagement für das Gemeinwohl der Gesellschaft und insbesondere für die Verteidigung und Förderung der Schwächsten und Benachteiligten feststellen. Diesbezüglich ist daran zu erinnern, dass Religion, insbesondere die christliche, nicht auf den privaten Bereich beschränkt werden darf, so als ob die Gläubigen sich nicht auch um die Probleme der Zivilgesellschaft und die Ereignisse, die die Bürger betreffen, kümmern müssten.[125]

113. Tatsächlich läuft »jede beliebige Gemeinschaft in der Kirche, die beansprucht, in ihrer Ruhe zu verharren, ohne sich kreativ darum zu kümmern und wirksam daran mitzuarbeiten, dass die Armen in Würde leben können und niemand ausgeschlossen wird, […] die Gefahr der Auflösung, auch wenn sie über soziale Themen spricht und die Regierungen kritisiert. Sie wird schließlich leicht in einer mit religiösen Übungen, unfruchtbaren Versammlungen und leeren Reden heuchlerisch verborgenen spirituellen Weltlichkeit untergehen.«[126]

114. Wir sprechen nicht nur von Hilfe und vom notwendigen Einsatz für Gerechtigkeit. Die Gläubigen müssen sich einer weiteren Form der Inkonsequenz gegenüber den Armen bewusstwerden. In Wahrheit ist »die schlimmste Diskriminierung, unter der die Armen leiden, der Mangel an geistlicher Zuwendung […]. […] Die vorrangige Option für die Armen muss sich hauptsächlich in einer außerordentlichen und vorrangigen religiösen Zuwendung zeigen.»[127] Diese geistliche Aufmerksamkeit für die Armen wird jedoch durch bestimmte Vorurteile, auch seitens der Christen, in Frage gestellt, weil wir uns ohne die Armen wohler fühlen. Manche sagen fortwährend: „Unsere Aufgabe ist es, zu beten und die wahre Lehre zu verkünden.“ Und indem sie diesen religiösen Aspekt von einer ganzheitlichen Förderung trennen, fügen sie hinzu, dass allein die Regierung sich um sie kümmern sollte oder dass es besser wäre, sie in ihrem Elend zu lassen und ihnen erst einmal das Arbeiten beizubringen. Manchmal werden auch pseudowissenschaftliche Kriterien herangezogen, wenn etwa gesagt wird, dass der freie Markt von selbst zur Lösung des Problems der Armut führen werde. Oder man optiert sogar für eine Seelsorge der sogenannten „Eliten“ und behauptet, dass man, statt Zeit mit den Armen zu verschwenden, sich besser um die Reichen, Mächtigen und Berufstätigen kümmern sollte, um durch diese zu wirkungsvolleren Lösungen zu gelangen. Die Weltlichkeit hinter diesen Auffassungen ist leicht zu erkennen: Sie verleiten uns dazu, die Wirklichkeit mit oberflächlichen Kriterien zu betrachten, bar jedes übernatürlichen Lichts, wenn wir es lieber mit Menschen zu tun zu haben, die uns ein Gefühl von Sicherheit geben, und wenn wir Privilegien suchen, die uns genehm sind.

Geben, auch heute noch

115. Es ist angebracht, noch ein Wort über die Almosengabe zu sagen, die heute keinen guten Ruf genießt, oft nicht einmal unter Gläubigen. Sie wird nicht nur selten praktiziert, sondern manchmal sogar geringgeschätzt. Einerseits betone ich noch einmal, dass die wichtigste Hilfe für einen armen Menschen darin besteht, ihm zu einer guten Arbeit zu verhelfen, damit er sich durch die Entfaltung seiner Fähigkeiten und durch seinen persönlichen Einsatz ein Leben verdienen kann, das seiner Würde besser entspricht. Tatsächlich ist »Arbeitslosigkeit […] viel mehr als das Versiegen einer Einkommensquelle für den Lebensunterhalt. Die Arbeit ist auch das, aber sie ist noch viel, viel mehr. Durch die Arbeit werden wir mehr zur Person, gedeiht unsere Menschlichkeit. Junge Menschen werden nur durch die Arbeit erwachsen. Die Soziallehre der Kirche hat die menschliche Arbeit stets als eine Teilhabe an der Schöpfung betrachtet, die täglich fortgesetzt wird, auch durch die Hände, den Verstand und das Herz der Arbeiter.«[128] Andererseits dürfen wir uns, wenn eine solche konkrete Möglichkeit noch nicht besteht, nicht auf das Risiko einlassen, einen Menschen ohne das Nötigste für ein würdiges Leben seinem Schicksal zu überlassen. Deshalb bleibt die Almosengabe eine notwendige Gelegenheit der Berührung, der Begegnung und der Empathie.

116. Für diejenigen, die wirklich lieben, ist es klar, dass die Almosengabe nicht die zuständigen Behörden von ihrer Verantwortung entbindet, noch den organisatorischen Einsatz der Institutionen überflüssig macht und ebenso wenig den legitimen Kampf für Gerechtigkeit ersetzt. Sie hält jedoch zumindest dazu an, innezuhalten und den Armen ins Gesicht zu schauen, sie zu berühren und etwas vom eigenen Besitz mit ihnen zu teilen. In jedem Fall verleiht die Almosengabe, auch wenn sie gering ist, einem Sozialleben, in dem alle ihren persönlichen Interessen nacheilen, eine gewisse Pietas. Im Buch der Sprichwörter heißt es: »Wer ein gütiges Auge hat, wird gesegnet, weil er den Armen von seinem Brot gibt« (Spr 22,9).

117. Sowohl das Alte als auch das Neue Testament enthalten regelrechte Lobgesänge auf die Almosengabe: »Doch hab Geduld mit dem Niedrigen und lass ihn nicht auf Wohltat warten! […] Verschließ Wohltaten in deinen Vorratskammern, sie werden dich retten aus allem Unheil!« (Sir 29,8.12). Und Jesus greift diese Lehre auf: »Verkauft euren Besitz und gebt Almosen! Macht euch Geldbeutel, die nicht alt werden! Verschafft euch einen Schatz, der nicht abnimmt, im Himmel, wo kein Dieb ihn findet und keine Motte ihn frisst!« (Lk 12,33).

118. Die folgende Ermahnung wurde dem heiligen Johannes Chrysostomus zugeschrieben: »Die Almosengabe ist nämlich ein Flügel des Gebets. Wenn du deinem Gebet keine Flügel verleihst, wird es nicht fliegen.«[129] Und der heilige Gregor von Nazianz schloss eine seiner berühmten Predigten mit folgenden Worten: »Wenn ihr, Diener, Brüder und Erben Christi, nun auf mich hören wollt, dann wollen wir, solange es noch Zeit ist, Christus besuchen, Christus heilen, Christus ernähren, Christus bekleiden, Christus beherbergen, Christus ehren, aber nicht nur durch Bewirtung, wie es einige getan haben, und nicht gleich Maria mit Salben und nicht bloß durch ein Grab wie Joseph von Arimathea, auch nicht durch Geschenke für die Beerdigung gleich Nikodemus, der ein heiliger Christ war, auch nicht mit Gold, Weihrauch und Myrrhen, wie es vor den Genannten die Magier getan hatten. Da der Herr der Welt Barmherzigkeit will und nicht Opfer, […], so wollen wir ihm in den Notleidenden, […], Barmherzigkeit zeigen, damit sie, wenn wir von hier scheiden müssen, uns in die ewigen Zelte aufnehmen.«[130]

119. Die Liebe und die tiefsten Überzeugungen müssen genährt werden, und dies erfolgt durch Taten. Wenn wir in der Welt der Ideen und der Diskussionen verbleiben, ohne persönliche, wiederholte und von Herzen kommende Gesten, wird dies zum Scheitern unserer kostbarsten Träume führen. Aus diesem einfachen Grund verzichten wir als Christen nicht auf die Almosengabe. Eine Geste, die auf verschiedene Weise vorgenommen werden kann und die wir versuchen können, möglichst effektiv zu gestalten, die wir aber auf jeden Fall tun müssen. Und es wird stets besser sein, etwas zu unternehmen, als nichts zu machen. In jedem Fall wird es unser Herz berühren. Es wird nicht die Lösung für die Armut in der Welt sein, die mit Intelligenz, Ausdauer und sozialem Engagement angestrebt werden muss. Aber wir müssen uns in der Almosengabe üben, um das leidende Fleisch der Armen zu berühren.

120. Die christliche Liebe überwindet alle Schranken, bringt Fernstehende einander nahe, verbindet Fremde, macht Feinde zu Vertrauten, überwindet menschlich unüberwindbare Abgründe und gelangt in die verborgensten Winkel der Gesellschaft. Die christliche Liebe ist ihrem Wesen nach prophetisch, sie vollbringt Wunder, sie kennt keine Grenzen: Sie ist für das Unmögliche da. Die Liebe ist vor allem eine Art Lebenskonzept, eine Lebensweise. Eine Kirche, die der Liebe keine Grenzen setzt, die keine zu bekämpfenden Feinde kennt, sondern nur Männer und Frauen, die es zu lieben gilt, das ist die Kirche, die die Welt heute braucht.

121. Sowohl durch eure Arbeit als auch durch euren Einsatz für die Veränderung ungerechter sozialer Strukturen als auch durch eine solch einfache, sehr persönliche und unmittelbare Geste der Hilfe wird jener Arme spüren können, dass die Worte Jesu ihm gelten: »Ich [habe] dir meine Liebe zugewandt« (Offb 3,9).

Gegeben zu Rom, bei Sankt Peter, am Gedenktag des heiligen Franz von Assisi, dem 4. Oktober des Jahres 2025, dem ersten meines Pontifikats.

LEO PP. XIV

________________________

[1] Franziskus, Enzyklika Dilexit nos (24. Oktober 2024), 170: AAS 116 (2024), 1422.

[2] Ebd., 171: AAS 116 (2024), 1422-1423.

[3] Ders., Apostolisches Schreiben Gaudete et exsultate (19. März 2018), 96: AAS 110 (2018), 1137.

[4] Franziskus, Ansprache an die Medienvertreter (16. März 2013): AAS 105 (2013), 381.

[5] J. Bergoglio, A. Skorka, Sobre el cielo y la tierra, Buenos Aires 2013, 214.

[6] Hl. Paul VI., Homilie in der Eucharistiefeier anlässlich der letzten öffentlichen Sitzung des Zweiten Vatikanischen Konzils (7. Dezember 1965): AAS 58 (1966), 55-56.

[7] Vgl. Franziskus, Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium (24. November 2013), 187: AAS 105 (2013), 1098.

[8] Ebd., 212: AAS 105 (2013), 1108.

[9] Ders., Enzyklika Fratelli tutti (3. Oktober 2020), 23: AAS 112 (2020), 977.

[10] Ebd., 21: AAS 112 (2020), 976.

[11] Rat der Europäischen Gemeinschaften, Beschluss (85/8/EWG) über gezielte Maßnahmen zur Bekämpfung der Armut auf Gemeinschaftsebene (19. Dezember 1984), Art. 1, Abs. 2: Amtsblatt der Europäischen Gemeinschaften Nr. L 2/24.

[12] Vgl. Hl. Johannes Paul II., Katechese (27. Oktober 1999): L’Osservatore Romano, 28. Oktober 1999, 4.

[13] Franziskus, Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium (24. November 2013), 197: AAS 105 (2013), 1102.

[14] Vgl. Ders., Botschaft zum V. Welttag der Armen (13. Juni 2021), 3: AAS 113 (2021), 691. »Jesus steht nicht nur auf der Seite der Armen, sondern er teilt mit ihnen das gleiche Schicksal. Das ist eine eindringliche Lehre auch für seine Jünger aller Zeiten.«

[15] Ders., Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium (24. November 2013), 186: AAS 105 (2013), 1098.

[16] Ders., Apostolisches Schreiben Gaudete et exsultate (19. März 2018), 95: AAS 110 (2018), 1137.

[17] Ebd., 97: AAS 110 (2018), 1137.

[18] Ders., Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium (24. November 2013), 194: AAS 105 (2013), 1101.

[19] Franziskus, Ansprache an die Medienvertreter (16. März 2013): AAS 105 (2013), 381.

[20] Zweites Vatikanisches Konzil, Dogmatische Konstitution Lumen Gentium, 8.

[21] Franziskus, Apostolisches Schreiben Evangelii Gaudium (24. November 2013), 48: AAS 105 (2013), 1040.

[22] In diesem Kapitel stellen wir einige dieser Beispiele an Heiligkeit vor, ohne einen Anspruch auf Vollständigkeit zu erheben. Vielmehr soll an ihnen jene Sorge für die Armen sichtbar werden, die seit jeher für das Wirken der Kirche in der Welt kennzeichnend ist. Eine vertiefte Reflexion über die Geschichte dieser Aufmerksamkeit für die Bedürftigsten findet sich im Buch von V. Paglia, Storia della povertà, Mailand 2014.

[23] Vgl. Hl. Ambrosius, Von den Pflichten der Kirchendiener I, Kap. 41, 205-206: CCSL 15, Turnhout 2000, 76-77; II, Kap. 28, 140-143: CCSL 15, 148-149.

[24] Ebd., II, Kap. 28, 140: CCSL 15, 148.

[25] Ebd.

[26] Ebd., II, Kap. 28, 142: CCSL 15, 148.

[27] Hl. Ignatius von Antiochien, Ignatius an die Smyrnäer, 6, 2: SCh 10bis, Paris 2007, 136-138.

[28] Hl. Polykarp von Smyrna, Brief an die Gemeinde von Philippi, 6, 1: SCh 10bis, 186.

[29] Hl. Justin der Märtyrer, Erste Apologie, 67, 6-7: SCh 507, Paris 2006, 310.

[30] Hl. Johannes Chrysostomus, Kommentar zum Evangelium des heiligen Matthäus, 50, 3: PG 58, Paris 1862, 508.

[31] Ebd., 50, 4: PG 58, 509.

[32] Ders., Homilien über den Brief an die Hebräer 11, 3: PG 63, Paris 1862, 94.

[33] Ders., Homilia II De Lazaro, 6: PG 48, Paris 1862, 992.

[34] Hl. Ambrosius, De Nabuthae, 12, 53: CSEL 32/2, Prag 1897, 498.

[35] Hl. Augustinus, Enarrationes in Psalmos, 125, 12: CCEL 95/3, Wien 2001, 181.

[36] Ders., Sermo LXXXVI, 5: CCSL 41Ab, Turnhout 2019, 411-412.

[37] Pseudo-augustinus, Sermo CCCLXXXVIII, 2: PL 39, Paris 1862, 1700.

[38] Hl. Cyprian von Karthago, Über die Sterblichkeit, 16: CCSL 3A, Turnhout 1976, 25.

[39] Franziskus, Botschaft zum XXX. Welttag der Kranken (10. Dezember 2021), 3: AAS 114 (2022), 51.

[40] Hl. Kamillus von Lellis, Regole della Compagnia dei Servi degli Infermi, 27: M. Vanti (Hrsg.), Scritti di San Camillo de Lellis, Mailand 1965, 67.

[41] Hl. Luise von Marillac, Lettre aux très chères Sœurs Claude et Marie (28. November 1657): E. Charpy (Hrsg.), Sainte Louise de Marillac. Écrits, Paris 1983, 576.

[42] Hl. Basilius der Grosse, Fünfundfünfzig ausführliche Regeln in Frage und Antworten, 37, 1: PG 31, Paris 1857, 1009 C-D.

[43] Regel des heiligen Benedikt, 53, 15: SCh 182, Paris 1972, 614.

[44] Hl. Johannes Cassianus, Vierundzwanzig Unterredungen mit den Vätern, XIV, 10: CSEL 13, Wien 2004, 410.

[45] Benedikt XVI., Katechese (21. Oktober 2009): L’Osservatore Romano, 22. Oktober 2009, 1.

[46] Vgl. Innozenz III., Bulle Operante divinae dispositionis Regula Primitiva der Trinitarier (17. Dezember 1198), 2: J.L. Aurrecochea, A Moldon (Hrsg.), Fuentes históricas de la Orden Trinitaria (s. XII-XV), Córdoba 2003, 6. »Alle Güter, woher sie auch rechtmäßig stammen mögen, sollen in drei gleiche Teile geteilt werden; und soweit zwei Teile ausreichen, sollen damit Werke der Barmherzigkeit vollbracht werden, nebst eines bescheidenen Unterhalts für sich selbst und für die nötigen Hausangestellten. Der dritte Teil aber soll für den Freikauf von wegen ihres Glaubens an Christus Gefangenen zurückbehalten werden.«

[47] Vgl. Consitutciones de la Orden de los Mercedarios, 14: Orden del la Bienaventurada Virgen María de la Merced, Regla y Constituciones, Rom 2014, 53. »Um diese Aufgabe zu erfüllen, weihen wir uns, von der Liebe bewegt, Gott mit einem besonderen Gelübde, dem sogenannten Erlösungsgelübde, durch das wir versprechen, unser Leben wenn nötig so hinzugeben, wie Christus es für uns hingegeben hat, um die Christen zu retten, die sich in äußerster Gefahr befinden, ihren Glauben in den neuen Formen der Gefangenschaft zu verlieren.«

[48] Vgl. Hl. Juan Bautista de la Concepción, La regla de la Orden de la Santisima Trinidad, XX, 1: BAC Maior 60, Madrid 1999, 90. »Und darin sind die Armen und Gefangenen Christus ähnlich, auf den die Welt ihre Leiden wirft […]. Dieser heilige Orden der Heiligsten Dreifaltigkeit ruft sie und lädt sie ein, zu kommen und vom Wasser des Erlösers zu trinken, das heißt, weil Christus sich ans Kreuz gehängt hat, um Heil und Erlöser der Menschen zu sein, hat er dieses Heil empfangen und will es den Armen geben und verteilen und die Gefangenen erlösen und befreien.«

[49] Vgl. Ders., El recogimiento interior, XL, 4: BAC Maior 48, Madrid 1995, 689. »Der freie Wille macht den Menschen zum Herrn und zu einem freien Wesen unter allen Geschöpfen, aber – guter Gott! – wie viele sind es doch, die auf diesem Weg Sklaven und Gefangene des Teufels sind, gefangen und gefesselt von ihren Leidenschaften und ungeordneten Begierden.«

[50] Franziskus, Botschaft zum XLVIII. Weltfriedenstag (8. Dezember 2014), 3: AAS 107 (2015), 69.

[51] Ders., Begegnung mit Polizeibeamten, Häftlingen und ehrenamtlichen Helfern (Verona, 18. Mai 2024): AAS 116 (2024), 766.

[52] Honorius III., Bulle Solet annuere Regula bullata (29. November 1223), Kap. VI: SCh 285, Paris 1981, 192.

[53] Vgl. Gregor IX., Bulle Sicut manifestum est (17. September 1228), 7: SCh 325, Paris 1985, 200. »Eurem Ersuchen gemäß bestätigen wir also mit apostolischer Zustimmung Eure Absicht, in äußerster Armut zu leben, und gewähren Euch mit der Autorität dieses Schreibens, dass Ihr von niemandem gezwungen werden dürft, Besitztümer anzunehmen.«

[54] Vgl. S.C. Tugwell (Hrsg.), Early Dominicans. Selected Writings, Mahwah 1982, 16-19.

[55] Thomas von Celano, Zweite Lebensbeschreibung, Teil I, Kap. IV, 8: AnalFranc 10, Florenz 1941, 135.

[56] Franziskus, Gedenkansprache nach dem Besuch des Grabes von don Lorenzo Milani (Barbiana, 20. Juni 2017), 2: AAS 109 (2017), 745.

[57] Hl. Johannes Paul II., Discorso ai partecipanti al Capitolo Generale dei Chierici Regolari Poveri della Madre di Dio delle Scuole Pie (Scolopi) (5. Juli 1997), 2: L’Osservatore Romano, 6. Juli 1997, 5.

[58] Ebd.

[59] Ders., Homilie bei der Heiligsprechung (18. April 1999): AAS 91 (1999), 930.

[60] Vgl. Ders., Brief Iuvenum Patris (31. Januar 1988), 9: AAS 80 (1988), 976.

[61] Vgl. Franziskus, Ansprache an die Teilnehmer an der Generalkongregation des »Institutum Caritatis« (Rosminianer) (1. Oktober 2018): L’Osservatore Romano, 1.-2. Oktober 2018, 7.

[62] Ders., Homilie bei der Heiligsprechung (9. Oktober 2022): AAS 114 (2022) 1338.

[63] Hl. Johannes Paul II., Botschaft an die Missionarinnen vom Heiligsten Herzen Jesu (31. Mai 2000), 3: L’Osservatore Romano, 16. Juli 2000, 5.

[64] Vgl. Pius XII., Apostolisches Breve Superiore Iam Aetate (8. September 1950): AAS 43 (1951), 455-456.

[65] Franziskus, Botschaft zum CV. Welttag des Migranten und des Flüchtlings (27. Mai 2019): AAS 111 (2019), 911.

[66] Ders., Botschaft zum C. Welttag des Migranten und des Flüchtlings (5. August 2013): AAS 105 (2013), 930.

[67] Hl. Teresa von Kalkutta, Acceptance speech (Oslo, 10. Dezember 1979).

[68] Hl. Johannes Paul II., Ansprache an die zur Seligsprechung von Mutter Teresa angereisten Pilger (20. Oktober 2003), 3: L’Osservatore Romano, 20.-21. Oktober 2003, 10.

[69] Franziskus, Homilie bei der Heiligsprechung (13. Oktober 2019): AAS 111 (2019), 1712.

[70] Hl. Johannes Paul II., Apostolisches Schreiben Novo millennio ineunte (6. Januar 2001), 49: AAS 93 (2001), 302.

[71] Franziskus, Apostolisches Schreiben Christus vivit (25. März 2019), 231: AAS 111 (2019), 458.

[72] Ders., Ansprache an die Teilnehmer der Internationalen Begegnung der Volksbewegungen (28. Oktober 2014): AAS 106 (2014), 851-852.

[73] Ebd.: AAS 106 (2014), 859.

[74] Ders., Ansprache an die Teilnehmer der 3. Internationalen Begegnung der Volksbewegungen (5. November 2016): L’Osservatore Romano, 7.-8. November 2016, 5.

[75] Ebd.

[76] Hl. Johannes XXIII., Radiomessaggio a tutti i fedeli del mondo ad un mese dall’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II (11. September 1962): AAS 54 (1962). 682.

[77] G. Lercaro, Intervento nella XXXV Congregazione Generale del Concilio Ecumenico Vaticano II (6. Dezember 1962): AS I/IV 327-328.

[78] Ebd., 4: AS I/IV, 329.

[79] Istituto per le Scienze Religiose (Hrsg.), Per la forza dello Spirito. Discorsi conciliari del Card. Giacomo Lercaro, Bologna 1984, 115.

[80] Hl. Paul VI., Allocuzione nella solenne inaugurazione della II Sessione del Concilio Ecumenico Vaticano II (29. September 1963): AAS 55 (1963), 857.

[81] Ders., Katechese (11. November 1964): Insegnamenti di Paolo VI, II (1964), 984.

[82] Zweites Vatikanisches Konzil, Pastoralkonstitution Gaudium et spes, 69, 71.

[83] Hl. Paul VI. Enzyklika Populorum Progressio (26. März 1967), 23: AAS 59 (1967), 269.

[84] Vgl. ebd., 4: AAS 59 (1967), 259.

[85] Hl. Johannes Paul II., Enzyklika Sollicitudo rei socialis (30. Dezember 1987), 42: AAS 80 (1988), 572.

[86] Ebd.: AAS 80 (1988), 573.

[87] Ders., Enzyklika Laborem exercens (14. September 1981), 3: AAS 73 (1981), 584.

[88] Benedikt XVI., Enzyklika Caritas in veritate (29. Juni 2009), 7: AAS 101 (2009), 645.

[89] Ebd., 27: AAS 101 (2009), 661.

[90] Zweite Generalversammlung des Lateinamerikanischen Episkopats, Schlussdokument von Medellín (24. Oktober 1968), 14, Nr. 7: CELAM, Medellín. Conclusiones, Lima 2005, S. 131-132.

[91] Franziskus, Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium (24. November 2013), 202: AAS 105 (2013), 1105.

[92] Ebd., 205: AAS 105 (2013), 1106.

[93] Ebd., 190: AAS 105 (2013), 1099.

[94] Ebd., 56: AAS 105 (2013), 1043.

[95] Ders., Enzyklika Dilexit nos (24. Oktober 2024), 183: AAS 116 (2024), 1427.

[96] Hl. Johannes Paul II., Enzyklika Centesimus annus (1. Mai 1991), 41: AAS 83 (1991), 844-845.

[97] Franziskus, Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium (24. November 2013), 202: AAS 105 (2013), 1105.

[98] Ebd.

[99] Ders., Enzyklika Fratelli tutti (3. Oktober 2020), 22: AAS 112 (2020), 976.

[100] Ders., Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium (24. November 2013), 209: AAS 105 (2013), 1107.

[101] Ders., Enzyklika Laudato si’ (24. Mai 2015), 50: AAS 107 (2015), 866.

[102] Ders., Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium (24. November 2013), 210: AAS 105 (2013), 1107.

[103] Ders., Enzyklika Laudato si’ (24. Mai 2015), 43: AAS 107 (2015), 863.

[104] Ebd., 48: AAS 107 (2015), 865.

[105] Ders., Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium (24. November 2013), 180: AAS 105 (2013), 1095.

[106] Kongregation für die Glaubenslehre, Instruktion über einige Aspekte der „Theologie der Befreiung“ (6. August 1984), XI, 18: AAS 76 (1984), 907-908.

[107] V. Generalkonferenz der Bischofskonferenzen von Lateinamerika und der Karibik, Schlussdokument von Aparecida (29. Juni 2007), Nr. 392, Bogotá 2007, S. 179-180. Vgl. Benedikt XVI, Ansprache zur Eröffnung der Arbeiten der V. Generalkonferenz der Bischofskonferenzen von Lateinamerika und der Karibik (13. Mai 2007), 3: AAS 99 (2007) 450.

[108] Vgl. V. Generalkonferenz der Bischofskonferenzen von Lateinamerika und der Karibik Schlussdokument von Aparecida (29. Juni 2007), Nr. 43-87, S. 31-47.

[109] Dies., Botschaft (29. Mai 2007), Nr. 4, Bogotá 2007, S. 275.

[110] Dies., Schlussdokument von Aparecida (29. Juni 2007), Nr. 398, S. 182.

[111] Franziskus, Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium (24. November 2013), 199: AAS 105 (2013), 1103-1104.

[112] Ebd., 198: AAS 105 (2013), 1103.

[113] Ebd.

[114] V. Generalkonferenz der Bischofskonferenzen von Lateinamerika und der Karibik, Schlussdokument von Aparecida (29. Juni 2007), Nr. 397, S. 182.

[115] Franziskus, Enzyklika Fratelli tutti (3. Oktober 2020), 64: AAS 112 (2020), 992.

[116] Ders., Apostolisches Schreiben Gaudete et exsultate (19. März 2018), 98: AAS 110 (2018), 1137.

[117] Ders., Enzyklika Fratelli tutti (3. Oktober 2020), 65-66: AAS 112 (2020), 992.

[118] Hl. Gregor der Große, Homilie 40, 10: SCh 522, Paris 2008, 552-554.

[119] Ebd., 6: SCh 522, 546.

[120] Ebd., 3: SCh 522, 536.

[121] Hl. Johannes Paul II., Enzyklika Centesimus Annus (1. Mai 1991), 57: AAS 83 (1991), 862-863.

[122] Franziskus, Pfingstvigil mit den kirchlichen Bewegungen (18. Mai 2013): L’Osservatore Romano, 20.-21. Mai 2013, 5.

[123] Ders., Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium (24. November 2013), 186: AAS 105 (2013), 1098.

[124] Ebd., 188: AAS 105 (2013), 1099.

[125] Vgl ebd., 182-183: AAS 105 (2013), 1096-1097.

[126] Ebd., 207: AAS 105 (2013), 1107.

[127] Ebd., 200: AAS 105 (2013), 1104.

[128] Ders., Ansprache bei der Begegnung mit Vertretern der Welt der Arbeit in den ILVA-Stahlwerken in Genua (27. Mai 2017): AAS 109 (2017), 613

[129] Pseudo-Chrysostomus, Homilia de jejunio et eleemosyna: PG 48, 1060.

[130] Hl. Gregor von Nazianz, 14. Rede, 40: PG 35, Paris 1886, 910.

[01290-DE.01] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

EXHORTACIÓN APOSTÓLICA

DILEXI TE

DEL SANTO PADRE

LEÓN XIV

SOBRE EL AMOR HACIA LOS POBRES

1. «Te he amado» (Ap 3,9), dice el Señor a una comunidad cristiana que, a diferencia de otras, no tenía ninguna relevancia ni recursos y estaba expuesta a la violencia y al desprecio: «A pesar de tu debilidad […] obligaré […] a que se postren delante de ti» (Ap 3,8-9). Este texto evoca las palabras del cántico de María: «Derribó a los poderosos de su trono y elevó a los humildes. Colmó de bienes a los hambrientos y despidió a los ricos con las manos vacías» (Lc 1,52-53).

2. La declaración de amor del Apocalipsis remite al misterio inextinguible que el Papa Francisco ha profundizado en la encíclica Dilexit nos sobre el amor divino y humano del Corazón de Cristo. En ella hemos admirado el modo en el que Jesús se identifica «con los más pequeños de la sociedad» y cómo con su amor, entregado hasta el final, muestra la dignidad de cada ser humano, sobre todo cuando es «más débil, miserable y sufriente».[1] Contemplar el amor de Cristo «nos ayuda a prestar más atención al sufrimiento y a las carencias de los demás, nos hace fuertes para participar en su obra de liberación, como instrumentos para la difusión de su amor».[2]

3. Por esta razón, en continuidad con la encíclica Dilexit nos, el Papa Francisco estaba preparando, en los últimos meses de su vida, una exhortación apostólica sobre el cuidado de la Iglesia por los pobres y con los pobres, titulada Dilexi te, imaginando que Cristo se dirigiera a cada uno de ellos diciendo: no tienes poder ni fuerza, pero «yo te he amado» (Ap 3,9). Habiendo recibido como herencia este proyecto, me alegra hacerlo mío —añadiendo algunas reflexiones— y proponerlo al comienzo de mi pontificado, compartiendo el deseo de mi amado predecesor de que todos los cristianos puedan percibir la fuerte conexión que existe entre el amor de Cristo y su llamada a acercarnos a los pobres. De hecho, también yo considero necesario insistir sobre este camino de santificación, porque en el «llamado a reconocerlo en los pobres y sufrientes se revela el mismo corazón de Cristo, sus sentimientos y opciones más profundas, con las cuales todo santo intenta configurarse».[3]

CAPÍTULO PRIMERO

ALGUNAS PALABRAS INDISPENSABLES

4. Los discípulos de Jesús criticaron a la mujer que le había derramado un perfume muy valioso sobre su cabeza: «¿Para qué este derroche? —decían— Se hubiera podido vender el perfume a buen precio para repartir el dinero entre los pobres». Pero el Señor les dijo: «A los pobres los tendrán siempre con ustedes, pero a mí no me tendrán siempre» (Mt 26,8-9.11). Aquella mujer había comprendido que Jesús era el Mesías humilde y sufriente sobre el que debía derramar su amor. ¡Qué consuelo ese ungüento sobre aquella cabeza que algunos días después sería atormentada por las espinas! Era un gesto insignificante, ciertamente, pero quien sufre sabe cuán importante es un pequeño gesto de afecto y cuánto alivio puede causar. Jesús lo comprende y sanciona su perennidad: «Allí donde se proclame esta Buena Noticia, en todo el mundo, se contará también en su memoria lo que ella hizo» (Mt 26,13). La sencillez de este gesto revela algo grande. Ningún gesto de afecto, ni siquiera el más pequeño, será olvidado, especialmente si está dirigido a quien vive en el dolor, en la soledad o en la necesidad, como se encontraba el Señor en aquel momento.

5. Y es precisamente en esta perspectiva que el afecto por el Señor se une al afecto por los pobres. Aquel Jesús que dice: «A los pobres los tendrán siempre con ustedes» (Mt 26,11) expresa el mismo concepto que cuando promete a los discípulos: «Yo estaré siempre con ustedes» (Mt 28,20). Y al mismo tiempo nos vienen a la mente aquellas palabras del Señor: «Cada vez que lo hicieron con el más pequeño de mis hermanos, lo hicieron conmigo» (Mt 25,40). No estamos en el horizonte de la beneficencia, sino de la Revelación; el contacto con quien no tiene poder ni grandeza es un modo fundamental de encuentro con el Señor de la historia. En los pobres Él sigue teniendo algo que decirnos.

San Francisco

6. El Papa Francisco, recordando la elección de su nombre, contó que, después de haber sido elegido, un cardenal amigo lo abrazó, lo besó y le dijo: «¡No te olvides de los pobres!».[4] Se trata de la misma recomendación hecha a san Pablo por las autoridades de la Iglesia cuando subió a Jerusalén para confirmar su misión (cf. Ga 2,1-10). Años más tarde, el Apóstol pudo afirmar que fue esto lo que siempre había tratado de hacer (cf. v. 10). Y fue también la opción de san Francisco de Asís: en el leproso fue Cristo mismo quien lo abrazó, cambiándole la vida. La figura luminosa del Poverello nunca dejará de inspirarnos.

7. Fue él, hace ocho siglos, quien provocó un renacimiento evangélico entre los cristianos y en la sociedad de su tiempo. Al joven Francisco, antes rico y arrogante, le impactó encontrarse con la realidad de los marginados. El impulso que provocó no cesa de movilizar el ánimo de los creyentes y de muchos no creyentes, y «ha cambiado la historia».[5] El mismo Concilio Vaticano II, según las palabras de san Pablo VI, se encuentra en este camino: «la antigua historia del buen samaritano ha sido el paradigma de la espiritualidad del Concilio».[6] Estoy convencido de que la opción preferencial por los pobres genera una renovación extraordinaria tanto en la Iglesia como en la sociedad, cuando somos capaces de liberarnos de la autorreferencialidad y conseguimos escuchar su grito.

El grito de los pobres

8. A este respecto, hay un texto de la Sagrada Escritura al que siempre es necesario volver. Se trata de la revelación de Dios a Moisés junto a la zarza ardiente: «Yo he visto la opresión de mi pueblo, que está en Egipto, y he oído los gritos de dolor, provocados por sus capataces. Sí, conozco muy bien sus sufrimientos. Por eso he bajado a librarlo […]. Ahora ve, yo te envío» (Ex 3,7-8.10).[7] Dios se muestra solícito hacia la necesidad de los pobres: «clamaron al Señor, y él hizo surgir un salvador» (Jc 3,15). Por eso, escuchando el grito del pobre, estamos llamados a identificarnos con el corazón de Dios, que es premuroso con las necesidades de sus hijos y especialmente de los más necesitados. Permaneciendo, por el contrario, indiferentes a este grito, el pobre apelaría al Señor contra nosotros y seríamos culpables de un pecado (cf. Dt 15,9), alejándonos del corazón mismo de Dios.

9. La condición de los pobres representa un grito que, en la historia de la humanidad, interpela constantemente nuestra vida, nuestras sociedades, los sistemas políticos y económicos, y especialmente a la Iglesia. En el rostro herido de los pobres encontramos impreso el sufrimiento de los inocentes y, por tanto, el mismo sufrimiento de Cristo. Al mismo tiempo, deberíamos hablar quizás más correctamente de los numerosos rostros de los pobres y de la pobreza, porque se trata de un fenómeno variado; en efecto, existen muchas formas de pobreza: aquella de los que no tienen medios de sustento material, la pobreza del que está marginado socialmente y no tiene instrumentos para dar voz a su dignidad y a sus capacidades, la pobreza moral y espiritual, la pobreza cultural, la del que se encuentra en una condición de debilidad o fragilidad personal o social, la pobreza del que no tiene derechos, ni espacio, ni libertad.

10. En este sentido, se puede decir que el compromiso en favor de los pobres y con el fin de remover las causas sociales y estructurales de la pobreza, aun siendo importante en los últimos decenios, sigue siendo insuficiente. Esto también porque vivimos en una sociedad que a menudo privilegia algunos criterios de orientación de la existencia y de la política marcados por numerosas desigualdades y, por tanto, a las viejas pobrezas de las que hemos tomado conciencia y que se intenta contrastar, se agregan otras nuevas, en ocasiones más sutiles y peligrosas. Desde este punto de vista, es encomiable el hecho de que las Naciones Unidas hayan puesto la erradicación de la pobreza como uno de los objetivos del Milenio.

11. Al compromiso concreto por los pobres también es necesario asociar un cambio de mentalidad que pueda incidir en la transformación cultural. En efecto, la ilusión de una felicidad que deriva de una vida acomodada mueve a muchas personas a tener una visión de la existencia basada en la acumulación de la riqueza y del éxito social a toda costa, que se ha de conseguir también en detrimento de los demás y beneficiándose de ideales sociales y sistemas políticos y económicos injustos, que favorecen a los más fuertes. De ese modo, en un mundo donde los pobres son cada vez más numerosos, paradójicamente, también vemos crecer algunas élites de ricos, que viven en una burbuja muy confortable y lujosa, casi en otro mundo respecto a la gente común. Eso significa que todavía persiste —a veces bien enmascarada— una cultura que descarta a los demás sin advertirlo siquiera y tolera con indiferencia que millones de personas mueran de hambre o sobrevivan en condiciones indignas del ser humano. Hace algunos años, la foto de un niño tendido sin vida en una playa del Mediterráneo provocó un gran impacto y, lamentablemente, aparte de alguna emoción momentánea, hechos similares se están volviendo cada vez más irrelevantes, reduciéndose a noticias marginales.

12. No debemos bajar la guardia respecto a la pobreza. Nos preocupan particularmente las graves condiciones en las que se encuentran muchísimas personas a causa de la falta de comida y de agua. Cada día mueren varios miles de personas por causas vinculadas a la malnutrición. En los países ricos las cifras relativas al número de pobres tampoco son menos preocupantes. En Europa hay cada vez más familias que no logran llegar a fin de mes. En general, se percibe que han aumentado las distintas manifestaciones de la pobreza. Esta ya no se configura como una única condición homogénea, más bien se traduce en múltiples formas de empobrecimiento económico y social, reflejando el fenómeno de las crecientes desigualdades también en contextos generalmente acomodados. Recordemos que «doblemente pobres son las mujeres que sufren situaciones de exclusión, maltrato y violencia, porque frecuentemente se encuentran con menores posibilidades de defender sus derechos. Sin embargo, también entre ellas encontramos constantemente los más admirables gestos de heroísmo cotidiano en la defensa y el cuidado de la fragilidad de sus familias».[8] Si bien en algunos países se observan cambios importantes, «la organización de las sociedades en todo el mundo todavía está lejos de reflejar con claridad que las mujeres tienen exactamente la misma dignidad e idénticos derechos que los varones. Se afirma algo con las palabras, pero las decisiones y la realidad gritan otro mensaje»,[9] sobre todo si pensamos en las mujeres más pobres.

Prejuicios ideológicos

13. Más allá de los datos —que a veces son “interpretados” en modo tal de convencernos que la situación de los pobres no es tan grave—, la realidad general es bastante clara: «Hay reglas económicas que resultaron eficaces para el crecimiento, pero no así para el desarrollo humano integral. Aumentó la riqueza, pero con inequidad, y así lo que ocurre es que “nacen nuevas pobrezas”. Cuando dicen que el mundo moderno redujo la pobreza, lo hacen midiéndola con criterios de otras épocas no comparables con la realidad actual. Porque en otros tiempos, por ejemplo, no tener acceso a la energía eléctrica no era considerado un signo de pobreza ni generaba angustia. La pobreza siempre se analiza y se entiende en el contexto de las posibilidades reales de un momento histórico concreto».[10] Sin embargo, más allá de las situaciones específicas y contextuales, en un documento de la Comunidad Europea, en 1984, se afirmaba que «se entiende por personas pobres los individuos, las familias y los grupos de personas cuyos recursos (materiales, culturales y sociales) son tan escasos que no tienen acceso a las condiciones de vida mínimas aceptables en el Estado miembro en que viven».[11] Pero si reconocemos que todos los seres humanos tienen la misma dignidad, independientemente del lugar de nacimiento, no se deben ignorar las grandes diferencias que existen entre los países y las regiones.

14. Los pobres no están por casualidad o por un ciego y amargo destino. Menos aún la pobreza, para la mayor parte de ellos, es una elección. Y, sin embargo, todavía hay algunos que se atreven a afirmarlo, mostrando ceguera y crueldad. Obviamente entre los pobres hay también quien no quiere trabajar, quizás porque sus antepasados, que han trabajado toda la vida, han muerto pobres. Pero hay muchos —hombres y mujeres— que de todas maneras trabajan desde la mañana hasta la noche, a veces recogiendo cartones o haciendo otras actividades de ese tipo, aunque este esfuerzo sólo les sirva para sobrevivir y nunca para mejorar verdaderamente su vida. No podemos decir que la mayor parte de los pobres lo son porque no hayan obtenido “méritos”, según esa falsa visión de la meritocracia en la que parecería que sólo tienen méritos aquellos que han tenido éxito en la vida.

15. También los cristianos, en muchas ocasiones, se dejan contagiar por actitudes marcadas por ideologías mundanas o por posicionamientos políticos y económicos que llevan a injustas generalizaciones y a conclusiones engañosas. El hecho de que el ejercicio de la caridad resulte despreciado o ridiculizado, como si se tratase de la fijación de algunos y no del núcleo incandescente de la misión eclesial, me hace pensar que siempre es necesario volver a leer el Evangelio, para no correr el riesgo de sustituirlo con la mentalidad mundana. No es posible olvidar a los pobres si no queremos salir fuera de la corriente viva de la Iglesia que brota del Evangelio y fecunda todo momento histórico.

CAPÍTULO SEGUNDO

DIOS OPTA POR LOS POBRES

La opción por los pobres

16. Dios es amor misericordioso y su proyecto de amor, que se extiende y se realiza en la historia, es ante todo su descenso y su venida entre nosotros para liberarnos de la esclavitud, de los miedos, del pecado y del poder de la muerte. Con una mirada misericordiosa y el corazón lleno de amor, Él se dirigió a sus criaturas, haciéndose cargo de su condición humana y, por tanto, de su pobreza. Precisamente para compartir los límites y las fragilidades de nuestra naturaleza humana, Él mismo se hizo pobre, nació en carne como nosotros, lo hemos conocido en la pequeñez de un niño colocado en un pesebre y en la extrema humillación de la cruz, allí compartió nuestra pobreza radical, que es la muerte. Se comprende bien, entonces, por qué se puede hablar también teológicamente de una opción preferencial de Dios por los pobres, una expresión nacida en el contexto del continente latinoamericano y en particular en la Asamblea de Puebla, pero que ha sido bien integrada en el magisterio de la Iglesia sucesivo.[12] Esta “preferencia” no indica nunca un exclusivismo o una discriminación hacia otros grupos, que en Dios serían imposibles; esta desea subrayar la acción de Dios que se compadece ante la pobreza y la debilidad de toda la humanidad y, queriendo inaugurar un Reino de justicia, fraternidad y solidaridad, se preocupa particularmente de aquellos que son discriminados y oprimidos, pidiéndonos también a nosotros, su Iglesia, una opción firme y radical en favor de los más débiles.

17. Se comprenden en esta perspectiva las numerosas páginas del Antiguo Testamento en las que Dios es presentado como amigo y liberador de los pobres, Aquel que escucha el grito del pobre e interviene para liberarlo (cf. Sal 34,7). Dios, refugio del pobre, por medio de los profetas —recordemos en particular a Amós e Isaías— denuncia las iniquidades en perjuicio de los más débiles y dirige a Israel la exhortación a renovar también el culto desde dentro, porque no se puede rezar ni ofrecer sacrificios mientras se oprime a los más débiles y a los más pobres. Desde el comienzo, la Escritura manifiesta con mucha intensidad el amor de Dios a través de la protección de los débiles y de los que menos tienen, hasta el punto de poder hablar de una auténtica “debilidad” de Dios para con ellos. «El corazón de Dios tiene un sitio preferencial para los pobres […]. Todo el camino de nuestra redención está signado por los pobres».[13]

Jesús, Mesías pobre

18. Toda la historia veterotestamentaria de la predilección de Dios por los pobres y el deseo divino de escuchar su grito —que he evocado brevemente— encuentra en Jesús de Nazaret su plena realización.[14] En su encarnación, Él «se anonadó a sí mismo, tomando la condición de servidor y haciéndose semejante a los hombres. Y presentándose con aspecto humano» (Flp 2,7), de esa forma nos trajo la salvación. Se trata de una pobreza radical, fundada sobre su misión de revelar el verdadero rostro del amor divino (cf. Jn 1,18; 1 Jn 4,9). Por tanto, con una de sus admirables síntesis, san Pablo puede afirmar: «Ya conocen la generosidad de nuestro Señor Jesucristo que, siendo rico, se hizo pobre por nosotros, a fin de enriquecernos con su pobreza» (2 Co 8,9).

19. En efecto, el Evangelio muestra que esta pobreza incidió en cada aspecto de su vida. Desde su llegada al mundo, Jesús experimentó las dificultades relativas al rechazo. El evangelista Lucas, narrando la llegada a Belén de José y María, ya próxima a dar a luz, observa con amargura: «No había lugar para ellos en el albergue» (Lc 2,7). Jesús nació en condiciones humildes; recién nacido fue colocado en un pesebre y, muy pronto, para salvarlo de la muerte, sus padres huyeron a Egipto (cf. Mt 2,13-15). Al inicio de la vida pública, fue expulsado de Nazaret después de haber anunciado que en Él se cumple el año de gracia del que se alegran los pobres (cf. Lc 4,14-30). No hubo un lugar acogedor ni siquiera a la hora de su muerte, ya que lo condujeron fuera de Jerusalén para crucificarlo (cf. Mc 15,22). En esta condición se puede resumir claramente la pobreza de Jesús. Se trata de la misma exclusión que caracteriza la definición de los pobres: ellos son los excluidos de la sociedad. Jesús es la revelación de este privilegium pauperum. Él se presenta al mundo no sólo como Mesías pobre sino como Mesías de los pobres y para los pobres.

20. Hay algunos indicios a propósito de la condición social de Jesús. En primer lugar, Él realizaba el oficio de artesano o carpintero, téktōn (cf. Mc 6,3). Se trata de una categoría de personas que vivían de su trabajo manual. Además, al no poseer tierras, eran considerados inferiores respecto a los campesinos. Cuando el pequeño Jesús fue presentado en el Templo por José y María, sus progenitores ofrecieron una pareja de tórtolas o de pichones (cf. Lc 2,22-24), que según las prescripciones del libro del Levítico (cf. 12,8) era la ofrenda de los pobres. Un episodio evangélico significativo es el que relata cómo Jesús, junto con sus discípulos, arrancaban espigas para comer mientras atravesaban los campos (cf. Mc 2,23-28), y esto —espigar los sembrados— sólo le era permitido a los pobres. Jesús mismo, luego, dice de sí: «Los zorros tienen sus cuevas y las aves del cielo sus nidos; pero el Hijo del hombre no tiene dónde reclinar la cabeza» (Mt 8,20; Lc 9,58). Él, en efecto, es un maestro itinerante, cuya pobreza y precariedad es signo de su vínculo con el Padre y es lo que se le pide también a quien quiere seguirlo en el camino del discipulado, precisamente para que la renuncia a los bienes, a las riquezas y a las seguridades de este mundo sean signo visible de la confianza en Dios y en su providencia.

21. Al comienzo de su ministerio público, Jesús se presenta en la sinagoga de Nazaret leyendo el libro del profeta Isaías y aplicándose a sí mismo la palabra del profeta: «El Espíritu del Señor está sobre mí, porque me ha consagrado por la unción. Él me envió a llevar la Buena Noticia a los pobres» (Lc 4,18; cf. Is 61,1). Él, por tanto, se presenta como Aquel que viene a manifestar en el hoy de la historia la cercanía amorosa de Dios, que es ante todo obra de liberación para quienes son prisioneros del mal, para los débiles y los pobres. Los signos que acompañan la predicación de Jesús son manifestación del amor y de la compasión con la que Dios mira a los enfermos, a los pobres y a los pecadores que, en virtud de su condición, eran marginados por la sociedad, pero también por la religión. Él abre los ojos a los ciegos, cura a los leprosos, resucita a los muertos y anuncia la buena noticia a los pobres; Dios se acerca, Dios los ama (cf. Lc 7,22). Esto explica por qué Él proclama: «¡Felices ustedes, los pobres, porque el Reino de Dios les pertenece!» (Lc 6,20). En efecto, Dios muestra predilección hacia los pobres, a ellos se dirige la palabra de esperanza y de liberación del Señor y, por eso, aun en la condición de pobreza o debilidad, ya ninguno debe sentirse abandonado. Y la Iglesia, si quiere ser de Cristo, debe ser la Iglesia de las Bienaventuranzas, una Iglesia que hace espacio a los pequeños y camina pobre con los pobres, un lugar en el que los pobres tienen un sitio privilegiado (cf. St 2,2-4).

22. Los indigentes y enfermos, incapaces de procurarse lo necesario para vivir, se encontraban muchas veces obligados a la mendicidad. A esto se añadía el peso de la vergüenza social, alimentado por la convicción de que la enfermedad y la pobreza estuvieran vinculadas a algún pecado personal. Jesús se opuso con firmeza a ese modo de pensar, afirmando que Dios «hace salir el sol sobre malos y buenos y hace caer la lluvia sobre justos e injustos» (Mt 5,45). Es más, dio un vuelco completo a esa concepción, como queda bien ejemplificado en la parábola del rico epulón y del pobre Lázaro: «Hijo mío, […] recuerda que has recibido tus bienes en vida y Lázaro, en cambio, recibió males; ahora él encuentra aquí su consuelo, y tú, el tormento» (Lc 16,25).

23. Entonces es claro que «de nuestra fe en Cristo hecho pobre, y siempre cercano a los pobres y excluidos, brota la preocupación por el desarrollo integral de los más abandonados de la sociedad».[15] Muchas veces me pregunto por qué, aun cuando las Sagradas Escrituras son tan precisas a propósito de los pobres, muchos continúan pensando que pueden excluir a los pobres de sus atenciones. Por el momento, sigamos aún en el ámbito bíblico e intentando reflexionar sobre nuestra relación con los últimos de la sociedad y su lugar fundamental en el pueblo de Dios.

La misericordia hacia los pobres en la Biblia

24. El apóstol Juan escribe: «¿Cómo puede amar a Dios, a quien no ve, el que no ama a su hermano, a quien ve?» (1 Jn 4,20). Del mismo modo, en su réplica al doctor de la ley, Jesús retoma los dos antiguos mandamientos: «Amarás al Señor, tu Dios, con todo tu corazón, con toda tu alma y con todas tus fuerzas» (Dt 6,5) y «amarás a tu prójimo como a ti mismo» (Lv 19,18) fundiéndolos en un único mandamiento. El evangelista Marcos recoge la respuesta de Jesús en estos términos: «El primero es: Escucha, Israel: el Señor nuestro Dios es el único Señor; y tú amarás al Señor, tu Dios, con todo tu corazón y con toda tu alma, con todo tu espíritu y con todas tus fuerzas. El segundo es: Amarás a tu prójimo como a ti mismo. No hay otro mandamiento más grande que estos» (Mc 12,29-31).

25. El pasaje citado del Levítico exhorta a honrar al conciudadano, mientras en otros textos se encuentra una enseñanza que también invita al respeto —por no decir incluso al amor— del enemigo: «Si encuentras perdido el buey o el asno de tu enemigo, se los llevarás inmediatamente. Si ves al asno del que te aborrece, caído bajo el peso de su carga, no lo dejarás abandonado; más aún, acudirás a auxiliarlo junto con su dueño» (Ex 23,4-5). De todo esto se trasluce el valor intrínseco del respeto a la persona: cualquiera, incluso el enemigo, si se encuentra en dificultad, merece siempre nuestra ayuda.

26. Es innegable que el primado de Dios en la enseñanza de Jesús va acompañado de otro punto fijo: no se puede amar a Dios sin extender el propio amor a los pobres. El amor al prójimo representa la prueba tangible de la autenticidad del amor a Dios, como asevera el apóstol Juan: «Nadie ha visto nunca a Dios: si nos amamos los unos a los otros, Dios permanece en nosotros y el amor de Dios ha llegado a su plenitud en nosotros. […] Dios es amor, y el que permanece en el amor permanece en Dios, y Dios permanece en él» (1 Jn 4,12.16). Son dos amores distintos, pero inseparables. Incluso en los casos en los que la relación con Dios no es explícita, el Señor mismo nos enseña que todo acto de amor hacia el prójimo es de algún modo un reflejo de la caridad divina: «Les aseguro que cada vez que lo hicieron con el más pequeño de mis hermanos, lo hicieron conmigo» (Mt 25,40).

27. Por esta razón se recomiendan las obras de misericordia, como signo de la autenticidad del culto que, mientras alaba a Dios, tiene la tarea de disponernos a la transformación que el Espíritu puede realizar en nosotros, para que seamos todos imagen de Cristo y de su misericordia hacia los más débiles. En este sentido, la relación con el Señor, que se expresa en el culto, pretende también liberarnos del riesgo de vivir nuestras relaciones en la lógica del cálculo y del interés, para abrirnos a la gratuidad que circula entre aquellos que se aman y que, por eso, ponen todo en común. A este respecto, Jesús aconseja: «Cuando des un almuerzo o una cena, no invites a tus amigos, ni a tus hermanos, ni a tus parientes, ni a los vecinos ricos, no sea que ellos te inviten a su vez, y así tengas tu recompensa. Al contrario, cuando des un banquete, invita a los pobres, a los lisiados, a los paralíticos, a los ciegos. ¡Feliz de ti, porque ellos no tienen cómo retribuirte!» (Lc 14,12-14).

28. La llamada del Señor a la misericordia para con los pobres ha encontrado una expresión plena en la gran parábola del juicio final (cf. Mt 25,31-46), que es también una descripción gráfica de la bienaventuranza de los misericordiosos. Allí el Señor nos ofrece la clave para alcanzar nuestra plenitud, porque «si buscamos esa santidad que agrada a los ojos de Dios, en este texto hallamos precisamente un protocolo sobre el cual seremos juzgados».[16] Las palabras fuertes y claras del Evangelio deberían ser vividas «sin comentario, sin elucubraciones y excusas que les quiten fuerza. El Señor nos dejó bien claro que la santidad no puede entenderse ni vivirse al margen de estas exigencias suyas».[17]

29. En la primera comunidad cristiana el programa de caridad no derivaba de análisis o de proyectos, sino directamente del ejemplo de Jesús, de las mismas palabras del Evangelio. La Carta de Santiago dedica mucho espacio al problema de la relación entre ricos y pobres, lanzando a los creyentes dos enérgicos llamados que cuestionan su fe: «¿De qué le sirve a uno, hermanos míos, decir que tiene fe, si no tiene obras? ¿Acaso esa fe puede salvarlo? ¿De qué sirve si uno de ustedes, al ver a un hermano o una hermana desnudos o sin el alimento necesario, les dice: “Vayan en paz, caliéntense y coman”, y no les da lo que necesitan para su cuerpo? Lo mismo pasa con la fe: si no va acompañada de las obras, está completamente muerta» (St 2,14-17).

30. «Su oro y su plata se han herrumbrado, y esa herrumbre dará testimonio contra ustedes y devorará sus cuerpos como un fuego. ¡Ustedes han amontonado riquezas, ahora que es el tiempo final! Sepan que el salario que han retenido a los que trabajaron en sus campos está clamando, y el clamor de los cosechadores ha llegado a los oídos del Señor del universo. Ustedes llevaron en este mundo una vida de lujo y de placer, y se han cebado a sí mismos para el día de la matanza» (St 5,3-5). ¡Qué fuerza tienen estas palabras, aunque prefiramos hacernos los sordos! En la Primera Carta de san Juan encontramos una exhortación parecida: «Si alguien vive en la abundancia, y viendo a su hermano en la necesidad, le cierra su corazón, ¿cómo permanecerá en él el amor de Dios?» (1 Jn 3,17).

31. Lo que dice la Palabra revelada «es un mensaje tan claro, tan directo, tan simple y elocuente, que ninguna hermenéutica eclesial tiene derecho a relativizarlo. La reflexión de la Iglesia sobre estos textos no debería oscurecer o debilitar su sentido exhortativo, sino más bien ayudar a asumirlos con valentía y fervor. ¿Para qué complicar lo que es tan simple? Los aparatos conceptuales están para favorecer el contacto con la realidad que pretenden explicar, y no para alejarnos de ella».[18]

32. Por otra parte, un claro ejemplo eclesial de compartir los bienes y asistir a los pobres lo encontramos en la vida cotidiana y en el estilo de la primera comunidad cristiana. Podemos recordar en particular el modo en el que fue resuelta la cuestión de la distribución cotidiana de ayuda a las viudas (cf. Hch 6,1-6). Se trataba de un problema difícil de resolver, porque algunas de estas viudas, que provenían de otros países, eran desatendidas por ser extranjeras. De hecho, el episodio relatado por los Hechos de los Apóstoles pone de manifiesto un cierto descontento por parte de los helenistas, que eran judíos de cultura griega. Los apóstoles no responden con un discurso doctrinal abstracto, sino que, volviendo a poner en el centro la caridad hacia todos, reorganizan la asistencia a las viudas pidiendo a la comunidad que busquen personas sabias y estimadas a quienes confiar el servicio de las mesas, mientras ellos se ocupaban de la predicación de la Palabra.

33. Cuando Pablo fue a Jerusalén a consultar a los apóstoles para asegurarse de «que no corría o no había corrido en vano» (Ga 2,2), le pidieron que no se olvidase de los pobres (cf. Ga 2,10). Por esta razón, organizó varias colectas para ayudar a las comunidades necesitadas. Entre las motivaciones que ofrece para este gesto se debe resaltar la siguiente: «Dios ama al que da con alegría» (2 Co 9,7). A aquellos entre nosotros que somos poco propensos a gestos gratuitos, sin ningún interés, la Palabra de Dios nos indica que la generosidad para con los pobres es un verdadero bien para quien la practica; de hecho, comportándonos así, somos amados por Dios de modo especial. En efecto, las promesas bíblicas dirigidas a quien da con generosidad son muchas: «El que se apiada del pobre presta al Señor, y él le devolverá el bien que hizo» (Pr 19,17). «Den, y se les dará. […] Porque la medida con que ustedes midan también se usará para ustedes» (Lc 6,38). «Entonces despuntará tu luz como la aurora y tu llaga no tardará en cicatrizar» (Is 58,8). Los primeros cristianos estaban convencidos de ello.

34. La vida de las primeras comunidades eclesiales, narrada en el canon bíblico y que ha llegado a nosotros como Palabra revelada, se nos ofrece como ejemplo a imitar y como testimonio de la fe que obra por medio de la caridad, y que continúa como exhortación permanente para las generaciones venideras. A lo largo de los siglos, estas páginas han interpelado los corazones de los cristianos a amar y a realizar obras de caridad, como semillas fecundas que no cesan de producir fruto.

CAPÍTULO TERCERO

UNA IGLESIA PARA LOS POBRES

35. Tres días después de su elección, mi predecesor expresó a los representantes de los medios de comunicación su deseo de que la Iglesia mostrara más claramente su cuidado y atención hacia los pobres: «¡Ah, cómo quisiera una Iglesia pobre y para los pobres!».[19]

36. Este deseo refleja la conciencia de que la Iglesia «reconoce en los pobres y en los que sufren la imagen de su Fundador pobre y paciente, se esfuerza en remediar sus necesidades y procura servir en ellos a Cristo».[20] En efecto, habiendo sido llamada a configurarse con los últimos, en ella «no deben quedar dudas ni caben explicaciones que debiliten este mensaje tan claro [...]. Hay que decir sin vueltas que existe un vínculo inseparable entre nuestra fe y los pobres».[21] A este respecto, tenemos abundantes testimonios a lo largo de los casi dos mil años de historia de los discípulos de Jesús.[22]

La verdadera riqueza de la Iglesia

37. San Pablo refiere que entre los fieles de la naciente comunidad cristiana no había «muchos sabios, ni muchos poderosos, ni muchos nobles» (1 Co 1,26). Sin embargo, a pesar de su propia pobreza, los primeros cristianos tienen clara conciencia de la necesidad de acudir a aquellos que sufren mayores privaciones. Ya en los albores del cristianismo los apóstoles impusieron las manos sobre siete hombres elegidos por la comunidad y, en cierta medida, los integraron en su propio ministerio, instituyéndolos para el servicio —en griego, diakonía— de los más pobres (cf. Hch 6,1-5). Es significativo que el primer discípulo en dar testimonio de su fe en Cristo con el derramamiento de su propia sangre fuera san Esteban, que formaba parte de este grupo. En él se unen el testimonio de vida en la atención a los necesitados y el martirio.

38. Poco más de dos siglos después, otro diácono manifestará su adhesión a Jesucristo en modo semejante, uniendo en su vida el servicio a los pobres y el martirio: san Lorenzo.[23] Del relato de san Ambrosio comprendemos que Lorenzo, diácono en Roma en el pontificado del Papa Sixto II, al ser obligado por las autoridades romanas a entregar los tesoros de la Iglesia, «al día siguiente trajo consigo a los pobres. Cuando le preguntaron dónde estaban los tesoros que había prometido, les mostró a los pobres, diciendo: “Estos son los tesoros de la Iglesia”».[24] Al narrar este episodio, Ambrosio pregunta: «¿Qué mejores tesoros tendría Cristo que aquellos en los que él mismo dijo que estaba?».[25] Y, recordando que los ministros de la Iglesia nunca deben descuidar el cuidado de los pobres y, menos aún, acumular bienes en beneficio propio, afirma: «Es necesario que cada uno de nosotros cumpla con esta obligación con fe sincera y providencia perspicaz. Sin duda, si alguien desvía algo para su propio beneficio, eso es un delito; pero si lo da a los pobres, si rescata al cautivo, eso es misericordia».[26]

Los Padres de la Iglesia y los pobres

39. Desde los primeros siglos, los Padres de la Iglesia reconocieron en el pobre un acceso privilegiado a Dios, un modo especial para encontrarlo. La caridad hacia los necesitados no se entendía como una simple virtud moral, sino como expresión concreta de la fe en el Verbo encarnado. La comunidad de fieles, sostenida por la fuerza del Espíritu Santo, se encuentra arraigada en la cercanía a los pobres, que en ella no son un apéndice, sino parte esencial de su cuerpo vivo. San Ignacio de Antioquía, por ejemplo, camino del martirio, exhortaba a los fieles de la comunidad de Esmirna a no descuidar el deber de la caridad para con los más necesitados, advirtiéndoles que no procedieran como los que se oponían a Dios: «Considerad a los que tienen una opinión diferente sobre la gracia de Jesucristo, que vino a nosotros: ¡cómo se oponen al pensamiento de Dios! No se preocupan por el amor, ni por la viuda, ni por el huérfano, ni por el oprimido, ni por el prisionero o el liberto, ni por el hambriento o el sediento».[27] El obispo de Esmirna, Policarpo, recomendaba precisamente a los ministros de la Iglesia que cuidaran de los pobres: «Los presbíteros también sean compasivos, misericordiosos con todos. Traigan de vuelta a los descarriados, visiten a todos los enfermos, no descuiden a la viuda, al huérfano y al pobre, sino que sean siempre solícitos en el bien ante Dios y los hombres».[28] A partir de estos dos testimonios, constatamos que la Iglesia aparece como madre de los pobres, lugar de acogida y de justicia.

40. San Justino, por su parte, en su primera Apología, dirigida al emperador Adriano, al Senado y al pueblo romano, explicaba que los cristianos llevaban a los necesitados todo lo que podían, porque veían en ellos hermanos y hermanas en Cristo. Al escribir sobre la asamblea de oración del primer día de la semana, destacaba que, en el centro de la liturgia cristiana, no se puede separar el culto a Dios de la atención a los pobres. En efecto, en un momento determinado de la celebración, «los que tienen algo y quieren, cada uno según su libre voluntad, dan lo que les parece bien, y lo que se ha recogido se entrega al presidente. Él lo distribuye a los huérfanos y viudas, a los que por enfermedad u otra causa están necesitados, a los que están en las cárceles, a los extranjeros de paso, en una palabra, se convierte en el proveedor de todos los que se encuentran indigentes».[29] Así, se da testimonio de que la Iglesia naciente no separaba el creer de la acción social: la fe que no iba acompañada del testimonio de las obras, como había enseñado Santiago, se consideraba muerta (cf. St 2,17).

San Juan Crisóstomo

41. Entre los Padres orientales, quizá el predicador más ardiente de la justicia social sea san Juan Crisóstomo, arzobispo de Constantinopla entre los siglos IV y V. En sus homilías, exhortaba a los fieles a reconocer a Cristo en los necesitados: «¿Quieres honrar el Cuerpo de Cristo? No permitas que sea despreciado en sus miembros, es decir, en los pobres que no tienen qué vestir, ni lo honres aquí en el templo con vestiduras de seda, mientras fuera lo abandonas al frío y a la desnudez [...]. En el templo, el Cuerpo de Cristo no necesita mantos, sino almas puras; pero en la persona de los pobres, Él necesita todo nuestro cuidado. Aprendamos, pues, a reflexionar y a honrar a Cristo como Él quiere. Cuando queremos honrar a alguien, debemos prestarle el honor que él prefiere y no el que más nos gusta [...]. Así también tú debes prestarle el honor que Él mismo ha ordenado, distribuyendo tus riquezas entre los pobres. Dios no necesita vasos de oro, sino almas de oro».[30] Afirmando con claridad meridiana que si los fieles no encuentran a Cristo en los pobres a su puerta, tampoco lo encontrarán en el altar, continúa: «¿De qué serviría, al fin y al cabo, adornar la mesa de Cristo con vasos de oro, si Él muere de hambre en la persona de los pobres? Primero da de comer al que tiene hambre y luego adorna su mesa con lo que sobra».[31] Entendía la Eucaristía, por tanto, también como una expresión sacramental de la caridad y la justicia que la precedían, la acompañaban y debían darle continuidad en el amor y la atención a los pobres.

42. Así pues, la caridad no es una vía opcional, sino el criterio del verdadero culto. Crisóstomo denunciaba con vehemencia el lujo exacerbado, que convivía con la indiferencia hacia los pobres. La atención que se les debe prestar, más que una mera exigencia social, es una condición para la salvación, lo que atribuye a la riqueza injusta un peso de condena: «Hace mucho frío y el pobre yace en harapos, moribundo y helado, castañeteando los dientes, con un aspecto y un atuendo que deberían conmoverte. Tú, sin embargo, calentito y ebrio, pasas de largo. ¿Y cómo quieres que Dios te libre de la infelicidad? [...] A menudo adornas con muchas vestiduras variadas y doradas un cadáver insensible, que ya no percibe el honor. Sin embargo, desprecias a aquel que siente dolor, que está desgarrado, torturado, atormentado por el hambre y el frío, y te preocupa más la vanagloria que el temor de Dios».[32] Este profundo sentido de la justicia social le lleva a afirmar que «no dar a los pobres es robarles, es defraudarles la vida, porque lo que poseemos les pertenece».[33]

San Agustín

43. Agustín tuvo como maestro espiritual a san Ambrosio, que insistía en la exigencia ética de compartir los bienes: «Lo que das al pobre no es tuyo, es suyo. Porque te has apropiado de lo que fue dado para uso común».[34] Para el obispo de Milán, la limosna es justicia restaurada, no un gesto paternalista. En sus sermones, la misericordia adquiere un carácter profético: denuncia las estructuras de acumulación y reafirma la comunión como vocación eclesial.

44. Formado en esta tradición, el santo obispo de Hipona enseñó a su vez el amor preferencial por los pobres. Pastor vigilante y teólogo de rara clarividencia, comprendió que la verdadera comunión eclesial se expresa también en la comunión de los bienes. En sus Comentarios a los Salmos, recuerda que los verdaderos cristianos no dejan de lado el amor a los más necesitados: «Atended a vuestros hermanos, si necesitan algo; dad, si Cristo está en vosotros, incluso a los extranjeros».[35] Este compartir los bienes brota, por tanto, de la caridad teologal y tiene como fin último el amor a Cristo. Para Agustín, el pobre no es sólo alguien a quien se ayuda, sino la presencia sacramental del Señor.

45. El Doctor de la Gracia veía en el cuidado a los pobres una prueba concreta de la sinceridad de la fe. Quien dice amar a Dios y no se compadece de los necesitados, miente (cf. 1 Jn 4,20). Al comentar el encuentro de Jesús con el joven rico y el «tesoro en el cielo» que está reservado a quienes dan sus bienes a los pobres (cf. Mt 19,21), Agustín pone en boca del Señor las siguientes palabras: «Recibí tierra y daré el cielo. Recibí cosas temporales y daré a cambio bienes eternos. Recibí pan, daré la vida. […] He recibido alojamiento y daré una casa. He sido visitado en la enfermedad y daré salud. Fui visitado en la cárcel y daré libertad. El pan que se dio a mis pobres se consumió; el pan que yo daré restaura las fuerzas, sin acabarse nunca».[36] El Altísimo no se deja vencer en generosidad por aquellos que le sirven en los más necesitados; cuanto mayor es el amor a los pobres, mayor es la recompensa por parte de Dios.

46. Esta mirada cristocéntrica y profundamente eclesial lleva a sostener que las ofrendas, cuando nacen del amor, no sólo alivian la necesidad del hermano, sino que también purifican el corazón de quien da y está dispuesto a la conversión, «pues las limosnas pueden servirte para redimir los pecados de la vida pasada, si cambias de vida».[37] Son, por así decirlo, el camino ordinario de conversión de quien desea seguir a Cristo con corazón indiviso.

47. En una Iglesia que reconoce en los pobres el rostro de Cristo y en los bienes el instrumento de la caridad, el pensamiento agustiniano sigue siendo una luz segura. Hoy, la fidelidad a las enseñanzas de Agustín exige no sólo el estudio de sus obras, sino la disposición a vivir con radicalidad su llamada a la conversión, que incluye necesariamente el servicio de la caridad.

48. Muchos otros Padres de la Iglesia, tanto orientales como occidentales, se pronunciaron sobre la primacía de la atención a los pobres en la vida y misión de cada fiel cristiano. Sobre este aspecto, en resumen, se puede afirmar que la teología patrística fue práctica, apuntando a una Iglesia pobre y para los pobres, recordando que el Evangelio sólo se anuncia bien cuando llega a tocar la carne de los últimos, y advirtiendo que el rigor doctrinal sin misericordia es una palabra vacía.

Cuidar a los enfermos

49. La compasión cristiana se ha manifestado de manera peculiar en el cuidado de los enfermos y los que sufren. A partir de los signos presentes en el ministerio público de Jesús —que curaba a ciegos, leprosos y paralíticos—, la Iglesia entiende como parte importante de su misión el cuidado de los enfermos, en los que con facilidad reconoce al Señor crucificado. San Cipriano, durante una peste en la ciudad de Cartago, donde era obispo, recordaba a los cristianos la importancia del cuidado de los infectados al afirmar: «Esta epidemia que parece tan horrible y funesta pone a prueba la justicia de cada uno y examina el espíritu de los hombres, verificando si los sanos sirven a los enfermos, si los parientes se aman sinceramente, si los señores tienen piedad de los siervos enfermos, si los médicos no abandonan a los enfermos que imploran».[38] La tradición cristiana de visitar a los enfermos, de lavar sus heridas, de consolar a los afligidos no se reduce a una mera obra de filantropía, sino que es una acción eclesial a través de la cual, en los enfermos, los miembros de la Iglesia «tocan la carne sufriente de Cristo».[39]

50. En el siglo XVI, san Juan de Dios, al fundar la Orden Hospitalaria que lleva su nombre, creó hospitales modelo que acogían a todos, independientemente de su condición social o económica. Su famosa expresión “¡Haced el bien, hermanos!” se convirtió en el lema de la caridad activa con los enfermos. Contemporáneamente, san Camilo de Lelis fundó la Orden de los Ministros de los Enfermos —los camilos—, asumiendo como misión servir a los enfermos con total dedicación. Su regla ordena que «cada uno solicite al Señor la gracia de tener un afecto maternal hacia su prójimo para poderlo servir con todo amor caritativo, en el alma y el cuerpo; porque deseamos —con la gracia de Dios— servir a todos los enfermos con el mismo afecto que una madre amorosa suele asistir a su único hijo enfermo».[40] En hospitales, campos de batalla, prisiones y calles, los camilos encarnaron la misericordia de Cristo Médico.

51. Cuidando a los enfermos con cariño maternal, como una madre cuida de su hijo, muchas mujeres consagradas desempeñaron un papel aún más difundido en la atención sanitaria de los pobres. Las Hijas de la Caridad de San Vicente de Paúl, las Hermanas Hospitalarias, las Pequeñas Siervas de la Divina Providencia y tantas otras Congregaciones femeninas se convirtieron en una presencia maternal y discreta en los hospitales, asilos y residencias de ancianos. Llevaban medicinas, escucha, presencia y, sobre todo, ternura. Construyeron, a menudo con sus propias manos, estructuras sanitarias en zonas sin asistencia médica. Enseñaban higiene, atendían partos, medicaban con sabiduría natural y fe profunda. Sus casas se convertían en oasis de dignidad donde nadie era excluido. El toque de la compasión era el primer remedio. Santa Luisa de Marillac escribía a sus hermanas, las Hijas de la Caridad, recordándoles que habían «recibido una bendición especial de Dios para servir a los pobres enfermos en los hospitales».[41]

52. Hoy, ese legado continúa en los hospitales católicos, los puestos de salud en las regiones periféricas, las misiones sanitarias en las selvas, los centros de acogida para toxicómanos y los hospitales de campaña en las zonas de guerra. La presencia cristiana junto a los enfermos revela que la salvación no es una idea abstracta, sino una acción concreta. En el gesto de limpiar una herida, la Iglesia proclama que el Reino de Dios comienza entre los más vulnerables. Y, al hacerlo, permanece fiel a Aquel que dijo: «Estaba […] enfermo, y me visitaron» (Mt 25,35.36). Cuando la Iglesia se arrodilla junto a un leproso, a un niño desnutrido o a un moribundo anónimo, realiza su vocación más profunda: amar al Señor allí donde Él está más desfigurado.

El cuidado de los pobres en la vida monástica

53. La vida monástica, nacida en el silencio de los desiertos, fue desde sus inicios un testimonio de solidaridad. Los monjes lo dejaban todo —riqueza, prestigio, familia— no sólo por despreciar las riquezas del mundo —contemptus mundi—, sino para encontrar, en este despojo radical, al Cristo pobre. San Basilio Magno, en su Regla, no veía contradicción entre la vida de oración y recogimiento de los monjes y la acción en favor de los pobres. Para él, la hospitalidad y el cuidado de los necesitados eran parte integrante de la espiritualidad monástica, y los monjes, incluso después de haberlo dejado todo para abrazar la pobreza, debían ayudar a los más pobres con su trabajo, ya que «para poder socorrer a los necesitados, es evidente que debemos trabajar con diligencia [...]. Este modo de vida es provechoso no sólo para someter el cuerpo, sino también por la caridad hacia el prójimo, para que, por medio de nosotros, Dios provea lo suficiente a los hermanos más débiles».[42]

54. Construyó en Cesarea, donde era obispo, un lugar conocido como Basilíades, que incluía alojamientos, hospitales y escuelas para los pobres y los enfermos. El monje, por lo tanto, no era sólo un asceta, sino un servidor. Basilio demostraba así que para estar cerca de Dios hay que estar cerca de los pobres. El amor concreto era criterio de santidad. Orar y cuidar, contemplar y curar, escribir y acoger: todo era expresión del mismo amor a Cristo.

55. En Occidente, san Benito de Nursia elaboró una Regla que se convertiría en la columna vertebral de la espiritualidad monástica europea. En ella, la acogida de los pobres y los peregrinos ocupa un lugar de honor: «Mostrad sobre todo un cuidado solícito en la recepción de los pobres y los peregrinos, porque sobre todo en ellos se recibe a Cristo».[43] No se trataba sólo de palabras: los monasterios benedictinos fueron, durante siglos, lugares de refugio para viudas, niños abandonados, peregrinos y mendigos. Para Benito, la vida comunitaria era una escuela de caridad. El trabajo manual no sólo tenía una función práctica, sino que también formaba el corazón para el servicio. El compartir entre los monjes, la atención a los enfermos y la escucha de los más frágiles preparaban para acoger a Cristo, que llega en la persona del pobre y el extranjero. La hospitalidad monástica benedictina permanece hasta hoy como signo de una Iglesia que abre las puertas, que acoge sin preguntar, que cura sin exigir nada a cambio.

56. Los monasterios benedictinos, con el tiempo, se convirtieron en lugares que contrastaban la cultura de la exclusión. Los monjes cultivaban la tierra, producían alimentos, preparaban medicinas y los ofrecían, con sencillez, a los más necesitados. Su trabajo silencioso fue fermento de una nueva civilización, donde los pobres no eran un problema que resolver, sino hermanos y hermanas que acoger. La regla del compartir, del trabajo común y de la asistencia a los vulnerables estructuraba una economía solidaria, en contraste con la lógica de la acumulación. El testimonio de los monjes mostraba que la pobreza voluntaria, lejos de ser miseria, es camino de libertad y comunión. No sólo ayudaban a los pobres: se hacían cercanos a ellos, hermanos en el mismo Señor. En las celdas y claustros se formaba una mística de la presencia de Dios en los pequeños.

