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“Spes non confundit” - Bolla di Indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025, 09.05.2024


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SPES NON CONFUNDIT

Bolla di indizione
del Giubileo Ordinario
dell’Anno 2025

FRANCESCO

VESCOVO DI ROMA
SERVO DEI SERVI DI DIO
A QUANTI LEGGERANNO QUESTA LETTERA
LA SPERANZA RICOLMI IL CUORE

1. «Spes non confundit», «la speranza non delude» (Rm 5,5). Nel segno della speranza l’apostolo Paolo infonde coraggio alla comunità cristiana di Roma. La speranza è anche il messaggio centrale del prossimo Giubileo, che secondo antica tradizione il Papa indice ogni venticinque anni. Penso a tutti i pellegrini di speranza che giungeranno a Roma per vivere l’Anno Santo e a quanti, non potendo raggiungere la città degli apostoli Pietro e Paolo, lo celebreranno nelle Chiese particolari. Per tutti, possa essere un momento di incontro vivo e personale con il Signore Gesù, «porta» di salvezza (cfr. Gv 10,7.9); con Lui, che la Chiesa ha la missione di annunciare sempre, ovunque e a tutti quale «nostra speranza» (1Tm 1,1).

Tutti sperano. Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé. L’imprevedibilità del futuro, tuttavia, fa sorgere sentimenti a volte contrapposti: dalla fiducia al timore, dalla serenità allo sconforto, dalla certezza al dubbio. Incontriamo spesso persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità. Possa il Giubileo essere per tutti occasione di rianimare la speranza. La Parola di Dio ci aiuta a trovarne le ragioni. Lasciamoci condurre da quanto l’apostolo Paolo scrive proprio ai cristiani di Roma.

Una Parola di speranza

2. «Giustificati dunque per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. [...] La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,1-2.5). Sono molteplici gli spunti di riflessione che qui San Paolo propone. Sappiamo che la Lettera ai Romani segna un passaggio decisivo nella sua attività di evangelizzazione. Fino a quel momento l’ha svolta nell’area orientale dell’Impero e ora lo aspetta Roma, con quanto essa rappresenta agli occhi del mondo: una sfida grande, da affrontare in nome dell’annuncio del Vangelo, che non può conoscere barriere né confini. La Chiesa di Roma non è stata fondata da Paolo, e lui sente vivo il desiderio di raggiungerla presto, per portare a tutti il Vangelo di Gesù Cristo, morto e risorto, come annuncio della speranza che compie le promesse, introduce alla gloria e, fondata sull’amore, non delude.

3. La speranza, infatti, nasce dall’amore e si fonda sull’amore che scaturisce dal Cuore di Gesù trafitto sulla croce: «Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita» (Rm 5,10). E la sua vita si manifesta nella nostra vita di fede, che inizia con il Battesimo, si sviluppa nella docilità alla grazia di Dio ed è perciò animata dalla speranza, sempre rinnovata e resa incrollabile dall’azione dello Spirito Santo.

È infatti lo Spirito Santo, con la sua perenne presenza nel cammino della Chiesa, a irradiare nei credenti la luce della speranza: Egli la tiene accesa come una fiaccola che mai si spegne, per dare sostegno e vigore alla nostra vita. La speranza cristiana, in effetti, non illude e non delude, perché è fondata sulla certezza che niente e nessuno potrà mai separarci dall’amore divino: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? [...] Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,35.37-39). Ecco perché questa speranza non cede nelle difficoltà: essa si fonda sulla fede ed è nutrita dalla carità, e così permette di andare avanti nella vita. Sant’Agostino scrive in proposito: «In qualunque genere di vita, non si vive senza queste tre propensioni dell’anima: credere, sperare, amare».[1]

4. San Paolo è molto realista. Sa che la vita è fatta di gioie e di dolori, che l’amore viene messo alla prova quando aumentano le difficoltà e la speranza sembra crollare davanti alla sofferenza. Eppure scrive: «Ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza» (Rm 5,3-4). Per l’Apostolo, la tribolazione e la sofferenza sono le condizioni tipiche di quanti annunciano il Vangelo in contesti di incomprensione e di persecuzione (cfr. 2Cor 6,3-10). Ma in tali situazioni, attraverso il buio si scorge una luce: si scopre come a sorreggere l’evangelizzazione sia la forza che scaturisce dalla croce e dalla risurrezione di Cristo. E ciò porta a sviluppare una virtù strettamente imparentata con la speranza: la pazienza. Siamo ormai abituati a volere tutto e subito, in un mondo dove la fretta è diventata una costante. Non si ha più il tempo per incontrarsi e spesso anche nelle famiglie diventa difficile trovarsi insieme e parlare con calma. La pazienza è stata messa in fuga dalla fretta, recando un grave danno alle persone. Subentrano infatti l’insofferenza, il nervosismo, a volte la violenza gratuita, che generano insoddisfazione e chiusura.

Nell’epoca di internet, inoltre, dove lo spazio e il tempo sono soppiantati dal “qui ed ora”, la pazienza non è di casa. Se fossimo ancora capaci di guardare con stupore al creato, potremmo comprendere quanto decisiva sia la pazienza. Attendere l’alternarsi delle stagioni con i loro frutti; osservare la vita degli animali e i cicli del loro sviluppo; avere gli occhi semplici di San Francesco che nel suo Cantico delle creature, scritto proprio 800 anni fa, percepiva il creato come una grande famiglia e chiamava il sole “fratello” e la luna “sorella”.[2] Riscoprire la pazienza fa tanto bene a sé e agli altri. San Paolo fa spesso ricorso alla pazienza per sottolineare l’importanza della perseveranza e della fiducia in ciò che ci è stato promesso da Dio, ma anzitutto testimonia che Dio è paziente con noi, Lui che è «il Dio della perseveranza e della consolazione» (Rm 15,5). La pazienza, frutto anch’essa dello Spirito Santo, tiene viva la speranza e la consolida come virtù e stile di vita. Pertanto, impariamo a chiedere spesso la grazia della pazienza, che è figlia della speranza e nello stesso tempo la sostiene.

Un cammino di speranza

5. Da questo intreccio di speranza e pazienza appare chiaro come la vita cristiana sia un cammino, che ha bisogno anche di momenti forti per nutrire e irrobustire la speranza, insostituibile compagna che fa intravedere la meta: l’incontro con il Signore Gesù. Mi piace pensare che un percorso di grazia, animato dalla spiritualità popolare, abbia preceduto l’indizione, nel 1300, del primo Giubileo. Non possiamo infatti dimenticare le varie forme attraverso cui la grazia del perdono si è riversata con abbondanza sul santo Popolo fedele di Dio. Ricordiamo, ad esempio, la grande “perdonanza” che San Celestino V volle concedere a quanti si recavano nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio, a L’Aquila, nei giorni 28 e 29 agosto 1294, sei anni prima che Papa Bonifacio VIII istituisse l’Anno Santo. La Chiesa già sperimentava, dunque, la grazia giubilare della misericordia. E ancora prima, nel 1216, Papa Onorio III aveva accolto la supplica di San Francesco che chiedeva l’indulgenza per quanti avrebbero visitato la Porziuncola nei primi due giorni di agosto. Lo stesso si può affermare per il pellegrinaggio a Santiago di Compostela: infatti Papa Callisto II, nel 1122, concesse di celebrare il Giubileo in quel Santuario ogni volta che la festa dell’apostolo Giacomo cadeva di domenica. È bene che tale modalità “diffusa” di celebrazioni giubilari continui, così che la forza del perdono di Dio sostenga e accompagni il cammino delle comunità e delle persone.

Non a caso il pellegrinaggio esprime un elemento fondamentale di ogni evento giubilare. Mettersi in cammino è tipico di chi va alla ricerca del senso della vita. Il pellegrinaggio a piedi favorisce molto la riscoperta del valore del silenzio, della fatica, dell’essenzialità. Anche nel prossimo anno i pellegrini di speranza non mancheranno di percorrere vie antiche e moderne per vivere intensamente l’esperienza giubilare. Nella stessa città di Roma, inoltre, saranno presenti itinerari di fede, in aggiunta a quelli tradizionali delle catacombe e delle Sette Chiese. Transitare da un Paese all’altro, come se i confini fossero superati, passare da una città all’altra nella contemplazione del creato e delle opere d’arte permetterà di fare tesoro di esperienze e culture differenti, per portare dentro di sé la bellezza che, armonizzata dalla preghiera, conduce a ringraziare Dio per le meraviglie da Lui compiute. Le chiese giubilari, lungo i percorsi e nell’Urbe, potranno essere oasi di spiritualità dove ristorare il cammino della fede e abbeverarsi alle sorgenti della speranza, anzitutto accostandosi al Sacramento della Riconciliazione, insostituibile punto di partenza di un reale cammino di conversione. Nelle Chiese particolari si curi in modo speciale la preparazione dei sacerdoti e dei fedeli alle Confessioni e l’accessibilità al sacramento nella forma individuale.

A questo pellegrinaggio un invito particolare voglio rivolgere ai fedeli delle Chiese Orientali, in particolare a coloro che sono già in piena comunione con il Successore di Pietro. Essi, che hanno tanto sofferto, spesso fino alla morte, per la loro fedeltà a Cristo e alla Chiesa, si devono sentire particolarmente benvenuti in questa Roma che è Madre anche per loro e che custodisce tante memorie della loro presenza. La Chiesa Cattolica, che è arricchita dalle loro antichissime liturgie, dalla teologia e dalla spiritualità dei Padri, monaci e teologi, vuole esprimere simbolicamente l’accoglienza loro e dei loro fratelli e sorelle ortodossi, in un’epoca in cui già vivono il pellegrinaggio della Via Crucis, con cui sono spesso costretti a lasciare le loro terre d’origine, le loro terre sante, da cui li scacciano verso Paesi più sicuri la violenza e l’instabilità. Per loro la speranza di essere amati dalla Chiesa, che non li abbandonerà, ma li seguirà dovunque andranno, rende ancora più forte il segno del Giubileo.

6. L’Anno Santo 2025 si pone in continuità con i precedenti eventi di grazia. Nell’ultimo Giubileo Ordinario si è varcata la soglia dei duemila anni della nascita di Gesù Cristo. In seguito, il 13 marzo 2015, ho indetto un Giubileo Straordinario con lo scopo di manifestare e permettere di incontrare il “Volto della misericordia” di Dio,[3] annuncio centrale del Vangelo per ogni persona in ogni epoca. Ora è giunto il tempo di un nuovo Giubileo, nel quale spalancare ancora la Porta Santa per offrire l’esperienza viva dell’amore di Dio, che suscita nel cuore la speranza certa della salvezza in Cristo. Nello stesso tempo, questo Anno Santo orienterà il cammino verso un’altra ricorrenza fondamentale per tutti i cristiani: nel 2033, infatti, si celebreranno i duemila anni della Redenzione compiuta attraverso la passione, morte e risurrezione del Signore Gesù. Siamo così dinanzi a un percorso segnato da grandi tappe, nelle quali la grazia di Dio precede e accompagna il popolo che cammina zelante nella fede, operoso nella carità e perseverante nella speranza (cfr. 1Ts 1,3).

Sostenuto da una così lunga tradizione e nella certezza che questo Anno giubilare potrà essere per tutta la Chiesa un’intensa esperienza di grazia e di speranza, stabilisco che la Porta Santa della Basilica di San Pietro in Vaticano sia aperta il 24 dicembre del presente anno 2024, dando così inizio al Giubileo Ordinario. La domenica successiva, 29 dicembre 2024, aprirò la Porta Santa della mia cattedrale di San Giovanni in Laterano, che il 9 novembre di quest’anno celebrerà i 1700 anni della dedicazione. A seguire, il 1° gennaio 2025, Solennità di Maria Santissima Madre di Dio, verrà aperta la Porta Santa della Basilica papale di Santa Maria Maggiore. Infine, domenica 5 gennaio sarà aperta la Porta Santa della Basilica papale di San Paolo fuori le Mura. Queste ultime tre Porte Sante saranno chiuse entro domenica 28 dicembre dello stesso anno.

Stabilisco inoltre che domenica 29 dicembre 2024, in tutte le cattedrali e concattedrali, i Vescovi diocesani celebrino la santa Eucaristia come solenne apertura dell’Anno giubilare, secondo il Rituale che verrà predisposto per l’occasione. Per la celebrazione nella chiesa concattedrale, il Vescovo potrà essere sostituito da un suo Delegato appositamente designato. Il pellegrinaggio da una chiesa, scelta per la collectio, verso la cattedrale sia il segno del cammino di speranza che, illuminato dalla Parola di Dio, accomuna i credenti. In esso si dia lettura di alcuni brani del presente Documento e si annunci al popolo l’Indulgenza Giubilare, che potrà essere ottenuta secondo le prescrizioni contenute nel medesimo Rituale per la celebrazione del Giubileo nelle Chiese particolari. Durante l’Anno Santo, che nelle Chiese particolari terminerà domenica 28 dicembre 2025, si abbia cura che il Popolo di Dio possa accogliere con piena partecipazione sia l’annuncio di speranza della grazia di Dio sia i segni che ne attestano l’efficacia.

Il Giubileo Ordinario terminerà con la chiusura della Porta Santa della Basilica papale di San Pietro in Vaticano il 6 gennaio 2026, Epifania del Signore. Possa la luce della speranza cristiana raggiungere ogni persona, come messaggio dell’amore di Dio rivolto a tutti! E possa la Chiesa essere testimone fedele di questo annuncio in ogni parte del mondo!

Segni di speranza

7. Oltre ad attingere la speranza nella grazia di Dio, siamo chiamati a riscoprirla anche nei segni dei tempi che il Signore ci offre. Come afferma il Concilio Vaticano II, «è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche».[4] È necessario, quindi, porre attenzione al tanto bene che è presente nel mondo per non cadere nella tentazione di ritenerci sopraffatti dal male e dalla violenza. Ma i segni dei tempi, che racchiudono l’anelito del cuore umano, bisognoso della presenza salvifica di Dio, chiedono di essere trasformati in segni di speranza.

8. Il primo segno di speranza si traduca in pace per il mondo, che ancora una volta si trova immerso nella tragedia della guerra. Immemore dei drammi del passato, l’umanità è sottoposta a una nuova e difficile prova che vede tante popolazioni oppresse dalla brutalità della violenza. Cosa manca ancora a questi popoli che già non abbiano subito? Com’è possibile che il loro grido disperato di aiuto non spinga i responsabili delle Nazioni a voler porre fine ai troppi conflitti regionali, consapevoli delle conseguenze che ne possono derivare a livello mondiale? È troppo sognare che le armi tacciano e smettano di portare distruzione e morte? Il Giubileo ricordi che quanti si fanno «operatori di pace saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). L’esigenza della pace interpella tutti e impone di perseguire progetti concreti. Non venga a mancare l’impegno della diplomazia per costruire con coraggio e creatività spazi di trattativa finalizzati a una pace duratura.

9. Guardare al futuro con speranza equivale anche ad avere una visione della vita carica di entusiasmo da trasmettere. Purtroppo, dobbiamo constatare con tristezza che in tante situazioni tale prospettiva viene a mancare. La prima conseguenza è la perdita del desiderio di trasmettere la vita. A causa dei ritmi di vita frenetici, dei timori riguardo al futuro, della mancanza di garanzie lavorative e tutele sociali adeguate, di modelli sociali in cui a dettare l’agenda è la ricerca del profitto anziché la cura delle relazioni, si assiste in vari Paesi a un preoccupante calo della natalità. Al contrario, in altri contesti, «incolpare l’incremento demografico e non il consumismo estremo e selettivo di alcuni, è un modo per non affrontare i problemi».[5]

L’apertura alla vita con una maternità e paternità responsabile è il progetto che il Creatore ha inscritto nel cuore e nel corpo degli uomini e delle donne, una missione che il Signore affida agli sposi e al loro amore. È urgente che, oltre all’impegno legislativo degli Stati, non venga a mancare il sostegno convinto delle comunità credenti e dell’intera comunità civile in tutte le sue componenti, perché il desiderio dei giovani di generare nuovi figli e figlie, come frutto della fecondità del loro amore, dà futuro ad ogni società ed è questione di speranza: dipende dalla speranza e genera speranza.

La comunità cristiana perciò non può essere seconda a nessuno nel sostenere la necessità di un’alleanza sociale per la speranza, che sia inclusiva e non ideologica, e lavori per un avvenire segnato dal sorriso di tanti bambini e bambine che vengano a riempire le ormai troppe culle vuote in molte parti del mondo. Ma tutti, in realtà, hanno bisogno di recuperare la gioia di vivere, perché l’essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio (cfr. Gen 1,26), non può accontentarsi di sopravvivere o vivacchiare, di adeguarsi al presente lasciandosi soddisfare da realtà soltanto materiali. Ciò rinchiude nell’individualismo e corrode la speranza, generando una tristezza che si annida nel cuore, rendendo acidi e insofferenti.

10. Nell’Anno giubilare saremo chiamati ad essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio. Penso ai detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto. Propongo ai Governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi.

È un richiamo antico, che proviene dalla Parola di Dio e permane con tutto il suo valore sapienziale nell’invocare atti di clemenza e di liberazione che permettano di ricominciare: «Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti» (Lv 25,10). Quanto stabilito dalla Legge mosaica è ripreso dal profeta Isaia: «Il Signore mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore» (Is 61,1-2). Sono le parole che Gesù ha fatto proprie all’inizio del suo ministero, dichiarando in sé stesso il compimento dell’“anno di grazia del Signore” (cfr. Lc 4,18-19). In ogni angolo della terra, i credenti, specialmente i Pastori, si facciano interpreti di tali istanze, formando una voce sola che chieda con coraggio condizioni dignitose per chi è recluso, rispetto dei diritti umani e soprattutto l’abolizione della pena di morte, provvedimento contrario alla fede cristiana e che annienta ogni speranza di perdono e di rinnovamento.[6] Per offrire ai detenuti un segno concreto di vicinanza, io stesso desidero aprire una Porta Santa in un carcere, perché sia per loro un simbolo che invita a guardare all’avvenire con speranza e con rinnovato impegno di vita.

11. Segni di speranza andranno offerti agli ammalati, che si trovano a casa o in ospedale. Le loro sofferenze possano trovare sollievo nella vicinanza di persone che li visitano e nell’affetto che ricevono. Le opere di misericordia sono anche opere di speranza, che risvegliano nei cuori sentimenti di gratitudine. E la gratitudine raggiunga tutti gli operatori sanitari che, in condizioni non di rado difficili, esercitano la loro missione con cura premurosa per le persone malate e più fragili.

Non manchi l’attenzione inclusiva verso quanti, trovandosi in condizioni di vita particolarmente faticose, sperimentano la propria debolezza, specialmente se affetti da patologie o disabilità che limitano molto l’autonomia personale. La cura per loro è un inno alla dignità umana, un canto di speranza che richiede la coralità della società intera.

12. Di segni di speranza hanno bisogno anche coloro che in sé stessi la rappresentano: i giovani. Essi, purtroppo, vedono spesso crollare i loro sogni. Non possiamo deluderli: sul loro entusiasmo si fonda l’avvenire. È bello vederli sprigionare energie, ad esempio quando si rimboccano le maniche e si impegnano volontariamente nelle situazioni di calamità e di disagio sociale. Ma è triste vedere giovani privi di speranza; d’altronde, quando il futuro è incerto e impermeabile ai sogni, quando lo studio non offre sbocchi e la mancanza di un lavoro o di un’occupazione sufficientemente stabile rischiano di azzerare i desideri, è inevitabile che il presente sia vissuto nella malinconia e nella noia. L’illusione delle droghe, il rischio della trasgressione e la ricerca dell’effimero creano in loro più che in altri confusione e nascondono la bellezza e il senso della vita, facendoli scivolare in baratri oscuri e spingendoli a compiere gesti autodistruttivi. Per questo il Giubileo sia nella Chiesa occasione di slancio nei loro confronti: con una rinnovata passione prendiamoci cura dei ragazzi, degli studenti, dei fidanzati, delle giovani generazioni! Vicinanza ai giovani, gioia e speranza della Chiesa e del mondo!

13. Non potranno mancare segni di speranza nei riguardi dei migranti, che abbandonano la loro terra alla ricerca di una vita migliore per sé stessi e per le loro famiglie. Le loro attese non siano vanificate da pregiudizi e chiusure; l’accoglienza, che spalanca le braccia ad ognuno secondo la sua dignità, si accompagni con la responsabilità, affinché a nessuno sia negato il diritto di costruire un futuro migliore. Ai tanti esuli, profughi e rifugiati, che le controverse vicende internazionali obbligano a fuggire per evitare guerre, violenze e discriminazioni, siano garantiti la sicurezza e l’accesso al lavoro e all’istruzione, strumenti necessari per il loro inserimento nel nuovo contesto sociale.

La comunità cristiana sia sempre pronta a difendere il diritto dei più deboli. Spalanchi con generosità le porte dell’accoglienza, perché a nessuno venga mai a mancare la speranza di una vita migliore. Risuoni nei cuori la Parola del Signore che, nella grande parabola del giudizio finale, ha detto: «Ero straniero e mi avete accolto», perché «tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me» (Mt 25,35.40).

14. Segni di speranza meritano gli anziani, che spesso sperimentano solitudine e senso di abbandono. Valorizzare il tesoro che sono, la loro esperienza di vita, la sapienza di cui sono portatori e il contributo che sono in grado di offrire, è un impegno per la comunità cristiana e per la società civile, chiamate a lavorare insieme per l’alleanza tra le generazioni.

Un pensiero particolare rivolgo ai nonni e alle nonne, che rappresentano la trasmissione della fede e della saggezza di vita alle generazioni più giovani. Siano sostenuti dalla gratitudine dei figli e dall’amore dei nipoti, che trovano in loro radicamento, comprensione e incoraggiamento.

15. Speranza invoco in modo accorato per i miliardi di poveri, che spesso mancano del necessario per vivere. Di fronte al susseguirsi di sempre nuove ondate di impoverimento, c’è il rischio di abituarsi e rassegnarsi. Ma non possiamo distogliere lo sguardo da situazioni tanto drammatiche, che si riscontrano ormai ovunque, non soltanto in determinate aree del mondo. Incontriamo persone povere o impoverite ogni giorno e a volte possono essere nostre vicine di casa. Spesso non hanno un’abitazione, né il cibo adeguato per la giornata. Soffrono l’esclusione e l’indifferenza di tanti. È scandaloso che, in un mondo dotato di enormi risorse, destinate in larga parte agli armamenti, i poveri siano «la maggior parte […], miliardi di persone. Oggi sono menzionati nei dibattiti politici ed economici internazionali, ma per lo più sembra che i loro problemi si pongano come un’appendice, come una questione che si aggiunga quasi per obbligo o in maniera periferica, se non li si considera un mero danno collaterale. Di fatto, al momento dell’attuazione concreta, rimangono frequentemente all’ultimo posto».[7] Non dimentichiamo: i poveri, quasi sempre, sono vittime, non colpevoli.

Appelli per la speranza

16. Facendo eco alla parola antica dei profeti, il Giubileo ricorda che i beni della Terra non sono destinati a pochi privilegiati, ma a tutti. È necessario che quanti possiedono ricchezze si facciano generosi, riconoscendo il volto dei fratelli nel bisogno. Penso in particolare a coloro che mancano di acqua e di cibo: la fame è una piaga scandalosa nel corpo della nostra umanità e invita tutti a un sussulto di coscienza. Rinnovo l’appello affinché «con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame e per lo sviluppo dei Paesi più poveri, così che i loro abitanti non ricorrano a soluzioni violente o ingannevoli e non siano costretti ad abbandonare i loro Paesi per cercare una vita più dignitosa».[8]

Un altro invito accorato desidero rivolgere in vista dell’Anno giubilare: è destinato alle Nazioni più benestanti, perché riconoscano la gravità di tante decisioni prese e stabiliscano di condonare i debiti di Paesi che mai potrebbero ripagarli. Prima che di magnanimità, è una questione di giustizia, aggravata oggi da una nuova forma di iniquità di cui ci siamo resi consapevoli: «C’è infatti un vero “debito ecologico”, soprattutto tra il Nord e il Sud, connesso a squilibri commerciali con conseguenze in ambito ecologico, come pure all’uso sproporzionato delle risorse naturali compiuto storicamente da alcuni Paesi».[9] Come insegna la Sacra Scrittura, la terra appartiene a Dio e noi tutti vi abitiamo come «forestieri e ospiti» (Lv 25,23). Se veramente vogliamo preparare nel mondo la via della pace, impegniamoci a rimediare alle cause remote delle ingiustizie, ripianiamo i debiti iniqui e insolvibili, saziamo gli affamati.

17. Durante il prossimo Giubileo cadrà una ricorrenza molto significativa per tutti i cristiani. Si compiranno, infatti, 1700 anni dalla celebrazione del primo grande Concilio Ecumenico, quello di Nicea. È bene ricordare che, fin dai tempi apostolici, i Pastori si riunirono in diverse occasioni in assemblee allo scopo di trattare tematiche dottrinali e questioni disciplinari. Nei primi secoli della fede i Sinodi si moltiplicarono sia nell’Oriente sia nell’Occidente cristiano, mostrando quanto fosse importante custodire l’unità del Popolo di Dio e l’annuncio fedele del Vangelo. L’Anno giubilare potrà essere un’opportunità importante per dare concretezza a questa forma sinodale, che la comunità cristiana avverte oggi come espressione sempre più necessaria per meglio corrispondere all’urgenza dell’evangelizzazione: tutti i battezzati, ognuno con il proprio carisma e ministero, corresponsabili affinché molteplici segni di speranza testimonino la presenza di Dio nel mondo.

Il Concilio di Nicea ebbe il compito di preservare l’unità, seriamente minacciata dalla negazione della divinità di Gesù Cristo e della sua uguaglianza con il Padre. Erano presenti circa trecento Vescovi, che si riunirono nel palazzo imperiale convocati su impulso dell’imperatore Costantino il 20 maggio 325. Dopo vari dibattimenti, tutti, con la grazia dello Spirito, si riconobbero nel Simbolo di fede che ancora oggi professiamo nella Celebrazione eucaristica domenicale. I Padri conciliari vollero iniziare quel Simbolo utilizzando per la prima volta l’espressione «Noi crediamo»,[10] a testimonianza che in quel “Noi” tutte le Chiese si ritrovavano in comunione, e tutti i cristiani professavano la medesima fede.

Il Concilio di Nicea è una pietra miliare nella storia della Chiesa. L’anniversario della sua ricorrenza invita i cristiani a unirsi nella lode e nel ringraziamento alla Santissima Trinità e in particolare a Gesù Cristo, il Figlio di Dio, «della stessa sostanza del Padre»,[11] che ci ha rivelato tale mistero di amore. Ma Nicea rappresenta anche un invito a tutte le Chiese e Comunità ecclesiali a procedere nel cammino verso l’unità visibile, a non stancarsi di cercare forme adeguate per corrispondere pienamente alla preghiera di Gesù: «Perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21).

Al Concilio di Nicea si trattò anche della datazione della Pasqua. A tale riguardo, vi sono ancora oggi posizioni differenti, che impediscono di celebrare nello stesso giorno l’evento fondante della fede. Per una provvidenziale circostanza, ciò avverrà proprio nell’Anno 2025. Possa essere questo un appello per tutti i cristiani d’Oriente e d’Occidente a compiere un passo deciso verso l’unità intorno a una data comune per la Pasqua. Molti, è bene ricordarlo, non hanno più cognizione delle diatribe del passato e non comprendono come possano sussistere divisioni a tale proposito.

Ancorati alla speranza

18. La speranza, insieme alla fede e alla carità, forma il trittico delle “virtù teologali”, che esprimono l’essenza della vita cristiana (cfr. 1Cor 13,13; 1Ts 1,3). Nel loro dinamismo inscindibile, la speranza è quella che, per così dire, imprime l’orientamento, indica la direzione e la finalità dell’esistenza credente. Perciò l’apostolo Paolo invita ad essere «lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera» (Rm 12,12). Sì, abbiamo bisogno di «abbondare nella speranza» (cfr. Rm 15,13) per testimoniare in modo credibile e attraente la fede e l’amore che portiamo nel cuore; perché la fede sia gioiosa, la carità entusiasta; perché ognuno sia in grado di donare anche solo un sorriso, un gesto di amicizia, uno sguardo fraterno, un ascolto sincero, un servizio gratuito, sapendo che, nello Spirito di Gesù, ciò può diventare per chi lo riceve un seme fecondo di speranza. Ma qual è il fondamento del nostro sperare? Per comprenderlo è bene soffermarci sulle ragioni della nostra speranza (cfr. 1Pt 3,15).

19. «Credo la vita eterna»:[12] così professa la nostra fede e la speranza cristiana trova in queste parole un cardine fondamentale. Essa, infatti, «è la virtù teologale per la quale desideriamo […] la vita eterna come nostra felicità».[13] Il Concilio Ecumenico Vaticano II afferma: «Se manca la base religiosa e la speranza della vita eterna, la dignità umana viene lesa in maniera assai grave, come si constata spesso al giorno d’oggi, e gli enigmi della vita e della morte, della colpa e del dolore rimangono senza soluzione, tanto che non di rado gli uomini sprofondano nella disperazione».[14] Noi, invece, in virtù della speranza nella quale siamo stati salvati, guardando al tempo che scorre, abbiamo la certezza che la storia dell’umanità e quella di ciascuno di noi non corrono verso un punto cieco o un baratro oscuro, ma sono orientate all’incontro con il Signore della gloria. Viviamo dunque nell’attesa del suo ritorno e nella speranza di vivere per sempre in Lui: è con questo spirito che facciamo nostra la commossa invocazione dei primi cristiani, con la quale termina la Sacra Scrittura: «Vieni, Signore Gesù!» (Ap 22,20).

20. Gesù morto e risorto è il cuore della nostra fede. San Paolo, nell’enunciare in poche parole, utilizzando solo quattro verbi, tale contenuto, ci trasmette il “nucleo” della nostra speranza: «A voi […] ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1Cor 15,3-5). Cristo morì, fu sepolto, è risorto, apparve. Per noi è passato attraverso il dramma della morte. L’amore del Padre lo ha risuscitato nella forza dello Spirito, facendo della sua umanità la primizia dell’eternità per la nostra salvezza. La speranza cristiana consiste proprio in questo: davanti alla morte, dove tutto sembra finire, si riceve la certezza che, grazie a Cristo, alla sua grazia che ci è stata comunicata nel Battesimo, «la vita non è tolta, ma trasformata»,[15] per sempre. Nel Battesimo, infatti, sepolti insieme con Cristo, riceviamo in Lui risorto il dono di una vita nuova, che abbatte il muro della morte, facendo di essa un passaggio verso l’eternità.

E se di fronte alla morte, dolorosa separazione che costringe a lasciare gli affetti più cari, non è consentita alcuna retorica, il Giubileo ci offrirà l’opportunità di riscoprire, con immensa gratitudine, il dono di quella vita nuova ricevuta nel Battesimo in grado di trasfigurarne il dramma. È significativo ripensare, nel contesto giubilare, a come tale mistero sia stato compreso fin dai primi secoli della fede. Per lungo tempo, ad esempio, i cristiani hanno costruito la vasca battesimale a forma ottagonale, e ancora oggi possiamo ammirare molti battisteri antichi che conservano tale forma, come a Roma presso San Giovanni in Laterano. Essa indica che nel fonte battesimale viene inaugurato l’ottavo giorno, cioè quello della risurrezione, il giorno che va oltre il ritmo abituale, segnato dalla scadenza settimanale, aprendo così il ciclo del tempo alla dimensione dell’eternità, alla vita che dura per sempre: questo è il traguardo a cui tendiamo nel nostro pellegrinaggio terreno (cfr. Rm 6,22).

La testimonianza più convincente di tale speranza ci viene offerta dai martiri, che, saldi nella fede in Cristo risorto, hanno saputo rinunciare alla vita stessa di quaggiù pur di non tradire il loro Signore. Essi sono presenti in tutte le epoche e sono numerosi, forse più che mai, ai nostri giorni, quali confessori della vita che non conosce fine. Abbiamo bisogno di custodire la loro testimonianza per rendere feconda la nostra speranza.

Questi martiri, appartenenti alle diverse tradizioni cristiane, sono anche semi di unità perché esprimono l’ecumenismo del sangue. Durante il Giubileo pertanto è mio vivo desiderio che non manchi una celebrazione ecumenica in modo da rendere evidente la ricchezza della testimonianza di questi martiri.

21. Cosa sarà dunque di noi dopo la morte? Con Gesù al di là di questa soglia c’è la vita eterna, che consiste nella comunione piena con Dio, nella contemplazione e partecipazione del suo amore infinito. Quanto adesso viviamo nella speranza, allora lo vedremo nella realtà. Sant’Agostino in proposito scriveva: «Quando mi sarò unito a te con tutto me stesso, non esisterà per me dolore e pena dovunque. Sarà vera vita la mia vita, tutta piena di te».[16] Cosa caratterizzerà dunque tale pienezza di comunione? L’essere felici. La felicità è la vocazione dell’essere umano, un traguardo che riguarda tutti.

Ma che cos’è la felicità? Quale felicità attendiamo e desideriamo? Non un’allegria passeggera, una soddisfazione effimera che, una volta raggiunta, chiede ancora e sempre di più, in una spirale di avidità in cui l’animo umano non è mai sazio, ma sempre più vuoto. Abbiamo bisogno di una felicità che si compia definitivamente in quello che ci realizza, ovvero nell’amore, così da poter dire, già ora: «Sono amato, dunque esisto; ed esisterò per sempre nell’Amore che non delude e dal quale niente e nessuno potrà mai separarmi». Ricordiamo ancora le parole dell’Apostolo: «Io sono […] persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,38-39).

22. Un’altra realtà connessa con la vita eterna è il giudizio di Dio, sia al termine della nostra esistenza che alla fine dei tempi. L’arte ha spesso cercato di rappresentarlo – pensiamo al capolavoro di Michelangelo nella Cappella Sistina – accogliendo la concezione teologica del tempo e trasmettendo in chi osserva un senso di timore. Se è giusto disporci con grande consapevolezza e serietà al momento che ricapitola l’esistenza, al tempo stesso è necessario farlo sempre nella dimensione della speranza, virtù teologale che sostiene la vita e permette di non cadere nella paura. Il giudizio di Dio, che è amore (cfr. 1Gv 4,8.16), non potrà che basarsi sull’amore, in special modo su quanto lo avremo o meno praticato nei riguardi dei più bisognosi, nei quali Cristo, il Giudice stesso, è presente (cfr. Mt 25,31-46). Si tratta pertanto di un giudizio diverso da quello degli uomini e dei tribunali terreni; va compreso come una relazione di verità con Dio-amore e con sé stessi all’interno del mistero insondabile della misericordia divina. La Sacra Scrittura afferma in proposito: «Hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento […] e ci aspettiamo misericordia, quando siamo giudicati» (Sap 12,19.22). Come scriveva Benedetto XVI, «nel momento del Giudizio sperimentiamo ed accogliamo questo prevalere del suo amore su tutto il male nel mondo e in noi. Il dolore dell’amore diventa la nostra salvezza e la nostra gioia».[17]

Il giudizio, quindi, riguarda la salvezza nella quale speriamo e che Gesù ci ha ottenuto con la sua morte e risurrezione. Esso, pertanto, è volto ad aprire all’incontro definitivo con Lui. E poiché in tale contesto non si può pensare che il male compiuto rimanga nascosto, esso ha bisogno di venire purificato, per consentirci il passaggio definitivo nell’amore di Dio. Si comprende in tal senso la necessità di pregare per quanti hanno concluso il cammino terreno, solidarietà nell’intercessione orante che rinviene la propria efficacia nella comunione dei santi, nel comune vincolo che ci unisce in Cristo, primogenito della creazione. Così l’indulgenza giubilare, in forza della preghiera, è destinata in modo particolare a quanti ci hanno preceduto, perché ottengano piena misericordia.

23. L’indulgenza, infatti, permette di scoprire quanto sia illimitata la misericordia di Dio. Non è un caso che nell’antichità il termine “misericordia” fosse interscambiabile con quello di “indulgenza”, proprio perché esso intende esprimere la pienezza del perdono di Dio che non conosce confini.

Il Sacramento della Penitenza ci assicura che Dio cancella i nostri peccati. Ritornano con la loro carica di consolazione le parole del Salmo: «Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità, salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà e misericordia. […] Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. […] Non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe. Perché quanto il cielo è alto sulla terra, così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono; quanto dista l’oriente dall’occidente, così allontana da noi le nostre colpe» (Sal 103,3-4.8.10-12). La Riconciliazione sacramentale non è solo una bella opportunità spirituale, ma rappresenta un passo decisivo, essenziale e irrinunciabile per il cammino di fede di ciascuno. Lì permettiamo al Signore di distruggere i nostri peccati, di risanarci il cuore, di rialzarci e di abbracciarci, di farci conoscere il suo volto tenero e compassionevole. Non c’è infatti modo migliore per conoscere Dio che lasciarsi riconciliare da Lui (cfr. 2Cor 5,20), assaporando il suo perdono. Non rinunciamo dunque alla Confessione, ma riscopriamo la bellezza del sacramento della guarigione e della gioia, la bellezza del perdono dei peccati!

Tuttavia, come sappiamo per esperienza personale, il peccato “lascia il segno”, porta con sé delle conseguenze: non solo esteriori, in quanto conseguenze del male commesso, ma anche interiori, in quanto «ogni peccato, anche veniale, provoca un attaccamento malsano alle creature, che ha bisogno di purificazione, sia quaggiù, sia dopo la morte, nello stato chiamato purgatorio».[18] Dunque permangono, nella nostra umanità debole e attratta dal male, dei “residui del peccato”. Essi vengono rimossi dall’indulgenza, sempre per la grazia di Cristo, il quale, come scrisse San Paolo VI, è «la nostra “indulgenza”».[19] La Penitenzieria Apostolica provvederà ad emanare le disposizioni per poter ottenere e rendere effettiva la pratica dell’Indulgenza Giubilare.

Tale esperienza piena di perdono non può che aprire il cuore e la mente a perdonare. Perdonare non cambia il passato, non può modificare ciò che è già avvenuto; e, tuttavia, il perdono può permettere di cambiare il futuro e di vivere in modo diverso, senza rancore, livore e vendetta. Il futuro rischiarato dal perdono consente di leggere il passato con occhi diversi, più sereni, seppure ancora solcati da lacrime.

Nello scorso Giubileo Straordinario ho istituito i Missionari della Misericordia, che continuano a svolgere un’importante missione. Possano anche durante il prossimo Giubileo esercitare il loro ministero, restituendo speranza e perdonando ogni volta che un peccatore si rivolge a loro con cuore aperto e animo pentito. Continuino ad essere strumenti di riconciliazione e aiutino a guardare l’avvenire con la speranza del cuore che proviene dalla misericordia del Padre. Auspico che i Vescovi possano avvalersi del loro prezioso servizio, specialmente inviandoli laddove la speranza è messa a dura prova, come nelle carceri, negli ospedali e nei luoghi in cui la dignità della persona viene calpestata, nelle situazioni più disagiate e nei contesti di maggior degrado, perché nessuno sia privo della possibilità di ricevere il perdono e la consolazione di Dio.

24. La speranza trova nella Madre di Dio la più alta testimone. In lei vediamo come la speranza non sia fatuo ottimismo, ma dono di grazia nel realismo della vita. Come ogni mamma, tutte le volte che guardava al Figlio pensava al suo futuro, e certamente nel cuore restavano scolpite quelle parole che Simeone le aveva rivolto nel tempio: «Egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima» (Lc 2,34-35). E ai piedi della croce, mentre vedeva Gesù innocente soffrire e morire, pur attraversata da un dolore straziante, ripeteva il suo “sì”, senza perdere la speranza e la fiducia nel Signore. In tal modo ella cooperava per noi al compimento di quanto suo Figlio aveva detto, annunciando che avrebbe dovuto «soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere» (Mc 8,31), e nel travaglio di quel dolore offerto per amore diventava Madre nostra, Madre della speranza. Non è un caso che la pietà popolare continui a invocare la Vergine Santa come Stella maris, un titolo espressivo della speranza certa che nelle burrascose vicende della vita la Madre di Dio viene in nostro aiuto, ci sorregge e ci invita ad avere fiducia e a continuare a sperare.

In proposito, mi piace ricordare che il Santuario di Nostra Signora di Guadalupe, a Città del Messico, si sta preparando a celebrare, nel 2031, i 500 anni dalla prima apparizione della Vergine. Attraverso il giovane Juan Diego la Madre di Dio faceva giungere un rivoluzionario messaggio di speranza che anche oggi ripete a tutti i pellegrini e ai fedeli: «Non sto forse qui io, che sono tua madre?».[20] Un messaggio simile viene impresso nei cuori in tanti Santuari mariani sparsi nel mondo, mete di numerosi pellegrini, che affidano alla Madre di Dio preoccupazioni, dolori e attese. In questo Anno giubilare i Santuari siano luoghi santi di accoglienza e spazi privilegiati per generare speranza. Invito i pellegrini che verranno a Roma a fare una sosta di preghiera nei Santuari mariani della città per venerare la Vergine Maria e invocare la sua protezione. Sono fiducioso che tutti, specialmente quanti soffrono e sono tribolati, potranno sperimentare la vicinanza della più affettuosa delle mamme, che mai abbandona i suoi figli, lei che per il santo Popolo di Dio è «segno di sicura speranza e di consolazione».[21]

25. In cammino verso il Giubileo, ritorniamo alla Sacra Scrittura e sentiamo rivolte a noi queste parole: «Noi, che abbiamo cercato rifugio in lui, abbiamo un forte incoraggiamento ad afferrarci saldamente alla speranza che ci è proposta. In essa infatti abbiamo come un’àncora sicura e salda per la nostra vita: essa entra fino al di là del velo del santuario, dove Gesù è entrato come precursore per noi» (Eb 6,18-20). È un invito forte a non perdere mai la speranza che ci è stata donata, a tenerla stretta trovando rifugio in Dio.

L’immagine dell’àncora è suggestiva per comprendere la stabilità e la sicurezza che, in mezzo alle acque agitate della vita, possediamo se ci affidiamo al Signore Gesù. Le tempeste non potranno mai avere la meglio, perché siamo ancorati alla speranza della grazia, capace di farci vivere in Cristo superando il peccato, la paura e la morte. Questa speranza, ben più grande delle soddisfazioni di ogni giorno e dei miglioramenti delle condizioni di vita, ci trasporta al di là delle prove e ci esorta a camminare senza perdere di vista la grandezza della meta alla quale siamo chiamati, il Cielo.

Il prossimo Giubileo, dunque, sarà un Anno Santo caratterizzato dalla speranza che non tramonta, quella in Dio. Ci aiuti pure a ritrovare la fiducia necessaria, nella Chiesa come nella società, nelle relazioni interpersonali, nei rapporti internazionali, nella promozione della dignità di ogni persona e nel rispetto del creato. La testimonianza credente possa essere nel mondo lievito di genuina speranza, annuncio di cieli nuovi e terra nuova (cfr. 2Pt 3,13), dove abitare nella giustizia e nella concordia tra i popoli, protesi verso il compimento della promessa del Signore.

Lasciamoci fin d’ora attrarre dalla speranza e permettiamo che attraverso di noi diventi contagiosa per quanti la desiderano. Possa la nostra vita dire loro: «Spera nel Signore, sii forte, si rinsaldi il tuo cuore e spera nel Signore» (Sal 27,14). Possa la forza della speranza riempire il nostro presente, nell’attesa fiduciosa del ritorno del Signore Gesù Cristo, al quale va la lode e la gloria ora e per i secoli futuri.

Dato a Roma, presso San Giovanni in Laterano, il 9 maggio, Solennità dell’Ascensione di Nostro Signore Gesù Cristo, dell’Anno 2024, dodicesimo di Pontificato.

FRANCESCO

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[1] Agostino, Discorsi, 198 augm., 2.

[2] Cfr. Fonti Francescane, n. 263,6.10.

[3] Cfr. Francesco, Misericordiae Vultus, Bolla di indizione del Giubileo Straordinario della misericordia, 11 aprile 2015,
nn. 1-3.

[4] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Pastorale Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo,
7 dicembre 1965, n. 4.

[5] Francesco, Lettera Enciclica Laudato si’ sulla cura della casa comune, 24 maggio 2015, n. 50.

[6] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2267.

[7] Francesco, Laudato si’, cit., n. 49.

[8] Francesco, Lettera Enciclica Fratelli tutti sulla fraternità e l’amicizia sociale, 3 ottobre 2020, n. 262.

[9] Francesco, Laudato si’, cit., n. 51.

[10] Simbolo niceno: H. Denzinger – A. Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, n. 125.

[11] Ibid.

[12] Simbolo degli Apostoli: H. Denzinger – A. Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, n. 30.

[13] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1817.

[14] Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes, cit., n. 21.

[15] Messale Romano, Prefazio dei defunti I.

[16] Agostino, Confessioni, X, 28.

[17] Benedetto XVI, Lettera Enciclica Spe salvi, 30 novembre 2007, n. 47.

[18] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1472.

[19] Paolo VI, Lettera Apostolica Apostolorum limina, 23 maggio 1974, II.

[20] Nican Mopohua, n. 119.

[21] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Dogmatica Lumen gentium sulla Chiesa, 21 novembre 1964, n. 68.

[00781-IT.01] [Testo originale: Italiano]

Testo in lingua francese

SPES NON CONFUNDIT

Bulle d’indiction
du Jubilé Ordinaire
de l’Année 2025

FRANÇOIS
ÉVÊQUE DE ROME
SERVITEUR DES SERVITEURS DE DIEU
PUISSE L’ESPÉRANCE REMPLIR LE CŒUR
DE CEUX QUI LIRONT CETTE LETTRE

1. « Spes non confundit », « l’espérance ne déçoit pas » (Rm 5, 5). Sous le signe de l’espérance, l’apôtre Paul stimule le courage de la communauté chrétienne de Rome. L’espérance sera également le message central du prochain Jubilé que le Pape proclame tous les vingt-cinq ans, selon une ancienne tradition. Je pense à tous les pèlerins de l’espérance qui arriveront à Rome pour vivre l’Année Sainte et à ceux qui, ne pouvant se rendre dans la ville des apôtres Pierre et Paul, la célébreront dans les Églises particulières. Qu’elle soit pour tous un moment de rencontre vivante et personnelle avec le Seigneur Jésus, “porte” du salut (cf. Jn 10, 7.9). Il est « notre espérance » (cf. 1 Tm 1, 1), Lui que l’Église a pour mission d’annoncer toujours, partout et à tous.

Tout le monde espère. L’espérance est contenue dans le cœur de chaque personne comme un désir et une attente du bien, bien qu’en ne sachant pas de quoi demain sera fait. L’imprévisibilité de l’avenir suscite des sentiments parfois contradictoires : de la confiance à la peur, de la sérénité au découragement, de la certitude au doute. Nous rencontrons souvent des personnes découragées qui regardent l’avenir avec scepticisme et pessimisme, comme si rien ne pouvait leur apporter le bonheur. Puisse le Jubilé être pour chacun l’occasion de ranimer l’espérance. La Parole de Dieu nous aide à en trouver les raisons. Laissons-nous guider par ce que l’apôtre Paul écrivait aux chrétiens de Rome.