57. Además de la asistencia material, los monasterios desempeñaron un papel fundamental en la formación cultural y espiritual de los más humildes. En tiempos de peste, guerra o hambre, eran lugares donde el necesitado encontraba pan y remedios, pero también dignidad y palabra. Allí se educaba a los huérfanos, se formaba a los aprendices y se instruía a los campesinos en técnicas agrícolas y en la lectura. El saber se compartía como don y responsabilidad. El abad era a la vez maestro y padre, y la escuela monástica era un lugar de liberación por la verdad. Porque, como escribe Juan Casiano, el monje debe caracterizarse por «la humildad de corazón […], que no conduce a la ciencia que hincha, sino a la que ilumina por medio de la plenitud de la caridad».[44] Al formar conciencias y transmitir sabiduría, los monjes contribuyeron a una pedagogía cristiana de inclusión. La cultura, marcada por la fe, se compartía con sencillez. El saber, cuando está iluminado por la caridad, se convierte en servicio. De ese modo, la vida monástica se revelaba como un estilo de santidad y una forma concreta de transformación de la sociedad.

58. La tradición monástica enseña, por tanto, que la oración y la caridad, el silencio y el servicio, las celdas y los hospitales, forman un único tejido espiritual. El monasterio es lugar de escucha y de acción, de adoración y de compartir. San Bernardo de Claraval, gran reformador de la Orden Cisterciense, «reclamó con decisión la necesidad de una vida sobria y moderada, tanto en la mesa como en la indumentaria y en los edificios monásticos, recomendando la sustentación y la solicitud por los pobres».[45] Para él, la compasión no era una opción accesoria, sino el camino real para seguir a Cristo. La vida monástica, por lo tanto, cuando es fiel a su vocación original, muestra que la Iglesia sólo será plenamente esposa del Señor cuando sea también hermana de los pobres. El claustro no es un mero refugio del mundo, sino una escuela en la que se aprende a servirlo mejor. Allí donde los monjes abrieron sus puertas a los pobres, la Iglesia reveló con humildad y firmeza que la contemplación no excluye la misericordia, sino que la exige como su fruto más puro.

Liberar a los cautivos

59. Desde los tiempos apostólicos, la Iglesia ha visto en la liberación de los oprimidos un signo del Reino de Dios. Jesús mismo, al iniciar su misión pública, proclamó: «El Espíritu del Señor está sobre mí, porque me ha consagrado por la unción. Él me envió a llevar la Buena Noticia a los pobres, a anunciar la liberación a los cautivos» (Lc 4,18). Los primeros cristianos, incluso en condiciones precarias, rezaban y asistían a los hermanos y hermanas encarcelados, como atestiguan los Hechos de los Apóstoles (cf. 12,5; 24,23) y diversos escritos de los Padres. Esta misión liberadora se prolongó a lo largo de los siglos mediante acciones concretas, especialmente cuando el drama de la esclavitud y el cautiverio marcó sociedades enteras.

60. Entre finales del siglo XII y principios del XIII, cuando muchos cristianos eran capturados en el Mediterráneo o esclavizados en las guerras, surgieron dos Órdenes religiosas: la Orden de la Santísima Trinidad, Redención de Cautivos (trinitarios), fundada por san Juan de Mata y san Félix de Valois, y la Orden de la Bienaventurada Virgen María de la Merced (mercedarios), fundada por san Pedro Nolasco con el apoyo de san Raimundo de Peñafort, dominico. Estas comunidades de consagrados nacieron con el carisma específico de liberar a los cristianos esclavizados, poniendo a disposición sus bienes[46] y a menudo ofreciendo su propia vida a cambio. Los trinitarios, con el lema Gloria Tibi Trinitas et captivis libertas (Gloria a Ti, Trinidad, y a los cautivos libertad), y los mercedarios, que añaden un cuarto voto[47] a los votos religiosos de pobreza, obediencia y castidad, dieron testimonio de que la caridad puede ser heroica. La liberación de los cautivos era expresión del amor trinitario: un Dios que libera no sólo de la esclavitud espiritual, sino también de la opresión concreta. El gesto de rescatar de la esclavitud y de la prisión se considera una prolongación del sacrificio redentor de Cristo, cuya sangre es el precio de nuestro rescate (cf. 1 Co 6,20).

61. La espiritualidad original de estas Órdenes estaba profundamente arraigada en la contemplación de la cruz. Cristo es el Redentor de los cautivos por excelencia, y la Iglesia, su cuerpo, prolonga este misterio en el tiempo.[48] Los religiosos no veían en el rescate una acción política o económica, sino un acto casi litúrgico, una ofrenda sacramental de sí mismos. Muchos entregaron sus propios cuerpos para sustituir a los prisioneros, cumpliendo literalmente el mandamiento: «No hay amor más grande que dar la vida por los amigos» (Jn 15,13). La tradición de estas Órdenes no cesó. Al contrario, inspiró nuevas formas de acción frente a las esclavitudes modernas: la trata de personas, el trabajo forzoso, la explotación sexual, las distintas adicciones.[49] La caridad cristiana, cuando se encarna, se convierte en liberadora. Y la misión de la Iglesia, cuando es fiel a su Señor, es siempre proclamar la liberación. Aún en nuestros días, en los que existen «millones de personas —niños, hombres y mujeres de todas las edades— privados de su libertad y obligados a vivir en condiciones similares a la esclavitud»,[50] dicha herencia es continuada por estas Órdenes y por otras Instituciones y Congregaciones que actúan en las periferias urbanas, las zonas de conflicto y los corredores migratorios. Cuando la Iglesia se arrodilla para romper las nuevas cadenas que aprisionan a los pobres, se convierte en signo de la Pascua.

62. No se puede concluir esta reflexión sobre las personas privadas de libertad sin mencionar a los reclusos que se encuentran en los distintos centros penitenciarios de preventivos y de penados. A este respecto, cabe recordar las palabras que el Papa Francisco dirigió a un grupo de ellos: «Para mí, entrar en una cárcel es siempre un momento importante, porque la cárcel es un lugar de gran humanidad […]. De humanidad probada, a veces fatigada por dificultades, sentimientos de culpa, juicios, incomprensiones, sufrimientos, pero al mismo tiempo cargada de fuerza, de deseo de perdón, de deseo de rescate».[51] Este deseo, entre otros, también fue asumido por las Órdenes redentoras como un servicio preferencial a la Iglesia. Como proclamaba san Pablo: «Esta es la libertad que nos ha dado Cristo» (Ga 5,1). Y esa libertad no es sólo interior: se manifiesta en la historia como amor que cuida y libera de todas las ataduras.

Testigos de la pobreza evangélica

63. En el siglo XIII, ante el crecimiento de las ciudades, la concentración de riquezas y la aparición de nuevas formas de pobreza, el Espíritu Santo suscitó en la Iglesia un nuevo tipo de consagración: las Órdenes mendicantes. A diferencia del modelo monástico estable, los mendicantes adoptaron una vida itinerante, sin propiedades personales ni comunitarias, confiando plenamente en la Providencia. No sólo servían a los pobres: se hacían pobres con ellos. Consideraban la ciudad como un nuevo desierto y a los marginados como nuevos maestros espirituales. Estas Órdenes, como los franciscanos, los dominicos, los agustinos y los carmelitas, representaron una revolución evangélica, en la que el estilo de vida sencillo y pobre se convierte en un signo profético para la misión, reviviendo la experiencia de la primera comunidad cristiana (cf. Hch 4,32). El testimonio de los mendicantes desafiaba tanto la opulencia clerical como la frialdad de la sociedad urbana.

64. San Francisco de Asís se convirtió en el icono de esta primavera espiritual. Tomando la pobreza como esposa, quiso imitar al Cristo pobre, desnudo y crucificado. En su Regla, pide a los hermanos que de «nada se apropien, ni casa, ni lugar, ni cosa alguna. Y como peregrinos y forasteros en este siglo, sirviendo al Señor en pobreza y humildad, vayan por limosna confiadamente, y no deben avergonzarse, porque el Señor se hizo pobre por nosotros en este mundo».[52] Su vida fue un continuo despojarse: del palacio al leproso, de la elocuencia al silencio, de la posesión al don total. Francisco no fundó un servicio social, sino una fraternidad evangélica. Entre los pobres veía hermanos e imágenes vivas del Señor. Su misión era estar con ellos, por una solidaridad que superaba las distancias, por un amor compasivo. Su pobreza era relacional: lo llevaba a hacerse cercano, igual, más aún, menor. Su santidad brotaba de la convicción de que sólo se recibe verdaderamente a Cristo en la entrega generosa de sí mismo a los hermanos.

65. Santa Clara de Asís, inspirada por Francisco, fundó la Orden de las Damas Pobres, más tarde llamadas clarisas. Su lucha espiritual consistió en mantener fielmente el ideal de la pobreza radical. Rechazó los privilegios pontificios que podrían garantizar la seguridad material de su monasterio y, con firmeza, obtuvo del Papa Gregorio IX el llamado Privilegium Paupertatis, que garantizaba el derecho a vivir sin poseer ningún bien material.[53] Esta opción expresaba la confianza total en Dios y la conciencia de que la pobreza voluntaria era una forma de libertad y de profecía. Clara enseñaba a sus hermanas que Cristo era su única herencia y que nada debía oscurecer la comunión con Él. Su vida orante y oculta fue un grito contra la mundanidad y una defensa silenciosa de los pobres y olvidados.

66. Santo Domingo de Guzmán, contemporáneo de Francisco, fundó la Orden de Predicadores con otro carisma, pero con la misma radicalidad. Deseaba anunciar el Evangelio con la autoridad que brota de una vida pobre, convencido de que la Verdad necesita testigos coherentes. El ejemplo de la pobreza de vida acompañaba la Palabra predicada. Libres del peso de los bienes terrenos, los frailes dominicos podían dedicarse mejor a la obra principal, es decir, a la predicación. Iban a las ciudades, sobre todo a aquellas universitarias, para enseñar la verdad de Dios.[54] Al depender de los demás, demostraban que la fe no se impone, sino que se ofrece. Y, al vivir entre los pobres, aprendían la verdad del Evangelio “desde abajo”, como discípulos del Cristo humillado.

67. Las Órdenes mendicantes fueron, así, una respuesta viva a la exclusión y la indiferencia. No propusieron expresamente reformas sociales, sino una conversión personal y comunitaria a la lógica del Reino. La pobreza, en ellos, no era consecuencia de la escasez de bienes, sino una elección libre: hacerse pequeños para acoger a los pequeños. Como dijo Tomás de Celano sobre Francisco: «Se deja ver en él el primer amador de los pobres, [...] despojándose de sus vestidos, viste con ellos a los pobres, a quienes, si no todavía de hecho, sí de todo corazón intenta asemejarse».[55] Los mendicantes se han convertido en un signo de una Iglesia peregrina, humilde y fraterna, que vive entre los pobres no por estrategia proselitista, sino por identidad. Enseñan que la Iglesia es luz sólo cuando se despoja de todo, y que la santidad pasa por un corazón humilde y volcado en los pequeños.

La Iglesia y la educación de los pobres

68. Dirigiéndose a algunos educadores, el Papa Francisco recordó que la educación ha sido siempre una de las expresiones más altas de la caridad cristiana: «La vuestra es una misión llena de obstáculos pero también de alegrías. […] Una misión de amor, porque no se puede enseñar sin amar».[56] En este sentido, desde los primeros tiempos, los cristianos se dieron cuenta de que el saber libera, dignifica y acerca a la verdad. Para la Iglesia, enseñar a los pobres era un acto de justicia y de fe. Inspirada en el ejemplo del Maestro, que enseñaba a la gente las verdades divinas y humanas, la Iglesia asumió la misión de formar a los niños y a los jóvenes, especialmente a los más pobres, en la verdad y el amor. Esta misión tomó forma con la fundación de Congregaciones dedicadas a la educación popular.

69. En el siglo XVI, san José de Calasanz, impresionado por la falta de instrucción y formación de los jóvenes pobres de la ciudad de Roma, en unas salas anejas a la iglesia de Santa Dorotea en el Trastevere, creó la primera escuela pública popular gratuita de Europa. Era la simiente de la que después se desarrollaría, no sin dificultades, la Orden de Clérigos Regulares Pobres de la Madre de Dios de las Escuelas Pías, llamados escolapios, con el fin de transmitir a los jóvenes «la ciencia profana, al igual que la sabiduría del Evangelio, enseñándoles a descubrir en sus acontecimientos personales y en la historia la acción amorosa de Dios creador y redentor».[57] De hecho, podemos considerar a este valiente sacerdote como «el verdadero fundador de la escuela católica moderna, que busca la formación integral del hombre y está abierta a todos».[58] Animado por la misma sensibilidad, en el siglo XVII san Juan Bautista de La Salle, dándose cuenta de la injusticia causada por la exclusión de los hijos de obreros y campesinos del sistema educativo de Francia en aquel tiempo, fundó los Hermanos de las Escuelas Cristianas, con el ideal de ofrecerles educación gratuita, una sólida formación y un ambiente fraternal. La Salle veía el aula como un lugar para el desarrollo humano, pero también para la conversión. Sus escuelas combinaban la oración, el método, la disciplina y el compartir. Cada niño era considerado un don único de Dios y el acto de enseñar un servicio al Reino de Dios.

70. Ya en el siglo XIX, también en Francia, san Marcelino Champagnat fundó el Instituto de los Hermanos Maristas de las Escuelas, «sensible a las necesidades espirituales y educativas de su época, especialmente a la ignorancia religiosa y a las situaciones de abandono que vivía particularmente la juventud»,[59] dedicándose de lleno, en una época en la que el acceso a la educación era todavía privilegio de unos pocos, a la misión de educar y evangelizar a los niños y jóvenes, sobre todo a los más necesitados. Con el mismo espíritu, en Turín, san Juan Bosco inició la obra salesiana, basada en los tres principios del “sistema preventivo” —razón, religión y amor—[60] y el beato Antonio Rosmini fundó el Instituto de la Caridad, en el que la “caridad intelectual” —junto con la “material” y, en la cúspide, la “espiritual-pastoral”— se presentaba como una dimensión indispensable para cualquier acción caritativa que mirase al bien y al desarrollo integral de la persona.[61]

71. Muchas Congregaciones femeninas fueron también protagonistas de esta revolución pedagógica. Las ursulinas, las monjas de la Orden de la Compañía de María Nuestra Señora, las Maestras Pías y muchas otras fundadas especialmente en los siglos XVIII y XIX ocuparon espacios donde el Estado estaba ausente. Crearon escuelas en pequeños pueblos, en los suburbios y en los barrios obreros. La educación de las niñas, en particular, se convirtió en una prioridad. Las religiosas alfabetizaban, evangelizaban, trataban de cuestiones prácticas de la vida cotidiana, elevaban el espíritu a través del cultivo de las artes y, sobre todo, formaban conciencias. Su pedagogía era sencilla: cercanía, paciencia, dulzura. Enseñaban a través de la vida, antes que con palabras. En tiempos de analfabetismo generalizado y de exclusión estructural, estas mujeres consagradas eran faros de esperanza. Su misión era formar el corazón, enseñar a pensar, promover la dignidad. Combinando una vida de piedad y dedicación al prójimo, combatieron el abandono con la ternura de quien educa en nombre de Cristo.

72. Para la fe cristiana, la educación de los pobres no es un favor, sino un deber. Los pequeños tienen derecho a la sabiduría, como exigencia básica para el reconocimiento de la dignidad humana. Enseñarles es afirmar su valor, darles las herramientas para transformar su realidad. La tradición cristiana entiende que el conocimiento es un don de Dios y una responsabilidad comunitaria. La educación cristiana forma no sólo profesionales, sino personas abiertas al bien, a la belleza y a la verdad. Por eso, la escuela católica, cuando es fiel a su nombre, se convierte en un espacio de inclusión, formación integral y promoción humana. Así, conjugando fe y cultura, se siembra futuro, se honra la imagen de Dios y se construye una sociedad mejor.

Acompañar a los migrantes

73. La experiencia de la migración acompaña la historia del pueblo de Dios. Abraham parte sin saber adónde va; Moisés conduce a un pueblo peregrino por el desierto; María y José huyen con el Niño a Egipto. El mismo Cristo, que «vino a los suyos, y los suyos no lo recibieron» (Jn 1,11), vivió entre nosotros como extranjero. Por eso, la Iglesia siempre ha reconocido en los migrantes una presencia viva del Señor, que en el día del juicio dirá a los que estén a su derecha: «Estaba de paso, y me alojaron» (Mt 25,35).

74. En el siglo XIX, cuando millones de europeos emigraban en busca de mejores condiciones de vida, dos grandes santos se destacaron en la atención pastoral de los migrantes: san Juan Bautista Scalabrini y santa Francisca Javier Cabrini. Scalabrini, obispo de Piacenza, fundó los Misioneros de San Carlos para acompañar a los migrantes en sus comunidades de destino, ofreciéndoles asistencia espiritual, jurídica y material. Veía en los migrantes destinatarios de una nueva evangelización, alertando sobre los riesgos de la explotación y la pérdida de la fe en tierra extranjera. Respondiendo con generosidad al carisma que el Señor le había concedido, «Scalabrini miraba más allá, miraba hacia el futuro, hacia un mundo y una Iglesia sin barreras, sin extranjeros».[62] Santa Francisca Cabrini, nacida en Italia y naturalizada estadounidense, se convirtió en la primera ciudadana de los Estados Unidos en ser canonizada. Para cumplir su misión de atender a los emigrantes, cruzó el Atlántico varias veces e «impulsada por una singular audacia, empezó de la nada la construcción de escuelas, hospitales y orfanatos para multitud de desheredados que se aventuraban a buscar trabajo en el nuevo mundo, sin conocer la lengua y sin medios que les permitieran una inserción digna en la sociedad norteamericana, en la que a menudo eran víctimas de personas sin escrúpulos. Su corazón materno, que no se resignaba jamás, llegaba a ellos dondequiera que se encontraran: en los tugurios, en las cárceles y en las minas».[63] En el Año Santo de 1950, el Papa Pío XII la proclamó patrona de todos los migrantes.[64]

75. La tradición de la actividad de la Iglesia con y para los migrantes continúa y hoy ese servicio se expresa en iniciativas como los centros de acogida para refugiados, las misiones en las fronteras y los esfuerzos de Cáritas Internacional y otras instituciones. El Magisterio contemporáneo reafirma claramente este compromiso. El Papa Francisco recordaba que la misión de la Iglesia junto a los migrantes y refugiados es aún más amplia, insistiendo en que «la respuesta al desafío planteado por las migraciones contemporáneas se puede resumir en cuatro verbos: acoger, proteger, promover e integrar. Pero estos verbos no se aplican sólo a los migrantes y a los refugiados. Expresan la misión de la Iglesia en relación a todos los habitantes de las periferias existenciales, que deben ser acogidos, protegidos, promovidos e integrados».[65] Y añadía: «Cada ser humano es hijo de Dios. En él está impresa la imagen de Cristo. Se trata, entonces, de que nosotros seamos los primeros en verlo y así podamos ayudar a los otros a ver en el emigrante y en el refugiado no sólo un problema que debe ser afrontado, sino un hermano y una hermana que deben ser acogidos, respetados y amados, una ocasión que la Providencia nos ofrece para contribuir a la construcción de una sociedad más justa, una democracia más plena, un país más solidario, un mundo más fraterno y una comunidad cristiana más abierta, de acuerdo con el Evangelio».[66] La Iglesia, como madre, camina con los que caminan. Donde el mundo ve una amenaza, ella ve hijos; donde se levantan muros, ella construye puentes. Sabe que el anuncio del Evangelio sólo es creíble cuando se traduce en gestos de cercanía y de acogida; y que en cada migrante rechazado, es Cristo mismo quien llama a las puertas de la comunidad.

Al lado de los últimos

76. La santidad cristiana florece, con frecuencia, en los lugares más olvidados y heridos de la humanidad. Los más pobres entre los pobres —los que no sólo carecen de bienes, sino también de voz y de reconocimiento de su dignidad— ocupan un lugar especial en el corazón de Dios. Son los preferidos del Evangelio, los herederos del Reino (cf. Lc 6,20). Es en ellos donde Cristo sigue sufriendo y resucitando. Es en ellos donde la Iglesia redescubre la llamada a mostrar su realidad más auténtica.

77. Santa Teresa de Calcuta, canonizada en 2016, se convirtió en un icono universal de la caridad vivida hasta el extremo en favor de los más indigentes, descartados por la sociedad. Fundadora de las Misioneras de la Caridad, dedicó su vida a los moribundos abandonados en las calles de la India. Recogía a los rechazados, lavaba sus heridas y los acompañaba hasta el momento de la muerte con una ternura que era oración. Su amor por los más pobres entre los pobres la llevaba no sólo a atender sus necesidades materiales, sino también a anunciarles la buena noticia del Evangelio: «Queremos proclamar la buena nueva a los pobres de que Dios les ama, de que nosotros les amamos, de que ellos son alguien para nosotros, de que ellos también han sido creados por la misma mano amorosa de Dios, para amar y ser amados. Nuestros pobres son grandes personas, son personas muy queribles, no necesitan nuestra lástima y simpatía, necesitan nuestro amor comprensivo. Necesitan nuestro respeto, necesitan que les tratemos con dignidad».[67] Todo esto nacía de una profunda espiritualidad que veía el servicio a los más pobres como fruto de la oración y del amor, que generan la verdadera paz, como recordaba el Papa Juan Pablo II a los peregrinos que habían acudido a Roma para su beatificación: «¿Dónde encontró la madre Teresa la fuerza para ponerse completamente al servicio de los demás? La encontró en la oración y en la contemplación silenciosa de Jesucristo, de su santo Rostro y de su Sagrado Corazón. Lo dijo ella misma: “El fruto del silencio es la oración; el fruto de la oración es la fe; el fruto de la fe es el amor; el fruto del amor es el servicio; y el fruto del servicio es la paz” [...]. La oración colmó su corazón de la paz de Cristo y le permitió irradiarla a los demás».[68] Teresa no se consideraba una filántropa ni una activista, sino esposa de Cristo crucificado, a quien servía con amor total en los hermanos que sufrían.

78. En Brasil, santa Dulce de los Pobres, conocida como “el ángel bueno de Bahía”, encarnó el mismo espíritu evangélico con rasgos brasileños. Refiriéndose a ella y a otras dos religiosas canonizadas en la misma celebración, el Papa Francisco recordó el amor que profesaban a los más marginados de la sociedad y afirmó que las nuevas santas «nos muestran que la vida consagrada es un camino de amor en las periferias existenciales del mundo».[69] La hermana Dulce enfrentó la precariedad con creatividad, los obstáculos con ternura, la carencia con fe inquebrantable. Comenzó acogiendo a enfermos en un gallinero, y desde allí fundó una de las mayores obras sociales del país. Atendía a miles de personas al día, sin perder nunca su dulzura. Se hizo pobre con los pobres por amor al sumamente Pobre. Vivía con poco, rezaba con fervor y servía con alegría. Su fe no la alejaba del mundo, sino que la sumía aún más profundamente en los dolores de los últimos.

79. Se podría recordar también a san Benito Menni y las Hermanas Hospitalarias del Sagrado Corazón de Jesús, junto a las personas con discapacidades; a san Carlos de Foucauld entre las comunidades del Sahara; a santa Katharine Drexel, junto a los grupos más desfavorecidos de Norteamérica; a la hermana Emmanuelle con los recolectores de basura en el barrio de Ezbet El Nakhl, en la ciudad de El Cairo; y a muchísimos más. Cada uno a su manera descubrió que los más pobres no son meros objetos de compasión, sino maestros del Evangelio. No se trata de “llevarles a Dios”, sino de encontrarlo entre ellos. Todos estos ejemplos enseñan que servir a los pobres no es un gesto de arriba hacia abajo, sino un encuentro entre iguales, donde Cristo se revela y es adorado. San Juan Pablo II nos recordaba que «en la persona de los pobres hay una presencia especial [de Cristo], que impone a la Iglesia una opción preferencial por ellos».[70] Por lo tanto, cuando la Iglesia se inclina hasta el suelo para cuidar de los pobres, asume su postura más elevada.

Movimientos populares

80. Debemos reconocer también que, a lo largo de la historia cristiana, la ayuda a los pobres y la lucha por sus derechos no han implicado sólo a los individuos, a algunas familias, a las instituciones o a las comunidades religiosas. Han existido, y existen, varios movimientos populares, integrados por laicos y guiados por líderes populares, muchas veces bajo sospecha o incluso perseguidos. Me refiero a un «conjunto de personas que no caminan como individuos sino como el entramado de una comunidad de todos y para todos, que no puede dejar que los más pobres y débiles se queden atrás. […] Los líderes populares, entonces, son aquellos que tienen la capacidad de incorporar a todos. […] No les tienen asco ni miedo a los jóvenes lastimados y crucificados».[71]

81. Estos líderes populares saben que la solidaridad «también es luchar contra las causas estructurales de la pobreza, la desigualdad, la falta de trabajo, la tierra y la vivienda, la negación de los derechos sociales y laborales. Es enfrentar los destructores efectos del imperio del dinero […]. La solidaridad, entendida en su sentido más hondo, es un modo de hacer historia y eso es lo que hacen los movimientos populares».[72] Por esta razón, cuando las distintas instituciones piensan en las necesidades de los pobres se requiere «que incluyan a los movimientos populares y animen las estructuras de gobierno locales, nacionales e internacionales con ese torrente de energía moral que surge de la incorporación de los excluidos en la construcción del destino común».[73] Los movimientos populares, efectivamente, nos invitan a superar «esa idea de las políticas sociales concebidas como una política hacia los pobres pero nunca con los pobres, nunca de los pobres y mucho menos inserta en un proyecto que reunifique a los pueblos».[74] Si los políticos y los profesionales no los escuchan, «la democracia se atrofia, se convierte en un nominalismo, una formalidad, pierde representatividad, se va desencarnando porque deja afuera al pueblo en su lucha cotidiana por la dignidad, en la construcción de su destino».[75] Lo mismo se debe decir de las instituciones de la Iglesia.

CAPÍTULO CUARTO

UNA HISTORIA QUE CONTINÚA

El siglo de la Doctrina Social de la Iglesia

82. La aceleración de las transformaciones tecnológicas y sociales de los últimos dos siglos, llena de trágicas contradicciones, no sólo ha sido sufrida, sino también afrontada y pensada por los pobres. Los movimientos de trabajadores, de mujeres y de jóvenes, así como la lucha contra la discriminación racial, han dado lugar a una nueva conciencia de la dignidad de los marginados. También el aporte de la Doctrina Social de la Iglesia tiene en sí esta raíz popular que no se debe olvidar; sería inimaginable su relectura de la revelación cristiana en las modernas circunstancias sociales, laborales, económicas y culturales sin los laicos cristianos lidiando con los desafíos de su tiempo. A su lado trabajaron religiosas y religiosos, testigos de una Iglesia en salida de los caminos ya recorridos. El cambio de época que estamos afrontando hace hoy aún más necesaria la continua interacción entre los bautizados y el Magisterio, entre los ciudadanos y los expertos, entre el pueblo y las instituciones. En particular, se reconoce nuevamente que la realidad se ve mejor desde los márgenes y que los pobres son sujetos de una inteligencia específica, indispensable para la Iglesia y la humanidad.

83. El Magisterio de los últimos ciento cincuenta años ofrece una auténtica fuente de enseñanzas referidas a los pobres. De ese modo, los Obispos de Roma se han hecho voz de nuevas conciencias, tomadas en consideración para el discernimiento eclesial. Por ejemplo, en la carta encíclica Rerum novarum (1891), León XIII afrontó la cuestión del trabajo, poniendo al descubierto la situación intolerable de muchos obreros de la industria, proponiendo la instauración de un orden social justo. Otros pontífices también se han expresado en esta misma línea. Con la encíclica Mater et Magistra (1961) san Juan XXIII se hizo promotor de una justicia de dimensiones mundiales: los países ricos no podían permanecer indiferentes ante los países oprimidos por el hambre y la miseria, sino que estaban llamados a socorrerlos generosamente con todos sus recursos.

84. El Concilio Vaticano II representa una etapa fundamental en el discernimiento eclesial en relación a los pobres, a la luz de la Revelación. Si bien en los documentos preparatorios este tema fue marginal, desde el radiomensaje del 11 de septiembre de 1962, a un mes de la apertura del Concilio, san Juan XXIII centró la atención sobre el mismo con palabras inolvidables: «La Iglesia se presenta como es y como quiere ser, como Iglesia de todos, en particular como la Iglesia de los pobres».[76] Fue pues el gran trabajo de obispos, teólogos y expertos preocupados por la renovación de la Iglesia ―con el apoyo del mismo san Juan XXIII― lo que reorientó el Concilio. Es fundamental la naturaleza cristocéntrica, es decir, doctrinal y no sólo social, de tal fermento. Numerosos padres conciliares, en efecto, favorecieron la consolidación de la conciencia, bien expresada por el cardenal Lercaro en su memorable intervención del 6 de diciembre de 1962, de que «el misterio de Cristo en la Iglesia es siempre, pero sobre todo hoy, el misterio de Cristo en los pobres»,[77] y de que «no se trata de un tema más, sino que en cierto sentido es el único tema de todo el Vaticano II».[78] El arzobispo de Bolonia, preparando el texto de esta intervención, anotaba: «Esta es la hora de los pobres, de los millones de pobres que están en toda la tierra, esta es la hora del misterio de la Iglesia madre de los pobres, esta es la hora del misterio de Cristo sobre todo en el pobre».[79] Se perfilaba de ese modo la necesidad de una nueva forma eclesial, más sencilla y sobria, que implicase a todo el pueblo de Dios y a su figura histórica. Una Iglesia más semejante a su Señor que a las potencias mundanas, dirigida a estimular en toda la humanidad un compromiso concreto para resolver el gran problema de la pobreza en el mundo.

85. San Pablo VI, con ocasión de la apertura de la segunda sesión del Concilio, retomó el tema planteado por su predecesor respecto a la Iglesia que mira con particular interés «a los pobres, a los necesitados, a los afligidos, a los hambrientos, a los enfermos, a los encarcelados, es decir, mira a toda la humanidad que sufre y que llora; ésta le pertenece por derecho evangélico».[80] En la Audiencia general del 11 de noviembre de 1964, subrayó que «el pobre es representante de Cristo» y, acercando la imagen del Señor en los últimos a la que se manifiesta en el Papa, afirmó: «La representación de Cristo en el pobre es universal, todo pobre refleja a Cristo; la del Papa es personal. […] El pobre y Pedro pueden coincidir, pueden ser la misma persona, revestida de una doble representación: la de la pobreza y la de la autoridad».[81] De ese modo, el vínculo intrínseco entre la Iglesia y los pobres era expresado simbólicamente con una original claridad.

86. En la constitución pastoral Gaudium et spes, actualizando la herencia de los Padres de la Iglesia, el Concilio afirmó con fuerza el destino universal de los bienes de la tierra y la función social de la propiedad que deriva de ello: «Dios ha destinado la tierra y cuanto ella contiene para uso de todos los hombres y pueblos. En consecuencia, los bienes creados deben llegar a todos […]. Por tanto, el hombre, al usarlos, no debe tener las cosas exteriores que legítimamente posee como exclusivamente suyas, sino también como comunes, en el sentido de que no le aprovechen a él solamente, sino también a los demás. Por lo demás, el derecho a poseer una parte de bienes suficiente para sí mismos y para sus familias es un derecho que a todos corresponde. […] Quien se halla en situación de necesidad extrema tiene derecho a tomar de la riqueza ajena lo necesario para sí. […] La misma propiedad privada tiene también, por su misma naturaleza, una índole social, cuyo fundamento reside en el destino común de los bienes. Cuando esta índole social es descuidada, la propiedad muchas veces se convierte en ocasión de ambiciones y graves desórdenes».[82] Esta convicción fue impulsada nuevamente por san Pablo VI en la encíclica Populorum progressio, donde leemos que nadie puede considerarse autorizado a «reservarse en uso exclusivo lo que supera a la propia necesidad cuando a los demás les falta lo necesario».[83] En su intervención en las Naciones Unidas, el Papa Montini se presentó como el abogado de los pueblos pobres,[84] solicitando a la comunidad internacional la edificación de un mundo solidario.

87. Con san Juan Pablo II se consolida, al menos en el ámbito doctrinal, la relación preferencial de la Iglesia con los pobres. Su magisterio ha reconocido, en efecto, que la opción por los pobres es una «forma especial de primacía en el ejercicio de la caridad cristiana, de la cual da testimonio toda la tradición de la Iglesia».[85] En la encíclica Sollicitudo rei socialis escribe también que hoy, vista la dimensión mundial que ha adquirido la cuestión social, «este amor preferencial, con las decisiones que nos inspira, no puede dejar de abarcar a las inmensas muchedumbres de hambrientos, mendigos, sin techo, sin cuidados médicos y, sobre todo, sin esperanza de un futuro mejor: no se puede olvidar la existencia de esta realidad. Ignorarlo significaría parecernos al “rico epulón” que fingía no conocer al mendigo Lázaro, postrado a su puerta (cf. Lc 16,19-31)».[86] Su enseñanza sobre el trabajo adquiere importancia cuando queremos pensar en el rol activo de los pobres en la renovación de la Iglesia y de la sociedad, dejando atrás el paternalismo de la mera asistencia de sus necesidades inmediatas. En la encíclica Laborem exercens afirma que «el trabajo humano es una clave, quizá la clave esencial, de toda la cuestión social».[87]

88. Frente a las múltiples crisis que han caracterizado el comienzo del tercer milenio, la lectura de Benedicto XVI se hace más marcadamente política. Así, en la carta encíclica Caritas in veritate afirma que «se ama al prójimo tanto más eficazmente, cuanto más se trabaja por un bien común que responda también a sus necesidades reales».[88] Además, observa que «el hambre no depende tanto de la escasez material, cuanto de la insuficiencia de recursos sociales, el más importante de los cuales es de tipo institucional. Es decir, falta un sistema de instituciones económicas capaces, tanto de asegurar que se tenga acceso al agua y a la comida de manera regular y adecuada desde el punto de vista nutricional, como de afrontar las exigencias relacionadas con las necesidades primarias y con las emergencias de crisis alimentarias reales, provocadas por causas naturales o por la irresponsabilidad política nacional e internacional».[89]

89. El Papa Francisco ha reconocido cómo, además del magisterio de los Obispos de Roma, en los últimos decenios se han hecho cada vez más frecuentes los posicionamientos adoptados por las Conferencias episcopales nacionales y regionales al respecto. Por ejemplo, él pudo testimoniar en primera persona el compromiso particular del episcopado latinoamericano al reflexionar sobre la relación de la Iglesia con los pobres. En el período postconciliar, en casi todos los países de América Latina se sintió fuertemente la identificación de la Iglesia con los pobres y la participación activa en su rescate. Fue el corazón mismo de la Iglesia el que se conmovió ante tanta gente pobre que sufría desempleo, subempleo, salarios inicuos y estaba obligada a vivir en condiciones miserables. El martirio de san Óscar Romero, arzobispo de San Salvador, fue al mismo tiempo un testimonio y una exhortación viva para la Iglesia. Él sintió como propio el drama de la gran mayoría de sus fieles y los hizo el centro de su opción pastoral. Las Conferencias del Episcopado Latinoamericano en Medellín, Puebla, Santo Domingo y Aparecida constituyen etapas significativas también para toda la Iglesia. Yo mismo, misionero durante largos años en Perú, debo mucho a este camino de discernimiento eclesial, que el Papa Francisco ha sabido unir sabiamente al de otras Iglesias particulares, especialmente las del Sur global. Ahora quisiera referirme a dos temas específicos de este magisterio episcopal.

Estructuras de pecado que causan pobreza y desigualdades extremas

90. En Medellín, los obispos se pronunciaron en favor de la opción preferencial por los pobres: «Cristo nuestro Salvador, no sólo amó a los pobres, sino que “siendo rico se hizo pobre”, vivió en la pobreza, centró su misión en el anuncio a los pobres de su liberación y fundó su Iglesia como signo de esa pobreza entre los hombres. [...] La pobreza de tantos hermanos clama justicia, solidaridad, testimonio, compromiso, esfuerzo y superación para el cumplimiento pleno de la misión salvífica encomendada por Cristo».[90] Los obispos afirmaron con fuerza que la Iglesia, para ser plenamente fiel a su vocación, no sólo debe compartir la condición de los pobres, sino también ponerse de su lado, comprometiéndose diligentemente en su promoción integral. La Conferencia de Puebla, ante el agravamiento de la pobreza en América Latina, confirmó la decisión de Medellín con una opción franca y profética en favor de los pobres, y calificó las estructuras de injusticia como “pecado social”.

91. La caridad es una fuerza que cambia la realidad, una auténtica potencia histórica de cambio. Es la fuente a la que debe hacer referencia todo compromiso para «resolver las causas estructurales de la pobreza»,[91] y llevarlo a cabo urgentemente. Hago votos, por lo tanto, para «que crezca el número de políticos capaces de entrar en un auténtico diálogo que se oriente eficazmente a sanar las raíces profundas y no la apariencia de los males de nuestro mundo»,[92] porque «se trata de escuchar el clamor de pueblos enteros, de los pueblos más pobres de la tierra».[93]

92. Por lo tanto, es preciso seguir denunciando la “dictadura de una economía que mata” y reconocer que «mientras las ganancias de unos pocos crecen exponencialmente, las de la mayoría se quedan cada vez más lejos del bienestar de esa minoría feliz. Este desequilibrio proviene de ideologías que defienden la autonomía absoluta de los mercados y la especulación financiera. De ahí que nieguen el derecho de control de los Estados, encargados de velar por el bien común. Se instaura una nueva tiranía invisible, a veces virtual, que impone, de forma unilateral e implacable, sus leyes y sus reglas».[94] Aunque no faltan diferentes teorías que intentan justificar el estado actual de las cosas, o explicar que la racionalidad económica nos exige que esperemos a que las fuerzas invisibles del mercado resuelvan todo, la dignidad de cada persona humana debe ser respetada ahora, no mañana, y la situación de miseria de muchas personas a quienes esta dignidad se niega debe ser una llamada constante para nuestra conciencia.

93. En la encíclica Dilexit nos, el Papa Francisco ha recordado cómo el pecado social toma la forma de “estructura de pecado” en la sociedad, que «muchas veces […] se inserta en una mentalidad dominante que considera normal o racional lo que no es más que egoísmo e indiferencia. Este fenómeno se puede definir “alienación social”».[95] Se vuelve normal ignorar a los pobres y vivir como si no existieran. Se presenta como elección racional organizar la economía pidiendo sacrificios al pueblo, para alcanzar ciertos objetivos que interesan a los poderosos; mientras que a los pobres sólo les quedan promesas de “gotas” que caerán, hasta que una nueva crisis global los lleve de regreso a la situación anterior. Es una auténtica alienación aquella que lleva sólo a encontrar excusas teóricas y no a tratar de resolver hoy los problemas concretos de los que sufren. Lo decía ya san Juan Pablo II: «Está alienada una sociedad que, en sus formas de organización social, de producción y consumo, hace más difícil la realización de esta donación y la formación de esa solidaridad interhumana».[96]

94. Debemos comprometernos cada vez más para resolver las causas estructurales de la pobreza. Es una urgencia que «no puede esperar, no sólo por una exigencia pragmática de obtener resultados y de ordenar la sociedad, sino para sanarla de una enfermedad que la vuelve frágil e indigna y que sólo podrá llevarla a nuevas crisis. Los planes asistenciales, que atienden ciertas urgencias, sólo deberían pensarse como respuestas pasajeras».[97] La falta de equidad «es raíz de los males sociales».[98] En efecto, «muchas veces se percibe que, de hecho, los derechos humanos no son iguales para todos».[99]

95. Resulta que «en el vigente modelo “exitista” y “privatista” no parece tener sentido invertir para que los lentos, débiles o menos dotados puedan abrirse camino en la vida».[100] La pregunta recurrente es siempre la misma: ¿los menos dotados no son personas humanas? ¿Los débiles no tienen nuestra misma dignidad? ¿Los que nacieron con menos posibilidades valen menos como seres humanos, y sólo deben limitarse a sobrevivir? De nuestra respuesta a estos interrogantes depende el valor de nuestras sociedades y también nuestro futuro. O reconquistamos nuestra dignidad moral y espiritual, o caemos como en un pozo de suciedad. Si no nos detenemos a tomar las cosas en serio continuaremos así, de manera explícita o disimulada, legitimando «el modelo distributivo actual, donde una minoría se cree con el derecho de consumir en una proporción que sería imposible generalizar, porque el planeta no podría ni siquiera contener los residuos de semejante consumo».[101]

96. Entre las cuestiones estructurales —que no es posible imaginar que se resuelvan de lo alto y que requieren ser asumidas lo antes posible— está el tema de los lugares, los espacios, las casas y las ciudades donde los pobres viven y transitan. Lo sabemos, «¡qué hermosas son las ciudades que superan la desconfianza enfermiza e integran a los diferentes, y que hacen de esa integración un nuevo factor de desarrollo! ¡Qué lindas son las ciudades que, aun en su diseño arquitectónico, están llenas de espacios que conectan, relacionan, favorecen el reconocimiento del otro!».[102] Al mismo tiempo, «no podemos dejar de considerar los efectos de la degradación ambiental, del actual modelo de desarrollo y de la cultura del descarte en la vida de las personas».[103] De hecho, «el deterioro del ambiente y el de la sociedad afectan de un modo especial a los más débiles del planeta».[104]

97. Por consiguiente, es responsabilidad de todos los miembros del pueblo de Dios hacer oír, de diferentes maneras, una voz que despierte, que denuncie y que se exponga, aun a costo de parecer “estúpidos”. Las estructuras de injusticia deben ser reconocidas y destruidas con la fuerza del bien, a través de un cambio de mentalidad, pero también con la ayuda de las ciencias y la técnica, mediante el desarrollo de políticas eficaces en la transformación de la sociedad. Siempre debe recordarse que la propuesta del Evangelio no es sólo la de una relación individual e íntima con el Señor. La propuesta es más amplia: «es el Reino de Dios (cf. Lc 4,43); se trata de amar a Dios que reina en el mundo. En la medida en que Él logre reinar entre nosotros, la vida social será ámbito de fraternidad, de justicia, de paz, de dignidad para todos. Entonces, tanto el anuncio como la experiencia cristiana tienden a provocar consecuencias sociales. Buscamos su Reino».[105]

98. En fin, un documento que al principio no fue bien acogido por algunos, nos ofrece una reflexión siempre actual: «A los defensores de “la ortodoxia”, se dirige a veces el reproche de pasividad, de indulgencia o de complicidad culpables respecto a situaciones de injusticia intolerables y de los regímenes políticos que las mantienen. La conversión espiritual, la intensidad del amor a Dios y al prójimo, el celo por la justicia y la paz, el sentido evangélico de los pobres y de la pobreza, son requeridos a todos, y especialmente a los pastores y a los responsables. La preocupación por la pureza de la fe ha de ir unida a la preocupación por aportar, con una vida teologal integral, la respuesta de un testimonio eficaz de servicio al prójimo, y particularmente al pobre y al oprimido».[106]

Los pobres como sujetos

99. Un don fundamental para el camino de la Iglesia universal está representado por el discernimiento de la Conferencia de Aparecida, donde los obispos latinoamericanos explicitaron que la opción preferencial de la Iglesia por los pobres «está implícita en la fe cristológica en aquel Dios que se ha hecho pobre por nosotros, para enriquecernos con su pobreza».[107] En el documento se contextualiza la misión en la actual situación del mundo globalizado, con sus nuevos y dramáticos desequilibrios,[108] y los obispos, en el mensaje final, escriben: «Las agudas diferencias entre ricos y pobres nos invitan a trabajar con mayor empeño en ser discípulos que saben compartir la mesa de la vida, mesa de todos los hijos e hijas del Padre, mesa abierta, incluyente, en la que no falte nadie. Por eso reafirmamos nuestra opción preferencial y evangélica por los pobres».[109]

100. Al mismo tiempo, el documento —profundizando un tema ya presente en las Conferencias precedentes del episcopado de América Latina— insiste en la necesidad de considerar a las comunidades marginadas como sujetos capaces de crear su propia cultura, más que como objetos de beneficencia. Esto implica que dichas comunidades tienen el derecho de vivir el Evangelio, de celebrar y comunicar la fe según los valores presentes en su cultura. La experiencia de la pobreza les da la capacidad para reconocer aspectos de la realidad que otros no son capaces de ver, y por esta razón la sociedad necesita escucharlos. Lo mismo vale para la Iglesia, que debe valorizar positivamente la manera “popular” que ellos tienen de vivir la fe. Un hermoso texto del documento final de Aparecida nos ayuda a reflexionar sobre este punto, para encontrar la actitud correcta: «Sólo la cercanía que nos hace amigos nos permite apreciar profundamente los valores de los pobres de hoy, sus legítimos anhelos y su modo propio de vivir la fe. [...] Día a día, los pobres se hacen sujetos de la evangelización y de la promoción humana integral: educan a sus hijos en la fe, viven una constante solidaridad entre parientes y vecinos, buscan constantemente a Dios y dan vida al peregrinar de la Iglesia. A la luz del Evangelio reconocemos su inmensa dignidad y su valor sagrado a los ojos de Cristo, pobre como ellos y excluido entre ellos. Desde esta experiencia creyente, compartiremos con ellos la defensa de sus derechos».[110]

101. Todo esto comporta la presencia de un aspecto en la opción por los pobres que debemos recordar constantemente: esta opción, en efecto, exige de nuestra parte «una atención puesta en el otro […]. Esta atención amante es el inicio de una verdadera preocupación por su persona, a partir de la cual deseo buscar efectivamente su bien. Esto implica valorar al pobre en su bondad propia, con su forma de ser, con su cultura, con su modo de vivir la fe. El verdadero amor siempre es contemplativo, nos permite servir al otro no por necesidad o por vanidad, sino porque él es bello, más allá de su apariencia. […] Sólo desde esta cercanía real y cordial podemos acompañarlos adecuadamente en su camino de liberación».[111] Por esta razón, dirijo un sincero agradecimiento a todos los que han escogido vivir entre los pobres; es decir, a aquellos que no van a visitarlos de vez en cuando, sino que viven con ellos y como ellos. Esta es una opción que debe encontrar lugar entre las formas más altas de vida evangélica.

102. En esta perspectiva, aparece claramente la necesidad de que «todos nos dejemos evangelizar»[112] por los pobres, y que todos reconozcamos «la misteriosa sabiduría que Dios quiere comunicarnos a través de ellos».[113] Crecidos en la extrema precariedad, aprendiendo a sobrevivir en medio de las condiciones más difíciles, confiando en Dios con la certeza de que nadie más los toma en serio, ayudándose mutuamente en los momentos más oscuros, los pobres han aprendido muchas cosas que conservan en el misterio de su corazón. Aquellos entre nosotros que no han experimentado situaciones similares, de una vida vivida en el límite, seguramente tienen mucho que recibir de esa fuente de sabiduría que constituye la experiencia de los pobres. Sólo comparando nuestras quejas con sus sufrimientos y privaciones, es posible recibir un reproche que nos invite a simplificar nuestra vida.

CAPÍTULO QUINTO

UN DESAFÍO PERMANENTE

103. He decidido recordar esta bimilenaria historia de atención eclesial a los pobres y con los pobres para mostrar que ésta forma parte esencial del camino ininterrumpido de la Iglesia. El cuidado de los pobres forma parte de la gran Tradición de la Iglesia, como un faro de luz que, desde el Evangelio, ha iluminado los corazones y los pasos de los cristianos de todos los tiempos. Por tanto, debemos sentir la urgencia de invitar a todos a sumergirse en este río de luz y de vida que proviene del reconocimiento de Cristo en el rostro de los necesitados y de los que sufren. El amor a los pobres es un elemento esencial de la historia de Dios con nosotros y, desde el corazón de la Iglesia, prorrumpe como una llamada continua en los corazones de los creyentes, tanto en las comunidades como en cada uno de los fieles. La Iglesia, en cuanto Cuerpo de Cristo, siente como su propia “carne” la vida de los pobres, que son parte privilegiada del pueblo que va en camino. Por esta razón, el amor a los que son pobres —en cualquier modo en que se manifieste dicha pobreza— es la garantía evangélica de una Iglesia fiel al corazón de Dios. De hecho, cada renovación eclesial ha tenido siempre como prioridad la atención preferencial por los pobres, que se diferencia, tanto en las motivaciones como en el estilo, de las actividades de cualquier otra organización humanitaria.

104. El cristiano no puede considerar a los pobres sólo como un problema social; estos son una “cuestión familiar”, son “de los nuestros”. Nuestra relación con ellos no se puede reducir a una actividad o a una oficina de la Iglesia. Como enseña la Conferencia de Aparecida, «se nos pide dedicar tiempo a los pobres, prestarles una amable atención, escucharlos con interés, acompañarlos en los momentos más difíciles, eligiéndolos para compartir horas, semanas o años de nuestra vida, y buscando, desde ellos, la transformación de su situación. No podemos olvidar que el mismo Jesús lo propuso con su modo de actuar y con sus palabras».[114]

El buen samaritano de nuevo

105. La cultura dominante de los inicios de este milenio instiga a abandonar a los pobres a su propio destino, a no juzgarlos dignos de atención y mucho menos de aprecio. En la encíclica Fratelli tutti el Papa Francisco nos invitaba a reflexionar sobre la parábola del buen samaritano (cf. Lc 10,25-37), precisamente para profundizar en este punto. En dicha parábola vemos que, frente a aquel hombre herido y abandonado en el camino, las actitudes de aquellos que pasan son distintas. Sólo el buen samaritano se ocupa de cuidarlo. Entonces vuelve la pregunta que interpela a cada uno en primera persona: «¿Con quién te identificas? Esta pregunta es cruda, directa y determinante. ¿A cuál de ellos te pareces? Nos hace falta reconocer la tentación que nos circunda de desentendernos de los demás; especialmente de los más débiles. Digámoslo, hemos crecido en muchos aspectos, aunque somos analfabetos en acompañar, cuidar y sostener a los más frágiles y débiles de nuestras sociedades desarrolladas. Nos acostumbramos a mirar para el costado, a pasar de lado, a ignorar las situaciones hasta que estas nos golpean directamente».[115]

106. Y nos hace mucho bien descubrir que aquella escena del buen samaritano se repite también hoy. Recordemos esta situación de nuestros días: «Cuando encuentro a una persona durmiendo a la intemperie, en una noche fría, puedo sentir que ese bulto es un imprevisto que me interrumpe, un delincuente ocioso, un estorbo en mi camino, un aguijón molesto para mi conciencia, un problema que deben resolver los políticos, y quizá hasta una basura que ensucia el espacio público. O puedo reaccionar desde la fe y la caridad, y reconocer en él a un ser humano con mi misma dignidad, a una creatura infinitamente amada por el Padre, a una imagen de Dios, a un hermano redimido por Jesucristo. ¡Eso es ser cristianos! ¿O acaso puede entenderse la santidad al margen de este reconocimiento vivo de la dignidad de todo ser humano?».[116] ¿Qué hizo el buen samaritano?

107. La pregunta se vuelve urgente, porque nos ayuda a darnos cuenta de una grave falta en nuestras sociedades y también en nuestras comunidades cristianas. El hecho es que muchas formas de indiferencia que hoy encontramos «son signos de un estilo de vida generalizado, que se manifiesta de diversas maneras, quizás más sutiles. Además, como todos estamos muy concentrados en nuestras propias necesidades, ver a alguien sufriendo nos molesta, nos perturba, porque no queremos perder nuestro tiempo por culpa de los problemas ajenos. Estos son síntomas de una sociedad enferma, porque busca construirse de espaldas al dolor. Mejor no caer en esa miseria. Miremos el modelo del buen samaritano».[117] Las últimas palabras de la parábola evangélica —«Ve, y procede tú de la misma manera» (Lc 10,37)— son un mandamiento que un cristiano debe oír resonar cada día en su corazón.

Un desafío ineludible para la Iglesia de hoy

108. En una época particularmente difícil para la Iglesia de Roma, cuando las instituciones imperiales estaban colapsando bajo la presión de los bárbaros, san Gregorio Magno amonestaba a sus fieles de este modo: «Todos los días, si lo buscamos, hallamos a Lázaro, y, aunque no lo busquemos, le tenemos a la vista. Ved que a todas horas se presentan los pobres y que ahora nos piden ellos, que luego vendrán como intercesores nuestros. [...] No perdáis el tiempo de la misericordia; no hagáis caso omiso de los remedios que habéis recibido».[118] No sin valentía, él desafiaba los prejuicios generalizados hacia los pobres, como los de quienes los consideraban responsables de su propia miseria: «Cuando veis que algunos pobres hacen algunas cosas reprensibles: no los despreciéis, no desconfiéis, porque tal vez la fragua de la pobreza purifica el exceso de alguna maldad pequeñísima que los mancha».[119] No pocas veces, la riqueza nos vuelve ciegos, hasta el punto de pensar que nuestra felicidad sólo puede realizarse si logramos prescindir de los demás. En esto, los pobres pueden ser para nosotros como maestros silenciosos, devolviendo nuestro orgullo y arrogancia a una justa humildad.

109. Si es verdad que los pobres son sostenidos por quienes tienen medios económicos, también se puede afirmar con certeza lo contrario. Esta es una sorprendente experiencia corroborada por la misma tradición cristiana y que se vuelve un verdadero punto de inflexión en nuestra vida personal, cuando caemos en la cuenta de que justamente los pobres son quienes nos evangelizan. ¿De qué manera? Los pobres, en el silencio de su misma condición, nos colocan frente a la realidad de nuestra debilidad. El anciano, por ejemplo, con la debilidad de su cuerpo, nos recuerda nuestra vulnerabilidad, aun cuando buscamos esconderla detrás del bienestar o de la apariencia. Además, los pobres nos hacen reflexionar sobre la precariedad de aquel orgullo agresivo con el que frecuentemente afrontamos las dificultades de la vida. En esencia, ellos revelan nuestra fragilidad y el vacío de una vida aparentemente protegida y segura. Al respecto, volvemos a escuchar estas palabras de san Gregorio Magno: «Nadie, pues, se cuente seguro diciendo: Ea, yo no robo lo ajeno, sino que disfruto buenamente de los bienes que he recibido; porque este rico no fue castigado precisamente por robar lo ajeno, sino porque malamente reservó para sí solo los bienes que había recibido. También le llevó al infierno esto: el no vivir temeroso en medio de su felicidad, el hacer servir a su arrogancia los dones recibidos, el no tener entrañas de caridad».[120]

110. Para nosotros cristianos, la cuestión de los pobres conduce a lo esencial de nuestra fe. La opción preferencial por los pobres, es decir, el amor de la Iglesia hacia ellos, como enseñaba san Juan Pablo II, «es determinante y pertenece a su constante tradición, la impulsa a dirigirse al mundo en el cual, no obstante el progreso técnico-económico, la pobreza amenaza con alcanzar formas gigantescas».[121] La realidad es que los pobres para los cristianos no son una categoría sociológica, sino la misma carne de Cristo. En efecto, no es suficiente limitarse a enunciar en modo general la doctrina de la encarnación de Dios; para adentrarse en serio en este misterio, en cambio, es necesario especificar que el Señor se hace carne, carne que tiene hambre, que tiene sed, que está enferma, encarcelada. «Una Iglesia pobre para los pobres empieza con ir hacia la carne de Cristo. Si vamos hacia la carne de Cristo, comenzamos a entender algo, a entender qué es esta pobreza, la pobreza del Señor. Y esto no es fácil».[122]

111. El corazón de la Iglesia, por su misma naturaleza, es solidario con aquellos que son pobres, excluidos y marginados, con aquellos que son considerados un “descarte” de la sociedad. Los pobres están en el centro de la Iglesia, porque es desde la «fe en Cristo hecho pobre, y siempre cercano a los pobres y excluidos, [que] brota la preocupación por el desarrollo integral de los más abandonados de la sociedad».[123] En el corazón de cada fiel se encuentra «la exigencia de escuchar este clamor [que] brota de la misma obra liberadora de la gracia en cada uno de nosotros, por lo cual no se trata de una misión reservada sólo a algunos».[124]

112. A veces se percibe en algunos movimientos o grupos cristianos la carencia o incluso la ausencia del compromiso por el bien común de la sociedad y, en particular, por la defensa y la promoción de los más débiles y desfavorecidos. A este respecto, es necesario recordar que la religión, especialmente la cristiana, no puede limitarse al ámbito privado, como si los fieles no tuvieran que preocuparse también de los problemas relativos a la sociedad civil y de los acontecimientos que afectan a los ciudadanos.[125]

113. En realidad, «cualquier comunidad de la Iglesia, en la medida en que pretenda subsistir tranquila sin ocuparse creativamente y cooperar con eficiencia para que los pobres vivan con dignidad y para incluir a todos, también correrá el riesgo de la disolución, aunque hable de temas sociales o critique a los gobiernos. Fácilmente terminará sumida en la mundanidad espiritual, disimulada con prácticas religiosas, con reuniones infecundas o con discursos vacíos».[126]

114. No estamos hablando sólo de la asistencia y del necesario compromiso por la justicia. Los creyentes deben darse cuenta de otra forma de incoherencia respecto a los pobres. En verdad, «la peor discriminación que sufren los pobres es la falta de atención espiritual […]. La opción preferencial por los pobres debe traducirse principalmente en una atención religiosa privilegiada y prioritaria».[127] No obstante, esta atención espiritual hacia los pobres es puesta en discusión por ciertos prejuicios, también por parte de cristianos, porque nos sentimos más a gusto sin los pobres. Hay quienes siguen diciendo: “Nuestra tarea es rezar y enseñar la verdadera doctrina”. Pero, desvinculando este aspecto religioso de la promoción integral, agregan que sólo el gobierno debería encargarse de ellos, o que sería mejor dejarlos en la miseria, para que aprendan a trabajar. A veces, sin embargo, se asumen criterios pseudocientíficos para decir que la libertad de mercado traerá espontáneamente la solución al problema de la pobreza. O incluso, se opta por una pastoral de las llamadas élites, argumentando que, en vez de perder el tiempo con los pobres, es mejor ocuparse de los ricos, de los poderosos y de los profesionales, para que, por medio de ellos, se puedan alcanzar soluciones más eficaces. Es fácil percibir la mundanidad que se esconde detrás de estas opiniones; estas nos llevan a observar la realidad con criterios superficiales y desprovistos de cualquier luz sobrenatural, prefiriendo círculos sociales que nos tranquilizan o buscando privilegios que nos acomodan.

Aún hoy, dar

115. Es bueno dedicar una última palabra a la limosna, que hoy no goza de buena fama, a menudo incluso entre los creyentes. No sólo no se practica, sino que además se desprecia. Por un lado, confirmo que la ayuda más importante para una persona pobre es promoverla a tener un buen trabajo, para que pueda ganarse una vida más acorde a su dignidad, desarrollando sus capacidades y ofreciendo su esfuerzo personal. El hecho es que «la falta de trabajo es mucho más que la falta de una fuente de ingresos para poder vivir. El trabajo es también esto, pero es mucho, mucho más. Trabajando nosotros nos hacemos más persona, nuestra humanidad florece, los jóvenes se convierten en adultos solamente trabajando. La Doctrina Social de la Iglesia ha visto siempre el trabajo humano como participación en la creación que continúa cada día, también gracias a las manos, a la mente y al corazón de los trabajadores».[128] Por otro lado, si aún no existe esta posibilidad concreta, no podemos correr el riesgo de dejar a una persona abandonada a su suerte, sin lo indispensable para vivir dignamente. Y, por tanto, la limosna sigue siendo un momento necesario de contacto, de encuentro y de identificación con la situación de los demás.

116. Es evidente, para quien ama de verdad, que la limosna no exime de sus responsabilidades a las autoridades competentes, ni elimina el compromiso organizado de las instituciones, y mucho menos sustituye la lucha legítima por la justicia. Sin embargo, invita al menos a detenerse y a mirar al pobre a la cara, a tocarle y compartir con él algo de lo suyo. De cualquier manera, la limosna, por pequeña que sea, infunde pietas en una vida social en la que todos se preocupan de su propio interés personal. Dice el libro de los Proverbios: «El hombre generoso será bendecido, porque comparte su pan con el pobre» (Pr 22,9).

117. Tanto el Antiguo como el Nuevo Testamento contienen auténticos himnos a la limosna: «Pero tú sé indulgente con el humilde y no le hagas esperar tu limosna, […] que el tesoro encerrado en tus graneros sea la limosna, y ella te preservará de todo mal» (Si 29,8.12). Y Jesús retoma esta enseñanza: «Vendan sus bienes y denlos como limosna. Háganse bolsas que no se desgasten y acumulen un tesoro inagotable en el cielo» (Lc 12,33).

118. A san Juan Crisóstomo se le atribuía esta exhortación: «La limosna es el ala de la oración; si no le das alas a la oración, no volará».[129] Y san Gregorio Nacianceno concluía una de sus célebres oraciones con estas palabras: «En verdad, si en algo confiáis en mí, siervos de Cristo, hermanos y coherederos, mientras llega el momento, visitemos a Cristo, curemos a Cristo, alimentemos a Cristo, vistamos a Cristo, hospedemos a Cristo, honremos a Cristo; no sólo en la mesa, como algunos; ni con perfumes, como María; no sólo en el sepulcro, como José de Arimatea; ni con lo relativo a la sepultura, como Nicodemo, que amaba a Cristo a medias; ni con oro, incienso y mirra, como los Magos, anteriores a los mencionados; sino puesto que el Señor del universo quiere misericordia y no sacrificio […], ofrezcámosle esa compasión por medio de los necesitados y de los que ahora se encuentran arrojados por tierra, para que, cuando salgamos de aquí abajo, seamos recibidos en las moradas eternas».[130]

119. Hay que alimentar el amor y las convicciones más profundas, y eso se hace con gestos. Permanecer en el mundo de las ideas y las discusiones, sin gestos personales, asiduos y sinceros, sería la perdición de nuestros sueños más preciados. Por esta sencilla razón, como cristianos, no renunciamos a la limosna. Es un gesto que se puede hacer de diferentes formas, y que podemos intentar hacer de la manera más eficaz, pero es preciso hacerlo. Y siempre será mejor hacer algo que no hacer nada. En todo caso nos llegará al corazón. No será la solución a la pobreza mundial, que hay que buscar con inteligencia, tenacidad y compromiso social. Pero necesitamos practicar la limosna para tocar la carne sufriente de los pobres.

120. El amor cristiano supera cualquier barrera, acerca a los lejanos, reúne a los extraños, familiariza a los enemigos, atraviesa abismos humanamente insuperables, penetra en los rincones más ocultos de la sociedad. Por su naturaleza, el amor cristiano es profético, hace milagros, no tiene límites: es para lo imposible. El amor es ante todo un modo de concebir la vida, un modo de vivirla. Pues bien, una Iglesia que no pone límites al amor, que no conoce enemigos a los que combatir, sino sólo hombres y mujeres a los que amar, es la Iglesia que el mundo necesita hoy.

121. Ya sea a través del trabajo que ustedes realizan, o de su compromiso por cambiar las estructuras sociales injustas, o por medio de esos gestos sencillos de ayuda, muy cercanos y personales, será posible para aquel pobre sentir que las palabras de Jesús son para él: «Yo te he amado» (Ap 3,9).

Dado en Roma, junto a San Pedro, el 4 de octubre, memoria de san Francisco de Asís, del año 2025, primero de mi Pontificado.

LEÓN PP. XIV

_____________________

[1] Francisco, Carta enc. Dilexit nos (24 octubre 2024), 170: AAS 116 (2024), 1422.

[2] Ibíd., 171: AAS 116 (2024), 1422-1423.

[3] Id., Exhort. ap. Gaudete et exsultate (19 marzo 2018), 96: AAS 110 (2018), 1137.

[4] Francisco, Encuentro con los representantes de los medios de comunicación (16 marzo 2013): AAS 105 (2013), 381.

[5] J. Bergoglio – A. Skorka, Sobre el cielo y la tierra, Buenos Aires 2013, 214.

[6] S. Pablo VI, Homilía en la Santa Misa concelebrada durante la última sesión pública del Concilio Ecuménico Vaticano II (7 diciembre 1965): AAS 58 (1966), 55-56.

[7] Cf. Francisco, Exhort. ap. Evangelii gaudium (24 noviembre 2013), 187: AAS 105 (2013), 1098.

[8] Ibíd., 212: AAS 105 (2013), 1108.

[9] Id., Carta. enc. Fratelli tutti (3 octubre 2020), 23: AAS 112 (2020), 977.

[10] Ibíd., 21: AAS 112 (2020), 976.

[11] Consejo de las Comunidades Europeas, Decisión (85/8/CEE) relativa a una acción comunitaria específica de lucha contra la pobreza (19 diciembre 1984), art. 1, par. 2: Diario Oficial de las Comunidades Europeas, N. L 2/24.

[12] Cf. S. Juan Pablo II, Catequesis (27 octubre 1999): L’Osservatore Romano, ed. semanal en lengua española, 29 octubre 1999, 3.

[13] Francisco, Exhort. ap. Evangelii gaudium (24 noviembre 2013), 197: AAS 105 (2013), 1102.

[14] Cf. id., Mensaje para la V Jornada Mundial de los Pobres (13 junio 2021), 3: AAS 113 (2021), 691: «Jesús no sólo está de parte de los pobres, sino que comparte con ellos la misma suerte. Esta es una importante lección también para sus discípulos de todos los tiempos».

[15] Id., Exhort. ap. Evangelii gaudium (24 noviembre 2013), 186: AAS 105 (2013), 1098.

[16] Id., Exhort. ap. Gaudete et exsultate (19 marzo 2018), 95: AAS 110 (2018), 1137.

[17] Ibíd., 97: AAS 110 (2018), 1137.

[18] Id., Exhort. ap. Evangelii gaudium (24 noviembre 2013), 194: AAS 105 (2013), 1101.

[19] Francisco, Encuentro con los representantes de los medios de comunicación (16 marzo 2013): AAS 105 (2013), 381.

[20] Conc. Ecum. Vaticano II, Const. dogm. Lumen gentium, 8.

[21] Francisco, Exhort. ap. Evangelii gaudium (24 noviembre 2013), 48: AAS 105 (2013), 1040.

[22] En este capítulo propondremos algunos de estos ejemplos de santidad, que no pretenden ser exhaustivos, sino indicativos del cuidado de los pobres que siempre ha caracterizado la presencia de la Iglesia en el mundo. Una reflexión detallada sobre la historia de esta atención eclesial a los más pobres se encuentra en el libro de V. Paglia, Storia della povertà, Milán 2014.

[23] Cf. S. Ambrosio, De officiis ministrorum I, cap. 41, 205-206: CCSL 15, Turnhout 2000, 76-77; II, cap. 28, 140-143: CCSL 15, 148-149.

[24] Ibíd. II, cap. 28, 140: CCSL 15, 148.

[25] Ibíd.

[26] Ibíd. II, cap. 28, 142: CCSL 15, 148.

[27] S. Ignacio de Antioquía, Epistula ad Smyrnaeos, 6, 2: SCh 10bis, París 2007, 136-138.

[28] S. Policarpo, Epistula ad Philippenses, 6, 1: SCh 10bis, 186.

[29] S. Justino, Apologia prima, 67, 6-7: SCh 507, París 2006, 310.

[30] S. Juan Crisóstomo, Homiliae in Matthaeum, 50, 3: PG 58, París 1862, 508.

[31] Ibíd., 50, 4: PG 58, 509.

[32] Id., Homilia in Epistula ad Hebraeos, 11, 3: PG 63, París 1862, 94.

[33] Id., Homilia II De Lazaro, 6: PG 48, París 1862, 992.

[34] S. Ambrosio, De Nabuthae, 12, 53: CSEL 32/2, Praga-Viena-Leipzig 1897, 498.

[35] S. Agustín, Enarrationes in Psalmos, 125, 12: CSEL 95/3, Viena 2001, 181.

[36] Id., Sermo LXXXVI, 5: CCSL 41Ab, Turnhout 2019, 411-412.

[37] Pseudoagustín, Sermo CCCLXXXVIII, 2: PL 39, París 1862, 1700.

[38] S. Cipriano, De mortalitate, 16: CCSL 3A, Turnhout 1976, 25.

[39] Francisco, Mensaje para la XXX Jornada Mundial del Enfermo (10 diciembre 2021), 3: AAS 114 (2022), 51.

[40] S. Camilo de Lelis, Reglas de la Compañía de los Ministros de los Enfermos, 27: M. Vanti (ed.), Scritti di San Camillo de Lellis, Milán 1965, 67.

[41] Sta. Luisa de Marillac, Carta a las Hermanas Claude Carré y Marie Gaudoin (28 noviembre 1657): E. Charpy (ed.), Sainte Louise de Marillac. Écrits, París 1983, 576.

[42] S. Basilio Magno, Regulae fusius tractatae, 37, 1: PG 31, París 1857, 1009 C-D.

[43] Regula Benedicti, 53, 15: SCh 182, París 1972, 614.

[44] S. Juan Casiano, Collationes XIV, 10: CSEL 13, Viena 2004, 410.

[45] Benedicto XVI, Catequesis (21 octubre 2009): L’Osservatore Romano, ed. semanal en lengua española, 23 octubre 2009, 32.

[46] Cf. Inocencio III, Bula Operante divinae dispositionis Regla Primitiva de los Trinitarios (17 diciembre 1198), 2: J. L. Aurrecoechea – A. Moldón (eds.), Fuentes históricas de la Orden Trinitaria (s. XII-XV), Córdoba 2003, 6-7: «Todos los bienes, de dondequiera que lícitamente provengan, los dividan en tres partes iguales; y en la medida en que dos partes sean suficientes, se lleven a cabo con ellas obras de misericordia, junto con un moderado sustento de sí mismos y de los que por necesidad están a su servicio. En cambio, la tercera parte se reserve para la redención de los cautivos a causa de su fe en Cristo».

[47] Cf. Constituciones de la Orden de los Mercedarios, n. 14: Orden de la Bienaventurada Virgen María de la Merced, Regla y Constituciones, Roma 2014, 53: «Para cumplir esta misión, impulsados por la caridad, nos consagramos a Dios con un voto particular, llamado de Redención, en virtud del cual prometemos dar la vida como Cristo la dio por nosotros, si fuere necesario, para salvar a los cristianos que se encuentran en extremo peligro de perder su fe, en las nuevas formas de cautividad».

[48] Cf. S. Juan Bautista de la Concepción, La regla de la Orden de la Santísima Trinidad, XX, 1: BAC Maior 60, Madrid 1999, 90: «Y en esto son los pobres y cautivos semejantes a Cristo, en quien el mundo arroja sus penas […]. A éstos esta santa Religión de la Santísima Trinidad llama y convida que vengan a beber del agua del Salvador, que es decir que, por haberse Cristo puesto en la cruz a ser salud y salvador de los hombres, ella ha cogido de aquella salud y la quiere dar y repartir a los pobres y salvar y librar a los cautivos».

[49] Cf. id., El recogimiento interior, XL, 4: BAC Maior 48, Madrid 1995, 689: «El libre albedrío al hombre le hace señor y libre entre todas las criaturas, pero ¡ay, buen Dios!, cuántos más son los que por ese camino son esclavos y cautivos del demonio, presos y aherrojados de sus pasiones y apetitos desordenados».

[50] Francisco, Mensaje para la XLVIII Jornada Mundial de la Paz (8 diciembre 2014), 3: AAS 107 (2015), 69.

[51] Id., Encuentro con los agentes de la policía penitenciaria, los detenidos y los voluntarios de la cárcel de Montorio (Verona, 18 de mayo de 2024): AAS 116 (2024), 766.

[52] Honorio III, Bula Solet annuereRegla bulada (29 noviembre 1223), cap. VI: SCh 285, París 1981, 192.

[53] Cf. Gregorio IX, Bula Sicut manifestum est (17 septiembre 1228), 7: SCh 325, París 1985, 200: «Sicut igitur supplicastis, altissimae paupertatis propositum vestrum favore apostolico roboramus, auctoritate vobis praesentium indulgentes, ut recipere possessiones a nullo compelli possitis».

[54] Cf. S. C. Tugwell (ed.), Early Dominicans. Selected Writings, Mahwah 1982, 16-19.

[55] Tomás de Celano, Vita Secunda pars prima, cap. IV, 8: AnalFranc 10, Florencia 1941, 135.

[56] Francisco, Discurso después de la visita a la tumba de don Lorenzo Milani (Barbiana, 20 de junio de 2017), 2: AAS 109 (2017), 745.

[57] S. Juan Pablo II, Discurso a los participantes en el Capítulo General de los Clérigos Regulares Pobres de la Madre de Dios de las Escuelas Pías – Escolapios (5 julio 1997), 2: L’Osservatore Romano, ed. semanal en lengua española, 11 julio 1997, 2.

[58] Ibíd.

[59] Id., Homilía durante la Santa Misa de canonización (18 abril 1999): AAS 91 (1999), 930.

[60] Cf. id., Carta Iuvenum Patris (31 enero 1988), 9: AAS 80 (1988), 976.

[61] Cf. Francisco, Discurso a los participantes en el Capítulo General del Instituto de la Caridad – Rosminianos (1 octubre 2018): L’Osservatore Romano, 1-2 octubre 2018, 7.

[62] Id., Homilía durante la Santa Misa de canonización (9 octubre 2022): AAS 114 (2022), 1338.

[63] S. Juan Pablo II, Mensaje a la Congregación de Misioneras del Sagrado Corazón (31 mayo 2000), 3: L’Osservatore Romano, ed. semanal en lengua española, 28 julio 2000, 5.

[64] Cf. Pío XII, Breve ap. Superiore iam aetate (8 septiembre 1950): AAS 43 (1951), 455-456.

[65] Francisco, Mensaje para la CV Jornada Mundial del Migrante y del Refugiado (27 mayo 2019): AAS 111 (2019), 911.

[66] Id., Mensaje para la C Jornada Mundial del Migrante y del Refugiado (5 agosto 2013): AAS 105 (2013), 930.

[67] Sta. Teresa de Calcuta, Discurso al recibir el Premio Nobel de la Paz (Oslo, 10 de diciembre de 1979): Id., Aimer jusqu’à en avoir mal, Lyon 2017, 19-20.

[68] S. Juan Pablo II, Discurso a los peregrinos venidos a Roma para la beatificación de la Madre Teresa de Calcuta (20 octubre 2003), 3: L’Osservatore Romano, ed. semanal en lengua española, 31 octubre 2003, 7.

[69] Francisco, Homilía durante la Santa Misa de canonización (13 octubre 2019): AAS 111 (2019), 1712.

[70] S. Juan Pablo II, Carta ap. Novo millennio ineunte (6 enero 2001), 49: AAS 93 (2001), 302.

[71] Francisco, Exhort. ap. Christus vivit (25 marzo 2019), 231: AAS 111 (2019), 458.

[72] Id., Discurso a los participantes en el Encuentro mundial de los movimientos populares (28 octubre 2014): AAS 106 (2014), 851-852.

[73] Ibíd.: AAS 106 (2014), 859.

[74] Id., Discurso a los participantes en el Encuentro mundial de los movimientos populares (5 noviembre 2016): L’Osservatore Romano, ed. semanal en lengua española, 11 noviembre 2016, 8.

[75] Ibíd.

[76] S. Juan XXIII, Radiomensaje a todos los fieles del mundo un mes antes de la apertura del Concilio Ecuménico Vaticano II (11 septiembre 1962): AAS 54 (1962), 682.

[77] G. Lercaro, Intervención en la XXXV Congregación general del Concilio Ecuménico Vaticano II (6 diciembre 1962), 2: AS I/IV, 327-328.

[78] Ibíd., 4: AS I/IV, 329.

[79] Istituto per le Scienze Religiose (ed.), Per la forza dello Spirito. Discorsi conciliari del Card. Giacomo Lercaro, Bolonia 1984, 115.

[80] S. Pablo VI, Alocución en la solemne apertura de la segunda sesión del Concilio Ecuménico Vaticano II (29 septiembre 1963): AAS 55 (1963), 857.

[81] Id., Catequesis (11 noviembre 1964): Insegnamenti di Paolo VI, II (1964), 984.

[82] Conc. Ecum. Vat. II, Const. past. Gaudium et spes, 69. 71.

[83] S. Pablo VI, Carta enc. Populorum progressio (26 marzo 1967), 23: AAS 59 (1967), 269.

[84] Cf. ibíd., 4: AAS 59 (1967), 259.

[85] S. Juan Pablo II, Carta enc. Sollicitudo rei socialis (30 diciembre 1987), 42: AAS 80 (1988), 572.

[86] Ibíd.: AAS 80 (1988), 573.

[87] Id., Carta enc. Laborem exercens (14 septiembre 1981), 3: AAS 73 (1981), 584.

[88] Benedicto XVI, Carta enc. Caritas in veritate (29 junio 2009), 7: AAS 101 (2009), 645.

[89] Ibíd., 27: AAS 101 (2009), 661.

[90] II Conferencia General del Episcopado Latinoamericano, Documento de Medellín (24 octubre 1968), 14, n. 7: CELAM, Medellín. Conclusiones, Lima 2005, 131-132.

[91] Francisco, Exhort. ap. Evangelii gaudium (24 noviembre 2013), 202: AAS 105 (2013), 1105.

[92] Ibíd., 205: AAS 105 (2013), 1106.

[93] Ibíd., 190: AAS 105 (2013), 1099.

[94] Ibíd., 56: AAS 105 (2013), 1043.

[95] Id., Carta enc. Dilexit nos (24 octubre 2024), 183: AAS 116 (2024), 1427.

[96] S. Juan Pablo II, Carta enc. Centesimus annus (1 mayo 1991), 41: AAS 83 (1991), 844-845.

[97] Francisco, Exhort. ap. Evangelii gaudium (24 noviembre 2013), 202: AAS 105 (2013), 1105.

[98] Ibíd.

[99] Id., Carta enc. Fratelli tutti (3 octubre 2020), 22: AAS 112 (2020), 976.

[100] Id., Exhort. ap. Evangelii gaudium (24 noviembre 2013), 209: AAS 105 (2013), 1107.

[101] Id., Carta enc. Laudato si’ (24 mayo 2015), 50: AAS 107 (2015), 866.

[102] Id., Exhort. ap. Evangelii gaudium (24 noviembre 2013), 210: AAS 105 (2013), 1107.

[103] Id., Carta enc. Laudato si’ (24 mayo 2015), 43: AAS 107 (2015), 863.

[104] Ibíd., 48: AAS 107 (2015), 865.