Une parole d’espérance

2. « Nous qui sommes devenus justes par la foi, nous voici en paix avec Dieu par notre Seigneur Jésus Christ, lui qui nous a donné, par la foi, l’accès à cette grâce dans laquelle nous sommes établis ; et nous mettons notre fierté dans l’espérance d’avoir part à la gloire de Dieu. […] L’espérance ne déçoit pas, puisque l’amour de Dieu a été répandu dans nos cœurs par l’Esprit Saint qui nous a été donné » (Rm 5, 1-2.5). Nombreux sont les points de réflexion que saint Paul propose ici. Nous savons que la Lettre aux Romains marque une étape décisive dans son activité d’évangélisation. Jusqu’alors, il l’avait exercée dans la zone orientale de l’Empire, et maintenant Rome l’attend avec tout ce qu’elle représente aux yeux du monde : un grand défi à relever pour l’annonce de l’Évangile qui ne peut connaître ni barrières ni frontières. L’Église de Rome n’a pas été fondée par Paul. Il ressent le désir ardent de la rejoindre au plus tôt pour apporter à tous l’Évangile de Jésus-Christ mort et ressuscité, comme annonce de l’espérance qui accomplit les promesses, conduit à la gloire et, fondée sur l’amour, ne déçoit pas.

3. L’espérance, en effet, naît de l’amour et se fonde sur l’amour qui jaillit du Cœur de Jésus transpercé sur la croix : « En effet, si nous avons été réconciliés avec Dieu par la mort de son Fils alors que nous étions ses ennemis, à plus forte raison, maintenant que nous sommes réconciliés, serons-nous sauvés en ayant part à sa vie » (Rm 5, 10). Et sa vie se manifeste dans notre vie de foi qui commence avec le baptême, se développe dans la docilité à la grâce de Dieu, animée en conséquence par l’espérance toujours renouvelée et rendue inébranlable par l’action de l’Esprit Saint.

C’est en effet l’Esprit Saint qui, par sa présence permanente sur le chemin de l’Église, irradie la lumière de l’espérance sur les croyants : Il la maintient allumée comme une torche qui ne s’éteint jamais pour donner soutien et vigueur à notre vie. L’espérance chrétienne, en effet, ne trompe ni ne déçoit parce qu’elle est fondée sur la certitude que rien ni personne ne pourra jamais nous séparer de l’amour de Dieu : « Qui pourra nous séparer de l’amour du Christ ? la détresse ? l’angoisse ? la persécution ? la faim ? le dénuement ? le danger ? le glaive ? [...] Mais, en tout cela nous sommes les grands vainqueurs grâce à celui qui nous a aimés. J’en ai la certitude : ni la mort ni la vie, ni les anges ni les Principautés célestes, ni le présent ni l’avenir, ni les Puissances, ni les hauteurs, ni les abîmes, ni aucune autre créature, rien ne pourra nous séparer de l’amour de Dieu qui est dans le Christ Jésus notre Seigneur » (Rm 8, 35.37-39). Voilà pourquoi l’espérance ne cède pas devant les difficultés : elle est fondée sur la foi et nourrie par la charité. Elle permet ainsi d’avancer dans la vie. Saint Augustin écrit à ce sujet : « Quel que soit le genre de vie, on ne peut vivre pas sans ces trois inclinations de l’âme : croire, espérer, aimer ».[1]

4. Saint Paul est très réaliste. Il sait que la vie est faite de joies et de peines, que l’amour est mis à l’épreuve lorsqu’augmentent les difficultés et que l’espérance semble disparaître devant la souffrance. Pourtant, il écrit : « Nous mettons notre fierté dans la détresse elle-même, puisque la détresse, nous le savons, produit la persévérance ; la persévérance produit la vertu éprouvée ; la vertu éprouvée produit l’espérance » (Rm 5, 3-4). Pour l’apôtre, la tribulation et la souffrance sont les conditions typiques de ceux qui annoncent l’Évangile dans des contextes d’incompréhension et de persécution (cf. 2 Co 6, 3-10). On perçoit dans ces situations une lumière dans l’obscurité. On découvre comment l’évangélisation est soutenue par la force qui découle de la croix et de la résurrection du Christ. Cela conduit à développer une vertu étroitement liée à l’espérance : la patience. Dans un monde où la précipitation est devenue une constante, nous nous sommes habitués à vouloir tout et tout de suite. On n’a plus le temps de se rencontrer et souvent, même dans les familles, il devient difficile de se retrouver et de se parler calmement. La patience est mise à mal par la précipitation, causant de graves préjudices aux personnes. En effet, l’intolérance, la nervosité, parfois la violence gratuite surgissent, provoquant l’insatisfaction et la fermeture.

De plus, à l’ère d’internet où l’espace et le temps sont dominés par le “ici et maintenant”, la patience n’est pas la bienvenue. Si nous étions encore capables de regarder la création avec émerveillement, nous pourrions comprendre à quel point la patience est décisive. Attendre l’alternance des saisons avec leurs fruits ; observer la vie des animaux et les cycles de leur développement ; avoir le regard simple de saint François qui, dans son Cantique des créatures composé il y a exactement 800 ans, percevait la création comme une grande famille et appelait le soleil “frère” et la lune “sœur”.[2] Redécouvrir la patience fait beaucoup de bien à soi-même et aux autres. Saint Paul recourt souvent à la patience pour souligner l’importance de la persévérance et de la confiance en ce que Dieu nous a promis, mais il témoigne avant tout que Dieu est patient avec nous, Lui qui est « le Dieu de la persévérance et du réconfort » (Rm 15, 5). La patience, qui est aussi le fruit de l’Esprit Saint, maintient vivante l’espérance et la consolide en tant que vertu et style de vie. Apprenons donc à souvent demander la grâce de la patience qui est fille de l’espérance et en même temps la soutient.

Un chemin d’espérance

5. De cet entrelacement entre espérance et patience apparaît clairement le fait que la vie chrétienne est un chemin qui a besoin de moments forts pour nourrir et fortifier l’espérance, compagne irremplaçable qui laisse entrevoir le but : la rencontre avec le Seigneur Jésus. J’aime à penser que l’indiction du premier Jubilé de 1300 fut précédé d’un chemin de grâce, animé par la spiritualité populaire. Nous ne pouvons pas oublier, en effet, les diverses formes à travers lesquelles la grâce du pardon fut abondamment répandue sur le saint Peuple fidèle de Dieu. Rappelons, par exemple, le grand “pardon” que saint Célestin V voulut accorder à ceux qui se rendaient à la Basilique Sainte-Marie-de-Collemaggio, à L’Aquila, les 28 et 29 août 1294, six ans avant que le pape Boniface VIII institue l’Année Sainte. L’Église faisait donc déjà l’expérience de la grâce jubilaire de la miséricorde. Et même avant, en 1216, le Pape Honorius III avait accueilli la supplique de saint François qui demandait l’indulgence pour ceux qui visiteraient la Portioncule les deux premiers jours du mois d’août. Il en va de même pour le pèlerinage à Saint-Jacques-de-Compostelle : le Pape Calixte II, en 1122, permit que le Jubilé soit célébré dans ce sanctuaire chaque fois que la fête de l’apôtre Jacques coïnciderait avec un dimanche. Il est bon que cette modalité “diffuse” de célébrations jubilaires se poursuive, afin que la force du pardon de Dieu soutienne et accompagne le cheminement des communautés et des personnes.

Ce n’est pas un hasard si le pèlerinage est un élément fondamental de tout événement jubilaire. Se mettre en marche est caractéristique de celui qui va à la recherche du sens de la vie. Le pèlerinage à pied est très propice à la redécouverte de la valeur du silence, de l’effort, de l’essentiel. L’année prochaine encore, les pèlerins de l’espérance ne manqueront pas d’emprunter des chemins anciens et modernes pour vivre intensément l’expérience jubilaire. Dans la ville même de Rome, il y aura aussi des itinéraires de foi, en plus des traditionnels itinéraires des catacombes et des sept églises. Transiter d’un pays à l’autre comme si les frontières étaient abolies, passer d’une ville à une autre dans la contemplation de la création et des œuvres d’art, permettra de tirer profit des expériences et des cultures diverses pour porter en soi la beauté qui, harmonisée par la prière, conduit à remercier Dieu pour les merveilles qu’Il a accomplies. Les églises jubilaires, le long des itinéraires et dans l’Urbs, seront des oasis de spiritualité où l’on pourra se rafraîchir sur le chemin de la foi et s’abreuver aux sources de l’espérance, avant tout en s’approchant du sacrement de la réconciliation, point de départ irremplaçable d’un véritable chemin de conversion. Dans les Églises particulières, l’on veillera de manière spéciale à la préparation des prêtres et des fidèles aux confessions et à l’accessibilité du sacrement sous forme individuelle.

Je voudrais, au cours de ce pèlerinage, adresser une invitation particulière aux fidèles des Églises orientales, surtout à ceux qui sont déjà en pleine communion avec le Successeur de Pierre. Eux qui ont tant souffert - souvent jusqu’à la mort - en raison de leur fidélité au Christ et à l’Église, ils doivent se sentir particulièrement les bienvenus dans cette Rome qui est aussi leur Mère et qui conserve de nombreux souvenirs de leur présence. L’Église catholique, enrichie par leurs très anciennes liturgies, par la théologie et par la spiritualité des Pères, des moines et des théologiens, veut exprimer symboliquement leur accueil, ainsi que celui de leurs frères et sœurs orthodoxes, alors qu’ils vivent déjà le pèlerinage de la Via Crucis qui les contraint souvent à quitter leurs terres d’origine, leurs terres saintes desquelles ils sont chassés, par la violence et l’instabilité, vers des pays plus sûrs. Pour eux, l’expérience d’être aimés par l’Église, qui ne les abandonnera pas mais qui les suivra où qu’ils aillent, rend le signe du Jubilé encore plus fort.

6. L’Année Sainte 2025 s’inscrit dans la continuité des événements de grâce précédents. Lors du dernier Jubilé ordinaire, le seuil du deuxième millénaire de la naissance de Jésus-Christ a été franchi. Ensuite, le 13 mars 2015, j’ai proclamé un Jubilé extraordinaire dans le but de manifester et de permettre à tous de rencontrer le “visage de la miséricorde” de Dieu,[3] annonce centrale de l’Évangile pour toute personne de toute époque. Le temps est venu d’un nouveau Jubilé au cours duquel la Porte Sainte sera à nouveau grande ouverte pour offrir l’expérience vivante de l’amour de Dieu qui suscite dans le cœur l’espérance certaine du salut dans le Christ. En même temps, cette Année Sainte guidera la marche vers un autre anniversaire fondamental pour tous les chrétiens. En 2033 seront célébrés les deux mille ans de la Rédemption accomplie par la passion, la mort et la résurrection du Seigneur Jésus. Nous sommes ainsi devant un parcours marqué par de grandes étapes dans lesquelles la grâce de Dieu précède et accompagne le peuple qui marche avec zèle dans la foi, œuvre dans la charité et persévère dans l’espérance (cf. 1 Th 1, 3).

Fort de cette longue tradition et convaincu que cette Année Jubilaire sera pour toute l’Église une expérience intense de grâce et d’espérance, je décide que la Porte Sainte de la Basilique Saint-Pierre du Vatican sera ouverte le 24 décembre de cette année 2024, marquant ainsi le début du Jubilé ordinaire. Le dimanche suivant, le 29 décembre 2024, j’ouvrirai la Porte Sainte de ma cathédrale Saint-Jean-de-Latran qui fêtera le 1700ème anniversaire de sa dédicace, le 9 novembre de cette même année. Puis, le 1er janvier 2025, en la Solennité de Marie Mère de Dieu, sera ouverte la Porte Sainte de la Basilique papale Sainte-Marie-Majeure. Enfin, le dimanche 5 janvier, la porte sainte de la Basilique papale Saint-Paul-hors-les-murs sera ouverte. Ces trois dernières portes saintes seront fermées au plus tard le dimanche 28 décembre de la même année.

En outre, j’établis que le dimanche 29 décembre 2024, dans toutes les cathédrales et co-cathédrales, les évêques diocésains célébreront la Sainte Eucharistie pour l’ouverture solennelle de l’Année Jubilaire, selon le Rituel qui sera préparé pour l’occasion. Pour la célébration dans l’église co-cathédrale, l’évêque pourra se faire remplacer par un Délégué spécialement désigné. Un pèlerinage, partant d’une église choisie pour la collectio vers la cathédrale, sera le signe du chemin d’espérance qui, illuminé par la Parole de Dieu, rapproche les croyants. Au cours de ce pèlerinage, des passages du présent document seront lus, et l’Indulgence jubilaire sera annoncée au peuple, indulgence qui pourra être obtenue selon les prescriptions contenues dans le même Rituel pour la célébration du Jubilé dans les Églises particulières. Au cours de l’Année Sainte, qui s’achèvera le dimanche 28 décembre 2025 dans les Églises particulières, on veillera à ce que le Peuple de Dieu accueille avec une pleine participation tant l’annonce d’espérance de la grâce de Dieu que les signes qui en attestent l’efficacité.

Le Jubilé ordinaire se terminera par la fermeture de la Porte Sainte de la Basilique papale de Saint-Pierre-du-Vatican, le 6 janvier 2026, Épiphanie du Seigneur. Puisse la lumière de l’espérance chrétienne atteindre chacun comme message de l’amour de Dieu adressé à tous ! Puisse l’Église être un témoin fidèle de cette annonce dans toutes les parties du monde !

Signes d’espérance

7. Outre le fait de puiser l’espérance dans la grâce de Dieu, nous sommes appelés à la redécouvrir également dans les signes des temps que le Seigneur nous offre. Comme l’affirme le Concile Vatican II, « l’Église a le devoir, à tout moment, de scruter les signes des temps et de les interpréter à la lumière de l’Évangile, de telle sorte qu’elle puisse répondre, d’une manière adaptée à chaque génération, aux questions éternelles des hommes sur le sens de la vie présente et future et sur leurs relations réciproques ».[4] Il faut donc prêter attention à tout le bien qui est présent dans le monde pour ne pas tomber dans la tentation de se considérer dépassé par le mal et par la violence. Mais les signes des temps, qui renferment l’aspiration du cœur humain, ayant besoin de la présence salvifique de Dieu, demandent à être transformés en signes d’espérance.

8. Le premier signe d’espérance doit se traduire par la paix pour le monde plongé, une fois encore, dans la tragédie de la guerre. Oublieuse des drames du passé, l’humanité est soumise à une nouvelle et difficile épreuve qui voit nombre de populations opprimées par la brutalité de la violence. Que ces peuples n’ont-ils pas enduré ? Comment est-il possible que leur appel désespéré à l’aide ne pousse pas les responsables des nations à vouloir mettre fin aux trop nombreux conflits régionaux, conscients des conséquences qui peuvent en découler au niveau mondial ? Est-ce trop rêver que les armes se taisent et cessent d’apporter mort et destruction ? Le Jubilé doit rappeler que ceux qui se font « artisans de paix » pourront être « appelés fils de Dieu » (Mt 5, 9). L’exigence de la paix interpelle tout le monde et impose de poursuivre des projets concrets. La diplomatie doit continuer à s’engager à créer, avec courage et créativité, des espaces de négociation visant à une paix durable.

9. Regarder l’avenir avec espérance, c’est aussi avoir une vision de la vie pleine d’enthousiasme à transmettre. Nous devons malheureusement constater avec tristesse que, dans de nombreuses situations, cette vision fait défaut. La première conséquence est la perte du désir de transmettre la vie. En raison des rythmes de vie frénétiques, des craintes concernant l’avenir, du manque de garanties professionnelles et de protections sociales adéquates, de modèles sociaux où la recherche du profit et non le soin des relations dicte l’agenda, on assiste dans plusieurs pays à une baisse préoccupante de la natalité. Au contraire, dans d’autres contextes, « accuser l’augmentation de la population et non le consumérisme extrême et sélectif de certains, est une façon de ne pas affronter les problèmes ».[5]

L’ouverture à la vie avec une maternité et une paternité responsables est le projet que le Créateur a inscrit dans le cœur et dans le corps des hommes et des femmes, une mission que le Seigneur confie aux époux et à leur amour. Il est urgent que, outre l’engagement législatif des États, ils aient le soutien convaincu des communautés croyantes et de la communauté civile dans toutes ses composantes, car le désir des jeunes d’engendrer de nouveaux enfants comme fruit de la fécondité de leur amour donne son avenir à toute société. Ce désir est une question d’espérance puisqu’il dépend de l’espérance et produit l’espérance.

La communauté chrétienne doit être la première à soutenir une alliance sociale pour l’espérance, qui soit inclusive et non idéologique, et qui travaille à un avenir marqué par le sourire de nombre d’enfants qui viendront remplir de trop nombreux berceaux vides en plusieurs lieux du monde. Mais chacun, en réalité, a besoin de retrouver la joie de vivre car l’être humain, créé à l’image et à la ressemblance de Dieu (cf. Gn 1, 26), ne peut se contenter de survivre ou de vivoter, de se conformer au présent en se laissant satisfaire de réalités uniquement matérielles. Celles-ci enferment dans l’individualisme et érodent l’espérance, en générant une tristesse qui se niche dans le cœur et le rend aigre et intolérant.

10. Au cours de l’Année Jubilaire, nous serons appelés à être des signes tangibles d’espérance pour de nombreux frères et sœurs qui vivent dans des conditions de détresse. Je pense aux détenus qui, privés de liberté, éprouvent chaque jour, en plus de la dureté de la réclusion, le vide affectif, les restrictions imposées et, dans de nombreux cas, le manque de respect. Je propose aux gouvernements de prendre, en cette Année Jubilaire, des initiatives qui redonnent espoir ; des formes d’amnistie ou de remise de peine visant à aider les personnes à retrouver confiance en elles-mêmes et dans la société ; des parcours de réinsertion dans la communauté auxquels corresponde un engagement concret dans le respect des lois.

La demande d’actes de clémence et de libération permettant de recommencer est un appel ancien qui vient de la Parole de Dieu et qui perdure avec toute sa valeur sapientielle : « Vous déclarerez sainte cette cinquantième année et proclamerez l’affranchissement de tous les habitants du pays » (Lv 25, 10). La Loi mosaïque est reprise par le prophète Isaïe : « Le Seigneur m’a envoyé annoncer la bonne nouvelle aux humbles, guérir ceux qui ont le cœur brisé, proclamer aux captifs leur délivrance, aux prisonniers leur libération, proclamer une année de bienfaits accordée par le Seigneur » (Is 61, 1-2). Ce sont les paroles que Jésus fait siennes au début de son ministère en déclarant accomplie en lui-même l’ “année de grâce du Seigneur” (cf. Lc 4, 18-19). Partout sur la terre, les croyants, en particulier les pasteurs, doivent se faire les interprètes de ces demandes, parlant d’une seule voix pour réclamer avec courage des conditions dignes pour ceux qui sont emprisonnés, le respect des droits humains et surtout l’abolition de la peine de mort, une mesure contraire à la foi chrétienne qui anéantit toute espérance de pardon et de renouveau.[6] Pour offrir aux détenus un signe concret de proximité, je désire ouvrir moi-même une Porte sainte dans une prison afin qu’elle soit pour eux un symbole qui invite à regarder l’avenir avec espérance et un nouvel engagement de vie.

11. Des signes d’espérance devront être offerts aux malades, qu’ils soient à la maison ou à l’hôpital. Leurs souffrances doivent pouvoir trouver un soulagement dans la proximité de personnes qui les visitent et dans l’affection qu’ils reçoivent. Les œuvres de miséricorde sont aussi des œuvres d’espérance qui réveillent dans les cœurs des sentiments de gratitude. Et que la gratitude atteigne tous les professionnels de la santé qui, dans des conditions souvent difficiles, exercent leur mission avec un soin attentif pour les personnes malades et les plus fragiles.

Qu’il y ait une attention inclusive envers ceux qui, se trouvant dans des conditions de vie particulièrement pénibles, font l’expérience de leur faiblesse, en particulier s’ils souffrent de pathologies ou de handicaps limitant grandement leur autonomie personnelle. Le soin envers eux est un hymne à la dignité humaine, un chant d’espérance qui appelle l’agir harmonieux de toute la société.

12. Ceux qui, en leurs personnes mêmes, représentent l’espérance ont également besoin de signes d’espérance : les jeunes. Malheureusement, ces derniers voient souvent leurs rêves s’effondrer. Nous ne pouvons pas les décevoir : l’avenir se fonde sur leur enthousiasme. Il est beau de les voir déborder d’énergie, par exemple lorsqu’ils retroussent leurs manches et s’engagent volontairement dans des situations de catastrophes et de malaise social. Mais il est triste de voir des jeunes sans espérance. Lorsque l’avenir est incertain et imperméable aux rêves, lorsque les études n’offrent pas de débouchés et que le manque de travail ou d’emploi suffisamment stable risque d’annihiler les désirs, il est inévitable que le présent soit vécu dans la mélancolie et l’ennui. L’illusion des drogues, le risque de la transgression et la recherche de l’éphémère créent, plus en eux que chez d’autres, des confusions et cachent la beauté et le sens de la vie, les faisant glisser dans des abîmes obscurs et les poussent à accomplir des gestes autodestructeurs. C’est pourquoi le Jubilé doit être dans l’Église l’occasion d’un élan à leur égard. Avec une passion renouvelée, prenons soin des jeunes, des étudiants, des fiancés, des jeunes générations ! Proximité avec les jeunes, joie et espérance de l’Église et du monde !

13. Il devra y avoir des signes d’espérance à l’égard des migrants qui abandonnent leur terre à la recherche d’une vie meilleure pour eux-mêmes et pour leurs familles. Que leurs attentes ne soient pas réduites à néant par des préjugés et des fermetures ; que l’accueil, qui ouvre les bras à chacun en raison de sa dignité, s’accompagne d’un engagement à ce que personne ne soit privé du droit de construire un avenir meilleur. De nombreuses personnes exilées, déplacées et réfugiées sont obligées de fuir en raison d’événements internationaux controversés pour éviter les guerres, les violences et les discriminations. La sécurité ainsi que l’accès au travail et à l’instruction doivent leur être garantis, éléments nécessaires à leur insertion dans leur nouveau contexte social.

La communauté chrétienne doit toujours être prête à défendre le droit des plus faibles. Qu’elle ouvre toutes grandes les portes de l’accueil avec générosité afin que l’espérance d’une vie meilleure ne manque jamais à personne. Que résonne dans les cœurs la Parole du Seigneur qui a dit dans la grande parabole du jugement dernier : « J’étais un étranger, et vous m’avez accueilli », car « dans la mesure où vous l’avez fait à l’un de ces plus petits de mes frères, c’est à moi que vous l’avez fait » (Mt 25, 35.40).

14. Les personnes âgées méritent des signes d’espérance, elles qui font souvent l’expérience de la solitude et du sentiment d’abandon. Valoriser le trésor qu’elles sont, leur expérience de vie, la sagesse dont elles sont porteuses et la contribution qu’elles sont en mesure d’offrir, est un engagement pour la communauté chrétienne et pour la société civile, appelées à travailler ensemble à l’alliance entre les générations.

J’adresse une pensée particulière aux grands-pères et aux grands-mères qui représentent la transmission de la foi et de la sagesse de la vie aux générations plus jeunes. Ils doivent être soutenus par la gratitude des enfants et par l’amour des petits-enfants qui trouvent en eux enracinement, compréhension et encouragement.

15. J’invoque de manière pressante l’espérance pour les milliards de pauvres qui manquent souvent du nécessaire pour vivre. Face à la succession de nouvelles vagues d’appauvrissement, il existe un risque de s’habituer et de se résigner. Mais nous ne pouvons pas détourner le regard des situations si dramatiques que l’on rencontre désormais partout, pas seulement dans certaines régions du monde. Nous rencontrons des personnes pauvres ou appauvries chaque jour et qui peuvent parfois être nos voisins. Souvent, elles n’ont pas de logement ni la nourriture quotidienne suffisante. Elles souffrent de l’exclusion et de l’indifférence de beaucoup. Il est scandaleux que, dans un monde doté d’énormes ressources largement consacrées aux armements, les pauvres constituent « la majeure partie […], des milliers de millions de personnes. Aujourd’hui, ils sont présents dans les débats politiques et économiques internationaux, mais il semble souvent que leurs problèmes se posent comme un appendice, comme une question qui s’ajoute presque par obligation ou de manière marginale, quand on ne les considère pas comme un pur dommage collatéral. De fait, au moment de l’action concrète, ils sont relégués fréquemment à la dernière place ».[7] Ne l’oublions pas : les pauvres, presque toujours, sont des victimes, non des coupables.

Appels à l'espérance

16. Faisant écho à la parole antique des prophètes, le Jubilé nous rappelle que les biens de la Terre ne sont pas destinés à quelques privilégiés, mais à tous. Ceux qui possèdent des richesses doivent être généreux en reconnaissant le visage de leurs frères dans le besoin. Je pense en particulier à ceux qui manquent d’eau et de nourriture : la faim est une plaie scandaleuse dans le corps de notre humanité et elle invite chacun à un sursaut de conscience. Je renouvelle mon appel pour qu’« avec les ressources financières consacrées aux armes et à d’autres dépenses militaires, un Fonds mondial soit créé en vue d’éradiquer une bonne fois pour toutes la faim, et pour le développement des pays les plus pauvres, de sorte que leurs habitants ne recourent pas à des solutions violentes ou trompeuses et n’aient pas besoin de quitter leurs pays en quête d’une vie plus digne ».[8]

Je voudrais adresser une autre invitation pressante en vue de l’Année Jubilaire : elle est destinée aux nations les plus riches pour qu’elles reconnaissent la gravité de nombreuses décisions prises et qu’elles se décident à remettre les dettes des pays qui ne pourront jamais les rembourser. C’est plus une question de justice que de magnanimité, aggravée aujourd’hui par une nouvelle forme d’iniquité dont nous avons pris conscience : « Il y a, en effet, une vraie “dette écologique”, particulièrement entre le Nord et le Sud, liée à des déséquilibres commerciaux, avec des conséquences dans le domaine écologique, et liée aussi à l’utilisation disproportionnée des ressources naturelles, historiquement pratiquée par certains pays ».[9] Comme l’enseigne l’Écriture Sainte, la terre appartient à Dieu et nous y vivons tous comme des hôtes et des étrangers (cf. Lv 25, 23). Si nous voulons vraiment préparer la voie à la paix dans le monde, engageons-nous à remédier aux causes profondes des injustices, apurons les dettes injustes et insolvables et rassasions les affamés.

17. Un anniversaire très important pour tous les chrétiens tombera au cours du prochain Jubilé. En effet, cela fera 1700 ans que le premier grand Concile œcuménique, le Concile de Nicée, a été célébré. Il convient de rappeler que, depuis les temps apostoliques, les pasteurs se sont à plusieurs reprises réunis en assemblée pour traiter de questions doctrinales et disciplinaires. Dans les premiers siècles de la foi, les synodes se sont multipliés tant en Orient qu’en Occident, montrant l’importance de préserver l’unité du Peuple de Dieu et la fidélité à l’annonce de l’Évangile. L’Année Jubilaire pourrait être une occasion importante pour concrétiser cette forme synodale que la communauté chrétienne perçoit aujourd’hui comme une expression de plus en plus nécessaire pour mieux répondre à l’urgence de l’évangélisation : tous les baptisés, chacun avec son charisme et son ministère, coresponsables pour que de multiples signes d’espérance témoignent de la présence de Dieu dans le monde.

Le Concile de Nicée avait pour mission de préserver l’unité gravement menacée par la négation de la divinité de Jésus-Christ et de son égalité avec le Père. Environ trois cents évêques étaient présents, réunis dans le palais impérial, convoqués par l’empereur Constantin, le 20 mai 325. Après divers débats, ils se sont tous reconnus, par la grâce de l’Esprit, dans le Symbole de la foi que nous professons encore aujourd’hui dans la célébration eucharistique dominicale. Les pères du Concile ont voulu commencer ce Symbole en utilisant pour la première fois l’expression « Nous croyons »,[10] pour témoigner que dans ce “Nous”, toutes les Églises étaient en communion, et que tous les chrétiens professaient la même foi.

Le Concile de Nicée est une pierre milliaire dans l’histoire de l’Église. Son anniversaire invite les chrétiens à s’unir dans la louange et l’action de grâce à la Sainte Trinité et en particulier à Jésus-Christ, le Fils de Dieu, « consubstantiel au Père »,[11] qui nous a révélé ce mystère d’amour. Mais Nicée représente aussi une invitation à toutes les Églises et communautés ecclésiales à poursuivre le chemin vers l’unité visible, à ne pas se lasser de chercher les formes adéquates pour répondre pleinement à la prière de Jésus : « Que tous soient un, comme toi, Père, tu es en moi, et moi en toi. Qu’ils soient un en nous, eux aussi, pour que le monde croie que tu m’as envoyé » (Jn 17, 21).

Le Concile de Nicée a également discuté de la date de Pâques. À ce sujet, il y a encore aujourd’hui des positions divergentes qui empêchent de célébrer le même jour l’événement fondateur de la foi. Par un concours de circonstances providentiel, cela aura précisément lieu en 2025. Cela doit être un appel à tous les chrétiens d’Orient et d’Occident pour qu’ils fassent un pas décisif vers l’unité autour d’une date commune de Pâques. Beaucoup, il est bon de le rappeler, n’ont plus connaissance des polémiques du passé et ne comprennent pas comment des divisions peuvent subsister sur ce sujet.

Ancrés dans l'espérance

18. L’espérance forme, avec la foi et la charité, le triptyque des “vertus théologales” qui expriment l’essence de la vie chrétienne (cf. 1 Co 13, 13 ; 1 Th 1, 3). Dans leur dynamisme inséparable, l’espérance est celle qui, pour ainsi dire, oriente, indique la direction et le but de l’existence croyante. C’est pourquoi l’apôtre Paul nous invite : « Ayez la joie de l’espérance, tenez bon dans l’épreuve, soyez assidus à la prière » (Rm 12, 12). Oui, nous devons “déborder d’espérance” (cf. Rm 15, 13) pour témoigner de manière crédible et attrayante de la foi et de l’amour que nous portons dans notre cœur ; pour que la foi soit joyeuse, la charité enthousiaste ; pour que chacun puisse donner ne serait-ce qu’un sourire, un geste d’amitié, un regard fraternel, une écoute sincère, un service gratuit, en sachant que, dans l’Esprit de Jésus, cela peut devenir une semence féconde d’espérance pour ceux qui la reçoivent. Mais quel est le fondement de notre espérance ? Pour le comprendre, il est bon de s’arrêter sur les raisons de notre espérance (cf. 1 P 3, 15).

19. « Je crois à la vie éternelle » :[12] ainsi professe notre foi. L’espérance chrétienne trouve dans ces mots un pilier fondamental. Elle est en effet « la vertu théologale par laquelle nous désirons comme bonheur [...] la Vie éternelle ».[13] Le Concile œcuménique Vatican II affirme : « Lorsque manquent le support divin et l’espérance de la vie éternelle, la dignité de l’homme subit une très grave blessure, comme on le voit souvent aujourd’hui, et l’énigme de la vie et de la mort, de la faute et de la souffrance reste sans solution. Ainsi, trop souvent, les hommes s’abîment dans le désespoir ».[14] Nous, en revanche, en vertu de l’espérance dans laquelle nous avons été sauvés, en regardant le temps qui passe, nous avons la certitude que l’histoire de l’humanité, et celle de chacun, ne se dirige pas vers une impasse ou un abîme obscur, mais qu’elle s’oriente vers la rencontre avec le Seigneur de gloire. Vivons donc dans l’attente de son retour et dans l’espérance de vivre pour toujours en Lui. C’est dans cet esprit que nous faisons nôtre l’émouvante invocation des premiers chrétiens, par laquelle se termine l’Écriture Sainte : « Viens, Seigneur Jésus ! » (Ap 22, 20).

20. Jésus mort et ressuscité est le cœur de notre foi. Saint Paul, en énonçant en peu de mots - avec seulement quatre verbes - ce contenu, nous transmet le “noyau” de notre espérance : « Avant tout, je vous ai transmis ceci, que j’ai moi-même reçu : le Christ est mort pour nos péchés conformément aux Écritures, et il fut mis au tombeau ; il est ressuscité le troisième jour conformément aux Écritures, il est apparu à Pierre, puis aux Douze » (1 Co 15, 3-5). Le Christ est mort, a été mis au tombeau, est ressuscité, est apparu. Il a traversé le drame de la mort pour nous. L’amour du Père l’a ressuscité dans la puissance de l’Esprit, faisant de son humanité les prémices de l’éternité pour notre salut. L’espérance chrétienne consiste précisément en ceci : face à la mort, où tout semble finir, nous recevons la certitude que, grâce au Christ, par sa grâce qui nous est communiquée dans le Baptême, « la vie n’est pas détruite, elle est transformée »[15] pour toujours. Dans le Baptême, en effet, ensevelis avec le Christ, nous recevons en Lui, ressuscité, le don d’une vie nouvelle qui brise le mur de la mort et en fait un passage vers l’éternité.

Et si devant la mort, séparation douloureuse qui nous oblige à quitter nos affections les plus chères, aucune rhétorique n’est permise, le Jubilé nous offrira l’occasion de redécouvrir, avec immense gratitude, le don de cette vie nouvelle reçue dans le Baptême, capable de transfigurer le drame. Il est important de penser à nouveau, dans le contexte du Jubilé, à la manière dont ce mystère a été compris dès les premiers siècles de la foi. Pendant longtemps, par exemple, les chrétiens ont construit les fonts baptismaux en forme octogonale et, aujourd’hui encore, nous pouvons admirer de nombreux baptistères anciens qui conservent cette forme, comme à Rome, à Saint-Jean-de-Latran. Cela indique que, dans les fonts baptismaux, un huitième jour est inauguré, le jour de la résurrection, le jour qui dépasse le rythme habituel marqué par l’échéance hebdomadaire, ouvrant ainsi le cycle du temps à la dimension de l’éternité, à la vie qui dure pour toujours. Tel est le but vers lequel nous tendons dans notre pèlerinage terrestre (cf. Rm 6, 22).

Le témoignage le plus convaincant de cette espérance nous est offert par les martyrs qui, fermes dans leur foi au Christ ressuscité, ont été capables de renoncer à leur vie ici-bas pour ne pas trahir leur Seigneur. Ces confesseurs de la vie qui n’a pas de fin sont présents à toutes les époques, et ils sont nombreux à la nôtre, peut-être plus que jamais. Nous avons besoin de garder leur témoignage pour rendre féconde notre espérance.

Ces martyrs appartenant aux différentes traditions chrétiennes sont aussi des semences d’unité car ils expriment l’œcuménisme du sang. C’est pourquoi je souhaite ardemment qu’il y ait au cours du Jubilé une célébration œcuménique, afin que la richesse du témoignage de ces martyrs soit mise en évidence.

21. Qu’adviendra-t-il donc de nous après la mort ? Avec Jésus, au-delà du seuil, il y a la vie éternelle qui consiste dans la pleine communion avec Dieu, dans la contemplation et la participation à son amour infini. Ce que nous vivons aujourd’hui dans l’espérance, nous le verrons alors dans la réalité. Saint Augustin écrivait à ce propos : « Quand je te serai uni de tout moi-même, plus de douleur alors, plus de travail ; ma vie sera toute vivante, étant toute pleine de toi ».[16] Qu’est-ce qui caractérisera alors cette plénitude de communion ? Le fait d’être heureux. Le bonheur est la vocation de l’être humain, un objectif qui concerne chacun.

Mais qu’est-ce que le bonheur ? Quel bonheur attendons-nous et désirons-nous ? Non pas une joie passagère, une satisfaction éphémère qui, une fois atteinte, demande toujours plus dans une spirale de convoitises où l’âme humaine n’est jamais rassasiée mais toujours plus vide. Nous avons besoin d’un bonheur qui s’accomplisse définitivement dans ce qui nous épanouit, c’est-à-dire dans l’amour, afin que nous puissions dire, dès maintenant : Je suis aimé, donc j’existe ; et j’existerai toujours dans l’Amour qui ne déçoit pas et dont rien ni personne ne pourra jamais me séparer. Rappelons encore les paroles de l’apôtre : « J’en ai la certitude : ni la mort ni la vie, ni les anges ni les Principautés célestes, ni le présent ni l’avenir, ni les Puissances, ni les hauteurs, ni les abîmes, ni aucune autre créature, rien ne pourra nous séparer de l’amour de Dieu qui est dans le Christ Jésus notre Seigneur » (Rm 8, 38-39).

22. Une autre réalité liée à la vie éternelle est le jugement de Dieu, tant à la fin de notre existence qu’à la fin des temps. L’art a souvent tenté de le représenter – pensons au chef-d’œuvre de Michel-Ange dans la chapelle Sixtine – en adoptant la conception théologique de l’époque et en transmettant un sentiment de crainte à celui qui regarde. S’il est juste de se préparer avec pleine conscience et sérieux au moment qui récapitule l’existence, il faut en même temps toujours le faire dans la dimension de l’espérance, une vertu théologale qui soutient la vie et permet de ne pas céder à la peur. Le jugement de Dieu, qui est amour (cf. 1 Jn 4, 8.16), ne pourra se fonder que sur l’amour, en particulier sur la manière dont nous l’aurons ou non pratiqué envers les plus nécessiteux en qui le Christ, le Juge en personne, est présent (cf. Mt 25, 31-46). Il s’agit donc d’un jugement différent de celui des hommes et des tribunaux terrestres. Il doit être compris comme un rapport de vérité avec Dieu-amour et avec soi-même dans le mystère insondable de la miséricorde divine. L’Écriture Sainte affirme à cet égard : « Par ton exemple tu as enseigné à ton peuple que le juste doit être humain ; à tes fils tu as donné une belle espérance : après la faute tu accordes la conversion […] et [nous comptons] sur ta miséricorde lorsque nous somme jugés » (Sg 12, 19.22). Comme l’écrivait Benoît XVI : « Au moment du Jugement, nous expérimentons et nous accueillons cette domination de son amour sur tout le mal dans le monde et en nous. La souffrance de l’amour devient notre salut et notre joie ».[17]

Le jugement concerne donc le salut que nous espérons et que Jésus nous a obtenu par sa mort et sa résurrection. Il est donc destiné à nous ouvrir à la rencontre ultime avec Lui. Et puisque, dans ce contexte, on ne peut pas penser que le mal commis reste caché, celui-ci a besoin d’être purifié pour permettre le passage définitif dans l’amour de Dieu. En ce sens, on comprend la nécessité de prier pour ceux qui ont achevé leur parcours terrestre, la solidarité dans l’intercession priante qui puise son efficacité dans la communion des saints, dans le lien commun qui nous unit dans le Christ, premier-né de la création. Ainsi, l’Indulgence jubilaire, en vertu de la prière, est destinée de manière spéciale à ceux qui nous ont précédés afin qu’ils obtiennent la pleine miséricorde.

23. L’indulgence, en effet, permet de découvrir à quel point la miséricorde de Dieu est illimitée. Ce n’est pas un hasard si, dans l’Antiquité, le terme « miséricorde » était interchangeable avec le terme « indulgence », précisément parce que celui-ci entend exprimer la plénitude du pardon de Dieu, qui ne connaît pas de limites.

Le Sacrement de Pénitence nous assure que Dieu pardonne nos péchés. Les paroles du psaume reviennent avec leur force de consolation : « Il pardonne toutes tes offenses et te guérit de toute maladie ; Il réclame ta vie à la tombe et te couronne d’amour et de tendresse ; […] Le Seigneur est tendresse et pitié, lent à la colère et plein d’amour ; […] Il n’agit pas envers nous selon nos fautes, ne nous rend pas selon nos offenses. Comme le ciel domine la terre, fort est son amour pour qui le craint ; aussi loin qu’est l’orient de l’occident, Il met loin de nous nos péchés » (Ps 103, 3-4.8.10-12). La Réconciliation sacramentelle n’est pas seulement une belle opportunité spirituelle, mais elle représente une étape décisive, essentielle et indispensable sur le chemin de foi de chaque personne. C’est là que nous permettons au Seigneur de détruire nos péchés, de guérir nos cœurs, de nous élever et de nous étreindre, de nous faire connaître son visage tendre et compatissant. En effet, il n’y a pas de meilleure façon de connaître Dieu que de se laisser réconcilier par Lui (cf. 2 Co 5, 20), en savourant son pardon. Ne renonçons donc pas à la Confession, mais redécouvrons la beauté du sacrement de la guérison et de la joie, la beauté du pardon des péchés !

Cependant, comme nous le savons par expérience personnelle, le péché “laisse des traces”, il entraîne des conséquences : non seulement externes dans la mesure où il s’agit des conséquences du mal commis, mais aussi internes, dans la mesure où « tout péché, même véniel, entraîne un attachement malsain aux créatures, qui a besoin de purification soit ici-bas, soit après la mort dans l’état qu’on appelle purgatoire ».[18] Il reste donc, dans notre humanité faible et attirée par le mal, des “effets résiduels du péché”. Ceux-ci sont éliminés par l’indulgence, toujours par la grâce du Christ, qui est, comme l’a écrit saint Paul VI, « notre “indulgence” ».[19] La Pénitencerie apostolique publiera les dispositions permettant d’obtenir et de rendre effective la pratique de l’Indulgence jubilaire.

Une telle expérience de pardon ne peut qu’ouvrir le cœur et l’esprit à pardonner. Pardonner ne change pas le passé et ne peut modifier ce qui s’est déjà passé. Mais le pardon permet de changer l’avenir et de vivre différemment, sans rancune, sans ressentiment et sans vengeance. L’avenir éclairé par le pardon permet de lire le passé avec des yeux différents, plus sereins, même s’ils sont encore embués de larmes.

Lors du dernier Jubilé extraordinaire, j’ai institué les Missionnaires de la Miséricorde qui continuent à remplir une mission importante. Qu’ils exercent aussi leur ministère au cours du prochain Jubilé, en redonnant de l’espérance et en pardonnant chaque fois qu’un pécheur s’adresse à eux avec un cœur ouvert et une âme repentante. Qu’ils continuent à être des instruments de réconciliation et qu’ils aident à regarder l’avenir avec l’espérance du cœur qui vient de la miséricorde du Père. Je souhaite que les évêques puissent profiter de leur précieux service, en particulier en les envoyant dans des lieux où l’espérance est mise à rude épreuve, comme les prisons, les hôpitaux et les lieux où la dignité de la personne est bafouée, dans les situations les plus démunies et les contextes de plus grande détresse, afin que personne ne soit privé de la possibilité d’accueillir le pardon et la consolation de Dieu.

24. L’espérance trouve dans la Mère de Dieu son plus grand témoin. En elle, nous voyons que l’espérance n’est pas un optimisme vain, mais un don de la grâce dans le réalisme de la vie. Comme toute maman, chaque fois qu’elle regardait son Fils, elle pensait à son avenir, et certainement dans son cœur restaient gravées les paroles que Siméon lui avait adressées dans le temple : « Voici que cet enfant provoquera la chute et le relèvement de beaucoup en Israël. Il sera un signe de contradiction et toi, ton âme sera traversée d’un glaive » (Lc 2, 34-35). Et au pied de la croix, alors qu’elle voit Jésus innocent souffrir et mourir, bien que traversée d’une immense souffrance elle répète son “oui”, sans perdre ni l’espérance ni la confiance dans le Seigneur. Elle collaborait de cette façon, pour nous, à l’accomplissement de ce que son Fils avait dit, en annonçant « qu’il fallait que le Fils de l’homme souffre beaucoup, qu’il soit rejeté par les anciens, les grands prêtres et les scribes, qu’il soit tué, et que, trois jours après, il ressuscite » (Mc 8, 31). Et dans le tourment de cette douleur offerte par amour, elle devenait notre Mère, la Mère de l’espérance. Ce n’est pas un hasard si la piété populaire continue à invoquer la Sainte Vierge comme Stella Maris, un titre qui exprime l’espérance sûre que, dans les vicissitudes orageuses de la vie, la Mère de Dieu vient à notre aide, nous soutient et nous invite à avoir confiance et à continuer d’espérer.

À ce propos, j’aime à rappeler que le Sanctuaire de Notre-Dame de Guadalupe, à Mexico, s’apprête à célébrer, en 2031, le 500ème anniversaire de la première apparition de la Vierge. Par l’intermédiaire du jeune Juan Diego, la Mère de Dieu faisait parvenir un message d’espérance révolutionnaire qu’elle répète encore aujourd’hui à tous les pèlerins et aux fidèles : « Ne suis-je pas ici, moi qui suis ta mère ? »[20] Un message similaire est imprimé dans les cœurs de nombre de sanctuaires mariaux à travers le monde, destinations d’innombrables pèlerins qui confient à la Mère de Dieu leurs inquiétudes, leurs peines et leurs espérances. En cette Année Jubilaire, les sanctuaires doivent être des lieux saints pour l’accueil, et des espaces privilégiés pour susciter l’espérance. J’invite les pèlerins qui viendront à Rome à s’arrêter pour prier dans les Sanctuaires mariaux de la ville, pour vénérer la Vierge Marie et invoquer sa protection. Je suis sûr que tous, en particulier ceux qui souffrent et sont affligés, pourront faire l’expérience de la proximité de la plus affectueuse des mamans qui n’abandonne jamais ses enfants, elle qui est pour le saint Peuple de Dieu « un signe d’espérance assurée et de consolation ».[21]

25. En route vers le Jubilé, revenons à l’Écriture Sainte et écoutons ces paroles qui nous sont adressées : « Cela nous encourage fortement, nous qui avons cherché refuge dans l’espérance qui nous était proposée et que nous avons saisie. Cette espérance, nous la tenons comme une ancre sûre et solide pour l’âme ; elle entre au-delà du rideau, dans le Sanctuaire où Jésus est entré pour nous en précurseur » (He 6, 18-20). C’est une invitation forte à ne jamais perdre l’espérance qui nous a été donnée, à nous y agripper en trouvant refuge en Dieu.

L’image de l’ancre évoque bien la stabilité et la sécurité que nous possédons au milieu des eaux agitées de la vie si nous nous en remettons au Seigneur Jésus. Les tempêtes ne pourront jamais l’emporter parce que nous sommes ancrés dans l’espérance de la grâce qui est capable de nous faire vivre dans le Christ en triomphant du péché, de la peur et de la mort. Cette espérance, bien plus grande que les satisfactions quotidiennes et l’amélioration des conditions de vie, nous porte au-delà des épreuves et nous pousse à marcher sans perdre de vue la grandeur du but auquel nous sommes appelés, le Ciel.

Le prochain Jubilé sera donc une Année Sainte caractérisée par l’espérance qui ne passe pas, l’espérance qui est en Dieu. Qu’il nous aide aussi à retrouver la confiance nécessaire dans l’Église comme dans la société, dans les relations interpersonnelles, dans les relations internationales, dans la promotion de la dignité de toute personne et dans le respect de la création. Que notre témoignage de foi soit dans le monde un ferment d’espérance authentique, une annonce des cieux nouveaux et de la terre nouvelle (cf. 2 P 3, 13) où nous habiterons dans la justice et la concorde entre les peuples, tendus vers l’accomplissement de la promesse du Seigneur.

Laissons-nous dès aujourd’hui attirer par l’espérance et faisons en sorte qu’elle devienne contagieuse à travers nous, pour ceux qui la désirent. Puisse notre vie leur dire : « Espère le Seigneur, sois fort et prends courage ; espère le Seigneur » (Ps 27, 14). Puisse la force de l’espérance remplir notre présent, dans l’attente confiante du retour du Seigneur Jésus-Christ, à qui reviennent la louange et la gloire, maintenant et pour les siècles à venir.

Donnée à Rome, à Saint-Jean-de-Latran, le 9 mai, Solennité de l’Ascension de Notre Seigneur Jésus-Christ de l’année 2024, la douzième de mon Pontificat.