[105] Id., Exhort. ap. Evangelii gaudium (24 noviembre 2013), 180: AAS 105 (2013), 1095.

[106] Congregación para la Doctrina de la Fe, Instrucción sobre algunos aspectos de la “Teología de la liberación” (6 agosto 1984), XI, 18: AAS 76 (1984), 907-908.

[107] V Conferencia General del Episcopado Latinoamericano y del Caribe, Documento de Aparecida (29 junio 2007), n. 392, Bogotá 2007, pp. 179-180. Cf. Benedicto XVI, Discurso en la sesión inaugural de los trabajos de la V Conferencia General del Episcopado Latinoamericano y del Caribe (13 mayo 2007), 3: AAS 99 (2007), 450.

[108] Cf. V Conferencia General del Episcopado Latinoamericano y del Caribe, Documento de Aparecida (29 junio 2007), nn. 43-87, pp. 31-47.

[109] Id., Mensaje final (29 mayo 2007), n. 4, Bogotá 2007, p. 275.

[110] Id., Documento de Aparecida (29 junio 2007), n. 398, p. 182.

[111] Francisco, Exhort. ap. Evangelii gaudium (24 noviembre 2013), 199: AAS 105 (2013), 1103-1104.

[112] Ibíd., 198: AAS 105 (2013), 1103.

[113] Ibíd.

[114] V Conferencia General del Episcopado Latinoamericano y del Caribe, Documento de Aparecida (29 junio 2007), n. 397, p. 182.

[115] Francisco, Carta enc. Fratelli tutti (3 octubre 2020), 64: AAS 112 (2020), 992.

[116] Id., Exhort. ap. Gaudete et exsultate (19 marzo 2018), 98: AAS 110 (2018), 1137.

[117] Id., Carta enc. Fratelli tutti (3 octubre 2020), 65-66: AAS 112 (2020), 992.

[118] S. Gregorio Magno, Homilía 40, 10: SCh 522, París 2008, 552-554.

[119] Ibíd., 6: SCh 522, 546.

[120] Ibíd., 3: SCh 522, 536.

[121] S. Juan Pablo II, Carta enc. Centesimus annus (1 mayo 1991), 57: AAS 83 (1991) 862-863.

[122] Francisco, Vigilia de Pentecostés con los movimientos eclesiales (18 mayo 2013): L’Osservatore Romano, ed. semanal en lengua española, 24 mayo 2013, 6.

[123] Id., Exhort. ap. Evangelii gaudium (24 noviembre 2013), 186: AAS 105 (2013), 1098.

[124] Ibíd., 188: AAS 105 (2013), 1099.

[125] Cf. ibíd., 182-183: AAS 105 (2013), 1096-1097.

[126] Ibíd., 207: AAS 105 (2013), 1107.

[127] Ibíd., 200: AAS 105 (2013), 1104.

[128] Id., Discurso en ocasión del encuentro con el mundo del trabajo en el establecimiento siderúrgico ILVA en Génova (27 mayo 2017): AAS 109 (2017), 613.

[129] Pseudocrisóstomo, Homilia de jejunio et eleemosyna: PG 48, 1060.

[130] S. Gregorio Nacianceno, Oratio XIV, 40: PG 35, París 1886, 910.

[01290-ES.01] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

EXORTAÇÃO APOSTÓLICA

DILEXI TE

DO SANTO PADRE

LEÃO XIV

SOBRE O AMOR PARA COM OS POBRES

1. «Eu te amei» (Ap 3, 9), diz o Senhor a uma comunidade cristã que, ao contrário de outras, não tinha qualquer relevância ou recurso e estava exposta à violência e ao desprezo: «tens pouca força, mas […] farei que […] venham prostrar-se a teus pés» (Ap 3, 8-9). Este texto recorda as palavras do cântico de Maria: «Derrubou os poderosos de seus tronos e exaltou os humildes. Aos famintos encheu de bens e aos ricos despediu de mãos vazias» (Lc 1, 52-53).

2. A declaração de amor do Apocalipse remete para o mistério insondável que foi aprofundado pelo Papa Francisco na Encíclica Dilexit nos sobre o amor humano e divino do Coração de Jesus. Nela, admirámos o modo como Jesus se identifica «com os últimos da sociedade» e como, através do seu amor doado até ao fim, mostra a dignidade de cada ser humano, sobretudo quando é «mais fraco, mísero e sofredor».[1] Contemplar o amor de Cristo «ajuda-nos a prestar mais atenção ao sofrimento e às necessidades dos outros, e torna-nos suficientemente fortes para participar na sua obra de libertação, como instrumentos de difusão do seu amor».[2]

3. Por esta razão, em continuidade com a Encíclica Dilexit nos, o Papa Francisco, nos últimos meses da sua vida, estava a preparar uma Exortação Apostólica sobre o cuidado da Igreja pelos pobres e com os pobres, intitulada Dilexi te, imaginando Cristo a dirigir-se a cada um deles dizendo: Tens pouca força, pouco poder, mas «Eu te amei» (Ap 3, 9). Ao receber como herança este projeto, sinto-me feliz ao assumi-lo como meu – acrescentando algumas reflexões – e ao apresentá-lo no início do meu pontificado, partilhando o desejo do meu amado Predecessor de que todos os cristãos possam perceber a forte ligação existente entre o amor de Cristo e o seu chamamento a tornarmo-nos próximos dos pobres. Na verdade, também eu considero necessário insistir neste caminho de santificação, porque no «apelo a reconhecê-Lo nos pobres e atribulados, revela-se o próprio coração de Cristo, os seus sentimentos e as suas opções mais profundas, com os quais se procura configurar todo o santo».[3]

CAPÍTULO I

ALGUMAS PALAVRAS INDISPENSÁVEIS

4. Os discípulos de Jesus criticaram a mulher que derramou um perfume muito precioso sobre a sua cabeça: «Para quê este desperdício?» – diziam eles – «Podia vender-se por bom preço e dar-se o dinheiro aos pobres». Mas o Senhor disse-lhes: «Pobres, sempre os tereis convosco; mas a mim nem sempre me tereis» (Mt 26, 8-9.11). Aquela mulher tinha compreendido que Jesus era o Messias humilde e sofredor sobre quem derramar o seu amor: que consolo aquele unguento sobre a cabeça que, dali a poucos dias, seria atormentada pelos espinhos! Era um pequeno gesto, mas quem sofre sabe o quanto é grande mesmo um pequeno sinal de afeto e quanto alívio pode trazer. Jesus compreende isso e confirma a sua perenidade: «Em qualquer parte do mundo onde este Evangelho for anunciado, há de também narrar-se, em sua memória, o que ela acaba de fazer» (Mt 26, 13). A simplicidade daquele gesto revela algo grandioso. Nenhuma expressão de carinho, nem mesmo a menor delas, será esquecida, especialmente se dirigida a quem se encontra na dor, sozinho, necessitado, como estava o Senhor naquela hora.

5. É precisamente nesta perspectiva que o afeto pelo Senhor se une ao afeto pelos pobres. Aquele Jesus que diz «Pobres, sempre os tereis convosco» (Mt 26, 11), expressa igual sentido quando promete aos discípulos: «Sabei que Eu estarei sempre convosco» (Mt 28, 20). Ao mesmo tempo, vêm-nos à mente aquelas palavras do Senhor: «Sempre que fizestes isto a um destes meus irmãos mais pequeninos, a mim mesmo o fizestes» (Mt 25, 40). Não estamos no horizonte da beneficência, mas no da Revelação: o contato com quem não tem poder nem grandeza é um modo fundamental de encontro com o Senhor da história. Nos pobres, Ele ainda tem algo a dizer-nos.

São Francisco

6. O Papa Francisco, ao recordar a escolha do próprio nome, contou que, após a sua eleição, um Cardeal amigo abraçou-o, beijou-o e disse-lhe: «Não te esqueças dos pobres!».[4] Trata-se da mesma recomendação feita pelas autoridades da Igreja a São Paulo quando ele subiu a Jerusalém para verificar a sua missão (cf. Gl 2, 1-10). O Apóstolo pôde afirmar anos mais tarde: foi «o que procurei fazer com o maior empenho» (Gl 2, 10). Trata-se também da escolha de São Francisco de Assis: no leproso, foi o próprio Cristo que o abraçou, transformando a sua vida. A figura luminosa do Poverello jamais deixará de nos inspirar.

7. Há oito séculos, foi ele que provocou um renascimento evangélico nos cristãos e na sociedade do seu tempo. O jovem Francisco, anteriormente rico e presunçoso, renasceu a partir do impacto com a realidade daqueles que são expulsos da convivência. O impulso dado por ele não cessa de mover os corações dos fiéis e de muitos não crentes e «mudou a história».[5] Segundo as palavras de São Paulo VI, o próprio Concílio Vaticano II segue nesta direção: «Aquela antiga história do bom samaritano foi exemplo e norma segundo os quais se orientou o nosso Concílio».[6] Estou convencido de que a opção preferencial pelos pobres gera uma renovação extraordinária tanto na Igreja como na sociedade, quando somos capazes de nos libertar da autorreferencialidade e conseguimos ouvir o seu clamor.

O clamor dos pobres

8. A propósito, na Sagrada Escritura há um texto que deve ser tomado sempre como ponto de partida. Trata-se da revelação de Deus a Moisés junto à sarça ardente: «Eu bem vi a opressão do meu povo que está no Egito, e ouvi o seu clamor diante dos seus inspetores; conheço, na verdade, os seus sofrimentos. Desci a fim de o libertar […] E agora, vai; Eu te envio» (Ex 3, 7-8.10).[7] Deus mostra-se solícito para com as necessidades dos pobres: «Clamaram, então, ao Senhor, e o Senhor enviou-lhes um salvador» (Jz 3, 15). Portanto, ao ouvir o clamor do pobre, somos chamados a identificar-nos com o coração de Deus, que está atento às necessidades dos seus filhos, especialmente dos mais necessitados. Se permanecêssemos, porém, indiferentes a esse clamor, o pobre clamaria ao Senhor contra nós e isso tornar-se-ia para nós um pecado (cf. Dt 15, 9) e, deste modo, afastar-nos-íamos do próprio coração de Deus.

9. A condição dos pobres representa um grito que, na história da humanidade, interpela constantemente a nossa vida, as nossas sociedades, os sistemas políticos e económicos e, sobretudo, a Igreja. No rosto ferido dos pobres encontramos impresso o sofrimento dos inocentes e, portanto, o próprio sofrimento de Cristo. Ao mesmo tempo, deveríamos falar, e talvez de modo mais acertado, dos inúmeros rostos dos pobres e da pobreza, uma vez que se trata de um fenómeno multifacetado; na verdade, existem muitas formas de pobreza: a daqueles que não têm meios de subsistência material, a pobreza de quem é marginalizado socialmente e não possui instrumentos para dar voz à sua dignidade e capacidades, a pobreza moral e espiritual, a pobreza cultural, aquela de quem se encontra em condições de fraqueza ou fragilidade seja pessoal seja social, a pobreza de quem não tem direitos, nem lugar, nem liberdade.

10. Neste sentido, pode dizer-se que o compromisso em favor dos pobres e pela erradicação das causas sociais e estruturais da pobreza, embora tenha adquirido importância nas últimas décadas, ainda continua insuficiente; até porque as sociedades em que vivemos privilegiam, com frequência, linhas políticas e padrões de vida marcados por numerosas desigualdades e, por isso, às antigas formas de pobreza que evidenciámos e se procuram combater, acrescentam-se outras novas, por vezes mais subtis e perigosas. Deste ponto de vista, é de louvar que as Nações Unidas tenham colocado a erradicação da pobreza como um dos objetivos do Milénio.

11. Ao compromisso concreto com os pobres ocorre associar também uma mudança de mentalidades que tenha incidências culturais. Efetivamente, a ilusão de uma felicidade que deriva de uma vida confortável leva muitas pessoas a ter uma visão da existência centrada na acumulação de riquezas e no sucesso social a todo o custo, a ser alcançado mesmo explorando os outros e aproveitando ideais sociais e sistemas político-económicos injustos, favoráveis aos mais fortes. Assim, num mundo onde os pobres são cada vez mais numerosos, vemos paradoxalmente crescer algumas elites ricas, que vivem numa bolha de condições demasiado confortáveis e luxuosas, quase num mundo à parte em relação às pessoas comuns. Isto significa que persiste – por vezes bem disfarçada – uma cultura que descarta os outros sem sequer se aperceber, tolerando com indiferença que milhões de pessoas morram à fome ou sobrevivam em condições indignas do ser humano. Alguns anos atrás, a foto de uma criança de bruços, sem vida, numa praia do Mediterrâneo provocou grande choque; infelizmente, à parte de alguma momentânea comoção, acontecimentos semelhantes estão a tornar-se cada vez mais irrelevantes, como se fossem notícias secundárias.

12. Não devemos baixar a guarda diante da pobreza. Preocupam-nos, de modo particular, as graves condições em que vivem muitíssimas pessoas, devido à escassez de alimentos e água potável. Todos os dias morrem milhares de pessoas por causas relacionadas com a desnutrição. Mesmo nos países ricos, as estimativas relativas ao número de pobres não são menos preocupantes. Na Europa, há cada vez mais famílias que não conseguem chegar ao fim do mês. Em geral, nota-se que as diferentes manifestações da pobreza aumentaram. Ela já não se apresenta como uma condição única e homogénea, mas manifesta-se em múltiplas formas de empobrecimento económico e social, refletindo o fenómeno de crescentes desigualdades, mesmo em contextos geralmente prósperos. Recordemos que «duplamente pobres são as mulheres que padecem situações de exclusão, maus-tratos e violência, porque frequentemente têm menores possibilidades de defender os seus direitos. E, todavia, também entre elas, encontramos continuamente os mais admiráveis gestos de heroísmo quotidiano na defesa e cuidado da fragilidade das suas famílias».[8] Embora em alguns países se observem mudanças importantes, «a organização das sociedades em todo o mundo ainda está longe de refletir com clareza que as mulheres têm exatamente a mesma dignidade e idênticos direitos que os homens. As palavras dizem uma coisa, mas as decisões e a realidade gritam outra»[9] especialmente se pensarmos nas mulheres mais pobres.

Preconceitos ideológicos

13. Para além dos dados – que por vezes são “interpretados” tentando convencer que a situação dos pobres não é tão grave assim –, o quadro geral é bastante claro: «Há regras económicas que foram eficazes para o crescimento, mas não de igual modo para o desenvolvimento humano integral. Aumentou a riqueza, mas sem equidade, e assim nascem novas pobrezas. Quando dizem que o mundo moderno reduziu a pobreza, fazem-no medindo-a com critérios doutros tempos não comparáveis à realidade atual. Pois noutros tempos, por exemplo, não ter acesso à energia elétrica não era considerado um sinal de pobreza nem causava grave incómodo. A pobreza sempre se analisa e compreende no contexto das possibilidades reais dum momento histórico concreto».[10] Todavia, para além das situações específicas e conjunturais, num documento da União Europeia de 1984, afirmava-se: «considera-se pessoas pobres os indivíduos, as famílias e os grupos de pessoas cujos recursos (materiais, culturais e sociais) são de tal modo débeis que os excluem de um tipo de vida minimamente aceitável no Estado-membro em que vivem».[11] Contudo, se reconhecemos que todos os seres humanos têm a mesma dignidade, independentemente do local de nascimento, não se podem ignorar as grandes diferenças que existem entre países e regiões.

14. Os pobres não existem por acaso ou por um cego e amargo destino. Muito menos a pobreza é uma escolha, para a maioria deles. No entanto, ainda há quem ouse afirmá-lo, demonstrando cegueira e crueldade. Entre os pobres há também, obviamente, aqueles que não querem trabalhar, talvez porque os seus antepassados, que trabalharam toda a vida, morreram pobres. Mas há muitos homens e mulheres que trabalham de manhã à noite, recolhendo papelão, por exemplo, ou realizando outras atividades semelhantes, embora saibam que este esforço servirá apenas para sobreviver e nunca para melhorar verdadeiramente as suas vidas. Não podemos dizer que a maioria dos pobres estão nessa situação porque não obtiveram “méritos”, de acordo com a falsa visão da meritocracia, segundo a qual parece que só têm mérito aqueles que tiveram sucesso na vida.

15. Também os cristãos, em muitas ocasiões, se deixam contagiar por atitudes marcadas por ideologias mundanas ou por orientações políticas e económicas que levam a injustas generalizações e a conclusões enganadoras. Observar que o exercício da caridade é desprezado ou ridicularizado, como se fosse uma fixação somente de alguns e não o núcleo incandescente da missão eclesial, faz-me pensar que é preciso ler novamente o Evangelho, para não se correr o risco de o substituir pela mentalidade mundana. Se não quisermos sair da corrente viva da Igreja que brota do Evangelho e fecunda cada momento histórico, não podemos esquecer os pobres.

CAPÍTULO II

DEUS ESCOLHE OS POBRES

A opção pelos pobres

16. Deus é amor misericordioso e o seu projeto de amor, que se estende e realiza na história, é primeiramente o seu descer e vir estar entre nós para nos libertar da escravidão, dos medos, do pecado e do poder da morte. Com um olhar misericordioso e o coração cheio de amor, Ele dirigiu-se às suas criaturas, preocupando-se com a sua condição humana e, portanto, com a sua pobreza. Precisamente para partilhar os limites e as fraquezas da nossa natureza humana, Ele mesmo se fez pobre, nasceu segundo a carne como nós e reconhecemo-lo na pequenez de uma criança recostada numa manjedoura e na extrema humilhação da cruz, onde partilhou a nossa radical pobreza, que é a morte. Por isso, compreende-se bem por que se pode falar, também teologicamente, sobre uma opção preferencial de Deus pelos pobres, uma expressão que surgiu no contexto do continente latino-americano, em particular na Assembleia de Puebla, mas que foi bem integrada no sucessivo Magistério da Igreja.[12] Esta “preferência” nunca diz respeito a um exclusivismo ou a uma discriminação em relação a outros grupos, que em Deus seria impossível; ela pretende sublinhar o agir de Deus que, por compaixão, se dirige à pobreza e à fraqueza da humanidade inteira e que, querendo inaugurar um Reino de justiça, fraternidade e solidariedade, tem particularmente a peito aqueles que são discriminados e oprimidos, pedindo-nos também a nós, sua Igreja, uma decidida e radical posição em favor dos mais fracos.

17. Nesta perspectiva, compreendem-se as numerosas páginas do Antigo Testamento, nas quais Deus é apresentado como amigo e libertador dos pobres, Aquele que escuta o grito do pobre e intervém para o libertar (cf. Sl 34, 7). Deus, refúgio do pobre, por meio dos profetas – recordemos de modo particular Amós e Isaías – denuncia as iniquidades contra os mais fracos e exorta Israel a renovar o culto a partir de dentro, porque não se pode rezar nem oferecer sacrifícios, quando ao mesmo tempo se oprimem os mais fracos e pobres. Desde o seu início, a Sagrada Escritura manifesta com grande intensidade o amor de Deus através da proteção dos mais fracos e dos menos favorecidos, a tal ponto que, em relação a eles, se poderia falar de uma espécie de “fraqueza” de Deus: «No coração de Deus, ocupam lugar preferencial os pobres […]. Todo o caminho da nossa redenção está assinalado pelos pobres».[13]

Jesus, o Messias pobre

18. Toda a história do Antigo Testamento sobre a predileção de Deus pelos pobres e o desejo divino de ouvir o seu clamor – que evoquei brevemente – encontra em Jesus de Nazaré a sua plena realização.[14] Na sua encarnação, Ele «esvaziou-se a si mesmo, tomando a condição de servo. Tornando-se semelhante aos homens e sendo, ao manifestar-se, identificado como homem» (Fl 2, 7), nesta condição realizou a nossa salvação. Trata-se de uma pobreza radical, fundada na sua missão de revelar a verdadeira face do amor divino (cf. Jo 1, 18; 1 Jo 4, 9). Por isso, São Paulo pode afirmar com uma das suas maravilhosas sínteses: «Conheceis bem a bondade de Nosso Senhor Jesus Cristo que, sendo rico, se fez pobre por vós, para vos enriquecer com a sua pobreza» (2 Cor 8, 9).

19. Com efeito, o Evangelho mostra que esta pobreza abrangia todos os aspectos da sua vida. Desde a sua entrada no mundo, Jesus experimentou as dificuldades relacionadas com a rejeição. O evangelista Lucas, narrando a chegada a Belém de José e Maria, já próxima do momento do parto, observa com pena «não haver lugar para eles na hospedaria» (Lc 2, 7). Jesus nasceu em condições humildes: logo após o nascimento, foi recostado numa manjedoura, e, pouco tempo depois, os seus pais fugiram para o Egito para o salvar da morte (cf. Mt 2, 13-15). No início da sua vida pública, foi expulso de Nazaré depois de ter anunciado na sinagoga que se cumpria n’Ele o ano da graça no qual os pobres se rejubilam (cf. Lc 4, 14-30). Não houve um lugar acolhedor nem sequer no momento de sua morte: a fim de ser crucificado, levaram-no para fora de Jerusalém (cf. Mc 15, 22). É nesta condição que se pode resumir claramente a pobreza de Jesus. Trata-se da mesma exclusão que caracteriza a definição dos pobres: eles são os excluídos da sociedade. Jesus é a revelação deste privilegium pauperum. Ele apresenta-se ao mundo não só como Messias pobre, mas também como Messias dos pobres e para os pobres.

20. Existem alguns indícios a propósito da condição social de Jesus. Em primeiro lugar, Ele realiza o ofício de artesão ou carpinteiro, téktōn (cf. Mc 6, 3). Trata-se de uma categoria de pessoas que vivem do seu trabalho manual. Não possuindo terrenos, eram considerados inferiores em relação aos agricultores. Quando o Menino Jesus é apresentado no Templo, por José e Maria, os seus pais ofereceram um par de rolas ou de pombas (cf. Lc 2, 22-24), que segundo as prescrições do Livro do Levítico (cf. 12, 8) constituía a oferta dos pobres. Um episódio evangélico bastante significativo é aquele que nos conta como Jesus e os seus discípulos colhiam espigas para se alimentarem, enquanto atravessavam os campos (cf. Mc 2, 23-28) e isto – respigar os campos – era permitido somente a quem era pobre. Além disso, o próprio Jesus diz de si mesmo: «As raposas têm tocas e as aves do céu têm ninhos; mas o Filho do Homem não tem onde reclinar a cabeça» (Mt 8, 20; Lc 9, 58). Na verdade, Ele é um mestre itinerante, cuja pobreza e precaridade são sinais do vínculo com o Pai e são pedidas também a quem deseja segui-lo no caminho do discipulado, precisamente para que a renúncia aos bens, às riquezas e às seguranças deste mundo seja um sinal visível do ter-se confiado a Deus e à sua providência.

21. No início do seu ministério público, Jesus apresenta-se na sinagoga de Nazaré lendo o livro de Isaías e aplicando a si mesmo a palavra do profeta: «O Espírito do Senhor está sobre mim, porque me ungiu para anunciar a Boa-Nova aos pobres» (Lc 4, 18; cf. Is 61, 1). Ele manifesta-se, portanto, como Aquele que, no hoje da história, vem realizar a proximidade amorosa de Deus, que em primeiro lugar é obra de libertação para quem está prisioneiro do mal, para os fracos e os pobres. Na verdade, os sinais que acompanham a pregação de Jesus são manifestações de amor e de compaixão com as quais Deus olha para os doentes, os pobres e os pecadores que, em virtude da sua condição, eram marginalizados na sociedade, inclusivamente pela religião; Ele abre os olhos aos cegos, cura os leprosos, ressuscita os mortos e anuncia aos pobres a boa nova: Deus fez-se próximo, Deus ama-vos (cf. Lc 7, 22). Isto explica a razão pela qual Ele proclama: «Felizes vós, os pobres, porque vosso é o Reino de Deus» (Lc 6, 20). Efetivamente, Deus mostra predileção pelos pobres: a eles primeiramente se dirige a palavra de esperança e libertação do Senhor e por isso ninguém, apesar da condição de pobreza ou fraqueza, deve sentir-se abandonado. E a Igreja, se deseja ser de Cristo, deve ser Igreja das Bem-aventuranças, Igreja que dá vez aos pequeninos e caminha pobre com os pobres, lugar onde os pobres têm um espaço privilegiado (cf. Tg 2, 2-4).

22. Incapazes de se prover do necessário para viver, os indigentes e os enfermos eram frequentemente obrigados a mendigar. A isso somava-se o peso da vergonha social, alimentada pela convicção de que a doença e a pobreza estavam ligadas a algum pecado pessoal. Jesus combateu com firmeza aquele modo de pensar, afirmando: «o vosso Pai que está no Céu faz com que o Sol se levante sobre os bons e os maus e faz cair a chuva sobre os justos e os pecadores» (Mt 5, 45). E, inclusive, inverteu mesmo completamente tal concepção, como está bem exemplificado na parábola do rico avarento e do pobre Lázaro: «Filho, lembra-te de que recebeste os teus bens em vida, enquanto Lázaro recebeu somente males. Agora, ele é consolado, enquanto tu és atormentado» (Lc 16, 25).

23. Compreende-se, então, que «deriva da nossa fé em Cristo, que se fez pobre e sempre se aproximou dos pobres e marginalizados, a preocupação pelo desenvolvimento integral dos mais abandonados da sociedade».[15] Muitas vezes pergunto-me, quando há tanta clareza nas Sagradas Escrituras a respeito dos pobres, por que razão muitos continuam a pensar que podem deixar de prestar atenção aos pobres. Por enquanto, porém, permaneçamos no âmbito bíblico e procuremos refletir sobre a nossa relação com os últimos da sociedade e sobre o lugar fundamental que eles ocupam no povo de Deus.

A misericórdia para com os pobres na Bíblia

24. O Apóstolo João escreve: «Aquele que não ama o seu irmão, a quem vê, não pode amar a Deus, a quem não vê» (1 Jo 4, 20). Do mesmo modo, na sua resposta ao doutor da lei, Jesus retoma dois antigos mandamentos: «Amarás o Senhor, teu Deus, com todo o teu coração, com toda a tua alma e com todas as tuas forças» (Dt 6, 5) e «Amarás o teu próximo como a ti mesmo» (Lv 19, 18), unindo-os num único mandamento. O evangelista Marcos reproduz a resposta de Jesus nestes termos: «O primeiro é: Escuta, Israel! O Senhor nosso Deus é o único Senhor; amarás o Senhor, teu Deus, com todo o teu coração, com toda a tua alma, com todo o teu entendimento e com todas as tuas forças. O segundo é este: Amarás o teu próximo como a ti mesmo. Não há outro mandamento maior que estes» (Mc 12, 29-31).

25. A passagem do Levítico citada acima exorta a honrar o próprio compatriota, enquanto noutros textos encontramos um ensinamento que convida ao respeito – ou mesmo ao amor – também pelo inimigo: «Quando encontrares um boi do teu inimigo ou o seu jumento, desgarrados, tu lhos levarás de volta. Quando vires um jumento daquele que te odeia caído debaixo da sua carga, não o abandones, mas presta-lhe ajuda» (Ex 23, 4-5). Isso deixa transparecer o valor intrínseco do respeito pela pessoa: seja quem for que se encontre em dificuldade, mesmo o inimigo, merece sempre ser socorrido.

26. É inegável que o primado de Deus no ensinamento de Jesus é acompanhado por outro princípio fundamental, segundo o qual não se pode amar a Deus sem estender o próprio amor aos pobres. O amor ao próximo é a prova tangível da autenticidade do amor a Deus, como atesta o Apóstolo João: «A Deus nunca ninguém o viu; se nos amarmos uns aos outros, Deus permanece em nós e o seu amor chegou à perfeição em nós. […] Deus é amor, e quem permanece no amor permanece em Deus, e Deus nele» (1 Jo 4, 12.16). São dois amores distintos, mas inseparáveis. Mesmo nos casos em que a relação com Deus não é explícita, o próprio Senhor nos ensina que qualquer ação de amor pelo próximo é, em algum modo, um reflexo da caridade divina: «Em verdade vos digo: Sempre que fizestes isto a um destes meus irmãos mais pequeninos, a mim mesmo o fizestes» (Mt 25, 40).

27. Por esta razão, recomendam-se as obras de misericórdia, qual sinal da autenticidade do culto que, ao louvar a Deus, tem por missão abrir-nos à transformação que o Espírito pode realizar em nós, para que todos nos tornemos imagem de Cristo e da sua misericórdia para com os mais fracos. Nesse sentido, a relação com o Senhor, que se expressa no culto, pretende também libertar-nos do risco de viver as nossas relações segundo a lógica do cálculo e das vantagens, abrindo-nos à gratuidade que existe entre aqueles que se amam e que, por isso, partilham tudo. A este respeito, Jesus aconselha: «Quando deres um almoço ou um jantar, não convides os teus amigos, nem os teus irmãos, nem os teus parentes, nem os teus vizinhos ricos; não vão eles também convidar-te, por sua vez, e assim retribuir-te. Quando deres um banquete, convida os pobres, os aleijados, os coxos e os cegos. E serás feliz por eles não terem com que te retribuir» (Lc 14, 12-14).

28. O apelo do Senhor à misericórdia para com os pobres encontrou a sua máxima expressão na grande parábola do juízo final (cf. Mt 25, 31-46), que é também uma representação gráfica da bem-aventurança dos misericordiosos. Ali, o Senhor ofereceu-nos a chave para alcançar a nossa plenitude, porque «se andamos à procura da santidade que agrada a Deus, neste texto encontramos precisamente uma regra de comportamento com base na qual seremos julgados».[16] As palavras fortes e claras do Evangelho devem ser vividas «sem comentários, especulações e desculpas que lhes tirem força. O Senhor deixou-nos bem claro que a santidade não se pode compreender nem viver prescindindo destas suas exigências».[17]

29. O programa de caridade na primeira comunidade cristã não derivava de análises ou projetos, mas diretamente do exemplo de Jesus, das próprias palavras do Evangelho. A Carta de São Tiago dedica amplo espaço ao problema da relação entre ricos e pobres, lançando aos fiéis dois apelos muito fortes que questionam a sua fé: «De que aproveita, irmãos, que alguém diga que tem fé, se não tiver obras de fé? Acaso essa fé poderá salvá-lo? Se um irmão ou uma irmã estiverem nus e precisarem de alimento quotidiano, e um de vós lhes disser: “Ide em paz, tratai de vos aquecer e de matar a fome”, mas não lhes dais o que é necessário ao corpo, de que lhes aproveitará? Assim também a fé: se ela não tiver obras, está completamente morta» (Tg 2, 14-17).

30. «O vosso ouro e a vossa prata enferrujaram-se e a sua ferrugem servirá de testemunho contra vós e devorará a vossa carne como o fogo. Entesourastes, afinal, para os vossos últimos dias! Olhai que o salário que não pagastes aos trabalhadores que ceifaram os vossos campos está a clamar; e os clamores dos ceifeiros chegaram aos ouvidos do Senhor do universo! Tendes vivido na terra, entregues ao luxo e aos prazeres, cevando assim os vossos apetites… para o dia da matança!» (Tg 5, 3-5). Que força têm estas palavras, mesmo quando preferimos fazer-nos de surdos! Na Primeira Carta de São João, encontramos um apelo semelhante: «Se alguém possuir bens deste mundo e, vendo o seu irmão com necessidade, lhe fechar o seu coração, como é que o amor de Deus pode permanecer nele?» (1 Jo 3, 17).

31. O que diz a Palavra revelada «é uma mensagem tão clara, tão direta, tão simples e eloquente que nenhuma hermenêutica eclesial tem o direito de relativizar. A reflexão da Igreja sobre estes textos não deveria ofuscar nem enfraquecer o seu sentido exortativo, mas antes ajudar a assumi-los com coragem e ardor. Para quê complicar o que é tão simples? As elaborações conceituais hão de favorecer o contato com a realidade que pretendem explicar, e não afastar-nos dela».[18]

32. Por outro lado, um claro exemplo eclesial de partilha dos bens e de atenção à pobreza encontramo-lo na vida quotidiana e no estilo da primeira comunidade cristã. Podemos recordar, em particular, o modo como foi resolvida a questão da diária distribuição de auxílios às viúvas (cf. Act 6, 1-6). Era um problema difícil, até porque algumas destas viúvas, provenientes de outros países, por vezes eram preteridas por serem estrangeiras. Com efeito, o episódio narrado nos Atos dos Apóstolos põe em evidência um certo descontentamento da parte dos helenistas, judeus de cultura grega. Os Apóstolos respondem não com um qualquer discurso abstrato e, ao colocar no centro a caridade para com todos, reorganizam a assistência às viúvas, pedindo à Comunidade que procurasse pessoas sábias e estimadas a quem confiar o serviço das mesas, enquanto eles se ocupam da pregação da Palavra.

33. Quando Paulo foi a Jerusalém para consultar os Apóstolos, a fim de «não correr ou ter corrido em vão» (Gl 2, 2), foi-lhe pedido que não se esquecesse dos pobres (cf. Gl 2, 10). Ele, então, organizou diversas coletas para ajudar as comunidades pobres. Entre as motivações que oferece para tal gesto, merece destaque a seguinte: «Deus ama quem dá com alegria» (2 Cor 9, 7). Para aqueles de entre nós pouco inclinados a gestos gratuitos sem qualquer interesse, a Palavra de Deus indica que a generosidade em favor dos pobres é um verdadeiro bem para quem a pratica: efetivamente, ao agir assim somos amados por Deus de maneira especial. Na verdade, as promessas bíblicas dirigidas àqueles que dão com generosidade são muitas: «Quem dá ao pobre empresta ao Senhor, e Ele lhe retribuirá o benefício» (Pr 19, 17); «Dai e ser-vos-á dado: […] A medida que usardes com os outros será usada convosco» (Lc 6, 38); «Então, a tua luz surgirá como a aurora, e as tuas feridas não tardarão a cicatrizar-se» (Is 58, 8). Os primeiros cristãos estavam convencidos de tudo isto.

34. A vida das primeiras comunidades eclesiais, que chegou até nós como Palavra revelada no cânone bíblico, é-nos oferecida como exemplo a imitar e como testemunho da fé que opera através da caridade, permanecendo como admoestação perene para as gerações futuras. Ao longo dos séculos, estas páginas têm incentivado o coração dos cristãos a amar e realizar obras de caridade, como sementes fecundas que não cessam de produzir frutos.

CAPÍTULO III

UMA IGREJA PARA OS POBRES

35. Três dias após a sua eleição, o meu Predecessor manifestou aos representantes dos meios de comunicação social o anseio de que fosse mais claramente presente na Igreja o cuidado e a atenção aos pobres: «Ah, como eu queria uma Igreja pobre e para os pobres!».[19]

36. Este desejo espelha a consciência de que a Igreja «reconhece nos pobres e nos que sofrem a imagem do seu fundador pobre e sofredor, procura aliviar as suas necessidades, e intenta servir neles a Cristo».[20] Com efeito, tendo sido chamada a configurar-se com os últimos, nela «não devem subsistir dúvidas nem explicações que debilitem esta mensagem claríssima [...]. Há que afirmar sem rodeios que existe um vínculo indissolúvel entre a nossa fé e os pobres».[21] A este respeito, temos abundantes testemunhos ao longo da história quase bimilenar dos discípulos de Jesus.[22]

A verdadeira riqueza da Igreja

37. São Paulo refere que entre os fiéis da nascente comunidade cristã não havia «muitos sábios, nem muitos poderosos, nem muitos nobres» (1 Cor 1, 26). Entretanto, apesar da própria pobreza, os primeiros cristãos têm a clara consciência da necessidade de acudir àqueles que passam maiores privações. Já nos alvores do cristianismo, os Apóstolos impõem as mãos sobre sete homens escolhidos pela comunidade e, em certo grau, integram-nos no próprio ministério, instituindo-os para o serviço – tradução da palavra diakonía em grego – dos mais pobres (cf. Act 6, 1-5). É significativo que o primeiro discípulo a dar testemunho da sua fé em Cristo com o derramamento do próprio sangue seja Santo Estêvão, que fazia parte deste grupo. Nele se unem o testemunho de vida na atenção aos necessitados e o martírio.

38. Pouco mais de dois séculos depois, um outro diácono manifestará a sua adesão a Jesus Cristo de modo semelhante, unindo na sua vida o serviço dos pobres e o martírio: São Lourenço.[23] A partir dos textos de Santo Ambrósio, vemos como Lourenço, diácono em Roma no pontificado do Papa Sixto II, ao ser obrigado pelas autoridades romanas a entregar os tesouros da Igreja, «trouxe consigo, no dia seguinte, os pobres. Quando lhe perguntaram onde estavam os tesouros que prometera, mostrou os pobres, dizendo: “Estes são os tesouros da Igreja”».[24] Ao narrar este episódio, Ambrósio pergunta: «Que melhores tesouros teria Cristo do que aqueles nos quais Ele mesmo disse que estava?».[25] E, recordando que os ministros da Igreja não devem jamais trascurar o cuidado dos pobres e, menos ainda, acumular bens em benefício próprio, afirma: «É necessário que cada um de nós cumpra esta obrigação com fé sincera e perspicaz providência. Sem dúvida, se alguém desvia alguma coisa para utilidade própria, isto é crime; mas, se o dá aos pobres, se resgata o cativo, isto é misericórdia».[26]

Os Padres da Igreja e os pobres

39. Desde os primeiros séculos, os Padres da Igreja reconheceram no pobre um acesso privilegiado a Deus, um modo especial para O encontrar. A caridade para com os necessitados não era compreendida como simples virtude moral, mas como expressão concreta da fé no Verbo encarnado. A comunidade dos fiéis, sustentada pela força do Espírito Santo, encontra-se enraizada na proximidade aos pobres, que nela não são um apêndice, mas parte essencial do seu Corpo vivo. Santo Inácio de Antioquia, por exemplo, estando a caminho do próprio martírio, exortava os fiéis da comunidade de Esmirna a não descuidar o dever da caridade para com os mais necessitados, alertando-os a não proceder como os que se opunham a Deus: «Considerai aqueles que têm opinião diferente sobre a graça de Jesus Cristo, que veio até nós: como eles se opõe ao pensamento de Deus! Não se preocupam com o amor, nem com a viúva, nem com o órfão, nem com o oprimido, nem com o prisioneiro ou liberto, nem com o faminto ou sedento».[27] O bispo de Esmirna, Policarpo, recomendava precisamente aos ministros da Igreja o cuidado dos pobres: «Os presbíteros também sejam compassivos, misericordiosos para com todos. Tragam de volta os desgarrados, visitem todos os doentes, não descuidem a viúva, o órfão e o pobre, mas sejam sempre solícitos no bem diante de Deus e dos homens».[28] A partir destes dois testemunhos, constatamos que a Igreja aparece como mãe dos pobres, lugar de acolhimento e justiça.

40. São Justino, por sua vez, na sua primeira Apologia, dirigida ao Imperador Adriano, ao Senado e ao povo romano, explicava-lhes que os cristãos levavam aos necessitados tudo o que podiam, porque viam neles irmãos em Cristo. Ao escrever sobre a assembleia de oração no primeiro dia da semana, destaca que, no centro da liturgia cristã, não se podem separar o culto a Deus da atenção aos pobres. Com efeito, num determinado momento da celebração «os que possuem alguma coisa e queiram, cada um conforme a sua livre vontade, dão o que bem lhes parece, e o que foi recolhido se entrega ao presidente. Ele o distribui a órfãos e viúvas, aos que por enfermidade ou outra causa estão necessitados, aos que estão nas prisões, aos forasteiros de passagem, numa palavra, ele se torna o provisor de todos os que se encontram indigentes».[29] Assim, testemunha-se que a Igreja nascente não separava o crer do agir social: a fé que não vinha acompanhada do testemunho das obras, como tinha ensinado São Tiago, era considerada morta (cf. Tg 2, 17).

São João Crisóstomo

41. Entre os Padres orientais, talvez o mais ardoroso pregador da justiça social seja São João Crisóstomo, Arcebispo de Constantinopla na passagem do século IV ao século V. Nas suas homilias, exorta os fiéis a reconhecer Cristo nos necessitados: «Queres honrar o Corpo de Cristo? Não permitas que seja desprezado nos seus membros, isto é, nos pobres que não têm que vestir, nem O honres aqui no templo com vestes de seda, enquanto lá fora O abandonas ao frio e à nudez. [...] No templo o Corpo de Cristo não precisa de mantos, mas de almas puras; mas na pessoa dos pobres, Ele precisa de todo o nosso cuidado. Aprendamos, portanto, a refletir e a honrar a Cristo como Ele quer. Quando pretendemos honrar alguém, devemos prestar-lhe a honra que ele prefere e não a que mais nos agrada [...]. Assim deves também tu prestar-Lhe aquela honra que Ele mesmo ordenou, distribuindo pelos pobres as tuas riquezas. Deus não precisa de vasos de ouro, mas de almas de ouro».[30] Afirmando com clareza meridiana que, se os fiéis não encontram Cristo nos pobres à sua porta, tampouco serão capazes de prestar-Lhe culto no altar, prossegue: «De que serviria, afinal, adornar a mesa de Cristo com vasos de ouro, se Ele morre de fome na pessoa dos pobres? Primeiro dá de comer a quem tem fome, e depois ornamenta a sua mesa com o que sobra».[31] Entendia a Eucaristia, portanto, também como uma expressão sacramental da caridade e da justiça que a precediam, a acompanhavam e deveriam dar continuidade a ela no amor e na atenção aos pobres.

42. Sendo assim, a caridade não é uma via opcional, mas o critério do verdadeiro culto. Crisóstomo denunciava com veemência o luxo exacerbado, que convivia com a indiferença em relação aos pobres. A atenção que lhes é devida, mais do que mera exigência social, é condição de salvação, o que atribui à riqueza injusta um peso de condenação: «Faz muito frio e o pobre jaz em farrapos, moribundo enregelado, rangendo os dentes, com aspecto e veste que te deviam comover. Tu, contudo, aquecido e ébrio passas adiante. E como queres que Deus te livre da infelicidade? [...] Muitas vezes a um cadáver insensível, que já não percebe a honra, ornas com muitas vestes variegadas e douradas. Todavia desprezas aquele que sente dor, é dilacerado, torturado, atormentado pela fome e o frio, e dás mais valor à vanglória que ao temor de Deus».[32] Este profundo senso de justiça social leva-o a afirmar que «não dar aos pobres é roubá-los, é defraudar a vida deles, pois a eles pertence o que possuímos».[33]

Santo Agostinho

43. Agostinho teve como seu mestre espiritual Santo Ambrósio, que insistia na exigência ética de partilhar os bens: «Não é de tua propriedade aquilo que dás ao pobre; é dele. Porque tu te apropriaste do que foi dado para uso comum».[34] Para o Bispo de Milão, a esmola é justiça restabelecida, não um gesto paternalista. Nas suas pregações, a misericórdia assume um caráter profético: ela denuncia as estruturas de acúmulo e reafirma a comunhão como vocação eclesial.

44. Formado nesta tradição, o santo Bispo de Hipona ensinou por sua vez o amor preferencial pelos pobres. Pastor vigilante e teólogo de rara clarividência, ele compreendeu que a verdadeira comunhão eclesial se expressa também na comunhão dos bens. No seu Comentário aos Salmos, recorda que os verdadeiros cristãos não deixam de lado o amor aos mais necessitados: «atendeis os vossos irmãos, se precisam de alguma coisa; dais, se Cristo está em vós, até aos estranhos».[35] Esta partilha dos bens brota, portanto, da caridade teologal e tem como fim último o amor a Cristo. Para Agostinho, o pobre não é apenas alguém a quem se presta auxílio, mas é presença sacramental do Senhor.

45. O Doutor da Graça via no cuidado aos pobres uma prova concreta da sinceridade da fé. Aquele que diz amar a Deus e não se compadece dos necessitados, mente (cf. 1Jo 4, 20). Comentando o encontro de Jesus com o jovem rico, e o “tesouro no Céu” que está reservado a quem dá os seus bens aos pobres (cf. Mt 19, 21), Agostinho coloca na boca do Senhor as seguintes palavras: «Recebi terra e darei o Céu. Recebi coisas temporais e darei em troca bens eternos. Recebi pão, darei a vida. [...] Recebi hospedagem e darei uma casa. Fui visitado na doença e darei a saúde. Fui visitado na prisão e darei a liberdade. O pão que foi dado aos meus pobres foi consumido; o pão que eu darei restaura as forças, sem nunca acabar».[36] O Altíssimo não se deixa vencer em generosidade por aqueles que O servem nos mais necessitados: quanto maior o amor aos pobres, maior a recompensa da parte de Deus.

46. Este olhar cristocêntrico e profundamente eclesial leva a sustentar que as ofertas, quando nascidas do amor, não aliviam apenas a necessidade do irmão, mas purificam também o coração de quem as dá e está disposto a uma mudança: «As esmolas, com efeito, podem servir-te para resgatar os pecados da vida passada, se mudares de vida».[37] Elas são, por assim dizer, o caminho ordinário da conversão de quem deseja seguir a Cristo com coração indiviso.

47. Numa Igreja que reconhece nos pobres o rosto de Cristo e nos bens o instrumento da caridade, o pensamento agostiniano permanece uma luz segura. Hoje, a fidelidade aos ensinamentos de Agostinho exige não só o estudo de suas obras, mas a predisposição para viver com radicalidade o seu apelo à conversão que inclui necessariamente o serviço da caridade.

48. Muitos outros Padres da Igreja, do Oriente e do Ocidente, se pronunciaram sobre a primazia da atenção aos pobres na vida e missão de cada fiel cristão. Sob este aspecto, em resumo, pode afirmar-se que a teologia patrística foi prática, apontando para uma Igreja pobre e para os pobres, recordando que o Evangelho só é bem anunciado quando leva a tocar a carne dos últimos, e alertando que o rigor doutrinal sem misericórdia é palavra vazia.

Cuidar dos enfermos

49. A compaixão cristã manifestou-se de modo peculiar no cuidado com os doentes e sofredores. A partir dos sinais presentes no ministério público de Jesus – que curava cegos, leprosos, paralíticos –, a Igreja entende ser parte importante da sua missão o cuidado dos enfermos, nos quais com facilidade reconhece o Senhor crucificado. São Cipriano, durante uma peste na cidade de Cartago, onde era Bispo, recordava aos cristãos a importância do cuidado com os doentes: «esta epidemia que parece tão horrível e funesta põe à prova a justiça de cada um e experimenta o espírito dos homens, verificando se os sãos servem aos enfermos, se os parentes se amam sinceramente, se os senhores têm piedade dos servos enfermos, se os médicos não abandonam os doentes que imploram».[38] A tradição cristã de visitar os doentes, de lavar as suas feridas, de confortar os aflitos não se resume a uma mera obra de filantropia, mas é ação eclesial através da qual, nos enfermos, os membros da Igreja «tocam a carne sofredora de Cristo».[39]

50. No século XVI, São João de Deus, ao fundar a Ordem Hospitalar que leva o seu nome, criou hospitais modelo que acolhiam a todos, independentemente da sua condição social ou económica. A sua famosa expressão – “Fazei o bem, irmãos!” – tornou-se lema da caridade ativa com os doentes. Contemporaneamente, São Camilo de Léllis fundou a Ordem dos Ministros dos Enfermos – os Camilianos –, assumindo como missão servir os doentes com dedicação total. A sua regra ordena: «Cada qual peça a Deus que lhe dê um afeto materno para com o próximo, a fim de podermos servi-lo com todo o amor, tanto na alma quanto no corpo, pois, com a graça de Deus, desejamos servir todos os doentes com o mesmo carinho que uma extremosa mãe dedica ao seu filho doente».[40] Em hospitais, campos de batalha, prisões e ruas, os camilianos encarnaram a misericórdia de Cristo Médico.

51. Cuidando dos doentes com carinho maternal, como uma mãe cuida de seu filho, muitas mulheres consagradas desempenharam um papel ainda mais disseminado no cuidado sanitário dos pobres. As Filhas da Caridade de São Vicente de Paulo, as Irmãs Hospitaleiras, as Pequenas Servas da Divina Providência e tantas outras congregações femininas tornaram-se presença materna e discreta em hospitais, asilos e casas de saúde. Levaram remédio, escuta, presença e, sobretudo, ternura. Construíram, muitas vezes com as próprias mãos, estruturas sanitárias em zonas sem qualquer assistência médica. Ensinavam higiene, cuidavam dos partos, medicavam com sabedoria natural e fé profunda. As suas casas tornavam-se oásis de dignidade onde ninguém era excluído. O toque da compaixão era o primeiro remédio. Santa Luísa de Marillac escrevia às suas irmãs, Filhas da Caridade, recordando-as que haviam «recebido uma especial bênção de Deus para servir aos pobres enfermos nos hospitais».[41]

52. Hoje, esse legado continua em hospitais católicos, postos de saúde em regiões periféricas, missões sanitárias nas selvas, centros de acolhimento para toxicodependentes e hospitais de campanha em zonas de guerra. A presença cristã junto aos doentes revela que a salvação não é ideia abstrata, mas gesto concreto. No gesto de limpar uma ferida, a Igreja proclama que o Reino de Deus começa entre os mais vulneráveis. E ao fazer isso, permanece fiel Àquele que disse: «Adoeci e visitastes-me» (Mt 25, 36). Quando a Igreja se ajoelha diante dum leproso, criança desnutrida ou moribundo anónimo, ela realiza a sua vocação mais profunda: amar o Senhor onde Ele está mais desfigurado.

O cuidado com os pobres na Vida Monástica

53. A vida monástica, nascida no silêncio dos desertos, foi desde o início um testemunho de solidariedade. Os monges deixavam tudo – riqueza, prestígio, família – não só por desprezar as riquezas do mundo – contemptus mundi – mas para encontrar, neste despojamento radical, o Cristo pobre. São Basílio Magno, na sua Regra, não via contradição entre a vida de oração e recolhimento dos monges e a ação em favor dos pobres. Para ele, a hospitalidade e o cuidado com os necessitados eram parte integrante da espiritualidade monástica, e os monges, mesmo depois de terem deixado tudo para abraçar a pobreza, deveriam ajudar os mais pobres com o seu trabalho, pois «para se ter com que socorrer aos necessitados, evidencia-se que devemos trabalhar com diligência [...] este modo de viver é proveitoso não só para subjugar o corpo, mas ainda por causa da caridade para com o próximo, a fim de que, por nosso intermédio, Deus forneça o bastante aos irmãos mais fracos».[42]

54. Construiu em Cesareia, onde era bispo, um lugar conhecido como Basilíades, que incluía alojamentos, hospitais e escolas para os pobres e doentes. O monge, portanto, não era apenas um asceta, mas um servidor. Basílio demonstrava assim que para estar perto de Deus é preciso estar próximo dos pobres. O amor concreto era critério de santidade. Orar e cuidar, contemplar e curar, escrever e acolher — tudo era expressão do mesmo amor a Cristo.

55. No Ocidente, São Bento de Núrsia elaborou uma Regra que se tornaria a espinha dorsal da espiritualidade monástica europeia. Nela, o acolhimento dos pobres e dos peregrinos ocupa lugar de honra: «Mostre-se principalmente um cuidado solícito na recepção dos pobres e peregrinos, porque sobretudo na pessoa desses, Cristo é recebido».[43] Não se tratava apenas de palavras: os mosteiros beneditinos foram, por séculos, lugares de refúgio para viúvas, crianças abandonadas, peregrinos e mendigos. Para Bento, a vida comunitária era uma escola de caridade. O trabalho manual não tinha apenas função prática, mas formava o coração para o serviço. A partilha entre os monges, a atenção aos doentes, a escuta dos mais frágeis preparavam para acolher Cristo que chega na pessoa do pobre e do estrangeiro. A hospitalidade monástica beneditina permanece até hoje sinal de uma Igreja que abre portas, que acolhe sem interrogar, que cura sem cobrar.

56. Os mosteiros beneditinos, com o tempo, tornaram-se lugares que contrastavam a cultura da exclusão. Os monges cultivavam a terra, produziam alimentos, preparavam remédios e ofereciam-nos, com simplicidade, aos mais necessitados. O seu trabalho silencioso foi fermento de uma nova civilização, onde os pobres não eram um problema a resolver, mas irmãos e irmãs a acolher. A regra da partilha, do trabalho comum e da assistência aos vulneráveis estruturava uma economia solidária, em contraste com a lógica da acumulação. O testemunho dos monges mostrava que a pobreza voluntária, longe de ser miséria, é caminho de liberdade e comunhão. Eles não apenas ajudavam os pobres: tornavam-se próximos deles, irmãos no mesmo Senhor. Nas celas e nos claustros, formava-se uma mística da presença de Deus nos pequenos.

57. Além da assistência material, os mosteiros desempenharam um papel fundamental na formação cultural e espiritual dos mais humildes. Em tempos de peste, guerra e fome, eram lugares onde o necessitado encontrava pão e remédio, mas também dignidade e palavra. Era ali que os órfãos eram educados, os aprendizes recebiam formação, e os camponeses eram instruídos em técnicas de agricultura e leitura. O saber era partilhado como dom e responsabilidade. O abade era ao mesmo tempo mestre e pai, e a escola monástica lugar de libertação pela verdade. Pois, como escreve João Cassiano, o monge deve caracterizar-se pela «humildade de coração [...], que conduz não à ciência que incha, mas àquela que ilumina por meio da plenitude da caridade».[44] Ao formar consciências e transmitir sabedoria, os monges contribuíram para uma pedagogia cristã da inclusão. A cultura, marcada pela fé, era partilhada com simplicidade. O saber, quando iluminado pela caridade, torna-se serviço. Assim, a vida monástica revelava-se estilo de santidade e forma concreta de transformação da sociedade.

58. A tradição monástica ensina, portanto, que oração e caridade, silêncio e serviço, celas e hospitais, formam um único tecido espiritual. O mosteiro é lugar de escuta e de ação, de adoração e de partilha. São Bernardo de Claraval, grande reformador do Cister, «recordou com decisão a necessidade de uma vida sóbria e comedida, tanto à mesa como no vestuário e nos edifícios monásticos, recomendando o sustento e a atenção aos pobres».[45] Para ele, a compaixão não era uma escolha acessória, mas a estrada real do seguimento de Cristo. A vida monástica, portanto, quando fiel à sua vocação original, mostra que a Igreja só será plenamente esposa do Senhor quando for também irmã dos pobres. O claustro não é apenas refúgio do mundo, mas escola na qual se aprende a servi-lo melhor. Onde os monges abriram as suas portas aos pobres, a Igreja revelou com humildade e firmeza que a contemplação não exclui a misericórdia, mas exige-a como seu fruto mais puro.

Libertar os cativos

59. Desde os tempos apostólicos, a Igreja viu na libertação dos oprimidos um sinal do Reino de Deus. O próprio Jesus, ao iniciar a sua missão pública, proclamou: «O Espírito do Senhor está sobre mim, porque me ungiu para anunciar a Boa-Nova aos pobres; enviou-me a proclamar a libertação aos cativos» (Lc 4, 18). Os primeiros cristãos, mesmo em condições precárias, rezavam e assistiam os irmãos presos, como testemunham os Atos dos Apóstolos (cf. 12, 5; 24, 23) e diversos escritos dos Padres. Essa missão libertadora prolongou-se ao longo dos séculos por meio de ações concretas, especialmente quando o drama da escravidão e do cativeiro marcou sociedades inteiras.

60. Entre o final do século XII e os inícios do século XIII, quando muitos cristãos eram capturados no Mediterrâneo ou escravizados em guerras, surgiram duas ordens religiosas: a Ordem da Santíssima Trindade para a Redenção dos Cativos (Trinitários), fundada por São João de Matha e São Félix de Valois, e a Ordem da Bem-Aventurada Virgem Maria das Mercês (Mercedários), fundada por São Pedro Nolasco com o apoio de São Raimundo de Penhaforte, dominicano. Essas comunidades de consagrados nasceram com o carisma específico de libertar os cristãos escravizados, colocando os seus bens à disposição[46] e, muitas vezes, oferecendo a própria vida em troca. Os Trinitários, com o lema Gloria Tibi Trinitas et captivis libertas (Glória a Ti, Trindade, e aos cativos liberdade), e os Mercedários, que acrescentam um quarto voto[47] aos votos religiosos de pobreza, obediência e castidade, testemunharam que a caridade pode ser heroica. A libertação dos cativos era expressão do amor trinitário: um Deus que liberta não só da escravidão espiritual, mas também da opressão concreta. O gesto de resgatar da escravidão e do cárcere é visto como prolongamento do sacrifício redentor de Cristo, cujo sangue é o preço do nosso resgate (cf. 1Cor 6, 20).

61. A espiritualidade original destas Ordens estava profundamente enraizada na contemplação da Cruz. Cristo é por excelência o Redentor dos cativos, e a Igreja, seu Corpo, prolonga esse mistério no tempo.[48] Os religiosos não viam no resgate uma ação política ou económica, mas um ato quase litúrgico, a oferenda sacramental de si mesmos. Muitos entregaram os seus próprios corpos para substituir prisioneiros, cumprindo literalmente o mandamento: «Ninguém tem mais amor do que quem dá a vida pelos seus amigos» (Jo 15, 13). A tradição destas Ordens não cessou. Pelo contrário, inspirou novas formas de ação diante das escravidões modernas: o tráfico de pessoas, o trabalho forçado, a exploração sexual, as diversas formas de dependência.[49] A caridade cristã, quando encarnada, torna-se libertadora. E a missão da Igreja, quando fiel ao seu Senhor, é sempre proclamar a libertação. Ainda em nossos dias, nos quais «milhões de pessoas – crianças, homens e mulheres de todas as idades – são privadas da liberdade e constrangidas a viver em condições semelhantes às da escravatura»,[50] esta herança é continuada por estas Ordens e por outras instituições e congregações que atuam em periferias urbanas, zonas de conflito e corredores de migração. Quando a Igreja se inclina para quebrar as novas correntes que prendem os pobres, ela torna-se sinal da Páscoa.

62. Não se pode concluir esta reflexão sobre os privados de liberdade sem fazer menção aos encarcerados nos diversos centros penitenciários e de detenção. A esse respeito, recordam-se as palavras que o Papa Francisco dirigiu a um grupo deles: «Para mim, entrar em uma penitenciária é sempre um momento importante, porque o presídio é um lugar de grande humanidade [...]. De uma humanidade provada, às vezes exausta pelas dificuldades, sentimentos de culpa, julgamentos, incompreensões e sofrimento, mas ao mesmo tempo repleta de força, de desejo de perdão, de vontade de redenção».[51] Esta vontade que, entre outras, foi assumida também pelas Ordens redentoras como um serviço preferencial à Igreja. Como proclamava São Paulo: «Foi para a liberdade que Cristo nos libertou» (Gl 5, 1). E esta liberdade não é apenas interior: ela manifesta-se na história como amor que cuida e liberta de todas as amarras.

Testemunhas da pobreza evangélica

63. No século XIII, diante do crescimento das cidades, da concentração de riquezas e do surgimento de novas formas de pobreza, o Espírito Santo suscitou na Igreja um novo tipo de consagração: as Ordens mendicantes. Ao contrário do modelo monástico estável, os mendicantes adotaram uma vida itinerante, sem propriedade pessoal ou comunitária, inteiramente confiada à Providência. Não apenas serviam os pobres: tornavam-se pobres com eles. Encaravam a cidade como novo deserto, e os marginalizados como novos mestres espirituais. Essas Ordens, como os Franciscanos, os Dominicanos, os Agostinianos e os Carmelitas, representaram uma revolução evangélica, na qual o estilo de vida simples e pobre se converte em sinal profético para a missão, revivendo a experiência da primeira comunidade cristã (cf. Act 4, 32). O testemunho dos mendicantes desafiava tanto a opulência clerical quanto a frieza da sociedade urbana.

64. São Francisco de Assis tornou-se o ícone dessa primavera espiritual. Tomando por esposa a pobreza, quis imitar Cristo pobre, nu e crucificado. Em sua Regra, pede aos irmãos que «não tenham propriedade sobre coisa alguma, nem sobre casa, nem lugar, nem outra coisa qualquer; mas, como peregrinos e viandantes que neste mundo servem ao Senhor em pobreza e humildade, peçam esmolas com confiança; disso não se devem envergonhar, porque o Senhor se fez pobre por nós, neste mundo».[52] A sua vida foi um contínuo despojamento: do palácio ao leproso, da eloquência ao silêncio, da posse ao dom total. Francisco não fundou um serviço social, mas uma fraternidade evangélica. Entre os pobres, via irmãos e imagens vivas do Senhor. A sua missão era estar com eles, por uma solidariedade que superava as distâncias, por um amor compassivo. A sua pobreza era relacional: levava-o a fazer-se próximo, igual, na verdade, menor. A sua santidade brotava da convicção de que só se recebe verdadeiramente a Cristo na entrega generosa de si mesmo aos irmãos.

65. Santa Clara de Assis, inspirada por Francisco, fundou a Ordem das Damas Pobres, depois chamadas Clarissas. A sua luta espiritual consistiu em manter fielmente o ideal da pobreza radical. Recusou privilégios pontifícios que poderiam proporcionar segurança material ao seu mosteiro e, com firmeza, obteve do Papa Gregório IX o chamado Privilegium Paupertatis, garantindo o direito de viver sem a posse de qualquer bem material.[53] Esta opção expressava a confiança total em Deus, e a consciência de que a pobreza voluntária era forma de liberdade e profecia. Clara ensinava às suas irmãs que Cristo era a sua única herança e que nada devia obscurecer a comunhão com Ele. A sua vida orante e escondida foi um grito contra o mundanismo e uma defesa silenciosa dos pobres e esquecidos.

66. São Domingos de Gusmão, contemporâneo de Francisco, fundou a Ordem dos Pregadores com outro carisma, mas a mesma radicalidade. Desejava anunciar o Evangelho com a autoridade que brota duma vida pobre, convencido de que a Verdade precisa de testemunhas coerentes. O exemplo da pobreza de vida acompanhava a Palavra pregada. Livres do peso dos bens terrenos, os frades dominicanos podiam dedicar-se melhor à sua obra principal, ou seja, a pregação. Dirigiam-se às cidades, sobretudo àquelas universitárias, para ensinar a verdade de Deus.[54] Ao dependerem dos outros, demonstravam que a fé não se impõe, mas se oferece. E, ao viverem entre os pobres, aprendiam a verdade do Evangelho “de baixo”, como discípulos do Cristo humilhado.

67. As Ordens mendicantes foram, assim, resposta viva à exclusão e à indiferença. Não propuseram expressamente reformas sociais, mas uma conversão pessoal e comunitária à lógica do Reino. A pobreza, nelas, não era resultado da escassez de bens, mas uma escolha livre: fazer-se pequeno para acolher o pequeno. Como disse Tomás de Celano sobre Francisco: «Passou a ser o maior amigo dos pobres [...] despiu-se para vestir os pobres, procurando assemelhar-se a eles».[55] Os mendicantes tornaram-se sinal de uma Igreja peregrina, humilde e fraterna, que vive entre os pobres não por estratégia proselitista, mas por identidade. Eles ensinam que a Igreja é luz quando se despoja de tudo e que a santidade passa por um coração humilde e dedicado aos pequenos.

A Igreja e a instrução dos pobres

68. Dirigindo-se a alguns educadores, o Papa Francisco recordava que a educação sempre foi uma das expressões mais altas da caridade cristã: «A vossa é uma missão cheia de obstáculos, mas também de alegrias […]. Uma missão de amor, porque não se pode ensinar sem amar».[56] Neste sentido, desde os primeiros tempos, os cristãos compreenderam que o saber liberta, dignifica e aproxima da verdade. Ensinar os pobres era, para a Igreja, um ato de justiça e fé. Inspirada no exemplo do Mestre que ensinava ao povo as verdades divinas e humanas, a Igreja assumiu como missão formar as crianças e os jovens, especialmente os mais pobres, na verdade e no amor. Essa missão ganhou corpo com a fundação de Congregações voltadas à educação popular.

69. No final do século XVI, São José de Calasanz, impressionado pela falta de instrução e formação dos jovens pobres da cidade de Roma, deu vida à primeira escola pública popular e gratuita da Europa, em algumas salas contíguas à Igreja de Santa Dorotéia, no bairro Trastevere. Era a semente da qual nasceria e se desenvolveria, não sem dificuldades, a Ordem dos Clérigos Regulares Pobres da Madre de Deus das Escolas Pias – cujos membros são mais conhecidos como Padres Escolápios –, com o objetivo de transmitir aos jovens «além da ciência profana, também a sabedoria do Evangelho, ensinando-lhes a captar, nas vicissitudes pessoais e na história, a ação amorosa de Deus Criador e Redentor».[57] Com efeito, podemos considerar este corajoso sacerdote como «o verdadeiro fundador da moderna escola católica, que visa a formação integral do homem e está aberta a todos».[58] Animado pela mesma sensibilidade, no século XVII, São João Batista de La Salle, percebendo a injustiça causada pela exclusão dos filhos dos operários e camponeses do sistema educacional da França do seu tempo, fundou os Irmãos das Escolas Cristãs, com o ideal de lhes oferecer ensino gratuito, formação sólida e ambiente fraterno. La Salle via na sala de aula um espaço de promoção humana, mas também de conversão. Os seus colégios uniam oração, método, disciplina e partilha. Cada criança era considerada um dom único de Deus, e o ato de ensinar, um serviço ao Reino de Deus.

70. Já no século XIX, também na França, São Marcelino Champagnat funda o Instituto dos Irmãos Maristas das Escolas, «sensível às necessidades espirituais e educativas da sua época, sobretudo a ignorância religiosa e as situações de abandono vividas em particular pela juventude»,[59] dedicando-se com todo o afinco, num período em que o acesso à educação continuava a ser um privilégio de poucos, à missão de educar e evangelizar crianças e jovens, especialmente os mais necessitados. Com o mesmo espírito, na Itália, São João Bosco iniciou a grande obra Salesiana, fundamentada sobre os três princípios do “Método preventivo” – razão, religião e amabilidade –[60] e o Beato António Rosmini fundou o Instituto da Caridade, no qual a “caridade intelectual” – junto à “material” e tendo como ápice a “espiritual-pastoral” –, era apresentada como dimensão indispensável para qualquer ação caritativa que buscasse o bem e o desenvolvimento integral da pessoa.[61]

71. Muitas Congregações femininas também foram protagonistas dessa revolução pedagógica. As Ursulinas, a Ordem da Companhia de Maria Nossa Senhora, as Mestras Pias e tantas outras, fundadas especialmente no século XVIII e XIX, ocuparam espaços onde o Estado era ausente. Criaram escolas nos pequenos vilarejos, nas zonas de periferia e nos bairros operários. A educação das meninas, em especial, tornou-se prioridade. As religiosas alfabetizavam, evangelizavam, tratavam das questões práticas da vida quotidiana, elevavam o espírito através do cultivo das artes e, sobretudo, formavam consciências. A pedagogia era simples: proximidade, paciência, doçura. Ensinavam com a vida, antes das palavras. Em tempos de analfabetismo generalizado e exclusão estrutural, essas mulheres consagradas foram faróis de esperança. A sua missão era formar o coração, ensinar a pensar, fazer florescer a dignidade. Unindo vida de piedade e dedicação ao próximo, resistiam ao abandono com a ternura de quem educa em nome de Cristo.

72. A educação dos pobres, para a fé cristã, não é um favor, mas um dever. Os pequenos têm direito à sabedoria, como exigência básica do reconhecimento da dignidade humana. Ensinar-lhes é reconhecer o seu valor, dando-lhes instrumentos para transformar a sua realidade. A tradição cristã entende que o saber é dom de Deus e responsabilidade comunitária. O ensino cristão forma não apenas profissionais, mas pessoas abertas ao bem, ao belo e à verdade. Sendo assim, a escola católica, quando fiel ao seu nome, torna-se espaço de inclusão, de formação integral e de promoção humana; conjugando fé e cultura, semeia-se futuro, honra-se a imagem de Deus e constrói-se uma sociedade melhor.

Acompanhar os migrantes

73. A experiência da migração acompanha a história do povo de Deus. Abraão parte sem saber para onde vai; Moisés conduz um povo peregrino pelo deserto; Maria e José fogem com o Menino para o Egito. O próprio Cristo, que «veio para o que era seu, e os seus não o receberam» (Jo 1, 11), viveu entre nós como estrangeiro. Por isso, a Igreja sempre reconheceu nos migrantes uma presença viva do Senhor que dirá, no dia do juízo, aos que estiverem à sua direita: «era peregrino e recolhestes-me» (Mt 25, 35).

74. No século XIX, quando milhões de europeus emigravam em busca de melhores condições de vida, dois grandes santos se destacaram no cuidado pastoral dos migrantes: São João Batista Scalabrini e Santa Francisca Xavier Cabrini. Scalabrini, bispo de Piacenza, fundou os Missionários de São Carlos para acompanhar os migrantes nas suas comunidades de destino, oferecendo-lhes assistência espiritual, jurídica e material. Nos migrantes viu destinatários de uma nova evangelização, alertando para os riscos da exploração e da perda da fé em terra estrangeira. Correspondendo com generosidade ao carisma que o Senhor lhe tinha concedido, «Scalabrini olhava mais além, olhava lá para diante, para um mundo e uma Igreja sem barreiras, sem estrangeiros».[62] Santa Francisca Cabrini, nascida na Itália e naturalizada estadunidense, tornou-se a primeira cidadã dos Estados Unidos a ser canonizada. Para cumprir a sua missão de atender aos migrantes, cruzou o Atlântico diversas vezes, e «armada de singular audácia, partindo do nada iniciou escolas, hospitais, orfanatos para a multidão de deserdados que se aventuraram no novo mundo em busca de trabalho, desprovidos do conhecimento da língua e de meios capazes de lhes permitir uma decorosa inserção na sociedade americana, e muitas vezes vítimas de pessoas sem escrúpulos. O seu coração materno, irrequieto, ia ao encontro deles em todas as partes: nos tugúrios, nos cárceres, nas minas».[63] No Ano Santo de 1950, o Papa Pio XII proclamou-a Padroeira de todos os migrantes.[64]

75. A tradição da atividade da Igreja junto aos migrantes prosseguiu e hoje esse serviço expressa-se em iniciativas como os centros de acolhimento para refugiados, as missões nas fronteiras, e os esforços de Caritas Internationalis e de outras instituições. O Magistério contemporâneo reafirma com clareza este compromisso. O Papa Francisco recordava que a missão da Igreja junto aos migrantes e refugiados era ainda mais ampla, insistindo que «a resposta ao desafio colocado pelas migrações contemporâneas pode-se resumir em quatro verbos: acolher, proteger, promover e integrar. Mas estes verbos não valem apenas para os migrantes e os refugiados; exprimem a missão da Igreja a favor de todos os habitantes das periferias existenciais, que devem ser acolhidos, protegidos, promovidos e integrados».[65] E acrescentava: «Todo ser humano é um filho de Deus! Nele está impressa a imagem de Cristo! Trata-se, então, de o vermos, nós, em primeiro lugar, e de ajudar os outros a verem no migrante e no refugiado não só um problema para lidar, mas um irmão e uma irmã a serem acolhidos, respeitados e amados; trata-se de uma oportunidade que a Providência nos oferece para contribuir na construção de uma sociedade mais justa, de uma democracia mais completa, de um país mais inclusivo, de um mundo mais fraterno e de uma comunidade cristã mais aberta, de acordo com o Evangelho».[66] A Igreja, como mãe, caminha com os que caminham. Onde o mundo vê ameaça, ela vê filhos; onde se erguem muros, ela constrói pontes. Pois sabe que o Evangelho só é crível quando se traduz em gestos de proximidade e de acolhimento; e que em cada migrante rejeitado, é o próprio Cristo que bate às portas da comunidade.

Ao lado dos últimos

76. A santidade cristã floresce, com frequência, nos lugares mais esquecidos e feridos da humanidade. Os mais pobres entre os pobres – que não apenas carecem de bens, mas também de voz e do reconhecimento da sua dignidade – ocupam um lugar especial no coração de Deus. São os preferidos do Evangelho, os herdeiros do Reino (cf. Lc 6, 20). É neles que Cristo continua a sofrer e a ressuscitar. É neles que a Igreja reencontra o chamamento a mostrar a sua realidade mais autêntica.

77. Santa Teresa de Calcutá, canonizada em 2016, tornou-se ícone universal da caridade vivida até o extremo em favor dos mais indigentes, descartados pela sociedade. Fundadora das Missionárias da Caridade, dedicou a sua vida aos moribundos abandonados nas ruas da Índia. Recolhia os rejeitados, lavava as suas feridas, acompanhava-os até ao momento da morte com uma ternura que era prece. O seu amor pelos mais pobres entre os pobres fazia com que se ocupasse não somente de os atender em suas necessidades materiais, mas também de lhes anunciar a boa nova do Evangelho: «Queremos proclamar a boa nova aos pobres de que Deus os ama, de que nós os amamos, de que eles são alguém para nós, de que eles foram criados pela mesma mão amorosa de Deus, para amar e ser amados. Os nossos pobres são ótimas pessoas, pessoas muito amáveis, eles não necessitam da nossa pena ou compaixão, eles precisam do nosso amor compreensivo. Eles precisam do nosso respeito; eles precisam que os tratemos com dignidade».[67] Tudo isso nascia de uma profunda espiritualidade que via o serviço aos mais pobres como fruto da oração e do amor, gerador da verdadeira paz, como recordava o Papa João Paulo II aos peregrinos vindos a Roma para a sua beatificação: «Onde foi que Madre Teresa encontrou a força para se dedicar completamente ao serviço do próximo? Encontrou-a na oração e na contemplação silenciosa de Jesus Cristo, do seu Santo Rosto, do seu Sagrado Coração. Ela mesma o disse: “O fruto do silêncio é a oração; o fruto da oração é a fé; o fruto da fé é o amor; o fruto do amor é o serviço, o fruto do serviço é a paz” [...] Era uma oração que enchia o seu coração com a paz de Cristo e lhe permitia irradiar essa paz aos outros».[68] Teresa não se considerava filantropa nem ativista, mas esposa de Cristo crucificado, a quem servia com amor total nos irmãos sofredores.

78. No Brasil, Santa Dulce dos Pobres – conhecida como o “anjo bom da Bahia” – encarnou o mesmo espírito evangélico com feições brasileiras. Referindo-se a ela e a outras duas religiosas canonizadas na mesma celebração, o Papa Francisco recordava o amor que professavam aos mais marginalizados da sociedade e afirmava que as novas Santas «mostram-nos que a vida religiosa é um caminho de amor nas periferias existenciais do mundo»[69]. Irmã Dulce enfrentou a precariedade com criatividade, os obstáculos com ternura, a carência com fé inabalável. Começou acolhendo doentes num galinheiro, e dali fundou uma das maiores obras sociais do país. Atendia milhares de pessoas por dia, sem jamais perder a doçura. Fez-se pobre com os pobres por amor ao sumamente Pobre. Vivia com pouco, rezava com fervor e servia com alegria. A sua fé não a retirava do mundo, mas lançava-a ainda mais profundamente nas dores dos últimos.

79. Poderiam ser lembrados também São Bento Menni e as Irmãs Hospitaleiras do Sagrado Coração de Jesus auxiliando as pessoas com deficiências de desenvolvimento; São Charles de Foucauld entre as comunidades do Saara; Santa Katharine Drexel junto dos grupos menos favorecidos na América do Norte; Irmã Emmanuelle com os catadores de lixo no bairro Ezbet El Nakhl na cidade do Cairo; e muitíssimos outros. Cada um, à sua maneira, descobriu que os mais pobres não são mero objeto da nossa compaixão, mas mestres do Evangelho. Não se trata de lhes “levar Deus”, mas de encontrá-Lo ali. Todos estes exemplos ensinam que servir aos pobres não é um gesto de cima para baixo, mas um encontro de igual para igual, onde Cristo é revelado e adorado. São João Paulo II recordava-nos que «há na pessoa dos pobres uma especial presença de Cristo, obrigando a Igreja a uma opção preferencial por eles».[70] A Igreja, portanto, quando se curva até ao chão para cuidar dos pobres, assume a sua postura mais elevada.

Movimentos populares

80. Ao longo dos séculos da história cristã, devemos igualmente reconhecer que a ajuda aos pobres e a luta pelos seus direitos não envolveu apenas indivíduos, algumas famílias, instituições ou comunidades religiosas. Houve, e há, vários movimentos populares, constituídos por leigos e conduzidos por líderes populares, colocados muitas vezes sob suspeita e até perseguidos. Refiro-me a um «conjunto de pessoas que não caminham como indivíduos, mas como o tecido duma comunidade de todos e para todos, que não pode permitir que os mais pobres e frágeis fiquem para trás [...]. Portanto os líderes populares são aqueles que têm a capacidade de integrar a todos [...]. Não lhes fazem repugnância nem metem medo os jovens chagados e crucificados».[71]

81. Estes líderes populares sabem que a solidariedade consiste também em «lutar contra as causas estruturais da pobreza, a desigualdade, a falta de trabalho, de terra e de casa, a negação dos direitos sociais e laborais. É fazer face aos efeitos destruidores do império do dinheiro [...]. A solidariedade, entendida no seu sentido mais profundo, é uma forma de fazer história e é isto que os movimentos populares fazem».[72] Por essa razão, quando as diferentes instituições pensam nas necessidades dos pobres, é necessário «que incluam os movimentos populares e animem as estruturas de governo locais, nacionais e internacionais com aquela torrente de energia moral que nasce da integração dos excluídos na construção do destino comum».[73] Com efeito, os movimentos populares convidam a superar «aquela ideia das políticas sociais concebidas como uma política para os pobres, mas nunca com os pobres, nunca dos pobres e muito menos inserida num projeto que reúna os povos».[74] Se os políticos e os profissionais não os ouvirem, «a democracia atrofia-se, torna-se um nominalismo, uma formalidade, perde representatividade, vai se desencantando porque deixa de fora o povo na sua luta diária pela dignidade, na construção do seu destino».[75] O mesmo se deve dizer das instituições da Igreja.