FRANÇOIS

__________________

[1] Discours, 198 augm, 2.

[2] Cf. Sources Franciscaines, n. 263, 6.10.

[3] Misericordiae Vultus, Bulle d’indiction du Jubilé Extraordinaire de la Miséricorde, nn. 1-3.

[4] Const. past. Gaudium et spes, n. 4.

[5] Lett. enc. Laudato si’, n. 50.

[6] Cf. Catéchisme de l’Église Catholique, n. 2267.

[7] Lett. enc. Laudato si’, n. 49.

[8] Lett. enc. Fratelli tutti, n. 262.

[9] Lett. enc. Laudato si’, n. 51.

[10] Symbole de Nicée: H. Denzinger – A. Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, n. 125.

[11] Ibid.

[12] Symbole des Apôtres: H. Denzinger – A. Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, n. 30.

[13] Catéchisme de l'Église Catholique, n. 1817.

[14] Const. past. Gaudium et spes, n. 21.

[15] Missel Romain, Préface des défunts I.

[16] Confessions, X, 28.

[17] Lett. enc. Spe salvi, n. 47.

[18] Catéchisme de l’Église Catholique, n. 1472.

[19] Lett. ap. Apostolorum limina, 23 mai 1974, II.

[20] Nican Mopohua, n. 119.

[21] Conc. Oecum. Vat. II, Const. dogm. Lumen gentium, n. 68.

[00781-FR.01] [Texte original: Français]

Testo in lingua inglese

SPES NON CONFUNDIT

Bull of Indiction
of the Ordinary Jubilee
of the Year 2025

FRANCIS
BISHOP OF ROME
SERVANT OF THE SERVANTS OF GOD
TO ALL WHO READ THIS LETTER
MAY HOPE FILL YOUR HEARTS

1. SPES NON CONFUNDIT. “Hope does not disappoint” (Rom 5:5). In the spirit of hope, the Apostle Paul addressed these words of encouragement to the Christian community of Rome. Hope is also the central message of the coming Jubilee that, in accordance with an ancient tradition, the Pope proclaims every twenty-five years. My thoughts turn to all those pilgrims of hope who will travel to Rome in order to experience the Holy Year and to all those others who, though unable to visit the City of the Apostles Peter and Paul, will celebrate it in their local Churches. For everyone, may the Jubilee be a moment of genuine, personal encounter with the Lord Jesus, the “door” (cf. Jn 10:7.9) of our salvation, whom the Church is charged to proclaim always, everywhere and to all as “our hope” (1 Tim 1:1).

Everyone knows what it is to hope. In the heart of each person, hope dwells as the desire and expectation of good things to come, despite our not knowing what the future may bring. Even so, uncertainty about the future may at times give rise to conflicting feelings, ranging from confident trust to apprehensiveness, from serenity to anxiety, from firm conviction to hesitation and doubt. Often we come across people who are discouraged, pessimistic and cynical about the future, as if nothing could possibly bring them happiness. For all of us, may the Jubilee be an opportunity to be renewed in hope. God’s word helps us find reasons for that hope. Taking it as our guide, let us return to the message that the Apostle Paul wished to communicate to the Christians of Rome.

A word of hope

2. “Since we are justified through faith, we have peace with God through our Lord Jesus Christ, through whom we have obtained access to this grace in which we stand; and we boast in our hope of sharing in the glory of God… Hope does not disappoint, because God’s love has been poured into our hearts through the Holy Spirit that has been given to us” (Rom 5:1-2.5). In this passage, Saint Paul gives us much to reflect upon. We know that the Letter to the Romans marked a decisive turning point in his work of evangelization. Until then, he had carried out his activity in the eastern part of the Empire, but now he turns to Rome and all that Rome meant in the eyes of the world. Before him lay a great challenge, which he took up for the sake of preaching the Gospel, which knows no barriers or confines. The Church of Rome was not founded by Paul, yet he felt impelled to hasten there in order to bring to everyone the Gospel of Jesus Christ, crucified and risen from the dead, a message of hope that fulfils the ancient promises, leads to glory and, grounded in love, does not disappoint.

3. Hope is born of love and based on the love springing from the pierced heart of Jesus upon the cross: “For if while we were enemies, we were reconciled to God through the death of his Son, much more surely, having been reconciled, will we be saved by his life” (Rom 5:19). That life becomes manifest in our own life of faith, which begins with Baptism, develops in openness to God’s grace and is enlivened by a hope constantly renewed and confirmed by the working of the Holy Spirit.

By his perennial presence in the life of the pilgrim Church, the Holy Spirit illumines all believers with the light of hope. He keeps that light burning, like an ever-burning lamp, to sustain and invigorate our lives. Christian hope does not deceive or disappoint because it is grounded in the certainty that nothing and no one may ever separate us from God’s love: “Who will separate us from the love of Christ? Hardship, or distress, or persecution, or famine, or nakedness, or peril or the sword? No, in all these things we are more than conquerors through him who loved us. For I am convinced that neither death, nor life, nor angels, nor rulers, nor things present, nor things to come, nor powers, nor height, nor depth, nor anything else in all creation, will be able to separate us from the love of God in Christ Jesus our Lord” (Rom 8:35.37-39). Here we see the reason why this hope perseveres in the midst of trials: founded on faith and nurtured by charity, it enables us to press forward in life. As Saint Augustine observes: “Whatever our state of life, we cannot live without these three dispositions of the soul, namely, to believe, to hope and to love”.[1]

4. Saint Paul is a realist. He knows that life has its joys and sorrows, that love is tested amid trials, and that hope can falter in the face of suffering. Even so, he can write: “We boast in our sufferings, knowing that suffering produces endurance, and endurance produces character, and character produces hope” (Rom 5:3-4). For the Apostle, trials and tribulations mark the lives of those who preach the Gospel amid incomprehension and persecution (cf. 2 Cor 6:3-10). Yet in those very contexts, beyond the darkness we glimpse a light: we come to realize that evangelization is sustained by the power flowing from Christ’s cross and resurrection. In this way, we learn to practise a virtue closely linked to hope, namely patience. In our fast-paced world, we are used to wanting everything now. We no longer have time simply to be with others; even families find it hard to get together and enjoy one another’s company. Patience has been put to flight by frenetic haste, and this has proved detrimental, since it leads to impatience, anxiety and even gratuitous violence, resulting in more unhappiness and self-centredness.

Nor is there much place for patience in this age of the Internet, as space and time yield to an ever-present “now”. Were we still able to contemplate creation with a sense of awe, we might better understand the importance of patience. We could appreciate the changes of the seasons and their harvests, observe the life of animals and their cycles of growth, and enjoy the clarity of vision of Saint Francis. In his Canticle of the Creatures, written exactly eight hundred years ago, Francis saw all creation as a great family and could call the sun his “brother” and the moon his “sister”.[2] A renewed appreciation of the value of patience could only prove beneficial for ourselves and for others. Saint Paul often speaks of patience in the context of our need for perseverance and confident trust in God’s promises. Yet, before all else, he testifies to God’s own patience, as “the God of all patience and encouragement” (Rom 15:5). Patience, one of the fruits of the Holy Spirit, sustains our hope and strengthens it as a virtue and a way of life. May we learn to pray frequently for the grace of patience, which is both the daughter of hope and at the same time its firm foundation.

A journey of hope

5. This interplay of hope and patience makes us see clearly that the Christian life is a journey calling for moments of greater intensity to encourage and sustain hope as the constant companion that guides our steps towards the goal of our encounter with the Lord Jesus. I like to think that the proclamation of the first Jubilee, in the year 1300, was preceded by a journey of grace inspired by popular spirituality. How can we fail to recall the various ways by which the grace of forgiveness had been poured out upon God’s holy and faithful People? We are reminded, for example, of the great “Pardon” that Saint Celestine V granted to all those who visited the Basilica of Santa Maria di Collemaggio in Aquila on the 28th and 29th days of August 1294, six years before Pope Boniface VIII instituted the Holy Year. The Church was already experiencing the grace of the Jubilee as an outpouring of divine mercy. Even earlier, in 1216, Pope Honorius III granted the plea of Saint Francis for an indulgence for all those visiting the Porziuncola on the first two days of August. The same can be said of the pilgrimage to Santiago de Compostela: in 1222, Pope Callistus II allowed the Jubilee to be celebrated there whenever the Feast of the Apostle James fell on a Sunday. It is good that such “dispersed” celebrations of the Jubilee continue, so that the power of God’s forgiveness can support and accompany communities and individuals on their pilgrim way.

Pilgrimage is of course a fundamental element of every Jubilee event. Setting out on a journey is traditionally associated with our human quest for meaning in life. A pilgrimage on foot is a great aid for rediscovering the value of silence, effort and simplicity of life. In the coming year, pilgrims of hope will surely travel the ancient and more modern routes in order to experience the Jubilee to the full. In Rome itself, along with the usual visits to the catacombs and the Seven Churches, other itineraries of faith will be proposed. Journeying from one country to another as if borders no longer mattered, and passing from one city to another in contemplating the beauty of creation and masterpieces of art, we learn to treasure the richness of different experiences and cultures, and are inspired to lift up that beauty, in prayer, to God, in thanksgiving for his wondrous works. The Jubilee Churches along the pilgrimage routes and in the city of Rome can serve as oases of spirituality and places of rest on the pilgrimage of faith, where we can drink from the wellsprings of hope, above all by approaching the sacrament of Reconciliation, the essential starting-point of any true journey of conversion. In the particular Churches, special care should be taken to prepare priests and the faithful to celebrate the sacrament of Confession and to make it readily available in its individual form.

In a particular way, I would like to invite the faithful of the Eastern Churches, particularly those already in full communion with the Successor of Peter, to take part in this pilgrimage. They have suffered greatly, often even unto death, for their fidelity to Christ and the Church, and so they should feel themselves especially welcome in this City of Rome that is also their Mother and cherishes so many memories of their presence. The Catholic Church, enriched by their ancient liturgies and the theology and spirituality of their Fathers, monks and theologians, wants to give symbolic expression to its embrace of them and their Orthodox brothers and sisters in these times when they endure their own Way of the Cross, often forced by violence and instability to leave their homelands, their holy lands, for safer places. For them, the hope born of the knowledge that they are loved by the Church, which does not abandon them but follows them wherever they go, will make the symbolism of the Jubilee all the more powerful.

6. The Holy Year of 2025 is itself in continuity with preceding celebrations of grace. In the last Ordinary Jubilee, we crossed the threshold of two millennia from the birth of Jesus Christ. Then, on 13 March 2015, I proclaimed an Extraordinary Jubilee for the sake of making known and encouraging an encounter with the “merciful face of God”,[3] the core message of the Gospel for every man and woman of every time and place. Now the time has come for a new Jubilee, when once more the Holy Door will be flung open to invite everyone to an intense experience of the love of God that awakens in hearts the sure hope of salvation in Christ. The Holy Year will also guide our steps towards yet another fundamental celebration for all Christians: 2033 will mark the two thousandth anniversary of the redemption won by the passion, death and resurrection of the Lord Jesus. We are about to make a pilgrimage marked by great events, in which the grace of God precedes and accompanies his people as they press forward firm in faith, active in charity and steadfast in hope (cf. 1 Thess 1:3).

Sustained by this great tradition, and certain that the Jubilee Year will be for the entire Church a lively experience of grace and hope, I hereby decree that the Holy Door of the Basilica of Saint Peter in the Vatican will be opened on 24 December 2024, thus inaugurating the Ordinary Jubilee. On the following Sunday, 29 December 2024, I will open the Holy Door of my cathedral, Saint John Lateran, which on 9 November this year will celebrate the 1700th anniversary of its dedication. Then, on 1 January 2025, the Solemnity of Mary, Mother of God, the Holy Door of the Papal Basilica of Saint Mary Major will be opened. Finally, Sunday, 5 January 2025, will mark the opening of the Holy Door of the Papal Basilica of Saint Paul Outside the Walls. These last three Holy Doors will be closed on Sunday, 28 December 2025.

I further decree that on Sunday, 29 December 2024, in every cathedral and co-cathedral, diocesan bishops are to celebrate Holy Mass as the solemn opening of the Jubilee Year, using the ritual indications that will be provided for that occasion. For celebrations in co-cathedrals, the bishop’s place can be taken by a suitably designated delegate. A pilgrimage that sets out from a church chosen for the collectio and then proceeds to the cathedral can serve to symbolize the journey of hope that, illumined by the word of God, unites all the faithful. In the course of this pilgrimage, passages from the present Document can be read, along with the announcement of the Jubilee Indulgence to be gained in accordance with the prescriptions found in the ritual indications mentioned above. The Holy Year will conclude in the particular Churches on Sunday, 28 December 2025; in the course of the year, every effort should be made to enable the People of God to participate fully in its proclamation of hope in God’s grace and in the signs that attest to its efficacy.

The Ordinary Jubilee will conclude with the closing of the Holy Door in the Papal Basilica of Saint Peter in the Vatican on 6 January 2026, the Solemnity of the Epiphany of the Lord. During the Holy Year, may the light of Christian hope illumine every man and woman, as a message of God’s love addressed to all! And may the Church bear faithful witness to this message in every part of the world!

Signs of hope

7. In addition to finding hope in God’s grace, we are also called to discover hope in the signs of the times that the Lord gives us. As the Second Vatican Council observed: “In every age, the Church has the responsibility of reading the signs of the times and interpreting them in the light of the Gospel. In this way, in language adapted to every generation, she can respond to people’s persistent questions about the meaning of this present life and of the life to come, and how one is related to the other”.[4] We need to recognize the immense goodness present in our world, lest we be tempted to think ourselves overwhelmed by evil and violence. The signs of the times, which include the yearning of human hearts in need of God’s saving presence, ought to become signs of hope.

8. The first sign of hope should be the desire for peace in our world, which once more finds itself immersed in the tragedy of war. Heedless of the horrors of the past, humanity is confronting yet another ordeal, as many peoples are prey to brutality and violence. What does the future hold for those peoples, who have already endured so much? How is it possible that their desperate plea for help is not motivating world leaders to resolve the numerous regional conflicts in view of their possible consequences at the global level? Is it too much to dream that arms can fall silent and cease to rain down destruction and death? May the Jubilee remind us that those who are peacemakers will be called “children of God” (Mt 5:9). The need for peace challenges us all, and demands that concrete steps be taken. May diplomacy be tireless in its commitment to seek, with courage and creativity, every opportunity to undertake negotiations aimed at a lasting peace.

9. Looking to the future with hope also entails having enthusiasm for life and a readiness to share it. Sadly, in many situations this is lacking. A first effect of this is the loss of the desire to transmit life. A number of countries are experiencing an alarming decline in the birthrate as a result of today’s frenetic pace, fears about the future, the lack of job security and adequate social policies, and social models whose agenda is dictated by the quest for profit rather than concern for relationships. In certain quarters, the tendency “to blame population growth, instead of extreme and selective consumerism on the part of some, is one way of refusing to face the [real] issues”.[5]

Openness to life and responsible parenthood is the design that the Creator has implanted in the hearts and bodies of men and women, a mission that the Lord has entrusted to spouses and to their love. It is urgent that responsible legislation on the part of states be accompanied by the firm support of communities of believers and the entire civil community in all its components. For the desire of young people to give birth to new sons and daughters as a sign of the fruitfulness of their love ensures a future for every society. This is a matter of hope: it is born of hope and it generates hope.

Consequently, the Christian community should be at the forefront in pointing out the need for a social covenant to support and foster hope, one that is inclusive and not ideological, working for a future filled with the laughter of babies and children, in order to fill the empty cradles in so many parts of our world. All of us, however, need to recover the joy of living, since men and women, created in the image and likeness of God (cf. Gen 1:26), cannot rest content with getting along one day at a time, settling for the here and now and seeking fulfilment in material realities alone. This leads to a narrow individualism and the loss of hope; it gives rise to a sadness that lodges in the heart and brings forth fruits of discontent and intolerance.

10. During the Holy Year, we are called to be tangible signs of hope for those of our brothers and sisters who experience hardships of any kind. I think of prisoners who, deprived of their freedom, daily feel the harshness of detention and its restrictions, lack of affection and, in more than a few cases, lack of respect for their persons. I propose that in this Jubilee Year governments undertake initiatives aimed at restoring hope; forms of amnesty or pardon meant to help individuals regain confidence in themselves and in society; and programmes of reintegration in the community, including a concrete commitment to respect for law.

This is an ancient appeal, one drawn from the word of God, whose wisdom remains ever timely. It calls for acts of clemency and liberation that enable new beginnings: “You shall hallow the fiftieth year and you shall proclaim liberty throughout the land to all its inhabitants” (Lev 25:10). This institution of the Mosaic law was later taken up by the prophet Isaiah: “The Lord has sent me to bring good news to the oppressed, to bind up the brokenhearted, to proclaim liberty to the captives and release to the prisoners, to proclaim the year of the Lord’s favour” (Is 61:1-2). Jesus made those words his own at the beginning of his ministry, presenting himself as the fulfilment of the “year of the Lord’s favour” (cf. Lk 4:18-19). In every part of the world, believers, and their Pastors in particular, should be one in demanding dignified conditions for those in prison, respect for their human rights and above all the abolition of the death penalty, a provision at odds with Christian faith and one that eliminates all hope of forgiveness and rehabilitation.[6] In order to offer prisoners a concrete sign of closeness, I would myself like to open a Holy Door in a prison, as a sign inviting prisoners to look to the future with hope and a renewed sense of confidence.

11. Signs of hope should also be shown to the sick, at home or in hospital. Their sufferings can be allayed by the closeness and affection of those who visit them. Works of mercy are also works of hope that give rise to immense gratitude. Gratitude should likewise be shown to all those healthcare workers who, often in precarious conditions, carry out their mission with constant care and concern for the sick and for those who are most vulnerable.

Inclusive attention should also be given to all those in particularly difficult situations, who experience their own weaknesses and limitations, especially those affected by illnesses or disabilities that severely restrict their personal independence and freedom. Care given to them is a hymn to human dignity, a song of hope that calls for the choral participation of society as a whole.

12. Signs of hope are also needed by those who are the very embodiment of hope, namely, the young. Sadly, they often see their dreams and aspirations frustrated. We must not disappoint them, for the future depends on their enthusiasm. It is gratifying to see the energy they demonstrate, for example, by rolling up their sleeves and volunteering to help when disasters strike and people are in need. Yet it is sad to see young people who are without hope, who face an uncertain and unpromising future, who lack employment or job security, or realistic prospects after finishing school. Without the hope that their dreams can come true, they will inevitably grow discouraged and listless. Escaping into drugs, risk-taking and the pursuit of momentary pleasure does greater harm to them in particular, since it closes them to life’s beauty and richness, and can lead to depression and even self-destructive actions. For this reason, the Jubilee should inspire the Church to make greater efforts to reach out to them. With renewed passion, let us demonstrate care and concern for adolescents, students and young couples, the rising generation. Let us draw close to the young, for they are the joy and hope of the Church and of the world!

13. Signs of hope should also be present for migrants who leave their homelands behind in search of a better life for themselves and for their families. Their expectations must not be frustrated by prejudice and rejection. A spirit of welcome, which embraces everyone with respect for his or her dignity, should be accompanied by a sense of responsibility, lest anyone be denied the right to a dignified existence. Exiles, displaced persons and refugees, whom international tensions force to emigrate in order to avoid war, violence and discrimination, ought to be guaranteed security and access to employment and education, the means they need to find their place in a new social context.

May the Christian community always be prepared to defend the rights of those who are most vulnerable, opening wide its doors to welcome them, lest anyone ever be robbed of the hope of a better future. May the Lord’s words in the great parable of the Last Judgement always find an echo in our hearts: “I was a stranger and you welcomed me” for “just as you did it to one of the least of these my brothers and sisters, you did it to me” (Mt 25:35.40).

14. The elderly, who frequently feel lonely and abandoned, also deserve signs of hope. Esteem for the treasure that they are, their life experiences, their accumulated wisdom and the contribution that they can still make, is incumbent on the Christian community and civil society, which are called to cooperate in strengthening the covenant between generations.

Here I would also mention grandparents, who represent the passing on of faith and wisdom to the younger generation. May they find support in the gratitude of their children and the love of their grandchildren, who discover in them their roots and a source of understanding and encouragement.

15. I ask with all my heart that hope be granted to the billions of the poor, who often lack the essentials of life. Before the constant tide of new forms of impoverishment, we can easily grow inured and resigned. Yet we must not close our eyes to the dramatic situations that we now encounter all around us, not only in certain parts of the world. Each day we meet people who are poor or impoverished; they may even be our next-door neighbours. Often they are homeless or lack sufficient food for the day. They suffer from exclusion and indifference on the part of many. It is scandalous that in a world possessed of immense resources, destined largely to producing weapons, the poor continue to be “the majority of the planet’s population, billions of people. These days they are mentioned in international political and economic discussions, but one often has the impression that their problems are brought up as an afterthought, a question which gets added almost out of duty or in a tangential way, if not treated merely as collateral damage. Indeed, when all is said and done, they frequently remain at the bottom of the pile”.[7] Let us not forget: the poor are almost always the victims, not the ones to blame.

Appeals for hope

16. Echoing the age-old message of the prophets, the Jubilee reminds us that the goods of the earth are not destined for a privileged few, but for everyone. The rich must be generous and not avert their eyes from the faces of their brothers and sisters in need. Here I think especially of those who lack water and food: hunger is a scandal, an open wound on the body of our humanity, and it summons all of us to a serious examination of conscience. I renew my appeal that “with the money spent on weapons and other military expenditures, let us establish a global fund that can finally put an end to hunger and favour development in the most impoverished countries, so that their citizens will not resort to violent or illusory situations, or have to leave their countries in order to seek a more dignified life”.[8]

Another heartfelt appeal that I would make in light of the coming Jubilee is directed to the more affluent nations. I ask that they acknowledge the gravity of so many of their past decisions and determine to forgive the debts of countries that will never be able to repay them. More than a question of generosity, this is a matter of justice. It is made all the more serious today by a new form of injustice which we increasingly recognize, namely, that “a true ‘ecological debt’ exists, particularly between the global North and South, connected to commercial imbalances with effects on the environment and the disproportionate use of natural resources by certain countries over long periods of time”.[9] As sacred Scripture teaches, the earth is the Lord’s and all of us dwell in it as “aliens and tenants” (Lev 25:23). If we really wish to prepare a path to peace in our world, let us commit ourselves to remedying the remote causes of injustice, settling unjust and unpayable debts, and feeding the hungry.

17. The coming Jubilee Year will also coincide with a significant date for all Christians, namely, the 1700th anniversary of the celebration of the first great Ecumenical Council, that of Nicaea. It is worth noting that, from apostolic times, bishops have gathered on various occasions in order to discuss doctrinal questions and disciplinary matters. In the first centuries of Christianity, synods frequently took place in both East and West, showing the importance of ensuring the unity of God’s People and the faithful proclamation of the Gospel. The Jubilee can serve as an important occasion for giving concrete expression to this form of synodality, which the Christian community today considers increasingly necessary for responding to the urgent need for evangelization. All the baptized, with their respective charisms and ministries, are co-responsible for ensuring that manifold signs of hope bear witness to God’s presence in the world.

The Council of Nicaea sought to preserve the Church’s unity, which was seriously threatened by the denial of the full divinity of Jesus Christ and hence his consubstantiality with the Father. Some three hundred bishops took part, convoked at the behest of the Emperor Constantine; their first meeting took place in the Imperial Palace on 20 May 325. After various debates, by the grace of the Spirit they unanimously approved the Creed that we still recite each Sunday at the celebration of the Eucharist. The Council Fathers chose to begin that Creed by using for the first time the expression “We believe”,[10] as a sign that all the Churches were in communion and that all Christians professed the same faith.

The Council of Nicaea was a milestone in the Church’s history. The celebration of its anniversary invites Christians to join in a hymn of praise and thanksgiving to the Blessed Trinity and in particular to Jesus Christ, the Son of God, “consubstantial with the Father”,[11] who revealed to us that mystery of love. At the same time, Nicaea represents a summons to all Churches and Ecclesial Communities to persevere on the path to visible unity and in the quest of fitting ways to respond fully to the prayer of Jesus “that they may all be one. As you, Father, are in me and I am in you, may they also be in us, so that the world may believe that you have sent me” (Jn 17:21).

The Council of Nicaea also discussed the date of Easter. To this day, different approaches to this question prevent celebrating the fundamental event of our faith on the same day. Providentially, a common celebration will take place in the year 2025. May this serve as an appeal to all Christians, East and West, to take a decisive step forward towards unity around a common date for Easter. We do well to remind ourselves that many people, unaware of the controversies of the past, fail to understand how divisions in this regard can continue to exist.

Anchored in hope

18. Hope, together with faith and charity, makes up the triptych of the “theological virtues” that express the heart of the Christian life (cf. 1 Cor 13:13; 1 Thess 1:3). In their inseparable unity, hope is the virtue that, so to speak, gives inward direction and purpose to the life of believers. For this reason, the Apostle Paul encourages us to “rejoice in hope, be patient in suffering, and persevere in prayer” (Rom 12:12). Surely we need to “abound in hope” (cf. Rom 15:13), so that we may bear credible and attractive witness to the faith and love that dwell in our hearts; that our faith may be joyful and our charity enthusiastic; and that each of us may be able to offer a smile, a small gesture of friendship, a kind look, a ready ear, a good deed, in the knowledge that, in the Spirit of Jesus, these can become, for those who receive them, rich seeds of hope. Yet what is the basis of our hope? To understand this, let us stop and reflect on “the reasons for our hope” (cf. 1 Pet 3:15).

19. “I believe in life everlasting”.[12] So our faith professes. Christian hope finds in these words an essential foundation. For hope is “that theological virtue by which we desire… eternal life as our happiness”.[13] The Second Vatican Council says of hope that, “when people are deprived of this divine support, and lack hope in eternal life, their dignity is deeply impaired, as may so often be seen today. The problems of life and death, of guilt and suffering, remain unsolved, so that people are frequently thrown into despair”.[14] We, however, by virtue of the hope in which we were saved, can view the passage of time with the certainty that the history of humanity and our own individual history are not doomed to a dead end or a dark abyss, but directed to an encounter with the Lord of glory. As a result, we live our lives in expectation of his return and in the hope of living forever in him. In this spirit, we make our own the heartfelt prayer of the first Christians with which sacred Scripture ends: “Come, Lord Jesus!” (Rev 22:20).

20. The death and resurrection of Jesus is the heart of our faith and the basis of our hope. Saint Paul states this succinctly by the use of four verbs: “I handed on to you as of first importance what I in turn had received, that Christ died for our sins in accordance with the Scriptures, and that he was buried, and that he was raised on the third day in accordance with the Scriptures, and that he appeared to Cephas and then to the twelve” (1 Cor 15:3-5). Christ died, was buried, was raised and appeared. For our sake, Jesus experienced the drama of death. The Father’s love raised him in the power of the Spirit, and made of his humanity the first fruits of our eternal salvation. Christian hope consists precisely in this: that in facing death, which appears to be the end of everything, we have the certainty that, thanks to the grace of Christ imparted to us in Baptism, “life is changed, not ended”,[15] forever. Buried with Christ in Baptism, we receive in his resurrection the gift of a new life that breaks down the walls of death, making it a passage to eternity.

The reality of death, as a painful separation from those dearest to us, cannot be mitigated by empty rhetoric. The Jubilee, however, offers us the opportunity to appreciate anew, and with immense gratitude, the gift of the new life that we have received in Baptism, a life capable of transfiguring death’s drama. It is worth reflecting, in the context of the Jubilee, on how that mystery has been understood from the earliest centuries of the Church’s life. An example would be the tradition of building baptismal fonts in the shape of an octagon, as seen in many ancient baptisteries, like that of Saint John Lateran in Rome. This was intended to symbolize that Baptism is the dawn of the “eighth day”, the day of the resurrection, a day that transcends the normal, weekly passage of time, opening it to the dimension of eternity and to life everlasting: the goal to which we tend on our earthly pilgrimage (cf. Rom 6:22).

The most convincing testimony to this hope is provided by the martyrs. Steadfast in their faith in the risen Christ, they renounced life itself here below, rather than betray their Lord. Martyrs, as confessors of the life that knows no end, are present and numerous in every age, and perhaps even more so in our own day. We need to treasure their testimony, in order to confirm our hope and allow it to bear good fruit.

The martyrs, coming as they do from different Christian traditions, are also seeds of unity, expressions of the ecumenism of blood. I greatly hope that the Jubilee will also include ecumenical celebrations as a way of highlighting the richness of the testimony of these martyrs.

21. What, then, will become of us after death? With Jesus, beyond this threshold we will find eternal life, consisting in full communion with God as we forever contemplate and share in his infinite love. All that we now experience in hope, we shall then see in reality. We are reminded of the words of Saint Augustine: “When I am one with you in all my being, there will be no more pain and toil; my life shall be true life, a life wholly filled by you”.[16] What will characterize this fullness of communion? Being happy. Happiness is our human vocation, a goal to which all aspire.

But what is happiness? What is the happiness that we await and desire? Not some fleeting pleasure, a momentary satisfaction that, once experienced, keeps us longing for more, in a desperate quest that leaves our hearts unsated and increasingly empty. We aspire to a happiness that is definitively found in the one thing that can bring us fulfilment, which is love. Thus, we will be able to say even now: I am loved, therefore I exist; and I will live forever in the love that does not disappoint, the love from which nothing can ever separate me. Let us listen once more to the words of the Apostle: “I am convinced that neither death, nor life, nor angels, nor rulers, nor things present, nor things to come, nor powers, nor height, nor depth, nor anything else in all creation, will be able to separate us from the love of God in Christ Jesus our Lord” (Rom 8:38-39).

22. Another reality having to do with eternal life is God’s judgement, both at the end of our individual lives and at the end of history. Artists have often attempted to portray it – here we can think of Michelangelo’s magnum opus in the Sistine Chapel – in accordance with the theological vision of their times and with the aim of inspiring a sense of awe in the viewer. We should indeed prepare ourselves consciously and soberly for the moment when our lives will be judged, but we must always do this from the standpoint of hope, the theological virtue that sustains our lives and shields them from groundless fear. The judgement of God, who is love (cf. 1 Jn 4:8.16), will surely be based on love, and in particular on all that we have done or failed to do with regard to those in need, in whose midst Christ, the Judge himself, is present (cf. Mt 25:31-46). Clearly, then, we are speaking of a judgement unlike any handed down by human, earthly tribunals; it should be understood as a rapport of truth with the God who is love and with oneself, within the unfathomable mystery of divine mercy. Sacred Scripture states: “You have taught your people that the righteous must be kind, and you have filled your children with good hope, because you give repentance for sins, so that… when we are judged, we may expect mercy” (Wis 12:19.22). In the words of Benedict XVI: “At the moment of judgement we experience and we absorb the overwhelming power of his love over all the evil in the world and in ourselves. The pain of love becomes our salvation and our joy”.[17]

Judgement, then, concerns the salvation in which we hope and which Jesus has won for us by his death and resurrection. It is meant to bring us to a definitive encounter with the Lord. The evil we have done cannot remain hidden; it needs to be purified in order to enable this definitive encounter with God’s love. Here we begin to see the need of our prayers for all those who have ended their earthly pilgrimage, our solidarity in an intercession that is effective by virtue of the communion of the saints, and the shared bond that makes us one in Christ, the firstborn of all creation. The Jubilee indulgence, thanks to the power of prayer, is intended in a particular way for those who have gone before us, so that they may obtain full mercy.

23. ndeed, the indulgence is a way of discovering the unlimited nature of God’s mercy. Not by chance, for the ancients, the terms “mercy” and “indulgence” were interchangeable, as expressions of the fullness of God’s forgiveness, which knows no bounds.

The sacrament of Penance assures us that God wipes away our sins. We experience those powerful and comforting words of the Psalm: “It is he who forgives all your guilt, who heals every one of your ills, who redeems your life from the grave, who crowns you with love and compassion… The Lord is compassion and love, slow to anger and rich in mercy… He does not treat us according to our sins, nor repay us according to our faults. For as the heavens are high above the earth, so strong is his love for those who fear him. As far as the east is from the west, so far does he remove our sins” (Ps 103:3-4.8.10-12). The sacrament of Reconciliation is not only a magnificent spiritual gift, but also a decisive, essential and fundamental step on our journey of faith. There, we allow the Lord to erase our sins, to heal our hearts, to raise us up, to embrace us and to reveal to us his tender and compassionate countenance. There is no better way to know God than to let him reconcile us to himself (cf. 2 Cor 5:20) and savour his forgiveness. Let us not neglect Confession, but rediscover the beauty of this sacrament of healing and joy, the beauty of God’s forgiveness of our sins!

Still, as we know from personal experience, every sin “leaves its mark”. Sin has consequences, not only outwardly in the effects of the wrong we do, but also inwardly, inasmuch as “every sin, even venial, entails an unhealthy attachment to creatures, which must be purified either here on earth, or after death, in the state called Purgatory”.[18] In our humanity, weak and attracted by evil, certain residual effects of sin remain. These are removed by the indulgence, always by the grace of Christ, who, as Saint Paul VI wrote, “is himself our ‘indulgence’”.[19] The Apostolic Penitentiary will issue norms for obtaining and rendering spiritually fruitful the practice of the Jubilee indulgence.

This experience of full forgiveness cannot fail to open our hearts and minds to the need to forgive others in turn. Forgiveness does not change the past; it cannot change what happened in the past, yet it can allow us to change the future and to live different lives, free of anger, animosity and vindictiveness. Forgiveness makes possible a brighter future, which enables us to look at the past with different eyes, now more serene, albeit still bearing the trace of past tears.

For the last Extraordinary Jubilee, I commissioned Missionaries of Mercy, and these continue to carry out an important mission. During the coming Jubilee, may they exercise their ministry by reviving hope and offering forgiveness whenever a sinner comes to them with an open heart and a penitent spirit. May they remain a source of reconciliation and an encouragement to look to the future with heartfelt hope inspired by the Father’s mercy. I encourage bishops to take advantage of their precious ministry, especially by sending them wherever hope is sorely tested: to prisons, hospitals, and places where people’s dignity is violated, poverty abounds and social decay is prevalent. In this Jubilee Year, may no one be deprived of the opportunity to receive God’s forgiveness and consolation.

24. Hope finds its supreme witness in the Mother of God. In the Blessed Virgin, we see that hope is not naive optimism but a gift of grace amid the realities of life. Like every mother, whenever Mary looked at her Son, she thought of his future. Surely she kept pondering in her heart the words spoken to her in the Temple by the elderly Simeon: “This child is destined for the falling and rising of many in Israel, and to be a sign that will be opposed, so that the inner thoughts of many will be revealed – and a sword will pierce your own soul too” (Lk 2:34-35). At the foot of the cross, she witnessed the passion and death of Jesus, her innocent son. Overwhelmed with grief, she nonetheless renewed her “fiat”, never abandoning her hope and trust in God. In this way, Mary cooperated for our sake in the fulfilment of all that her Son had foretold in announcing that he would have to “undergo great suffering, and be rejected by the elders, the chief priests, and the scribes, and be killed, and after three days rise again” (Mk 8:31). In the travail of that sorrow, offered in love, Mary became our Mother, the Mother of Hope. It is not by chance that popular piety continues to invoke the Blessed Virgin as Stella Maris, a title that bespeaks the sure hope that, amid the tempests of this life, the Mother of God comes to our aid, sustains us and encourages us to persevere in hope and trust.

In this regard, I would note that the Shrine of Our Lady of Guadalupe in Mexico City is preparing to celebrate, in 2031, the fifth centenary of Our Lady’s first apparition. Through Juan Diego, the Mother of God brought a revolutionary message of hope that she continues to bring to every pilgrim and all the faithful: “Am I not here, who am your Mother?”[20] That message continues to touch hearts in the many Marian shrines throughout the world, where countless pilgrims commend to the holy Mother of God their cares, their sorrows and their hopes. During the Jubilee Year, may these shrines be sacred places of welcome and privileged spaces for the rebirth of hope. I encourage all pilgrims to Rome to spend time in prayer in the Marian shrines of the City, in order to venerate the Blessed Mother and to implore her protection. I am confident that everyone, especially the suffering and those most in need, will come to know the closeness of Mary, the most affectionate of mothers, who never abandons her children and who, for the holy people of God, is “a sign of certain hope and comfort”.[21]

25. In our journey towards the Jubilee, let us return to Scripture and realize that it speaks to us in these words: “May we who have taken refuge in him be strongly encouraged to seize the hope set before us. We have this hope, a sure and steadfast anchor of the soul, a hope that enters the inner shrine behind the curtain, where Jesus, a forerunner on our behalf, has entered” (Heb 6:18-20). Those words are a forceful encouragement for us never to lose the hope we have been given, to hold fast to that hope and to find in God our refuge and our strength.

The image of the anchor is eloquent; it helps us to recognize the stability and security that is ours amid the troubled waters of this life, provided we entrust ourselves to the Lord Jesus. The storms that buffet us will never prevail, for we are firmly anchored in the hope born of grace, which enables us to live in Christ and to overcome sin, fear and death. This hope, which transcends life’s fleeting pleasures and the achievement of our immediate goals, makes us rise above our trials and difficulties, and inspires us to keep pressing forward, never losing sight of the grandeur of the heavenly goal to which we have been called.

The coming Jubilee will thus be a Holy Year marked by the hope that does not fade, our hope in God. May it help us to recover the confident trust that we require, in the Church and in society, in our interpersonal relationships, in international relations, and in our task of promoting the dignity of all persons and respect for God’s gift of creation. May the witness of believers be for our world a leaven of authentic hope, a harbinger of new heavens and a new earth (cf. 2 Pet 3:13), where men and women will dwell in justice and harmony, in joyful expectation of the fulfilment of the Lord’s promises.

Let us even now be drawn to this hope! Through our witness, may hope spread to all those who anxiously seek it. May the way we live our lives say to them in so many words: “Hope in the Lord! Hold firm, take heart and hope in the Lord!” (Ps 27:14). May the power of hope fill our days, as we await with confidence the coming of the Lord Jesus Christ, to whom be praise and glory, now and forever.

Given in Rome, at Saint John Lateran, on 9 May, the Solemnity of the Ascension of our Lord Jesus Christ, in the year 2024, the twelfth of my Pontificate.

FRANCIS

_____________________

[1] Serm. 198 augm. 2.

[2] Cf. Fonti Francescane, No. 263, 6.10.

[3] Cf. Bull of Indiction of the Extraordinary Jubilee of Mercy Misericordiae Vultus, 1-3.

[4] Pastoral Constitution Gaudium et Spes, 4.

[5] Encyclical Letter Laudato Si’, 50.

[6] Cf. Catechism of the Catholic Church, No. 2267.

[7] Encyclical Letter Laudato Si’, 49

[8] Encyclical Letter Fratelli Tutti, 262.

[9] Encyclical Letter Laudato Si’, 51.

[10] Nicene Creed: H. DENZINGER-A. SCHÖNMETZER, Enchiridion symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, 125.

[11] Ibid.

[12] Apostles’ Creed: H. DENZINGER-A. SCHÖNMETZER, Enchiridion symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, 30.

[13] Catechism of the Catholic Church, No. 1817.

[14] Pastoral Constitution Gaudium et Spes, 21.

[15] ROMAN MISSAL, Preface I for the Dead.

[16] Confessions, X, 28.

[17] Encyclical Letter Spe Salvi, 47.

[18] Catechism of the Catholic Church, No. 1472.

[19] Apostolic Letter Apostolorum Limina, 23 May 1974, II.

[20] Nican Mopohua, No. 119.

[21] SECOND VATICAN ECUMENICAL COUNCIL, Dogmatic Constitution Lumen Gentium, 68

[00781-EN.01] [Testo originale: Inglese]

Testo in lingua tedesca

SPES NON CONFUNDIT

Verkündigungsbulle
des Ordentlichen Jubiläums
des Jahres 2025

FRANZISKUS
BISCHOF VON ROM
DIENER DER DIENER GOTTES
MÖGE DIE HOFFNUNG DIE HERZEN ALLER ERFÜLLEN,
DIE DIESES SCHREIBEN LESEN

1. »Spes non confundit«, „die Hoffnung lässt nicht zugrunde gehen“ (vgl. Röm 5,5). Im Zeichen der Hoffnung macht der Apostel Paulus der christlichen Gemeinde von Rom Mut. Hoffnung ist auch die zentrale Botschaft des bevorstehenden Heiligen Jahres, das der Papst nach alter Tradition alle fünfundzwanzig Jahre ausruft. Ich denke an all die Pilger der Hoffnung, die nach Rom kommen werden, um das Heilige Jahr zu feiern, und an diejenigen, welche die Stadt der Apostel Petrus und Paulus nicht besuchen können und es in den Teilkirchen begehen werden. Für alle möge es ein Moment der lebendigen und persönlichen Begegnung mit unserem Herrn Jesus Christus sein, der »Tür« zum Heil (vgl. Joh 10,7.9); einer Begegnung mit ihm, den die Kirche immer und überall und allen als „unsere Hoffnung“ (vgl. 1 Tim 1,1) zu verkünden hat.

Alle hoffen. Im Herzen eines jeden Menschen lebt die Hoffnung als Wunsch und Erwartung des Guten, auch wenn er nicht weiß, was das Morgen bringen wird. Die Unvorhersehbarkeit der Zukunft ruft jedoch teilweise widersprüchliche Gefühle hervor: von der Zuversicht zur Angst, von der Gelassenheit zur Verzweiflung, von der Gewissheit zum Zweifel. Oft begegnen wir entmutigten Menschen, die mit Skepsis und Pessimismus in die Zukunft blicken, so als ob ihnen nichts Glück bereiten könnte. Möge das Heilige Jahr für alle eine Gelegenheit sein, die Hoffnung wieder aufleben zu lassen. Das Wort Gottes hilft uns, Gründe dafür zu finden. Lassen wir uns von dem leiten, was der Apostel Paulus an die Christen in Rom schreibt.

Ein Wort der Hoffnung

2. »Gerecht gemacht also aus Glauben, haben wir Frieden mit Gott durch Jesus Christus, unseren Herrn. Durch ihn haben wir auch im Glauben den Zugang zu der Gnade erhalten, in der wir stehen, und rühmen uns der Hoffnung auf die Herrlichkeit Gottes. […] Die Hoffnung aber lässt nicht zugrunde gehen; denn die Liebe Gottes ist ausgegossen in unsere Herzen durch den Heiligen Geist, der uns gegeben ist« (Röm 5,1-2.5). Vielfältig sind die Denkanstöße, die der heilige Paulus hier gibt. Wir wissen, dass der Brief an die Römer einen entscheidenden Übergang in seiner Verkündigungstätigkeit markiert. Bis dahin hatte er sie im östlichen Teil des Reiches wahrgenommen, und nun wartet Rom auf ihn, mit all dem, was es in den Augen der Welt darstellt: eine große Herausforderung, der er sich zur Verkündigung des Evangeliums stellen muss, die keine Schranken oder Grenzen kennt. Die Kirche von Rom wurde nicht von Paulus gegründet, und er verspürt den brennenden Wunsch, sie bald zu besuchen, um zu allen das Evangelium von Jesus Christus, der gestorben und auferstanden ist, zu bringen, als Botschaft der Hoffnung, die die Verheißungen erfüllt, zur Herrlichkeit führt und, auf der Liebe gegründet, nicht enttäuscht.

3. Die Hoffnung wird nämlich aus der Liebe geboren und gründet sich auf die Liebe, die aus dem am Kreuz durchbohrten Herzen Jesu fließt: »Da wir mit Gott versöhnt wurden durch den Tod seines Sohnes, als wir noch Gottes Feinde waren, werden wir erst recht, nachdem wir versöhnt sind, gerettet werden durch sein Leben« (Röm 5,10). Und sein Leben zeigt sich in unserem Glaubensleben, das mit der Taufe beginnt, sich in der Fügsamkeit gegenüber der Gnade Gottes entwickelt und deshalb von der Hoffnung beseelt ist, die durch das Wirken des Heiligen Geistes immer wieder erneuert und unerschütterlich wird.

Es ist nämlich der Heilige Geist, der mit seiner beständigen Gegenwart in der pilgernden Kirche das Licht der Hoffnung in den Gläubigen verbreitet. Er lässt es brennen wie eine Fackel, die nie erlischt, um unserem Leben Halt und Kraft zu geben. Tatsächlich täuscht die christliche Hoffnung nicht und sie enttäuscht nicht, denn sie gründet sich auf die Gewissheit, dass nichts und niemand uns jemals von der göttlichen Liebe trennen kann: »Was kann uns scheiden von der Liebe Christi? Bedrängnis oder Not oder Verfolgung, Hunger oder Kälte, Gefahr oder Schwert? [...] Doch in alldem tragen wir einen glänzenden Sieg davon durch den, der uns geliebt hat. Denn ich bin gewiss: Weder Tod noch Leben, weder Engel noch Mächte, weder Gegenwärtiges noch Zukünftiges noch Gewalten, weder Höhe oder Tiefe noch irgendeine andere Kreatur können uns scheiden von der Liebe Gottes, die in Christus Jesus ist, unserem Herrn« (Röm 8,35.37-39). Deshalb bricht diese Hoffnung angesichts von Schwierigkeiten nicht zusammen. Sie gründet sich auf den Glauben und wird von der Liebe genährt und ermöglicht es so, im Leben weiterzugehen. Der heilige Augustinus schreibt dazu: »Niemand lebt was für ein Leben auch immer ohne diese drei Neigungen der Seele: glauben, hoffen und lieben«.[1]

4. Der heilige Paulus ist sehr realistisch. Er weiß, dass das Leben aus Freud und Leid besteht, dass die Liebe auf die Probe gestellt wird, wenn die Schwierigkeiten zunehmen, und dass die Hoffnung angesichts des Leidens zu zerbrechen scheint. Dennoch schreibt er: »Wir rühmen uns ebenso der Bedrängnisse; denn wir wissen: Bedrängnis bewirkt Geduld, Geduld aber Bewährung, Bewährung Hoffnung« (Röm 5,3-4). Für den Apostel sind Bedrängnis und Leid die typischen Bedingungen für diejenigen, die das Evangelium in einem Klima des Unverständnisses und der Verfolgung verkünden (vgl. 2 Kor 6,3-10). Aber in solchen Situationen erblickt man durch die Dunkelheit hindurch ein Licht. Man entdeckt, wie die Verkündigung von der Kraft getragen wird, die aus dem Kreuz und der Auferstehung Christi strömt. Und dies führt zur Entwicklung einer Tugend, die eng mit der Hoffnung verbunden ist: der Geduld. Wir haben uns mittlerweile daran gewöhnt, alles sofort zu wollen, in einer Welt, in der die Eile eine Konstante geworden ist. Man hat keine Zeit mehr, sich zu treffen, und selbst in den Familien wird es oft schwierig, zusammenzukommen und in Ruhe miteinander zu reden. Die Geduld ist durch die Eile vertrieben worden und das fügt den Menschen großen Schaden zu. In der Folge haben Ungeduld, Nervosität und manchmal auch grundlose Gewalt Einzug gehalten, die zu Unzufriedenheit und Verschlossenheit führen.