CAPÍTULO IV

UMA HISTÓRIA QUE CONTINUA

O século da Doutrina Social da Igreja

82. A acelerada transformação tecnológica e social dos últimos dois séculos, cheia de trágicas contradições, não foi apenas sofrida pelos pobres, mas também por eles enfrentada e pensada. Os movimentos de trabalhadores, mulheres e jovens, assim como a luta contra a discriminação racial levaram a uma nova consciência da dignidade daqueles que estão à margem. Também o contributo da Doutrina Social da Igreja tem em si esta raiz popular que não se pode esquecer: seria inimaginável a releitura da Revelação cristã nas modernas circunstâncias sociais, laborais, económicas e culturais sem leigos cristãos envolvidos com os desafios do seu tempo. Ao seu lado, atuaram religiosas e religiosos, testemunhas de uma Igreja em saída dos caminhos já percorridos. A mudança de época que enfrentamos hoje torna ainda mais necessária a interação contínua entre batizados e Magistério, entre cidadãos e peritos, entre povo e instituições. Em particular, é preciso reconhecer novamente que a realidade se vê melhor a partir das periferias e que os pobres são sujeitos de uma inteligência específica, indispensável à Igreja e à humanidade.

83. O Magistério dos últimos cento e cinquenta anos oferece um verdadeiro tesouro de ensinamentos sobre os pobres. Deste modo, os Bispos de Roma fizeram-se voz de novas consciências, passadas pelo crivo do discernimento eclesial. Por exemplo, na Carta encíclica Rerum novarum (1891), Leão XIII abordou a questão do trabalho, expondo a situação intolerável de muitos operários da indústria e propondo o estabelecimento de uma ordem social justa. Nesta linha se manifestaram também outros Pontífices. Com a Encíclica Mater et Magistra (1961), São João XXIII fez-se promotor de uma justiça de dimensões mundiais: os países ricos não podiam permanecer indiferentes face aos países oprimidos pela fome e pela miséria, mas eram chamados a socorrê-los generosamente com todos os seus bens.

84. O Concílio Vaticano II representa uma etapa fundamental no discernimento eclesial sobre os pobres, à luz da Revelação. Embora nos documentos preparatórios esse tema fosse secundário, São João XXIII chamou a atenção para o mesmo na Radiomensagem de 11 de setembro de 1962, a um mês da abertura do Concílio, com palavras inesquecíveis: «A Igreja apresenta-se como é e como quer ser, como Igreja de todos e particularmente Igreja dos pobres».[76] Houve, então, o grande trabalho de Bispos, teólogos e peritos preocupados com a renovação da Igreja – com o apoio do próprio São João XXIII – que reorientou o Concílio. É fundamental a natureza cristocêntrica, isto é, doutrinal e não apenas social, de tal reflexão. Efetivamente, numerosos Padres conciliares favoreceram a consolidação da consciência, bem expressa pelo cardeal Lercaro na sua intervenção memorável de 6 de dezembro de 1962, de que «o mistério de Cristo na Igreja sempre foi e continua a ser – e hoje de modo especial – o mistério de Cristo presente nos pobres»,[77] e de que «não se trata de um tema qualquer, mas, em certo sentido, é o único tema de todo o Vaticano II».[78] O Arcebispo de Bolonha, preparando o texto desta intervenção, anotava: «Esta é a hora dos pobres, dos milhões de pobres que estão em toda a terra, esta é a hora do mistério da Igreja mãe dos pobres, esta é a hora do mistério de Cristo, sobretudo no pobre».[79] Desse modo, apresentava-se a necessidade de uma nova forma eclesial, mais simples e sóbria, que envolvesse todo o povo de Deus e a sua figura histórica. Uma Igreja mais parecida com o seu Senhor do que com os poderes mundanos, propensa a estimular em toda a humanidade um compromisso concreto para a solução do grande problema da pobreza no mundo.

85. São Paulo VI, por ocasião da abertura da segunda sessão do Concílio, retomou o tema levantado pelo seu predecessor, ou seja, que a Igreja olha com particular interesse «para os pobres, para os necessitados, para os aflitos, para os famintos, os que sofrem, os encarcerados, os que têm fome; isto é, olha para toda a humanidade que sofre e chora, pois a Igreja sabe que esta lhe pertence, por direito evangélico».[80] Na Audiência Geral de 11 de novembro de 1964, ele sublinhou que «o pobre é representante de Cristo» e, associando a imagem do Senhor nos últimos à que se manifesta no Papa, afirmou: «A representação de Cristo no pobre é universal, todo o pobre reflete Cristo; a do Papa é pessoal. […] O pobre e Pedro podem coincidir, podem ser a mesma pessoa, revestida de uma dupla representação: a da pobreza e a da autoridade».[81] Deste modo, o vínculo intrínseco entre a Igreja e os pobres ficava simbolicamente expresso com uma clareza inédita.

86. Na Constituição pastoral Gaudium et spes, o Concílio, atualizando a herança dos Padres da Igreja, reafirmou com força a destinação universal dos bens da terra e a função social da propriedade que dela deriva: «Deus destinou a terra com tudo o que ela contém para uso de todos os homens e povos; de modo que os bens criados devem chegar equitativamente às mãos de todos [...] Por esta razão, quem usa desses bens, não deve considerar as coisas exteriores que legitimamente possui só como próprias, mas também como comuns, no sentido de que possam beneficiar não só a si, mas também aos outros. De resto, todos têm o direito de ter uma parte de bens suficientes para si e suas famílias. [...] Aquele, porém, que se encontra em extrema necessidade, tem direito de tomar, dos bens dos outros, o que necessita. [...] De resto, a mesma propriedade privada é de índole social, fundada na lei do destino comum dos bens. O desprezo deste carácter social foi muitas vezes ocasião de cobiças e de graves desordens».[82] Esta convicção é reafirmada por São Paulo VI na Encíclica Populorum progressio, onde lemos que ninguém pode considerar-se com o «direito de reservar para seu uso exclusivo aquilo que é supérfluo, quando a outros falta o necessário».[83] No seu discurso à ONU, o Papa Montini apresentou-se como o advogado dos povos pobres[84], instando a comunidade internacional a construir um mundo solidário.

87. Com São João Paulo II, consolida-se, pelo menos no âmbito doutrinário, a relação preferencial da Igreja com os pobres. Com efeito, o seu magistério reconheceu que a opção pelos pobres é uma «forma especial de primado na prática da caridade cristã, testemunhada por toda a Tradição da Igreja».[85] Na Encíclica Sollicitudo rei socialis, também escreve que hoje, dada a dimensão mundial que a questão social assumiu, «este amor preferencial, com as decisões que ele nos inspira, não pode deixar de abranger as imensas multidões de famintos, de mendigos, sem-teto, sem assistência médica e, sobretudo, sem esperança de um futuro melhor: não se pode deixar de ter em conta a existência destas realidades. Ignorá-las significaria tornar-nos como o “rico epulão”, que fingia não conhecer o pobre Lázaro, que jazia ao seu portão (cf. Lc 16, 19-31)».[86] O seu ensinamento sobre o trabalho adquire especial relevância quando nos propomos pensar no papel ativo dos pobres na renovação da Igreja e da sociedade, deixando para trás o paternalismo da mera assistência às suas imediatas necessidades. Na Encíclica Laborem exercens, ele afirma que «o trabalho humano é uma chave, provavelmente a chave essencial, de toda a questão social».[87]

88. Diante das múltiplas crises que assinalaram o início do terceiro milénio, a leitura de Bento XVI torna-se mais marcadamente política. Assim, na Carta encíclica Caritas in veritate, afirma que «ama-se tanto mais eficazmente o próximo, quanto mais se trabalha em prol de um bem comum que dê resposta também às suas necessidades reais».[88] Além disso, observa que «a fome não depende tanto de uma escassez material, como sobretudo da escassez de recursos sociais, o mais importante dos quais é de natureza institucional; isto é, falta um sistema de instituições económicas que seja capaz de garantir um acesso regular, e adequado do ponto de vista nutricional, à alimentação e à água e também de enfrentar as carências relacionadas com as necessidades primárias e com a emergência de reais e verdadeiras crises alimentares provocadas por causas naturais ou pela irresponsabilidade política nacional e internacional».[89]

89. O Papa Francisco reconheceu como, nas últimas décadas, além do magistério dos Bispos de Roma, também se tornaram cada vez mais frequentes as tomadas de posição por parte das Conferências Episcopais nacionais e regionais sobre este tema. Ele mesmo, por exemplo, pôde testemunhar pessoalmente o empenho particular do episcopado latino-americano em repensar a relação da Igreja com os pobres. No pós-Concílio, em quase todos os países da América Latina, sentiu-se com muita força a identificação da Igreja com os pobres e a participação ativa na sua redenção. Era o próprio coração da Igreja que se movia diante de tantos pobres afligidos pelo desemprego, subemprego e salários miseráveis, obrigados a viver em condições deploráveis. O martírio de São Oscar Romero, Arcebispo de San Salvador, foi ao mesmo tempo um testemunho e uma exortação viva para a Igreja. Ele sentia como próprio o drama da grande maioria dos seus fiéis, fazendo deles o centro da sua opção pastoral. As Conferências do Episcopado Latino-Americano em Medellín, Puebla, Santo Domingo e Aparecida constituem etapas significativas também para toda a Igreja. Eu mesmo, missionário no Peru durante tantos anos, devo muito a este caminho de discernimento eclesial, que o Papa Francisco com sabedoria soube unir ao de outras Igrejas particulares, especialmente do chamado Sul global. Gostaria, agora, de retomar dois temas específicos deste magistério episcopal.

Estruturas de pecado que criam pobreza e desigualdades extremas

90. Em Medellín, os Bispos pronunciaram-se a favor da opção preferencial pelos pobres: «Cristo, nosso Salvador, não só amou aos pobres, mas também, “sendo rico se fez pobre”, viveu na pobreza, centralizando sua missão no anúncio da libertação aos pobres e fundou sua Igreja como sinal dessa pobreza entre os homens. […] A pobreza de tantos irmãos clama por justiça, solidariedade, testemunho, compromisso, esforço e superação para o cumprimento pleno da missão salvífica confiada por Cristo».[90] Os Bispos afirmaram com veemência que a Igreja, para ser plenamente fiel à sua vocação, não deve apenas compartilhar a condição dos pobres, mas colocar-se também ao lado deles e empenhar-se ativamente pela sua promoção integral. A Conferência de Puebla, diante do agravamento da miséria na América Latina, confirmou a decisão de Medellín com uma opção franca e profética a favor dos pobres e qualificou as estruturas de injustiça como “pecado social”.

91. A caridade é uma força que muda a realidade, um autêntico poder histórico de transformação. Esta é a fonte da qual deve nutrir-se todo o compromisso para «resolver as causas estruturais da pobreza»[91] e para o fazer com urgência. Espero, portanto, que «cresça o número de políticos capazes de entrar num autêntico diálogo que vise efetivamente sanar as raízes profundas e não a aparência dos males do nosso mundo»,[92] porque «trata-se de ouvir o clamor de povos inteiros, dos povos mais pobres da terra».[93]

92. É necessário, portanto, continuar a denunciar a “ditadura de uma economia que mata” e reconhecer que «enquanto os lucros de poucos crescem exponencialmente, os da maioria situam-se cada vez mais longe do bem-estar daquela minoria feliz. Tal desequilíbrio provém de ideologias que defendem a autonomia absoluta dos mercados e a especulação financeira. Por isso, negam o direito de controle dos Estados, encarregados de velar pela tutela do bem comum. Instaura-se uma nova tirania invisível, às vezes virtual, que impõe, de forma unilateral e implacável, as suas leis e as suas regras».[94] Embora não faltem diversas teorias que tentam justificar o estado atual das coisas ou explicar que a racionalidade económica nos exige esperar que as forças invisíveis do mercado resolvam tudo, a dignidade de cada pessoa humana deve ser respeitada já agora, não só amanhã, e a situação de miséria de tantas pessoas, a quem é negada esta dignidade, deve ser um apelo constante à nossa consciência.

93. Na Encíclica Dilexit nos, o Papa Francisco recordou que o pecado social assume a forma de uma “estrutura de pecado” na sociedade, fazendo frequentemente parte de uma «mentalidade dominante que considera normal ou racional o que não passa de egoísmo e indiferença. Este fenómeno pode definir-se como alienação social».[95] Torna-se normal ignorar os pobres e viver como se eles não existissem. Apresenta-se como uma escolha razoável organizar a economia exigindo sacrifícios ao povo, para atingir certos objetivos que interessam aos poderosos. Entretanto, para os pobres restam apenas promessas de “gotas” que cairão, até que uma nova crise global os conduza de volta à situação na qual estavam anteriormente. É uma verdadeira alienação que leva a encontrar apenas desculpas teóricas e não a tentar resolver hoje os problemas concretos daqueles que sofrem. Já o dizia São João Paulo II: «Alienada é a sociedade que, nas suas formas de organização social, de produção e de consumo, torna mais difícil a realização deste dom e a constituição dessa solidariedade inter-humana».[96]

94. Devemos empenhar-nos cada vez mais em resolver as causas estruturais da pobreza. É uma urgência que «não pode esperar; e não apenas por uma exigência pragmática de obter resultados e ordenar a sociedade, mas também para a curar de uma mazela que a torna frágil e indigna e que só poderá levá-la a novas crises. Os planos de assistência, que acorrem a determinadas emergências, deveriam considerar-se apenas como respostas provisórias».[97] A falta de equidade «é a raiz dos males sociais».[98] Com efeito, «muitas vezes constata-se que, realmente, os direitos humanos não são iguais para todos».[99]

95. Acontece que «no modelo “do êxito” e “individualista” em vigor, parece que não faz sentido investir para que os lentos, fracos ou menos dotados possam também singrar na vida».[100] A pergunta que reiteradamente surge é sempre a mesma: os menos dotados não são seres humanos? Os mais fracos não têm a nossa mesma dignidade? Aqueles que nasceram com menos possibilidades valem menos como seres humanos e devem limitar-se apenas a sobreviver? A resposta que damos a estas perguntas determina o valor das nossas sociedades e dela também depende o nosso futuro: ou reconquistamos a nossa dignidade moral e espiritual ou caímos numa espécie de poço de imundície. Se não pararmos a pensar as coisas a sério, continuaremos, de forma explícita ou dissimulada, a «legitimar o modelo distributivo atual, no qual uma minoria se julga com o direito de consumir numa proporção que seria impossível generalizar, porque o planeta não poderia sequer conter os resíduos de tal consumo».[101]

96. Entre as questões estruturais que não se pode imaginar conseguir resolver a partir de cima e que exigem ser tratadas o mais rapidamente possível, conta-se a dos lugares, espaços, casas e cidades onde os pobres vivem e caminham. Bem o sabemos: «Como são belas as cidades que superam a desconfiança doentia e integram os que são diferentes, fazendo desta integração um novo fator de progresso! Como são encantadoras as cidades que, já no seu projeto arquitetónico, estão cheias de espaços que unem, relacionam, favorecem o reconhecimento do outro!».[102] Ao mesmo tempo, «não podemos deixar de considerar os efeitos da degradação ambiental, do modelo atual de desenvolvimento e da cultura do descarte sobre a vida das pessoas».[103] Com efeito, «a deterioração do meio ambiente e a da sociedade afetam de modo especial os mais frágeis do planeta».[104]

97. Portanto, mesmo correndo o risco de parecer “estúpidos”, é tarefa de todos os membros do Povo de Deus fazer ouvir, ainda que de maneiras diferentes, uma voz que desperte, denuncie e se exponha. As estruturas de injustiça devem ser reconhecidas e destruídas com a força do bem, através da mudança de mentalidades e também, com a ajuda da ciência e da técnica, através do desenvolvimento de políticas eficazes na transformação da sociedade. É preciso recordar sempre que a proposta do Evangelho não é apenas a de uma relação individual e íntima com o Senhor. Ela é mais ampla: «é o Reino de Deus (cf. Lc 4, 43); trata-se de amar a Deus, que reina no mundo. Na medida em que Ele conseguir reinar entre nós, a vida social será um espaço de fraternidade, de justiça, de paz, de dignidade para todos. Por isso, tanto o anúncio como a experiência cristã tendem a provocar consequências sociais. Procuremos o seu Reino».[105]

98. Por fim, um documento que inicialmente não foi bem recebido por todos, oferece-nos uma reflexão sempre atual: «É frequente dirigir aos defensores da “ortodoxia” a acusação de passividade, de indulgência ou de cumplicidade culpáveis frente a situações intoleráveis de injustiça e de regimes políticos que mantêm estas situações. A conversão espiritual, a intensidade do amor a Deus e ao próximo, o zelo pela justiça e pela paz, o sentido evangélico dos pobres e da pobreza, são exigidos a todos, especialmente aos pastores e aos responsáveis. A preocupação pela pureza da fé não subsiste sem a preocupação de dar a resposta de um testemunho eficaz de serviço ao próximo e, em especial, ao pobre e ao oprimido, através de uma vida teologal integral».[106]

Os pobres como sujeitos

99. Um dom fundamental para o caminho da Igreja universal é representado pelo discernimento da Conferência de Aparecida, na qual os Bispos latino-americanos explicitaram que a opção preferencial pelos pobres por parte da Igreja «está implícita na fé cristológica naquele Deus que se fez pobre por nós, para enriquecer-nos com a sua pobreza».[107] No Documento, a missão é contextualizada na atual situação de um mundo globalizado, com os seus novos e dramáticos desequilíbrios,[108] e, na Mensagem final, os Bispos escrevem: «As agudas diferenças entre ricos e pobres nos convidam a trabalhar com maior empenho para ser discípulos que sabem partilhar a mesa da vida, mesa de todos os filhos e filhas do Pai, mesa aberta, inclusiva, na qual não falte ninguém. Por isso reafirmamos nossa opção preferencial e evangélica pelos pobres».[109]

100. Ao mesmo tempo, o documento, ao aprofundar um tema já presente nas Conferências anteriores do Episcopado da América Latina, insiste na necessidade de considerar as comunidades marginalizadas como sujeitos capazes de criar cultura própria, mais do que como objetos de beneficência. Isso implica que tais comunidades têm o direito de viver o Evangelho, celebrar e comunicar a fé de acordo com os valores presentes nas suas culturas. A experiência da pobreza dá-lhes a capacidade de reconhecer aspectos da realidade que outros não conseguem ver e, por isso, a sociedade precisa de as ouvir. O mesmo vale para a Igreja, que deve avaliar positivamente a maneira “popular” delas viverem a fé. Um bonito trecho do documento final de Aparecida ajuda-nos a refletir sobre este ponto, a fim de encontrar a atitude correta: «Só a proximidade que nos faz amigos nos permite apreciar profundamente os valores dos pobres de hoje, seus legítimos desejos e seu modo próprio de viver a fé. […] Dia a dia os pobres se fazem sujeitos da evangelização e da promoção humana integral: educam seus filhos na fé, vivem constante solidariedade entre parentes e vizinhos, procuram constantemente a Deus e dão vida ao peregrinar da Igreja. À luz do Evangelho reconhecemos sua imensa dignidade e seu valor sagrado aos olhos de Cristo, pobre como eles e excluído como eles. A partir dessa experiência cristã, compartilhamos com eles a defesa de seus direitos».[110]

101. Tudo isto pressupõe a presença de um aspecto na opção pelos pobres que devemos recordar constantemente: com efeito, tal opção exige de nós «uma atenção prestada ao outro […]. Esta atenção amiga é o início duma verdadeira preocupação pela sua pessoa e, a partir dela, desejo procurar efetivamente o seu bem. Isto implica apreciar o pobre na sua bondade própria, com o seu modo de ser, com a sua cultura, com a sua forma de viver a fé. O amor autêntico é sempre contemplativo, permitindo-nos servir o outro não por necessidade ou vaidade, mas porque ele é belo, independentemente da sua aparência […]. Unicamente a partir desta proximidade real e cordial é que podemos acompanhá-los adequadamente no seu caminho de libertação».[111] Por esta razão, dirijo um sincero agradecimento a todos aqueles que escolheram viver entre os pobres: àqueles que não só vão visitá-los de vez em quando, mas que vivem com eles e como eles. Esta é uma opção que deve encontrar lugar entre as formas mais elevadas da vida evangélica.

102. Nesta perspectiva, torna-se clara a necessidade de «que todos nos deixemos evangelizar»[112] pelos pobres e reconheçamos «a misteriosa sabedoria que Deus nos quer comunicar através deles».[113] Crescidos em extrema precariedade, aprendendo a sobreviver nas condições mais adversas, confiando em Deus com a certeza de que mais ninguém os leva a sério, ajudando-se mutuamente nos momentos mais sombrios, os pobres aprenderam muitas coisas que guardam no mistério dos seus corações. Aqueles de entre nós que não fizeram experiências semelhantes, de viver à margem, certamente têm muito a receber da fonte de sabedoria que é a experiência dos pobres. Só comparando as nossas queixas com os seus sofrimentos e privações é possível receber uma repreensão que nos convida a simplificar a vida.

CAPÍTULO V

UM PERMANENTE DESAFIO

103. Escolhi recordar esta história bimilenária de atenção eclesial aos pobres e com os pobres para mostrar que ela é parte essencial do caminho ininterrupto da Igreja. O cuidado com os pobres faz parte da grande Tradição da Igreja, como um farol de luz que, a partir do Evangelho, iluminou os corações e os passos dos cristãos de todos os tempos. Portanto, devemos sentir a urgência de convidar todos a entrar neste rio de luz e vida que provém do reconhecimento de Cristo no rosto dos necessitados e dos sofredores. O amor pelos pobres é um elemento essencial da história de Deus conosco e irrompe do próprio coração da Igreja como um apelo contínuo ao coração dos cristãos, tanto das suas comunidades, como de cada um individualmente. Enquanto Corpo de Cristo, a Igreja sente como sua própria “carne” a vida dos pobres, que são parte privilegiada do povo a caminho. Por isso, o amor aos pobres – seja qual for a forma dessa pobreza – é a garantia evangélica de uma Igreja fiel ao coração de Deus. Efetivamente, toda a renovação eclesial sempre teve entre as suas prioridades esta atenção preferencial pelos pobres, que se diferencia, tanto nas motivações como no estilo, da atividade de qualquer outra organização humanitária.

104. O cristão não pode considerar os pobres apenas como um problema social: eles são uma “questão familiar”. Pertencem “aos nossos”. A relação com eles não pode ser reduzida a uma atividade ou departamento da Igreja. Como ensina a Conferência de Aparecida, «solicita-se dedicarmos tempo aos pobres, prestar a eles amável atenção, escutá-los com interesse, acompanhá-los nos momentos difíceis, escolhê-los para compartilhar horas, semanas ou anos de nossa vida, e procurando, a partir deles, a transformação de sua situação. Não podemos esquecer que o próprio Jesus propôs isso com seu modo de agir e com suas palavras».[114]

Novamente o bom samaritano

105. A cultura dominante do início deste milénio impele-nos a abandonar os pobres ao seu próprio destino, a não os considerar dignos de atenção e muito menos de apreço. Na Encíclica Fratelli tutti, o Papa Francisco convida-nos a refletir sobre a parábola do bom samaritano (cf. Lc 10, 25-37), precisamente para aprofundar este ponto. Na parábola, vemos que, diante daquele homem ferido e abandonado à beira do caminho, os que passam têm atitudes diferentes. Apenas o bom samaritano cuida dele. Então, volta a pergunta que interpela cada um de nós: «Com quem te identificas? É uma pergunta sem rodeios, direta e determinante: a qual deles te assemelhas? Precisamos de reconhecer a tentação que nos cerca de se desinteressar dos outros, especialmente dos mais frágeis. Digamos que crescemos em muitos aspectos, mas somos analfabetos no acompanhar, cuidar e sustentar os mais frágeis e vulneráveis das nossas sociedades desenvolvidas. Habituamo-nos a olhar para o outro lado, passar à margem, ignorar as situações até elas nos caírem diretamente em cima».[115]

106. Faz-nos muito bem descobrir que a história do bom samaritano se repete também hoje. Recordemos uma situação dos nossos dias: «Quando encontro uma pessoa a dormir ao relento, numa noite fria, posso sentir que este vulto seja um imprevisto que me detém, um delinquente ocioso, um obstáculo no meu caminho, um aguilhão molesto para a minha consciência, um problema que os políticos devem resolver e talvez até um monte de lixo que suja o espaço público. Ou então posso reagir a partir da fé e da caridade e reconhecer nele um ser humano com a mesma dignidade que eu, uma criatura infinitamente amada pelo Pai, uma imagem de Deus, um irmão redimido por Jesus Cristo. Isto é ser cristão! Ou poder-se-á porventura entender a santidade prescindindo deste reconhecimento vivo da dignidade de todo o ser humano?».[116] O que fez o bom samaritano?

107. A pergunta torna-se urgente porque nos ajuda a perceber uma grave lacuna nas nossas sociedades e também nas nossas comunidades cristãs. A verdade é que muitas formas de indiferença que encontramos hoje em dia «são sinais dum estilo de vida generalizado, que se manifesta de várias maneiras, porventura mais subtis. Além disso, como estamos todos muito concentrados nas nossas necessidades, ver alguém que está mal incomoda-nos, perturba-nos, porque não queremos perder tempo por culpa dos problemas alheios. São sintomas duma sociedade enferma, pois procura construir-se de costas para o sofrimento. É melhor não cair nesta miséria. Fixemos o modelo do bom samaritano».[117] As palavras finais da parábola evangélica – «Vai e faz tu também o mesmo» (Lc 10, 37) – são um mandato que um cristão deve ouvir ressoar todos os dias no seu coração.

Um desafio inadiável para a Igreja de hoje

108. Numa época particularmente difícil para a Igreja de Roma, quando as instituições imperiais estavam a ruir sob a pressão dos bárbaros, o Papa São Gregório Magno advertiu assim os seus fiéis: «Todos os dias podemos encontrar Lázaro, se o procuramos, e todos os dias nos deparamos com ele, mesmo sem o procurar. Eis que os pobres que se apresentam de forma insistente, a fazer-nos pedidos, poderão um dia interceder por nós. […] Não desperdiceis, portanto, as oportunidades de agir com misericórdia e não negligencieis os remédios que recebestes».[118] Ele desafiava corajosamente os preconceitos disseminados contra os pobres, como aquele que os considerava responsáveis pela sua própria miséria: «Quando virdes os pobres a fazer algo repreensível, não os desprezeis nem desconfieis deles, pois a frágua da pobreza talvez esteja a purificar o que eles fazem contraindo culpas, mesmo que muito leves».[119] Com frequência, o bem-estar torna-nos cegos, a ponto de pensarmos que a nossa felicidade só pode ser alcançada se conseguirmos viver sem os outros. Nesse sentido, os pobres podem ser para nós como mestres silenciosos, reconduzindo o nosso orgulho e a nossa arrogância a uma conveniente humildade.

109. Se é verdade que os pobres são sustentados por aqueles que têm meios económicos, certamente também é possível afirmar o contrário. Esta é uma experiência surpreendente, testemunhada pela tradição cristã, e que se torna uma verdadeira reviravolta na nossa vida pessoal, quando percebemos que são precisamente os pobres que nos evangelizam. De que modo? No silêncio da sua condição, eles colocam-nos diante da nossa fraqueza. O idoso, por exemplo, com a fragilidade do seu corpo, lembra-nos a nossa vulnerabilidade, ainda que a tentemos esconder por trás do bem-estar ou das aparências. Além disso, os pobres fazem-nos refletir sobre a inconsistência daquele orgulho agressivo com que muitas vezes enfrentamos as dificuldades da vida. Em suma, eles revelam a nossa precariedade e o vazio de uma vida aparentemente protegida e segura. A este respeito, ouçamos novamente São Gregório Magno: «Ninguém, portanto, se sinta seguro dizendo: “eu não roubo os outros, mas usufruo apenas dos bens recebidos licitamente”, pois o rico epulão não foi punido porque quis para si os bens alheios, mas por se ter descuidado de si mesmo depois de ter recebido tantas riquezas. A sua condenação ao inferno foi determinada porque, na felicidade, não conservou o sentimento do temor, tornou-se arrogante pelos dons recebidos e não teve qualquer sentimento de compaixão».[120]

 

110. Para nós, cristãos, a questão dos pobres remete-nos à essência da nossa fé. A opção preferencial pelos pobres, ou seja, o amor que a Igreja tem por eles, como ensinava São João Paulo II, «é decisivo e pertence à sua constante tradição, impele-a a dirigir-se ao mundo no qual, apesar do progresso técnico-económico, a pobreza ameaça assumir formas gigantescas».[121] A realidade é que, para os cristãos, os pobres não são uma categoria sociológica, mas a própria carne de Cristo. Com efeito, não basta limitar-se a enunciar de modo genérico a doutrina da encarnação de Deus. Para entrar verdadeiramente neste mistério, é preciso especificar que o Senhor se faz carne que tem fome e sede, que está doente e na prisão. «A Igreja pobre para os pobres começa pelo dirigir-se à carne de Cristo. Se nos fixarmos na carne de Cristo, começamos a compreender qualquer coisa, a compreender o que é esta pobreza, a pobreza do Senhor. E isso não é fácil!».[122]

111. O coração da Igreja, por sua própria natureza, é solidário com os pobres, excluídos e marginalizados, com todos aqueles que são considerados “descartáveis” pela sociedade. Os pobres ocupam um lugar central na Igreja, porque «deriva da nossa fé em Cristo, que se fez pobre e sempre se aproximou dos pobres e marginalizados, a preocupação pelo desenvolvimento integral dos mais abandonados da sociedade».[123] No coração de cada fiel encontra-se «a exigência de ouvir este clamor [que] deriva da própria obra libertadora da graça em cada um de nós, pelo que não se trata de uma missão reservada apenas a alguns».[124]

112. Por vezes, em alguns movimentos ou grupos cristãos, nota-se a falta ou mesmo a ausência de compromisso pelo bem comum da sociedade e, em particular, pela defesa e promoção dos mais fracos e desfavorecidos. A este respeito, é preciso recordar que a religião, especialmente a cristã, não pode ser confinada à esfera privada, como se os fiéis não devessem interessar-se também pelos problemas relacionados com a sociedade civil e pelos acontecimentos que dizem respeito aos cidadãos.[125]

113. Na realidade, «qualquer comunidade da Igreja, na medida em que pretender subsistir tranquila sem se ocupar criativamente nem cooperar de forma eficaz para que os pobres vivam com dignidade e haja a inclusão de todos, correrá também o risco da sua dissolução, mesmo que fale de temas sociais ou critique os Governos. Facilmente acabará submersa pelo mundanismo espiritual, dissimulado em práticas religiosas, reuniões infecundas ou discursos vazios».[126]

114. Não estamos a falar apenas da assistência e do necessário compromisso com a justiça. Os fiéis devem responder também por uma outra forma de incoerência em relação aos pobres. Na verdade, «a pior discriminação que sofrem os pobres é a falta de cuidado espiritual […]. A opção preferencial pelos pobres deve traduzir-se, principalmente, numa solicitude religiosa privilegiada e prioritária».[127] Todavia, tal atenção espiritual aos pobres é posta em causa por certos preconceitos, mesmo por parte de cristãos, porque nos sentimos mais à vontade sem os pobres. Há quem continue a dizer: “O nosso dever é rezar e ensinar a verdadeira doutrina”. Mas, desvinculando este aspecto religioso da promoção integral, acrescentam que só o Governo deveria cuidar deles, ou que seria melhor deixá-los na miséria e ensinar-lhes antes a trabalhar. Além disso, assumem-se, às vezes, critérios pseudocientíficos para dizer que a liberdade do mercado levará naturalmente à solução do problema da pobreza. Ou ainda, opta-se por uma pastoral das ditas elites, defendendo-se que, em vez de perder tempo com os pobres, é melhor cuidar dos ricos, dos poderosos e dos profissionais, para que, através deles, seja possível alcançar soluções mais eficazes. É fácil perceber a mundanidade que se esconde por trás destas opiniões: elas levam-nos a olhar para a realidade com critérios superficiais e desprovidos de qualquer luz sobrenatural, privilegiando relações que nos tranquilizam e buscando privilégios que nos favorecem.

Doar ainda hoje

115. Convém dizer uma última palavra sobre a esmola, que hoje não goza de boa fama, frequentemente nem mesmo entre os cristãos. Não só é raramente praticada, como às vezes é até desprezada. Por um lado, reafirmo que o auxílio mais importante para uma pessoa pobre é ajudá-la a ter um bom trabalho, para que possa ter uma vida mais condizente com a sua dignidade, desenvolvendo as suas capacidades e oferecendo o seu esforço pessoal. O certo é que «a falta de trabalho é muito mais do que a falta de uma fonte de renda para poder viver. O trabalho é isto, mas é também muito mais. Ao trabalhar tornamo-nos mais pessoas, a nossa humanidade floresce, os jovens só se tornam adultos quando trabalham. A Doutrina Social da Igreja considera o trabalho humano como participação na criação que continua todos os dias, inclusive graças às mãos, à mente e ao coração dos trabalhadores».[128] Por outro lado, se ainda não existe essa possibilidade concreta, não devemos correr o risco de deixar uma pessoa abandonada à própria sorte, sem o indispensável para viver dignamente. Assim, a esmola continua a ser um momento necessário de contato, encontro e identificação com a condição do outro.

116. Para quem ama verdadeiramente, é evidente que a esmola não isenta as autoridades competentes das suas responsabilidades, nem elimina o empenho organizativo das instituições, muito menos substitui a legítima luta pela justiça. Ela convida, porém, a parar e a olhar nos olhos a pessoa pobre, tocando-a e partilhando com ela algo do que se tem. Em todo o caso, a esmola, mesmo que pequena, infunde pietas numa vida social em que todos se preocupam com o seu próprio interesse pessoal. Diz o livro dos Provérbios: «O homem de olhar generoso será abençoado, porque dá do seu pão ao pobre» (Pr 22, 9).

117. Tanto o Antigo como o Novo Testamento contêm verdadeiros hinos à esmola: «Todavia, sê generoso para com o miserável, e não o faças esperar pela esmola. […] Encerra a tua esmola nos teus celeiros, e ela te livrará de todo o mal» (Sir 29, 8.12). E Jesus retoma este ensinamento: «Vendei os vossos bens e dai-os de esmola. Arranjai bolsas que não envelheçam, um tesouro inesgotável no Céu» (Lc 12, 33).

118. A São João Crisóstomo atribuía-se a seguinte exortação: «A esmola é a asa da oração. Se não acrescentares uma asa à tua oração, ela mal poderá voar».[129] E São Gregório de Nazianzo concluía uma das suas famosas orações com estas palavras: «Se, portanto, me ouvirdes enquanto é tempo, ó servos de Cristo, irmãos e coerdeiros, visitemos Cristo, cuidemos de Cristo, alimentemos Cristo, vistamos Cristo, acolhamos Cristo, honremos Cristo: não apenas com uma refeição, como alguns; não apenas com perfumes, como Maria; não apenas com um túmulo, como José de Arimatéia; não apenas com os ritos para a sepultura, como Nicodemos, que amava Cristo apenas pela metade; não apenas com ouro, incenso e mirra, como os Magos; mas, visto que o Senhor quer misericórdia e não sacrifício […] ofereçamos esta aos pobres, para que, quando partirmos deste mundo, sejamos acolhidos por eles nos templos eternos».[130]

119. O amor e as convicções mais profundas devem ser alimentados, e isso faz-se com gestos. Permanecer no mundo das ideias e das discussões, sem gestos pessoais, frequentes e sinceros, será a ruína dos nossos sonhos mais preciosos. Por esta simples razão, como cristãos, não renunciamos à esmola. Um gesto que pode ser feito de várias maneiras, e podemos tentar fazer de forma mais eficaz, mas que deve ser feito. E será sempre melhor fazer alguma coisa do que não fazer nada. Em todo o caso, tocar-nos-á o coração. Não será a solução para a pobreza no mundo, que deve ser procurada com inteligência, tenacidade e compromisso social. Mas precisamos de praticar a esmola para tocar a carne sofredora dos pobres.

120. O amor cristão supera todas as barreiras, aproxima os que estão distantes, une os estranhos, torna familiares os inimigos, atravessa abismos humanamente insuperáveis, entra nos meandros mais recônditos da sociedade. Por sua natureza, o amor cristão é profético, realiza milagres, não tem limites: é para o impossível. O amor é sobretudo uma forma de conceber a vida, um modo de a viver. Assim, uma Igreja que não coloca limites ao amor, que não conhece inimigos a combater, mas apenas homens e mulheres a amar, é a Igreja de que o mundo hoje precisa.

121. Quer através do vosso trabalho, quer através do vosso empenho em mudar as estruturas sociais injustas, quer através daquele gesto de ajuda simples, muito pessoal e próximo, será possível que aquele pobre sinta serem para ele as palavras de Jesus: «Eu te amei» (Ap 3, 9).

Dado em Roma, junto de São Pedro, a 4 de outubro – Memória litúrgica de São Francisco de Assis – do ano 2025, primeiro do meu Pontificado.

LEÃO PP. XIV

____________________

[1] Francisco, Carta enc. Dilexit nos (24 de outubro de 2024), 170: AAS 116 (2024), 1422.

[2] Ibid., 171: AAS 116 (2024), 1422-1423.

[3] Idem, Exort. ap. Gaudete et exsultate (19 de março de 2018), 96: AAS 110 (2018), 1137.

[4] Francisco, Encontro com os representantes dos meios de comunicação social (16 de março de 2013): AAS 105 (2013), 381.

[5] J. Bergoglio – A. Skorka, Sobre el cielo y la tierra (Buenos Aires 2013), 214.

[6] São Paulo VI, Homilia na Missa por ocasião da última Sessão Pública do Concílio Ecuménico Vaticano II (7 de dezembro de 1965): AAS 58 (1966), 55-56.

[7] Cf. Francisco, Exort. ap. Evangelii gaudium (24 de novembro de 2013), 187: AAS 105 (2013), 1098.

[8] Ibid., 212: AAS 105 (2013), 1108.

[9] Idem, Carta enc. Fratelli tutti (3 de outubro de 2020), 23: AAS 112 (2020), 977.

[10] Ibid, 21: AAS 112 (2020), 976.

[11] Conselho das Comunidades Europeias, Decisão (85/8/CEE) relativa a uma ação comunitária específica de luta contra a pobreza (19 de dezembro de 1984), art. 1, § 2: Jornal Oficial das Comunidades Europeias, Nº L 2/24.

[12] Cf. São João Paulo II, Catequese na Audiência Geral (27 de outubro de 1999): L’Osservatore Romano (ed. semanal em português de 30 de outubro de 1999), 24.

[13] Francisco, Exort. ap. Evangelii gaudium (24 de novembro de 2013), 197: AAS 105 (2013), 1102.

[14] Cf. Idem, Mensagem para o V Dia Mundial dos Pobres (13 de junho de 2021), 3: AAS 113 (2021), 691: «Jesus não só está do lado dos pobres, mas partilha com eles a mesma sorte. Isto constitui um forte ensinamento também para os seus discípulos de todos os tempos».

[15] Idem, Exort. ap. Evangelii gaudium (24 de novembro de 2013), 186: AAS 105 (2013), 1098.

[16] Idem, Exort. ap. Gaudete et exsultate (19 de março de 2018), 95: AAS 110 (2018), 1137.

[17] Ibid., 97: AAS 110 (2018), 1137.

[18] Idem, Exort. ap. Evangelii gaudium (24 de novembro de 2013), 194: AAS 105 (2013), 1101.

[19] Francisco, Encontro com os representantes dos meios de comunicação social (16 de março de 2013): AAS 105 (2013), 381.

[20] Conc. Ecum. Vaticano II, Const. dogm. Lumen Gentium, 8.

[21] Francisco, Exort. Ap. Evangelii gaudium (24 de novembro de 2013), 48: AAS 105 (2013), 1040.

[22] Neste capítulo proporemos alguns destes exemplos de santidade, que não pretendem ser exaustivos, mas ser uma representação do cuidado com os pobres que sempre marcou a presença da Igreja no mundo. Uma detalhada reflexão sobre a história desta atenção eclesial aos mais pobres encontra-se no livro de V. Paglia, Storia della povertà (Milão 2014).

[23] Cf. Santo Ambrósio, De officiis ministrorum I, cap. 41, 205-206: CCSL 15 (Turnhout 2000), 76-77; II, cap. 28, 140-143: CCSL 15, 148-149.

[24] Ibid. II, cap. 28, 140: CCSL 15, 148.

[25] Ibidem.

[26] Ibid. II, cap. 28, 142: CCSL 15, 148.

[27] Santo Inácio de Antioquia, Epistula ad Smyrnaeos, 6, 2: SCh 10bis (Paris 2007), 136-138.

[28] São Policarpo, Epistula ad Philippenses, 6, 1: SCh 10bis, 186.

[29] São Justino, Apologia prima, 67, 6-7: SCh 507 (Paris 2006), 310.

[30] São João Crisóstomo, Homiliae in Matthaeum, 50, 3: PG 58 (Paris 1862), 508.

[31] Ibid., 50, 4: PG 58, 509.

[32] Idem, Homiliae in Epistula ad Hebraeos, 11, 3: PG 63 (Paris 1862), 94.

[33] Idem, Homilia II De Lazaro, 6: PG 48 (Paris 1862), 992.

[34] Santo Ambrósio, De Nabuthae, 12, 53: CSEL 32/2 (Praga-Viena-Leipzig 1897), 498.

[35] Santo Agostinho, Enarrationes in Psalmos, 125, 12: CSEL 95/3 (Viena 2001), 181.

[36] Idem, Sermo LXXXVI, 5: CCSL 41Ab (Tournhout 2019), 411-412.

[37] Pseudoagostinho, Sermo CCCLXXXVIII, 2: PL 39 (Paris 1862), 1700.

[38] São Cipriano, De mortalitate, 16: CCSL 3A (Turnhout 1976), 25.

[39] Francisco, Mensagem para o XXX Dia Mundial do Doente (10 de dezembro de 2021), 3: AAS 114 (2022), 51.

[40] São Camilo de Lélis, Regras da Companhia dos Servos dos Enfermos, 27: M. Vanti (ed.), Scritti di San Camillo de Lellis (Milão 1965), 67.

[41] Santa Luísa de Marillac, Carta às Irmãs Claude Carré e Marie Gaudoin (28 de novembro de 1657): É. Charpy (ed.), Sainte Louise de Marillac, Écrits (Paris 1983), 576.

[42] São Basílio Magno, Regulae fusius tractatae, 37, 1: PG 31 (Paris 1857), 1009 c-d.

[43] Regula Benedicti, 53, 15: SCh 182 (Paris 1972), 614.

[44] São João Cassiano, Collationes XIV, 10: CSEL 13 (Viena 2004), 410.

[45] Bento XVI, Catequese na Audiência Geral (21 de outubro de 2009): L’Osservatore Romano (ed. semanal em português de 24 de outubro de 2009), 32.

[46] Cf. Inocêncio III, Bula Operante divinæ dispositionis Regra primitiva dos Trinitários (17 de dezembro de 1198), 2: J. L. Aurrecoechea – A. Moldón (eds.), Fuentes históricas de la Orden Trinitaria - s. XII -XV (Córdoba 2003), 6: «Todos os bens, de onde quer que licitamente provenham, os dividam em três partes iguais; e enquanto duas partes serão suficientes, realizem com elas obras de misericórdia, junto a um moderado sustento de si mesmo e dos domésticos, que por necessidade estão a seu serviço. Porém, a terceira parte seja reservada para a redenção dos cativos por causa de sua fé em Cristo».

[47] Cf. Constituições da Ordem dos Mercedários, n. 14: Orden de la Bienaventurada Virgen María de las Mercedes, Regla y Constituciones (Roma 2014), 53: «Para cumprir essa missão, animados pela caridade, nos consagramos a Deus com um voto peculiar, chamado de Redenção, em virtude do qual prometemos dar a vida como Cristo a entregou por nós, se for necessário, para salvar os cristãos que se encontram em extremo perigo de perder sua fé, nas novas formas de cativeiro».

[48] Cf. São João Batista da Conceição, La regla de la Orden de la Santísima Trinidad, XX, 1: BAC Maior 60 (Madri 1999), 90: «Nisto os pobres e cativos são semelhantes a Cristo, em quem são depositadas as penas do mundo [...]. A eles, esta santa Ordem da Santíssima Trindade convoca e convida a que venham beber da água do Salvador, o que quer dizer que, se Cristo suspenso na cruz foi redenção e salvação para os homens, a Ordem tomou esta redenção e a quer distribuir aos pobres e salvar e libertar aos cativos».

[49] Cf. Idem, El recogimiento interior, XL, 4: BAC Maior 48 (Madri 1995), 689: «O livre arbítrio faz do homem livre e senhor entre todas as criaturas, mas, valha-me Deus!, quantos são os que, por esse caminho, tornam-se escravos e cativos do demónio, presos e acorrentados por suas paixões e concupiscências».

[50] Francisco, Mensagem para o XLVIII Dia Mundial da Paz (8 de dezembro de 2014), 3: AAS 107 (2015), 69.

[51] Idem, Encontro com os agentes penitenciários, detentos e voluntários (Verona, 18 de maio de 2024): AAS 116 (2024), 766.

[52] Honório III, Bula Solet annuereRegula bullata (29 de novembro de 1223), cap. VI: SCh 285 (Paris 1981), 192.

[53] Cf. Gregório IX, Bula Sicut manifestum est (17 de setembro de 1228), 7: SCh, 325 (Paris 1985), 200: «Sicut igitur supplicastis, altissimae paupertatis propositum vestrum favore apostolico roboramus, auctoritate vobis praesentium indulgentes, ut recipere possessiones a nullo compelli possitis».

[54] Cf. S. Tugwell (ed.), Early Dominicans. Selected Writings (Mahwah 1982), 16-19.

[55] Tomás de Celano, Vita Secunda – pars prima, cap. IV, 8: AnalFranc 10 (Florença 1941), 135.

[56] Francisco, Discurso após a visita à tumba do Pe. Lorenzo Milani (Barbiana, 20 de junho de 2017), 2: AAS 109 (2017), 745.

[57] São João Paulo II, Discurso aos participantes no Capítulo Geral dos Clérigos Regulares Pobres da Madre de Deus das Escolas Pias (5 de junho de 1997), 2: L’Osservatore Romano (ed. semanal em português de 19 de junho de 1997), 5.

[58] Ibidem.

[59] Idem, Homilia na Missa de Canonização (18 de abril de 1999): AAS 91 (1999), 930.

[60] Cf. Idem, Carta Iuvenum Patris (31 de janeiro de 1988), 9: AAS 80 (1988), 976.

[61] Cf. Francisco, Discurso aos participantes no Capítulo Geral do Instituto da Caridade (1º de outubro de 2018): L’Osservatore Romano (ed. semanal em português de 6 de novembro de 2018), 11.

[62] Idem, Homilia na Missa de Canonização (9 de outubro de 2022): AAS 114 (2022), 1338.

[63] São João Paulo II, Mensagem à Congregação das Missionárias do Sagrado Coração (31 de maio de 2000), 3: L’Osservatore Romano (ed. semanal em português de 29 de julho de 2000), 2.

[64] Cf. Pio XII, Breve ap. Superiore iam ætate (8 de setembro de 1950): AAS 43 (1951), 455-456.

[65] Francisco, Mensagem para o CV Dia Mundial do Migrante e do Refugiado (27 de maio de 2019): AAS 111 (2019), 911.

[66] Idem, Mensagem para o C Dia Mundial do Migrante e do Refugiado (5 de agosto de 2013): AAS 105 (2013), 930.

[67] Santa Teresa de Calcutá, Discurso de aceitação do Prêmio Nobel da Paz (Oslo, 10 de dezembro de 1979): Idem, Aimer jusqu’à en avoir mal (Lião 2017), 19-20.

[68] São João Paulo II, Discurso aos peregrinos vindos a Roma para a Beatificação de Madre Teresa de Calcutá (20 de outubro de 2003), 3: L’Osservatore Romano (ed. semanal em português de 25 de outubro de 2003), 4.

[69] Francisco, Homilia na Missa de Canonização (13 de outubro de 2019): AAS 111 (2019), 1712.

[70] São João Paulo II, Carta ap. Novo millennio ineunte (6 de janeiro de 2001), 49: AAS 93 (2001), 302.

[71] Francisco, Exort. ap. Christus vivit (25 de março de 2019), 231: AAS 111 (2019), 458.

[72] Idem, Discurso aos participantes do Encontro mundial dos movimentos populares (28 de outubro de 2014): AAS 106 (2014), 851-852.

[73] Ibid.: AAS 106 (2014), 859.

[74] Idem, Discurso aos participantes do Encontro mundial dos movimentos populares (5 de novembro de 2016): L’Osservatore Romano (ed. semanal em português de 10 de novembro de 2016), 12.

[75] Ibidem.

[76] São João XXIII, Radiomensagem a todos os fiéis do mundo a um mês da abertura do Concílio Ecuménico Vaticano II (11 de setembro de 1962): AAS 54 (1962), 682.

[77] G. Lercaro, Intervenção na XXXV Congregação Geral do Concílio Ecuménico Vaticano II (6 de dezembro de 1962), 2: AS I/IV, 327-328.

[78] Ibid., 4: AS I/IV, 329.

[79] Istituto per le Scienze Religiose (ed.), Per la forza dello Spirito. Discorsi conciliari del Card. Giacomo Lercaro (Bolonha 1984), 115.

[80] São Paulo VI, Alocução na solene inauguração da II sessão do Concílio Ecuménico Vaticano II (29 de setembro de 1963): AAS 55 (1963), 857.

[81] Idem, Catequese na Audiência Geral (11 de novembro de 1964): Insegnamenti di Paolo VI, II (1964), 984.

[82] Conc. Ecum. Vaticano II, Const. past. Gaudium et spes, 69.71.

[83] São Paulo VI, Carta enc. Populorum progressio (26 de março de 1967), 23: AAS 59 (1967), 269.

[84] Cf. ibid., 4: AAS 59 (1967), 259.

[85] São João Paulo II, Carta enc. Sollicitudo rei socialis (30 de dezembro de 1987), 42: AAS 80 (1988), 572.

[86] Ibid.: AAS 80 (1988), 573.

[87] Idem, Carta enc. Laborem exercens (14 de setembro de 1981), 3: AAS 73 (1981), 584.

[88] Bento XVI, Carta enc. Caritas in veritate (29 de junho de 2009), 7: AAS 101 (2009), 645.

[89] Ibid., 27: AAS 101 (2009), 661.

[90] II Conferência Geral do Episcopado Latino-Americano e do Caribe, Documento de Medellín (24 de outubro de 1968), 14, n. 7: CELAM, Medellín – Conclusiones (Lima 2005), 131-132.

[91] Francisco, Exort. ap. Evangelii gaudium (24 de novembro de 2013), 202: AAS 105 (2013), 1105.

[92] Ibid., 205: AAS 105 (2013), 1106.

[93] Ibid., 190: AAS 105 (2013), 1099.

[94] Ibid., 56: AAS 105 (2013), 1043.

[95] Idem, Carta enc. Dilexit nos (24 de outubro de 2024), 183: AAS 116 (2024), 1427.

[96] São João Paulo II, Carta enc. Centesimus annus (1º de maio de 1991), 41: AAS 83 (1991), 844-845.

[97] Francisco, Exort. ap. Evangelii gaudium (24 de novembro de 2013), 202: AAS 105 (2013), 1105.

[98] Ibidem.

[99] Idem, Carta enc. Fratelli tutti (3 de outubro de 2020), 22: AAS 112 (2020), 976.

[100] Idem, Exort. ap. Evangelii gaudium (24 de novembro de 2013), 209: AAS 105 (2013), 1107.

[101] Idem, Carta enc. Laudato si’ (24 de maio de 2015), 50: AAS 107 (2015), 866.

[102] Idem, Exort. ap. Evangelii gaudium (24 de novembro de 2013), 210: AAS 105 (2013), 1107.

[103] Idem, Carta enc. Laudato si’ (24 de maio de 2015), 43: AAS 107 (2015), 863.

[104] Ibid., 48: AAS 107 (2015), 865.

[105] Idem, Exort. ap. Evangelii gaudium (24 de novembro de 2013), 180: AAS 105 (2013), 1095.

[106] Congregação para a Doutrina da Fé, Instrução sobre alguns aspectos da “Teologia da libertação” (6 de agosto de 1984), XI, 18: AAS 76 (1984), 907-908.

[107] V Conferência Geral do Episcopado Latino-Americano e do Caribe, Documento de Aparecida (29 de junho de 2007), n. 392 (São Paulo 2007), p. 177. Cf. Bento XVI, Discurso na sessão inaugural dos trabalhos da V Conferência Geral do Episcopado Latino-Americano e do Caribe (13 de maio de 2007), 3: AAS 99 (2007), 450.

[108] Cf. V Conferência Geral do Episcopado Latino-Americano e do Caribe, Documento de Aparecida (29 de junho de 2007), nn. 43-87, pp. 31-47.

[109] Idem, Mensagem final (29 de maio de 2007), n. 4 (São Paulo 2007), p. 271.

[110] Idem, Documento de Aparecida (29 de junho de 2007), n. 398, p. 180.

[111] Francisco, Exort. ap. Evangelii gaudium (24 de novembro de 2013), 199: AAS 105 (2013), 1103-1104.

[112] Ibid., 198: AAS 105 (2013), 1103.

[113] Ibidem.

[114] V Conferência Geral do Episcopado Latino-Americano e do Caribe, Documento de Aparecida (29 de junho de 2007), n. 397, p. 179.

[115] Francisco, Carta enc. Fratelli tutti (3 de outubro de 2020), 64: AAS 112 (2020), 992.

[116] Idem, Exort. ap. Gaudete et exsultate (19 de março de 2018), 98: AAS 110 (2018), 1137.

[117] Idem, Carta enc. Fratelli tutti (3 de outubro de 2020), 65-66: AAS 112 (2020), 992.

[118] São Gregório Magno, Homilia 40, 10: SCh 522 (Paris 2008), 552.554.

[119] Ibid., 6: SCh 522, 546.

[120] Ibid., 3: SCh 522, 536.

[121] São João Paulo II, Carta enc. Centesimus annus (1º de maio de 1991), 57: AAS 83 (1991), 862-863.

[122] Francisco, Vigília de Pentecostes com os movimentos eclesiais (18 de maio de 2013): L’Osservatore Romano (ed. semanal em português de 26 de maio de 2013), 11.

[123] Idem, Exort. ap. Evangelii gaudium (24 de novembro de 2013), 186: AAS 105 (2013), 1098.

[124] Ibid., 188: AAS 105 (2013), 1099.

[125] Cf. ibid., 182-183: AAS 105 (2013), 1096-1097.

[126] Ibid., 207: AAS 105 (2013), 1107.

[127] Ibid., 200: AAS 105 (2013), 1104.

[128] Idem, Discurso por ocasião do encontro com o mundo do trabalho na fábrica ILVA de Génova (27 de maio de 2017): AAS 109 (2017), 613.

[129] Pseudocrisóstomo, Homilia de jejunio et eleemosyna: PG 48, 1060.

[130] São Gregório Nazianzeno, Oratio XIV, 40: PG 35 (Paris 1886), 910.

[01290-PO.01] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

ADHORTACJA APOSTOLSKA

DILEXI TE

OJCA ŚWIĘTEGO

LEONA XIV

O MIŁOŚCI DO UBOGICH

1. „Umiłowałem cię” (Ap3, 9), mówi Pan do wspólnoty chrześcijańskiej, która, w przeciwieństwie do innych, nie miała żadnego znaczenia ani zasobów, a była narażona na przemoc i pogardę: „Chociaż moc masz znikomą (…) sprawię, iż przyjdą i padną na twarz do twych stóp” (Ap3, 8–9). Tekst ten przywodzi na myśl słowa kantyku Maryi: „Strącił władców z tronu, a wywyższył pokornych. Głodnych nasycił dobrami, a bogatych z niczym odprawił” (Łk1, 52–53).

2. Wyznanie miłości z Apokalipsy odsyła do niewyczerpanej tajemnicy, którą Papież Franciszek zgłębił w EncykliceDilexit noso miłości ludzkiej i Bożej Serca Jezusa Chrystusa. Podziwialiśmy w niej sposób, w jaki Jezus identyfikował się „z tymi, którzy w hierarchii społecznej stoją najniżej”, i jak swoją miłością, daną do końca, ukazał godność każdego człowieka, zwłaszcza gdy „jest słabszy, bardziej nieszczęśliwy i cierpiący”[1]. Kontemplacja miłości Chrystusa „pomaga nam zwracać większą uwagę na cierpienie i potrzeby innych, czyni nas wystarczająco silnymi, aby uczestniczyć w Jego dziele zbawczym, jako narzędzia Jego miłości”[2].

3. Z tego powodu, nawiązując wprost do EncyklikiDilexit nos, Papież Franciszek w ostatnich miesiącach swojego życia przygotowywał adhortację apostolską poświęconą trosce Kościoła o ubogich i wraz z ubogimi, zatytułowanąDilexi te, ukazując, że Chrystus zwraca się do każdego z nich, mówiąc: Siłę masz znikomą, znikomą moc, ale „Ja cię umiłowałem” (Ap3, 9). Otrzymawszy jakby w spadku ten projekt, cieszę się, że mogę go uczynić swoim – dodając kilka refleksji – i zaproponować go jeszcze na początku mojego pontyfikatu, podzielając pragnienie umiłowanego Poprzednika, aby wszyscy chrześcijanie mogli dostrzec silny związek między miłością Chrystusa a Jego wezwaniem, abyśmy stawali się bliźnimi ubogich. Także i ja uważam za konieczne, by kłaść nacisk na tę drogę uświęcenia, ponieważ w „wezwaniu do rozpoznania Go w ubogich i cierpiących objawia się samo serce Chrystusa, Jego uczucia i najgłębsze decyzje, do których każdy święty próbuje się dostosować”[3].

ROZDZIAŁ PIERWSZY

KILKA NIEZBĘDNYCH SŁÓW

4. Uczniowie Jezusa krytykowali kobietę, która wylała na Jego głowę bardzo cenny wonny olejek: „Po co takie marnotrawstwo? Przecież można było drogo to sprzedać i rozdać ubogim”. Lecz Pan rzekł do nich: „Ubogich zawsze macie u siebie, Mnie zaś nie zawsze macie” (Mt26, 8–9.11). Owa kobieta zrozumiała, że Jezus był Mesjaszem pokornym i cierpiącym, na którego należało przelać swoją miłość: jaką pociechą był ten wonny olejek na głowie, którą kilka dni później miały dręczyć ciernie! Był to oczywiście skromny gest, ale ten, kto cierpi, wie, jak wielki jest nawet mały gest czułości i jak ogromną ulgę może przynieść. Jezus rozumie to i sankcjonuje jego nieprzemijalność: „Gdziekolwiek po całym świecie głosić będą tę Ewangelię, będą również opowiadać na jej pamiątkę o tym, co uczyniła” (Mt26, 13). Prostota tego gestu ujawnia coś wielkiego. Żaden gest czułości, nawet najmniejszy, nie zostanie zapomniany, zwłaszcza jeśli jest skierowany do tych, którzy cierpią, są samotni, w potrzebie, tak jak był Pan w tamtej godzinie.

5. I właśnie w tej perspektywie umiłowanie Pana łączy się z miłością do ubogich. Ten Jezus, który mówi: „Ubogich zawsze macie u siebie” (Mt26, 11), wyraża to samo znaczenie, gdy obiecuje uczniom: „Ja jestem z wami przez wszystkie dni” (Mt28, 20). A jednocześnie przychodzą nam na myśl słowa Pana: „Wszystko, co uczyniliście jednemu z tych braci moich najmniejszych, Mnieście uczynili” (Mt25, 40). Nie znajdujemy się w perspektywie dobroczynności, lecz Objawienia: kontakt z tymi, którzy nie mają władzy i wielkości, jest fundamentalnym sposobem spotkania z Panem dziejów. W ubogich On ma nam wciąż coś do powiedzenia.

Św. Franciszek

6. Papież Franciszek, wspominając decyzję dotyczącą swego imienia, opowiedział, że po wyborze pewien zaprzyjaźniony kardynał uściskał go, ucałował i powiedział: „Nie zapominaj o ubogich!”[4]. Chodzi o to samo zalecenie, jakie władze kościelne skierowały do św. Pawła, gdy udał się do Jerozolimy, aby zweryfikować swoją misję (por.Ga2, 1–10). Po latach Apostoł może stwierdzić: „[To] też gorliwie starałem się czynić” (Ga2, 10). I był to również wybór św. Franciszka z Asyżu. W trędowatym objął go sam Chrystus, zmieniając jego życie. Świetlana postać Biedaczyny nigdy nie przestanie nas inspirować.

7. To on, osiem wieków temu, spowodował ewangeliczne odrodzenie chrześcijan i społeczeństwa swoich czasów. Początkowo bogaty i zuchwały, młody Franciszek odrodził się po zderzeniu z rzeczywistością ludzi wykluczonych z życia społecznego. Impuls, jaki nadał, nie przestaje poruszać dusz ludzi wierzących i wielu niewierzących oraz „zmienił historię”[5]. Na tej drodze, według słów św. Pawła VI, znajduje się Sobór Watykański II: „Dawna przypowieść o miłosiernymSamarytaninie stała się paradygmatem soborowej duchowości”[6]. Jestem przekonany, że priorytetowa opcja na rzecz ubogich rodzi niezwykłą odnowę zarówno w Kościele, jak i w społeczeństwie, kiedy jesteśmy zdolni do wyzwolenia się z autoreferencyjności i udaje się nam wsłuchać się w ich wołanie.

Wołanie ubogich

8. W tym kontekście istnieje fragment Pisma Świętego, od którego zawsze należy zacząć. Chodzi o objawienie się Boga Mojżeszowi przy płonącym krzewie: „Dosyć napatrzyłem się na udrękę ludu mego w Egipcie i nasłuchałem się narzekań jego na ciemięzców, znam więc jego uciemiężenie. Zstąpiłem, aby go wyrwać (…) Idź przeto teraz, oto posyłam cię” (Wj3, 7–8.10)[7]. Bóg okazuje troskę o potrzeby ubogich: „wołali do Pana i Pan wzbudził im wybawiciela” (Sdz3, 15). Dlatego wsłuchując się w wołanie ubogiego, jesteśmy wezwani do utożsamienia się z sercem Boga, który troszczy się o potrzeby swoich dzieci, a zwłaszcza najbardziej potrzebujących. Jeśli natomiast pozostalibyśmy obojętni na to wołanie, ubogi wołałby do Pana przeciwko nam, a my obciążylibyśmy się grzechem (por.Pwt15, 9) i oddalilibyśmy się od samego serca Boga.

9. Los ubogich stanowi krzyk, który w historii ludzkości nieustannie domaga się odpowiedzi: od naszego życia, naszych społeczeństw, systemów politycznych i ekonomicznych, a także – co nie mniej ważne – od Kościoła. Na zranionych twarzach ubogich odnajdujemy cierpienie niewinnych, a zatem i cierpienie samego Chrystusa. Jednocześnie, może powinniśmy mówić raczej o wielu twarzach ubogich i ubóstwa, ponieważ jest to zjawisko zróżnicowane; istnieją bowiem różne formy ubóstwa: ubóstwo tych, którzy nie mają środków materialnych do życia, ubóstwo tych, którzy są wykluczeni społecznie i nie mają możliwości wyrażenia swojej godności i swoich zdolności, ubóstwo moralne i duchowe, ubóstwo kulturowe, ubóstwo tych, którzy znajdują się w sytuacji osobistej lub społecznej słabości lub kruchości, ubóstwo tych, którzy nie mają praw, nie mają przestrzeni, nie mają wolności.

10. W tym sensie można powiedzieć, że zaangażowanie na rzecz ubogich i eliminacji społecznych i strukturalnych przyczyn ubóstwa, choć stało się ono ważne w ostatnich dziesięcioleciach, pozostaje nadal niewystarczające; również dlatego, że społeczeństwa, w których żyjemy, często faworyzują kryteria kierowania życiem i polityką naznaczone licznymi nierównościami, a zatem do starych form ubóstwa, których jesteśmy świadomi i które staramy się zwalczać, dołączają nowe, czasem bardziej subtelne i niebezpieczne. Z tego punktu widzenia należy z zadowoleniem przyjąć fakt, że Organizacja Narodów Zjednoczonych uznała walkę z ubóstwem za jeden z celów milenijnych.

11. Konkretnemu zaangażowaniu na rzecz ubogich powinna towarzyszyć zmiana mentalności, która może wpłynąć na poziom kulturowy. Iluzja szczęścia, które wynika z dostatniego życia, popycha bowiem wiele osób do postrzegania egzystencji w kategoriach gromadzenia bogactwa i osiągania sukcesu społecznego za wszelką cenę, nawet kosztem innych i wykorzystując niesprawiedliwe ideały społeczne oraz systemy polityczno-ekonomiczne faworyzujące najsilniejszych. W ten sposób w świecie, w którym coraz więcej osób jest biednych, paradoksalnie obserwujemy również rozwój elit bogatych, żyjących w bańce bardzo komfortowych i luksusowych warunków, niemal w innym świecie niż zwykli ludzie. Oznacza to, że nadal istnieje – czasami dobrze zamaskowana – kultura, która pozbywa się innych, nawet nie zdając sobie z tego sprawy, i toleruje z obojętnością fakt, że miliony ludzi umierają z głodu lub żyją w warunkach niegodnych istoty ludzkiej. Kilka lat temu fotografia martwego dziecka leżącego na plaży nad Morzem Śródziemnym wywołała ogromne poruszenie; niestety, poza chwilowym wzruszeniem, podobne wydarzenia stają się coraz mniej istotne jako wiadomości marginalne.

12.W kwestii ubóstwa nie możemy tracić czujności. Szczególnie niepokoją nas trudne warunki, w jakich żyje wiele osób z powodu braku żywności i wody.Każdego dnia umiera kilka tysięcy osób z przyczyn wywołanych niedożywieniem. Nawet w krajach bogatych dane dotyczące liczby osób ubogich są nie mniej niepokojące. W Europie coraz więcej rodzin z trudem wiąże koniec z końcem. Ogólnie rzecz biorąc, dostrzega się nasilenie różnych przejawów ubóstwa. Nie jest to już stan jednolity i jednorodny, lecz objawia się w różnych formach zubożenia ekonomicznego i społecznego, odzwierciedlając zjawisko rosnących nierówności nawet w środowiskach na ogół zamożnych. Pamiętajmy, że „podwójnie biedne są kobiety narażone na sytuacje wykluczenia, złego traktowania i przemocy, ponieważ często mają mniejsze możliwości obrony swoich praw. Jednakże pośród nich także cały czas znajdujemy najbardziej godne podziwu gesty codziennego heroizmu w obronie i w zatroskaniu o kruchość ich rodzin”[8]. Chociaż w niektórych krajach obserwuje się istotne zmiany, „organizacja społeczeństw na całym świecie jest nadal daleka od wyraźnego ukazania, iż kobiety mają dokładnie taką samą godność i prawa jak mężczyźni. Słowa mówią jedno, ale decyzje i rzeczywistość wykrzykują inne przesłanie”[9] , zwłaszcza gdy myślimy o kobietach najuboższych.

Uprzedzenia ideologiczne

13. Poza danymi – które czasami są „interpretowane” w taki sposób, aby przekonać, że sytuacja ubogich nie jest tak poważna – realia ogólnie rzecz biorąc są dość jasne: „Istnieją zasady ekonomiczne, które okazały się skuteczne dla rozwoju, chociaż nie w tej samej mierze dla integralnego rozwoju człowieka. Wzrosło bogactwo, ale pozbawione równości, co prowadzi do powstawania «nowych form ubóstwa». Kiedy mówimy, że współczesny świat ograniczył ubóstwo, czynimy to, mierząc je kryteriami z dawnych czasów, których nie da się porównać z dzisiejszą rzeczywistością. W innych czasach bowiem, na przykład, brak dostępu do energii elektrycznej nie był uważany za oznakę ubóstwa ani nie był powodem wielkiego udręczenia. Ubóstwo jest zawsze analizowane i rozumiane w kontekście rzeczywistych możliwości danego momentu historycznego”[10]. Jednak, poza konkretnymi sytuacjami i kontekstami, w jednym z dokumentów Wspólnoty Europejskiej, z 1984 r., stwierdzono, że „za dotkniętych ubóstwem uznaje się: osoby, rodziny i grupy osób, których zasoby (materialne, kulturowe i społeczne) są tak bardzo ograniczone, iż powodują wykluczenie ich z minimalnego akceptowalnego sposobu życia w Kraju Członkowskim, w którym osoby te mieszkają”[11]. Jeśli jednak uznamy, że wszystkie istoty ludzkie mają tę samą godność, niezależnie od miejsca swego urodzenia, nie można ignorować ogromnych różnic istniejących między krajami i regionami.

14. Ubodzy nie istnieją przez przypadek lub z powodu ślepego i gorzkiego losu. A już na pewno, dla większości z nich, ubóstwo nie jest wyborem. Są jednak wciąż tacy, którzy ośmielają się tak twierdzić, wykazując się ślepotą i okrucieństwem. Oczywiście, wśród ubogich są też tacy, którzy nie chcą pracować, może dlatego, że ich przodkowie, którzy pracowali przez całe życie, zmarli w biedzie. Ale jest wielu – mężczyzn i kobiet – którzy mimo to pracują od rana do wieczora, być może zbierając makulaturę lub wykonując inne czynności tego rodzaju, choć wiedzą, że ten ich wysiłek służy jedynie przetrwaniu, a nigdy tak naprawdę poprawie ich życia. Nie możemy twierdzić, że większość biednych jest nimi dlatego, że nie zdobyła sobie „zasług”, zgodnie z tą fałszywą wizją merytokracji, według której wydaje się, że zasługi mają jedynie ci, którzy osiągnęli sukces w życiu.

15. Niejednokrotnie także chrześcijanie pozwalają się zarazić postawami naznaczonymi światowymi ideologiami lub orientacjami politycznymi i ekonomicznymi, które prowadzą do niesprawiedliwych uogólnień i mylnych wniosków. Fakt, że praktykowanie miłosierdzia bywa pogardzane lub ośmieszane – jakby było jedynie obsesją niektórych, a nie żarliwym centrum misji Kościoła – skłania mnie do przekonania, iż należy zawsze, i nieustannie, czytać Ewangelię, aby nie narażać się na ryzyko zastąpienia jej mentalnością światową. Nie można zapomnieć o ubogich, jeśli nie chcemy wypaść z żywego nurtu Kościoła, który wypływa z Ewangelii i ożywia każdą epokę historyczną.

ROZDZIAŁ DRUGI

BÓG WYBIERA UBOGICH

Wybór ubogich

16. Bóg jest miłością miłosierną, a Jego plan miłości, który rozciąga się i realizuje w historii, polega przede wszystkim na tym, że zstąpił i przyszedł między nas, aby wyzwolić nas z niewoli, strachu, grzechu i mocy śmierci. Spoglądając z miłosierdziem i z sercem przepełnionym miłością, zwrócił się On do swoich stworzeń, troszcząc się o ich ludzką kondycję, a zatem i pochylając się nad ich ubóstwem. Właśnie po to, aby mieć udział w ograniczeniach i słabościach naszej ludzkiej natury, sam stał się ubogim, narodził się w ciele jak my i poznaliśmy Go w małości dzieciątka złożonego w żłobie oraz w skrajnym upokorzeniu krzyża, gdzie podzielił nasze radykalne ubóstwo, jakim jest śmierć. Łatwo zatem zrozumieć, dlaczego także teologicznie można mówić o preferencyjnej opcji Boga na rzecz ubogich; wyrażenie to powstało na kontynencie latynoamerykańskim podczas Zgromadzenia w Puebla, ale zostało na dobre zintegrowane z późniejszym nauczaniem Kościoła[12]. Ta „preferencja” nigdy nie oznacza wykluczenia lub dyskryminacji innych grup, co w Bogu byłoby niemożliwe. Ma ona na celu podkreślenie działania Boga, który odnosi się ze współczuciem do ubóstwa i słabości całej ludzkości i który, pragnąc zapoczątkować Królestwo sprawiedliwości, braterstwa i solidarności, ma szczególnie na sercu tych, którzy są dyskryminowani i uciskani, wymagając również od nas, od swojego Kościoła, zdecydowanego i radykalnego opowiedzenia się po stronie najsłabszych.

17. W tej perspektywie należy rozumieć liczne karty Starego Testamentu, w których Bóg przedstawiany jest jako przyjaciel i wyzwoliciel ubogich, Ten, który słyszy wołanie biedaka i interweniuje, aby go wybawić (por.Ps34, 7). Bóg, ucieczka biednych, poprzez proroków – wspominamy tu zwłaszcza Amosa i Izajasza – piętnuje nieprawości wyrządzane najsłabszym i wzywa Izraela do odnowienia od wewnątrz także kultu, ponieważ nie można modlić się i składać ofiar, jednocześnie uciskając najsłabszych i najbiedniejszych. Od samego początku Pismo Święte z taką żywą intensywnością objawia miłość Boga poprzez opiekę nad słabymi i ubogimi, że można by mówić o pewnego rodzaju „słabości” Boga wobec nich. „W sercu Boga jest preferencyjne miejsce dla ubogich (…). Cała droga naszego odkupienia naznaczona jest ubogimi”[13].

Jezus – ubogi Mesjasz

18. Całe starotestamentowe dzieje Bożego upodobania w ubogich oraz Boże pragnienie, by wysłuchać ich wołania – które krótko przypomniałem – znajduje swoje pełne urzeczywistnienie w Jezusie z Nazaretu[14]. On w swoim wcieleniu „ogołocił samego siebie, przyjąwszy postać sługi, stając się podobnym do ludzi. A w zewnętrznej postaci uznany za człowieka” (Flp2, 7) i w tej postaci przyniósł nasze zbawienie. Chodzi o radykalne ubóstwo, oparte na Jego misji objawienia prawdziwego oblicza Bożej miłości (por.J1, 18;1 J4, 9). Dlatego też św. Paweł w jednej ze swoich cudownych syntez może stwierdzić: „Znacie przecież łaskę Pana naszego, Jezusa Chrystusa, który będąc bogatym, dla was stał się ubogim, aby was ubóstwem swoim ubogacić” (2 Kor8, 9).

19. Istotnie, Ewangelia pokazuje, że to ubóstwo dotykało każdego aspektu Jego życia. Od chwili przyjścia na świat Jezus doświadczał trudności związanych z odrzuceniem. Ewangelista Łukasz, opowiadając o przybyciu do Betlejem Józefa i Maryi, która była już bliska porodu, zauważa z ubolewaniem: „Nie było dla nich miejsca w gospodzie” (Łk2, 7). Jezus urodził się w skromnych warunkach; zaraz po narodzeniu został położony w żłobie; a wkrótce potem, aby ocalić Go od śmierci, Jego rodzice uratowali się ucieczką do Egiptu (por.Mt2, 13–15). Na początku swojego życia publicznego został wyrzucony z Nazaretu, po tym jak w synagodze ogłosił, że w Nim wypełnił się rok łaski, z powodu którego radują się ubodzy (por.Łk4, 14–30). Nie było dla Niego godnego miejsca nawet na śmierć: wyprowadzono Go poza Jerozolimę na ukrzyżowanie (por.Mk15, 22). Właśnie w tej sytuacji można wyraźnie podsumować ubóstwo Jezusa. Chodzi o to samo wykluczenie, które cechuje definicję ubogich: są oni wykluczeni ze społeczeństwa. Jezus jest objawieniem tegoprivilegium pauperum. On ukazuje się światu nie tylko jako ubogi Mesjasz, ale także jako Mesjasz ubogich i dla ubogich.

20.Istniejekilka oznak wskazujących na status społeczny Jezusa. Przede wszystkim wykonywał On zawód rzemieślnika lub cieśli,téktōn(por.Mk6, 3). Była to grupa ludzi utrzymujących się z pracy fizycznej. Ponieważ nie byli właścicielami ziemi, uważano ich za gorszych od rolników. Kiedy mały Jezus został przedstawiony w świątyni przez Józefa i Maryję, Jego rodzice ofiarowali parę synogarlic lub gołębi (por.Łk2, 22–24), co zgodnie z przepisami Księgi Kapłańskiej (por. 12, 8) było ofiarą ubogich. Dość znaczącym epizodem ewangelicznym jest ten, w którym Jezus, przechodząc przez pola wraz ze swoimi uczniami, zbierał kłosy, aby się nimi pożywić (por.Mk2, 23–28), a zbieranie kłosów na polach było dozwolone tylko ubogim. Sam Jezus mówi o sobie: „Lisy mają nory, a ptaki podniebne – gniazda, lecz Syn Człowieczy nie ma miejsca, gdzie by głowę mógł położyć” (Mt8, 20;Łk9, 58). Jest On bowiem wędrownym nauczycielem, którego ubóstwo i niepewność są znakiem więzi z Ojcem i są one wymagane również od tych, którzy chcą podążać za Nim drogą uczniów, właśnie po to, aby wyrzeczenie się dóbr, bogactw i zabezpieczeń tego świata stało się widzialnym znakiem zawierzenia Bogu i Jego opatrzności.

21. Na początku swojej publicznej działalności Jezus pojawia się w synagodze w Nazarecie, czytając ze zwoju proroka Izajasza i odnosząc do siebie jego słowa: „Duch Pański spoczywa na Mnie, ponieważ Mnie namaścił i posłał Mnie, abym ubogim niósł dobrą nowinę” (Łk4, 18; por.Iz61, 1). Objawia się On zatem jako Ten, który przychodzi w dzisiejszej historii, aby urzeczywistnić pełną miłości bliskość Boga, która jest przede wszystkim dziełem wyzwolenia dla uwięzionych przez zło, dla słabych i ubogich. Znaki towarzyszące nauczaniu Jezusa są bowiem przejawem miłości i współczucia, z jakimi Bóg patrzy na chorych, ubogich i grzeszników, którzy ze względu na swoją sytuację byli marginalizowani zarówno przez społeczeństwo, jak i przez religię.On otwiera oczy niewidomym, uzdrawia trędowatych, wskrzesza umarłych i ogłasza ubogim dobrą nowinę: Bóg stał się bliski, Bóg was kocha (por.Łk7, 22). To wyjaśnia, dlaczego głosi: „Błogosławieni [jesteście], ubodzy, albowiem do was należy królestwo Boże” (Łk6, 20). Rzeczywiście, Bóg ma szczególne upodobanie w ubogich. To do nich przede wszystkim skierowane jest słowo nadziei i wyzwolenia Pana, dlatego nikt, nawet w ubóstwie lub słabości, nie może czuć się opuszczony. A Kościół, jeśli chce być Chrystusowym, musi być Kościołem Błogosławieństw, Kościołem, który robi miejsce małym i idzie ubogi z ubogimi, miejscem, w którym ubodzy mają uprzywilejowaną pozycję (por.J2, 2–4).