Außerdem ist die Geduld im Zeitalter des Internets, in dem Raum und Zeit vom „Hier und Jetzt“ verdrängt werden, nicht wirklich heimisch. Wenn wir noch in der Lage wären, die Schöpfung zu bestaunen, könnten wir verstehen, wie entscheidend die Geduld ist. Den Wechsel der Jahreszeiten mit ihren jeweiligen Früchten abwarten; das Leben der Tiere und ihre Entwicklungszyklen beobachten; den schlichten Blick des heiligen Franziskus besitzen, der in seinem vor genau 800 Jahren verfassten Sonnengesang die Schöpfung als eine große Familie wahrnahm und Sonne und Mond „Bruder“ und „Schwester“[2] nannte. Die Geduld wiederzuentdecken ist gut für uns selbst und für die anderen. Der heilige Paulus spricht oft von der Geduld, um die Bedeutung der Ausdauer und des Vertrauens auf Gottes Verheißung hervorzuheben, aber vor allem bezeugt er, dass Gott mit uns geduldig ist, er, »der Gott der Geduld und des Trostes« (Röm 15,5). Die Geduld, ebenfalls eine Frucht des Heiligen Geistes, erhält die Hoffnung am Leben und konsolidiert sie als Tugend und Lebensweise. Lernen wir also, oft um die Gnade der Geduld zu bitten, die eine Tochter der Hoffnung ist und sie zugleich nährt.

Ein Weg der Hoffnung

5. Aus dieser inneren Verbindung von Hoffnung und Geduld wird deutlich, dass das christliche Leben ein Weg ist, der auch starke Momente braucht, um die Hoffnung zu nähren und zu stärken, die unersetzliche Begleiterin, die das Ziel erahnen lässt: die Begegnung mit unserem Herrn Jesus Christus. Gern denke ich daran, dass der Verkündigung des ersten Heiligen Jahres im Jahr 1300 ein von der Volksfrömmigkeit getragener Weg der Gnade vorausging. In der Tat dürfen wir die verschiedenen Formen nicht vergessen, in denen die Gnade der Vergebung über das heilige, gläubige Gottesvolk in reichem Maße ausgegossen wurde. Erinnern wir uns zum Beispiel an die große „Vergebungsfeier“, die der heilige Coelestin V. denjenigen gewährte, die sich am 28. und 29. August 1294 in die Basilika Santa Maria von Collemaggio in L’Aquila begaben, sechs Jahre bevor Papst Bonifatius VIII. das Heilige Jahr einführte. Die Kirche erlebte also bereits die Jubiläumsgnade der Barmherzigkeit. Und noch davor, im Jahr 1216, hatte Papst Honorius III. der Bitte des heiligen Franziskus entsprochen, denjenigen einen Ablass zu gewähren, die die Portiuncula in den ersten beiden Augusttagen besuchen würden. Das Gleiche gilt für die Pilgerfahrt nach Santiago de Compostela: Papst Calixtus II. erlaubte 1122, dass in dieser Wallfahrtskirche jedes Mal ein Heiliges Jahr gefeiert werden durfte, wenn das Fest des Apostels Jakobus auf einen Sonntag fiel. Es ist gut, dass diese „verbreitete“ Form von Jubiläumsfeiern fortgesetzt wird, damit die Kraft der Vergebung Gottes den Weg der Gemeinschaften und der Einzelnen stützen und begleiten kann.

Es ist kein Zufall, dass das Pilgern ein wesentliches Element eines jeden Heiligen Jahres darstellt. Sich auf einen Weg zu begeben, ist typisch für diejenigen, die sich auf die Suche nach dem Sinn des Lebens machen. Eine Fußwallfahrt trägt sehr dazu bei, den Wert der Stille, der Anstrengung und der Konzentration auf das Wesentliche wiederzuentdecken. Auch im kommenden Jahr werden die Pilger der Hoffnung es nicht versäumen, alte und neue Wege zu gehen, um das Heilige Jahr intensiv zu erleben. In der Stadt Rom selbst wird es neben den traditionellen Pilgerwegen zu den Katakomben und den Sieben Kirchen weitere Wege des Glaubens geben. Wenn man von einem Land in ein anderes reist, als wären die Grenzen überwunden, wenn man im Betrachten der Schöpfung und der Kunstwerke von einer Stadt zur anderen reist, wird man verschiedene Erfahrungen und Kulturen aufnehmen können, um die Schönheit in sich zu tragen, die durch das Gebet in Einklang gebracht, dazu führt, dass man Gott für die von ihm vollbrachten Wunder dankt. Die Jubiläumskirchen entlang der Pilgerrouten und in der Stadt Rom können zu geistlichen Oasen werden, wo man auf dem Glaubensweg Stärkung erfährt und aus den Quellen der Hoffnung trinkt, vor allem durch den Empfang des Bußsakraments, dem unverzichtbaren Ausgangspunkt eines echten Weges der Umkehr. In den Teilkirchen richte man besonderes Augenmerk auf die Vorbereitung der Priester und der Gläubigen auf die Beichte und achte darauf, dass die Gelegenheit zur Einzelbeichte besteht.

Zu dieser Pilgerschaft möchte ich den Gläubigen der Ostkirchen eine besondere Einladung aussprechen, besonders denjenigen, die bereits in voller Gemeinschaft mit dem Nachfolger Petri stehen. Sie, die so viel, oft bis zum Tod, für ihre Treue zu Christus und zur Kirche gelitten haben, sollen sich in diesem Rom besonders willkommen fühlen, das auch ihnen Mutter ist und viele Erinnerungen an ihre Anwesenheit birgt. Die katholische Kirche, die durch ihre uralten Liturgien, durch die Theologie und die Spiritualität der Väter – Mönche und Theologen – Bereicherung erfährt, möchte sie und ihre orthodoxen Brüder und Schwestern symbolisch willkommen heißen, in einer Zeit, in der sie bereits die Pilgerschaft des Kreuzweges durchleben und oft gezwungen sind, ihre Herkunftsländer, ihre heiligen Länder zu verlassen, aus denen sie vor Gewalt und Instabilität in sicherere Staaten flüchten. Ihre Erfahrung, von der Kirche geliebt zu sein, die sie nicht im Stich lässt, sondern ihnen überallhin folgt, wohin sie auch gehen, lässt für sie das Zeichen des Heiligen Jahres noch stärker werden.

6. Das Heilige Jahr 2025 steht in Kontinuität mit den vorangegangenen Gnadenjahren. Im letzten ordentlichen Heiligen Jahr wurde die Schwelle zum zweitausendsten Jahrestag der Geburt Jesu Christi überschritten. Danach habe ich am 13. März 2015 ein außerordentliches Heiliges Jahr ausgerufen mit dem Ziel, den Menschen das »Antlitz der Barmherzigkeit« Gottes[3], die zentrale Botschaft des Evangeliums für alle Menschen zu allen Zeiten, vor Augen zu stellen und die Begegnung mit diesem Antlitz zu ermöglichen. Nun ist die Zeit für ein neues Heiliges Jahr gekommen, in dem die Heilige Pforte wiederum weit geöffnet wird, um die lebendige Erfahrung der Liebe Gottes zu ermöglichen, die im Herzen die sichere Hoffnung auf Rettung in Christus weckt. Zugleich wird dieses Heilige Jahr den Weg zu einem weiteren grundlegenden Ereignis für alle Christen weisen: Im Jahr 2033 feiern wir die Erlösung durch Leiden, Tod und Auferstehung unseres Herrn Jesus Christus vor 2000 Jahren. Wir stehen also vor einem durch große Etappen gekennzeichneten Weg, auf denen die Gnade Gottes dem Volk, das eifrig im Glauben, tätig in der Nächstenliebe und standhaft in der Hoffnung wandelt, zuvorkommt und es begleitet (vgl. 1 Thess 1,3).

Gestützt auf eine so lange Tradition und in der Gewissheit, dass dieses Heilige Jahr für die ganze Kirche eine intensive Erfahrung der Gnade und der Hoffnung sein wird, lege ich fest, dass die Heilige Pforte des Petersdoms im Vatikan am 24. Dezember des Jahres 2024 geöffnet wird und damit das Ordentliche Heilige Jahr beginnt. Am darauffolgenden Sonntag, dem 29. Dezember 2024, werde ich die Heilige Pforte meiner Kathedralkirche, Sankt Johannes im Lateran, öffnen, deren Weihe sich am 9. November dieses Jahres zum 1700. Mal jährt. Am 1. Januar 2025, dem Hochfest der Gottesmutter Maria, wird die Heilige Pforte der päpstlichen Basilika Santa Maria Maggiore geöffnet werden. Am Sonntag, dem 5. Januar, wird schließlich die Heilige Pforte der päpstlichen Basilika Sankt Paul vor den Mauern geöffnet. Die letztgenannten drei Heiligen Pforten werden am Sonntag, dem 28. Dezember desselben Jahres, wieder geschlossen.

Ich verfüge ferner, dass die Diözesanbischöfe am Sonntag, dem 29. Dezember 2024, in allen Kathedralen und Konkathedralen zur feierlichen Eröffnung des Jubiläumsjahres die Heilige Eucharistie nach dem zu diesem Anlass zu erstellenden Rituale feiern. Für die Feier in der Konkathedrale kann der Bischof durch einen eigens bestimmten Delegaten vertreten werden. Der Pilgerweg von einer für die collectio ausgewählten Kirche zur Kathedrale möge ein Zeichen des Weges der Hoffnung sein, der, erleuchtet vom Wort Gottes, die Gläubigen vereint. Bei dieser Wallfahrt sollen Ausschnitte aus diesem Dokument verlesen und der Jubiläumsablass verkündet werden, den man nach den Vorschriften desselben Rituale für die Feier des Heiligen Jahres in den Teilkirchen erlangen kann. Während des Heiligen Jahres, das in den Ortskirchen am Sonntag, dem 28. Dezember 2025, endet, soll darauf geachtet werden, dass das Volk Gottes sowohl die Botschaft der Hoffnung auf Gottes Gnade als auch die Zeichen, die deren Wirksamkeit bezeugen, mit voller Anteilnahme empfangen kann.

Das Ordentliche Heilige Jahr wird mit der Schließung der Heiligen Pforte des Petersdoms im Vatikan am 6. Januar 2026, dem Fest der Erscheinung des Herrn, enden. Möge das Licht der christlichen Hoffnung jeden Menschen erreichen, als eine Botschaft der Liebe Gottes, die sich an alle richtet! Und möge die Kirche in allen Teilen der Welt eine treue Zeugin dieser Botschaft sein!

Zeichen der Hoffnung

7. Wir schöpfen die Hoffnung aus der Gnade Gottes, darüber hinaus dürfen wir sie aber auch in den Zeichen der Zeit wiederentdecken, die der Herr uns schenkt. Wie das Zweite Vatikanische Konzil feststellt, »obliegt der Kirche allzeit die Pflicht, nach den Zeichen der Zeit zu forschen und sie im Licht des Evangeliums zu deuten. So kann sie dann in einer jeweils einer Generation angemessenen Weise auf die bleibenden Fragen der Menschen nach dem Sinn des gegenwärtigen und des zukünftigen Lebens und nach dem Verhältnis beider zueinander Antwort geben«.[4] Wir müssen daher auf das viele Gute in der Welt achten, um nicht in die Versuchung zu geraten, das Böse und die Gewalt für übermächtig zu halten. Aber die Zeichen der Zeit, die die Sehnsucht des menschlichen Herzens einschließen, das der rettenden Gegenwart Gottes bedarf, verlangen danach, in Zeichen der Hoffnung verwandelt werden.

8. Das erste Zeichen der Hoffnung möge sich als Frieden für die Welt verwirklichen, die sich wieder einmal inmitten der Tragödie des Krieges befindet. Weil die Menschheit die Dramen der Vergangenheit vergisst, wird sie von einer neuen, schwierigen Prüfung heimgesucht, bei der viele Völker von der Brutalität der Gewalt getroffen werden. Was steht diesen Völkern denn noch bevor, was sie nicht schon erlitten hätten? Wie ist es möglich, dass ihr verzweifelter Hilfeschrei die Verantwortlichen der Nationen nicht dazu bewegt, den allzu vielen regionalen Konflikten ein Ende zu setzen, wohl wissend um die Folgen, die sich weltweit aus ihnen ergeben könnten? Ist es ein zu großer Traum, dass die Waffen schweigen und aufhören, Zerstörung und Tod zu bringen? Das Heilige Jahr möge uns daran erinnern, dass man diejenigen, die »Frieden stiften«, »Kinder Gottes« wird nennen können (Mt 5,9). Die Dringlichkeit des Friedens fordert uns alle heraus und verlangt von uns konkrete Projekte. Die Diplomatie darf in ihrem Bemühen nicht nachlassen, mutig und kreativ Verhandlungsräume für einen dauerhaften Frieden zu schaffen.

9. Hoffnungsvoll in die Zukunft zu blicken, bedeutet auch eine begeisterte Lebenseinstellung zu haben, die es weiterzugeben gilt. Leider müssen wir mit Bedauern feststellen, dass es in vielen Situationen an einer solchen Sichtweise mangelt. Die erste Folge ist der Verlust des Wunsches, das Leben weiterzugeben. Aufgrund hektischer Lebensrhythmen, Zukunftsängste, fehlender Garantien für einen Arbeitsplatz und eine angemessene soziale Absicherung sowie aufgrund von Gesellschaftsmodellen, in denen statt der Pflege menschlicher Beziehungen das Streben nach Profit die Agenda bestimmt, erleben wir in verschiedenen Ländern einen besorgniserregenden Rückgang der Geburtenrate. Dementgegen in anderen Zusammenhängen »die Schuld dem Bevölkerungszuwachs und nicht dem extremen und selektiven Konsumverhalten einiger anzulasten, [ist] eine Art, sich den Problemen nicht zu stellen«.[5]

Die Offenheit für das Leben durch eine verantwortliche Elternschaft ist der Plan, den der Schöpfer in die Herzen und Körper von Mann und Frau eingeschrieben hat; das ist eine Aufgabe, die der Herr den Eheleuten und ihrer Liebe anvertraut. Es ist dringend notwendig, dass es über die legislativen Bemühungen der Staaten hinaus nicht an einer entschiedenen Unterstützung der Glaubensgemeinschaften und der gesamten Zivilgesellschaft in all ihren Gliedern mangelt. Denn der Wunsch junger Menschen als Ausdruck der Fruchtbarkeit ihrer Liebe neue Söhne und Töchter zu zeugen, verleiht jeder Gesellschaft eine Zukunft und ist eine Frage der Hoffnung: Er hängt von der Hoffnung ab und bringt Hoffnung hervor.

Die christliche Gemeinschaft darf also niemandem nachstehen, wenn es darum geht, für ein notwendiges soziales Bündnis für die Hoffnung einzutreten, das inklusiv und nicht ideologisch ist und sich für eine Zukunft einsetzt, die gekennzeichnet ist vom Lächeln vieler Jungen und Mädchen, welche die mittlerweile viel zu vielen leeren Wiegen in zahlreichen Teilen der Welt füllen mögen. Aber eigentlich müssen alle die Freude am Leben zurückgewinnen, denn der Mensch, der nach dem Bild Gottes und ihm ähnlich geschaffen ist (vgl. Gen 1,26), kann sich nicht damit begnügen, nur zu überleben oder sich irgendwie durchzuschlagen, sich an die Gegenwart anzupassen und sich allein mit materiellen Gütern zufriedenzugeben. Das schließt den Menschen ein im Individualismus und zersetzt die Hoffnung, es erzeugt eine Traurigkeit, die sich im Herzen einnistet und den Menschen verbittert und unduldsam werden lässt.

10. Im Heiligen Jahr sind wir aufgerufen, zu greifbaren Zeichen der Hoffnung für viele Brüder und Schwestern zu werden, die unter schwierigen Bedingungen leben. Ich denke dabei an die Gefangenen, die bei Entzug ihrer Freiheit, jeden Tag neben der Härte der Haft auch die emotionale Leere, die auferlegten Einschränkungen und in nicht wenigen Fällen einen Mangel an Respekt erleben. Ich schlage den Regierungen vor, im Heiligen Jahr Initiativen zu ergreifen, die Hoffnung zurückgeben; Formen der Amnestie oder des Straferlasses, um den Menschen zu helfen, das Vertrauen in sich selbst und in die Gesellschaft zurückzugewinnen; Wege der Wiedereingliederung in die Gemeinschaft, denen eine konkrete Verpflichtung zur Einhaltung der Gesetze entsprechen möge.

Diese Aufforderung ist sehr alt, sie kommt aus dem Wort Gottes und ruft in seiner ganzen weisheitlichen Bedeutung auch weiter zu Akten der Begnadigung und der Befreiung auf, welche einen Neubeginn ermöglichen: »Erklärt dieses fünfzigste Jahr für heilig und ruft Freiheit für alle Bewohner des Landes aus« (Lev 25,10). Was durch das mosaische Gesetz festgelegt wurde, wird vom Propheten Jesaja aufgegriffen: Der Herr »hat mich gesandt, um den Armen frohe Botschaft zu bringen, um die zu heilen, die gebrochenen Herzens sind, um den Gefangenen Freilassung auszurufen und den Gefesselten Befreiung, um ein Gnadenjahr des Herrn auszurufen« (Jes 61,1-2). Dies sind die Worte, die sich Jesus zu Beginn seines Wirkens zu eigen gemacht hat, indem er in sich selbst als die Erfüllung des „Gnadenjahrs des Herrn“ bezeichnete (vgl. Lk 4,18-19). Mögen die Gläubigen, vor allem die Hirten, sich für diese Anliegen in allen Teilen der Welt einsetzen und mit vereinter Stimme mutig für menschenwürdige Bedingungen für Gefangene, die Achtung der Menschenrechte und vor allem die Abschaffung der Todesstrafe eintreten, welche eine Maßnahme darstellt, die dem christlichen Glauben entgegensteht und jegliche Hoffnung auf Vergebung und Erneuerung zunichtemacht.[6] Um den Häftlingen ein konkretes Zeichen der Nähe zu geben, möchte ich selbst in einem Gefängnis eine Heilige Pforte öffnen. Sie möge für sie ein Symbol sein, das einlädt hoffnungsvoll und mit erneuerter Lebensaufgabe in die Zukunft zu blicken.

11. Zeichen der Hoffnung müssen den Kranken gegeben werden, die sich zu Hause oder im Krankenhaus befinden. Mögen ihre Leiden durch die Nähe von Menschen, die sie besuchen, und durch die Zuwendung, die sie erhalten, gelindert werden. Die Werke der Barmherzigkeit sind auch Werke der Hoffnung, die in den Herzen Dankbarkeit wachrufen. Und die Dankbarkeit soll alle Mitarbeiter des Gesundheitswesens erreichen, die unter oftmals schwierigen Bedingungen ihren Dienst mit liebevoller Fürsorge für die Kranken und Schwächsten ausüben.

Es darf nicht an umfassender Aufmerksamkeit für diejenigen fehlen, die unter besonders schwierigen Lebensbedingungen die eigene Schwäche erfahren, insbesondere, wenn sie an Krankheiten oder Behinderungen leiden, die ihre persönliche Autonomie stark einschränken. Für sie zu sorgen ist wie ein Lobgesang auf die Menschenwürde, ein Lied der Hoffnung, das das Zusammenspiel der gesamten Gesellschaft erfordert.

12. Zeichen der Hoffnung benötigen auch diejenigen, die selbst die Hoffnung versinnbildlichen: die jungen Menschen. Sie erleben leider oft, wie ihre Träume zerbrechen. Wir dürfen sie nicht enttäuschen, denn auf ihrer Begeisterung gründet die Zukunft. Es ist schön zu sehen, wie sie Energien freisetzen, beispielsweise wenn sie die Ärmel hochkrempeln und sich freiwillig in Katastrophensituationen und sozialen Notlagen engagieren. Doch es ist traurig, junge Menschen ohne Hoffnung zu sehen. Allerdings ist es unvermeidlich, dass man die Gegenwart mit Melancholie und Langeweile lebt, wenn die Zukunft ungewiss ist und kein Träumen erlaubt, wenn das Studium keine Perspektiven bietet und das Fehlen einer Arbeit oder einer ausreichend festen Beschäftigung die Wünsche zunichte zu machen droht. Die Illusion der Drogen, das Risiko der Grenzüberschreitung und das Streben nach dem Kurzlebigen sorgen bei ihnen für mehr Verwirrung als bei anderen und verdecken die Schönheit und den Sinn des Lebens, sie lassen sie in dunkle Abgründe abgleiten und verleiten sie zu selbstzerstörerischen Handlungen. Deshalb möge das Heilige Jahr in der Kirche auch zu einem neuen Elan ihnen gegenüber führen: Nehmen wir uns mit neuer Leidenschaft der jungen Menschen an, der Studenten, der Verlobten, der jungen Generationen! Nähe zu den jungen Menschen – sie sind eine Freude und Hoffnung für die Kirche und für die Welt!

13. Es darf nicht an Zeichen der Hoffnung für Migranten fehlen, die ihr Land auf der Suche nach einem besseren Leben für sich und ihre Familien verlassen. Ihre Erwartungen dürfen nicht durch Vorurteile und Abschottung zunichtegemacht werden. Ein Empfang mit weit geöffneten Armen, wie es der Würde eines jeden entspricht, muss mit Verantwortungsbewusstsein einhergehen, damit niemandem das Recht verwehrt wird, sich eine bessere Zukunft aufzubauen. Den vielen Exilanten, Flüchtlingen und Vertriebenen, die durch die internationalen Konflikte zur Flucht gezwungen sind, um Kriegen, Gewalt und Diskriminierung zu entgehen, mögen Sicherheit und ein Zugang zu Arbeitsplätzen und Bildung garantiert werden, was notwendig ist für ihre Eingliederung in das neue soziale Umfeld.

Die christliche Gemeinschaft möge stets bereit sein, das Recht der Schwächsten zu verteidigen. Sie soll die Türen der Gastfreundschaft weit öffnen, damit niemandem die Hoffnung auf ein besseres Leben verloren geht. In den Herzen möge das Wort des Herrn widerhallen, der im großen Gleichnis vom Jüngsten Gericht sagte: »Ich war fremd und ihr habt mich aufgenommen«, denn »was ihr für einen meiner geringsten Brüder getan habt, das habt ihr mir getan« (Mt 25,35.40).

14. Zeichen der Hoffnung verdienen die älteren Menschen, die oft Einsamkeit und Verlassenheit erfahren. Die christliche Gemeinschaft und die Zivilgesellschaft sind verpflichtet, den Schatz, den sie darstellen, ihre Lebenserfahrung, die Weisheit, die sie besitzen, und den Beitrag, den sie leisten können, zur Geltung zu bringen und für ein Bündnis zwischen den Generationen zusammenzuarbeiten.

Besonders denke ich an die Großväter und Großmütter, die für die Weitergabe des Glaubens und der Lebensweisheit an die jüngeren Generationen stehen. Mögen sie Halt erfahren in der Dankbarkeit ihrer Kinder und in der Liebe ihrer Enkelkinder, die in ihnen wiederum Verwurzelung, Verständnis und Ermutigung finden.

15. Um Hoffnung bitte ich eindringlich für die Milliarden von Armen, denen oft das Lebensnotwendige fehlt. Angesichts immer neuer Wellen der Verarmung besteht die Gefahr der Gewöhnung und Resignation. Aber wir dürfen unseren Blick nicht von solch dramatischen Situationen abwenden, die inzwischen überall anzutreffen sind, nicht nur in bestimmten Gegenden der Welt. Wir begegnen jeden Tag armen oder verarmten Menschen, bisweilen können das gar unsere Nachbarn sein. Sie haben oft weder ein Zuhause noch ausreichend Nahrung für den Tag. Sie leiden unter der Ausgrenzung und der Gleichgültigkeit von vielen. Es ist ein Skandal, dass in einer Welt, die über enorme Ressourcen verfügt, von denen ein Großteil in Rüstungsgüter fließt, die Armen »der größte Teil [sind], Milliarden von Menschen. Heute kommen sie in den internationalen politischen und wirtschaftlichen Debatten vor, doch oft scheint es, dass ihre Probleme gleichsam als ein Anhängsel angegangen werden, wie eine Frage, die man fast pflichtgemäß oder ganz am Rande anfügt, wenn man sie nicht als bloßen Kollateralschaden betrachtet. Tatsächlich bleiben sie im Moment der konkreten Verwirklichung oft auf dem letzten Platz«.[7] Vergessen wir nicht: Die Armen sind fast immer Opfer, nicht Täter.