22. Biedni i chorzy, niezdolni do zapewnienia sobie niezbędnych środków do życia, często byli zmuszeni do żebrania. Do tego dochodził ciężar społecznego wstydu, podsycany przez przekonanie, że choroba i ubóstwo były powiązane z jakimś osobistym grzechem. Jezus stanowczo przeciwstawił się takiej mentalności, stwierdzając, żeBóg„sprawia, że słońce Jego wschodzi nad złymi i nad dobrymi, i On zsyła deszcz na sprawiedliwych i niesprawiedliwych” (Mt5, 45). Co więcej, całkowicie obalił tę koncepcję, czego dobrym przykładem jest przypowieść o ucztującym bogaczu i ubogim Łazarzu: „Wspomnij, synu, że za życia otrzymałeś swoje dobra, a Łazarz w podobny sposób – niedolę; teraz on tu doznaje pociechy, a ty męki cierpisz” (Łk16, 25).

23. Zatem, wydaje się oczywiste, że „z naszej wiary w Chrystusa, który stał się ubogim, będąc zawsze blisko ubogich i wykluczonych, wypływa troska o integralny rozwój najbardziej opuszczonych w społeczeństwie”[15]. Wielokrotnie zadaję sobie pytanie, dlaczego – pomimo tak przejrzystego przesłania w Piśmie Świętym w kwestii ubogich – wielu ludzi nadal myśli, że mogą wykluczyć ich z pola swojej uwagi. Pozostańmy na chwilę jeszcze w sferze biblijnej i spróbujmy zastanowić się nad naszą relacją z ostatnimi w społeczeństwie oraz nad ich fundamentalnym miejscem w Ludzie Bożym.

Miłosierdzie wobec ubogich w Biblii

24. Jan Apostoł pisze: „Kto nie miłuje brata swego, którego widzi, nie może miłować Boga, którego nie widzi” (1 J4, 20). W podobny sposób, odpowiadając uczonemu w Prawie, Jezus przywołuje dwa dawne przykazania: „Będziesz więc miłował Pana, Boga twojego, z całego swego serca, z całej duszy swojej, ze wszystkich swych sił” (Pwt6, 5) oraz „będziesz miłował bliźniego jak siebie samego” (Kpł19, 18), łącząc je w jedno przykazanie. Marek Ewangelista przytacza odpowiedź Jezusa w następujący sposób: „Pierwsze jest: Słuchaj, Izraelu, Pan Bóg nasz jest jedynym Panem. Będziesz miłował Pana, Boga swego, całym swoim sercem, całą swoją duszą, całym swoim umysłem i całą swoją mocą. Drugie jest to: Będziesz miłował swego bliźniego jak siebie samego. Nie ma innego przykazania większego od tych” (Mk12, 29–31).

25. Przytoczony fragment Księgi Kapłańskiej zachęca do szanowania swojego rodaka, podczas gdy w innych tekstach znajdujemy nauczanie, które wzywa do szacunku – jeśli nie wręcz do miłości – nawet nieprzyjaciela: „Jeśli spotkasz wołu twego wroga albo jego osła błąkającego się, odprowadź je do niego. Jeśli zobaczysz, że osioł twego wroga upadł pod swoim ciężarem, nie pozostawisz go, ale razem z nim przyjdziesz mu z pomocą” (Wj23, 4–5). Z tego wynika wewnętrzna wartość szacunku dla każdej osoby: jeśli ktokolwiek, nawet nieprzyjaciel, znajduje się w trudnej sytuacji, zawsze zasługuje na naszą pomoc.

26. Niezaprzeczalne jest, że prymat Boga w nauczaniu Jezusa łączy się z innym niezmiennym punktem, że nie można miłować Boga, nie rozszerzając swojej miłości na ubogich. Miłość bliźniego jest namacalnym dowodem autentyczności miłości Boga, jak poświadcza Jan Apostoł: „Nikt nigdy Boga nie oglądał. Jeżeli miłujemy się wzajemnie, Bóg trwa w nas i miłość ku Niemu jest w nas doskonała. (…) Bóg jest miłością: kto trwa w miłości, trwa w Bogu, a Bóg trwa w nim” (1 J4, 12.16). Są to dwie miłości odrębne, ale nierozdzielne. Także w tych przypadkach, w których relacja z Bogiem nie jest wyraźna, sam Pan uczy nas, że każdy akt miłości wobec bliźniego jest w pewien sposób odzwierciedleniem miłości Bożej: „Zaprawdę, powiadam wam: Wszystko, co uczyniliście jednemu z tych braci moich najmniejszych, Mnieście uczynili” (Mt25, 40).

27. Ztegopowodu zalecane są uczynki miłosierdzia, jako znak autentyczności kultu, który służąc oddawaniu chwały Bogu, ma za zadanie otworzyć nas na przemianę, jakiej Duch może w nas dokonać, abyśmy wszyscy stali się obrazem Chrystusa i Jego miłosierdzia wobec najsłabszych. W tym sensie relacja z Panem, która wyraża się w kulcie, ma nas również wyzwalać z ryzyka przeżywania naszych relacji w logice kalkulacji i korzyści, aby otworzyć nas na bezinteresowność przepływającą między tymi, którzy się miłują i dlatego wszystko dzielą między sobą.Dlatego Jezus radzi: „Gdy wydajesz obiad albo wieczerzę, nie zapraszaj swoich przyjaciół ani braci, ani krewnych, ani zamożnych sąsiadów, aby cię i oni nawzajem nie zaprosili, i miałbyś odpłatę. Lecz kiedy urządzasz przyjęcie, zaproś ubogich, ułomnych, chromych i niewidomych. A będziesz szczęśliwy, ponieważ nie mają czym tobie się odwdzięczyć” (Łk14, 12–14).

28. Wezwanie Pana do miłosierdzia wobec ubogich znalazło pełny wyraz w wielkiej przypowieści o sądzie ostatecznym (por.Mt25, 31–46), która jest również plastyczną ilustracją błogosławieństwa miłosiernych. W niej Pan ofiarował nam klucz do osiągnięcia naszej pełni, ponieważ „jeśli szukamy tej świętości, która podoba się Bogu, to w tym tekście możemy znaleźć regułę postępowania, na podstawie której będziemy sądzeni”[16].Mocne i jasne słowa Ewangelii powinny być przeżywane „bez komentarzy, bez elukubracji i wymówek odbierających im moc. Pan powiedział nam bardzo wyraźnie, że świętości nie można zrozumieć ani przeżywać, pomijając te Jego wymagania”[17].

29. W pierwszej wspólnocie chrześcijańskiej program miłosierdzia nie wynikał z analiz czy planów, lecz wprost z przykładu Jezusa, z samych słów Ewangelii. List Świętego Jakuba Apostoła poświęca wiele miejsca problemowi relacji między bogatymi a ubogimi, kierując do wierzących dwa bardzo mocne apele, które kwestionują ich wiarę: „Jaki z tego pożytek, bracia moi, skoro ktoś będzie utrzymywał, że wierzy, a nie będzie spełniał uczynków? Czy [sama] wiara zdoła go zbawić? Jeśli na przykład brat lub siostra nie mają odzienia lub brak im codziennego chleba, a ktoś z was powie im: «Idźcie w pokoju, ogrzejcie się i najedzcie do syta!» – a nie dacie im tego, czego koniecznie potrzebują dla ciała – to na co się to przyda? Tak też i wiara, jeśli nie byłaby połączona z uczynkami, martwa jest sama w sobie” (Jk2, 14–17).

30. „Złoto wasze i srebro zardzewiało, a rdza ich będzie świadectwem przeciw wam i toczyć będzie ciała wasze niby ogień. Zebraliście w dniach ostatecznych skarby. Oto woła zapłata robotników, żniwiarzy pól waszych, którą zatrzymaliście, a krzyk żniwiarzy doszedł do uszu Pana Zastępów. Żyliście beztrosko na ziemi i wśród dostatków tuczyliście serca wasze w dniu rzezi” (Jk5, 3–5). Jaką moc mają te słowa, nawet jeśli wolimy udawać głuchych! W Pierwszym Liście Świętego Jana Apostoła znajdujemy podobny apel: „Jeśliby ktoś posiadał na świecie majątek i widział, że brat jego cierpi niedostatek, a zamknął przed nim swe serce, jak może trwać w nim miłość Boga?” (1 J3, 17).

31. Apel Słowa objawionego „jest to przesłanie tak jasne, tak bezpośrednie, tak proste i wymowne, że żadna kościelna hermeneutyka nie ma prawa go relatywizować. Refleksja Kościoła nad tymi tekstami nie powinna ich zaciemniać lub osłabiać ich zachęcającego sensu, ale raczej pomóc przyjąć je jako własne z odwagą i zapałem. Dlaczego komplikować to, co jest tak proste? Aparaty pojęciowe istnieją po to, by ułatwiać kontakt z rzeczywistością w celu jej wyjaśnienia, a nie by od niej oddalać”[18].

32. Z drugiej strony, wyraźny kościelny przykład dzielenia się dobrami i troski o ubogich znajdujemy w codziennym życiu i stylu pierwszej wspólnoty chrześcijańskiej. Możemy tu wspomnieć w szczególności, w jaki sposób rozwiązano kwestię codziennego rozdawania jałmużny wdowom (por.Dz6, 1–6). Nie była to łatwa sprawa, również dlatego, że niektóre z tych wdów, pochodzące z innych krajów, były czasami zaniedbywane jako cudzoziemki. Rzeczywiście, epizod opisany w Dziejach Apostolskich ujawnia pewne niezadowolenie ze strony hellenistów, Żydów kultury greckiej. Apostołowie odpowiadają nie jakimiś abstrakcyjnymi przemowami, ale ponownie stawiają w centrum miłość miłosierną wobec wszystkich. Na nowo organizują pomoc dla wdów, prosząc wspólnotę o znalezienie osób mądrych i cieszących się poważaniem, którym powierzą zarządzanie stołami, podczas gdy sami zajmą się głoszeniem Słowa.

33. Kiedy Paweł udał się do Jerozolimy, aby skonsultować się z Apostołami, „czy nie biegnie lub nie biegł na próżno” (Ga2, 2), poproszono go, aby nie zapomniał o ubogich (por.Ga2, 10). W związku z tym zorganizował on różne zbiórki, aby pomóc biednym wspólnotom. Wśród powodów, które podaje dla uzasadnienia takiego postępowania, należy podkreślić następujący: „Radosnego dawcę miłuje Bóg” (2Kor9, 7). Tym z nas, którzy nie są nazbyt skłonni do wielkodusznych gestów, bez żadnego interesu, Słowo Boże wskazuje, że hojność wobec ubogich jest prawdziwym dobrem dla tych, którzy ją praktykują: bowiem postępując w ten sposób, jesteśmy w szczególny sposób kochani przez Boga. Faktycznie, biblijnych obietnic skierowanych do tych, którzy hojnie dają, jest wiele: „Pożycza Panu, kto lituje się nad biednym, za dobrodziejstwo On mu wynagrodzi” (Prz19, 17). „Dawajcie, a będzie wam dane (…). Odmierzą wam bowiem taką miarą, jaką wy mierzycie” (Łk6, 38). „Wtedy twoje światło wzejdzie jak zorza i szybko rozkwitnie twe zdrowie” (Iz58, 8). Pierwsi chrześcijanie byli o tym przekonani.

34. Życie pierwszych wspólnot kościelnych, opowiedziane w kanonie biblijnym i przekazane nam jako Słowo objawione, jest nam dane jako przykład do naśladowania, a także jako świadectwo wiary, która działa poprzez miłosierdzie, i pozostaje jako trwałe napomnienie dla przyszłych pokoleń. W ciągu wieków te karty pobudzały serca chrześcijan do miłości i do podejmowania dzieł miłosierdzia, niczym płodne ziarna, które nie przestają wydawać owoców.

ROZDZIAŁ TRZECI

KOŚCIÓŁ DLA UBOGICH

35. Trzy dni po swoim wyborze mój Poprzednik wyraził przedstawicielom mediów pragnienie, aby troska i uwaga poświęcona ubogim były wyraźniej obecne w Kościele: „Och, jakże bardzo chciałbym Kościoła ubogiego i dla ubogich!”[19].

36. To pragnienie odzwierciedla świadomość, że Kościół „w ubogich i cierpiących odnajduje wizerunek swego ubogiego i cierpiącego Założyciela, stara się ulżyć im w niedoli i w nich usiłuje służyć Chrystusowi”[20]. Będąc bowiem powołanym, by upodabniać się do ostatnich, w jego wnętrzu „nie powinno być wątpliwości ani tłumaczeń osłabiających to tak jasne przesłanie. (…) Należy stwierdzić bez ogródek, że istnieje nierozerwalna więź między naszą wiarą a ubogimi” [21]. Mamy na to liczne świadectwa w ciągu niemal dwudziestu wieków działalności uczniów Jezusa [22].

Prawdziwe bogactwo Kościoła

37. Św. Paweł wspomina, że wśród wiernych rodzącej się wspólnoty chrześcijańskiej było „niewielu mędrców, niewielu możnych, niewielu szlachetnie urodzonych” (1 Kor1, 26). Jednak pomimo swego ubóstwa, pierwsi chrześcijanie byli wyraźnie świadomi potrzeby otoczenia troską tych, którzy doświadczali większych niedostatków. Już u zarania chrześcijaństwa Apostołowie nałożyli ręce na siedmiu mężczyzn wybranych przez wspólnotę i w pewnym stopniu włączyli ich w swoją misję, ustanawiając ich dla posługi –diakoníaw języku greckim – najuboższym (por.Dz6, 1–5). Znaczące jest to, że pierwszym uczniem, który dał świadectwo o swojej wierze w Chrystusa aż do przelania własnej krwi, był Szczepan, będący częścią tej grupy. W nim łączą się świadectwo życia w trosce o ubogich i męczeństwo.

38. Nieco ponad dwa wieki później inny diakon w podobny sposób wyznał swoją wierność Jezusowi Chrystusowi, łącząc w swoim życiu służbę ubogim i męczeństwo: św. Wawrzyniec [23]. Z relacji św. Ambrożego dowiadujemy się, że Wawrzyniec, diakon w Rzymie za pontyfikatu Papieża Sykstusa II, zmuszony przez władze rzymskie do wydania skarbów Kościoła, „nazajutrz przyprowadził ubogich. Zapytany, gdzie są skarby, wskazał na ubogich i powiedział: «Oto są skarby Kościoła»”[24]. Opowiadając tę historię, Ambroży zadaje pytanie: „Jakież cenniejsze skarby Chrystus może posiadać nad tych, w których sam przebywa według własnego zapewnienia?”[25]. A przypominając, że szafarze Kościoła nie mogą nigdy zaniedbywać troski o ubogich, a tym bardziej gromadzić dóbr dla własnej korzyści, mówi: „Przysługę taką powinien cechować uczciwy zamiar i wyraźna troska. Oczywiście, jeżeli ktoś obraca to na swoją korzyść, jest to zbrodnia; jeżeli natomiast wydaje na ubogich, wykupuje jeńca, jest aktem miłosierdzia” [26].

Ojcowie Kościoła a ubodzy

39. Już od pierwszych wieków ojcowie Kościoła uznawali w ubogich uprzywilejowaną drogę przystępu do Boga, szczególny sposób spotykania Go. Miłosierdzie wobec potrzebujących było rozumiane nie tylko jako zwyczajna cnota moralna, ale jako konkretny wyraz wiary w Słowo Wcielone. Wspólnota wiernych, wspierana mocą Ducha Świętego, była zakorzeniona w bliskości wobec ubogich, których nie uważała za dodatek, ale za istotną część swojego żywego Ciała. Św. Ignacy z Antiochii na przykład, idąc na męczeńską śmierć, napominał wiernych wspólnoty w Smyrnie, aby nie zaniedbywali obowiązku miłosierdzia wobec najbardziej potrzebujących, przestrzegając ich, by nie postępowali jak ci, którzy sprzeciwiają się Bogu: „Zwróćcie uwagę, jak bardzo ci, co mają odmienne zdanie o przychodzącej do nas łasce Jezusa Chrystusa, przeciwni są myśli Bożej. O miłość nie dbają, ani o wdowy, ani o sieroty, ani o udręczonych, ani o więźniów, ani o głodujących, ani o spragnionych”[27]. Biskup Smyrny, Polikarp, wyraźnie zalecał szafarzom Kościoła, aby troszczyli się o ubogich: „Kapłani również niechaj pełni będą współczucia, miłosierni dla wszystkich. Niech sprowadzają na dobrą drogę zbłąkanych i odwiedzają wszystkich chorych, nie zaniedbując ani wdowy, ani sieroty, ani biedaka, lecz starając się czynić zawsze dobrze wobec Boga i wobec ludzi” [28]. Z tych dwóch świadectw wynika, że Kościół jawi się jako matka ubogich, miejsce gościnności i sprawiedliwości.

40. Św. Justyn, z kolei, w pierwszej Apologii skierowanej do cesarza Hadriana, do Senatu i do ludu rzymskiego, wyjaśniał, że chrześcijanie nieśli potrzebującym wszystko, co mogli, ponieważ widzieli w nich braci i siostry w Chrystusie. Pisząc o zgromadzeniu modlącym się w pierwszym dniu tygodnia, podkreślał, że w centrum liturgii chrześcijańskiej nie można oddzielić czci oddawanej Bogu od uwagi poświęconej ubogim. Dlatego w pewnym momencie celebracji „ci, którym się dobrze powodzi i którzy dobrą mają wolę, dają, co chcą, a wszystko, co się zbierze, składa się na ręce przełożonego, On zaś roztacza opiekę nad sierotami, wdowami, chorymi, albo z innej przyczyny cierpiącymi niedostatek, nad więźniami, obcymi gośćmi, jednym słowem spieszy z pomocą wszystkim, co są w potrzebie” [29]. To pokazuje, że rodzący się Kościół nie oddzielał wiary od działania społecznego: wiara, której nie towarzyszyło świadectwo uczynków, jak nauczał św. Jakub, była uważana za martwą (por.Jk2, 17).

Św. Jan Chryzostom

41. Wśród ojców wschodnich najgorętszym kaznodzieją sprawiedliwości społecznej był zapewne św. Jan Chryzostom, arcybiskup Konstantynopola na przełomie IV i V w. W swoich homiliach zachęcał wiernych, aby rozpoznawali Chrystusa w potrzebujących: „Chcesz czcić Ciało Chrystusa? Nie dopuść, aby było nagie. Uczciwszy je jedwabnymi szatami [w świątyni], nie pozwól, by na zewnątrz umierało z zimna z powodu nagości. (…) [Chrystus w Eucharystii] nie potrzebuje szat, ale czystej duszy; natomiast Chrystus w drugim człowieku wymaga wielkiego starania. Uczmy się mądrości oraz oddawania czci Chrystusowi w taki sposób, w jaki On sam sobie tego życzy. Najmilszym kultem jest dla Niego ten kult, którego On sam pragnie, a nie ten, który my za taki uważamy. (…) Zatem i ty oddawaj Mu taką cześć, jaką ustanowił, udzielając ubogim ze swego majątku. Bóg nie potrzebuje złotych naczyń, ale złotych dusz”[30]. Stwierdzając z krystaliczną jasnością, że jeśli wierni nie spotkają Chrystusa w ubogich stojących u drzwi, nie będą mogli wielbić Go nawet na ołtarzu, kontynuuje: „Cóż to za korzyść dla Niego, jeśli Jego ołtarz pełen jest złotych kielichów, a On sam umiera z głodu (w osobie biedaka)? Najpierw nasyć głodnego, a potem z tego co zostanie, przyozdób także Jego ołtarz”[31]. Z tego powodu Eucharystię rozumiał również jako sakramentalny wyraz miłosierdzia i sprawiedliwości, które ją poprzedzały, towarzyszyły jej i powinny kontynuować ją w miłości i w trosce o ubogich.

42. W związku z tym, miłosierdzie nie jest drogą opcjonalną, lecz kryterium prawdziwego kultu. Chryzostom ostro piętnował zbytni luksus, który łączył się z obojętnością wobec ubogich. Uwaga, jaką należy im poświęcić, jest czymś więcej niż tylko wymogiem społecznym – jest warunkiem zbawienia, który niesprawiedliwe bogactwo obarcza ciężarem potępienia: „Jest bardzo zimno, a biedak leży w łachmanach, umierający, przemarznięty, zgrzytając zębami, a jego wygląd i ubiór powinny was wzruszyć. Wy natomiast, spoceni i pijani, mijacie go. Jak chcecie, aby Bóg wybawił was od nieszczęścia? (…) Często przyozdabiacie nic nieczujące zwłoki, które nie pojmują już honorów, wieloma różnobarwnymi i złotymi szatami. A jednak gardzicie tym, który odczuwa ból, jest rozdzierany, torturowany, dręczony głodem i zimnem, troszcząc się bardziej o próżną chwałę niż o bojaźń Bożą”[32]. To głębokie poczucie sprawiedliwości społecznej prowadzi go do stwierdzenia, że „nie dzielić się własnymi dobrami z ubogimi znaczy okradać ich i pozbawiać życia. Posiadane przez nas dobra nie są naszymi, ale ich dobrami” [33].

Św. Augustyn

43. Mistrzem duchowym Augustyna był św. Ambroży, który kładł nacisk na etyczną konieczność dzielenia się dobrami: „Nie obdarowujesz przecież biedaka ze swego, lecz zwracasz mu to, co jest jego własnością. Sam bowiem przywłaszczasz jedynie sobie to, co należy do wszystkich”[34]. Dla Biskupa Mediolanu jałmużna jest przywróceniem sprawiedliwości, a nie gestem paternalizmu. W jego przepowiadaniu miłosierdzie nabiera charakteru proroczego: potępia struktury gromadzenia i potwierdza komunię jako powołanie kościelne.

44. Święty Biskup z Hippony, ukształtowany w tej tradycji, nauczał z kolei preferencyjnej miłości dla ubogich. Jako czujny pasterz i teolog o rzadkiej jasności umysłu, zdawał sobie sprawę, że prawdziwa kościelna komunia wyraża się również w komunii dóbr. W swoichObjaśnieniach do Psalmówprzypomina, że prawdziwi chrześcijanie nie zaniedbują miłości do najbardziej potrzebujących: „Może patrzycie na swoich braci, czy czegoś nie potrzebują. Jeżeli macie w sobie Chrystusa, użyczacie nawet obcym”[35]. Zatem, owo dzielenie się dobrami rodzi się z miłości teologalnej i ma jako ostateczny cel miłość Chrystusa. Dla Augustyna ubogi nie jest jedynie osobą, której trzeba pomóc, ale sakramentalną obecnością Pana.

45. Doktor Łaski widział w trosce o ubogich konkretny dowód szczerości wiary. Kto twierdzi, że miłuje Boga, a nie ma współczucia dla potrzebujących, ten nie mówi prawdy (por.1 J4, 20). Komentując spotkanie Jezusa z bogatym młodzieńcem i „skarb w niebie”, który jest zarezerwowany dla tych, którzy oddają swoje dobra ubogim (por.Mt19, 21), Augustyn wkłada w usta Pana następujące słowa: „Otrzymałem ziemię, dam niebo; otrzymałem dobra doczesne, oddam dobra wieczne; otrzymałem chleb, dam życie. (…) Zostałem ugoszczony w domu, ale ja dam dom; odwiedzono mnie, gdy byłem chory, ale ja dam zdrowie; nawiedzono mnie w więzieniu, ale ja dam wolność. Chleb, który daliście moim ubogim, został spożyty, ale chleb, który ja dam, nie tylko was nasyci, ale nigdy się nie skończy”[36]. Najwyższy nie pozwala się prześcignąć w hojności wobec tych, którzy służą Mu w najbardziej potrzebujących: im większa miłość do ubogich, tym większa nagroda od Boga.

46. Ta perspektywa chrystocentryczna i głęboko eklezjalna prowadzi do stwierdzenia, że ofiary, gdy rodzą się z miłości, nie tylko zaspokajają potrzeby brata, ale także oczyszczają serce dawcy, jeśli jest on gotowy do przemiany: „Jałmużna służy bowiem wymazaniu grzechów minionego życia, jeśli ktoś zmienia swoje życie”[37]. Jest to niejako zwyczajna droga nawrócenia dla tych, którzy chcą naśladować Chrystusa niepodzielnym sercem.

47. W Kościele, który w ubogich rozpoznaje oblicze Chrystusa, a w dobrach narzędzie miłosierdzia, myśl augustyńska pozostaje niezawodnym światłem. Dzisiaj wierność nauczaniu Augustyna wymaga nie tylko studiowania jego dzieł, ale także gotowości do radykalnego życia jego wezwaniem do nawrócenia, które nieodłącznie obejmuje posługę miłosierdzia.

48. Wielu innych ojców Kościoła, zarówno ze Wschodu, jak i z Zachodu, wypowiadało się na temat prymatu troski o ubogich w życiu i w misji każdego wiernego chrześcijanina. Z tej perspektywy, podsumowując, można powiedzieć, że teologia patrystyczna miała charakter praktyczny: dążyła do Kościoła ubogiego i dla ubogich, przypominając, że Ewangelia jest głoszona właściwie tylko wtedy, gdy skłania do dotknięcia ciała ostatnich, i ostrzegając, że rygor doktrynalny bez miłosierdzia jest pustą retoryką.

Troska o chorych

49. Chrześcijańskie współczucie przejawiło się w szczególny sposób w opiece nad chorymi i cierpiącymi. Na podstawie znaków, obecnych w publicznej działalności Jezusa – uzdrowienie niewidomych, trędowatych i sparaliżowanych – Kościół rozumie, że opieka nad chorymi, w których bez trudu rozpoznaje ukrzyżowanego Pana, stanowi istotną część jego misji. Św. Cyprian, podczas epidemii w mieście Kartagina, gdzie był biskupem, przypomniał chrześcijanom o znaczeniu opieki nad chorymi: „Ta zaraza, która wydaje się tak straszna i śmiertelna, wystawia na próbę sprawiedliwość każdego człowieka i sprawdza ducha ludzi, czy zdrowi służą chorym, czy krewni szczerze się miłują, czy panowie mają litość dla chorych sług, czy lekarze nie opuszczają chorych, błagających o pomoc”[38]. Chrześcijańska tradycja odwiedzania chorych, obmywania ich ran i pocieszania strapionych, nie sprowadza się jedynie do dzieła filantropijnego, ale jest działalnością kościelną, poprzez którą członkowie Kościoła – właśnie w chorych – „dotykają cierpiącego ciała Chrystusa”[39].

50. W XVI w. św. Jan Boży, zakładając Zakon Szpitalny noszący jego imię, stworzył wzorcowe szpitale, które przyjmowały wszystkich, niezależnie od statusu społecznego czy ekonomicznego. Jego słynne wyrażenie: „Bracia, czyńcie dobro!”, stało się mottem czynnej miłości wobec chorych. W tym samym czasie św. Kamil de Lellis założył Zakon Kleryków Regularnych Posługujących Chorym – kamilianów – podejmując swoją misję służenia chorym z całkowitym oddaniem. Jego reguła nakazuje: „Nade wszystko niech każdy prosi Pana o łaskę matczynego uczucia względem bliźniego, aby mu służyć wszelką miłością w potrzebach duszy i ciała, ponieważ pragniemy z łaski Bożej służyć wszystkim chorym z miłością, jaką żywi kochająca matka do swojego jedynego chorego syna”[40]. W szpitalach, na polach bitew, w więzieniach i na ulicach kamilianie konkretnie urzeczywistniali miłosierdzie Chrystusa Lekarza.

51. Opiekując się chorymi z matczyną miłością, tak jak matka troszczy się o swoje dziecko, wiele kobiet konsekrowanych odegrało jeszcze większą rolę w opiece zdrowotnej nad ubogimi. Siostry Miłosierdzia św. Wincentego a Paulo, Siostry Szpitalne, Małe Siostry Bożej Opatrzności i wiele innych zgromadzeń żeńskich wniosły matczyną i dyskretną obecność do szpitali, domów opieki i domów spokojnej starości. Przyniosły one ukojenie, wysłuchanie, towarzyszenie, a przede wszystkim czułość. Często własnymi rękami zbudowały placówki opieki zdrowotnej na obszarach pozbawionych pomocy medycznej. Uczyły higieny, pomagały przy porodach i podawały lekarstwa z naturalną mądrością i głęboką wiarą. Ich domy stały się oazami godności, gdzie nikt nie był wykluczony. Dotyk współczucia był pierwszym lekarstwem. Św. Ludwika de Marillac napisała do swoich Sióstr Miłosierdzia,przypominając im, że „otrzymały szczególne błogosławieństwo od Boga, aby służyć ubogim chorym w szpitalach”[41].

52. Dzisiaj to dziedzictwo jest kontynuowane w szpitalach katolickich, w ośrodkach zdrowia otwieranych w odległych regionach, w misjach medycznych działających w lasach, w ośrodkach wsparcia dla osób uzależnionych od narkotyków oraz w szpitalach polowych na terenach objętych wojną. Chrześcijańska obecność przy chorych pokazuje, że zbawienie nie jest ideą abstrakcyjną, ale konkretnym działaniem. Gestem opatrywania ran Kościół głosi, że Królestwo Boże rozpoczyna się pośród najbardziej bezbronnych. A czyniąc to, pozostaje wierny Temu, który powiedział: „Byłem chory, a odwiedziliście mnie” (Mt25, 36). Kiedy Kościół klęka u boku trędowatego, niedożywionego dziecka lub nieznanego umierającego, wypełnia swoje najgłębsze powołanie: miłować Pana tam, gdzie jest On najbardziej oszpecony.

Troska o ubogich w życiu monastycznym

53. Życie monastyczne, które zrodziło się w ciszy pustyń, było od samego początku świadectwem solidarności. Mnisi porzucali wszystko – bogactwo, prestiż, rodzinę – nie tylko dlatego, że gardzili dobrami tego świata –contemptus mundi– lecz po to, aby w tym radykalnym oderwaniu od świata spotkać ubogiego Chrystusa. Św. Bazyli Wielki w swojej Regule nie dostrzegał żadnej sprzeczności między życiem modlitwy i skupienia mnichów a ich pracą na rzecz ubogich. Dla niego gościnność i troska o potrzebujących stanowiły integralną część duchowości monastycznej, a mnisi, nawet porzuciwszy wszystko, aby przyjąć ubóstwo, musieli pomagać najbiedniejszym swoją pracą, ponieważ „aby móc [z czego] udzielać potrzebującym (…) należy wytrwale pracować (…). Taka postawa jest nam potrzebna nie tylko po to, aby umartwiać ciało, ale też ze względu na miłość bliźniego, aby Bóg mógł przez nas dać słabym braciom to, co dla nich konieczne” [42].

54. W Cezarei, gdzie był biskupem, zbudował miejsce znane jako Bazyliada, które obejmowało mieszkania, szpitale i szkoły dla ubogich i chorych. Mnich nie był więc jedynie ascetą, ale sługą. W ten sposób Bazyli ukazał, że aby być blisko Boga, trzeba być blisko ubogich. Konkretna miłość była kryterium świętości. Modlić się i opiekować, kontemplować i leczyć, pisać i przyjmować: wszystko było wyrazem tej samej miłości do Chrystusa.

55. Na Zachodzie św. Benedykt z Nursji opracował Regułę, która stała się fundamentem europejskiej duchowości monastycznej. Pierwsze miejsce zajmuje w niej ugoszczenie ubogich i pielgrzymów: „Niech szczególna troska towarzyszy przyjmowaniu ubogich i pielgrzymów, bo to właśnie w nich przyjmujemy w największej mierze Chrystusa”[43]. Nie były to tylko słowa: przez wieki klasztory benedyktyńskie były miejscem schronienia dla wdów, porzuconych dzieci, pielgrzymów i żebraków. Dla Benedykta życie wspólnotowe było szkołą miłosierdzia. Praca fizyczna miała nie tylko znaczenie praktyczne, ale także kształtowała serce do służby. Dzielenie się między mnichami, troska o chorych i słuchanie najsłabszych przygotowywały do przyjęcia Chrystusa, który przychodzi w osobie ubogiego i obcego. Benedyktyńska gościnność klasztorna pozostaje do dziś znakiem Kościoła, który otwiera drzwi, przyjmuje bez zadawania pytań, leczy, nie żądając niczego w zamian.

56. Z biegiem lat klasztory benedyktyńskie stały się miejscami, które kontrastowały z kulturą wykluczenia. Mnisi uprawiali ziemię, produkowali żywność, przygotowywali lekarstwa i ofiarowali je z prostotą najbardziej potrzebującym. Ich cicha praca była zaczynem nowej cywilizacji, w której ubodzy nie byli problemem do rozwiązania, lecz braćmi i siostrami, których trzeba przyjąć. Reguła dzielenia się, wspólna praca i pomoc słabszym kształtowały gospodarkę solidarności, stojącą w sprzeczności z logiką gromadzenia. Świadectwo mnichów ukazywało, że dobrowolne ubóstwo, któremu daleko było do nędzy, jest drogą do wolności i komunii. Nie ograniczali się oni do pomocy ubogim: stali się ich bliźnimi, braćmi w tym samym Panu. W celach i krużgankach ukształtowała się mistyka obecności Boga w maluczkich.

57. Oprócz zapewniania pomocy materialnej, klasztory odgrywały fundamentalną rolę w kulturowej i duchowej formacji najbiedniejszych. W czasach zarazy, wojny i klęski głodu były miejscami, gdzie potrzebujący znajdowali chleb i lekarstwa, ale także godność i słowo. To właśnie tam były wychowywane sieroty, czeladnicy otrzymywali wykształcenie, a rolnicy byli uczeni technik rolniczych i czytania. Wiedza była dzielona jako dar i odpowiedzialność. Opat był zarówno nauczycielem, jak i ojcem, a szkoła klasztorna była miejscem wyzwolenia poprzez prawdę. Istotnie, jak pisze Jan Kasjan, mnich powinien charakteryzować się „pokorą serca (…) – zaprowadzi (…) ona, nie do wiedzy, która nadyma pychą, lecz do tej, która oświeca wszystkich żyjących w miłości”[44]. Kształcąc sumienia i przekazując mądrość, mnisi przyczyniali się do chrześcijańskiej pedagogiki inkluzyjności. Kultura naznaczona wiarą była dzielona z prostotą. Wiedza, oświecona miłością, stawała się służbą. W ten sposób życie monastyczne okazywało się stylem świętości i konkretną drogą przemiany społeczeństwa.

58. Tradycja monastyczna uczy w ten sposób, że modlitwa i miłość, cisza i służba, cele i szpitale tworzą jedną duchową tkankę. Klasztor jest miejscem słuchania i działania, kultu i dzielenia się. Św. Bernard z Clairvaux, wielki reformator cystersów, „z naciskiem zwracał uwagę na potrzebę wstrzemięźliwości i umiaru zarówno w odniesieniu do posiłków, jak i ubiorów i budynków klasztornych, a także zalecał wspieranie ubogich i opiekowanie się nimi”[45]. Współczucie nie było dla niego dodatkowym wyborem, ale prawdziwą drogą naśladowania Chrystusa. Życie monastyczne, jeśli jest wierne swojemu pierwotnemu powołaniu, pokazuje zatem, że Kościół jest całkowicie oblubienicą Pana tylko wtedy, gdy jest również siostrą ubogich. Klasztor nie jest tylko schronieniem przed światem, lecz szkołą, w której uczy się, jak najlepiej mu służyć. Tam gdzie mnisi otworzyli swoje drzwi ubogim, Kościół pokazał z pokorą i stanowczością, że kontemplacja nie wyklucza miłosierdzia, ale wymaga go jako swego najczystszego owocu.

Uwolnić więźniów

59. Już od czasów apostolskich Kościół widział w wyzwoleniu uciśnionych znak Królestwa Bożego. Sam Jezus na początku swojej publicznej misji ogłosił: „Duch Pański spoczywa na Mnie, ponieważ Mnie namaścił i posłał Mnie, abym ubogim niósł dobrą nowinę, więźniom głosił wolność” (Łk4, 18). Pierwsi chrześcijanie, nawet w bardzo trudnych warunkach, modlili się i pomagali swoim braciom i siostrom uwięzionym, o czym świadczą Dzieje Apostolskie (por. 12, 5; 24, 23) i różne pisma ojców Kościoła. Ta misja wyzwolenia była kontynuowana w ciągu wieków poprzez konkretne działania, zwłaszcza gdy dramat niewolnictwa i uwięzienia dotknął całe społeczeństwa.

60. Na przełomie XII i XIII w., kiedy wielu chrześcijan zostało pojmanych na Morzu Śródziemnym lub wziętych do niewoli podczas wojen, powstały dwa zakony: Zakon Świętej Trójcy od Wykupu Niewolników (trynitarze), założony przez św. Jana z Mathy i św. Feliksa z Valois, oraz Zakon Najświętszej Marii Panny Łaskawej (mercedariusze), założony przez św. Piotra Nolasco, przy wsparciu św. Rajmunda z Peñafort, dominikanina. Szczególnym charyzmatem nowo utworzonych wspólnot osób konsekrowanych było wyzwalanie chrześcijan wziętych do niewoli, którym oddawały do dyspozycji swoje dobra [46], a często ofiarowały w zamian własne życie. Trynitarze, ze swoim mottemGloria Tibi Trinitas et captivis libertas(Chwała Tobie, Trójco, a niewolnikom wolność) oraz mercedariusze, którzy do ślubów zakonnych ubóstwa, posłuszeństwa i czystości dodali czwarty ślub[47], świadczyli, że miłość może być heroiczna. Wyzwolenie więźniów jest wyrazem miłości trynitarnej: Boga, który wyzwala nie tylko z niewoli duchowej, ale także z konkretnego ucisku. Gest wykupienia z niewoli i więzienia jest postrzegany jako przedłużenie odkupieńczej ofiary Chrystusa, którego krew jest ceną naszego wykupienia (por.1 Kor6, 20).

61. Pierwotna duchowość tych zakonów była głęboko zakorzeniona w kontemplacji Krzyża. Chrystus jest, w najpełniejszym tego słowa znaczeniu, Odkupicielem więźniów, a Kościół, Jego Ciało, przedłuża tę tajemnicę w czasie[48]. Zakonnicy nie postrzegali wykupienia jako działania politycznego czy ekonomicznego, ale jako akt niemal liturgiczny, sakramentalną ofiarę z samych siebie. Wielu oddawało swoje własne ciała, aby zastąpić więźniów, dosłownie wypełniając przykazanie: „Nikt nie ma większej miłości od tej, gdy ktoś życie swoje oddaje za przyjaciół swoich” (J15, 13). Tradycja tych zakonów nie zakończyła się. Wręcz przeciwnie, zainspirowała ona nowe formy działania w obliczu współczesnych form niewolnictwa: handlu ludźmi, przymusowej pracy, wykorzystywania seksualnego, różnych form uzależnienia[49]. Chrześcijańskie miłosierdzie, gdy jest wcielane w życie, staje się wyzwalające. A misja Kościoła, kiedy jest wierna swojemu Panu, zawsze jest misją głoszenia wyzwolenia. Także dzisiaj, kiedy „miliony osób – dzieci, mężczyzn i kobiet w każdym wieku – są pozbawiane wolności i zmuszane do życia w warunkach zbliżonych do niewolnictwa”[50], dziedzictwo to jest kontynuowane przez te zakony i inne instytucje oraz zgromadzenia, które działają na peryferiach miast, w strefach konfliktów i na szlakach migracyjnych. Kiedy Kościół pochyla się, aby zerwać nowe kajdany, które krępują ubogich, staje się znakiem paschalnym.

62. Nie można zakończyć tej refleksji na temat osób pozbawionych wolności, nie wspominając o więźniach przebywających w różnych zakładach karnych i ośrodkach detencyjnych. W tym kontekście przypominamy słowa, które Papież Franciszek skierował do grupy więźniów: „Wejście do więzienia jest dla mnie zawsze ważnym momentem, ponieważ więzienie jest miejscem wielkiego człowieczeństwa (…). Człowieczeństwa doświadczonego, niekiedy znużonego trudnościami, poczuciem winy, osądami, niezrozumieniem, cierpieniem, ale jednocześnie pełnego siły, pragnienia przebaczenia, pragnienia odkupienia”[51]. To pragnienie, między innymi, zostało przyjęte również przez zakony poświęcone wykupywaniu więźniów jako preferencyjna służba Kościołowi. Jak głosił św. Paweł: „Ku wolności wyswobodził nas Chrystus!” (Ga5, 1). A ta wolność nie jest tylko wewnętrzna: przejawia się w historii jako miłość, która troszczy się i wyzwala z wszelkich więzów niewoli.

Świadkowie ewangelicznego ubóstwa

63. W XIII w., w obliczu rozwoju miast, koncentracji bogactwa i pojawienia się nowych form ubóstwa, Duch Święty zapoczątkował nowy rodzaj konsekracji w Kościele: zakony żebracze. W odróżnieniu od stabilnego modelu monastycznego, mendykanci przyjęli wędrowny tryb życia, bez własności osobistej lub wspólnotowej, całkowicie powierzając się Opatrzności. Nie ograniczali się do posługiwania ubogim: sami stawali się biednymi wraz z nimi. Postrzegali miasto jako nową pustynię, a wykluczonych jako nowych mistrzów duchowych. Zakony takie jak franciszkanie, dominikanie, augustianie i karmelici stanowiły ewangeliczną rewolucję, w której prosty i ubogi styl życia stał się proroczym znakiem dla misji, odradzając doświadczenie pierwszej wspólnoty chrześcijańskiej (por.Dz4, 32). Świadectwo mendykantów rzucało wyzwanie zarówno przepychowi duchowieństwa, jak i oziębłości społeczeństwa miejskiego.

64. Św. Franciszek z Asyżu stał się ikoną tej duchowej wiosny. Poślubiając ubóstwo, chciał naśladować Chrystusa ubogiego, nagiego i ukrzyżowanego. W swojej Regule prosi: „Bracia niech niczego nie nabywają na własność: ani domu, ani ziemi, ani żadnej innej rzeczy. I jakopielgrzymi i obcy(por.1 P2, 11;Hbr11, 13) na tym świecie, służąc Panu w ubóstwie i pokorze, niech ufnie proszą o jałmużnę; i nie powinni wstydzić się tego, bo Pandla nasstał sięubogimna tym świecie”[52]. Jego życie było ciągłym ogołoceniem: z pałacu do trędowatego, od wymowności do milczenia, od posiadania do całkowitego oddania. Franciszek nie założył żadnej instytucji świadczenia usług socjalnych, ale ewangeliczną wspólnotę braterską. W ubogich widział braci i żywe obrazy Pana. Jego misją było przebywanie z nimi, ze względu na solidarność przekraczającą dystans, ze względu na miłość współczującą. Jego ubóstwo miało charakter relacyjny: prowadziło go do bycia bliźnim, równym, a nawet mniejszym. Jego świętość wyrastała z przekonania, że Chrystusa można przyjąć naprawdę tylko poprzez hojne poświęcenie się braciom.

65. Św. Klara z Asyżu, zainspirowana przez Franciszka, założyła Zakon Pań Ubogich, zwanych później klaryskami. Jej walka duchowa polegała na wiernym zachowaniu ideału radykalnego ubóstwa. Odrzuciła przywileje papieskie, które mogły zapewnić jej klasztorowi bezpieczeństwo materialne, i dzięki swej determinacji uzyskała od Papieża Grzegorza IX tzw.Privilegium Paupertatis, który gwarantował prawo do życia bez posiadania jakiegokolwiek dobra materialnego[53]. Wybór ten wyrażał jej całkowite zaufanie Bogu i świadomość, że dobrowolne ubóstwo jest formą wolności i proroctwa. Klara nauczała swoje siostry, że Chrystus jest ich jedynym dziedzictwem i że nic nie powinno przesłaniać komunii z Nim. Jej modlitewne i ukryte życie było krzykiem przeciwko światowości oraz milczącą obroną ubogich i zapomnianych.

66. Św. Dominik Guzmán, współczesny Franciszkowi, założył Zakon Kaznodziejski, o innym charyzmacie, ale z taką samą radykalnością. Chciał on głosić Ewangelię mocą autorytetu wynikającego z ubogiego życia, przekonany, że Prawda potrzebuje konsekwentnych świadków. Przykład ubóstwa życia towarzyszył głoszonemu Słowu. Wolni od ciężaru dóbr ziemskich, bracia dominikanie mogli lepiej poświęcić się swojemu głównemu dziełu, czyli kaznodziejstwu. Udawali się do miast, zwłaszcza uniwersyteckich, aby nauczać prawdy Bożej [54]. Będąc zależni od innych, ukazywali, że wiary się nie narzuca, ale ofiaruje się ją. A żyjąc pośród ubogich, uczyli się prawdy Ewangelii „oddolnie”, jako uczniowie upokorzonego Chrystusa.

67. Zakony żebracze były zatem żywą odpowiedzią na wykluczenie i obojętność. Nie proponowały one wprost reform społecznych, ale nawrócenie osobiste i wspólnotowe w myśl logiki Królestwa. Dla nich ubóstwo nie było skutkiem niedostatku dóbr, ale wolnym wyborem: by stać się maluczkim, aby przyjąć maluczkich. Jak powiedział o Franciszku Tomasz z Celano: „Stał się szczególnym miłośnikiem ubogich (…). Często ubierał szaty ubogich, do których jeszcze nie upodobnił się uczynkiem, ale już pragnął tego całym sercem”[55]. Mendykanci stali się symbolem Kościoła pielgrzymującego, pokornego i braterskiego, który żyje pośród ubogich nie dla prozelityzmu, lecz z powodu swojej tożsamości. Uczą, że Kościół jest światłem tylko wtedy, gdy ogałaca się ze wszystkiego, i że świętość wiedzie przez serce pokorne i oddane maluczkim.

Kościół a edukacja ubogich

68. Zwracając się do grupy wychowawców, Papież Franciszek przypomniał, że edukacja zawsze była jednym z najwznioślejszych wyrazów chrześcijańskiej miłości: „Wasza misja jest misją pełną przeszkód, ale także radości. (…) Misją miłości, ponieważ nie można nauczać bez miłości”[56]. W tym sensie, od najdawniejszych czasów chrześcijanie rozumieli, że wolna wiedza daje godność i przybliża do prawdy. Dla Kościoła nauczanie ubogich było aktem sprawiedliwości i wiary. Zainspirowany przykładem Nauczyciela, który nauczał ludzi prawd boskich i ludzkich, Kościół przyjął misję kształcenia dzieci i młodzieży, zwłaszcza najuboższych, w prawdzie i miłości. Misja ta przybrała konkretny kształt wraz z powstaniem zgromadzeń poświęconych powszechnej edukacji.

69. W XVI w. św. Józef Kalasancjusz, poruszony brakiem wykształcenia i wychowania ubogiej młodzieży rzymskiej, w kilku pomieszczeniach przylegających do kościoła św. Doroty na Zatybrzu założył pierwszą w Europie bezpłatną powszechną szkołę ludową. Była ona zalążkiem, z którego, nie bez trudności, powstał i rozwinął się Zakon Kleryków Regularnych Ubogich Matki Bożej Szkół Pobożnych, zwany pijarami, którego celem było przekazywanie młodzieży „mądrości Ewangelii, a także nauk świeckich, ucząc ich dostrzegać miłosierne działanie Boga Stwórcy i Odkupiciela w ich życiu i w historii”[57]. Faktycznie, możemy uznać tego odważnego kapłana za „prawdziwego założyciela współczesnej szkoły katolickiej, której celem jest integralna formacja człowieka i otwartość na wszystkich”[58]. Ożywiony tą samą wrażliwością, w XVII w., św. Jan Chrzciciel de La Salle, zdając sobie sprawę z niesprawiedliwości spowodowanej wykluczeniem dzieci robotników i chłopów z systemu edukacyjnego ówczesnej Francji, założył Zgromadzenie Braci Szkół Chrześcijańskich, którego ideałem było zapewnienie im bezpłatnej edukacji, solidnego wykształcenia i braterskiej atmosfery. La Salle postrzegał salę lekcyjną jako miejsce rozwoju ludzkiego, ale także nawrócenia. W jego kolegiach łączyły się modlitwa, metoda, dyscyplina i dzielenie się. Każde dziecko było uważane za wyjątkowy dar Boga, a nauczanie za służbę Królestwu Bożemu.

70. W XIX w., również we Francji, św. Marcellin Champagnat założył Instytut Braci Szkolnych Marystów. Św. Marcellin „był wrażliwy na potrzeby swojej epoki w dziedzinie duchowości i wychowania, dostrzegał zwłaszcza ignorancję religijną oraz zaniedbania, którymi dotknięta była przede wszystkim młodzież”[59], poświęcając się całym sercem – w czasach, gdy dostęp do edukacji nadal był przywilejem nielicznych – misji wychowywania i ewangelizowania dzieci i młodzieży, zwłaszcza tych najbardziej potrzebujących. W tym samym duchu, we Włoszech, św. Jan Bosko rozpoczął wielkie dzieło salezjańskie, oparte na trzech zasadach „metody prewencyjnej” – rozumie, religii i miłości[60]. Natomiast bł. Antonio Rosmini założył Instytut Miłosierdzia, w którym „miłosierdzie intelektualne” – wraz z „miłosierdziem materialnym”, a na szczycie z „miłością duchowo-duszpasterską” – było przedstawiane jako niezbędny wymiar wszelkiej działalności charytatywnej, której celem było dobro i integralny rozwój osoby[61].

71. Znaczącą rolę w tej rewolucji pedagogicznej odegrały zgromadzenia żeńskie. Urszulanki, mniszki ze Zgromadzenia Sióstr Naszej Pani (Notre-Dame), Pobożne Nauczycielki i wiele innych zgromadzeń, założonych zwłaszcza w XVIII i XIX w., zajęły obszary, w których państwo było nieobecne. Tworzyły szkoły w małych wioskach, na przedmieściach i w dzielnicach robotniczych. Szczególnym priorytetem stała się edukacja dziewcząt. Siostry uczyły czytania i pisania, ewangelizowały, zajmowały się praktycznymi sprawami codziennego życia, podnosiły na duchu poprzez kultywowanie sztuki, a przede wszystkim kształtowały sumienia. Ich pedagogia była prosta: bliskość, cierpliwość, łagodność. Uczyły życiem, zanim przemówiły słowem. W czasach powszechnego analfabetyzmu i strukturalnego wykluczenia te konsekrowane kobiety były latarniami nadziei. Ich misją było kształtowanie serca, uczenie myślenia, promowanie godności. Łącząc życie pobożne z poświęceniem bliźniemu, pokonywały opuszczenie czułością tych, którzy wychowują w imię Chrystusa.

72. Edukacja ubogich, zgodnie z wiarą chrześcijańską, nie jest przysługą, lecz powinnością. Najmłodsi mają prawo do wiedzy, która jest podstawowym warunkiem uznania godności ludzkiej. Nauczanie ich potwierdza ich wartość, wyposażając ich w narzędzia do przekształcania własnej rzeczywistości. Tradycja chrześcijańska uważa wiedzę za dar Boży i wspólnotową odpowiedzialność. Edukacja chrześcijańska nie kształci jedynie profesjonalistów, lecz ludzi otwartych na dobro, piękno i prawdę. Szkoła katolicka zatem, gdy jest wierna swojej nazwie, staje się przestrzenią włączania, formacji integralnej i promocji ludzkiej; łącząc wiarę i kulturę, zasiewa przyszłość, czci obraz Boga i buduje lepsze społeczeństwo.

Towarzyszenie migrantom

73. Doświadczenie migracji towarzyszy historii Ludu Bożego. Abraham wyrusza, nie wiedząc, dokąd idzie; Mojżesz prowadzi lud pielgrzymujący przez pustynię; Maryja i Józef uciekają z Dzieciątkiem do Egiptu. Sam Chrystus, który „przyszedł do swojej własności, a swoi Go nie przyjęli” (J1, 11), żył pośród nas jako obcy. Z tego powodu Kościół zawsze uznawał w migrantach żywą obecność Pana, który w dniu sądu powie do tych, którzy będą po Jego prawicy: „Byłem przybyszem, a przyjęliście Mnie” (Mt25, 35).

74. W XIX w., kiedy miliony Europejczyków emigrowały w poszukiwaniu lepszych warunków życia, w opiece duszpasterskiej nad nimi wyróżniło się dwóch wielkich świętych: św. Jan Chrzciciel Scalabrini i św. Franciszka Ksawera Cabrini. Scalabrini, biskup Piacenzy, założył Misjonarzy św. Karola Boromeusza, aby towarzyszyli migrantom we wspólnotach, do których przybyli, oferując im pomoc duchową, prawną i materialną. Widział w migrantach adresatów nowej ewangelizacji, przestrzegając przed niebezpieczeństwem wyzysku i utraty wiary w obcym kraju. Odpowiadając hojnie na charyzmat, który ofiarował mu Pan, „Scalabrini patrzył poza to, co uchwytne, patrzył przed siebie, w stronę świata i Kościoła bez barier, gdzie nikt nie jest obcy”[62]. Św. Franciszka Cabrini, urodzona we Włoszech i naturalizowana Amerykanka, była pierwszą kanonizowaną obywatelką Stanów Zjednoczonych. Aby wypełnić swoją misję pomocy migrantom, wielokrotnie przekraczała Atlantyk i „uzbrojona w niezwykłą odwagę, z niczego stworzyła szkoły, szpitale, sierocińce dla rzeszy ludzi pozbawionych środków do życia, którzy przybyli do nowego świata w poszukiwaniu pracy, nie znając języka i nie mając środków umożliwiających im godne włączenie się w życie amerykańskie, często padając ofiarą ludzi bez skrupułów. Jej matczyne serce, które nie zaznało spokoju, docierało do nich wszędzie: do nędznych chat, więzień, kopalń”[63]. W Roku Świętym 1950 Papież Pius XII ogłosił ją patronką wszystkich migrantów[64].

75. Tradycja działalności Kościoła na rzecz migrantów i wraz z nimi trwa nadal, a obecnie posługa ta wyraża się w takich inicjatywach, jak ośrodki dla uchodźców, misje prowadzone na terenach przygranicznych, działania Caritas Internationalis i innych instytucji. Współczesne nauczanie Kościoła wyraźnie potwierdza to zaangażowanie. Papież Franciszek przypomniał, że misja Kościoła wobec migrantów i uchodźców jest jeszcze szersza, podkreślając, iż „reakcję na wyzwanie współczesnej migracji można streścić za pomocą czterech słów: przyjmować, chronić, promować i integrować. Ale czasowniki te dotyczą nie tylko migrantów i uchodźców. Wyrażają one misję Kościoła wobec wszystkich mieszkańców peryferii egzystencjalnych, którzy muszą być przyjmowani, chronieni, promowani i integrowani” [65]. I powiedział również: „każda istota ludzka jest dzieckiem Boga! Odciśnięty jest w niej wizerunek Chrystusa! Chodzi zatem o to, byśmy dostrzegli jako pierwsi i pomagali innym widzieć w migrancie i uchodźcy nie tylko problem, z którym trzeba się zmierzyć, ale brata i siostrę, których należy przyjąć, szanować i kochać, okazję, którą daje nam Opatrzność, byśmy wnosili wkład w budowanie sprawiedliwszego społeczeństwa, doskonalszej demokracji, solidarniejszego kraju, bardziej braterskiego świata i bardziej otwartej wspólnoty chrześcijańskiej, w zgodzie z Ewangelią”[66]. Kościół, jak matka, idzie z tymi, którzy idą. Tam gdzie świat widzi zagrożenia, on widzi dzieci; tam gdzie buduje się mury, on buduje mosty. Wie, że jego głoszenie Ewangelii jest wiarygodne tylko wtedy, gdy przekłada się na gesty bliskości i przyjęcia; i wie, że w każdym odrzuconym migrancie jest sam Chrystus, który kołacze do drzwi wspólnoty.

U boku ostatnich

76. Świętość chrześcijańska często rozkwita w najbardziej zapomnianych i zranionych miejscach ludzkości. Najubożsi z ubogich – ci, którym brakuje nie tylko dóbr materialnych, ale także głosu i uznania ich godności – zajmują szczególne miejsce w sercu Boga. Są umiłowanymi Ewangelii, dziedzicami Królestwa (por.Łk6, 20). To w nich Chrystus nadal cierpi i zmartwychwstaje. To w nich Kościół odnajduje powołanie do ukazania swojej najbardziej autentycznej rzeczywistości.

77. Kanonizowana w 2016 r. św. Teresa z Kalkuty stała się powszechną ikoną miłości miłosiernej, przeżywanej do granic możliwości dla dobra najuboższych, odrzuconych przez społeczeństwo. Założycielka Misjonarek Miłości poświęciła swoje życie umierającym porzuconym na ulicach Indii. Przygarniała odrzuconych, obmywała ich rany i towarzyszyła im aż do chwili śmierci z czułością, będącą modlitwą. Jej miłość do najuboższych z ubogich sprawiła, że nie zajmowała się tylko ich potrzebami materialnymi, ale głosiła im dobrą nowinę Ewangelii: „Chcemy głosić ubogim dobrą nowinę, że Bóg ich miłuje, że my ich kochamy, że są dla nas kimś ważnym, że oni również zostali stworzeni przez tę samą miłującą rękę Boga, aby kochać i być kochanym. Nasi ubodzy są wspaniałymi ludźmi, są bardzo kochani, nie potrzebują naszego współczucia i litości, potrzebują naszej wyrozumiałej miłości. Potrzebują naszego szacunku, potrzebują, abyśmy traktowali ich w sposób godny”[67]. Wszystko to wyrastało z głębokiej duchowości Matki Teresy, która postrzegała służbę najuboższym jako owoc modlitwy i miłości, źródło prawdziwego pokoju, jak przypomniał Papież Jan Paweł II pielgrzymom przybyłym do Rzymu na jej beatyfikację: „Skąd Matka Teresa czerpała siłę, aby całkowicie poświęcić się służbie innym? Znajdowała ją w modlitwie i cichej kontemplacji Jezusa Chrystusa, Jego Świętego Oblicza, Jego Najświętszego Serca. Sama to powiedziała: «Owocem ciszy jest modlitwa. Owocem modlitwy jest wiara. Owocem wiary jest miłość. Owocem miłości jest służba. Owocem służby jest pokój» (…). To modlitwa napełniła jej serce pokojem Chrystusa i pozwoliła jej promieniować tym pokojem na innych”[68]. Teresa nie uważała się za filantropkę ani aktywistkę, ale za oblubienicę Chrystusa ukrzyżowanego, która służyła z całkowitą miłością w cierpiących braciach.

78. W Brazylii św. Dulce od Ubogich – znana jako „Dobry Anioł z Bahia” – wcieliła w życie tego samego ducha ewangelicznego, nadając mu brazylijskie cechy. Odnosząc się do niej i dwóch innych zakonnic, kanonizowanych podczas tej samej celebracji, Papież Franciszek przypomniał ich miłość do najbardziej marginalizowanych członków społeczeństwa i powiedział, że nowe Święte „ukazują nam, że życie zakonne jest drogą miłości na egzystencjalnych peryferiach świata”[69]. Siostra Dulce stawiała czoła niedostatkom z kreatywnością, przeszkodom z czułością, potrzebom z niezachwianą wiarą. Zaczęła od przyjmowania chorych w kurniku, a potem założyła jedno z największych dzieł społecznych w kraju. Codziennie pomagała tysiącom ludzi, nigdy nie tracąc swojej delikatności. Stała się uboga wraz z ubogimi, z miłości do najbardziej Ubogiego. Żyła skromnie, modliła się z żarliwością i służyła z radością. Jej wiara nie oddalała jej od świata, ale popychała ją jeszcze głębiej w ból ostatnich.

79. Można by wspomnieć także: św. Benedykta Menniego i Siostry Szpitalne Najświętszego Serca Jezusa, które towarzyszyły osobom niepełnosprawnym; św. Karola de Foucauld żyjącego wśród społeczności Sahary; św.KatarzynęDrexel, która towarzyszyła najbardziej pokrzywdzonym grupom społecznym w Ameryce Północnej; s. Emmanuellę, która pracowała ze zbieraczami śmieci w dzielnicy Ezbet El Nakhl w Kairze; i wielu, wielu innych. Każdy z nich na swój sposób odkrył, że najubożsi są nie tylko przedmiotem naszego współczucia, ale nauczycielami Ewangelii. Nie chodzi oto, by „przynosićim”Boga, aleby spotkaćGo przy nich. Wszystkie te przykłady uczą nas, że służba ubogim nie jest gestem wykonywanym „z góry ku dołowi”, ale spotkaniem równych sobie, gdzie Chrystus się objawia i jest adorowany. Św. Jan Paweł II przypominał nam, że „w szczególny sposób Chrystus obecny jest w ubogich, dlatego wobec nich Kościół winien stosować «opcję preferencyjną»”[70]. Kościół zatem, pochylając się z troską nad ubogimi, przyjmuje swoją najwznioślejszą postawę.

Ruchy ludowe

80. Powinniśmy również uznać, że w ciągu wieków historii chrześcijaństwa pomoc ubogim i walka o ich prawa nie dotyczyły wyłącznie pojedynczych osób, niektórych rodzin, instytucji lub wspólnot religijnych.Istniały, i nadal istnieją, różne ruchy ludowe skupiające osoby świeckie i kierowane przez liderów ludowych, często będących obiektem podejrzeń, a nawet prześladowań.Mam na myśli„ogół osób, które nie podążają jako jednostki, lecz jako tkanka wspólnoty wszystkich i dla wszystkich, która nie może pozwolić, aby najbiedniejsi i najsłabsi pozostali w tyle. (…) Liderzy ludowi to zatem ci, którzy mają zdolności angażowania wszystkich. (…) Nie przeszkadzają im ani nie są przerażeni młodymi poranionymi i doświadczającymi krzyża”[71].

81. Ci ludowi liderzy wiedzą, że solidarność „to także walka ze strukturalnymi przyczynami ubóstwa, nierównością, brakiem zatrudnienia, ziemi i mieszkań, negowaniem praw społecznych i pracowniczych. To stawianie czoła niszczącym efektom imperium pieniądza (…). Solidarność, pojmowana w swoim najgłębszym sensie, jest sposobem kształtowania historii, i to właśnie robią ruchy ludowe”[72]. Z tego powodu, kiedy różne instytucje myślą o potrzebach ubogich, konieczne jest, aby „uwzględniały ruchy ludowe i ożywiały lokalne, krajowe i międzynarodowe struktury zarządzania tym strumieniem energii moralnej, który rodzi się z włączenia wykluczonych w budowanie wspólnego losu”[73]. Ruchy ludowe wzywają bowiem do przezwyciężenia „koncepcji polityki społecznej, która jest pojmowana jako politykadlaubogich, ale nigdyzubogimi, nigdy [jako pochodząca]odubogich, a tym bardziej nieosadzona w projekcie jednoczącym narody”[74]. Jeśli politycy i profesjonaliści nie słuchają ich, „demokracja ulega atrofii, staje się nominalizmem, formalnością, traci reprezentatywność, odrywa się od rzeczywistości, ponieważ pomija lud w jego codziennej walce o godność, w budowaniu własnego losu”[75]. To samo należy powiedzieć o instytucjach Kościoła.

ROZDZIAŁ CZWARTY

HISTORIA, KTÓRA TRWA

Wiek społecznej nauki Kościoła

82. Przyspieszenie przemian technologicznych i społecznych ostatnich dwóch stuleci, pełne tragicznych sprzeczności, nie zostało jedynie narzucone ubogim, ale było przez nich podejmowane i przemyślane. Ruchy robotnicze, kobiece, młodzieżowe, podobnie jak walka z dyskryminacją rasową, doprowadziły do powstania nowej świadomości godności osób znajdujących się na marginesie. Również wkład nauki społecznej Kościoła ma swoje korzenie w tradycji ludowej, o czym nie należy zapominać: nie można sobie wyobrazić ponownego odczytania Objawienia chrześcijańskiego w kontekście współczesnych realiów społecznych, zawodowych, gospodarczych i kulturowych bez świeckich chrześcijan zmagających się z wyzwaniami swoich czasów. U ich boku działali zakonnice i zakonnicy, świadkowie Kościoła wychodzącego z utartych szlaków. Zmiana epoki, z którą mamy do czynienia, sprawia, że nieustanna interakcja między ochrzczonymi a Magisterium, między obywatelami a ekspertami, między społeczeństwem a instytucjami jest dziś jeszcze bardziej konieczna. W szczególności należy ponownie uznać, że rzeczywistość lepiej widać z peryferii, a ubodzy są podmiotami o specyficznej inteligencji, niezbędnej dla Kościoła i ludzkości.

83. Magisterium ostatnich stu pięćdziesięciu lat stanowi prawdziwą kopalnię nauczania dotyczącego ubogich. Biskupi Rzymu stali się zatem głosem nowej świadomości, poddanej ocenie kościelnego rozeznania. Na przykład w EncykliceRerum novarum(1891) Papież Leon XIII poruszył kwestię pracy, obnażając niedopuszczalną sytuację wielu robotników przemysłowych i proponując ustanowienie sprawiedliwego porządku społecznego. W tym duchu wypowiadali się również inni papieże. Poprzez EncyklikęMater et Magistra(1961) św. Jan XXIII stał się promotorem sprawiedliwości w wymiarze światowym: kraje bogate nie mogły pozostać obojętne wobec krajów dotkniętych głodem i nędzą; były wzywane do udzielenia im hojnej pomocy, wykorzystując wszystkie swoje dobra.

84. Sobór Watykański II stanowi fundamentalny etap w kościelnym rozeznawaniu dotyczącym ubogich, w świetle Objawienia. Chociaż w dokumentach przygotowawczych ten temat był marginalny, to w orędziu radiowym z 11 września 1962 r., miesiąc przed otwarciem Soboru, św. Jan XXIII zwrócił na niego uwagę w niezapomnianych słowach: „Kościół ukazuje się takim, jaki jest i jaki pragnie być, jako Kościół wszystkich, a zwłaszcza Kościół ubogich”[76]. Potem była ogromna praca biskupów, teologów i ekspertów zatroskanych o odnowę Kościoła – przy wsparciu samego św. Jana XXIII – aby na nowo ukierunkować Sobór. Fundamentalna natura tego fermentu miała charakter chrystocentryczny, a zatem doktrynalny, a nie tylko społeczny. Wielu ojców soborowych wspierało bowiem umocnienie świadomości, którą dobrze wyraził kard. Lercaro w swoim pamiętnym przemówieniu z 6 grudnia 1962 r., mówiąc, że „tajemnica Chrystusa w Kościele zawsze była i jest, ale dziś jest to szczególnie tajemnica Chrystusa w ubogich”[77], i że „nie jest to kwestia byle jaka, ale w pewnym sensie jedyna kwestia całego Soboru Watykańskiego II”[78]. Arcybiskup Bolonii, przygotowując tekst tego wystąpienia, zanotował: „To jest godzina ubogich, milionów ubogich na całej ziemi, to jest godzina tajemnicy Kościoła, matki ubogich, to jest godzina tajemnicy Chrystusa, zwłaszcza w ubogich”[79]. W ten sposób pojawiła się potrzeba nowej formy kościelnej, prostszej i bardziej wstrzemięźliwej, angażującej cały Lud Boży i jego historyczną postać. Kościoła bardziej podobnego do swojego Pana niż do światowych mocarstw, dążącego do pobudzenia całej ludzkości do konkretnego zaangażowania na rzecz rozwiązania wielkiego problemu ubóstwa w świecie.

85. Św. Paweł VI podczas otwarcia drugiej sesji Soboru podjął temat wyznaczony przez swojego poprzednika, mianowicie że Kościół zwraca szczególną uwagę „na ubogich, potrzebujących, cierpiących, głodnych, więźniów, czyli spogląda na całą ludzkość, która cierpi i płacze: ona należy do niego na mocy prawa ewangelicznego”[80]. Podczas audiencji generalnej 11 listopada 1964 r. podkreślił, że „ubogi jest przedstawicielem Chrystusa” i, zestawiając obraz Pana w najbiedniejszych z tym, który objawia się w papieżu, stwierdził: „Uobecnienie Chrystusa w ubogim jest powszechne, każdy ubogi odzwierciedla Chrystusa; uobecnienie papieża jest osobiste. (…) Ubogi i Piotr mogą się ze sobą pokrywać, mogą być tą samą osobą, odzianą w podwójne uosobienie ubóstwa i władzy”[81]. W ten sposób nierozerwalna więź między Kościołem a ubogimi została wyrażona symbolicznie z niespotykaną jasnością.

86. W Konstytucji duszpasterskiejGaudium et spes, podążając drogą wytyczoną przez ojców Kościoła, Sobór ponownie z mocą potwierdza powszechne przeznaczenie dóbr ziemi i wynikającą z tego społeczną funkcję własności: „Bóg przeznaczył ziemię wraz ze wszystkim, co się na niej znajduje, na użytek wszystkich ludzi i narodów, dlatego też dobra stworzone powinny w słusznej mierze docierać do wszystkich (…). Dlatego korzystając z tych dóbr, człowiek powinien uważać zewnętrzne, legalnie posiadane przez siebie rzeczy nie tylko za swoje własne, lecz także za wspólne, w tym znaczeniu, że mogą one przynieść pożytek nie tylko jemu samemu, lecz także innym. Ponadto wszystkim przysługuje prawo udziału w dobrach wystarczających dla ich samych i dla ich rodzin. (…) Ten zaś, kto żyje w skrajnym ubóstwie, ma prawo zapewnić sobie to, co niezbędne, korzystając z bogactwa innych. (…) Każda własność prywatna ma ze swej natury funkcję społeczną, która opiera się na wspólnym przeznaczeniu dóbr. Jeśli zaniedbuje się tę funkcję społeczną, własność może stać się na wiele sposobów okazją do chciwości i poważnych niepokojów”[82]. Przekonanie to zostało ponownie przywołane przez św. Pawła VI w EncyklicePopulorum progressio, gdzie czytamy, że nikt nie może uważać się za uprawnionego, aby „dobra zbywające zatrzymywać jedynie dla prywatnej korzyści, podczas gdy innym brakuje tego, co konieczne do życia”[83]. W swoim przemówieniu do Narodów Zjednoczonych Papież Montini przedstawił się jako obrońca narodów ubogich [84]i wezwał społeczność międzynarodową do budowania świata opartego na solidarności.

87. Dzięki św. Janowi Pawłowi II preferencyjna relacja Kościoła z ubogimi umacnia się, przynajmniej w sferze doktrynalnej. Jego nauczanie uznało bowiem, że opcja na rzecz ubogich jest „specjalną formą pierwszeństwa w praktykowaniu miłości chrześcijańskiej, poświadczoną przez całą Tradycję Kościoła”[85]. W EncykliceSollicitudo rei socialispisze dalej, że dzisiaj, biorąc pod uwagę globalny wymiar, jaki przybrała kwestia społeczna, „owa miłość preferencyjna oraz decyzje, do jakich pobudza, nie mogą nie obejmować wielkich rzesz głodujących, żebrzących, bezdomnych, pozbawionych pomocy lekarskiej, a nade wszystko niemających nadziei na lepszą przyszłość; nie można nie brać pod uwagę istnienia tych rzeczywistości. Niezauważenie ich oznaczałoby upodobnienie się do «bogatego smakosza», który udawał, że nie dostrzega żebraka Łazarza leżącego u bramy jego pałacu (por.Łk16, 19–31)”[86]. Jego nauczanie na temat pracy nabiera znaczenia, gdy chcemy zastanowić się nad aktywną rolą ubogich w odnowie Kościoła i społeczeństwa, porzucając paternalizm polegający wyłącznie na zaspokajaniu ich doraźnych potrzeb. W EncykliceLaborem exercensstwierdza on, że „praca ludzka stanowi klucz, i to chyba najistotniejszy klucz, do całej kwestii społecznej” [87].

88. W obliczu licznych kryzysów, jakie naznaczyły początek trzeciego tysiąclecia, teksty Papieża Benedykta XVI nabierają charakteru bardziej politycznego. Tak więc w EncykliceCaritas in veritatestwierdza on, że „tym bardziej skutecznie kochamy bliźniego, im bardziej angażujemy się na rzecz dobra wspólnego, odpowiadającego również jego rzeczywistym potrzebom”[88]. Ponadto Papież zauważa, że „głód zależy nie tyle od niewystarczających zasobów materialnych, ile raczej od niedostatecznych zasobów społecznych, wśród których najważniejszy jest natury instytucjonalnej. To znaczy, brakuje struktury instytucji ekonomicznych, będących w stanie zagwarantować regularny i odpowiedni z punktu widzenia wyżywienia dostęp do pokarmu i wody, a zarazem stawić czoło sytuacjom związanym z podstawowymi potrzebami oraz prawdziwymi kryzysami żywnościowymi, spowodowanymi przez przyczyny naturalne lub nieodpowiedzialną politykę krajową i międzynarodową”[89].

89. Papież Franciszek uznał, że oprócz nauczania Biskupów Rzymu, w ostatnich dziesięcioleciach coraz częściej stanowiska wyrażały również konferencje episkopatów krajowe i regionalne. Mógł on na przykład osobiście zaświadczyć o szczególnym zaangażowaniu episkopatu latynoamerykańskiego w przeanalizowanie relacji Kościoła z ubogimi. W okresie posoborowym niemal we wszystkich krajach Ameryki Łacińskiej silnie odczuwano utożsamienie Kościoła z ubogimi i jego czynny udział w ich wyzwoleniu. To samo serce Kościoła poruszało się na widok wielu ubogich dotkniętych przez bezrobocie, niski poziom zatrudnienia, niesprawiedliwe wynagrodzenia i zmuszonych do życia w nędznych warunkach. Męczeństwo św. Oscara Romero, arcybiskupa San Salvadoru, było zarówno świadectwem, jak i żywym wezwaniem dla Kościoła. Odczuwał on – jako własny – dramat przeżywany przez ogromną większość swoich wiernych i uczynił z nich centrum swojej duszpasterskiej posługi. Konferencje Episkopatu Ameryki Łacińskiej w Medellín, w Puebla, w Santo Domingo i wAparecidziestanowią znaczące etapy również dla całego Kościoła. Ja sam, jako wieloletni misjonarz w Peru, wiele zawdzięczam tej drodze rozeznania kościelnego, którą Papież Franciszek potrafił umiejętnie połączyć z drogą innych Kościołów partykularnych, zwłaszcza globalnego Południa. Teraz chciałbym powrócić do dwóch konkretnych tematów tego nauczania biskupiego.

Struktury grzechu, które powodują ubóstwo i skrajne nierówności

90. W Medellín biskupi opowiedzieli się za preferencyjną opcją na rzecz ubogich: „Chrystus, nasz Zbawiciel, nie tylko umiłował ubogich, ale «będąc bogatym, stał się ubogim», żył w ubóstwie, skoncentrował swoją misję na głoszeniu ich wyzwolenia i ustanowił swój Kościół jako znak tego ubóstwa pośród ludzi. (…) Ubóstwo tak wielu braci woła o sprawiedliwość, solidarność, świadectwo, zaangażowanie, trud i przezwyciężenie, aby w pełni wypełniła się zbawcza misja powierzona przez Chrystusa”[90]. Biskupi stanowczo twierdzą, że Kościół, aby być w pełni wiernym swojemu powołaniu, musi nie tylko dzielić położenie ubogich, ale także stanąć po ich stronie i aktywnie angażować się w ich integralny rozwój. Konferencja w Puebla, w obliczu pogłębiającej się nędzy w Ameryce Łacińskiej, potwierdziła decyzję z Medellín, opowiadając się otwarcie i proroczo po stronie ubogich, i określiła struktury niesprawiedliwości jako „grzech społeczny”.

91. Miłosierdzie jest siłą, która zmienia rzeczywistość, jest autentyczną historyczną siłą przemiany. Jest to źródło, z którego musi czerpać każde zaangażowanie na rzecz „zaradzenia strukturalnym przyczynom ubóstwa”[91]i podjęcia pilnych działań w tym kierunku. Pragnę zatem, aby „rosła liczba polityków zdolnych do podjęcia autentycznego dialogu ukierunkowanego na skuteczne uzdrowienie głębokich korzeni, a nie zewnętrznych przejawów chorób naszego świata”[92], ponieważ „chodzi o słuchanie krzyku całych ludów, najbardziej ubogich ludów ziemi”[93].

92. Jest zatem konieczne, aby nadal potępiać „dyktaturę gospodarki, która zabija” i uznać, że „podczas gdy zyski niewielu ludzi rosną w sposób przekraczający oczekiwania, stanowiący większość oddalają się coraz bardziej od dobrobytu tej szczęśliwej mniejszości. Tego rodzaju brak równowagi rodzi się z ideologii broniących absolutnej autonomii rynków i spekulacji finansowych. Dlatego negują prawo kontroli ze strony państw powołanych do czuwania nad obroną dobra wspólnego. Odradza się nowa niewidoczna tyrania, czasem wirtualna, narzucająca w sposób jednostronny i nieubłagany swoje prawa i reguły”[94]. Chociaż nie brakuje różnych teorii próbujących usprawiedliwić obecny stan rzeczy lub wyjaśnić, że racjonalność ekonomiczna wymaga od nas oczekiwania, aż niewidzialne siły rynku wszystko rozwiążą, godność każdej osoby ludzkiej musi być szanowana teraz, a nie jutro, a sytuacja nędzy wielu ludzi, którym odmawia się tej godności, musi być stałym wezwaniem dla naszego sumienia.

93. W EncykliceDilexit nosPapież Franciszek przypomniał, że grzech społeczny przybiera formę jakby „struktury grzechu” w społeczeństwie, „często będącej elementem dominującej mentalności, która uważa za normalne lub racjonalne to, co w rzeczywistości jest tylko egoizmem i obojętnością. To zjawisko można określić mianem alienacji społecznej”[95]. Czymś normalnym staje się lekceważenie ubogich i życie tak, jak gdyby nie istnieli.Rozsądnym wyborem wydaje się organizowanie gospodarki wymagające poświęceń od ludu, aby osiągnąć pewne cele, które są istotne dla rządzących. Tymczasem dla ubogich pozostają tylko obietnice „kropli”, które spadną, zanim nowy globalny kryzys nie doprowadzi ich ponownie do poprzedniego stanu.Jest to prawdziwa alienacja, która prowadzi do znalezienia wyłącznie wymówek teoretycznych, zamiast prób rozwiązywania konkretnych problemów tych, którzy cierpią. Mówił już o tym św. Jan Paweł II: „Wyobcowane jest społeczeństwo, które poprzez formy społecznej organizacji, produkcji i konsumpcji utrudnia zarówno realizację tego daru, jak i budowanie tej międzyludzkiej solidarności”[96].

94. Musimy coraz bardziej angażować się w rozwiązywanie strukturalnych przyczyn ubóstwa. Jest to pilna potrzeba, z którą „nie można zwlekać (…), nie tylko ze względu na wymogi pragmatyczne, aby uzyskać rezultaty i wprowadzić ład w społeczeństwie, ale żeby je uzdrowić z choroby, która czyni je kruchym i niegodnym i która prowadzi tylko do nowych kryzysów. Plany pomocy, stawiające czoło niektórym pilnym potrzebom, trzeba traktować jedynie jako prowizoryczne odpowiedzi”[97]. Brak sprawiedliwości jest „korzeniem chorób społecznych”[98]. Faktycznie, „często stwierdzamy, że prawa człowieka nie są równe dla wszystkich”[99].

95. Zdarza się, że „w obowiązującym dziś modelu «sukcesu» i «prywatności» nie wydaje się sensowne inwestowanie, aby pozostający w tyle, słabi lub mniej uzdolnieni mogli znaleźć sobie drogę w życiu” [100]. Powraca zawsze to samo pytanie: czy mniej utalentowani nie są osobami ludzkimi? Czy słabi nie mają takiej samej co my godności? Czy ci, którzy urodzili się z mniejszymi możliwościami, są mniej warci jako istoty ludzkie i muszą jedynie ograniczać się do przetrwania? Od odpowiedzi, jaką damy na te pytania, zależy wartość naszych społeczeństw, i od niej zależy także nasza przyszłość. Albo odzyskamy naszą godność moralną i duchową, albo popadniemy jakby w kanał brudów. Jeśli nie zaczniemy traktować tych spraw poważnie, będziemy nadal, w sposób jawny lub ukryty, „usprawiedliwiać dotychczasowy wzorzec dystrybucji, w którym mniejszość uważa, że ma prawo do konsumpcji w takiej proporcji, której nie sposób byłoby upowszechnić, bo planeta nie byłaby nawet w stanie pomieścić odpadów takiej konsumpcji”[101].

96. Wśród kwestii strukturalnych, których odgórnego rozwiązania nie można sobie wyobrazić, a które wymagają jak najszybszego podjęcia, znajduje się kwestia miejsc, przestrzeni, domów, miast, w których żyją i poruszają się ubodzy. Wiemy dobrze: „Jakże piękne są miasta, które przezwyciężyły niezdrową nieufność i integrują różniących się, czyniąc z tej integracji nowy czynnik rozwoju! Jakże piękne są miasta, które w swoich planach architektonicznych pełne są przestrzeni łączących, ułatwiających relację, sprzyjających uznaniu drugiego człowieka!”[102]. Jednocześnie, „nie można nie brać pod uwagę skutków degradacji środowiska, aktualnego modelu rozwoju i kultury odrzucenia dla życia osób”[103]. W rzeczywistości, „degradacja środowiska i degradacja społeczeństwa wyrządzają szczególną szkodę najsłabszym mieszkańcom planety”[104].

97. Dlatego zadaniem wszystkich członków Ludu Bożego jest zabieranie głosu, który budzi, który demaskuje, który się naraża, nawet za cenę bycia uznanym za „głupiego”. Struktury niesprawiedliwości należy rozpoznać i zniszczyć siłą dobra, poprzez zmianę mentalności, ale także, z pomocą nauki i techniki, przez rozwój skutecznych polityk przekształcających społeczeństwa. Należy zawsze pamiętać, że propozycja Ewangelii nie dotyczy jedynie indywidualnej i wewnętrznej relacji z Panem. Propozycja jest szersza, „jest [nią] Królestwo Boże(por.Łk4, 43); chodzi o miłowanie Boga królującego w świecie. W takiej mierze, w jakiej zdoła On królować między nami, życie społeczne będzie przestrzenią braterstwa, sprawiedliwości, pokoju, godności wszystkich. Tak więc zarówno orędzie, jak i doświadczenie chrześcijańskie zmierzają do spowodowania konsekwencji społecznych. Szukamy Jego królestwa”[105].

98. Zatem, dokument, który początkowo nie został dobrze przyjęty przez wszystkich, przedstawia nam refleksję, która jest nadal aktualna: „Winą za nieznośne sytuacje niesprawiedliwości i za istnienie systemów politycznych utrzymujących te sytuacje obciąża się czasem obrońców «ortodoksji», zarzucając im bierność, pobłażliwość, a nawet współudział. Nawrócenia duchowego, żywej miłości Boga i bliźniego, troski o sprawiedliwość i pokój, ewangelicznego traktowania ubogich i ubóstwa, wymaga się od wszystkich, a szczególnie od pasterzy i osób odpowiedzialnych. Troska o czystość wiary musi iść w parze z troską o to, by przez integralne życie teologalne dać skuteczne świadectwo służby na rzecz bliźniego, a szczególnie ubogiego i uciśnionego”[106].

Ubodzy jako podmioty

99. Fundamentalnym darem dla drogi Kościoła powszechnego jest rozeznanie Konferencji wAparecidzie, w którym biskupi Ameryki Łacińskiej wyjaśnili, że opcja preferencyjna Kościoła na rzecz ubogich „zawiera się w chrystologicznej wierze w tego Boga, który dla nas stał się ubogim, aby nas ubóstwem swoim ubogacić”[107]. W dokumencie umieszczono misję w kontekście obecnej sytuacji zglobalizowanego świata z jego nowymi i dramatycznymi nierównościami[108], a w przesłaniu końcowym biskupi piszą: „Rażące różnice pomiędzy bogatymi a ubogimi są dla nas zaproszeniem do większego wysiłku w naszych staraniach o bycie uczniami, którzy wiedzą, jak dzielić się stołem życia, stołem wszystkich synów i córek Ojca, otwartym i włączającym stołem, przy którym nikt nie jest pominięty. Dlatego wzmacniamy naszą preferencyjną i ewangeliczną opcję na rzecz ubogich”[109].

100. Jednocześnie dokument ten, pogłębiając temat poruszony już na poprzednich konferencjach Episkopatu Ameryki Łacińskiej, znaciskiem podkreśla potrzebę postrzegania marginalizowanych społeczności bardziej jakopodmiotówzdolnych do tworzenia własnejkultury niż jakoprzedmiotówdobroczynności. Oznacza to, że wspólnoty te mają prawo do życia zgodnie z Ewangelią oraz do celebrowania i przekazywania wiary, zgodnie z wartościami obecnymi w ich kulturach. Doświadczenie ubóstwa daje im zdolność dostrzegania aspektów rzeczywistości, których inni nie są w stanie dostrzec, i dlatego społeczeństwo powinno ich wysłuchać. To samo dotyczy Kościoła, który powinien pozytywnie oceniać ich „ludowy” sposób przeżywania wiary. Piękny fragment dokumentu końcowego z Aparecidy pomaga nam zastanowić się nad tą kwestią, aby znaleźć właściwą postawę: „Tylko bliskość, która czyni z nas przyjaciół, pozwala nam głęboko docenić wartości współczesnych ubogich, ich uzasadnione pragnienia oraz ich własny sposób przeżywania wiary. (…) Z dnia na dzień ubodzy stają się podmiotami ewangelizacji i wszechstronnej promocji człowieka: uczą swoje dzieci w wierze, żyją w ciągłej solidarności z krewnymi i sąsiadami, stale poszukują Boga oraz dają życie pielgrzymowaniu Kościoła. W świetle Ewangelii uznajemy ich ogromną godność i ich świętą wartość w oczach Chrystusa, biednego i wykluczonego jak oni. Wychodząc od tego chrześcijańskiego doświadczenia razem z nimi będziemy bronić ich praw”[110].

101. Wszystko to wymaga uwzględnienia pewnego aspektu w opcji na rzecz ubogich, o którym musimy nieustannie pamiętać: opcja ta wymaga bowiem od nas „uwagi skierowanej na drugiego człowieka (…). Ta pełna miłości uwaga jest początkiem prawdziwego zatroskania o jego osobę i poczynając od niej, pragnę szukać skutecznie jego dobra. Zakłada to docenianie ubogiego z jego dobrocią, z jego sposobem życia, z jego kulturą, z jego sposobem przeżywania wiary. Autentyczna miłość jest zawsze kontemplatywna, pozwala nam służyć drugiemu nie z konieczności lub próżności, ale ponieważ jest piękna, niezależnie od pozorów. (…) Jedynie poczynając od tej realnej i serdecznej bliskości, możemy odpowiednio im towarzyszyć na ich drodze wyzwolenia”[111]. Z tego powodu kieruję szczere podziękowanie do wszystkich, którzy postanowili żyć pośród ubogich: to znaczy do tych, którzy nie odwiedzają ich od czasu do czasu, lecz którzy mieszkają z nimi i żyją tak jak oni. Jest to opcja, która musi znaleźć swoje miejsce wśród najwznioślejszych form życia ewangelicznego.

102. W tej perspektywie pojawia się wyraźna konieczność, „abyśmy wszyscy pozwolili się ewangelizować”[112]przez ubogich i abyśmy wszyscy rozpoznali „tajemniczą mądrość, którą Bóg chce nam przez nich przekazać[113]. Ubodzy, dorastając w skrajnej niepewności, ucząc się przetrwania w warunkach najbardziej niesprzyjających, ufając Bogu z przekonaniem, że nikt inny nie traktuje ich poważnie, pomagając sobie nawzajem w najmroczniejszych chwilach, nauczyli się wielu rzeczy, które zachowują w tajemnicy swojego serca. Ci z nas, którzy nie mieli podobnych doświadczeń życia prowadzonego na krawędzi, z pewnością mogą wiele czerpać z tego źródła mądrości, jakim jest doświadczenie ubogich. Tylko porównując swoje narzekania z ich cierpieniami i niedostatkami, jesteśmy w stanie przyjąć upomnienie, które wzywa nas do uproszczenia naszego życia.

ROZDZIAŁ PIĄTY

NIEUSTANNE WYZWANIE

103. Postanowiłem przypomnieć tę liczącą dwa tysiące lat historię troski Kościoła o ubogich i z ubogimi, aby pokazać, że stanowi ona istotną część nieprzerwanej drogi Kościoła. Troska o ubogich jest częścią wielkiej Tradycji Kościoła, jak snop światła, który od początków Ewangelii i później oświecał serca i kroki chrześcijan wszystkich czasów. Dlatego powinniśmy odczuwać pilną potrzebę zaproszenia wszystkich do wejścia w ten strumień światła i życia, który płynie z rozpoznania Chrystusa w obliczu potrzebujących i cierpiących. Miłość wobec ubogich jest istotnym elementem historii Boga z nami i samego serca Kościoła, wybucha jako nieustanny apel do serc wierzących, zarówno wspólnot, jak i poszczególnych wiernych. Ponieważ Kościół jest Ciałem Chrystusa, odczuwa życie ubogich, będących uprzywilejowaną częścią ludu w drodze, jako swoje własne „ciało”. Dlatego umiłowanie ubogich – niezależnie od formy, w jakiej to ubóstwo się przejawia – jest ewangeliczną gwarancją Kościoła wiernego sercu Boga. Każda odnowa kościelna zawsze bowiem miała wśród swoich priorytetów tę preferencyjną uwagę skierowaną wobec ubogich, która różni się zarówno motywacją, jak i stylem od działalności jakiejkolwiek innej organizacji humanitarnej.

104. Chrześcijanin nie może postrzegać ubogich wyłącznie jako problem społeczny: są oni „sprawą rodzinną”. Są „naszymi”. Relacja z nimi nie może być sprowadzona do jakiejś działalności lub do biura Kościoła. Jak naucza Konferencja z Aparecidy, „zaleca się, abyśmy poświęcali czas i uprzejmą uwagę ubogim, słuchali ich z zainteresowaniem, towarzyszyli im w najtrudniejszych chwilach, spędzali z nimi godziny, tygodnie lub lata naszego życia i starali się zmieniać ich sytuację, zaczynając od nich samych. Nie możemy zapominać, że sam Jezus zaproponował to swoim postępowaniem i słowami” [114].

Ponownie miłosierny Samarytanin

105. Dominująca kultura początku obecnego tysiąclecia skłania do pozostawienia ubogich ich losowi, do nieuznawania ich za godnych uwagi, a tym bardziej szacunku. W EncykliceFratelli tuttiPapież Franciszek zaprosił nas do refleksji nad przypowieścią o miłosiernym Samarytaninie (por.Łk10, 25–37) właśnie po to, aby pogłębić tę kwestię. W przypowieści tej widzimy bowiem, że wobec poranionego i porzuconego przy drodze człowieka przechodzący zachowują się różnie. Troszczy się o niego jedynie miłosiernySamarytanin. Powraca zatem pytanie, które dotyczy każdego z nas osobiście: „Z kim się utożsamiasz? To pytanie jest trudne, bezpośrednie i decydujące. Do którego z nich jesteś podobny? Musimy uznać otaczającą nas pokusę obojętności wobec innych, zwłaszcza najsłabszych. Trzeba powiedzieć, że rozwinęliśmy się pod wieloma aspektami, ale jesteśmy analfabetami w towarzyszeniu, opiece i wspieraniu najsłabszych i najbardziej wrażliwych w naszych rozwiniętych społeczeństwach. Przyzwyczailiśmy się do odwracania wzroku, do przechodzenia obok, do ignorowania sytuacji, chyba że dotyczą nas bezpośrednio” [115].

106. Ileż dobra przynosi nam odkrycie, że scena o miłosiernym Samarytaninie powtarza się również dzisiaj. Przypomnijmy sobie sytuację z naszych czasów: „Kiedy spotykam osobę śpiącą na zewnątrz w zimną noc, mogę poczuć, że ten «dziwak» jest kimś przypadkowym, kto wchodzi mi w drogę, gnuśnym oprychem, przeszkodą na mojej drodze, dokuczliwym cierniem w sumieniu, problemem, który muszą rozwiązać politycy, a może nawet nieczystością, zaśmiecającą przestrzeń publiczną. Ale mogę także zareagować, wychodząc od wiary i miłości, uznając w tym człowieku istotę ludzką, posiadającą taką samą godność jak ja, stworzenie nieskończenie umiłowane przez Ojca, obraz Boga, brata odkupionego przez Chrystusa. To znaczy być chrześcijaninem! Czy da się pojąć świętość bez tego żywego uznania godności każdej istoty ludzkiej?” [116]. Co uczynił miłosierny Samarytanin?

107. Pytanie to staje się naglące, ponieważ pomaga nam uświadomić sobie poważny brak w naszych społeczeństwach, a także w naszych wspólnotach chrześcijańskich. Faktem jest, że spotykamy dzisiaj wiele form obojętności; „są to jednak oznaki pewnego ogólnego stylu życia, który przejawia się na różne sposoby, być może bardziej wyrafinowane. Ponadto, ponieważ wszyscy jesteśmy bardzo skoncentrowani na własnych potrzebach, dostrzeżenie kogoś cierpiącego denerwuje nas, przeszkadza nam, ponieważ nie chcemy marnować naszego czasu z powodu czyichś problemów. Są to objawy chorego społeczeństwa, ponieważ usiłuje ono budować się na ludzkim cierpieniu. Lepiej nie popaść w to nieszczęście. Spójrzmy na wzór miłosiernego Samarytanina”[117]. Ostatnie słowa przypowieści ewangelicznej – „Idź i ty czyń podobnie!” (Łk10, 37) – są nakazem, którego brzmienie chrześcijanin powinien codziennie słyszeć w swoim sercu.

Nieuniknione wyzwanie dla współczesnego Kościoła

108. W okresie szczególnie trudnym dla Kościoła Rzymskiego, kiedy instytucje imperialne chyliły się ku upadkowi pod presją barbarzyńców, Papież św. Grzegorz Wielki tak napomniał swoich wiernych: „Codziennie znajdujemy Łazarza, jeśli go szukamy, co dzień widzimy Łazarza, choćbyśmy go nie szukali. Oto natrętnie ubodzy się narzucają, proszą nas ci, którzy potem za nami będą orędowali (…) Nie chciejcie więc marnować czasu miłosierdzia, nie chciejcie ukrywać tego, coście otrzymali”[118]. Odważnie przeciwstawiał się powszechnym uprzedzeniom wobec ubogich, takim jak przekonanie, że są oni odpowiedzialni za swoją nędzę: „Jeśli zaś widzicie, iż ubodzy czynią coś złego, nie pogardzajcie nimi, nie wątpcie o nich, albowiem może to, co w nich jest niegodziwego, ogień ubóstwa oczyszcza”[119]. Nierzadko dobrobyt zaślepia nas do tego stopnia, że uważamy, iż nasze szczęście może się spełnić tylko wtedy, gdy potrafimy poradzić sobie bez pomocy innych. W tym względzie ubodzy mogą być dla nas cichymi nauczycielami, sprowadzając naszą dumę i arogancję do stanu właściwej pokory.

109. Jeśli prawdą jest, że ubodzy są wspierani przez tych, którzy mają środki materialne, to z całą pewnością można stwierdzić również coś odwrotnego. Jest to zaskakujące doświadczenie potwierdzone przez tradycję chrześcijańską, które staje się prawdziwym punktem zwrotnym w naszym życiu osobistym, kiedy zdajemy sobie sprawę, że to właśnie ubodzy ewangelizują nas. W jaki sposób? W milczeniu swojej sytuacji stawiają nas wobec naszej słabości. Osoba starsza na przykład poprzez kruchość swojego ciała przypomina nam o naszych słabych punktach, nawet jeśli staramy się ukryć je za dobrobytem lub pozorami. Ponadto ubodzy skłaniają nas do refleksji nad bezpodstawnością tej agresywnej pychy, z jaką często stawiamy czoła trudnościom życia. W istocie bowiem ujawniają oni naszą kruchość i pustkę życia, które wydaje się chronione i zabezpieczone. W tym kontekście posłuchajmy ponownie św. Grzegorza Wielkiego: „Niech się więc nikt nie czuje bezpieczny, mówiąc: Cudzego nie porywam, lecz należycie korzystam z rzeczy mi danej. Ów bogacz przecież nie za to został ukarany, że zabrał cudze, lecz że dla rzeczy, jakie otrzymał, opuścił siebie niegodziwie. Również i to oddało go piekłu, że w swojej pomyślności nie kierował się bojaźnią, że otrzymywanymi darami żywił swą pychę, że nie znał uczucia litości, że opływając w dostatki, nie chciał się ich wyzbyć za cenę grzechów”[120].

110. Dla nas, chrześcijan, kwestia ubogich prowadzi z powrotem do sedna naszej wiary. Opcja preferencyjna na rzecz ubogich, czyli miłość Kościoła do nich, jak nauczał św. Jan Paweł II, „jest decydująca i należy do jego stałej tradycji, skłania go do zwrócenia się ku światu, w którym pomimo postępu techniczno-gospodarczego ubóstwo grozi przybraniem gigantycznych rozmiarów”[121]. Rzeczywistość jest taka, że dla chrześcijan ubodzy nie są kategorią socjologiczną, lecz samym ciałem Chrystusa. Nie wystarczy bowiem ograniczyć się do ogólnego sformułowania doktryny o wcieleniu Boga. Natomiast, aby naprawdę wejść w to misterium, należy sprecyzować, że Pan stał się ciałem, które jest głodne, spragnione, chore, uwięzione. „Kościół ubogi dla ubogich zaczyna się od tego, że wychodzimy ku ciału Chrystusa. Jeśli idziemy do ciała Chrystusa, zaczynamy coś rozumieć, pojmować, czym jest to ubóstwo, ubóstwo Pana. I nie jest to łatwe”[122].

111. Serce Kościoła z samej swojej natury jest solidarne z tymi, którzy są ubodzy, wykluczeni i marginalizowani, z tymi, którzy uważani są za „wyrzutki” społeczeństwa. Ubodzy znajdują się w samym centrum Kościoła, ponieważ to właśnie z „naszej wiary w Chrystusa, który stał się ubogim, będąc zawsze blisko ubogich i wykluczonych, wypływa troska o integralny rozwój najbardziej opuszczonych w społeczeństwie”[123]. W sercu każdego wiernego znajduje się „potrzeba wysłuchania tego krzyku, [który] wynika z wyzwalającego działania łaski w każdym z nas, dlatego nie chodzi o misję zarezerwowaną tylko dla niektórych”[124].

112. Niekiedy w pewnych ruchach lub grupach chrześcijańskich można dostrzec niedobór lub nawet brak zaangażowania na rzecz dobra wspólnego społeczeństwa, a zwłaszcza na rzecz obrony i promocji najsłabszych i znajdujących się w najbardziej niekorzystnej sytuacji. W tym kontekście należy przypomnieć, że religia, a zwłaszcza religia chrześcijańska, nie może być ograniczana do sfery prywatnej, tak jakby wierni nie powinni zajmować się także problemami odnoszącymi się do społeczeństwa obywatelskiego i wydarzeniami, które dotyczą obywateli[125].

113. Faktycznie, „każda wspólnota Kościoła, która nie zamierza w pełni, w sposób twórczy, skutecznie współpracować, aby ubodzy żyli godnie i nikt nie był wykluczony, narazi się także na ryzyko rozkładu, chociaż mówi o tematach społecznych lub krytykuje rządy. Łatwo podda się w końcu światowości duchowej, maskowanej praktykami religijnymi, bezowocnymi zebraniami lub pustymi przemówieniami”[126].

114. Nie mówimy tu tylko o pomocy i niezbędnym zaangażowaniu na rzecz sprawiedliwości. Wierzący muszą zdać sobie sprawę z innej formy niekonsekwencji wobec ubogich. Doprawdy, „najgorszą dyskryminacją, jakiej doświadczają ubodzy, jest brak opieki duchowej. (…) Opcja preferencyjna musi głównie przyjąć formę uprzywilejowanej i priorytetowej opieki duchowej”[127]. Jednak ta duchowa troska o ubogich jest kwestionowana za sprawą pewnych uprzedzeń, również ze strony chrześcijan, ponieważ czujemy się bardziej komfortowo bez ubogich. Niektórzy stale mówią: „Naszym zadaniem jest modlić się i nauczać prawdziwej doktryny”. Ale, oddzielając ten aspekt religijny od integralnego wsparcia, dodają, że jedynie rząd powinien się nimi zajmować, albo iż lepiej byłoby pozostawić ich w nędzy, ucząc ich raczej pracy. Czasami zaś przyjmuje się pseudonaukowe kryteria, by twierdzić, że wolny rynek sam z siebie doprowadzi do rozwiązania problemu ubóstwa. Albo decyduje się nawet na duszpasterstwo tzw.elit, stwierdzając, że zamiast tracić czas na ubogich, lepiej troszczyć się o bogatych, wpływowych i profesjonalistów, aby dzięki nim można było osiągnąć bardziej skuteczne rozwiązania. Łatwo dostrzec światowość kryjącą się za tymi opiniami: prowadzą one do postrzegania rzeczywistości według powierzchownych kryteriów, pozbawionych jakiegokolwiek nadnaturalnego światła, faworyzując znajomości, które nas uspokajają, i poszukując przywilejów, które nam odpowiadają.

Dawać, także i dziś

115. Warto poświęcić ostatnie słowo jałmużnie, która nie cieszy się dziś dobrą opinią, często nawet wśród wierzących. Nie tylko rzadko jest praktykowana, ale czasem wręcz pogardzana. Z jednej strony, powtarzam, że najważniejszą pomocą dla ubogiej osoby jest pomoc w znalezieniu jej dobrej pracy, aby mogła zarabiać na życie bardziej odpowiadające jej godności, rozwijając swoje umiejętności i podejmując swój osobisty wysiłek. Faktem jest, że „brak pracy to znacznie więcej niż utrata źródła dochodu niezbędnego, aby żyć. Praca to również i to, ale jest czymś znacznie, znacznie więcej. Pracując, stajemy się bardziej ludźmi, rozkwita nasze człowieczeństwo, młodzi ludzie stają się dorosłymi tylko dzięki pracy. Nauka społeczna Kościoła zawsze postrzegała pracę ludzką jako udział w trwającym każdego dnia dziele stworzenia, również dzięki rękom, myśli i sercu pracowników”[128]. Z drugiej strony, jeśli nie ma jeszcze takiej konkretnej możliwości, nie możemy ryzykować, pozwalając napozostawienie jakiejś osoby własnemu losowi, bez tego, co jest niezbędne do godnego życia. A zatem jałmużna pozostaje niezbędnym etapem kontaktu, spotkania i wczuwania się w sytuację drugiej osoby.

116. Dla tych, którzy naprawdę kochają, jest oczywiste, że jałmużna nie zwalnia kompetentnych władz z odpowiedzialności, nie eliminuje organizacyjnego zaangażowania instytucji, ani nie zastępuje słusznej walki o sprawiedliwość. Zachęca ona jednak przynajmniej do zatrzymania się i spojrzenia na twarz ubogiego, dotknięcia go i podzielenia się z nim czymś własnym. W każdym przypadku jałmużna, nawet niewielka, wprowadza odrobinępietasdo życia społecznego, w którym wszyscy martwią się o własne interesy. Księga Przysłów mówi: „Błogosławiony, czyje oko jest miłosierne, bo chlebem podzielił się z potrzebującym” (Prz22, 9).

117. Zarówno Stary, jak i Nowy Testament zawierają prawdziwe i własne hymny pochwalne na cześć jałmużny: „Poza tym bądź dla biednego łaskawy i nie daj mu długo czekać na jałmużnę! (…) Zamknij jałmużnę w spichlerzach swoich, a ona wybawi cię z każdego nieszczęścia (Syr29, 8.12). I Jezus podejmuje to nauczanie: „Sprzedajcie wasze mienie i dajcie jałmużnę. Sprawcie sobie trzosy, które nie niszczeją, skarb niewyczerpany w niebie” (Łk12, 33).

118. Św. Janowi Chryzostomowi przypisywało się następujące słowa zachęty: „Jałmużna jest skrzydłem modlitwy. Jeśli nie dodasz skrzydła do swojej modlitwy, ledwo będzie mogła wzbić się w powietrze”[129]. Św. Grzegorz z Nazjanzu kończył zaś swoje słynne kazanie następującymi słowami: „Jeśli sądzicie, że należy mnie choć trochę posłuchać, słudzy Chrystusa, bracia i Jego spadkobiercy, to odwiedzajmy Pana póki czas, pielęgnujmy Go i nakarmijmy, odziejmy Go i przygarnijmy do siebie, uczcijmy Go nie tylko stołem, jak niektórzy, czy olejkami, jak Maria, nie grobem, jak Józef z Arymatei, ani tym, co związane jest z pogrzebem, jak Nikodem, który tylko połowicznie kochał Chrystusa, nie złotem wreszcie, kadzidłem i mirrą, jak to uczynili Magowie przed tymi wszystkimi, których wymieniliśmy. Pan bowiem wszechrzeczy pragnie miłosierdzia, a nie ofiary. (…) Takie właśnie miłosierdzie okażmy Chrystusowi w ubogich, którzy leżą dziś rozciągnięci na ziemi, aby nas przyjęli, gdy stąd odejdziemy, do wiecznych przybytków”[130].

119. Miłość i najgłębsze przekonania należy umacniać, a czyni się to gestami. Pozostawanie w świecie idei i dyskusji, bez osobistych, częstych i szczerych gestów, będzie zniszczeniem naszych najcenniejszych marzeń. Z tego prostego powodu jako chrześcijanie nie rezygnujemy z jałmużny. Jest to gest, który można wykonać na różne sposoby i który możemy spróbować zrealizować najbardziej skuteczną metodą, ale musimy to zrobić. Zawsze lepiej jest uczynić coś, niż nie robić nic. W każdym razie poruszy to nasze serca. Nie będzie to rozwiązaniem problemu ubóstwa w świecie, którego należy szukać rozumem, wytrwałością i zaangażowaniem społecznym. Jednak potrzebujemy praktykować jałmużnę, by dotknąć cierpiącego ciała ubogich.

120. Miłość chrześcijańska pokonuje wszelkie bariery, zbliża oddalonych, łączy obcych, czyni bliskimi nieprzyjaciół, przekracza przepaście po ludzku nie do pokonania, wnika w najskrytsze zakamarki społeczeństwa. Ze swej natury miłość chrześcijańska jest prorocza, dokonuje cudów, nie ma granic: jest dla tego, co niemożliwe. Miłość jest przede wszystkim sposobem pojmowania życia, sposobem jego przeżywania. OtóżKościół, który nie stawia miłości żadnych granic, który nie zna wrogów, z którymi trzeba walczyć, lecz tylko mężczyzn i kobiety, których należy miłować – to Kościół, którego potrzebuje dziś świat.

121. Niech będzie możliwe, zarówno poprzez waszą pracę, jak i wasze zaangażowanie na rzecz przemiany niesprawiedliwych struktur społecznych, jak też poprzez prosty, bardzo osobisty i bliski gest pomocy, aby ubogi poczuł, że następujące słowa Jezusa są skierowane do niego: „Ja cię umiłowałem” (Ap3, 9).

W Rzymie, u Świętego Piotra, dnia 4 października 2025, we wspomnienie św. Franciszka z Asyżu, w pierwszym roku mego Pontyfikatu.

LEON PP. XIV

______________________

[1]Franciszek, Enc.Dilexit nos(24 października 2024), 170:AAS116 (2024), 1422.

[2]Tamże, 171:AAS116 (2024), 1422–1423.

[3]Tenże, Adhort. apost.Gaudete et exsultate(19 marca 2018), 96:AAS110 (2018), 1137.

[4]Franciszek,Spotkanie z dziennikarzami(16 marca 2013):AAS105 (2013), 381;L’Osservatore Romano, wyd. polskie, n. 5 (352)/2013, s. 13.

[5]J.M.Bergoglio SJ, A. Skórka,W niebie i na ziemi, tłum. Marta Szafrańska-Brandt, Kraków 2013, s. 248.

[6]PawełVI,Homilia wygłoszona podczas Mszy św. z okazji ostatniej publicznej sesji Soboru Powszechnego Watykańskiego II(7 grudnia 1965):AAS58 (1966), 55–56.

[7]Por.Franciszek,Adhort. apost.Evangelii gaudium(24 listopada 2013), 187:AAS105 (2013), 1098.

[8]Tamże, 212:AAS105 (2013), 1108.

[9]Tenże, Enc.Fratelli tutti(3 października 2020), 23:AAS112 (2020), 977.

[10]Tamże, 21: AAS112 (2020), 976.

[11]Consiglio delle Comunità Europee,Decisione (85/8/CEE) relativa ad un’azione specifica comunitaria di lotta contro la povertà(19 dicembre 1984), art. 1, par. 2:Gazzetta ufficialedelle Comunità europee, N. L 2/24.

[12]Por. Św. Jan Paweł II,Katecheza(27 października 1999):L’Osservatore Romano, wyd. polskie, n. 1 (219)/2000, s. 43.

[13]Franciszek, Adhort. apost.Evangelii gaudium(24 listopada 2013), 197:AAS105 (2013), 1102.

[14]Por.Tenże,Orędzie na V Światowy Dzień Ubogich(13 czerwca 2021), 3:AAS113 (2021), 691: „Jezus nie tylko staje po stronie ubogich, ale również dzieli z nimi ten sam los. To jest silne przesłanie również dla Jego uczniów po wszystkie czasy”.

[15]Tenże, Adhort. apost.Evangelii gaudium(24 listopada 2013), 186:AAS105 (2013), 1098.

[16]Tenże, Adhort. apost.Gaudete et exsultate(19 marca 2018), 95:AAS110 (2018), 1137.

[17]Tamże, 97:AAS110 (2018), 1137.

[18]Tenże, Adhort. apost.Evangelii gaudium(24 listopada 2013), 194:AAS105 (2013), 1101.

[19]Franciszek,Spotkanie z dziennikarzami(16 marca 2013):AAS105 (2013), 381;L’Osservatore Romano, wyd. polskie, n. 5 (352)/2013, s. 13.

[20]Sobór Watykański II, Konst. dogmat.Lumen gentium, 8.

[21]Franciszek, Adhort. apost.Evangelii gaudium(24 listopada 2013), 48:AAS105 (2013), 1040.

[22]W niniejszym rozdziale przedstawiamy kilka takich przykładów świętości, które nie mają charakteru wyczerpującego,ale raczej wskazują na troskę o ubogich, która zawsze charakteryzowała obecność Kościoła w świecie. Dogłębną refleksję na temat historii tej troski o najbardziej potrzebujących można znaleźć w książce V. Paglii,Storia della povertà, Milano 2014.

[23]Por.Św. Ambroży z Mediolanu,Obowiązki duchownych,tłum.Kazimierz Abgarowicz, Warszawa 1967, I, rozdz. 41, 205-206, s. 91–93:CCSL15, Turnhout 2000, 76–77; II, rozdz. 28, 140–143, s. 159–160:CCSL15, 148–149.

[24]Tamże, II, rozdz. 28, 140, s. 159:CCSL15, 148.

[25]Tamże.

[26]Tamże, II, rodz. 28, 142, s. 159:CCSL15, 148.

[27]Św. Ignacy z Antiochii,Do Kościoła w Smyrnie, 6, 2, w:Pierwsi świadkowie, tłum. Anna Świderkówna, Kraków 1988, s. 172;SCh10bis, Paris 2007, 136–138.

[28]Św. Polikarp, List do Kościoła w Filippi, 6, 1, w:Pierwsi świadkowie, tłum. Anna Świderkówna, Kraków 1988, s. 195;SCh10bis, 186.

[29]Św. Justyn,ApologiaI, 67, 6–7, w:Eucharystia pierwszych chrześcijan, Kraków 1987, s. 254;SCh507, Paris 2006, 310.

[30]Św. Jan Chryzostom,Homilie na Ewangelię św. Mateusza, oprac. ks. Arkadiusz Baron, Kraków 2002, 50, 3, s. 107–108;PG58, Paris 1862, 508.

[31]Tamże, 50, 4, s. 108;PG58, 509.

[32]Tenże,Homilia in Epistula ad Hebraeos11, 3:PG63, Paris 1862, 94.

[33]Tenże,Homilia II De Lazaro, II, 6:PG48, Paris 1862, 992.

[34]Św.Ambroży,Historia Nabota, XII, 53, tłum. ks. Marek Kozera, Sandomierz 1985, s. 58;CSEL32/2, Praga-Vienna-Lipsia 1897, 498.

[35]Św. Augustyn,Objaśnienia psalmów, 125, 12, tłum. Jan Sulowski, Warszawa 1986, s. 23;CSEL95/3, Vienna 2001, 181.

[36]Tenże,Sermo 86, 5:CCSL41Ab, Turnhout 2019, 411–412.

[37]Pseudo-Augustyn,Sermo 388, 2:PL39, Paris 1862, 1700.

[38]Św. Cyprian,De mortalitate, 16:CCSL3A, Turnhout 1976, 25.

[39]Franciszek,Orędzie na XXX Światowy Dzień Chorego(10 grudnia 2021), 3:AAS114 (2022), 51;L’Osservatore Romano, wyd. polskie, n. 2 (440)/2022, s. 5.

[40]Św. Kamil de Lellis,Regole della Compagnia dei Servi degli Infermi, 27:M. Vanti (ed.),Scritti di San Camillo de Lellis, Milano 1965, 67.

[41]Św. Ludwika De Marillac,Lettera alle sorelle Claude Carré e Marie Gaudoin(28 novembre 1657):E. Charpy(ed.),Sainte Louise de Marillac.Écrits, Paris 1983, 576.

[42]Św. Bazyli Wielki,Reguły krótsze, 37, 1, w:Pisma ascetyczne, t. 2, przekł. i oprac. ks.Józef Naumowicz, Kraków 1995, s. 145–146;PG31, Paris 1857, 1009 C–D.

[43]Regula Benedicti, 53, 15:SCh182, Paris 1972, 614.

[44]Św.Jan Kasjan,RozmowaXIV, 10, w:Rozmowa z ojcami, t. 2. tłum. ks. Arkadiusz Nocoń, Tyniec 2015;CSEL13, Vienna 2004, 410.

[45]Benedykt XVI,Katecheza(21 października 2009):L’Osservatore Romano,wyd. polskie, n. 1 (319)/2010, s. 42.

[46]Por.Innocenty III, BollaOperante divinae dispositionisRegola Primitiva dei Trinitari(17 dicembre 1198),2: J.L. Aurrecoechea – A. Moldón (edd.),Fuentes históricas de la Orden Trinitaria (s. XII–XV), Córdoba 2003, 6: „Wszystkie dobra, niezależnie od tego, skąd pochodzą, powinny być podzielone na trzy równe części; a jeśli dwie części byłyby wystarczające, należy z nich wypełnić uczynki miłosierdzia, zapewniając jednocześnie umiarkowane utrzymanie dla siebie i dla domowników, którzy służą im z konieczności. Trzecia część powinna być jednak przeznaczona na wykup jeńców z powodu ich wiary w Chrystusa”.

[47]Por.Costituzioni dell’Ordine dei Mercedari, n. 14:Orden de la Beata Virgen María de la Merced,Regla y Constituciones,Roma 2014, 53: „Aby wypełnić tę misję, pobudzeni miłosierdziem, poświęcamy się Bogu szczególnym ślubem, nazywanym ślubem Odkupienia, na mocy którego obiecujemy oddać życie, jeśli zajdzie taka potrzeba, tak jak Chrystus oddał swoje życie za nas, aby ocalić chrześcijan znajdujących się w śmiertelnym niebezpieczeństwie utraty wiary w nowych formach niewoli”.

[48]Por.Św.Jan Chrzciciel od Poczęcia,La regla de la Orden de la Santísima Trinidad, XX, 1:BAC Maior60, Madrid 1999, 90: „W tym ubodzy i więźniowie są podobni do Chrystusa, na którego spadły cierpienia świata (…). Ten święty Zakon Świętej Trójcy wzywa ich i zaprasza, aby przyszli pić wodę Zbawiciela, co oznacza, że skoro Chrystus zawieszony na krzyżu był odkupieniem i zbawieniem dla ludzi, Zakon przyjął to odkupienie i chce je rozdzielać ubogim oraz zbawiać i wyzwalać więźniów”.

[49]Por.Tenże,El recogimiento interior, XL, 4:BAC Maior48, Madrid 1995, 689: „Wolna wola czyni człowieka wolnym i panem wszystkich stworzeń, ale, wspomóż mnie Boże, iluż to jest takich, którzy tą drogą stają się niewolnikami i więźniami diabła, uwięzieni i skuci łańcuchami swoich namiętności i pożądliwości”.

[50]Franciszek,Orędzie na XLVIII Światowy Dzień Pokoju(8 grudnia 2014), 3:AAS107 (2015), 69;L’Osservatore Romano, wyd. polskie, n. 12 (367)/2014, s. 6.

[51]Tenże,Incontro con gli agenti di Polizia Penitenziaria, i detenuti e i volontari(Verona, 18 maggio 2024):AAS116 (2024), 766.

[52]HonoriuszIII,BullaSolet annuereRegula bullata(29 listopada 1223), rozdz.VI:SCh285, Paris 1981, 192; w:Źródła Franciszkańskie, Kraków 2005, s. 131–132.

[53]Por.GrzegorzIX, BullaSicut manifestum est(17 września 1228), 7:SCh325, Paris 1985, 200; w:Źródła Franciszkańskie, Kraków 2005, s. 2303: „A więc tak jak prosiłyście, umacniamy naszą łaską apostolską wasze postanowienie zachowywania najwyższego ubóstwa i niniejszym pismem pozwalamy, abyście nigdy nie były zmuszone przez kogokolwiek do przyjmowania na własność posiadłości”.

[54]Por.S.C. Tugwell(ed.),Early Dominicans.Selected Writings, Mahwah 1982, 16–19.

[55]Bł.Tomasz z Celano,Życiorys drugi Świętego Franciszka z Asyżu, IV, 8, w:Źródła Franciszkańskie, Kraków 2005, s. 565.

[56]Franciszek,Discorso dopo la visita alla tomba di don Lorenzo Milani(Barbiana, 20 giugno 2017), 2:AAS109 (2017), 745.

[57]Św. Jan Paweł II,Discorso ai partecipanti al Capitolo Generale dei Chierici Regolari Poveri della Madre di Dio delle Scuole Pie (Scolopi)(5 luglio 1997), 2:L’Osservatore Romano, 6 luglio 1997, 5.

[58]Tamże.

[59]Tenże,Homilia podczas Mszy św. kanonizacyjnej(18 kwietnia 1999):AAS91 (1999), 930;L’Osservatore Romano, wyd. polskie, n. 7 (214)/1999, s. 28.

[60]Por.Tenże, List apost.Iuvenum Patris(31 stycznia 1988), 9:AAS80 (1988), 976.

[61]Por. Franciszek,Discorso ai partecipanti al Capitolo Generale dell’Istituto della Carità (Rosminiani)(1 ottobre 2018):L’Osservatore Romano, 1–2 ottobre 2018, 7.

[62]Tenże,Homilia podczas uroczystości kanonizacyjnej(9 października 2022):AAS114 (2022), 1338;L’Osservatore Romano, wyd. polskie, n. 10 (446)/2022, s. 25.

[63]Św. Jan Paweł II,Messaggio alla Congregazione delle Missionarie del Sacro Cuore(31 maggio 2000), 3:L’Osservatore Romano, 16 luglio 2000, 5.

[64]Por.Pius XII,Breve ap.Superiore Iam Aetate(8 settembre 1950):AAS43, 1951, 455–456.

[65]Franciszek,Orędzie na CV Światowy Dzień Migranta i Uchodźcy(27 maja 2019):AAS111 (2019), 911;L’Osservatore Romano, wyd. polskie, n. 7–8 (414)/2019, s. 6.

[66]Tenże,Orędzie na C Światowy Dzień Migranta i Uchodźcy(5 sierpnia 2013):AAS105 (2013), 930;L’Osservatore Romano, wyd. polskie, n. 11 (356)/2013, s. 6.

[67]Św.Teresa z Kalkuty,Discorso in occasione del conferimento del PremioNobel per la Pace(Oslo, 10 dicembre 1979):Tenże,Aimer jusqu’à enavoir mal, Lyon 2017, 19–20.

[68]Św. Jan Paweł II,Discorso ai pellegrini convenuti a Roma per la beatificazione di Madre Teresa di Calcutta(20 ottobre 2003), 3:L’Osservatore Romano, 20–21 ottobre 2003, 10.

[69]Franciszek,Homilia podczas Mszy św. kanonizacyjnej(13 października 2019):AAS111 (2019), 1712;L’Osservatore Romano, wyd. polskie, n. 11 (417)/2019, s. 19.

[70]Św. Jan Paweł II, List apost.Novo millennio ineunte(6 stycznia 2001), 49:AAS93 (2001), 302.

[71]Franciszek, Adhort. apost.Christus vivit(25 marca 2019), 231:AAS111 (2019), 458.

[72]Tenże,Przemówienie do uczestników światowego spotkania ruchów ludowych(28 października 2014):AAS106 (2014), 851–852;L’Osservatore Romano, wyd. polskie, n. 11 (366)/2014, s. 44.

[73]Tamże, s. 48:AAS106 (2014), 859.

[74]Tenże,Discorso ai partecipanti all’Incontro mondiale dei movimenti popolari(5 novembre 2016):L’Osservatore Romano, 7–8 novembre 2016, 5.

[75]Tamże.

[76]Św.Jan XXIII,Radiomessaggio a tutti i fedeli del mondo ad un mese dall’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II(11 settembre 1962):AAS54 (1962), 682.

[77]G.Lercaro,Intervento nella XXXV Congregazione Generale del Concilio Ecumenico Vaticano II(6 dicembre 1962), 2:ASI/IV, 327–328.

[78]Tamże, 4:ASI/IV, 329.

[79]Istituto per le Scienze Religiose(ed.),Per la forza dello Spirito. Discorsi conciliari del Card. Giacomo Lercaro, Bologna 1984, 115.

[80]Św.PawełVI,Allocuzione nella solenne inaugurazione della II Sessione del Concilio Ecumenico Vaticano(29 settembre 1963):AAS55 (1963), 857.

[81]Tenże, Katecheza(11 listopada 1964): Insegnamenti di Paolo VI, II (1964), 984.

[82]Sobór Watykański II, Konst, duszp.Gaudium et spes, 69.71.

[83]Św. Paweł VI,Enc.Populorum progressio(26 marca 1967), 23:AAS59 (1967), 269.

[84]Por.tamże, 4:AAS59 (1967), 259.

[85]Św. Jan Paweł II, Enc.Sollicitudo rei socialis(30 grudnia 1987), 42:AAS80 (1988), 572.

[86]Por.tamże,AAS80 (1988), 573.

[87]Tenże, Enc.Laborem exercens(14 września 1981), 3:AAS73 (1981), 584.

[88]Benedykt XVI, Enc.Caritas in veritate(29 czerwca 2009), 7:AAS101 (2009), 645.

[89]Tamże, 27:AAS101 (2009), 661.

[90]II Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano,Documento di Medellín(24 ottobre 1968), 14, n. 7:CELAM,Medellín. Conclusiones,Lima 2005, 131-132.

[91]Franciszek, Adhort. apost.Evangelii gaudium(24 listopada 2013), 202:AAS105 (2013), 1105.

[92]Tamże, 205:AAS105 (2013), 1106.

[93]Tamże, 190:AAS105 (2013), 1099.

[94]Tamże, 56:AAS105 (2013), 1043.

[95]Tenże, Enc.Dilexit nos(24 października 2024), 183:AAS116 (2024), 1427.

[96]Św.Jan Paweł II, Enc.Centesimus annus(1 maja 1991), 41:AAS83 (1991), 844–845.

[97]Franciszek, Adhort. apost.Evangelii gaudium(24 listopada 2013), 202:AAS105 (2013), 1105.

[98]Tamże.

[99]Tenże, Enc.Fratelli tutti(3 października 2020), 22:AAS112 (2020), 976.

[100]Tenże, Adhort. apost.Evangelii gaudium(24 listopada 2013), 209:AAS105 (2013), 1107.

[101]Tenże, Enc.Laudato si’(24 maja 2015), 50:AAS107 (2015), 866.

[102]Tenże, Adhort. apost.Evangelii gaudium(24 listopada 2013), 210:AAS105 (2013), 1107.

[103]Tenże, Enc.Laudato si’(24 maja 2015), 43:AAS107 (2015), 863.

[104]Tamże, 48:AAS107 (2015), 865.

[105]Tenże, Adhort. apost.Evangelii gaudium(24 listopada 2013), 180:AAS105 (2013), 1095.

[106]Kongregacja Nauki Wiary,Instrukcja o niektórych aspektach „Teologii wyzwolenia”(6 sierpnia 1984), XI, 18:AAS76 (1984), 907–908.

[107]Aparecida. V Ogólna Konferencja Episkopatów Ameryki Łacińskiej i Karaibów,Dokument końcowy(29 czerwca 2007), n. 392, Gubin 2014, s. 192; Por. BENEDYKT XVI,Przemówienie na sesji inauguracyjnej V Konferencji Ogólnej Episkopatu Ameryki Łacińskiej i Karaibów(Aparecida, 13 maja 2007), 3: AAS 99 (2007), 450;L’Osservatore Romano, wyd. polskie, n. 9 (296)/2007, s. 38.

[108]Por.Aparecida. V Ogólna Konferencja Episkopatów Ameryki Łacińskiej i Karaibów,Dokument końcowy(29 czerwca 2007), n. 43-87, Gubin 2014, s. 37–53.

[109]Tenże, Przesłanie V Konferencji Ogólnej do narodów Ameryki Łacińskiej i Karaibów(Aparecida, 29 maja 2007), n. 4, Gubin 2014, s. 288.

[110]Tenże,Dokument końcowy(29 czerwca 2007), n. 398, Gubin 2014, s. 194–195.

[111]Franciszek, Adhort. apost.Evangelii gaudium(24 listopada 2013), 199:AAS105 (2013), 1103–1104.

[112]Tamże, 198:AAS105 (2013), 1103.

[113]Tamże.

[114]Aparecida. V Ogólna Konferencja Episkopatów Ameryki Łacińskiej i Karaibów,Dokument końcowy(29 czerwca 2007), n. 397, Gubin 2014, s. 194.

[115]Franciszek, Enc.Fratelli tutti(3 października 2020),64:AAS112 (2020), 992.

[116]Tenże, Adhort. apost.Gaudete et exsultate(19 marca 2018), 98:AAS110 (2018), 1137.

[117]Tenże, Enc.Fratelli tutti(3 października 2020), 65-66:AAS112 (2020), 992.

[118]Św. Grzegorz Wielki,Homilie na Ewangelie, 40, 10, tłum. o. W. Szołdrski, oprac. ks. M. Maliński, Warszawa 1969, s. 327;SCh522, Paris 2008, 552–554.

[119]Tamże, 6, s. 324:SCh522, 546.

[120]Tamże, 3, s. 321, cyt. za:Karmię was tym, czym sam żyję. Ojcowie Kościoła komentują niedzielne czytania biblijne. Rok C, oprac. ks. M. Starowieyski, Kraków 2015, s. 504:SCh522, 536.

[121]Św. Jan Paweł II, Enc.Centesimus annus(1 maja 1991), 57:AAS83 (1991), 862-863.

[122]Franciszek,Przemówienie podczas czuwania z okazji dnia ruchów, nowych wspólnot i stowarzyszeń kościelnych(18 maja 2013):L’Osservatore Romano, wyd. polskie, n. 7 (353)/2013, s. 19.

[123]Tenże, Adhort. apost.Evangelii gaudium(24 listopada 2013), 186:AAS105 (2013), 1098.

[124]Tamże, 188:AAS105 (2013), 1099.

[125]Por.tamże, 182-183:AAS105 (2013), 1096–1097.

[126]Tamże, 207:AAS105 (2013), 1107.

[127]Tamże, 200:AAS105 (2013), 1104.

[128]Tenże,Discorso in occasione dell’incontro con il mondo del lavoro presso lo stabilimento ILVA di Genova(27 maggio 2017):AAS109 (2017), 613.

[129]Pseudo-Chryzostom,Homilia de jejunio et eleemosyna:PG48, 1060.

[130] Św. Grzegorz z Nazjanzu,Kazanie 14, O miłości ubogich,38. 40:PG35, Paris 1886, 910; w:Liturgia Godzin, tom II, Poznań 1984, s. 213–214.

[01290-PL.01] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua araba

الإرشاد الرّسوليّ

لقد أَحبَبتُكَ

DILEXI TE

لقداسة البابا لاوُن الرّابع عشر

في محبّة الفقراء

1. "لقد أَحبَبتُكَ" (رؤيا يوحنّا 3، 9)، قال الرّبّ يسوع لجماعة مسيحيّة لم يكن لها، مثلَ غيرها، أيّ أهمّيّة أو أموال، وكانت معرّضة للعنف والاحتقار: "على قِلَّةِ قُوَّتِك [...] ها إِنِّي أَجعَلُهم يَأتونَ ويَسجُدونَ عِندَ قَدَمَيك" (رؤيا يوحنّا 3، 8-9). هذا النّص يذكّرنا بكلمات نشيد مريم العذراء: "حَطَّ الأَقوِياءَ عنِ العُروش، ورَفَعَ الوُضَعاء. أَشبَعَ الجِياعَ مِنَ الخَيرات، والأَغنِياءُ صَرَفَهم فارِغين" (لوقا 1، 52-53).

2. إعلان المحبّة هذا في سفر الرّؤيا يشير إلى السّرّ الذي لا يُستَقصَى الذي تعمّق فيه البابا فرنسيس في الرّسالة البابويّة العامّة ”لقد أحَبَّنا - Dilexit nos“، في الحبّ الإنسانيّ والإلهيّ في قلب يسوع المسيح. تأمّلنا فيها كيف كان يسوع يساوي نفسه مع "أصغر أفراد المجتمع"، وكيف أظهر كرامة كلّ إنسان بمحبّته التي بذلها حتّى النّهاية لكلّ إنسان، لا سيِّما "لأكثرهم ضعفًا وبؤسًا وعذابًا"[1]. التّأمّل في محبّة المسيح "يحملنا على مزيد من الاهتمام بآلام واحتياجات الآخرين، ويقوِّينا للمشاركة في عمله لتحرير الإنسان، فنكون أدوات لنشر محبّته"[2].

3. لهذا السّبب، وبالارتباط مع الرّسالة البابويّة العامّة ”لقد أحَبَّنا - Dilexit nos“، كان البابا فرنسيس يُعِدُّ، في الأشهر الأخيرة من حياته، إرشادًا رسوليًّا في اهتمام الكنيسة بالفقراء ومع الفقراء، بعنوان ” لقد أَحبَبتُكَ - Dilexit te“، فتصوَّرَ أنّ المسيح يخاطب كلّ واحد منهم، فيقول له: أنت لا قوّة لك، ولا قدرة لك، لكنّي "أَحبَبتُكَ" (رؤيا يوحنّا 3، 9). وقد تسلّمت هذا المشروع بمثابة إرثٍ يسعدني أن أتبنّاه – وقد أضفتُ عليهِ بعض الأفكار- وأقدّمه من جديد في بداية حبريّتي، فأشارك في رغبة سلفي المحبوب بأن يدرك جميع المسيحيّين الارتباط العميق بين محبّة المسيح ودعوته لنا لكي نكون قريبين من الفقراء. أنا أيضًا أعتقد أنّه من الضّروريّ أن أوكّد على هذا الطّريق نحو القداسة، لأنّه "في هذه الدّعوة إلى التّعرف عليه في الفقراء والمتألِّمين يظهر قلب المسيح نفسه، ومشاعرُه وخياراتُه العميقة، التي يسعى كلّ قدّيس إلى التّشبّه بها"[3].

الفصل الأوّل

بعض الكلمات الأساسيّة

4. انتقد تلاميذ يسوع المرأة التي سكبت الطِّيب الثّمين جدًّا على رأسه، فقالوا: "لِمَ هذا الإِسْراف؟ فقد كانَ يُمكِنُ أَن يُباعَ غالِيًا، فيُعْطى الفُقَراءُ ثَمَنَه". فقال لهم الرّبّ يسوع: "الفُقَراء عِندَكم دائمًا أَبدًا، وأَمَّا أَنا فلَستُ عِندَكم دائمًا أَبدًا" (متّى 26، 8-9. 11). لقد فهمت تلك المرأة أنّ يسوع كان المسيح المتواضع والمتألّم وفيه تضع حبّها: يا لها من تعزية، إنّها تسكب الطِّيب على الرّأس الذي سيتعرّض بعد أيّام قليلة لعذاب الشّوك! كانت تلك علامة بسيطة، بلا شكّ، لكن الذي يتألّم يعرف ويقدِّر أصغر علامة من المودة، والعزاء الكبير الذي تحمله له. فَهِمَ يسوع ذلك وأبَّدَ ذكراها: "حيثُما تُعلَنْ هذِه البِشارَةُ في العالَمِ كُلِّه، يُحَدَّثْ بِما صَنَعَت إِحياءً لِذِكرِها" (متّى 26، 13). بساطة هذه العلامة تكشف عن شيء كبير. لن تنسى أيّة علامة محبّة، مهما كانت صغيرة، خاصّة إن كانت موجّهة إلى إنسان متألِّم، أو إلى من هو في العزلة والخذلان، أو إلى المحتاج، كما كان حال الرّبّ يسوع في تلك السّاعة.

5. ومن هذا المنظور، تتّحد محبّة الرّبّ يسوع مع محبّة الفقراء. قَول يسوع: "الفُقَراء عِندَكم دائمًا أَبدًا" (متّى 26، 11)، له المعنى نفسه مثل كلماته: "هاءَنذا معَكم طَوالَ الأَيَّام" (متّى 28، 20). وفي الوقت نفسه، نسمع كلماته تخاطبنا: "كُلَّما صَنعتُم شَيئًا مِن ذلك لِواحِدٍ مِن إِخوَتي هؤُلاءِ الصِّغار، فلي قد صَنَعتُموه" (متّى 25، 40). نحن لسنا في أفق الإحسان، بل في أفق الوحي: فالتواصل مع مَن لا سلطان له ولا عظمة هو طريق أساسيّ للّقاء مع ربّ التّاريخ. ففي الفقراء، يريد الله أن يقول لنا شيئًا.

القدّيس فرنسيس

6. عندما ذكَّرَنا البابا فرنسيس باختياره لاسمه، قال إنّ أحد الكرادلة الأصدقاء عانقه بعد انتخابه، وضمّه إليه وقال له: "لا تنسَ الفقراء!"[4]. إنّها التّوصية نفسها التي أعطتها سلطات الكنيسة للقدّيس بولس عندما صعد إلى أورشليم للتحقّق من رسالته (راجع غلاطية 2، 1-10). وبعد سنوات، استطاع الرّسول أن يؤكّد، فقال: "هذا ما اجتَهَدتُ أَن أَقومَ بِه" (غلاطية 2، 10). وهذا ما اختاره أيضًا القدّيس فرنسيس الأسيزي: ففي ذاك الأبرص، كان المسيح نفسه هو من عانقه وغيّر حياته. فشخصيّة ”فقير أسيزي“ المضيئة لن تكفّ أبدًا عن إلهامنا.

7. قبل ثمانيَة قرون، كان هو الذي أثار نهضة إنجيليّة بين المسيحيّين وفي مجتمعه. فبعد أن كان فرنسيس شابًّا غنيًّا وجريئًا، وُلد من جديد عندما التقى بواقع إنسان مُبعَدٍ عن العيش مع النّاس. هذا الدّافع الذي أثّر فيه لم يتوقّف عن تحريك نفوس المؤمنين وغير المؤمنين الكثيرين، و"قد غيّر التّاريخ"[5]. فالمجمع الفاتيكانيّ الثّاني نفسه، وفقًا لكلام القدّيس البابا بولس السّادس، كان يسير على هذا النّهج: "قصّة السّامري الرّحيم القديمة كانت النّموذج المثالي لروحانيّة المجمع"[6]. وأنا مقتنع بأنّ الخيار الأولويّ للفقراء يخلق تجديدًا استثنائيًّا في الكنيسة والمجتمع، عندما نكون قادرين على أن نتحرّر من المرجعيّة إلى الذّات، فنقدر أن نصغي إلى صراخهم.

صراخ الفقراء

8. في هذا الصّدد، هناك نصّ من الكتاب المقدّس يجب دائمًا أن نعود إليه كنقطة انطلاق. إنّه وحي الله لموسى عند العلّيقة المشتعلة، عندما قال له: "إِنّي قد رَأَيتُ مذَلَّةَ شَعْبي الَّذي بِمِصْر، وسَمِعتُ صُراخَه بسَبَبِ مُسَخِّريه، وعَلِمتُ بآلاَمِه، فنزَلتُ لأَنقِذَه [...]. فالآن، اِذهَبْ! أُرسِلُكَ إِلى فِرعَون" (خروج 3، 7-8. 10).[7] الله يُبيِّن عنايته واهتمامه باحتياجات الفقراء: "فصَرَخَ بَنو إِسْرائيلَ إِلى الرَّبّ، فأَقامَ الرَّبُّ لَهم مُخَلِّصًا" (قضاة 3، 15). لذا، عندما نسمع صراخ الفقير، نحن مدعوّون إلى أن نتّحد مع قلب الله، الذي يهتمّ بحاجات أبنائه، ولا سيِّما أكثرهم حاجةً. أمّا إن بقينا غير مبالين لهذا الصّراخ، فإنّ الفقير "سيصرُخُ إِلى الرَّبِّ علَينا وتَكونُ علَينا خَطيئَة" (راجع تثنيَة الاشتِراع 15، 9)، وهكذا نبتعد عن قلب الله نفسه.

9. حالة الفقراء صرخة تمتدّ على تاريخ البشريّة، ولا تكفّ عن مخاطبة حياتنا ومجتمعاتنا والأنظمة السّياسيّة والاقتصاديّة، والكنيسة أيضًا وليس آخرًا. على وجوه الفقراء الجريحة نرى مطبوعة آلام الأبرياء، ومن ثمَّ آلام المسيح نفسه. وفي الوقت نفسه، لعلَّه من الأدقّ أن نتكلّم على الوجوه الكثيرة للفقراء والفقر، لأنّه ظاهرة ولها أوجه عديدة، في الواقع، ثَمّة أشكال عديدة للفقر: فقر من لا يملك وسائل العيش المادّيّ، وفقر من هو مُهمّش في المجتمع ولا يملك الوسيلة التي تمكّنه من التّعبير عن كرامته وقدراته، والفقر الأخلاقيّ والرّوحيّ، والفقر الثّقافيّ، وفقر من هو في حالة ضعف أو هشاشة فرديّة أو اجتماعيّة، وفقر من لا حقوق له، ولا مكان، ولا حرّيّة.

10. بهذا المعنى، يمكننا أن نقول إنّ الالتزام من أجل الفقراء وإزالة الأسباب الاجتماعيّة والبنيويّة للفقر، على الرّغم من أنّه اكتسب أهمّيّة في العقود الأخيرة، إلّا أنّه ما زال غير كاف، وذلك أيضًا لأنّ المجتمعات التي نعيش فيها، تؤيّد مرارًا معايير لتوجيه الحياة والسّياسة تتّسم بعدم مساواة كثيرة، ولذلك، تُضاف إلى أشكال الفقر القديمة، التي عرفناها ونسعى إلى مقاومتها، أشكال جديدة، تكون أحيانًا أكثر خفاء وخطورة. من هذا المنظور، علينا أن نرحّب بتقدير لأنّ الأمم المتّحدة جعلت القضاء على الفقر واحدًا من أهداف الألفيّة.

11. إلى جانب الالتزام العمليّ من أجل الفقراء، لا بدّ من تغيير في العقليّة يؤثِّر على الصّعيد الثّقافي. في الواقع، وهْمُ السّعادة النّابع من حياة ميسورة يدفع أشخاصًا كثيرين إلى تبنِّي نظرة إلى الحياة تتمحور حول تكديس المال وتحقيق النّجاح الاجتماعيّ بأيّ ثمن، ولو كان ذلك على حساب الآخرين، وهم يستغلّون أيضًا مُثُلًا اجتماعيّة وأنظمة سياسيّة واقتصاديّة جائرة تُفضِّل الأقوياء. وهكذا، في عالم يزداد فيه عدد الفقراء، نرى من جهة أخرى ظاهرة عكسيّة وهي زيادة بعض النُّخب من الأغنياء الذين يعيشون في إطار من الظّروف المريحة والفاخرة جدًّا، وكأنّهم في عالم آخر منفصل عن عامّة الناس. هذا يعني أنّ ثقافة إقصاء الآخرين – أحيانًا مخفّية بشكل جيّد – ما زالت قائمة، حتّى دون أن تدرك ذلك، وتقبل، بل لا تبالي بأن يموت ملايين الأشخاص جوعًا أو أن يعيشوا في ظروف لا تليق بالإنسان. منذ بضع سنوات، أثارت صورة طفل مُلقًى بلا حياة على شاطئ البحر المتوسّط صدمة كبيرة، وللأسف، باستثناء بعض المشاعر المؤقّتة، صارت الأحداث المماثلة عديمة التأثير وكأنّها أخبار هامشيّة.

12. يجب ألّا نتهاون في ما يختصّ بالفقر. وبشكل خاصّ، علينا أن نهتمّ بالظّروف الخطيرة التي يُعاني منها أشخاص كثيرون بسبب نقص الطّعام والماء. آلاف الأشخاص يموتون يوميًّا بسبب سوء التّغذية. حتّى في الدّول الغنيّة، فإنّ أرقام الفقر مقلقة جدًّا. في أوروبا، يزداد عدد العائلات التي لا تتمكّن من تغطية نفقاتها حتّى نهاية الشّهر. وبشكل عام، يمكن أن نلاحظ أنّه ازدادت أشكال الفقر المختلفة. ولم يعد الفقر محصورًا في حالة واحدة متشابهة، بل بات يظهر بأشكال متعدّدة من التّدهور الاقتصاديّ والاجتماعيّ، ما يعكس ظاهرة تزايد التفاوت حتّى في البيئات الميسورة عمومًا. فلنتذكّر "أنّ فقر النّساءِ اللواتي تعاني من أوضاع الإقصاء وسوءِ المعاملة والعنف هو فقر مضاعف، لأنّهنّ يكنَّ مرارًا في أضعف الإمكانات للدّفاع عن حقوقهنَّ. إلّا أنّا نجد عندهنَّ أيضًا أبدعَ أعمال البطولة اليوميّة في صيانة هشاشة أسَرهنَّ والعناية بها"[8]. ورغم وجود بعض التّغيّرات المهمّة في بعض البلدان، "فإنّ تنظيم المجتمعات في كلّ العالم لا يزال بعيدًا عن أنْ يعكس بوضوح أنّ المرأة تتمتّع بنفس كرامة الرّجل وحقوقه الكاملة. أحيانًا يقولون أمورًا كثيرة، ولكن القرارات والواقع يُظهِران شيئًا آخر"[9]، خاصّة إن فكّرنا في أكثر النّساء فقرًا.

أحكام إيديولوجيّة مسبقة

13. وما عدا البيانات – التي ”تُفسَّر“ أحيانًا بطريقة تقنعنا بأنّ وضع الفقراء ليس سيِّئًا إلى هذا الحدّ -، فإنّ الواقع العامّ واضح نوعًا ما وهو: "هناك قواعد اقتصاديّة أثبتت فعّاليّتها في عمليّة النّموّ، ولكنّها ليست فعّالة لتنمية بشريّة متكاملة. فقد ازداد الغنى، ولكن دون مساواة، وبالتّالي إنّ ما يحدث هو ولادة أشكال جديدة من البؤس. عندما يقولون إنّ العالم الحديث قد حدّ من الفقر، إنّما يقيسون بمعايير من عصور أخرى لا يمكن مقارنتها بالواقع الحاليّ. ففي عصور أخرى في الواقع، لم يكن عدم الحصول على الكهرباء، مثلًا، علامة على الفقر، ولم يكن سببًا للانزعاج الشّديد. يجب تحليل الفقر وفهمه دائمًا في سياق الإمكانيّات الحقيقيّة في زمن تاريخيّ محدّد"[10]. مع ذلك، ما عدا بعض الأوضاع المحدّدة والموجودة في بعض السّياقات، أكّدت الوثيقة الصّادرة عن المجموعة الأوروبيّة في سنة 1984 أنّ "الفقراء هم الأفراد أو العائلات أو المجموعات الذين تكون مواردهم (الماديّة والثّقافيّة والاجتماعيّة) محدودة جدًّا لدرجة تمنعهم من العيش وفق الحدّ الأدنى المقبول في الدّولة العضو التي يعيشون فيها"[11]. وإن اعترفنا بأنّ جميع البشر يتمتّعون بالكرامة نفسها، بغضّ النّظر عن مكان ولادتهم، فينبغي ألّا نتجاهل الاختلافات الكبيرة الموجودة بين البلدان والمناطق.

14. الفقراء لا يوجدون بمحض الصّدفة أو بسبب مصير أعمى وقاسٍ. وبالتّأكيد، فإنّ الفقر، بالنّسبة لمعظم هؤلاء، ليس خيارًا. ومع ذلك، لا يزال هناك من يجرؤ على قول ذلك، فيُظهر العمى والقسوة. بالطّبع، هناك بعض الفقراء الذين لا يريدون أن يعملوا، ربّما لأنّ أجدادهم، الذين عملوا طوال حياتهم، ماتوا فقراء. ولكن هناك كثيرين – رجالًا ونساءً – يعملون من الصّباح حتّى المساء، ربّما بجمع الكرتون أو بالقيام بأعمال أخرى شبيهة، وهم يعلَمون أنّ هذا الجهد لن يساعدهم إلّا على البقاء على قيد الحياة ولن يحسّن حياتهم حقًّا. لا يمكننا أن نقول إنّ غالبيّة الفقراء فقراء لأنّهم لم يحقّقوا أيّ ”استحقاق“: هذه رؤية خاطئة للاستحقاق حيث يبدو أنّ المستحقّين هم فقط الذين نجحوا في الحياة.

15. في كثير من المناسبات، المسيحيّون أيضًا يتأثّرون بمواقف مشبعة بالأيديولوجيّات الدّنيويّة أو التّوجّهات السّياسيّة والاقتصاديّة التي تؤدّي إلى تعميمات غير عادلة واستنتاجات مضلّلة. إنّ احتقار ممارسة المحبّة أو الاستهزاء بها، كما لو أنّها هَوَس بعض الأشخاص وليست جوهر رسالة الكنيسة المتّقد، يدفعني إلى القول إنّه يجب علينا أن نقرأ من جديد الإنجيل، حتّى لا نوشك أن نستبدله بعقليّة دنيويّة. لا يمكن أن ننسى الفقراء إن كنّا لا نريد أن نخرج ونبتعد عن تيّار الكنيسة الحيّ الذي ينبع من الإنجيل ويُخصِب كلّ لحظة تاريخيّة.

الفصل الثّاني

الله يختار الفقراء

اختيار الفقراء

16. الله حبّ رحيم، ومشروع حبّه الذي يمتدّ ويتحقّق في التّاريخ، هو قبل كلّ شيء أنّه نزل وجاء بيننا ليحرّرنا من العبوديّة والمخاوف والخطيئة وسلطان الموت. وبنظرة مملوءة رحمة، وبقلب مفعم بالحبّ، توجّه إلى خليقته، واعتنى بحالتها الإنسانيّة، ومن ثَمَّ بفقرها. ومن أجل أن يشاركنا حدود طبيعتنا الإنسانيّة وضعفنا، صار هو نفسه فقيرًا، ووُلد في الجسد مثلنا، وعرفناه طفلًا صغيرًا في مذود، ثمّ حمل أقصى الإهانة على الصّليب، حيث شاركنا فقرنا الجذريّ، أي الموت. ومن هنا يتّضح جيّدًا لماذا يمكننا أن نتكلّم لاهوتيًّا ونقول إنّ الله اختار الفقراء، وهو تعبير وُلد في سياق قارّة أمريكا اللاتينيّة، لا سيّما في اجتماع بويبلا (Puebla)، ثمّ صار جزءًا من تعليم الكنيسة فيما بعد.[12] هذا ”التّفضيل“ لا يعني أبدًا إقصاءً أو تمييزًا تجاه جماعات أخرى: هذا أمر مستحيل لله، إنّما يُظهِر هذا التّفضيل عمل الله الذي يميل بعطف تجاه فقر وضعف البشريّة بأسرها، والذي يهتمّ على وجه خاصّ بالمهمّشين والمظلومين، لأنّه يريد أن يفتتح ملكوت عدلٍ وأخُوّةٍ وتضامن، ويطلب منّا نحن أيضًا، كنيسته، أن نتّخذ خيارًا حاسمًا وجذريًّا لصالح الأضعفين.

17. من هذا المنظور، يُمكننا أن نفهم صفحات العهد القديم الكثيرة التي فيها يُصوَّر الله صديقًا للفقراء ومُحرِّرًا لهم، والذي يسمع صراخ الفقير ويتدخَّل ليحرّره (راجع المزمور 34، 7). الله، ملجأ الفقير، من خلال الأنبياء - نتذكّر بشكلٍ خاصّ عاموس وأشعيا – كان يُدين الظّلم المُرتكب ضدّ الأضعفين، ويحثّ إسرائيل على تجديد عبادتها من الدّاخل، لأنّه لا يمكن أن نصلّي ونقدّم التّقادم ونحن نقمع الأضعفين وأكثر النّاس فقرًا. منذ البداية، ظهرت محبّة الله في الكتاب المقدّس بحيويّة شديدة في حمايته للضّعفاء والمحتاجين، لدرجة أنّه يمكنّنا أن نقول إنّ في الله ميلًا خاصًّا إليهم. "في قلب الله يوجد مكان مفضّل للفقراء [...]. كلّ مسيرة فدائنا تتميّز بالفقراء"[13].

يسوع، المسيح الفقير

18. كلّ أحداث العهد القديم حول تفضيل الله للفقراء ورغبته الإلهيّة في الإصغاء إلى صراخهم – التي ذكرتها بإيجاز – تتحقّق كاملة في يسوع النّاصري.[14] في تجسّده، "تَجَرَّدَ مِن ذاتِه مُتَّخِذًا صُورةَ العَبْد، وصارَ على مِثالِ البَشَر، وظَهَرَ في هَيئَةِ إِنْسان" (فيلبي 2، 7)، وفي تلك الصّورة حمل لنا الخلاص. إنّه فقر جذريّ، قائم على رسالته في كشف الوجه الحقيقيّ لمحبّة الله (راجع يوحنّا 1، 18؛ 1 يوحنّا 4، 9). لذلك، قال القدّيس بولس، في إحدى عباراته البليغة: "فأَنتُم تَعلَمونَ جُودَ رَبِّنا يسوعَ المسيح: فقَدِ افتَقَرَ لأَجْلِكُم وهو الغَنِيُّ لِتَغتَنوا بِفَقْرِه" (2 قورنتس 8، 9).

19. في الواقع، الإنجيل يبيِّن أنّ هذا الفقر كان يشمل كلّ جوانب حياة يسوع. فمنذ أن دخل يسوع إلى العالم، اختبر صعوبات الرّفض. قال الإنجيليّ لوقا بحزن عندما روى وصول يوسف ومريم إلى بيت لحم، وهي على وشك أن تَلِد: "لم يَكُنْ لَهُما مَوضِعٌ في المَضافة" (لوقا 2، 7). وُلِدَ يسوع في ظروف متواضعة، ولمَّا وُلِد وُضع في مذود، وسرعان ما اضطرّ والداه إلى الهرب به إلى مصر ليخلّصوه من الموت (راجع متّى 2، 13-15). وفي بداية حياته العلنيّة، طُرد من النّاصرة، بعدما أعلن في المجمع أنّ سنة النّعمة التي يَفرح فيها الفقراء قد تحقّقت فيه (راجع لوقا 4، 14-30). ولم يكن له موضع مناسب حتّى في موته: فقد اقتيد خارج أورشليم للصّلب (راجع مرقس 15، 22). في هذه الحالة، يتجلّى بوضوح فقر يسوع، وهو في نفس حالة الاقصاء التي تميِّز الفقراء، المستبعدين من المجتمع. يسوع هو وَحيُ الامتياز الإلهيّ للفقراء. وقد أتى هو إلى العالم ليس فقط ”مسيحًا فقيرًا“، بل أيضًا ليكون ”مسيح الفقراء والمسيح من أجل الفقراء“.

20. نجد في الإنجيل بعض المؤشّرات إلى الحالة الاجتماعيّة ليسوع. أوّلًا، كان يُمارس مهنة النّجّار، (τέκτων) (راجع مرقس 6، 3)، وكان الصّنائعيّون فئة من النّاس يعيشون من عملهم اليدويّ. ولأنّهم لم يكونوا من ملّاكِي الأرض، كانوا يُعتبَرون أدنى مرتبة من الفلّاحين. وعندما قَدَّمَ مريم ويوسف الطّفل يسوع في الهيكل، قدَّما عنه زَوجَي يَمَام أو فَرخَي حَمام (راجع لوقا 2، 22-24)، وهي، بحسب سفر الأحبار (راجع 12، 8)، تقدمة الفقراء. ومن الأحداث الإنجيليّة اللافتة في هذا الصّدد، حادثة التّلاميذ مع يسوع يسيرون في الحقول ويقلعون السّنبُل ليأكلوا (راجع مرقس 2، 23-28)، وكان جمع السّنابل المتبقّية في الحقل مخصَّصًا للفقراء. وقال يسوع مرّة عن نفسه: "إِنَّ لِلثَّعالِبِ أَوجِرة، ولِطُيورِ السَّماءِ أَوكارًا، وأَمَّا ابنُ الإِنسان فَلَيسَ لَه ما يَضَعُ علَيهِ رَأسَه" (متّى 8، 20؛ لوقا 9، 58). في الواقع، هو مُعلِّم متجوِّل، وفقره وعدم استقراره علامة على صِلتِه بالآب، وهو ما يُطلَب أيضًا من الذين يريدون اتّباعه على طريق التّلمذة، لكي يصير التجرّد من الممتلكات والثّروات وضمانات هذا العالم علامة منظورة على الاتّكال على الله وعنايته.

21. في بداية رسالته العلنيّة، في مجمع النّاصرة، بعد أن قرأ سفر النّبيّ أشعيا، طبّق يسوع على نفسه كلام النّبي: "رُوحُ الرَّبِّ عَلَيَّ، لأَنَّه مَسَحَني لأُبَشِّرَ الفُقَراء" (لوقا 4، 18؛ راجع أشعيا 61، 1). فأعلن عن نفسه، كالذي يأتي، في التّاريخ الحاضر، ليُحقّق قرب محبّة الله، وهو أوّلًا تحرير لمن هم أسرى الشّرّ، وللضّعفاء، والفقراء. وفي الواقع، الآيات التي رافقت كرازة يسوع كانت إعلانًا للمحبّة والرّحمة التي ينظر بها الله إلى المرضى والفقراء والخطأة، الذين كانوا مُهمّشين في المجتمع، ومن الدّيانة أيضًا، بسبب حالتهم. وفتح يسوع عيون العُميان، وشفى البُرص، وأقام الموتى، وأعلن للفقراء البشرى السّارّة: اللهُ اقتربَ منكم، اللهُ يحبُّكم (راجع لوقا 7، 22). وهذا يفسِّر لماذا أعلن: "طوبى لَكُم أَيُّها الفُقَراء، فإِنَّ لَكُم مَلَكوتَ الله" (لوقا 6، 20). فقد أظهر اللهُ محبّة خاصّة للفقراء: إليهم أوّلًا وجّه كلمة الله، كلمة رجاء وتحرير. ولذلك، رغم حالة الفقر أو الضّعف، يجب ألّا يشعر أحد بعد بأنّه متروك. والكنيسة، إن أرادت أن تكون كنيسة المسيح، عليها أن تكون كنيسة التّطويبات، كنيسة تفسح المجال للصّغار، وتسير فقيرةً مع الفقراء، ويجد الفقراء فيها مكانًا وموقعًا مميَّزًا (راجع يعقوب 2، 2-4).

22. كان المحتاجون والمرضى، غير القادرين على تأمين ضروريّات الحياة، يُجبرون مرارًا على التّسوّل. وإلى حالهم هذا كان يضاف عبء الخزْي الاجتماعيّ، الذي يغذّيه الاعتقاد بأنّ المرض والفقر مرتبطان بالخطيئة الشّخصيّة. قاوم يسوع بشدّة هذا التّفكير، فقال: "الله يُطلِعُ شَمْسَه على الأَشْرارِ والأَخْيار، ويُنزِلُ المَطَرَ على الأَبْرارِ والفُجَّار" (متّى 5، 45). بل إنّه قَلَبَ هذا المفهوم رأسًا على عقب، كما يتجلّى بوضوح في مثل الغنيّ ولَعازَر المسكين: "يا بُنَيَّ، تَذَكَّرْ أَنَّكَ نِلتَ خَيراتِكَ في حَياتِكَ ونالَ لَعازَرُ البَلايا. أَمَّا اليَومَ فهو ههُنا يُعزَّى وأَنتَ تُعَذَّب" (لوقا 16، 25).

23. إذًا، يتّضح أنّ "مِن إيماننا بيسوعَ المسيح الذي افتقر، والذي هو دائمًا قريبٌ من الفقراء والمنبوذين، ينجم اهتمامُنا بالنّموّ الكامل لأشدِّ المنبوذين في المجتمع"[15]. أتساءل أحيانًا لماذا، رغم هذا الوضوح في الكتب المقدّسة بشأن الفقراء، لا يزال الكثيرون يعتقدون أنّهم يستطيعون استبعاد الفقراء من اهتماماتهم. ولكن الآن، لنبق في إطار الكتب المقدّسة، ولنحاول أن نفكّر في علاقتنا مع الأخيرين في المجتمع وفي مكانتهم الأساسيّة في شعب الله.

الرّحمة تجاه الفقراء في الكتاب المقدّس

24. كتب الرّسول يوحنّا: "الَّذي لا يُحِبُّ أَخاه وهو يَراه لا يَستَطيعُ أَن يُحِبَّ اللهَ وهو لا يَراه" (1 يوحنّا 4، 20). وبنفس الطّريقة، عندما أجاب يسوع على عالِم الشّريعة، أعاد التّذكير بالوصيَّتَين القديمتَين: "أَحبِب الرَّبَّ إِلهَكَ بِكُلِّ قَلبِكَ وكُلِّ نَفْسِكَ وكُلِّ قُوَّتِكَ" (تثنية الاشتراع 6، 5)، و"أَحْبِبْ قَريبَكَ حُبَّكَ لِنَفْسِكَ" (الأحبار 19، 18)، فدمجهما في وصيّة واحدة. وأورد الإنجيلي مرقس جواب يسوع بهذه الكلمات: "الوَصِيَّةُ الأُولى هيَ: «اسمَعْ يا إِسرائيل: إِنَّ الرَّبَّ إِلهَنا هو الرَّبُّ الأَحَد. فأَحبِبِ الرَّبَّ إِلهَكَ بِكُلِّ قَلبِكَ وكُلِّ نَفْسِكَ وكُلِّ ذِهنِكَ وكُلِّ قُوَّتِكَ». والثَّانِيَةُ هي: «أَحبِبْ قريبَكَ حُبَّكَ لِنَفْسِكَ». ولا وَصِيَّةَ أُخرى أَكبرُ مِن هاتَيْن" (مرقس 12، 29-31).

25. المقطع المذكور من سِفر الأحبار يدعو إلى احترام المواطنين، بينما نجد في نصوص أخرى تعاليم تدعو إلى احترام العدوّ، بل حتّى إلى محبّته: "إِذا لَقِيتَ ثَورَ عَدُوِّكَ أَو حِمارَه ضالًّا، فرُدَّه إِلَيه. وإِذا رَأَيتَ حِمارَ مُبغِضِكَ ساقِطًا تَحتَ حِملِه، فكُفَّ عن تَجَنُّبِه، بل أَنهِضْه معَه" (خروج 23، 4-5). من هذا نستشفّ القيمة الجوهريّة لاحترام الإنسان: فأيّ شخص، حتّى العدوّ، عندما يكون في ضيق، يستحقّ مساعدتنا دائمًا.

26. لا يمكن الإنكار أنّ أولويّة الله في تعليم يسوع تترافق مع حقيقة راسخة أخرى وهي أنّه لا يمكن أن نحبّ الله دون أن نوسّع محبّتنا لتشمل الفقراء. فمحبّة القريب هي الدّليل العمليّ على صدق وحقيقة محبّتنا لله، كما يشهد الرّسول يوحنّا: "إِنَّ اللهَ ما عايَنَه أَحَدٌ قَطّ. فإِذا أَحَبَّ بَعضُنا بَعضًا، فاللهُ فينا مُقيمٌ ومَحبَّتُه فينا مُكتَمِلَة. [...] اللهُ مَحبَّة، فمَن أَقامَ في المَحبَّةِ أَقامَ في الله وأَقامَ اللهُ فيه" (1 يوحنّا 4، 12. 16). هما محبّتان متميّزتان ولكنّهما غير منفصلتَين، حتّى في الحالات التي لا تكون فيها العلاقة مع الله واضحة، فإنّ الله نفسه يعلِّمنا أنّ كلّ فعل محبّة تجاه القريب هو نوعًا ما انعكاس للمحبّة الإلهيّة: "الحقَّ أَقولُ لَكم: كُلَّما صَنعتُم شَيئًا مِن ذلك لِواحِدٍ مِن إِخوَتي هؤُلاءِ الصِّغار، فلي قد صَنَعتُموه" (متّى 25، 40).

27. لهذا السّبب يُوصينا يسوع بأعمال الرّحمة علامة على أصالة العبادة، التي تهدف، بينما تُقدّم التّسبيح لله، إلى أن تجعلنا منفتحين على التبدّل الذي يمكن أن يصنعه الرّوح القدس فينا، لكي نصير جميعًا على صورة المسيح ورحمته تجاه الأضعفين. بهذا المعنى، فإنّ علاقتنا مع الرّبّ يسوع، التي نُعبِّرُ عنها في العبادة، ترمي أيضًا إلى تحريرنا من خطر عيشنا لعلاقاتنا مع الله ضمن منطق الحساب والمنفعة، لكي نفتح أنفسنا على المجّانيّة التي تسود بين من يحبُّون بعضُهم بعضًا، فيجعلون كلّ شيءٍ مشتركًا بينهم. في هذا الصّدد، يُوصي يسوع ويقول: "إِذا صَنَعتَ غَداءً أَو عَشاءً، فلا تَدْعُ أَصدِقاءَكَ ولا إِخوَتكَ وَلا أَقرِباءَكَ ولا الجيرانَ الأَغنِياء، لِئَلَّا يَدْعوكَ هُم أَيضًا فتَنالَ المُكافأَة على صنيعِكَ. ولكِن إِذا أَقَمتَ مَأدُبَة فادعُ الفُقَراءَ والكُسْحانَ والعُرْجانَ والعُمْيان. فطوبى لَكَ إِذ ذاكَ لأَنَّهم لَيسَ بِإِمكانِهِم أَن يُكافِئوكَ" (لوقا 14، 12-14).

28. دعوة الرّبّ يسوع إلى الرّحمة تجاه الفقراء وجدت تعبيرًا كاملًا في المَثَل الكبير عن الدّينونة الأخيرة (راجع متّى 25، 31-46)، الذي هو أيضًا مثال حيّ على إعلان الطّوبى للرّحماء. هنا قدّم لنا الرّبّ يسوع المفتاح لنحقّق كمالنا، لأنّه "إن بحَثنا عن هذه القداسة المَرْضِيّة في عينَي لله فسنجد في هذا النّص تحديدًا قاعدة سلوك سنحاسَب على أساسها"[16]. الكلمات القويّة والواضحة في الإنجيل يجب أن نعيشها "بدون تعليقات، وبدون تبريرات وذرائع تجرّدها من قوّة معناها. لقد أوضح لنا الرّبّ يسوع أنّ القداسة لا يمكن أن نفهمها أو أن نعيشها بتجاهل هذه المطالب"[17].

29. في الجماعة المسيحيّة الأولى، لم يَنجُمْ برنامج المحبّة والرّحمة عن تحليلات أو مخطّطات، بل نَجَمَ مباشرة من مثال يسوع ومن كلام الإنجيل نفسه. رسالة يعقوب تكرِّس مساحة كبيرة لمشكلة العلاقة بين الأغنياء والفقراء، وتوجِّه إلى المؤمنين نداءَين شديدَيْن يدعوانهم إلى التّساؤل في صحّة إيمانهم: "ماذا يَنفَعُ، يا إِخوَتي، أَن يَقولَ أَحَدٌ إِنَّه يُؤمِن، إِن لم يَعمَل؟ أَبِوُسْعِ الإِيمانِ أَن يُخَلِّصَه؟ فإِن كانَ فيكُم أَخٌ عُريانٌ أَو أُختٌ عُريانَةٌ يَنقصُهما قُوتُ يَومِهِما، وقالَ لَهما أَحدُكم: «اذْهَبا بِسَلامٍ فاستَدفِئا واشبَعا» ولم تُعطوهما ما يَحتاجُ إِلَيه الجَسَد، فماذا يَنفَعُ قَولُكُم؟ وكَذلِكَ الإِيمان، فإِن لم يَقتَرِنْ بِالأَعمال كانَ مَيْتًا في حَدِّ ذاتِه" (يعقوب 2، 14-17).

30. "ذَهَبُكم وفِضَّتُكم صَدِئا، وسَيَشهَدُ الصَّدَأُ علَيكم ويأكُلُ أَجسادَكم كأَنَّه نار. جَمَعتُم كُنوزًا في الأَيَّامِ الأَخيرة. ها إِنَّ الأُجْرَةَ الَّتي حَرَمتُموها العَمَلَةَ الَّذينَ حَصَدوا حُقولَكم قدِ ارتَفَعَ صِياحُها، وإِنَّ صُراخَ الحَصَّادينَ قد بَلَغَ أُذُنَي رَبِّ القُوَّات. عِشتُم على الأَرضِ في التَّنعُّمِ والتَّرَف وأَشبَعتُم أَهواءَكم يَومَ التَّذبيح" (يعقوب 5، 3-5). إنّه كلام شديد وصعب، حتّى لو فضّلنا أن نصمّ آذاننا عنه! نجد في رسالة يوحنّا الأولى نداءً مشابهًا: "مَن كانَت لَه خَيراتُ الدُّنْيا، ورأَى بِأَخيهِ حاجَةً، فأَغلَقَ أَحشاءَه دونَ أَخيه، فكَيفَ تُقيمُ فيه مَحبَّةُ الله؟" (1 يوحنّا 3، 17).

31. كلمة الله التي أوحيت إلينا "هي رسالةٌ واضحةٌ، مباشرةٌ، بسيطةٌ وبليغة ولا يحقّ لأيّ تفسيرٍ كنسيٍّ أن يخفّف من معناها. تفكيرُ الكنيسة في هذه النّصوص يجب ألّا يعتّم أو يُضعف معناها الذي يحذّرنا وينبّهنا، بل يجب أن يساعدنا على الاضطلاع بها بشجاعة وحرارة. لماذا تعقيدُ ما هو بسيط؟ صُنعتِ الأدواتُ الفكريّة كي تؤيِّد الاتّصال بالواقع الذي يحتاج إلى تفسير، لا للابتعاد عنه"[18].

32. من جهة أخرى، نجد في الحياة اليوميّة وأسلوب الجماعة المسيحيّة الأولى، مثالًا كنسيًّا واضحًا في المشاركة في الخيرات والاهتمام بالفقراء. يمكنُنا أن نتذكّر خاصّة الطّريقة التي بها حَلُّوا مسألة توزيع المعونات اليوميّة على الأرامل (راجع أعمال الرّسل 6، 1-6). لم تكن المشكلة سهلة. فبعض تلك الأرامل جئنَ من بلدان أخرى، وكُنَّ مهملات لكونهنَّ غريبات. في الواقع، الحادثة التي يرويها سفر أعمال الرّسل تُبيِّن نوعًا من التذمُّر من قِبَلِ اليونانيّين، اليهود ذوي الثّقافة اليونانيّة. لم يُجِب الرّسل ببعض الكلام المجرّد، بل جعلوا في المقام الأوّل المحبّة نحو الجميع وأعادوا تنظيم مساعدة الأرامل، وطلبوا من الجماعة أن تبحث عن أشخاص حكماء ومشهود لهم، ليوكلوا إليهم إدارة الموائد، فيما هم يتفرّغون للكرازة بالكلمة.

33. عندما ذهب بولس إلى أورشليم ليستشير الرُّسل "مَخافَةَ أَن يسْعى أَو يكونَ قد سَعى عَبَثًا" (راجع غلاطية 2، 2)، طلبوا منه ألّا ينسى الفقراء (راجع غلاطية 2، 10). لذلك، نظَّمَ تبرّعات مُختلفة لمساعدة الجماعات الفقيرة. ومن بين الدّوافع التي قدّمها لهذا العمل، دافعٌ يستحقّ التّوقّف عنده: "الله يُحِبُّ مَن أَعْطى مُتَهَلِّلًا" (2 قورنتس 9، 7). إلى الذين لا يميلون كثيرًا إلى تقديم الأعمال المجّانيّة دون مقابل، كلمة الله تشير إلى أنّ السّخاء والكرم تجاه الفقراء هو خير حقيقيّ لمن يمارسه، لأنّنا عندما نتصرّف هكذا، نحظى نحن بمحبّة الله لنا. في الواقع، الوعود كثيرة في الكتاب المقدّس الموجّهة إلى من يعطي بسخاء، منها: "مَن يَرحَم الفَقيرَ يُقرِض الرَّبّ، فهُو يُجازيه على صَنيعِه" (الأمثال 19، 17). "أَعطُوا تُعطَوا: [...] لأَنَّه يُكالُ لَكم بِما تَكيلون" (لوقا 6، 38). "حينَئِذٍ يَبزُغُ كالفَجرِ نورُكَ، ويَندَبُ جُرحُكَ سَريعًا" (أشعيا 58، 8). وكان المسيحيّون الأوائل مقتنعين بهذه الوعود.

34. حياة الجماعات الكنسيّة الأولى، كما يرويها الكتاب المقدّس والتي وصلت إلينا في الوَحي، تُعرَض علينا على أنّها مثال نقتدي به، وشهادة صادقة على الإيمان العامل بالمحبّة، وتبقى تنبيهًا دائمًا للأجيال القادمة. لقد ألهمت هذه الصّفحات عبر العصور قلوب المسيحيّين لمحبّة الآخرين وتقديم أعمال الرّحمة لهم، وكانت مثل بِذار خصبة لم تكفّ عن إعطاء ثمرًا.

الفصل الثّالث

كنيسة للفقراء

35. بعد ثلاثة أيّام من انتخابه، أعرب سلفي لممثّلي وسائل الإعلام عن رغبته في أن يكون الاهتمام بالفقراء حاضرًا بشكل أوضح في الكنيسة: "كم أتمنّى أن تكون كنيسة فقيرة ومن أجل الفقراء!"[19].

36. تعكس هذه الرّغبة إدراك الكنيسة على أنّها "ترى في الفقراء والمتألّمين صورة مؤسّسها الفقير والمتألّم، فتحرص على تخفيف معاناتهم، وتسعى لخدمة المسيح فيهم"[20]. في الواقع، ولأنّها دُعيت لتكون خادمة وشبيهة بالأخيرين، فيجب ألّا يكون فيها "أيّ شكّ، ولا تفسيرات تضعف هذه الرّسالة الواضحة جدًّا [...]. يجب التّأكيد صراحةً، بدون لفٍّ ودوران، على وجود رابط لا ينفصم بين إيماننا وبين الفقراء"[21]. في هذا الصّدد، لدينا شهادات عديدة مدّة ألفي سنة من تاريخ تلاميذ يسوع.[22]

غنى الكنيسة الحقيقيّ

37. يذكر القدّيس بولس أنّه بين مؤمني الجماعة المسيحيّة النّاشئة، لم يكن فيهم "كَثيرٌ مِنَ الحُكَماء، ولا كَثيرٌ مِنَ المُقتَدِرين، ولا كَثيرٌ مِن ذَوي الحَسَبِ والنَّسَب" (1 قورنتس 1، 26). ومع ذلك، ورغم فقرهم، كان المسيحيّون الأوائل يدركون تمامًا ضرورة الاهتمام بمن كانوا يعانون من حرمان أشدّ. فمنذ فجر المسيحيّة، وضع الرّسل الأيدي على سبعة رجال مختارين من الجماعة، وضمُّوهم إلى خدمتهم، وعيّنوهم لخدمة أفقر النّاس (الشّمّاسيّة باليونانيّة) (راجع أعمال الرّسل 6، 1-5). ومن الجدير بالذّكر أنّ أوّل تلميذ شهد لإيمانه بالمسيح حتّى سفك الدّم كان إسطفانس، وهو من تلك المجموعة التي اختاروها لتوزيع الحسنات. فجمع في شهادة حياته بين خدمة الفقراء وبين الاستشهاد.

38. بعد أكثر من قرنين بقليل، أظهر شمّاس آخر إيمانه بيسوع المسيح بطريقة مماثلة، جامعًا في حياته بين خدمة الفقراء والاستشهاد: هو القدّيس لاورنسيوس.[23] من رواية القدّيس أمبروزيوس نعرف أنّ لاورنسيوس، الشّماس في روما في عهد البابا سيكستس الثّاني، أجبرته السُّلطات الرّومانيّة على تسليم كنوز الكنيسة، جاء "في اليوم التّالي ومعه الفقراء. وعندما سُئل عن الكنوز الموعودة، أشار إليهم قائلًا: هذه كنوز الكنيسة"[24]. ويعلِّق أمبروزيوس فيقول: "أيّ كنوز يملكها يسوع أثمن من الكنوز التي يحِبُّ أن يُظهر نفسه فيها؟"[25] ثمّ يذكر أنّ خدّام الكنيسة يجب عليهم ألّا يهملوا رعاية الفقراء، ولا يراكموا الأموال لمصلحتهم الخاصّة، فيقول: "يجب القيام بهذه المهمّة بإيمان صادق وحكمة بعيدة النّظر. من المؤكّد أنّ من يجني من ذلك منفعة شخصيّة يرتكب خطيئة. أمّا إذا وزّع العائدات على الفقراء، أو فدى سجينًا، فإنّه يقوم بعمل رحمة"[26].

آباء الكنيسة والفقراء

39. منذ القرون الأولى، رأى آباء الكنيسة في الفقراء وسيلةً مميّزةً للوصول إلى الله، وطريقًا خاصًّا للقائه. لم يروا في المحبّة للمحتاجين فضيلةً أخلاقيّةً بسيطة فقط، بل تعبيرًا عمليًّا عن الإيمان بالكلمة المتجسّد. وقد تأصّلت جماعة المؤمنين، مؤيَّدةً بقوّة الرّوح القدس، في القرب من الفقراء، فلم تعتبرهم أمرًا ملحقًا بهم، بل جزءًا لا يتجزّأ من جسد الكنيسة الحيّ. فعلى سبيل المثال، حثّ القدّيس أغناطيوس الأنطاكيّ، وهو سائر نحو الاستشهاد، مؤمني جماعة إزمير على عدم إهمال واجب المحبّة تجاه من هم في أمسّ الحاجة، محذّرًا إيّاهم ألّا يتصرّفوا مثل الذين يعارضون لله: "انظروا إلى الذين يخالفوننا الرّأي في نعمة يسوع المسيح الذي جاء إلينا كيف يعارضون تدبير الله. إنّهم لا يهتمّون بالمحبّة، ولا بالأرملة، ولا باليتيم، ولا بالمظلوم، ولا بالسّجين أو الحرّ، ولا بالجائع أو العطشان"[27]. وقد أوصى أسقف إزمير، بوليكاربس، صراحة خدّام الكنيسة بأن يهتمّوا بالفقراء: "ليكن الكهنة لطفاء ورحماء مع الجميع، وليعيدوا الضّالّين، ويزوروا جميع المرضى، ولا يهملوا الأرملة، واليتيم، والفقير، بل ليهتمُّوا بالإحسان أمام الله والنّاس"[28]. من هاتين الشّهادتين، نرى أنّ الكنيسة تظهر أُمًّا للفقراء، ومكانًا للتّرحيب والعدالة.

40. أوضح القدّيس يوستينس، من جهته، في كتابه ”الدّفاع الأوّل“، الموجَّه إلى الإمبراطور هادريانس وإلى مجلس الشّيوخ والشّعب الرّوماني، أنّ المسيحيّين يقدّمون كلّ ما يقدرون أن يقدّموه إلى المحتاجين، لأنّهم يرون فيهم إخوة وأخوات في المسيح. وكتب عن اجتماعهم للصّلاة في اليوم الأوّل من الأسبوع، قال: في جوهر الليتورجيّا المسيحيّة، لا يمكن فصل عبادة الله عن الاهتمام بالفقراء. لذلك، في لحظة معيّنة من الاحتفال، "يُعطي الأغنياء والرّاغبون في ذلك ما يريدون. وما يُجمع يُقدَّم للرّئيس، وهو يُساعد الأيتام والأرامل والمحتاجين بسبب المرض أو لأيّ سبب آخر، والسّجناء والغرباء الذين بيننا: باختصار، إنّه يهتمّ بكلّ محتاج"[29]. يُظهر هذا أنّ الكنيسة النّاشئة لم تفصل الإيمان عن العمل الاجتماعيّ: فالإيمان الذي لا ترافقه شهادة الأعمال، كما يُعلّم القدّيس يعقوب، يُعتبر ميّتًا (راجع يعقوب 2، 17).

القدّيس يوحنّا الذّهبيّ الفم

41. من بين آباء الكنيسة الشّرقيّة، كان القدّيس يوحنّا الذّهبيّ الفم، رئيس أساقفة القسطنطينيّة، وقد عاش بين القرن الرّابع والقرن الخامس، أكثر الواعظين حماسةً للعدالة الاجتماعيّة. كان يحثّ المؤمنين، في عظاته، على أن يروا المسيح في المحتاجين: "أتريدون تكريم جسد المسيح؟ لا تُهملوا عُريه، لا تكرّموه هنا بألبسة من حرير وتهملوه في الخارج يعاني من البرد والعري [...]. [جسد المسيح الموجود على المذبح] لا يحتاج إلى ثياب، بل إلى نفوس طاهرة. وأمّا المسيح في الخارج فيحتاج إلى عناية كثيرة. فلنتعلّم إذًا أن نكون حُكماء ونكرّم المسيح كما يريد هو. أفضل طريقة لتكريم من نكرِّمُه هو أن نكرِّمَه بالطّريقة التي يريدها هو، لا بحسب ما نفكِّر فيه نحن [...]. كرّموه إذًا بهذا التّكريم الذي هو نفسه أمر به، وأعطوا أموالكم للفقراء. الله لا يحتاج إلى أوانٍ من ذهب، بل إلى نفوس من ذهب"[30]. ويؤكّد بوضوحٍ شديد أنّه إن لم يلتقِ المؤمنون بالمسيح في الفقراء عند الباب، فلن يتمكّنوا من عبادته على المذبح، ويتابع: "ما الفائدة إذا امتلأت مائدة ذبيحته بكؤوسٍ من ذهب، وهو مُنهك من الجوع؟ أوّلًا أشبِع جوعه، وبعد ذلك زيّن مائدته"[31]. كان يعني ذبيحة الإفخارستيّا، وهي تعبير أسراريّ عن المحبّة والعدالة التي تسبقها وترافقها، ومن المفترض أن تستمرّ بعد ذلك أيضًا، في محبّة الفقراء والاهتمام بهم.

42. ولهذا ليست المحبّة أمرًا اختياريًّا، بل هي الدّليل على العبادة الحقيقيّة. وقد ندَّد القدّيس يوحنّا الذّهبيّ الفم بشدّة بالتّرَف المفرط الذي كان منتشرًا مع اللامبالاة بالفقراء. فالاهتمام الواجب لهم، هو أكثر من مطلب اجتماعيّ، هو شرط للخلاص، وهو يُلقي على الغنى الجائر عبء الخطيئة: "هناك برد قارس، والفقير ذو الملابس البائسة مَرمي على الأرض، شبه مَيْت بسبب الجليد، تصطكّ أسنانه، ويكفي أن تراه حتّى تتحرّك مشاعرك. وأنت، مستدفئ جيّدًا وثمِل، تمُرّ بجانبه وتُكمل سَيرك. وكيف تتوقّع من الله أن يُنقذك عندما تَحِلُّ بك المصيبة؟ [...] كثيرًا ما تُزيّن جثةً بلا إحساس، لم تعد تُدرك معنى الكرامة، بثيابٍ كثيرة وثمينة. أمّا الجسد الذي يُعاني من الألم، والعذاب، والتّشنّجات والأوجاع بسبب الجوع والبرد، فأنت تحتقره. أنت تهتمّ بالمجد الباطل أكثر من اهتمامك بمخافة الله"[32]. هذا الإحساس العميق بالعدالة الاجتماعيّة يجب أن يفهمك أنّ "عدم إعطاء الفقراء جزءًا من خيراتنا، هو حرمانهم حياتهم نفسها، وأنّ ما نملكه هو ليس ملكنا، بل ملكهم"[33].

القدّيس أغسطنيس

43. كان القدّيس أمبروزيوس المعلّم الرّوحيّ للقدّيس أغسطينس، وقد شدّد على الإلزام الأخلاقيّ لتقاسم الخيرات: "أنت لا تُعطي الفقير ممّا تملك، بل تُعيد إليه ما هو له: لأنّ ما أُعطي للجميع ليستخدموه معًا، أنت استوليت عليه لنفسك فقط"[34]. بالنّسبة لأسقف ميلانو، الصّدقة هي الرّجوع إلى العدل، وليست لفتة ترحُّم على مسكين. في عظاته، تتّخذ الرّحمة طابعًا نبويًّا: فهو يندّد بهيكليّات التّراكم، ويؤكّد على أنّ الوَحدة والشّركة هي دعوة الكنيسة.

44. نشأ أسقف عنَّابة القدّيس على هذا التّقليد، وعلّم بدوره أفضليّة المحبّة للفقراء. وكان راعيًا يقظًا ولاهوتيًّا ذا بصيرة نادرة، فأدرك أنّ الشّركة الكنسيّة الحقيقيّة تتجلّى أيضًا في المشاركة في الخيرات. وفي تفسيره للمزامير، يُذكّر بأنّ المسيحيّين الحقيقيّين لا يُهمِلون محبّة الذين هم في أمسّ الحاجة: "أنتم، إذ تنظرون إلى إخوتكم، تعلَمون هل هم بحاجة إلى شيء، وإن كان المسيح مقيمًا فيكم، فأحسنوا حتّى إلى الغرباء"[35]. لذا، فهذه المشاركة في الخيرات تنجم عن المحبّة اللاهوتيّة، وغايتها الأخيرة هي محبّة المسيح. بالنّسبة للقدّيس أغسطينس، ليس الفقير إنسانًا للمساعدة فقط، بل هو حضور أسراريّ للرّبّ يسوع.

45. معلِّم الكنيسة في النّعمة رأى أنّ الاهتمام بالفقراء دليل ملموس على صدق الإيمان. كلّ من يدّعي محبّة الله ولا يرحم المحتاجين فهو كاذب (راجع 1 يوحنّا 4، 20). في شرحه للقاء يسوع مع الشّاب الغني و”كنز السّماء“ المحفوظ للذين يعطون مالهم للفقراء (راجع متّى 19، 21)، وضع أغسطينس الكلمات التّالية على لسان الرّبّ: "أنا نلتُ الأرض، وسأعطي السّماء، نلتُ خيرات زمنيّة، وسأعطي خيرات أبديّة، أخذت خبزًا، وسأعطي الحياة. [...] وجدت الضّيافة في بيت، أمّا أنا فسأعطي البيت، زاروني مريضًا، وسأعطي الصّحّة، زاروني في السّجّن، وسأعطي الحرّيّة. الخبز الذي أعطيتموه لفقرائي تمّ استهلاكه، أمّا الخبز الذي سأعطيه أنا، فلن يغذِّيكم فقط، بل لن ينفد أبدًا"[36]. الله تعالى لا يغلبه أحد في الكرم تجاه الذين يخدمونه في الذين هم في أشدّ الحاجة: بقدر ما تزداد محبّة الفقراء، يزداد الأجر من قبل الله.

46. هذه الرّؤية المركّزة على المسيح، والمرتبطة ارتباطًا عميقًا بالكنيسة، حملت على القول إنّ التّقادم التي تولد من المحبّة لا تُخفّف فقط من احتياجات إخوتنا، بل تُنقّي أيضًا قلب من يُعطي، إن كان مستعدًّا للتّغيير: "في الواقع، الصّدقة تمحو خطايا الحياة الماضية، إن غيّر الإنسان حياته"[37]. فهي، إن صحّ القول، الطّريق العاديّ للتّوبة لمن يريد أن يتبع المسيح بقلبٍ غير منقسم.

47. في كنيسةٍ ترى وجه المسيح في الفقراء، وترى في الخيرات أداة المحبّة، يبقى الفكر الأغسطينيّ نورًا ساطعًا. واليوم، الأمانة لتعاليم أغسطينس تقتضي ليس فقط دراسة كتاباته، بل أيضًا الاستعداد للعيش بصورة جذريّة بحسب دعوته إلى التّوبة، التي تتضمّن بالضّرورة خدمة المحبّة.

48. عبّر العديد من آباء الكنيسة، الشّرقيّين والغربيّين، عن أولوّيّة الاهتمام بالفقراء في حياة ورسالة كلّ مؤمن مسيحي. ومن هذا المنظور، وباختصار، يمكن القول إنّ لاهوت آباء الكنيسة كان عمليًّا، إذ سعى إلى بناء كنيسة فقيرة ومن أجل الفقراء، مُذكّرًا بأنّ الإنجيل لا يُعلن على نحوٍ صحيح إلّا عندما يدفع إلى لمس عذاب الأقلّ حظًّا، ومُحذّرًا من أنّ التّشدّد في العقيدة، بدون رحمة، إنّما هو كلام فارغ.

الاهتمام بالمرضى

49. تجلّت الرّحمة المسيحيّة بشكل مميّز في الاهتمام بالمرضى والمتألّمين. فبالاستناد إلى العلامات الواضحة في خدمة يسوع العلنيّة – شفاء العميان والبرص والمقعدين – الكنيسة تدرك أنّ الاهتمام بالمرضى، الذين ترى فيهم الرّبّ يسوع المصلوب، هو جزءٌ جوهريّ من رسالتها. وخلال وباء اجتاح مدينة قرطاجة، وكان القدّيس كبريانوس أسقفًا عليها، ذكّر المسيحيّين بأهمّيّة الاهتمام بالمرضى قال: "هذا الوباء، الذي يبدو مرعبًا وقاتلًا، هو امتحان للعدل في الأفراد واختبار للمشاعر الإنسانيّة! هذا الوباء يبيِّن هل يساعد الأصّحاءُ المرضى، وهل يحبّ الأقارب أقاربهم كما يجب، وهل يرأف الأسياد بعبيدهم المصابين بالمرض، وهل لا يُهمِل الأطباء المرضى الذين هم بحاجة إلى المساعدة"[38]. التّقليد المسيحيّ في زيارة المرضى، وغسل جراحهم، وتعزية المحزونين، ليس فقط تعبيرًا عن حبّ بشري، بل هو عمل كنسيّ، من خلاله يريد أعضاء الكنيسة أن "يلمسوا، في المرضى، جسد المسيح المتألّم"[39].

50. في القرن السّادس عشر، أنشأ القدّيس يوحنّا لله رهبنة تختصّ بالمستشفيات تحمل اسمه، وأسّس مستشفيّات نموذجيّة كانت تستقبل الجميع بغضّ النّظر عن وضعهم الاجتماعيّ أو الاقتصاديّ. وصارت عبارته المعروفة: ”اصنعوا الخير، إخوتي!“ (Fate bene, fratelli) شعارًا للمحبّة الفعّالة تجاه المرضى. وفي الوقت نفسه، أسّس القدّيس كاميلّو دي ليلّيس (Camillo de Lellis) رهبنة ”خدّام المرضى“ – المعروفة بالكاميليانيّين (Camilliani) – وتبنّى رسالة خدمة المرضى بتفانٍ كامل. ويأمر القانون فيقول: "ليطلب كلّ واحد من الرّبّ يسوع النّعمة ليمنحه محبّة مثل محبّة الأمّ نحو قريبه، لكي نستطيع أن نخدمه بكلّ محبّة، نفسًا وجسدًا، لأنّنا نريد، بنعمة الله، أن نخدم جميع المرضى بالمودّة نفسها التي تبديها الأمّ الحنون تجاه وحيدها المريض"[40]. وفي المستشفيات، وميادين المعارك، والسّجون، والشّوارع، جسّد الكاميليانيّون رحمة المسيح الطّبيب.

51. وبالاهتمام بالمرضى بمثل محبّة الأمّ، كما تهتمّ الأمّ بطفلها، قامت نساء مكرّسات كثيرات بخدمة واسعة في مجال رعاية الفقراء الصّحّيّة. منهنّ، راهبات المحبّة اللواتي أسّسهنَّ القدّيس منصور دي بول (Vincenzo de’ Paoli)، والرّاهبات الممرّضات، وراهبات العناية الإلهيّة الصّغيرات، وغيرها من الرّهبنات النّسائيّة، أصبحن حضورًا والديًّا رقيقًا في المستشفيات، ودور الرّعاية، ومراكز الإيواء. فقدّمن تخفيفًا من المرض، وإصغاء، ومرافقة، وكثيرًا من الحنان. وشيَّدن أحيانًا بأيديهنّ، مرافق صحّيّة في مناطق محرومة من الخدمات الطّبّيّة. وعلّمن الوقاية الصّحّيّة، وأشرفن على الولادات، ووزّعن الأدويّة بحكمة عفويّة وإيمان عميق. وصارت بيوتهنّ واحات للكرامة لا يُستثنى منها أحد. وكانت لمسة الحنان أوّل العلاج. وقد كتبت القدّيسة لويزا دي مارياك (Luisa de Marillac) إلى راهباتها، بنات المحبّة، تُذكّرهنّ بأنهنّ "نِلن بركة خاصّة من الله لخدمة الفقراء المرضى في المستشفيات"[41].

52. واليوم، هذا الإرث يستمرّ في المستشفيات الكاثوليكيّة، وفي مراكز الرّعاية المفتوحة في المناطق النّائية، وفي البعثات الصّحّيّة العاملة في الغابات، وفي مراكز استقبال المدمنين على المخدّرات، وفي المستشفيات الميدانيّة في مناطق الحروب. الحضور المسيحيّ إلى جانب المرضى يكشف أنّ الخلاص ليس فكرة تجريديّة، بل عمل ملموس. وفي تضميد الجراح، تُعلن الكنيسة أنّ ملكوت الله يبدأ مع أشدِّ النّاس ضعفًا. وهكذا، تبقى أمينة لذاك الذي قال: "كنتُ [...] مَريضًا فعُدتُموني" (متّى 25، 35. 36). وعندما تجثو الكنيسة إلى جانب أبرص، أو طفل يعاني من سوء التّغذية، أو محتضر مجهول الاسم، فإنّها تحقّق أعمق ما في دعوتها: أن تحبّ الرّبّ يسوع حيثما يكون في أشدّ حالات التشوّه.

الاهتمام بالفقراء في الحياة الرّهبانيّة

53. نشأت الحياة الرّهبانيّة في صمت الصّحاري، وكانت منذ بدايتها شهادة حيّة على روح التّضامن. فقد ترك الرّهبان كلّ شيء – الغنى، والشّهرة، والعائلة – لا لمجرّد ازدرائهم خيرات العالم (contemptus mundi)، بل لكي يلتقوا، بهذا التجرّد الجذريّ، بالمسيح الفقير. القدّيس باسيليوس الكبير، في قانونه، لم يكن يرى أيّ تناقض بين حياة الرّهبان في الصّلاة والاعتكاف والتّأمّل، وبين عملهم في خدمة الفقراء. فبالنّسبة له، كانت الضّيافة والاهتمام بالمحتاجين جزءًا لا يتجزّأ من الرّوحانيّة الرّهبانيّة، وكان الرّهبان، حتّى بعد أن تركوا كلّ شيء ليعتنقوا الفقر، مدعوّين إلى أن يساعدوا أشدّ الفقراء بعملهم. كان يقول: "لكي يكون لنا ما يكفي لمساعدة المحتاجين، […] من الواضح أنّنا يجب أن نعمل باجتهاد […]. فقانون الحياة هذا لا يفيدنا فقط لإخضاع الجسد، بل لمحبّة القريب أيضًا، حتّى يعطي الله، من خلالنا، لإخوتنا الأضعفين ما يحتاجون إليه"[42].

54. وفي قيصريّة، حيث كان القدّيس باسيليوس أسقفًا، أنشأ مكانًا عُرف باسم ” “Basiliade، يضمّ ملاجئ ومستشفيات ومدارس للفقراء والمرضى. وهكذا، لم يكن الرّاهب ناسكًا فقط، بل خادمًا. وبيَّن باسيليوس أنّه حتّى نكون قريبين من الله علينا أن نكون قريبين من الفقراء. فالمحبّة العمليّة كانت معيار القداسة. والصّلاة والاهتمام، والتّأمّل والشّفاء، والكتابة والاستقبال، كلّها كانت تعبيرًا عن حبّ المسيح نفسه.

55. في الغرب، وضع القدّيس بندكتس من نورسيا (Benedetto da Norcia) قانونًا صار العمود الفقريّ للرّوحانيّة الرّهبانيّة في أوروبا. وفيه، احتلّ استقبال الفقراء والحجّاج مكانة واضحة: "يجب أن نهتمّ بصورة خاصّة باستقبال الفقراء والحجّاج، لأنّ المسيح يُستَقبَل فيهم أكثر من غيرهم"[43]. ولم تكن هذه مجرّد كلمات، فقد كانت أديرة رهبان البندكتيّين، على مرّ العصور، ملجأً للأرامل والأطفال المتروكين والحجّاج والمتسوّلين. وكان بندكتس يرى في الحياة الجماعيّة مدرسةً للمحبّة. فالعمل اليدوي لم يكن مجرّد نشاط عمليّ، بل كان يهيّئ القلب أيضًا على الخدمة. فالمشاركة بين الرّهبان، والاهتمام بالمرضى، والإصغاء إلى الأضعفين، كانت تهيّئهم لاستقبال المسيح الذي يأتي في شخص الفقير والغريب. ولا تزال ضيافة رهبان البندكتيّين حتّى اليوم علامة للكنيسة التي تفتح أبوابها، وتستقبل بلا شروط، وتشفي بدون أن تطلب أيّ شيء بالمقابل.

56. ومع مرور الزّمن، صارت أديرة رهبان البندكتيّين أماكن تعارض ثقافة الإقصاء. فقد كان الرّهبان يفلحون الأرض، وينتجون الغذاء، ويحضّرون الأدوية، ويقدّمونها ببساطة لأكثر النّاس احتياجًا. كان عملهم الصّامت خميرة لحضارة جديدة، حيث لا يُنظر إلى الفقراء على أنّهم مشكلة يجب حلّها، بل إخوة وأخوات يجب قبولهم واستقبالهم. وكان قانون المشاركة، والعمل المشترك، وخدمة الضّعفاء، بمثابة قاعدة لاقتصاد تضامنيّ، بدل منطق تراكم الأموال. لقد أظهرت شهادة الرّهبان أنّ الفقر الاختياريّ، ليس شقاء، بل هو طريق للحرّيّة والوَحدة والشّركة. ولم يكتفوا بمساعدة الفقراء، بل صاروا قريبين منهم، إخوة لهم في الرّبّ يسوع نفسه. ونشأت في صوامعهم وأديرتهم، خبرة صوفيّة لحضور الله في الصّغار.

57. بالإضافة إلى تقديم المساعدة الماديّة، لعبت الأديرة دورًا أساسيًّا في التّنشئة الثّقافيّة والرّوحيّة لأكثر النّاس فقرًا وضعة. ففي أوقات الطّاعون والحروب والمجاعات، كانت الأديرة أماكن يجد فيها المحتاجون الخبز والدّواء، وأيضًا الكرامة والكلمة الطّيّبة. هناك كان الأيتام يتلقّون التّربية، والمتدرّبون يكتسبون التّنشئة، والفلاحون يتعلّمون تقنيّات الزراعة وفنون القراءة. كانت المعرفة موضوع مُشاركة فهي عطيّة ومسؤوليّة. وكان رئيس الدّير (الأباتي) معلّمًا وأبًا معًا، وكانت المدرسة الرّهبانيّة مكان تحرُّرٍ بالحقّ. في الواقع، كما كتب يوحنّا كاسيانو (Giovanni Cassiano)، يجب أن يتّسم الرّاهب بـ"تواضع القلب [...]، الذي لا يقود إلى معرفة تنفخ، بل إلى معرفة تنير بكمال المحبّة"[44]. وبتنشئة الضّمائر ونقل الحكمة، ساهم الرّهبان في نهج تربوي مسيحيّ يقوم بقبول الجميع. كانت الثّقافة، التي تتَّسِمُ بالإيمان، مشاركة ببساطة مع الجميع. والمعرفة التي أنارتها المحبّة صارت خدمة. وهكذا ظهرت الحياة الرّهبانيّة كأسلوب قداسة وطريق عملي لتغيير المجتمع.

58. وهكذا، فإنّ التّقليد الرّهبانيّ يعلّم أنّ الصّلاة والمحبّة، والصّمت والخدمة، وصوامع الرّهبان والمستشفيات، تشكّل نسيجًا روحيًّا واحدًا. فالدّير هو مكان للإصغاء والعمل، والعبادة والمشاركة. وقد شدّد القدّيس برناردس دي كليرفو (Bernardo di Chiaravalle)، المصلح الكبير لرهبنة السّيسترسيّين (cistercense)، على "ضرورة حياة متقشّفة ومتّزنة، في المائدة كما في الملابس، وفي الأبنية الرّهبانيّة، وأوصى بإعالة الفقراء والاهتمام بهم"[45]. فبالنّسبة له، لم تكن الرّحمة خيارًا ثانويًّا، بل طريقًا حقيقيًّا لاتّباع المسيح. لذا، فإنّ الحياة الرّهبانيّة، إن بقيت أمينة لدعوتها الأولى، بيَّنت أنّ الكنيسة لا تكون عروسًا كاملة للرّبّ يسوع إلّا عندما تكون أيضًا أختًا للفقراء. فالدّير ليس مجرّد ملجأً من العالم، بل هو مدرسة تعلّم خدمته على نحو أفضل. وحيثما فتح الرّهبان أبوابهم للفقراء، بيَّنت الكنيسة بتواضع وثبات أنّ التّأمّل لا يستبعد الرّحمة، بل يطلبها كأطهر ثماره.

تحرير المأسورين

59. منذ العصور الرّسوليّة، رأت الكنيسة في تحرير المظلومين علامة من علامات ملكوت الله. فالمسيح نفسه، في بداية رسالته العلنيّة، أعلن قال: "رُوحُ الرَّبِّ عَلَيَّ، لأَنَّه مَسَحَني لأُبَشِّرَ الفُقَراء، وأَرسَلَني لأُعلِنَ لِلمَأسورينَ تَخلِيَةَ سَبيلِهم" (لوقا 4، 18). وكان المسيحيّون الأوائل، رغم أوضاعهم الصّعبة، يصلّون ويساعدون إخوتهم وأخواتهم المأسورين، كما يشهد سفر أعمال الرّسل (راجع 12، 5؛ 24، 23) وعدد من كتابات الآباء. وقد استمرّت رسالة التّحرير هذه عبر القرون بمساهمة عمليّة، ولا سيّما حين كانت مأساة العبوديّة والأَسر حالَّةً في كلّ المجتمعات.

60. بين أواخر القرن الثّاني عشر وبدايات القرن الثّالث عشر، حين كان المسيحيّون الكثيرون يُؤسَرون في البحر المتوسّط أو يُستَعبدون في الحروب، نشأت رهبنتان: رهبنة الثّالوث الأقدس لتحرير الأسرى (Trinitari)، التي أسّسها القدّيس يوحنّا دي ماثا (Giovanni de Matha) والقدّيس فيليتشي دي فالوا (Felice di Valois)، ورهبنة سيّدتنا مريم العذراء سيّدة الرّحمة (Mercedari)، التي أسّسها القدّيس بطرس نولاكسو (Pietro Nolasco) بدعم من القدّيس رايموندو دي بينيافور (Raimondo di Peñafort)، الدّومينيكاني. وقد نشأت هذه الرّهبنات للمكرّسين، ولهم موهبة خاصّة هي تحرير المسيحيّين الواقعين في العبوديّة، فكرّست لهم الأموال[46]، وقدّم الرّهبان مرارًا أنفسهم فدية عن الأسرى. وكان شعار رهبنة الثّالوث الأقدس: ”المجد لك أيّها الثّالوث الأقدس، وللمأسورين الحرّيّة“، فيما أضافت رهبنة سيّدة الرّحمة نذرًا رابعًا[47] إلى نذور الفقر والطّاعة والعفّة، هو المحبّة، ليشهدوا أنّ المحبّة يمكن أن تكون بطوليّة. فتحرير الأسرى هو تعبير عن المحبّة الثّالوثيّة: إله يحرّر لا من العبوديّة الرّوحيّة فقط، بل من الظّلم الواقعيّ أيضًا. ويُنظَر إلى التّحرير من العبوديّة أو الأَسر على أنّه امتداد لذبيحة المسيح الفدائيّة، الذي كان دمه ثمن فدائنا (راجع 1 قورنتس 6، 20).

61. كانت الرّوحانيّة الأصليّة لهذه الرّهبنات متجذّرة تجذُّرًا عميقًا في التّأمّل في الصّليب. فالمسيح هو الفادي الأسمى للأسرى، والكنيسة، وهي جسده، تواصل هذا السّر عبر الزّمن.[48] ولم يكن الرّهبان ينظرون إلى الفدية كعمل سياسيّ أو اقتصاديّ، بل كعمل شبه ليتورجيّ، أي تقدمةً للذّات التي هي أشبه بسرّ تقدمة المسيح لذاته. وقد قدّم كثيرون منهم أجسادهم ليحلّوا محلّ الأسرى، متمّمين كلمة السّيّد المسيح: "لَيسَ لأَحَدٍ حُبٌّ أَعظمُ مِن أَن يَبذِلَ نَفسَه في سَبيلِ أَحِبَّائِه" (يوحنّا 15، 13). لم ينتهِ تقليد هذه الرّهبنات، بل ألهم أشكالًا جديدة من العمل مع عبوديّات العصر الحديث: الاتجار بالبشر، والعمل القسريّ، والاستغلال الجنسيّ، وأشكال الإدمان المتعدّدة.[49] فالمحبّة المسيحيّة، حين تتجسّد، تصير محرِّرة. ورسالة الكنيسة، حين تبقى أمينة لربّها، تكون دائمًا إعلان التّحرير. وحتّى اليوم، حين "يُحرَم ملايين الأشخاص – من أطفال ورجال ونساء من جميع الأعمار – من حرّيّتهم ويُجبرون على أن يعيشوا في ظروف تماثل العبوديّة"[50]، تواصل هذه الرّهبنات وغيرها من المؤسّسات والجماعات في حمل هذا الإرث والعمل في الضّواحي المهمّشة، ومناطق النّزاعات، وطرق المهاجرين. عندما تنحني الكنيسة لتكسر القيود الجديدة التي تكبّل الفقراء، فإنّها تصير علامة فصحيّة.

62. ولا يمكن إنهاء هذا التّأمّل في الذين حُرموا حرّيّتهم دون أن نذكر السّجناء القابعين في مختلف السّجون ومراكز الاحتجاز. وفي هذا الصّدد، لنتذكّر كلمات البابا فرنسيس التي وجّهها إلى مجموعة منهم، قال: "بالنّسبة لي، دخول السّجن هو دائمًا لحظة مهمّة، لأنّ السّجن مكان غنيّ بالإنسانيّة [...]. إنسانيّة مجروحة، وتثقلها أحيانًا الصّعوبات، ومشاعر الذّنب، والأحكام، وسوء الفهم، والآلام، لكنّها في الوقت نفسه مليئة بالقوّة، والرّغبة في المغفرة، والإرادة في الفداء"[51]. وهذه الإرادة تبنّتها أيضًا الرّهبنات المكرّسة لفدية السّجناء، من بين أمورٍ أخرى، كخدمة مفضّلة في الكنيسة. وكما أعلن القدّيس بولس: "إِنَّ المسيحَ قد حَرَّرَنا تَحْريرًا!" (غلاطية 5، 1). وهذه الحرّيّة ليست داخليّة فحسب، بل تتجلّى في التّاريخ كمحبّة تهتمّ بكلّ قيد من قيود العبوديّة وتحرّرنا منها.

شهود الفقر الإنجيليّ

63. في القرن الثّالث عشر، ومع نموّ المدن، وتراكم الثّروات، وظهور أشكال جديدة من الفقر، أوحى الرّوح القدس بنمط جديد من التّكرُّس في الكنيسة: الرّهبنات المتسوّلة. وعلى خلاف النّموذج الرّهبانيّ الثّابت، اعتنق المتسوّلون حياة التّرحال، دون أن يكون لهم أملاك شخصيّة أو جماعيّة، واعتمدوا بشكلٍ كامل على العناية الإلهيّة. لم يقتصروا على خدمة الفقراء، بل صاروا فقراء معهم. كانوا يرون في المدينة صحراء جديدة، وفي المهمّشين معلّمين روحيّين جُدُد. هذه الرّهبنات مثل الفرنسيسكان، والدّومينيكان، والأغسطينيّون، والكرمليّون، أحدثت ثورة إنجيليّة، جعلت من أسلوب العيش البسيط والفقير علامةً نبويّة من أجل الرّسالة، وأَحيَت من جديد خبرة الجماعة المسيحيّة الأولى (راجع أعمال الرّسل 4، 32). وقد تحدَّت شهادة الرّهبنات المتسوّلة، في الوقت نفسه، تَرَف الإكليروس وبرودة المجتمع المدنيّ.

64. صار القدّيس فرنسيس الأسيزي أيقونة لهذه النّهضة الرّوحيّة. فهو باتّخاذه الفقر عروسًا له، أراد أن يقتدي بالمسيح الفقير، والعريان، والمصلوب. طلب في قانونه: "ألّا يمتلك الإخوة شيئًا، لا بيتًا ولا مكانًا ولا أيّ شيء آخر. ومثل الحجّاج والغرباء في هذا العالم، يخدمون الرّبّ يسوع بفقر وتواضع، ويسألون الصّدقة بثقة، وعليهم ألّا يخجلوا، لأنّ الرّبّ يسوع صار فقيرًا من أجلنا في هذا العالم"[52]. كانت حياته تجرّدًا مستمرًّا: فذهب من القصر إلى الأبرص، ومن البلاغة إلى الصّمت، ومن الامتلاك إلى العطاء الكامل. لم يؤسّس فرنسيس مؤسّسةً للخدمة الاجتماعيّة، بل أخوّة إنجيليّة. رأى في الفقراء إخوة وصورًا حيّة للرّبّ يسوع. كانت رسالته أن يبقى معهم من أجل تضامن يتخطّى المسافات، ومن أجل محبّة رؤوفة. كان فقره علاقة مع الفقراء: جعله يصير قريبًا، مساويًا للآخر، بل أصغر منه. نبعَت قداسته من قناعته بأنّه يمكن أن نستقبل حقًّا المسيح فقط إن بذلنا أنفسنا للإخوة بسخاء.

65. القدّيسة كلارا من أسيزي، التي ألهمها فرنسيس، أسّست رهبنة السّيّدات الفقيرات، التي عُرفت لاحقًا باسم راهبات الكلاريس. كانت معركتها الرّوحيّة قائمة على الحفاظ بأمانة على مثال الفقر الجذريّ. رفضت الامتيازات البابويّة التي كانت تسمح لها بأن تؤمّن لها ضمانًا ماديًّا لديرها، وحصلت بإصرارها من البابا غريغوريوس التّاسع على ما يُعرف بامتياز الفقر (Privilegium Paupertatis) الذي كان يضمن الحقّ في العيش دون امتلاك أيّ خيرات ماديّة.[53] عبَّر هذا الاختيار عن ثقتها الكاملة بالله، وعن وَعيها بأنّ الفقر الطَّوعيّ هو شكل من أشكال الحرّيّة والنّبوءة. وعلّمت كلارا أخواتها أنّ المسيح هو ميراثهنَّ الوحيد، وأنّ لا شيء يجب أن يحجب الوَحدة والشّركة معه. حياة الصّلاة والاختفاء التي كانت تعيشها، كانت صرخة ضدّ حياة العالم ودفاعًا صامتًا عن الفقراء والمنسيّين.

66. القدّيس دومينيك دي غوزمان (Domenico di Guzmán)، الذي كان معاصرًا لفرنسيس، أسّس رهبنة الواعظين، بموهبة مختلفة، ولكن بالجذريّة نفسها. أراد أن يعلن الإنجيل بالسّلطة النّاجمة من حياة فقيرة، وكان مقتنعًا بأنّ الحقّ بحاجة إلى شهود صادقين غير مرائين. فمثال فقر الحياة كان يرافق الكلمة المُعلنة. وإذ كانوا أحرارًا من ثِقَل الخيرات الأرضيّة، استطاع الإخوة الدّومينيكان أن يكرّسوا أنفسهم بشكل أفضل للعمل الأهمّ، أي الكرازة. وكانوا يتوجّهون إلى المدن، ولا سيّما المدن التي فيها جامعات، ليعلِّموا حقيقة الله.[54] وفي اعتمادهم على الآخرين، كانوا يبرهنون أنّ الإيمان لا يُفرض بل يُقدَّم. وبعيشهم بين الفقراء، كانوا يتعلّمون حقيقة الإنجيل ”من القاعدة“، مثل تلاميذ للمسيح المتواضع.

67. إذًا، كانت الرّهبنات المتسوّلة جوابًا حيًّا على الإقصاء واللامبالاة. لم يقترحوا صراحةً إصلاحات اجتماعيّة، بل ارتدادًا شخصيًّا وجماعيًّا إلى منطق الملكوت. بالنّسبة لهم، لم يكن الفقر نتيجة لنقص في الخيرات، بل اختيارًا حرًّا: أن يصيروا صغارًا ليستقبلوا الصّغار. كما قال توماس دي سيلانو (Tommaso de Celano) عن فرنسيس: "كان يُظهر حبًّا شديدًا للفقراء […]. كان مرارًا يخلع عنه ثوبه ليكسو الفقراء، الذين كان يسعى لأن يتشبّه بهم"[55]. صار المتسوّلون رمزًا لكنيسة حَاجَّة، ومتواضعة، وأخويّة، تعيش بين الفقراء لا للبحث عن أتباعٍ لها، بل لتحدِّد هويّتها. كانوا يعلّمون أنّ الكنيسة تكون نورًا فقط عندما تتجرّد من كلّ شيء، وأنّ القداسة تمرّ عبر القلب المتواضع والمكرَّس للصّغار.

الكنيسة وتربية الفقراء

68. توجّه البابا فرنسيس إلى بعض المرّبين، وذكّر بأنّ التّربية كانت دائمًا إحدى أسمى تعابير المحبّة المسيحيّة: "رسالتكم هي رسالة مليئة بالعقبات ولكن أيضًا بالأفراح. […] إنّها رسالة محبّة، لأنّه لا يُمكن أن نعلّم دون أن نُحبّ"[56]. بهذا المعنى، فَهِمَ المسيحيّون منذ العصور الأولى أنّ المعرفة تُحرّرهم، وتمنحهم الكرامة، وتقرّبهم من الحقيقة. بالنّسبة للكنيسة، كان تعليم الفقراء عملًا من أعمال العدل والإيمان. وإذ استلهمت ذلك من مثال المعلّم الذي كان يعلّم النّاس الحقائق الإلهيّة والبشريّة، أخذت على عاتقها رسالة تنشئة الأطفال والفتيان، ولا سيّما أشدّهم فقرًا، على الحقّ والمحبّة. هذه الرّسالة تجسّدت في تأسيس رهبنات مكرّسة للتّربية الشّعبيّة.

69. في القرن السّادس عشر، تأثّر القدّيس يوسف كالازانس (Giuseppe Calasanzio) من النّقص في التّعليم والتّنشئة للشّباب الفقراء في مدينة روما، فأسّس في بعض الغرف المُلحقة بكنيسة القدّيسة دوروتيا في تراستيفيري، أوّل مدرسة شعبيّة عامّة مجّانيّة في أوروبا. كانت هذه البذرة التي ستولد منها وستتطوّر في ما بعد، رغم الصّعوبات، رهبنة الإكليريكيّين فقراء والدة الله لمدارس التّقوى، المعروفة بالسكولوبِيّين (Scolopi)، بهدف تعليم الشّباب "بالإضافة إلى العلوم الدنيويّة، حكمة الإنجيل أيضًا، وتعليمهم أن يروا في حياتهم الشّخصيّة وفي التّاريخ، عمل محبّة الله الخالق والفادي"[57]. في الواقع، يمكننا أن نعتبر هذا الكاهن الجريء أنّه "المؤسّس الحقيقيّ للمدرسة الكاثوليكيّة الحديثة، التي تسعى إلى تنشئة الإنسان تنشئة كاملة، ومنفتحة على الجميع"[58]. مدفوعًا بالإحساس نفسه، أسّس القدّيس يوحنّا باتّيستا دي لا سال (Giovanni Battista de La Salle) في القرن السّابع عشر ”إخوة المدارس المسيحيّة“، بعد أن لمس الظّلم النّاتج عن استبعاد أبناء العمّال والفلّاحين من التّعليم في فرنسا في وقته. وقد جعل هدفه تقديم تعليم مجّاني لهم، وتنشئة راسخة، وبيئة أخويّة. رأى دي لا سال في الصّفّ الدّراسي مكانًا للارتقاء الإنسانيّ، وأيضًا للتّوبة. اجتمعت في مدارسه الصّلاة والمنهجيّة والانضباط والمشاركة. كلّ طفل يُعتبر عطيّة فريدة من الله، وعمليّة التّعليم خدمة لملكوت الله.

70. في القرن التّاسع عشر، أسّس القدّيس مارسيلينو شامبانيا (Marcellino Champagnat)، في فرنسا أيضًا، جمعيّة الإخوة المريميّين (Fratelli Maristi) للمدارس، "لأنّه كان حسّاسًا للاحتياجات الرّوحيّة والتّربويّة في زمنه، ولا سيّما الجهل الدّيني وحالات الإهمال التي كان يعيشها الشّباب بصورة خاصّة"[59]، وكرّس نفسه من كلّ قلبه، في زمن كان فيه التّعليم ما يزال امتيازًا لقلَّة قليلة، لرسالة تربية الأطفال والشّباب الأشدّ احتياجًا ونقل بشرى الإنجيل إليهم. وبالرّوح نفسها، بدأ القدّيس يوحنّا بوسكو في إيطاليا عمله السّالزيانيّ الكبير، القائم على ثلاثة مبادئ ”للمنهج الوقائي“ - العقل، والدّين، والمحبّة -[60] كما أسّس الطّوباوي أنطونيو روزميني (Antonio Rosmini) جمعيّة المحبّة، حيث ”المحبّة الفكريّة“ – إلى جانب ”المحبّة الماديّة“، وقمّتها ”المحبّة الرّوحيّة-الرّعويّة“ – كانت تُقدَّم على أنّها بُعد لا غنى عنه في أيّ عمل محبّة يهدف إلى خير الإنسان ونموّه المتكامل.[61]

71. وكانت أيضًا الرّهبنات النّسائيّة العديدة التي لعبت دورًا في هذه الثّورة التّربويّة. الأورسولينيّات وراهبات رهبنة سيّدتنا مريم العذراء والمعلّمات التقيّات (Le Orsoline, le monache della Compagnia di Maria Nostra Signora, le Maestre Pie) ورهبنات أخرى كثيرة، تأسّست خصوصًا في القرنين الثّامن عشر والتّاسع عشر، عملن حيث كانت الدّولة غائبة. فأنشأن المدارس في القرى الصّغيرة، وفي الضّواحي، والأحياء الشّعبيّة. وصار تعليم الفتيات بشكلٍ خاصّ أولويّة. بدأت الرّاهبات بتعليم القراءة والكتابة، وتعليم الإنجيل، والاهتمام بشؤون الحياة العمليّة اليوميّة، ورفع الرّوح بتنمية الفنون، وقبل كلّ شيء تكوين الضّمير. كان أسلوب تربيتهنّ بسيطًا: المودّة، والصّبر، والوداعة. كُنَّ يعلّمن بحياتهنَّ، قبل كلامهنَّ. في زمن انتشار الأمّيّة وإقصاء بعض الفئات في طبقات المجتمع، كانت تلك النّساء المكرّسات منارات للأمل. كانت رسالتهنَّ تنشئة القلب، وتعليم التّفكير، وتعزيز الكرامة. ولمّا دمجنَ بين الحياة التقويّة والتّفاني في خدمة القريب، حاربنَ الإهمال والإبعاد بحنان من يربّي باسم المسيح.

72. بالنّسبة للإيمان المسيحيّ، تربية الفقراء ليس إحسانًا بل هو واجب. فالصّغار لهم الحقّ في المعرفة، وهو شرط أساسيّ للاعتراف بكرامتهم الإنسانيّة. تعليمهم هو تأكيد لكرامتهم، ولتزويدهم بالأدوات لتغيير الواقع. التّقليد المسيحيّ يعتبر المعرفة عطيّة من الله ومسؤوليّة جماعيّة. فالتّربية المسيحيّة لا تُنشّئ فقط مُحترفين، بل أشخاصًا منفتحين على الخير والجمال والحقّ. وعندما تكون المدرسة الكاثوليكيّة أمينة لاسمها، تصير مكانًا للاندماج، والتّنشئة المتكاملة، والارتقاء الإنسانيّ. وإن جمعَتْ بين الإيمان والثّقافة، فإنّها تزرع المستقبل، وتكرّم صورة الله، وتبني مجتمعًا أفضل.

مرافقة المهاجرين

73. رافقت خبرة الهجرة تاريخ شعب الله. فقد خرج إبراهيم دون أن يعلم إلى أين يذهب. وقاد موسى الشّعب التّائه في الصّحراء. وهربت مريم ويوسف بالطّفل إلى مصر. والمسيح نفسه، الذي "جاءَ إِلى بَيتِه، فما قَبِلَه أَهْلُ بَيتِه" (يوحنّا 1، 11)، عاش بيننا مثل الغريب. لهذا السّبب، رأت الكنيسة دائمًا في المهاجرين حضورًا حيًّا للرّبّ يسوع الذي سيقول في يوم الدّينونة للذين عن يمينه: "كُنتُ غَريبًا فآويتُموني" (متّى 25، 35).

74. في القرن التّاسع عشر، عندما هاجر ملايين الأوروبيّين بحثًا عن ظروفِ معيشيةٍ أفضل، ظهر قدّيسان كبيران في خدمة المهاجرين الرّعوية: القدّيس يوحنّا باتّيستا سكالابريني (Giovanni Battista Scalabrini)، والقدّيسة فرانشيسكا سافيريو كابريني (Francesca Saverio Cabrini). أسّس سكالابريني، أسقف بياتشنسا (Piacenza)، مُرسَلي القدّيس كارلو لمرافقة المهاجرين في الجماعات التي يستقرّون فيها، وتقديم السّند الرّوحيّ والقانونيّ والماديّ لهم. رأى في المهاجرين ضرورة تبشيرهم من جديد بالإنجيل، وحذّر من مخاطر الاستغلال وفقدان الإيمان في الغُربة. وإذ استجاب بسخاء إلى الموهبة التي منحه إيّاها الرّبّ يسوع: "نظر سكالابريني إلى ما هو أبعد، نظر إلى الأمام، إلى عالم وكنيسة بلا حواجز، وبلا غُرباء"[62]. أمّا القدّيسة فرانشيسكا كابريني، فقد وُلِدَت في إيطاليا وكانت تحمل الجنسيّة الأمريكيّة، وكانت أوّل مواطنة أمريكيّة تُعلَن قداستها. ولكي تقوم برسالتها في خدمة المهاجرين، عبرت المحيط الأطلسيّ عدّة مرّات، "وتسلّحت بجرأة فريدة، ومن اللاشيء بدأت تؤسّس المدارس، والمستشفيات، ودور الأيتام لجماهير المعدمين الذين وصلوا إلى العالم الجديد بحثًا عن العمل، وهم يجهلون اللغة ويفتقرون للوسائل التي تمكّنهم من الاندماج اللائق في المجتمع الأمريكيّ، وكانوا أحيانًا ضحايا لأشخاص عديمي الضّمير. كان قلبها الوالديّ، الذي لا يعرف الرّاحة، يصل إليهم في كلّ مكان: في الأحياء الفقيرة، والسّجون، والمناجم"[63]. في سنة اليوبيل 1950، أعلنها البابا بيوس الثّاني عشر شفيعة جميع المهاجرين.[64]

75. تقليد الكنيسة في العمل من أجل المهاجرين ومعهم ما زال مستمرًّا، واليوم، تتمّ هذه الخدمة في المبادرات مثل مراكز استقبال اللاجئين، والإرساليّات على الحدود، وجهود مؤسّسة كاريتاس العالميّة ومؤسّسات أخرى. السُّلطة الكنسيّة التّعليميَّة المعاصرة تؤكّد هذا الالتزام بوضوح. ذَكَّر البابا فرنسيس أنّ رسالة الكنيسة تجاه المهاجرين واللاجئين أوسع من ذلك، وأكّد أنَّه: "يمكن تلخيص الإجابة على التحدّي الذي تمثّله الهجرة المعاصرة في أربعة أفعال: استضافة، وحماية، ومساندة، ودمج. لكن هذه الأفعال لا تنطبق فقط على المهاجرين واللاجئين. فهي تعبّر عن رسالة الكنيسة تجاه جميع سكّان الضّواحي حيث وجود الإنسان يكون مهدَّدًا، فيجب أن نستضيفهم ونحميهم ونساندهم وندمجهم"[65]. وقال أيضًا: "كلّ إنسان هو ابن لله! وقد طُبعت فيه صورة المسيح! لذا، علينا أن نرى نحن أوّلًا تلك الصّورة ونساعد الآخرين كي يروا في المهاجر واللاجئ لا مجرّد مشكلة يجب مواجهتها بل أخًا وأختًا علينا قبولهما واحترامهما ومحبّتهما، وفرصةً تقدّمها لنا العناية الإلهيّة للمساهمة في بناء مجتمع فيه مزيد من العدل، ومزيد من الدّيمقراطيّة، عالم فيه مزيد من الأخوّة وفيه جماعة مسيحيّة أكثر انفتاحًا، بحسب الإنجيل"[66]. الكنيسة مثل الأمّ، تسير مع السّائرين. حيث العالم يرى تهديدات، هي ترى في الجميع أبناء، وحيث تُبنى الجدران، هي تبني الجسور. هي تعلم أنّ إعلانها للإنجيل يكون صادقًا فقط عندما ترافقه أعمال مودّة وقبول، وأنّ في كلّ مهاجر مرفوض، المسيح نفسه هو الذي يقرع على أبواب الجماعة.

إلى جانب الأخيرين

76. القداسة المسيحيّة تزهر مرارًا في أكثر الأماكن نسيانًا وأوجاعًا في البشريّة. أفقر الفقراء – الذين لا يفتقرون فقط إلى الخيرات، بل أيضًا إلى سماع صوتهم، والاعتراف بكرامتهم – يحتلّون مكانة خاصّة في قلب الله. إنّهم أحبّاء الإنجيل، وورثة الملكوت (راجع لوقا 6، 20). فيهم يواصل المسيح آلامه وقيامته. فيهم تجد الكنيسة من جديد دعوتها لتبيِّن حقيقتها الأصيلة.

77. القدّيسة تريزا من كالكوتا، التي أُعلنت قداستها سنة 2016، صارت أيقونة محبّة عالميّة عاشتها حتّى أقصى الحدود في سبيل الأشدّ فقرًا، والمنبوذين في المجتمع. أسّست مُرسلات المحبّة، وكرّست حياتها من أجل المحتضرين المهملين في شوارع الهند. كانت تحتضن المرفوضين، وتغسل جراحهم، وترافقهم حتّى لحظة الموت بحنان هو صلاتها معهم. محبّتها لأفقر الفقراء جعلها لا تكتفي بتلبية احتياجاتهم الماديّة فقط، بل أرادت أن تعلن لهم بشرى الإنجيل السّارّة: "نريد أن نعلن للفقراء أنّ الله يحبّهم، ونحن نحبّهم، وأنّهم مهمّون لنا، وأنّ الله الواحد نفسه هو الذي خلقنا جميعًا وخلقهم ليُحِبّوا ويُحَبّوا. فقراؤنا هم أشخاصٌ رائعون، ولطفاء جدًّا، ولا يحتاجون إلى رحمتنا أو شفقتنا، بل إلى محبّتنا التي تفهم من هم. هم بحاجة إلى احترامنا، وإلى أن نعاملهم بكرامة"[67]. كلّ ذلك كان وَليد روحانيّة عميقة جعلها ترى في خدمة أفقر الفقراء ثمرة للصّلاة والمحبّة، ومصدرًا للسّلام الحقيقيّ، كما ذكّر القّديس البابا يوحنّا بولس الثّاني الحجّاج الذين جاؤوا إلى روما لتطويبها: "من أين استمدّت الأم تريزا القوّة لتضع نفسها بصورة كاملة في خدمة الآخرين؟ لقد وجدتها في الصّلاة والتّأمّل الصّامت في يسوع المسيح، وفي وجهه المقدّس وقلبه الأقدس. هي نفسها قالت ذلك: ”ثمرة الصّمت هي الصّلاة، وثمرة الصّلاة هي الإيمان، وثمرة الإيمان هي المحبّة، وثمرة المحبّة هي الخدمة، وثمرة الخدمة هي السّلام“ […]. كانت الصّلاة تملأ قلبها بسلام المسيح، وتسمح لها بأن تشعّ هذا السّلام على الآخرين"[68]. لم تعتبر تريزا نفسها فاعلة خير أو ناشطة، بل عروسًا للمسيح المصلوب، الذي كانت تخدمه بمحبّة كاملة في الإخوة المتألّمين.

78. في البرازيل، القدّيسة دولسي قدّيسة الفقراء (Dulce dei Poveri) – المعروفة ”بالملاك الصّالح لباهيا“ – جسّدت الرّوح الإنجيليّة نفسها بطابع برازيليّ. وفي الإشارة إليها وإلى راهبتَين أُخريَين أُعلنت قداستهما في الاحتفال نفسه، ذكّر البابا فرنسيس حبّهنَّ للأشدّ تهميشًا في المجتمع وقال إنّ القدّيسات الجديدات "يُظهِرْنَ لنا أنّ الحياة الرهبانيّة هي طريق الحبّ في كلّ مجالات الحياة"[69]. واجهت الرّاهبة دولسي الصّعوبات بالإبداع، والعقبات بالحنان، والحاجة بالإيمان الذي لا يتزعزع. بدأت تستقبل المرضى في قنّ الدّجاج، ومن هناك أسّست أحد أكبر الأعمال الاجتماعيّة في البلد. كانت تساعد آلاف الأشخاص يوميًّا، دون أن تفقد لطفها أبدًا. صارت فقيرة مع الفقراء حبًّا في مَن جعل نفسه أوّل الفقراء. كانت تعيش بالقليل، وتصلّي بحرارة، وتخدم بفرح. لم يُبعدها إيمانها عن العالم، بل كان يدفعها بشكلٍ أعمق إلى آلام الأخيرين.

79. يمكن أن نذكر أيضًا القدّيس بندكتس منّي (Benedetto Menni) والرّاهبات الممرّضات لقلب يسوع الأقدس، مع الأشخاص ذوي الاحتياجات الخاصّة، والقدّيس شارل دي فوكو بين الجماعات المسيحيّة في الصّحراء، والقدّيسة كاترينا دريكسيل (Katharine Drexel) إلى جانب المجموعات غير المحظوظة في شمال أمريكا، والرّاهبة إيمانويل مع عمّال النّظافة في حَي عزبة النّخل في القاهرة، وغيرهم كثيرين. اكتشف كلّ واحدٍ منهم، وبطريقته، أنّ الأشدّ فقرًا ليسوا مجرّد موضوعًا لشفقتنا، بل هم معلّمون للإنجيل. فليست المسألة أن ”نحمل“ الله إليهم، بل أن نلتقي به فيهم. كلّ هذه الأمثلة تعلّمنا أنّ خدمة الفقراء ليست عملًا نقوم به من الأعلى نحو الأدنى، بل هو لقاء بين متساوين، حيث نرى المسيح ونسجد له. ذكّرنا القدّيس البابا يوحنّا بولس الثّاني أنّ "هناك حضورًا خاصًّا للمسيح في الشّخص الفقير، الذي يُلزم الكنيسة أن تقوم بخيار تفضيليّ من أجلهم"[70]. لذلك، عندما تنحني الكنيسة لتهتمّ بالفقراء، فإنّها تكون في أسمى مواقفها.

الحركات الشّعبيّة

80. يجب أن نعترف أيضًا أنّ مساعدة الفقراء والنّضال من أجل حقوقهم لم يكن عمل أفراد فقط، أو بعض العائلات، أو المؤسّسات، أو الجماعات الدّينيّة، على امتداد قرون التّاريخ المسيحي. فقد وُجدت، وما زالت موجودة، حركات شعبيّة مختلفة، تتكوّن من علمانيّين ويقودها قادة من الشّعب، وقد تعرّض هؤلاء مرارًا للاتّهامات بل للاضطهاد أيضًا. أشير هنا إلى "جماعات من الأشخاص ليسوا فقط أفرادًا، بل هم نسيج حيّ لجماعة مكوّنة من الجميع وتعمل من أجل الجميع، ولا يمكنها أن تسمح بأن يبقى الفقراء والضّعفاء في الخلف. [...] فالقادة الحقيقيّون للشّعب، إذًا، هم الذين يمتلكون القدرة على إشراك الجميع. [...] وهم لا يشعرون بالحرج ولا ترعبهم رؤية الشّباب المجروحين والمصلوبين"[71].

81. هؤلاء القادة، قادة الشّعب الحقيقيّون، يعرفون أنّ التّضامن "هو أيضًا النّضال ضدّ الأسباب الهيكليّة للفقر، وعدم المساواة، وعدم وجود العمل والأرض والسّكن، وإنكار الحقوق الاجتماعيّة وحقوق العمل. إنّه مواجهة الآثار المدمّرة لإمبراطوريّة المال [...]. التّضامن، إذا فُهم بمعناه الأعمق، هو أسلوب لصنع التّاريخ، وهذا بالذّات ما تقوم به الحركات الشّعبيّة"[72]. ولهذا السّبب، عندما تفكّر المؤسّسات المختلفة في احتياجات الفقراء، يصير من الضّروري "أن تعمل مع الحركات الشّعبيّة وأن تنعش الهيكليّات الحكوميّة المحليّة والوطنيّة والدّوليّة بتلك الطّاقة الأخلاقيّة المتدفّقة التي تنبع من إشراك المهمّشين في بناء المصير المشترك"[73]. فالحركات الشّعبيّة، في الواقع، تدعو إلى تجاوز "تلك الفكرة التي ترى السّياسات الاجتماعيّة كسياسة تعمل من أجل الفقراء، ولكنّها لا تعمل مع الفقراء، ولا هي من الفقراء، ولا هي جزء من مشروع يجمع الشّعوب"[74]. وإن لم يُصغِ السّياسيّون والمنظِّرون إليهم، "تُشَوَّهُ الدّيمقراطيّة، وتصير مجرّد اسم وصورة بلا مضمون، وتفقد قدرتها على تمثيل الفقراء، وتتفكّك لأنّها تُقصي الشّعب عن كفاحه اليومي من أجل الكرامة، وعن مشاركته في بناء مصيره"[75]. والشّيء نفسه يقال في مؤسّسات الكنيسة.

الفصل الرّابع

القصّة تستمرّ

عصر تعليم الكنيسة الاجتماعيّ

82. تسارع التحوّلات التّكنولوجيّة والاجتماعيّة في القرنَين الأخيرَين، المليء بالتّناقضات المأساويّة، لم يكن مجرّد واقع مفروض على الفقراء، بل كان أيضًا واقعًا واجهه وتأمّل فيه الفقراء. فقد أدّت حركات العمّال والنّساء والشّباب، وكذلك النّضال ضدّ التّمييز العنصريّ، إلى ظهور وعي جديد لكرامة المهمّشين. ومساهمة تعليم الكنيسة الاجتماعيّ تحمل في طيّاتها هذه الجذور الشّعبيّة التي لا يجوز نسيانها: إذ لا يمكن تصوّر قراءة الوَحي المسيحيّ من جديد في ظلّ الظّروف الاجتماعيّة والعمليّة والاقتصاديّة والثّقافيّة الحديثة من دون العلمانيّين المسيحيّين الذين واجهوا تحدّيات عصرهم. ووقف إلى جانبهم، الرّهبان والرّاهبات شهودًا على كنيسة أخذت تخرج من الطّرق التي سارت فيها من قبل. التّحوّل العصريّ الذي نعيشه اليوم يجعل من الضّروريّ أكثر من أيّ وقت مضى استمرار التّفاعل بين المعمَّدين والسُّلطة التّعليميّة، وبين المواطنين والخبراء، وبين الشّعب والمؤسّسات. ومن المهمّ بشكل خاصّ أن نؤكّد من جديد على أنّ الواقع يُرى بصورة أوضح من الأطراف، والفقراء هم أصحاب ذكاء خاصّ لا غِنَى عنه للكنيسة وللإنسانيّة.

83. السُّلطة التّعليميّة في المئة وخمسين سنة الأخيرة قدّمت كنزًا حقيقيًّا من التّعاليم الخاصّة بالفقراء. وقد جعل أساقفة روما من أنفسهم صوتًا للوعي الجديد الذي خضع لتمحيص التّمييز الكنسيّ. مثلًا، في الرّسالة البابويّة العامّة ”في الشّؤون الجديدة - Rerum novarum“ (1891)، تناول البابا لاون الثّالث عشر قضيّة العمل، وكشف عن وضعٍ لا يمكن قبوله في حياة عمّال المصانع الكثيرين، واقترح إقامة نظام اجتماعيّ عادل. وقد عبّر بابوات آخرون عن آرائهم بمثل ذلك. في الرّسالة البابويّة العامّة ”أمّ ومعلّمة - Mater et Magistra“ (1961)، روّج القدّيس يوحنّا الثّالث والعشرون لتحقيق عدلٍ ذي أبعاد عالميّة: لا يمكن للبلدان الغنيّة أن تبقى غير مبالية أمام البلدان التي تعاني من الجوع والبؤس، بل هي مدعوّة إلى مساعدتها بسخاء بكلّ ما لديها من خيرات.

84. المجمع الفاتيكانيّ الثّاني يمثّل مرحلة أساسيّة في التّمييز الكنسي في ما يختصّ بالفقراء، في ضوء الوحي. فعلى الرّغم من أنّ موضوع الفقراء لم يكن واضحًا في الوثائق التّحضيريّة للمجمع، فإنّ القدّيس البابا يوحنّا الثّالث والعشرين، في الرّسالة الإذاعيّة في 11 أيلول/سبتمبر 1962، أي قبل شهر من افتتاح المجمع الفاتيكانيّ، سلّط الضّوء على هذا الموضوع بكلمات لا تُنسى: "الكنيسة تقدِّم نفسها كما هي وكما تريد أن تكون، كنيسة الجميع وخاصّة كنيسة الفقراء"[76]. وقد كان للعمل الكبير الذي قام به الأساقفة، واللاهوتيّون، والخبراء المهتمّون بتجديد الكنيسة - مع دعم القدّيس البابا يوحنّا الثّالث والعشرين - دورٌ في إعادة توجيه المجمع. وتكمن أهمّيّة هذا التّوجّه أنّه كان يرتكز على شخصيّة المسيح، فكان اهتمامهم مؤسّسًا على العقيدة، وليس فقط بعدًا اجتماعيًّا. وقد ساعد العديد من آباء المجمع على ترسيخ هذا الوعي، الذي عبّر عنه بوضوح الكاردينال ليركارو (Lercaro) في مداخلته التّاريخيّة في 6 كانون الأوّل/ديسمبر 1962، إذ قال: "إنّ سرّ المسيح في الكنيسة كان دائمًا وما زال، ولكنّه اليوم هو كذلك بصورة خاصّة، سرّ المسيح في الفقراء"[77]، و"هو ليس أيّ موضوع، بل هو، بمعنى ما، الموضوع الوحيد للمجمع الفاتيكانيّ الثّاني بأكمله"[78]. وأضاف رئيس أساقفة بولونيا، وهو يُعِدُّ نص هذه المداخلة: "هذه هي ساعة الفقراء، ساعة ملايين الفقراء الذين هم في جميع أنحاء الأرض، هذه هي ساعة سرّ الكنيسة أمّ الفقراء، هذه هي ساعة سرّ المسيح ولا سيّما في الفقير"[79]. وهكذا، ظهرت الحاجة إلى صورة جديدة للكنيسة، فيها بساطة وقناعة، تشمل كلّ شعب الله وشخصيّته التّاريخيّة. كنيسة أكثر شبهًا بربّها منها بسلطات هذا العالم، تسعى إلى تحفيز كلّ البشريّة لتلتزم التزامًا حقيقيًّا من أجل حلّ مشكلة الفقر الكبيرة في العالم.

85. في مناسبة افتتاح الدّورة الثّانية للمجمع، تناول القدّيس البابا بولس السّادس الموضوع من جديد الذي تناوله سلفه، وهو أنّ الكنيسة تنظر باهتمام خاصّ "إلى الفقراء والمحتاجين والمنكوبين والجائعين والمتألّمين والمسجونين، أي أنّها تنظر إلى البشريّة جمعاء التي تتألّم وتبكي: هذه البشريّة تنتمي إلى الكنيسة، بموجب حقٍّ إنجيليّ"[80]. وفي المقابلة العامّة بتاريخ 11 تشرين الثّاني/نوفمبر 1964، أوضح أنّ "الفقير هو ممثّل المسيح"، ثمّ ربط صورة المسيح في الأخيرين بالصّورة الظّاهرة للبابا، فقال: "تمثيل المسيح في الفقير هو شامل، إذ إنّ كلّ فقير يعكس صورة المسيح. أمّا تمثيل البابا فهو شخصيّ. […] ويمكن للفقير وبطرس أن يلتقيا، بل أن يكونا الشّخص نفسه، بتمثيل مزدوج، الفقر والسُّلطة"[81]. وهكذا عَبَّر عن العلاقة الجوهريّة بين الكنيسة والفقراء برمزيّة جديدة وواضحة لم يسبق لها مثيل.

86. في الدّستور الرّعائيّ ”فرح ورجاء“، وعلى نهج إرث آباء الكنيسة، أكّد المجمع بقوّة على الغاية الشّاملة لخيرات الأرض، والوظيفة الاجتماعيّة للملكيّة المستمدّة منها: "لقد أعدّ الله الأرض وكلّ ما فيها لخدمة جميع الأفراد والشّعوب، حتّى تفيض خيرات الخليقة بالإنصاف على الجميع [...]. لذلك لا يظننّ الإنسان باستعماله الخيرات، إنّ ما يملكه بطريقة مشروعة لا يخصّ أحدًا غيره، بل فليعتبره مشتركًا: وهذا يعني ألّا يعود بالنّفع عليه فقط بل على الآخرين أيضًا. ومع ذلك فللبشر كلّهم حقّ في الحصول على قسط كافٍ من الخيرات لهم ولعيالهم. [...] أمّا من هو في الضّرورة القصوى، فله الحقّ في تحصيل الكفاف من ثروات غيره. [...] وإنّه لمن طبيعة الملكيّة الخاصّة عينها، أن يكون لها أيضًا طابع اجتماعيّ، مبني على شريعة أساسها: الخيرات هي للجميع. حيث لا يُحترم هذا الطّابع الاجتماعيّ، قد تصير الملكيّة فرصة متواترة لبلبلات خطيرة وللمطامع"[82]. وقد أكدّ القدّيس البابا بولس السّادس هذه الحقيقة في الرّسالة البابويّة العامّة ”تقدُّم الشّعوب - Populorum Progressio“، حيث قال إنّه لا يحقّ لأحد بأن "يحتفظ لاستعماله الخاصّ ما يزيد عن حاجته الخاصّة، عندما يفتقر الآخرون إلى ما هو ضروريّ"[83]. وفي كلمته أمام الأمم المتّحدة، قدّم البابا مونتيني (Montini) نفسه أنّه محامي الشّعوب الفقيرة،[84] ودعا المجتمع الدّولي إلى بناء عالم يقوم على التّضامن.

87. مع القدّيس البابا يوحنّا بولس الثّاني، ترسّخ، على الأقل على المستوى العقائديّ، أفضليّة الفقراء والعلاقة التي تربط الكنيسة بهم، إذ إنّ تعليمه قد اعترف بأنّ خِيَار الفقراء هو "شكل خاصّ من أشكال الأولويّة في ممارسة المحبّة المسيحيّة، التي يشهد لها تقليد الكنيسة بأكمله"[85]. وكتب أيضًا في الرّسالة البابويّة العامّة ”الاهتمام بالشّأن الاجتماعيّ - Sollicitudo rei socialis“ أنّ اليوم، ونظرًا للبعد العالميّ الذي اتّخذته القضيّة الاجتماعيّة، "لا يمكن لهذه المحبّة التّفضيليّة، ومع القرارات التي تلهمنا بها، لا يمكن ألّا تحتضن الجموع الهائلة من الجياع والمتسوّلين والمشرّدين، والذين يحتاجون إلى المساعدة الطّبّيّة، وقبل كلّ شيء، الذين فقدوا كلّ رجاء في مستقبل أفضل: لا يمكننا ألّا نعترف بوجود هذا الواقع. أن نتجاهل ذلك يعني أنّنا نُشبه ”الرّجل الغنيّ“ الذي تظاهر بأنّه لا يعرف لَعازر الفقير الذي كان مُلقًى خارج بابه (راجع لوقا 16، 19- 31)"[86]. تظهر أهمّيّة تعليمه في العمل عندما نريد أن نفكّر في دور الفقراء الفعّال في تجديد الكنيسة والمجتمع، متجاوزين بذلك النّزعة الأبويّة التي تقتصر على مساعدتهم فقط في تلبية احتياجاتهم الأوّليّة. ففي الرّسالة البابويّة العامّة ”العمل الإنسانيّ - Laborem exercens“ أكّد أنّ "العمل الإنسانيّ هو المفتاح، وربّما المفتاح الأساسيّ للمسألة الاجتماعيّة كلّها"[87].

88. أمام الأزمات المتعدّدة التي ميّزت الألفيّة الثّالثة، مال البابا بندكتس السّادس عشر إلى قراءة سياسيّة للوضع. قال في الرّسالة البابويّة العامّة، ”المحبّة في الحقيقة - Caritas in veritate“: "تكون محبّة القريب فاعلة بقدر ما نساهم في الخير العام الذي يلبّي احتياجاته الحقيقيّة"[88]. بالإضافة إلى ذلك، لاحظ أنّ "الجوع غير مرتبط فقط بقلّة المواد، بل بقلّة الموارد الاجتماعيّة، وأهمّها الموارد المرتبطة بالمؤسّسات. أي إنّه ينقص نظام مؤسّسات اقتصاديّة تقدر أن تضمن الحصول على الغذاء والماء بشكل منتظم وكافٍ من النّاحية الغذائيّة، وتقدر أن تواجه الاحتياجات المرتبطة بالضّروريّات الأساسيّة وحالات الطّوارئ في الأزمات الغذائيّة الحقيقيّة، النّاجمة عن أسباب طبيعيّة أو بسبب عدم المسؤوليّة السّياسيّة الوطنيّة والدّوليّة"[89].

89. اعترف البابا فرنسيس بأنّه أخذت تزداد، في العقود الأخيرة، بالإضافة إلى سُلطة أساقفة روما، مواقف مجالس الأساقفة الوطنيّة والإقليميّة من هذه القضيّة. وقد شهد هو نفسه، مثلًا، على التزام هيئة أساقفة أمريكا اللاتينيّة الخاصّ في إعادة التّفكير في علاقة الكنيسة بالفقراء. في مرحلة ما بعد المجمع، وفي جميع بلدان أمريكا اللاتينيّة تقريبًا، كان هناك شعور قويّ بتعاطف الكنيسة مع الفقراء ومشاركتها الفعّالة في خلاصهم. قلب الكنيسة نفسها هو الذي تحرّك أمام الفقراء الكثيرين الذين كانوا يعانون من البطالة، ونقص العمل، والأجور غير العادلة، وكانوا مضطرّين لأن يعيشوا في ظروف بائسة. كان استشهاد القدّيس أوسكار روميرو، رئيس أساقفة سان سلفادور، شهادة وإرشادًا حيًّا معًا للكنيسة. أحسّ بمأساة الغالبيّة العظمى من مؤمنيه، كما لو أنّها مأساته، وجعلهم محور اهتمامه الرّعوي. مجالس أساقفة أمريكا اللاتينيّة في ميديلين (Medellin) وبويبلا (Puebla) وسانتو دومينغو (Santo Domingo) وأباريسيدا (Aparecida) تشكّل محطّات هامّة للكنيسة بأكملها أيضًا. وأنا نفسي، وقد كنت مدّة سنوات طويلة مرسَلًا في البيرو، أدين بالكثير لهذه المسيرة من التّمييز الكنسيّ، الذي عرف البابا فرنسيس أن يربطها بحكمة بمسيرة الكنائس الخاصّة الأخرى، لا سيّما في جنوب العالم. أودّ الآن أن أتوقّف عند موضوعَين من تعليم هذه السّلطة الأسقفيّة.

هيكليّات مبنيّة على الخطيئة تخلق الفقر وعدم المساواة الشّديدة

90. أعلن الأساقفة في ميديلين (Medellin) اختيارهم التّفضيليّ للفقراء: "أحبّ المسيح مخلّصنا الفقراء، وليس هذا فقط، بل ”بما أنّه كان غنيًّا، صار فقيرًا“ وعاش في الفقر، وركّز رسالته على إعلان تحريرهم وأسّس كنيسته علامةً لهذا الفقر بين النّاس. [...] فقر الإخوة الكثيرين يدعو إلى العدل والتّضامن والشّهادة والالتزام والجُهد والتَّغلُّب، لكي تتحقّق بشكل كامل الرّسالة الخلاصيّة التي أوكلها المسيح إلينا"[90]. أكّد الأساقفة بقوّة أنّ الكنيسة، لكي تكون أمينة كلّ الأمانة لدعوتها، لم يكن عليها فقط أن تشارك الفقراء محنتهم، بل أن تقف إلى جانبهم وتعمل بنشاط من أجل دعمهم الكامل. أكّد مجلس أساقفة بويبلا (Puebla)، أمام البؤس المتفاقم في أمريكا اللاتينيّة، على قرار مجلس أساقفة ميديلين (Medellin) مع خيار صريح ونبويّ لصالح الفقراء، ووصف هيكليّات الظّلم بأنّها ”خطيئة اجتماعيّة“.

91. المحبّة قوّة تغيّر الواقع، وقوّة تغيير تاريخيّة أصيلة. هذا هو الينبوع الذي يجب أن ينهل منه كلّ التزام "لحلّ أسباب الفقر الهيكليّة"[91]، وإطلاقه بشكل مستعجل. لذلك أتمنّى أن "يتزايد عدد السّياسيّين القادرين على أن يدخلوا في حوار حقيقيّ، يعالج بفعّاليّة الجذور العميقة لمشاكل العالم، وليس فقط بعض الظواهر"[92]، لأنّ "الأمر يتعلّق بالاستماع إلى صرخة شعوب بأكملها، وهي أفقر شعوب الأرض"[93].

92. لذلك، من الضّروري أن نواصل إدانة ”ديكتاتوريّة الاقتصاد القاتل“ وأن ندرك أنّه "بينما تتزايد مكاسب القلّة أضعافًا مضاعفة، فإنّ مكاسب الأغلبيّة تتباعد أكثر فأكثر عن رفاهية هذه الأقلّيّة السّعيدة. ينبع هذا الخلل من الأيديولوجيّات التي تدافع عن الاستقلاليّة المطلقة للأسواق والمضاربات الماليّة. وبالتّالي، فهي تنكر حقّ مراقبة الدّول للسّوق، وهي المسؤولة عن حماية الخير العام. ويتمّ تأسيس طغيان جديد غير مرئي، وأحيانًا افتراضيّ، يفرض قوانينه وقواعده بشكل أحاديّ وعنيد"[94]. رغم أنّه لا تغيب النّظريّات المختلفة التي تحاول أن تبرّر الوضع الحالي للأمور، أو أن تفسّر أنّ العقلانيّة الاقتصاديّة تتطلّب منّا أن ننتظر أن تحلّ قِوى السّوق الخفيّة كلّ شيء، فإنّ كرامة كلّ إنسان يجب أن يتمّ احترامها الآن، وليس غدًا، وأنّ وضع الشّقاء لأشخاص كثيرين، يُحرمون من هذه الكرامة، يجب أن يكون تذكيرًا وتأنيبًا دائمًا لضميرنا.

93. في الرّسالة البابويّة العامّة ”لقد أحَبَّنا - Dilexit nos“، ذكّر البابا فرنسيس أنّ خطيئة المجتمع هي ”خطيئة بنية اجتماعيّة“، "وهذا غالبًا جزءٌ من عقليّة مهيمنة، تعتبر أمرًا طبيعيًّا وعقلانيًّا ما هو في الحقيقة فقط أنانيّة ولامبالاة. هذه الظّاهرة يمكننا أن نسمّيها بالاغتراب الاجتماعيّ"[95]. صار تجاهل الفقراء والعيش كما لو أنّهم غير موجودين أمرًا طبيعيًّا. وصار يُقدَّم على أنّه الخيار المعقول لتنظيم الاقتصاد، الذي يتطلّب تضحيات من النّاس، ليخدم بعض الأغراض للأقوياء. أمّا بالنّسبة للفقراء فتبقى لهم وعود هي ”قَطَرات“ ستتساقط، إلى أن تأتي أزمة عالميّة جديدة تعيدهم إلى الوضع السّابق. إنّه اغتراب حقيقيّ يؤدّي فقط إلى إيجاد الأعذار النّظريّة وليس إلى محاولة حلّ المشاكل الحقيقيّة للذين يتألّمون اليوم. قال ذلك من قَبل القدّيس البابا يوحنّا بولس الثّاني: "المجتمع الذي يعيق في أشكال تنظيمه الاجتماعيّ، وإنتاجه واستهلاكه، تحقيق هذه العطيّة ويجعل هذا التّضامن بين البشر أكثر صعوبة، هو مجتمع مغترب"[96].

94. يجب أن يزداد التزامنا دائمًا بحلّ أسباب الفقر الهيكليّة. إنّها ضرورة ملحّة "لا يمكنها الانتظار، ليس فقط لأسباب برغماتيّة بانتظار نتائج أو تنظيم المجتمع، بل لشفائه من مرضٍ يجعله هزيلًا ومَعيبًا ولسوف يقوده إلى أزماتٍ جديدة. برامجُ المساعدة التي تواجه بعض الطّوارىء يجب أن تُعتبَر فقط حلولًا آنيّةً عابرة"[97]. غياب المساواة "هو أصل مصائب المجتمع"[98]. في الواقع، "نلاحظ مرارًا أنّ حقوق الإنسان ليست في الواقع متساوية للجميع"[99].

95. يحدث أنّه "في النّمط الحاليّ لما يُعتبَر ”نجاحًا“ و”حقًّا خاصًّا“، يبدو أنّ لا معنى للاجتهاد لشقّ الطّريق في الحياة إذ إنّ الذين هم في المؤخّرة يبقون حيث هم، وكذلك الضّعفاء والمحرومون"[100]. والسّؤال الذي يتكرّر هو دائمًا نفسه: أليس المحرومون بشرًا؟ أليس للضّعفاء كرامتنا نفسها؟ هل الذين ولدوا بإمكانّيات أقلّ، قيمتهم الإنسانيّة أقلّ، وهل يجب عليهم فقط أن يكتفوا بالبقاء على قيد الحياة؟ قيمة مجتمعاتنا تعتمد على الجواب الذي نعطيه على هذه الأسئلة وعليه يعتمد مستقبلنا أيضًا. فإمّا نستعيد كرامتنا الأخلاقيّة والرّوحيّة أو نسقط في حفرة من القذارة. وإن لم نتوقّف ونأخذ الأمور على محمل الجدّ، فسوف نستمرّ، بطرق صريحة أو مقنعة، "بإضفاءِ الشّرعيّة على نموذج التّوزيع الحالي، حيث تظنّ أقليّة أنّه يحقّ لها الاستهلاك بنسبة يستحيل تعميمها، لأنّ الكوكب لا يستطيع حتّى احتواء نفايات استهلاك كهذا"[101].

96. من بين القضايا البُنيَوِيّة التي لا يمكن أن نتصوّر وجود حلّ لها من فوق، والتي تستدعي في أقرب وقت ممكن أن تُؤخذ على محمل الجدّ، قضيّة الأماكن والمساحات والبيوت والمدن التي يعيش ويسير فيها الفقراء. نحن نعلَم ذلك: "كم هي جميلة المدن التي تتجاوز الاحتقار الفاسد وتدمج المختلفين في المجتمع، وتجعل من ذلك الاندماج عاملًا جديدًا للتطوّر! كم هي جميلة المدن التي توفِّرُ المساحات التي تجمع وتشجّع نشأة العلاقات وتعزّز الاعترافَ بالآخر، حتّى في هندستها!"[102]. وفي الوقت نفسه، "لا يمكننا أن نحوِّل النّظر عن تأثيرات التّدهور البيئيّ، ونموذج التّطور الحالي وثقافة الهدْرِ في حياة الأشخاص"[103]. في الواقع "تراجع البيئة والمجتمع يصيب بشكل خاصّ من هم أكثر ضُعفًا في المسكونة"[104].

97. لذلك، من واجب جميع أعضاء شعب الله أن يرفعوا صوتًا مسموعًا، ولو بطرق مختلفة، صوتًا يوقظ، ويندّد، ويعرِّضوا به أنفسهم للملامة، ولو كان الثّمن أن يقال لهم إنّهم ”أغبياء“. يجب علينا أن نتعرّف على هيكليّات الظّلم وندمّرها بقوّة الخير، بتغيير العقليّات، وأيضًا، بمساعدة العِلم والتّكنولوجيا، وبتطوير سياسات فعّالة في تحويل المجتمع. يجب علينا أن نتذكّر دائمًا أنّ ما يطلبه الإنجيل ليس فقط إنشاء علاقة شخصيّة وحميمة مع الرّبّ يسوع. إنّما يطلب أكثر من ذلك: "هو ملكوتُ الله (راجع لوقا 4، 43)؛ وهو أن نحبّ الله مالكًا في العالم. وبقدر ما يستطيع الله أن يملك في ما بيننا، تصير الحياة الاجتماعيّة فسحةَ أخوّة وعدالة وسلام وكرامة للجميع. إذًا، الكرازةُ والحياة المسيحيّة، كلاهما تنزعان إلى إحداث نتائجَ اجتماعيّة. فلنطلب ملكوته"[105].

98. أخيرًا، هناك وثيقة لم تلقَ في البداية استحسانًا من الجميع، وهي تقدِّم لنا تأمّلًا يستجيب دائمًا لأوضاعنا: "المدافعون عن ”الأرثوذكسيّة“ يُتَّهَمون أحيانًا بالسّلبيّة أو التّساهل أو التّواطؤ المذنب تجاه أوضاع الظّلم التي لا تطاق، والأنظمة السّياسيّة التي تحافظ على هذه الأوضاع. إنّ التّوبة الرّوحيّة، والمحبّة الشّديدة لله والقريب، والغَيرة من أجل العدل والسّلام، والحسّ الإنجيليّ تجاه الفقراء والفقر، هي أمور مطلوبة من الجميع، وخاصّة من الرّعاة والمسؤولين. الاهتمام بنقاوة الإيمان يجب ألّا ينفصل عن الاهتمام بإعطاء جواب، بحياة لاهوتيّة متكاملة، لشهادة فعّالة لخدمة القريب، وبطريقة خاصّة جدًّا للفقير والمظلوم"[106].

الفقراء هُم أشخاص

99. التّمييز الرّوحي الذي عبّرت عنه وثيقة مجلس الأساقفة في أباريسيدا (Aparecida) إنّما هو عطيّة أساسيّة لمسيرة الكنيسة الجامعة، حيث أوضح الأساقفة في أمريكا اللاتينيّة أنّ خيار الكنيسة التّفضيليّ للفقراء "متأصِّل في الإيمان بشخص المسيح: الله صار فقيرًا من أجلنا، لكي يُغنينا بفقره"[107]. الوثيقة تضع الرّسالة في سياقها الحالي للعالم المعَولَم باختلالاته الجديدة والمأساويّة،[108] وكتب الأساقفة في الرّسالة الختاميّة: "إنّ الفوارق الشّديدة بين الأغنياء والفقراء تدعونا إلى أن نعمل بالتزام أكبر، لكي نكون تلاميذ قادرين على أن نشارك الآخرين في مائدة الحياة، ومائدة أبناء وبنات الآب جميعًا، مائدةً مفتوحة للجميع، ترحِّب بالجميع، ولا تستثني أحدًا. لذلك نؤكّد مجدّدًا على خيارنا التّفضيليّ والإنجيليّ للفقراء"[109].

100. في الوقت نفسه، أصرّت الوثيقة، التي تعمّقت في موضوعٍ كان قد طُرح مسبقًا في مؤتمرات الأساقفة في أمريكا اللاتينيّة السّابقة، على ضرورة اعتبار الجماعات المهمّشة قادرة على خلق ثقافتها الخاصّة، وليست ”موضوع“ حسنة أو صدقة. وهذا يعني أنّ هذه الجماعات لها الحقّ في أن تعيش الإنجيل وتحتفل بالإيمان وتنقله إلى الأجيال التّالية بحسب قِيَمٍ سائدة في ثقافتها الخاصّة. فخبرة الفقر تمنح تلك الشّعوب القدرة على إدراك جوانب من الواقع لا يستطيع الآخرون رؤيتها، ولهذا يجب على المجتمع أن يصغي إليهم. الأمر نفسه ينطبق على الكنيسة، التي يجب عليها أن تقيّم بشكل إيجابيّ طريقتهم ”الشّعبيّة“ في عيش الإيمان. إنّ النّصّ الجميل في الوثيقة الختاميّة للأباريسيدا، يساعدنا لنتأمّل في هذا الموضوع لكي نجد الموقف الصّحيح: "القُرب الذي يجعلنا أصدقاء، هو فقط الذي يسمح لنا بأن نقدّر بعمق قِيَم فُقراء اليوم، ورغباتهم المشروعة وطريقة عيشهم للإيمان. [...] ويومًا بعد يوم، يصير الفقراء أشخاصًا يعلنون البشارة ويعزّزون الإنسانيّة المتكاملة: فيربّون أولادهم في الإيمان، ويعيشون تضامنًا دائمًا بين الأقارب والجيران، ويبحثون باستمرار عن الله ويُحيُون حجّ الكنيسة. في ضوء الإنجيل، نعترف بكرامتهم الكبيرة وقيمتهم المقدّسة في نظر المسيح، الفقير مثلهم والمُستبعد بينهم. من خبرة الأمانة هذه، سنشاركهم في الدّفاع عن حقوقهم"[110].

101. كلّ ذلك يعني وجود جانب في الخيار من أجل الفقراء الذي يجب علينا أن نتذكّره باستمرار: في الواقع، هذا الخيار يتطلّب منّا "اهتمامًا بالآخر [...]. هذه العنايةُ وهذه المحبّة هي بداية اهتمام حقيقيّ بشخصه، وانطلاقًا من هذا الاهتمام أريد السّعي فعلًا لتحقيق خيره. وهذا يتطلّب أن أقدِّر الفقيرَ في طيبته الخاصّة، مع أسلوب كيانِه وثقافتِه وطريقتِه في عيشِ الإيمان. الحبُّ الحقيقيُّ هو دائمًا تصوّفيٌّ، تأمليٌّ يسمح لنا بأن نخدم الآخَرَ لا عن اضطرارٍ ولا عن غرور، لكن لأنّه جميل، في ما هو أبعدُ من مظاهره. [...] انطلاقًا فقط من هذا القرب الحقيقيّ والودّي نستطيع أن نرافقهم، كما يليق، على طريق تحريرهم"[111]. لهذا السّبب، أوجّه شكرًا خاصًّا إلى كلّ الذين اختاروا أن يعيشوا بين الفقراء: أي، إلى الذين لا يكتفون بزيارتهم بين الحين والآخر، بل يعيشون معهم ومثلهم. هذا الخيار يجب أن يجد له مكانًا بين أسمى أشكال الحياة الإنجيليّة.

102. من هذا المنظور، تبدو الحاجة واضحة إلى أن نترك الفقراء "يبشّروننا جميعًا"[112] ، وإلى أن ندرك كلّنا "الحكمة الخفيّة التي يريد اللهُ أن يبلّغنا إيّاها من خلالهم"[113]. فالفقراء الذين ترعرعوا في ظروف صعبة جدًّا، وتعلَّموا أن يبقوا على قيد الحياة في أصعب الظّروف، ووثقوا بالله وهُم على يقين بأنّ لا أحد آخر ينظر إليهم نظرة جدّيّة، وساعدوا بعضهم البعض في أحلك اللحظات، تعلَّموا أمورًا كثيرة يحتفظون بها في سرّ قلوبهم. الذين لم يعرفوا منّا خبرات مماثلة، أي عيش الحياة على حافّتها، يمكن أن يتعلَّموا الكثير من مصدر الحكمة التي هي خبرة الفقراء. إذا قارنَّا بين شكاوينا وبين معاناتهم وحرمانهم، يمكن أن نجد منهم تأنيبًا يدعونا إلى أن نجعل حياتنا أكثر بساطة.

الفصل الخامس

تحَدٍ دائم

103. أردت أن أذكر تاريخ ألفَيْ سنة لاهتمام الكنيسة بالفقراء ومع الفقراء لأُبَيِّنَ أنّه جزء أساسيّ من مسيرة في الكنيسة لم تتوقّف. الاهتمام بالفقراء هو جزءٌ من تراث الكنيسة الكبير، مِثلَ منارة تبعث نورًا، منذ أن ظهر الإنجيل وما بعد ذلك، فأنارت قلوب وخطى المسيحيّين في كلّ زمان. لذلك، يجب أن نشعر بأهمّيّة دعوة الجميع للدخول في نهر النّور والحياة هذا الذي يرى المسيح في وجه المحتاجين والمتألّمين. إنّ محبّة الفقراء هي عنصر أساسيّ من تاريخ الله معنا، وهي نداء مستمرّ من قلب الكنيسة إلى قلوب المؤمنين، جماعات وأفرادًا. ولأنّ الكنيسة هي جسد المسيح، فإنّها تشعر بحياة الفقراء، كأنّهم جسدها، وهم الجزء الأفضل فيه، في شعبٍ يسير ويتقدَّم. ولهذا، فإنّ محبّة الفقراء، كيفما ظهر وجه الفقر فيهم، هي الضّمانة الإنجيليّة لأمانة الكنيسة لقلب الله. في الواقع، كلّ تجديد في الكنيسة كان دائمًا من أولويّاته هذا الاهتمام التّفضيليّ بالفقراء، وهو يختلف، بدوافعه وأسلوبه، عن عمل أيّ منظّمة إنسانيّة أخرى.

104. لا يستطيع المسيحيّ أن ينظر إلى الفقراء على أنّهم مجرّد مشكلة اجتماعيّة: إنّهم ”مسألة عائليّة“. إنّهم ”مِنَّا“. ولا يمكن أن تقتصر العلاقة معهم على نشاط أو وظيفة في الكنيسة. يعلِّم مجلس الأساقفة في أباريسيدا (Aparecida) فيقول: "يُطلب منّا أن نخصِّصَ وقتًا للفقراء، وأن نلتفت إليهم بمودَّة، وأن نصغي إليهم باهتمام، وأن نرافقهم في أوقاتهم الصّعبة، ونختار أن نشاركهم في حياتهم ساعات أو أسابيع أو سنوات من حياتنا، ونسعى، انطلاقًا من واقعهم، لتغيير وضعهم. ولا يمكننا أن ننسى أنّ يسوع نفسه اقترح ذلك بطريقة عمله وبكلامه"[114].

السّامري الرّحيم مرّة ثانية

105. إنّ الثّقافة السّائدة في بداية هذه الألفيّة تدفعنا إلى أن نترك الفقراء لمصيرهم، وإلى عدم اعتبارهم جديرين بالاهتمام، أو بأيّ تقدير. في الرّسالة العامّة ”كلّنا إخوة - Fratelli tutti“، دعانا البابا فرنسيس إلى التّفكير في مَثَلِ السّامري الرّحيم (راجع لوقا 10، 25-37)، للتعمّق في هذا الموضوع. نرى في المثل رجلًا جريحًا متروكًا في الطّريق، ومواقف مختلفة من الذين مرُّوا به. السّامري الرّحيم وحده اهتمّ به. وهنا يعود السّؤال الذي يخاطب كلّ واحد منّا: "مع من ترى نفسك؟ السّؤال صعب، مباشر وحاسم. أنت تشبه مَن مِن هؤلاء المارّة؟ يجب أن نعترف بأنّ الإغراء شديد في محيطنا الذي يدعونا إلى عدم الاهتمام بالآخرين، وخاصّة الضّعفاء. يجب أن نعترِف بأنّنا نمَوْنا وتطوّرنا في أمور كثيرة، لكنَّا بقينا أُمِّيّين، في مجتمعاتنا المتقدمّة، في مرافقة الضّعفاء والفقراء ورعايتهم ودعمهم. لقد اعتدنا أن ننظر إلى الجانب الآخر، وأن نمُرّ ونتجاهل ما يجري، ما زالت هذه الأمور لا تخُصُّنا بصورة مباشرة"[115].

106. ومن المفيد جدًّا أن نكتشف أنّ مشهد السّامري الرّحيم يتكرّر اليوم أيضًا. لنتذكَّرْ موقفًا من أيّامنا: "عندما ألتقي بشخص نائم في الشّارع في تقلّبات الطّقس، في ليلة باردة، قد أشعر أنّ هذا ”الإنسان“ هو شيء غير متوقَّع يزعجني، أو هو جانح بطّال، أو عائق في طريقي، أو تأنيب مزعج لضميري، أو مشكلة يجب على السّياسيّين أن يحلُّوها، وربّما أذهب إلى القول إنّه قمامة يلطِّخ الفضاء العام. أو يمكنني أن أتفاعل انطلاقًا من الإيمان والمحبّة فأرى فيه إنسانًا له كرامة مثل كرامتي، وهو مخلوقٌ يحِبُّه الآب حُبًّا لا حدَّ له، وهو صورة لله، وأخٌ افتداه المسيح. هذا يدلّ على أنّك مسيحيّ! أم هل يمكن أن نفهم القداسة دون هذا الاعتراف الحيّ بكرامة كلّ إنسان؟"[116]. ماذا فعل السّامري الرّحيم؟

107. هذا السّؤال مُلِحٌّ، لأنّه يساعدنا على أن ندرك نَقصًا خطيرًا في مجتمعاتنا، وفي جماعاتنا المسيحيّة أيضًا. إنّا نجد اليوم أشكالًا عديدة من اللامبالاة وهي "علامة على نمط حياة عامّ، يظهر بطرق مختلفة، وأحيانًا بطرق خفيّة. ولأنّنا جميعًا غارقون في احتياجاتنا الخاصّة، فإنّ رؤية إنسانٍ يعاني تزعجنا، ولا نريد أن نضَيِّع الوقت بسبب مشاكل الآخرين. هذه أعراض مجتمع مريض، يريد أن يبني نفسه بأن يدير ظهره للألم. ليتنا لا نقع في مثل هذا البؤس. لننظُرْ إلى مِثال السّامري الرّحيم"[117]. الكلمات الأخيرة من المثل الإنجيليّ - "اذهب واعمل كذلك" (لوقا 10، 37) - هي أمرٌ يجب على المسيحيّ أن يسمعَهُ مدَوِّيًا في قلبه كلّ يوم.

تحَدٍ لا مفَرَّ منه للكنيسة اليوم

108. كان وقت صعب جدًّا لكنيسة روما، عندما كانت المؤسّسات الإمبراطوريّة تنهار تحت ضربات البرابرة. وكان البابا القدّيس غريغوريوس الكبير يوصِي المؤمنين فيقول: "في كلّ يوم يمكننا أن نجد لِعازَر، إن بحثنا عنه، وكلّ يوم نلتقي به، حتّى ولو لم نبحث عنه. قد يأتي إلينا الفقراء بطريقة مزعجة ويوجِّهون إلينا طلباتهم، وهم الذين سيقدرون يومًا ما أن يشفعوا بنا. [...] لذلك، لا تُضَيِّعوا الفرص لعمل الرّحمة ولا تهملوا اللجوء إلى كلّ الوسائل المتوفِّرة لكم"[118]. كان يتحدّى، بشجاعة، الآراء الشّائعة في زمنه ضدّ الفقراء، مثل الذين يقولون اليوم إنّ الفقراء مسؤولون عن شقائهم. كان يقول: "إذا رأيتم فقراء يقومون ببعض الأعمال التي تستحقّ اللوم، لا تحتقروهم ولا تفقدوا الثّقة بهم، لأنّ نار الفقر ربّما تطهِّر ما يعملونه إذا ارتكبوا خطايا ولو كانت طفيفة"[119]. فإنّ التّرف كثيرًا ما يجعلنا عميانًا، فنظنُّ أنّا لا يمكننا أن نحقّق سعادتنا إلّا بالاستغناء عن الآخرين. وفي هذا، يمكن للفقراء أن يكونوا معلِّمِين صامتين لنا، فيعيدون كبريائنا وغطرستنا إلى تواضع سليم.

109. إن كان صحيحًا أنّ أصحاب المال يسندون الفقراء، يمكننا أن نقول العكس أيضًا. وهذه خبرة مدهشة يشهد لها التّقليد المسيحيّ نفسه، وهي سبب تحوُّل حقيقيّ في حياتنا الشّخصيّة، عندما ندرك أنّ الفقراء هم الذين يبشِّروننا. كيف ذلك؟ الفقراء، في صمتهم وضعة حالتهم، يضعوننا أمام ضعفنا. فالإنسان المـُسِنّ، مثلًا، مع ضعف جسده، يذكِّرُنا بضعفنا، ولو حاولنا إخفاء ذلك وراء الرّفاه أو المظاهر. علاوة على ذلك، فإنّ الفقراء يجعلوننا نفكِّر في هشاشة الكبرياء العدوانيّة التي نواجِهُ بها مرارًا صعوبات الحياة. بالإيجاز، إنّهم يكشفون عن هشاشتنا وفراغ حياتنا التي تبدو محميّة وآمنة. في هذا الصّدد، لنصغِ من جديد إلى القدّيس البابا غريغوريوس الكبير: "لا يظُنّ أحد نفسه أنّه في أمان، ولا يَقُلْ: أنا لا أسرق الآخرين، وأقتصر على استخدام الخيرات التي كسبتها وفقًا للعدالة. في الواقع، الرّجل الغني لم يُعاقَبْ لأنّه أراد لنفسه ممتلكات الآخرين، بل لأنّه أهمل نفسه بعد أن حصل على ثروات كثيرة. حُكِمَ عليه بالجحيم لأنّه لم يحتفظ بمخافة الله، في واقع سعادته، بل دفعته ثروته إلى العجرفة، ولم يكن له أيّ شعور بالرّحمة"[120].

110. بالنّسبة لنا نحن المسيحيّين، تعيدنا قضيّة الفقراء إلى جوهر إيماننا. إنّ تفضيل الفقراء، أي محبّة الكنيسة لهم، كما علّم القدّيس يوحنّا بولس الثّاني، "هو أمرٌ جوهريٌّ وجزءٌ من تراثها الرّاسخ. ويدفعها إلى أن تتوجّه إلى العالم، حيث يُهدِّد الفقر بأن يتّخذ أشكالًا هائلة، بالرّغم من التّقدّم التّقني والاقتصادي"[121]. والواقع هو أنّ الفقراء بالنّسبة للمسيحيّين ليسوا فئة اجتماعيّة، بل هم جسد المسيح نفسه. ولم يَعُدْ يكفي مجرّد إعلان عقيدة تجسّد الله بصورة عامّة. فلكي ندخل حقًّا في هذا السّرّ، يجب أن ندرك أنّ الرّبّ صار إنسانًا يجوع، ويعطش، ويمرض، ويُسجَن. "إنّ كنيسة فقيرة تهتمّ بالفقراء تبدأ فتتحرّك نحو جسد المسيح. فإذا توجّهنا نحو جسد المسيح، بدأنا نفهم بعض الشّيء، بدأنا نفهم ما هو فقر الرّبّ يسوع هذا. وهذا ليس سهلًا"[122].

111. إنّ قلب الكنيسة، بطبيعته، متضامن مع الفقراء والمستبعدين والمهمّشين، ومع الذين يُعتَبَرون ”مرفوضين“ في المجتمع. إنّ الفقراء هم في قلب الكنيسة، وهم جزء من "الإيمان بالمسيح الذي صار فقيرًا وظلَّ دائمًا قريبًا من الفقراء والمستبعدين، ومن هذا ينجم الاهتمام بالتّنمية المتكاملة للمتروكين ولأكثر النّاس تهميشًا في المجتمعات"[123]. في قلب كلّ مؤمن توجد "الحاجة إلى الإصغاء إلى الصّراخ النّاجم من نفس عمل النّعمة المحرِّر في كلّ واحد منّا، ومن ثمّ ليست العناية بالفقير رسالة مخصّصة للبعض فقط"[124].

112. أحيانًا يُلاحظ في بعض الحركات أو الجماعات المسيحيّة نقصًا أو حتّى غيابًا في الالتزام بالخير العام للمجتمع، وبالأخصّ في الدّفاع عن الأضعفين والمحرومين وتعزيز مكانتهم. وفي هذا الصّدد، من الضّروريّ أن نتذكّر أنّ الدِّين، وخاصّة الدِّين المسيحيّ، لا يمكن أن يقتصر على الحياة الخاصّة، كما لو أنّ المؤمنين يجب ألّا يهتمّوا أيضًا بالمشاكل التي تهمّ المجتمع المدني والأحداث التي تخُصُّ المواطنين.[125]

113. في الواقع، "كلّ جماعة أيًّا كانت، في الكنيسة، تدَّعي الانزواء ولا تعمل بشكل خلّاق ولا تتعاون بشكل فعّال لكي يعيش الفقراء بكرامة، ولا تعمل لإدماج الجميع في المجتمع، إنّما هي معرّضة لخطر الانحلال، ولو تحدّثت عن بعض القضايا الاجتماعيّة أو انتقدت الحكومات. ستغمرها بسهولة الرّوح العالميّة، المتخفّية في بعض الممارسات الدّينيّة، والاجتماعات العقيمة، أو الخطب الفارغة"[126].

114. نحن لا نتكلَّم فقط على المساعدة والالتزام الضّروريّ من أجل العدالة. على المؤمنين أن يؤدّوا حسابًا عن شكل آخر من أشكال التّناقض في موقفهم من الفقراء. في الحقيقة، "إنّ أسوأ تفرقة يعاني منها الفقراء هي النّقص في الاهتمام الرّوحي بهم […]. تفضيل الفقراء يجب أن يظهر بصورة أساسيّة في اهتمام دينيّ بهم متميّز، ويجب أن تكون له الأولويّة"[127]. ومع ذلك، فإنّ هذا الاهتمام الرّوحي بالفقراء لا يزال موضوع جدل بسبب بعض الأحكام المسبقة، حتّى من قبل بعض المسيحيّين، لأنّنا نشعر براحة أكبر بدون الفقراء. وهناك من يقول أيضًا: ”مهمّتنا هي الصّلاة وتعليم العقيدة الصّحيحة“. لكن، بفصل هذا الجانب الدّيني عن الدّعم العملي والتّعزيز المتكامل، يضيفون أنّ الحكومة وحدها هي التي يجب أن تعتني بهم، أو من الأفضل تركهم في حالة الفقر وتعليمهم بالأحرى، بدل ذلك، كيف يعملون. وفي بعض الأحيان يستخدمون معايير علميّة خاطئة للقول إنّ حرّيّة السّوق ستؤدّي تلقائيًّا إلى حلّ مشكلة الفقر. أو، نفضل أن نختار تكوين النُّخَب. وحُجَّتهم في ذلك أنّه بدلًا من إضاعة الوقت مع الفقراء، من الأفضل الاهتمام بالأغنياء والأقوياء والمهنيّين، وهكذا يمكن التّوصّل معهم إلى حلول أكثر فعّاليّة. من السّهل قبول الرّوح العالميّة الكامنة وراء هذه الآراء: إنّها تدفعنا إلى النّظر إلى الواقع بمعايير سطحيّة وخالية من كلّ نور فائق الطّبيعة، فنميل إلى مرافقة من يمنحنا الشّعور بالأمان، ونسعى إلى الامتيازات التي تريحنا.

اليوم أيضًا، أعطوا

115. حسَنٌ أن نقول كلمة أخيرة في الصّدقة، التي صارت اليوم وكأنّها غير مقبولة، حتّى بين الكثير من المؤمنين. صارت الصّدقة ليس فقط نادرة بل محتقرة. أنا أكرّر أنّ المساعدة الأهمّ لإنسان فقير هي مساعدته بتوفير عمل له، يطوِّر به كفاءاته ويقدِّم هو للمجتمع مجهوده الشّخصي. الواقع هو أنّ "نقص العمل هو أكثر من عدم وجود مصدر دخل للعيش. العمل هو هذا، لكنّه أكثر من ذلك بكثير. بالعمل نثبِّت شخصيّتنا وكرامتنا، وتزدهر إنسانيّتنا، وبالعمل فقط يصير الشّباب بالغين. يعتبر تعليم الكنيسة الاجتماعيّ أنّ عمل الإنسان هو مشاركة في الخلق الذي يستمرّ كلّ يوم، بفضل أيدي العمّال وعقولهم وقلوبهم"[128]. ومن جهة أخرى، إن لم تتوفّر هذه الإمكانيّة عمليًّا، يجب ألّا نخاطر ونترك الشّخص لمصيره، وهو لا يملك ما هو ضروري له ليعيش بكرامة. ولذلك تبقى الصّدقة لحظة ضروريّة من اللقاء، والتّواصل، والتّعاطف مع حال الآخر.

116. من الواضح لمن يحِبّ حقًّا أنّ الصّدقة لا تعفي السُّلطات المختصّة من مسؤوليّاتها، ولا تلغي التزام المؤسّسات المنظمّة، ولا تحلّ محلّ النّضال المشروع من أجل العدالة. لكنّها تدعو على الأقل إلى التوقّف والنّظر في وجه الفقير، ولمسه ومشاركته في شيء خاصٍّ به. وفي كلّ حال، فإنّ الصّدقة، حتّى لو كانت صغيرة، تغرس مشاعر التّقوى والاهتمام بالآخرين في حياة اجتماعيّة يهتمّ فيها الجميع وراء مصلحتهم الخاصّة. يقول سفر الأمثال:"الصَّالِحُ العينِ يُبارَك لِأَنَّه أَعْطى مِن خُبزِه لِلفَقير" (الأمثال 22، 9).

117. نجد في كلا العهدَين القديم والجديد إشادة حقيقيّة بالصّدقة: "مع ذلكَ كُن طَويلَ الأَناةِ على البائس، ولا تُماطِلْه في الصَّدَقَة. [...] أَغلِقْ على الصَّدَقَةِ في أَهْرائِكَ، فهي تُنقِذُكَ مِن كُلِّ شَرّ" (يشوع بن سيراخ 29، 8. 12). وتبنّى يسوع هذا التّعليم: "بيعوا أَموالَكم وتَصَدَّقوا بِها واجعَلوا لَكُم أَكْياسًا لا تَبْلى، وكَنزًا في السَّمواتِ لا يَنفَد" (لوقا 12، 33).

118. نُسِبَ الإرشاد التّالي إلى القدّيس يوحنّا الذّهبيّ الفم: "الصّدقة هي جناح الصّلاة. إن لم تضِفْ جناحًا إلى صلاتك، فلن تقدر أن تطير إلّا بصعوبة"[129]. واختتم القدّيس غريغوريوس النّزيانزي إحدى خطبه الشّهيرة بهذه الكلمات: "إن كنتم تستمعون إليَّ، أنتم خُدَّام المسيح، إخوته وورثته، ما زال الوقت مناسبًا، زوروا المسيح، واعتَنوا بالمسيح، وأطعِموا المسيح، وألبِسوا المسيح، ورَحِّبوا بالمسيح، وكَرِّموا المسيح: ليس فقط بوليمة كما فعل البعض، ولا بالأطياب مثل مريم، ولا بتقديم قبر له، مثل يوسُف الرَّاميّ، وليس فقط بالقيام بواجبات الدّفن، مثل نيقوديموس، الذي أحبّ المسيح حبًّا جزئيًّا، وليس فقط بالذّهب والبخور والمرّ، مثل المجوس، لكن بما أنّ الرّبّ يريد الرّحمة لا الذّبيحة [...] فلنقدِّم له هذا في الفقراء، حتّى إذا غادرنا هذه الأرض استقبلونا في الدّيار الأبديّة"[130].

119. يجب تغذية الحبّ والقناعات العميقة، وذلك ببعض المبادرات. البقاء في عالم الأفكار والنّقاشات، دون أعمال شخصيّة ومتكرّرة وصادقة، هو بمثابة تدمير لأغلى أحلامنا. لهذا السّبب البسيط نحن المسيحيّين لا نتخلّى عن الصّدقة. هو عمل يمكن أن نقوم به بطرق مختلفة، ويمكن أن نحاول أيضًا أن نتّخذ أكثر الطّرق فعّاليّة، ولكن المهمّ، يجب أن نعمل. أن نعمل شيئًا أفضل دائمًا من ألَّا نعمل. في كلّ حال، ذلك سيمسّ قلبنا. لن نحلَّ مشكلة الفقر في العالم، وهو الحلّ الذي يجب البحث عنه بالذّكاء والإصرار والالتزام الاجتماعيّ. ولكنّنا بحاجة إلى ممارسة الصّدقة لكي نلمس جسد الفقراء المتألّم.

120. المحبّة المسيحيّة تتخطَّى كلّ الحواجز، وتقرّب البعيدين، وتجمع بين الغرباء، وتجعل الأعداء أصدقاء، وتجتاز مهاويَ لا يمكن عبورها بقوّة بشريّة، وتدخل في أكثر ثنايا المجتمع خفاء. المحبّة المسيحيّة بطبيعتها نبويّة، وتصنع المعجزات، ولا حدود لها: تواجه المستحيل. الحبّ هو قبل كلّ شيء طريقة لفهم الحياة، وأسلوب للحياة. الكنيسة التي لا تضع حدودًا للمحبّة، ولا تعرف أعداء تقاتلهم، بل تعرف فقط رجالًا ونساء تحبّهم، هي الكنيسة التي يحتاج إليها العالم اليوم.

121. بعملكم، وبالتزامكم لتغيير البُنَى الاجتماعيّة غير العادلة، وبلفتة لمساعدة بسيطة، شخصيَّةٍ جدًّا وقريبة من الآخر، سيكون من الممكن للفقير أن يشعر بأنّ كلمات يسوع هي له: "لقد أَحبَبتُكَ" (رؤيا يوحنّا 3، 9).

صَدَرَ في روما، قُرب ضريح القدّيس بطرس، في 4 تشرين الأوّل/أكتوبر، عيد القدّيس فرنسيس الأسّيزي، سنة 2025، الأولى من حبريَّتي.

لاوُن الرّابع عشر

[01290-AR.01] [Testo originale: Italiano]

[B0722-XX.01]

 

 

[1] فرنسيس، الرّسالة البابويّة العامّة، لقد أحَبَّنا (24 تشرين الأوّل/أكتوبر 2024)، 170: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 116 (2024)، 1422.

 

 

[2] المرجع نفسه، 171: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 116 (2024)، 1422-1423.

 

 

[3] المؤلّف نفسه، الإرشاد الرّسوليّ، اِفَرحوا وابتَهِجوا (19 آذار/مارس 2018)، 96: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 110 (2018)، 1137.

 

 

[4] فرنسيس، لقاء مع ممثّلي وسائل الإعلام (16 آذار/مارس 2013): أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 105 (2013)، 381.

 

 

[5] ج. بيرغوليو – أ. سكوركا، فوق السّماء والأرض، بونيس آيرس، 2013، 214.

 

 

[6] القدّيس بولس السّادس، عظة في القدّاس الإلهيّ في مناسبة الجلسة العامّة الأخيرة للمجمع الفاتيكانيّ الثّاني المسكونيّ (7 كانون الأوّل/ديسمبر 1965): أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 58 (1966)، 55-56.

 

 

[7] راجع فرنسيس، الإرشاد الرّسوليّ، فرح الإنجيل (24 تشرين الثّاني/نوفمبر 2013)، 187: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 105 (2013)، 1098.

 

 

[8] المرجع نفسه، 212: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 105 (2013)، 1108.

 

 

[9] المؤلّف نفسه، الرّسالة البابويّة العامّة، كلّنا إخوة (3 تشرين الأوّل/أكتوبر 2020)، 23: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 112 (2020)، 977.

 

 

[10] المرجع نفسه، 21: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 112 (2020)، 976.

 

 

[11] مجلس الجماعات الأوروبيّة، القرار (85/8/CEE) بشأن إجراء عمل جماعيّ محدّد لمكافحة الفقر (19 كانون الأوّل/ديسمبر 1984)، المادّة 1، الفقرة 2: الصّحيفة الرّسميّة للجماعات الأوروبيّة، N. L 2/24.

 

 

[12] راجع القدّيس يوحنّا بولس الثّاني، التّعليم المسيحيّ أثناء المقابلة العامّة (27 تشرين الأوّل/أكتوبر 1999): L’Osservatore Romano، 28 تشرين الأوّل/أكتوبر1999، 4.

 

 

[13] فرنسيس، الإرشاد الرّسوليّ، فرح الإنجيل (24 تشرين الثّاني/نوفمبر 2013)، 197: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 105 (2013)، 1102.

 

 

[14] راجع المؤلّف نفسه، رسالة في اليوم العالميّ الخامس للفقراء (13 حزيران/يونيو 2021)، 3: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 113 (2021)، 691: "لم يكن يسوع إلى جانب الفقراء فقط، بل شاركهم مصيرهم. وهذا تعليم قويّ أيضًا لتلاميذه في كلّ زمن".

 

 

[15] المؤلّف نفسه، الإرشاد الرّسوليّ، فرح الإنجيل (24 تشرين الثّاني/نوفمبر 2013)، 186: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 105 (2013)، 1098.

 

 

[16] المؤلّف نفسه، الإرشاد الرّسوليّ، اِفَرحوا وابتَهِجوا (19 آذار/مارس 2018)، 95: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 110 (2018)، 1137.

 

 

[17] المرجع نفسه، 97: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 110 (2018)، 1137.

 

 

[18] المؤلّف نفسه، الإرشاد الرّسوليّ، فرح الإنجيل (24 تشرين الثّاني/نوفمبر 2013)، 194: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 105 (2013)، 1101.

 

 

[19] فرنسيس، لقاء مع ممثّلي وسائل الإعلام (16 آذار/مارس 2013): أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 105 (2013)، 381.

 

 

[20] المجمع الفاتيكانيّ الثّاني، دستور عقائدي، نور الأمم، 8.

 

 

[21] فرنسيس، الإرشاد الرّسوليّ، فرح الإنجيل (24 تشرين الثّاني/نوفمبر 2013)، 48: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 105 (2013)، 1040.

 

 

[22] نقدّم في هذا الفصل بعض أمثال تلك القداسة، ولا ندّعي بأنّها شاملة، لكنّها دليل على تلك العناية بالفقراء، التي ميّزت دائمًا حضور الكنيسة. يمكن وجود دراسة أعمق وأشمل لهذه الرّعاية لأكثر النّاس احتياجًا في كتاب Vincenzo Paglia، تاريخ الفقر، ميلانو 2014.

 

 

[23] راجع القدّيس أمبرزيوس، في مهام الخدمات 1، الفصل 41، 205-206: مجموعة المؤلّفين المسيحيّين السّلسلة اللاتينيّة 15، تورنهاوت 2000، 76-77؛ 2، الفصل 28، 140-143: مجموعة المؤلّفين المسيحيّين السّلسلة اللاتينيّة 15، 148-149.

 

 

[24] المرجع نفسه، 2، الفصل 28، 140: مجموعة المؤلّفين المسيحيّين السّلسلة اللاتينيّة 15، 148.

 

 

[25] المرجع نفسه.

 

 

[26] المرجع نفسه، 2، الفصل 28، 142: مجموعة المؤلّفين المسيحيّين السّلسلة اللاتينيّة 15، 148.

 

 

[27] القدّيس أغناطيوس الأنطاكيّ، الرّسالة إلى أهل إزمير، 6، 2: مصادر مسيحيّة 10، باريس 2007، 136-138.

 

 

[28] القدّيس بوليكاربس، الرّسالة إلى أهل فيليبي، 6، 1: مصادر مسيحيّة 10، 186.

 

 

[29] القدّيس يوستينس، الدّفاع الأوّل، 67، 6-7: مصادر مسيحيّة 507، باريس 2006، 310.

 

 

[30] القدّيس يوحنّا الذّهبيّ الفم، عظة في إنجيل القدّيس متّى، 50، 3: مجموعة المؤلّفات لآباء الكنيسة اليونانيّة 58، باريس 1862، 508.

 

 

[31] المرجع نفسه، 50، 4. مجموعة المؤلّفات لآباء الكنيسة اليونانيّة 58، 509.

 

 

[32] المؤلّف نفسه، عظة في الرّسالة إلى العبرانيّين، 11، 3. مجموعة المؤلّفات لآباء الكنيسة اليونانيّة 63، باريس 1862، 94.

 

 

[33] المؤلّف نفسه، عظة ثانية في لعازر، 6. مجموعة المؤلّفات لآباء الكنيسة اليونانيّة 48، باريس 1862، 992.

 

 

[34] القدّيس أمبروزيوس، عن نابوت، 12، 53: مجموعة الكتابات الكنسيّة اللاتينيّة 32/2، براغ – فيينّا - لايبزيغ 1897، 498.

 

 

[35] القدّيس أغسطينس، في شرح المزامير، 125، 12: مجموعة الكتابات الكنسيّة اللاتينيّة 95/3، فيينّا 2001، 181.

 

 

[36] المؤلّف نفسه، العظة 86، 5: مجموعة المؤلّفين المسيحيّين السّلسلة اللاتينيّة 41Ab، تورنهاوت 2019، 411-412.

 

 

[37] أغسطينس (المنحول)، العظة 388، 2: مجموعة المؤلّفات لآباء الكنيسة اللاتينيّة 39، باريس 1862، 1700.

 

 

[38] القدّيس كبريانوس، الموتى، 16: مجموعة المؤلّفين المسيحيّين السّلسلة اللاتينيّة 3A، تورنهاوت 1976، 25.

 

 

[39] فرنسيس، رسالة في اليوم العالمي الثّلاثين للمريض (10 كانون الأوّل/ديسمبر 2021)، 3: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 114 (2022)، 51.

 

 

[40] القدّيس كاميلّو دي ليلّيس، قوانين رهبنة خدّام المرضى، 27. طبعة ماريو فانتي، كتابات كاميلّو دي ليلّيس، ميلانو 1965، 67.

 

 

[41] القدّيسة لويزا دي مارياك، رسالة إلى الأختَين كلود كاريه وماري غودوين (Claude Carré e Marie Gaudoin) (28 تشرين الثّاني/نوفمبر 1657): طبعة إليزابيت شاربي، القدّيسة لويزا دي مارياك، كتابات، باريس 1983، 576.

 

 

[42] القدّيس باسيليوس الكبير، القوانين المفسَّرة على نحو أوسع، 37، 1. مجموعة المؤلّفات لآباء الكنيسة اليونانيّة 31، باريس 1857، 1009 C-D.

 

 

[43] قانون بندكتس، 53، 15: مصادر مسيحيّة 182، باريس 1972، 614.

 

 

[44] القدّيس يوحنّا كاسيانو، Collationes، 15، 10: مجموعة الكتابات الكنسيّة اللاتينيّة 13، فيينّا 2004، 410.

 

 

[45] بندكتس السّادس عشر، التّعليم المسيحيّ أثناء المقابلة العامّة (21 تشرين الأوّل/أكتوبر 2009): L’Osservatore Romano، 22 تشرين الأوّل/أكتوبر 2009، 1.

 

 

[46] راجع إنوشنسيوس الثّالث - Innocenzo III، مرسوم Operante divinæ dispositionis - القانون الأصلي للثّالوثيّين (17 كانون الأوّل/ديسمبر 1198)، 2: طبعة خوسيه لويس أوريكويشيا – أنتونيو مولدون، المصادر التّاريخيّة لرهبنة الثّالوث الأقدس (من القرن الثّاني عشر إلى القرن الخامس عشر)، قرطبة 2003، 6: "تُقسّم جميع الخيرات، أيًّا كان مصدرها الشّرعي، إلى ثلاثة أقسام متساوية؛ يستعمل قسمان منها، بقدر ما يكفيان، لأعمال الرّحمة، ولتأمين معيشة معتدلة للرّهبان وللخدم الذين هم في خدمتهم للضّرورة. أمّا القسم الثّالث، فيُخصّص لتحرير الأسرى بسبب إيمانهم بالمسيح".

 

 

[47] راجع دساتير رهبنة سيّدتنا مريم العذراء سيّدة الرّحمة، رقم 14: رهبنة سيّدتنا مريم العذراء سيّدة الرّحمة، قواعد ودساتير، روما 2014، 53: "لتحقيق هذه الرّسالة، وبدافع المحبّة، نُكرّس أنفسنا لله بنذرٍ خاصّ، يُسمّى نذر الفداء، نعد بموجبه بأن نبذل حياتنا، إن لزم الأمر، كما بذلها المسيح من أجلنا، لخلاص المسيحيين المُعرّضين لخطر فقدان إيمانهم في ظلّ أشكال جديدة من العبوديّة".

 

 

[48] راجع القدّيس يوحنّا باتيتسا (Giovanni Battista della Concezione)، قانون رهبنة الثّالوث الأقدس، 20، 1: BAC Maior 60، مدريد 1999، 90: "في هذا، الفقراء والأسرى هم مثل المسيح، الذي حمل آلام العالم [...]. هذه الرّهبنة للثّالوث الأقدس تدعوهم لكي يأتوا ويشربوا ماء المخلّص، يعني إن كان المسيح المعلّق على الصّليب فداءً وخلاصًا للبشر، فإنّ هذه الرّهبنة أخذت هذا الفداء وتريد أن توزّعه على الفقراء وأن تخلِّص وتحرِّر السّجناء".

 

 

[49] راجع المؤلّف نفسه، الذّاكرة الدّاخليّة، 40، 4: BAC Maior 48، مدريد 1995، 689: "الإرادة الحرّة تجعل الإنسان حرًّا وسيّدًا بين جميع المخلوقات، ولكن، ليساعِدْني الله! كم هم الذين يصيرون، بهذه الطّريقة، عبيدًا وأسرى للشّيطان، ومسجونين ومقيّدين بسلاسل أهوائهم وشهواتهم".

 

 

[50] فرنسيس، رسالة في اليوم العالميّ السّابع والأربعين للسَّلام (8 كانون الأوّل/ديسمبر 2014)، 3: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 107 (2015)، 69.

 

 

[51] المؤلّف نفسه، لقاء مع ضبّاط شرطة السّجون والسّجناء والمتطوّعين (فيرونا، 18 أيّار/مايو 2024): أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 116 (2024)، 766.

 

 

[52] هونوريوس الثّالث، مرسومSolet annuere - قانون مؤيّد بمرسوم (29 تشرين الثّاني/نوفمبر 1223)، الفصل 6: مصادر مسيحيّة 285، باريس 1981، 192.

 

 

[53] راجع غريغوريوس التّاسع، مرسوم Sicut manifestum est (17 أيلول/سبتمبر 1228)، 7: مصادر مسيحيّة 325، باريس 1985، 200: "وكما قد التمستم، فإنّنا نثبّت بعطف رسوليّ قراركم في الفقر الأسمى، ونمنحكم بسلطان هذه الرّسالة حتّى لا يَجبركم أحد على قبول الممتلكات".

 

 

[54] راجع سيمون توغويل، الدّومينيكان الأوائل. كتابات مختارة،Mahwah 1982، 16-19.

 

 

[55] توماس دي سيلانو، ثاني حياة - القسم الأوّل، الفصل الرّابع، 8: مختارات فرنسيسكانيّة، 10، فلورنسا 1941، 135.

 

 

[56] فرنسيس، كلمة بعد الزّيارة إلى قبر الأب لورينسو ميلاني (باربيانا، 20 حزيران/يونيو 2017)، 2: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 109 (2017)، 745.

 

 

[57] القدّيس يوحنّا بولس الثّاني، كلمة إلى المشاركين في الجمعيّة العامّة للإكليريكيّين فقراء والدة الله لمدارس التّقوى (السكولوبيّين) (5 تمّوز/يوليو 1997)، 2: L’Osservatore Romano، 6 تمّوز/يوليو 1997، 5.

 

 

[58] المرجع نفسه.

 

 

[59] المؤلّف نفسه، عظة في قدّاس التّقديس (18 نيسان/أبريل 1999): أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 91 (1999)، 930.

 

 

[60] راجع المؤلّف نفسه، رسالة Iuvenum Patris (31 كانون الثّاني/يناير 1988)، 9: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 80 (1988)، 976.

 

 

[61] راجع فرنسيس، كلمة إلى المشاركين في الجمعيّة العامّة لجمعيّة المحبّة (Rosminiani) (1 تشرين الأوّل/أكتوبر 2018): L’Osservatore Romano، 1-2 تشرين الأوّل/أكتوبر 2018، 7.

 

 

[62] المؤلّف نفسه، عظة في قدّاس التّقديس (9 تشرين الأوّل/أكتوبر 2022): أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 114 (2022)، 1338.

 

 

[63] القدّيس يوحنّا بولس الثّاني، رسالة إلى رهبنة مرسلات القلب الأقدس (31 أيّار/مايو 2000)، 3: L’Osservatore Romano، 16 تمّوز/يوليو 2000، 5.

 

 

[64] راجع بيوس الثّاني عشر، إرشاد رسولي مختصر، Superiore Iam Aetate (8 أيلول/سبتمبر 1950): أعمال الكرسي الرّسولي 43 (1951)، 455-456.

 

 

[65] فرنسيس، رسالة في اليوم العالمي الخامس بعد المائة للمهاجرين واللاجئين (27 أيّار/مايو 2019): أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 111 (2019)، 911.

 

 

[66] المؤلّف نفسه، رسالة في اليوم العالميّ المائة للمهاجرين واللاجئين (5 آب/أغسطس 2013): أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 105 (2013)، 930.

 

 

[67] القدّيسة تريزا دي كالكوتا، كلمة في مناسبة تقديم جائزة نوبل للسّلام (أوسلو، 10 كانون الأوّل/ديسمبر 1979): المؤلّف نفسه، الحبّ حتّى الضّجر من الحبّ، ليون 2017، 19-20.

 

 

[68] القدّيس يوحنّا بولس الثّاني، كلمة إلى الحجّاج القادمين إلى روما من أجل تطويب الأمّ تريزا دي كالكوتا، 20 تشرين الأوّل/أكتوبر 2003، 3: L’Osservatore Romano، 20-21 تشرين الأوّل/أكتوبر 2003، 10.

 

 

[69] فرنسيس، عظة في قدّاس التّقديس (13 تشرين الأوّل/أكتوبر 2019): أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 111 (2019)، 1712.

 

 

[70] القدّيس يوحنّا بولس الثّاني، الرّسالة البابويّة العامّة، في بداية الألفيّة الثّالثة-Novo millennio ineunte (6 كانون الثّاني/يناير 2001)، 49: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 93 (2001)، 302.

 

 

[71] فرنسيس، الإرشاد الرسولي، المسيح يحيا (25 آذار/مارس 2019)، 231: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 111 (2019)، 458.

 

 

[72] المؤلّف نفسه، كلمة إلى المشاركين في اللقاء العالمي للحركات الشّعبيّة (28 تشرين الأوّل/ أكتوبر 2014): أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 106 (2014)، 851-852.

 

 

[73] المرجع نفسه: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 106 (2014)، 859.

 

 

[74] المؤلّف نفسه، كلمة إلى المشاركين في اللقاء العالمي للحركات الشّعبيّة (5 تشرين الثّاني/نوفمبر2016): L’Osservatore Romano، 7-8 تشرين الثّاني/نوفمبر 2016، 5.

 

 

[75] المرجع نفسه.

 

 

[76] القدّيس يوحنّا الثّالث والعشرون، رسالة إذاعيّة إلى جميع المؤمنين في العالم قبل شهر واحد من افتتاح المجمع المسكونيّ الفاتيكانيّ الثّاني (11 أيلول/سبتمبر 1962): أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 54 (1962)، 682.

 

 

[77] جاكومو ليركارو، مداخلة في المجمع العام الخامس والثّلاثين للمجمع الفاتيكاني الثّاني المسكوني (6 كانون الأوّل/ديسمبر 1962)، 2: أعمال المجمع (Acta Synodalia) المجلّد الأوّل، الفصل الرّابع، 327-328.

 

 

[78] المرجع نفسه، 4: أعمال المجمع (Acta Synodalia) المجلّد الأوّل، الفصل الرّابع، 329.

 

 

[79] طبعة معهد العلوم الدّينية، بقوّة الرّوح. خطابات مجمعيّة للكردينال جاكومو ليركارو، بولونيا 1984، 115.

 

 

[80] القدّيس بولس السّادس، خطاب في الافتتاح الرّسمي للدورة الثّانية للمجمع الفاتيكانيّ الثّاني المسكونيّ (29 أيلول/سبتمبر 1963): أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 55 (1963)، 857.

 

 

[81] المؤلّف نفسه، التّعليم المسيحيّ أثناء المقابلة العامّة (11 تشرين الثّاني/نوفمبر 1964): تعاليم بولس السّادس، 2 (1964)، 984.

 

 

[82] المجمع المسكونيّ الفاتيكانيّ الثّاني، دستور رعائي في الكنيسة في عالم اليوم، فرح ورجاء، 69. 71.

 

 

[83] القدّيس بولس السّادس، الرّسالة البابويّة العامّة، تقدُّم الشّعوب-Populorum Progressio (26 آذار/مارس 1967)، 23: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 59 (1967)، 269.

 

 

[84] راجع المرجع نفسه، 4: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 59 (1967)، 259.

 

 

[85] القدّيس يوحنّا بولس الثّاني، الرّسالة البابويّة العامّة، الاهتمام بالشّأن الاجتماعيّ- Sollicitudo rei socialis(30 كانون الأوّل/ديسمبر 1987)، 42: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 80 (1988)، 572.

 

 

[86] المرجع نفسه: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 80 (1988)، 573.

 

 

[87] المؤلّف نفسه، الرّسالة البابويّة العامّة، العمل الإنسانيّ-Laborem exercens (14 أيلول/سبتمبر 1981)، 3: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 73 (1981)، 584.

 

 

[88] بندكتس السّادس عشر، الرّسالة البابويّة العامّة، المحبّة في الحقيقة-Caritas in veritate (29 حزيران/يونيو 2009)، 7: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 101 (2009)، 645.

 

 

[89] المرجع نفسه، 27: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 101 (2009)، 661.

 

 

[90] مؤتمر الأساقفة الثّاني في أمريكا اللاتينيّة، وثيقة ميديلين (24 تشرين الأوّل/أكتوبر 1968)، 14، رقم 7: مجلس أساقفة أمريكا اللاتينيّة ومنطقة البحر الكاريبي (CELAM)، ميديلين. ختام أعمال المؤتمر، ليما 2005، 131-132.

 

 

[91] فرنسيس، الإرشاد الرّسولي، فرح الإنجيل (24 تشرين الثّاني/نوفمبر 2013)، 202: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 105 (2013)، 1105.

 

 

[92] المرجع نفسه، 205: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 105 (2013)، 1106.

 

 

[93] المرجع نفسه، 190: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 105 (2013)، 1099.

 

 

[94] المرجع نفسه، 56: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 105 (2013)، 1043.

 

 

[95] المؤلّف نفسه، الرّسالة البابويّة العامّة، لقد أحبّنا (24 تشرين الأوّل/أكتوبر 2024)، 183: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 116 (2024)، 1427.

 

 

[96] القدّيس يوحنّا بولس الثّاني، الرّسالة البابويّة العامّة، السّنة المئة-Centesimus annus (1 أيّار/مايو 1991)، 41: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 83 (1991)، 844-845.

 

 

[97] فرنسيس، الإرشاد الرّسوليّ، فرح الإنجيل (24 تشرين الثّاني/نوفمبر 2013)، 202: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 105 (2013)، 1105.

 

 

[98] المرجع نفسه.

 

 

[99] المؤلّف نفسه، الرّسالة البابويّة العامّة، كلّنا إخوة (3 تشرين الأوّل/أكتوبر 2020)، 22: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 112 (2020)، 976.

 

 

[100] المؤلّف نفسه، الإرشاد الرّسوليّ، فرح الإنجيل (24 تشرين الثّاني/نوفمبر 2013)، 209: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 105 (2013)، 1107.

 

 

[101] المؤلّف نفسه، الرّسالة البابويّة العامّة، كُنْ مُسَبَّحًا (24 أيّار/مايو 2015)، 50: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 107 (2015)، 866.

 

 

[102] المؤلّف نفسه، الإرشاد الرّسوليّ، فرح الإنجيل (24 تشرين الثّاني/نوفمبر 2013)، 210: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 105 (2013)، 1107.

 

 

[103] المؤلّف نفسه، الرّسالة البابويّة العامّة، كُنْ مُسَبَّحًا (24 أيّار/مايو 2015)، 43: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 107 (2015)، 863.

 

 

[104] المرجع نفسه، 48: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 107 (2015)، 865.

 

 

[105] المؤلّف نفسه، الإرشاد الرّسوليّ، فرح الإنجيل (24 تشرين الثّاني/نوفمبر 2013)، 180: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 105 (2013)، 1095.

 

 

[106] دائرة عقيدة الإيمان، تعليمات بشأن جوانب معيّنة من ”لاهوت التّحرير“ (6 آب/أغسطس 1984)، 11، 18: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 76 (1984)، 907-908.

 

 

[107] المؤتمر العام الخامس لأساقفة أمريكا اللاتينيّة ومنطقة البحر الكاريبي، وثيقة الأباريسيدا (29 حزيران/يونيو 2007)، رقم 392، بوغوتا 2007، صفحات 179-180. راجع بندكتس السّادس عشر، كلمة في الجلسة الافتتاحيّة لأعمال المؤتمر العام الخامس لأساقفة أمريكا اللاتينيّة ومنطقة البحر الكاريبي (13 أيّار/مايو 2007)، 3: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 99 (2007) 450.

 

 

[108] راجع المؤتمر العام الخامس لأساقفة أمريكا اللاتينيّة ومنطقة البحر الكاريبي، وثيقة الأباريسيدا (29 حزيران/يونيو 2007)، أرقام 43-87، صفحات 31-47.

 

 

[109] المؤلّف نفسه، الرّسالة الختاميّة (29 أيّار/مايو 2007)، رقم 4، بوغوتا 2007، 275.

 

 

[110] المؤلّف نفسه، وثيقة الأباريسيدا (29 حزيران/يونيو 2007)، رقم 398، 182.

 

 

[111] فرنسيس، الإرشاد الرّسوليّ، فرح الإنجيل (24 تشرين الثّاني/نوفمبر 2013)، 199: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 105 (2013)، 1103-1104.

 

 

[112] المرجع نفسه، 198: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 105 (2013)، 1103.

 

 

[113] المرجع نفسه.

 

 

[114] المؤتمر العام الخامس لأساقفة أمريكا اللاتينيّة ومنطقة البحر الكاريبي، وثيقة الأباريسيدا (29 حزيران/ يونيو 2007)، رقم 397، 182.

 

 

[115] فرنسيس، الرّسالة البابويّة العامّة، كلّنا إخوة (3 تشرين الأوّل/أكتوبر 2020)، 64: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 112 (2020)، 992.

 

 

[116] المؤلّف نفسه، الإرشاد الرسوليّ، اِفَرحوا وابتَهِجوا (19 آذار/مارس 2018)، 98: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 110 (2018)، 1137.

 

 

[117] المؤلّف نفسه، الرّسالة البابويّة العامّة، كلّنا إخوة (3 تشرين الأوّل/أكتوبر 2020)، 65-66: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 112 (2020)، 992.

 

 

[118] القدّيس غريغوريوس الكبير، العظة 40، 10: مصادر مسيحيّة 522، باريس 2008، 552-554.

 

 

[119] المرجع نفسه، 6: مصادر مسيحيّة 522، 546.

 

 

[120] المرجع نفسه، 3: مصادر مسيحيّة 522، 536.

 

 

[121] القدّيس يوحنّا بولس الثّاني، الرّسالة البابويّة العامّة، السّنة المئة-Centesimus annus (1 أيّار/مايو 1991)، 57: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 83 (1991)، 862-863.

 

 

[122] فرنسيس، عشيّة العنصرة مع حركات الجماعات الجديدة، والجمعيّات، والتّجمّعات العلمانيّة (18 أيّار/مايو 2013): L’Osservatore Romano، 20-21 أيّار/مايو 2013، 5.

 

 

[123] المؤلّف نفسه، الإرشاد الرّسوليّ، فرح الإنجيل (24 تشرين الثّاني/نوفمبر 2013)، 186: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 105 (2013)، 1098.

 

 

[124] المرجع نفسه، 188: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 105 (2013)، 1099.

 

 

[125] راجع المرجع نفسه، 182-183: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 105 (2013)، 1096-1097.

 

 

[126] المرجع نفسه، 207: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 105 (2013)، 1107.

 

 

[127] المرجع نفسه، 200: أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 105 (2013)، 1104.

 

 

[128] المؤلّف نفسه، كلمة في اللقاء مع عالم العمل في مؤسّسة ILVA في جينوا (27 أيّار/مايو 2017): أعمال الكرسيّ الرّسوليّ 109 (2017)، 613.

 

 

[129] يوحنّا الذّهبيّ الفم (المنحول)، عظة في الصّوم والصّدقة: مجموعة المؤلّفات لآباء الكنيسة اليونانيّة 48، 1060.

 

 

[130] القدّيس غريغوريوس النّازيانزي، الخطبة 14، 40: مجموعة المؤلّفات لآباء الكنيسة اليونانيّة 35، باريس 1886، 910.