Appelle für die Hoffnung

16. Ein altes Prophetenwort aufgreifend erinnert uns das Heilige Jahr daran, dass die Güter der Erde nicht für einige wenige Privilegierte, sondern für alle bestimmt sind. Es ist nötig, dass diejenigen, die Reichtümer besitzen, großzügig werden und das Gesicht ihrer Geschwister in Not wahrnehmen. Ich denke dabei insbesondere an diejenigen, denen es an Wasser und Nahrung fehlt: Der Hunger ist eine skandalöse Plage unserer Menschheit und lädt uns alle ein, unser Gewissen aufrütteln zu lassen. Ich erneuere meinen Appell: »Mit dem Geld, das für Waffen und andere Militärausgaben verwendet wird, richten wir einen Weltfonds ein, um dem Hunger ein für alle Mal ein Ende zu setzen und die Entwicklung der ärmsten Länder zu fördern, damit ihre Bewohner nicht zu gewaltsamen oder trügerischen Lösungen greifen oder ihre Länder verlassen müssen, um ein menschenwürdigeres Leben zu suchen«.[8]

Im Hinblick auf das Heilige Jahr möchte ich einen weiteren eindringlichen Appell aussprechen: Er richtet sich an die reicheren Nationen, damit sie das Ausmaß vieler getroffener Entscheidungen erkennen und sich entschließen, denjenigen Ländern die Schulden zu erlassen, die sie niemals zurückzahlen könnten. Dabei handelt es sich nicht so sehr um eine Frage der Großmut, sondern der Gerechtigkeit, die heute durch eine neue Form der Ungerechtigkeit verschärft wird, derer wir uns bewusst geworden sind: »Denn es gibt eine wirkliche „ökologische Schuld“ – besonders zwischen dem Norden und dem Süden – im Zusammenhang mit Ungleichgewichten im Handel und deren Konsequenzen im ökologischen Bereich wie auch mit dem im Laufe der Geschichte von einigen Ländern praktizierten unproportionierten Verbrauch der natürlichen Ressourcen«.[9] Wie die Heilige Schrift lehrt, gehört die Erde Gott und wir alle wohnen auf ihr als »Fremde und Beisassen« (Lev 25,23). Wenn wir wirklich den Weg für den Frieden in der Welt ebnen wollen, sollten wir uns dafür einsetzen, die Grundursachen der Ungerechtigkeit zu beseitigen, ungerechte und nicht zurückzahlbare Schulden erlassen und die Hungernden sättigen.

17. In das kommende Heilige Jahr fällt ein für alle Christen sehr bedeutsames Jubiläum. Es sind dann nämlich 1700 Jahre vergangen, seit das erste große ökumenische Konzil, das Konzil von Nizäa, stattgefunden hat. Es lohnt sich, daran zu erinnern, dass sich die Hirten seit den Zeiten der Apostel zu verschiedenen Gelegenheiten versammelt haben, um Lehrfragen und Disziplinarangelegenheiten zu behandeln. In den ersten Jahrhunderten des Glaubens häuften sich die Synoden sowohl im christlichen Osten als auch im Westen und zeigten damit, wie wichtig es ist, die Einheit des Volkes Gottes und die treue Verkündigung des Evangeliums zu bewahren. Das Heilige Jahr wird eine wichtige Gelegenheit sein, um diese synodale Form zu konkretisieren, die die christliche Gemeinschaft heute als eine immer notwendigere Ausdrucksweise wahrnimmt, um der Dringlichkeit der Evangelisierung besser zu entsprechen: Alle Getauften, jeder mit seinem eigenen Charisma und Dienst, sind mitverantwortlich, dass vielfältige Zeichen der Hoffnung die Gegenwart Gottes in der Welt bezeugen.

Das Konzil von Nizäa hatte die Aufgabe, die Einheit zu bewahren, die durch die Leugnung der Göttlichkeit Jesu Christi und seiner Wesensgleichheit mit dem Vater ernsthaft bedroht war. Es versammelten sich etwa dreihundert Bischöfe im kaiserlichen Palast, die von Kaiser Konstantin für den 20. Mai 325 zusammengerufen worden waren. Nach zahlreichen Debatten erkannten sie sich mit der Gnade des Heiligen Geistes alle in dem Glaubensbekenntnis wieder, das wir heute noch in der sonntäglichen Eucharistiefeier ablegen. Die Konzilsväter wollten dieses Bekenntnis erstmals mit dem Ausdruck »Wir glauben«[10] einleiten, um zu bezeugen, dass sich alle Kirchen in diesem „Wir“ in Einheit befanden und alle Christen denselben Glauben bekannten.

Das Konzil von Nizäa ist ein Meilenstein in der Kirchengeschichte. Sein Jahrestag lädt die Christen dazu ein, der Heiligen Dreifaltigkeit gemeinsam Lob und Dank zu singen, insbesondere Jesus Christus, dem Sohn Gottes, der »wesensgleich dem Vater«[11] ist und uns dieses Geheimnis der Liebe offenbart hat. Nizäa ist aber auch eine Einladung an alle Kirchen und kirchlichen Gemeinschaften, auf dem Weg zur sichtbaren Einheit weiterzugehen und nicht müde zu werden, nach angemessenen Formen zu suchen, um dem Gebet Jesu vollumfänglich zu entsprechen: »Alle sollen eins sein: Wie du, Vater, in mir bist und ich in dir bin, sollen auch sie in uns sein, damit die Welt glaubt, dass du mich gesandt hast« (Joh 17,21).

Beim Konzil von Nizäa ging es auch um den Termin des Osterfestes. Diesbezüglich gibt es auch heute noch unterschiedliche Positionen, die verhindern, dass das glaubensbegründende Ereignis an ein und demselben Tag gefeiert wird. Doch wie es die Vorsehung so will, wird dies gerade im Jahr 2025 geschehen. Möge dies ein Aufruf an alle Christen in Ost und West verstanden werden, einen entscheidenden Schritt hin zu einer Einigung bezüglich eines gemeinsamen Osterdatums zu tun. Man tut gut daran, sich zu erinnern, dass viele die Diatriben der Vergangenheit nicht mehr kennen und nicht verstehen, wie es diesbezüglich weiterhin eine Spaltung geben kann.

In der Hoffnung verankert

18. Die Hoffnung bildet zusammen mit dem Glauben und der Liebe das Triptychon der „göttlichen Tugenden“, die das Wesen des christlichen Lebens zum Ausdruck bringen (vgl. 1 Kor 13,13; 1 Thess 1,3). Innerhalb deren unauflöslicher Dynamik ist die Hoffnung die Tugend, die sozusagen die Orientierung prägt, die die Richtung und das Ziel des Glaubenslebens anzeigt. Deshalb fordert uns der Apostel Paulus auf: »Freut euch in der Hoffnung, seid geduldig in der Bedrängnis, beharrlich im Gebet« (Röm 12,12). Ja, wir müssen „reich an Hoffnung“ sein (vgl. Röm 15,13), damit wir ein glaubwürdiges und attraktives Zeugnis für den Glauben und die Liebe ablegen, die wir in unseren Herzen tragen; damit der Glaube freudig und die Liebe leidenschaftlich ist; damit jeder in der Lage ist, auch nur ein Lächeln, eine Geste der Freundschaft, einen geschwisterlichen Blick, ein aufrichtiges Zuhören, einen kostenlosen Dienst zu schenken, in dem Wissen, dass dies im Geist Jesu für diejenigen, die es empfangen, zu einem fruchtbaren Samen der Hoffnung werden kann. Aber worauf gründet sich unser Hoffen? Um dies zu verstehen, ist es hilfreich, sich mit den Gründen unserer Hoffnung zu befassen (vgl. 1 Petr 3,15).

19. Ich glaube an »das ewige Leben«[12]: So bekennt unser Glaube und die christliche Hoffnung findet in diesen Worten einen grundlegenden Pfeiler. Sie ist in der Tat jene »göttliche Tugend, durch die wir uns [...] nach dem ewigen Leben als unserem Glück sehnen.«[13] Das Zweite Vatikanische Konzil erklärt: »Wenn dagegen das göttliche Fundament und die Hoffnung auf das ewige Leben schwinden, wird die Würde des Menschen aufs schwerste verletzt, wie sich heute oft bestätigt, und die Rätsel von Leben und Tod, Schuld und Schmerz bleiben ohne Lösung, so dass die Menschen nicht selten in Verzweiflung stürzen.«[14] Wir hingegen haben aufgrund der Hoffnung, in der wir gerettet wurden, und mit Blick auf den Lauf der Zeit die Gewissheit, dass die Geschichte der Menschheit und die eines jeden von uns nicht auf einen blinden Fleck oder einen dunklen Abgrund zuläuft, sondern auf die Begegnung mit dem Herrn der Herrlichkeit ausgerichtet ist. Leben wir also in der Erwartung seiner Wiederkunft und in der Hoffnung, für immer in ihm zu leben: In diesem Geist machen wir uns die innige Anrufung der ersten Christen zu eigen, mit der die Heilige Schrift endet: »Komm, Herr Jesus!« (Offb 22,20).

20. Der gestorbene und auferstandene Jesus ist die Mitte unseres Glaubens. Indem der heilige Paulus diesen Inhalt in wenigen Worten und mit nur vier Verben ausdrückt, vermittelt er uns den „Kern“ unserer Hoffnung: »Denn vor allem habe ich euch überliefert, was auch ich empfangen habe: Christus ist für unsere Sünden gestorben, gemäß der Schrift, und ist begraben worden. Er ist am dritten Tag auferweckt worden, gemäß der Schrift, und erschien dem Kephas, dann den Zwölf« (1 Kor 15,3-5). Christus ist gestorben, begraben worden, auferstanden und erschienen. Er ist für uns durch das Dunkel des Todes gegangen. Die Liebe des Vaters hat ihn in der Kraft des Heiligen Geistes auferweckt und zu unserem Heil sein Menschsein zur Erstlingsgabe der Ewigkeit gemacht. Die christliche Hoffnung besteht genau darin: Im Angesicht des Todes, wo scheinbar alles endet, erhalten wir die Gewissheit, dass uns dank Christus, dank seiner Gnade, die uns in der Taufe mitgeteilt worden ist, „das Leben nicht genommen, sondern gewandelt wird“[15], und zwar für immer. In der Taufe werden wir nämlich zusammen mit Christus begraben und empfangen in ihm, dem Auferstandenen, das Geschenk eines neuen Lebens, das die Mauer des Todes niederreißt und ihn zu einem Übergang in die Ewigkeit macht.

Und wenn im Angesicht des Todes, der schmerzhaften Trennung, die dazu zwingt, sich von allem liebgewordenen zu trennen, keine Phrasen erlaubt sind, bietet uns das Heilige Jahr die Gelegenheit, mit großer Dankbarkeit das Geschenk des neuen Lebens wiederzuentdecken, das wir in der Taufe empfangen haben und das in der Lage ist, sein Dunkel zu verwandeln. Es ist wichtig, sich im Zusammenhang mit dem Jubiläum daran zu erinnern, wie dieses Geheimnis von den ersten Jahrhunderten des Glaubens an verstanden wurde. Lange Zeit bauten die Christen zum Beispiel das Taufbecken in einer achteckigen Form, und noch heute können wir viele alte Baptisterien bewundern, die diese Form beibehalten haben, wie in Rom in Sankt Johannes im Lateran. Sie weist darauf hin, dass im Taufbrunnen der achte Tag anbricht, d.h. der Tag der Auferstehung, der Tag, der über den üblichen Wochenrhythmus hinausgeht und so den Zyklus der Zeit für die Dimension der Ewigkeit öffnet, für ein Leben, das ewig währt: Das ist das Ziel, auf das wir auf unserer irdischen Pilgerreise zustreben (vgl. Röm 6,22).

Das glaubwürdigste Zeugnis für diese Hoffnung geben uns die Märtyrer, die in ihrem festen Glauben an den auferstandenen Christus in der Lage waren, sogar auf ihr irdisches Leben zu verzichten, um ihren Herrn nicht zu verraten. Es gibt sie in allen Zeiten, und in unseren Tagen sind sie vielleicht zahlreicher denn je, als Bekenner eines Lebens, das kein Ende kennt. Wir müssen ihr Zeugnis in Ehren halten, um unsere Hoffnung fruchtbar zu machen.

Diese Märtyrer, die verschiedenen christlichen Traditionen angehören, sind auch Samen der Einheit, weil sie die Ökumene des Blutes verkörpern. Daher ist es mein sehnlicher Wunsch, dass es in diesem Heiligen Jahr auch eine ökumenische Feier geben wird, so dass der Reichtum des Zeugnisses dieser Märtyrer deutlich wird.

21. Was wird also nach dem Tod aus uns werden? Mit Jesus gibt es jenseits dieser Schwelle das ewige Leben, das in der vollen Gemeinschaft mit Gott, in der Schau und in der Teilhabe an seiner unendlichen Liebe besteht. Was wir jetzt in diesem Leben hoffen, werden wir dann in Wirklichkeit sehen. Der heilige Augustinus schrieb in diesem Zusammenhang: »Wenn ich erst einmal dir ganz anhangen werde mit meinem ganzen Ich, dann wird mich kein Schmerz, keine Mühsal mehr bedrücken, und mein Leben, ganz von dir erfüllt, wird erst dann wahres Leben sein.«[16] Was wird dann diese Fülle der Gemeinschaft kennzeichnen? Das Glücklichsein. Die Glückseligkeit ist die Berufung des Menschen, ein Ziel, das alle betrifft.

Aber was ist die Glückseligkeit? Welches Glück erwarten und ersehnen wir? Nicht eine vorübergehende Freude, eine flüchtige Befriedigung, die, einmal erreicht, immer mehr verlangt, in einer Spirale der Gier, in der die menschliche Seele nie gesättigt, sondern immer leerer wird. Wir brauchen ein Glück, das sich endgültig erfüllt in dem, womit wir uns selbst verwirklichen, nämlich in der Liebe, damit wir schon jetzt sagen können: Ich bin geliebt, also bin ich; und ich werde für immer in jener Liebe existieren, die mich nicht enttäuscht und von der mich nichts und niemand jemals wird trennen können. Erinnern wir uns noch einmal an die Worte des Apostels: »Denn ich bin gewiss: Weder Tod noch Leben, weder Engel noch Mächte, weder Gegenwärtiges noch Zukünftiges noch Gewalten, weder Höhe oder Tiefe noch irgendeine andere Kreatur können uns scheiden von der Liebe Gottes, die in Christus Jesus ist, unserem Herrn« (Röm 8,38-39).

22. Etwas anderes, das mit dem ewigen Leben zusammenhängt, ist das Gericht Gottes, sowohl am Ende unseres Lebens als auch am Ende der Zeiten. Die Kunst hat oft versucht, dies darzustellen – man denke nur an Michelangelos Meisterwerk in der Sixtinischen Kapelle –, indem sie die theologische Vorstellung der Zeit aufgreift und dem Betrachter ein Gefühl der Furcht vermittelt. Wenn es auch richtig ist, sich mit allem Bewusstsein und allem Ernst auf den Moment vorzubereiten, der das Leben noch einmal rekapituliert, so müssen wir dies doch immer in der Hoffnung tun, der göttlichen Tugend, die das Leben stärkt und uns nicht in Angst verfallen lässt. Das Gericht Gottes, der die Liebe ist (vgl. 1 Joh 4,8.16), kann sich nur auf die Liebe stützen, vor allem darauf, ob wir sie gegenüber den Bedürftigsten, in denen Christus, der Richter selbst, gegenwärtig ist, praktiziert haben oder nicht (vgl. Mt 25,31-46). Es ist also ein anderes Urteil als das von Menschen und irdischen Gerichten; es ist zu verstehen als eine Beziehung der Wahrheit: mit Gott, der Liebe ist, und mit sich selbst im Innern des unergründlichen Geheimnisses der göttlichen Barmherzigkeit. In der Heiligen Schrift heißt es dazu: Du hast »dein Volk gelehrt, dass der Gerechte menschenfreundlich sein muss, und hast deinen Söhnen und Töchtern die Hoffnung geschenkt, dass du den Sündern die Umkehr gewährst […] und [wir] auf Erbarmen hoffen, wenn wir selber vor dem Gericht stehen« (Weish 12,19.22). Benedikt XVI. schrieb: »Im Augenblick des Gerichts erfahren und empfangen wir dieses Übergewicht seiner Liebe über alles Böse in der Welt und in uns. Der Schmerz der Liebe wird unsere Rettung und unsere Freude«.[17]

Das Gericht betrifft also die Erlösung, auf die wir hoffen und die Jesus durch seinen Tod und seine Auferstehung für uns erlangt hat. Es soll uns also für die endgültige Begegnung mit ihm öffnen. Und da man in diesem Zusammenhang nicht denken kann, dass das begangene Böse verborgen bleibt, muss es gereinigt werden, um uns den endgültigen Übergang in Gottes Liebe zu ermöglichen. In diesem Sinne versteht man die Notwendigkeit, für diejenigen zu beten, die ihren irdischen Weg vollendet haben, diese Solidarität im Fürbittgebet, das seine Wirksamkeit in der Gemeinschaft der Heiligen findet, in dem gemeinsamen Band, das uns in Christus, dem Erstgeborenen der Schöpfung, vereint. So ist der Jubiläumsablass kraft des Gebets in besonderer Weise für diejenigen bestimmt, die uns vorausgegangen sind, damit ihnen die volle Barmherzigkeit zuteil wird.

23. Der Ablass lässt uns nämlich entdecken, wie grenzenlos Gottes Barmherzigkeit ist. Es ist kein Zufall, dass einst die Begriffe „Barmherzigkeit“ und „Ablass“ austauschbar waren, eben weil dieser die Fülle der Vergebung Gottes ausdrücken soll, die keine Grenzen kennt.

Das Sakrament der Buße gibt uns die Gewissheit, dass Gott unsere Sünden vergibt. Und wieder sind die Worte des Psalms voller Trost: »Der dir all deine Schuld und all deine Gebrechen heilt, der dein Leben vor dem Untergang rettet und dich mit Huld und Erbarmen krönt [...]. Der Herr ist barmherzig und gnädig, langmütig und reich an Huld. [...] Er handelt an uns nicht nach unsern Sünden und vergilt uns nicht nach unsrer Schuld. Denn so hoch der Himmel über der Erde ist, so mächtig ist seine Huld über denen, die ihn fürchten. So weit der Aufgang entfernt ist vom Untergang, so weit entfernt er von uns unsere Frevel« (Ps 103,3-4.8.10-12). Die sakramentale Vergebung ist nicht nur eine schöne geistliche Chance, sondern ein entscheidender, wesentlicher und unverzichtbarer Schritt für den Glaubensweg eines jeden Menschen. Dort erlauben wir dem Herrn, unsere Sünden zu vernichten, unsere Herzen zu erneuern, uns wieder aufzurichten und uns zu umarmen, und uns sein zärtliches und barmherziges Gesicht zu zeigen. Es gibt in der Tat keinen besseren Weg, Gott kennenzulernen, als sich von ihm versöhnen zu lassen (vgl. 2 Kor 5,20) und seine Vergebung zu erfahren. Verzichten wir also nicht auf die Beichte, sondern entdecken wir wieder neu die Schönheit des Sakraments der Heilung und der Freude, die Schönheit der Vergebung der Sünden!

Wie wir jedoch aus eigener Erfahrung wissen, „hinterlässt die Sünde Spuren“, sie hat Folgen: nicht nur äußere, im Sinne von Folgen des begangenen Bösen, sondern auch innere, insofern als »jede Sünde, selbst eine geringfügige, eine schädliche Bindung an die Geschöpfe nach sich [zieht], was der Läuterung bedarf, sei es hier auf Erden, sei es nach dem Tod im sogenannten Purgatorium«[18]. Daher bleiben in unserem schwachen, vom Bösen verführten Menschsein „Folgen der Sünde“. Diese werden durch den Ablass beseitigt, und zwar immer durch die Gnade Christi, der, wie der heilige Paul VI. schrieb, »unser „Ablass“« ist.[19] Die Apostolische Pönitentiarie wird die Bestimmungen erlassen, die erforderlich sind, um den Jubiläumsablass zu erlangen und diese Praxis fruchtbar zu gestalten.

Eine solche intensive Erfahrung der Vergebung öffnet unweigerlich das Herz und den Verstand für die Vergebung. Das Vergeben ändert nicht die Vergangenheit, es kann nicht ändern, was bereits geschehen ist; und doch kann Vergebung es ermöglichen, die Zukunft zu verändern und anders zu leben, ohne Groll, Verbitterung und Rache. Die Zukunft, die durch Vergebung erhellt wird, erlaubt es, die Vergangenheit mit anderen, gelasseneren Augen zu sehen, auch wenn sie immer noch mit Tränen benetzt sind.

Anlässlich des letzten außerordentlichen Heiligen Jahres habe ich Missionare der Barmherzigkeit eingesetzt, die weiterhin eine wichtige Sendung haben. Sie mögen auch während des kommenden Jubeljahres ihren Dienst ausüben indem sie wieder Hoffnung schenken und jedes Mal vergeben, wenn sich ein Sünder mit offenem Herzen und reumütigem Sinn an sie wendet. Mögen sie weiterhin Werkzeuge der Versöhnung sein und helfen, mit der Hoffnung des Herzens, die aus der Barmherzigkeit des Vaters kommt, in die Zukunft zu blicken. Ich hoffe, dass die Bischöfe von ihrem wertvollen Dienst Gebrauch machen und sie vor allem an Orte schicken, an denen die Hoffnung auf eine harte Probe gestellt wird, wie z. B. in Gefängnisse, Krankenhäuser und Orte, an denen die Würde des Menschen mit Füßen getreten wird, in Situationen größter Entbehrung und Erniedrigung, damit jeder die Möglichkeit hat, Gottes Vergebung und Trost zu empfangen.

24. Die höchste Zeugin der Hoffnung ist die Mutter Gottes. An ihr sehen wir, dass Hoffnung kein törichter Optimismus ist, sondern ein Geschenk der Gnade in der Wirklichkeit des Lebens. Wie jede Mutter dachte sie jedes Mal, wenn sie ihren Sohn ansah, an seine Zukunft, und sicherlich blieben ihr jene Worte im Herzen eingeprägt, die Simeon im Tempel zu ihr gesagt hatte: »Siehe, dieser ist dazu bestimmt, dass in Israel viele zu Fall kommen und aufgerichtet werden, und er wird ein Zeichen sein, dem widersprochen wird, – und deine Seele wird ein Schwert durchdringen« (Lk 2,34-35). Und am Fuße des Kreuzes, als sie den unschuldigen Jesus leiden und sterben sah, wiederholte sie, obwohl sie unerträgliche Schmerzen litt, ihr „Ja“, ohne die Hoffnung und das Vertrauen auf den Herrn zu verlieren. Auf diese Weise wirkte sie für uns an der Erfüllung dessen mit, was ihr Sohn angekündigt hatte, nämlich dass er »vieles erleiden und von den Ältesten, den Hohenpriestern und den Schriftgelehrten verworfen werden« muss; »er muss getötet werden und nach drei Tagen auferstehen« (Mk 8,31). So wurde sie unter den Schmerzen, die sie aus Liebe aufopferte, zu unserer Mutter, zur Mutter der Hoffnung. Es ist kein Zufall, dass die Volksfrömmigkeit die Heilige Jungfrau auch weiterhin als Stella Maris anruft, mit einem Titel, der die sichere Hoffnung zum Ausdruck bringt, dass die Mutter Gottes uns in den stürmischen Wechselfällen des Lebens zu Hilfe kommt, uns stärkt und uns einlädt, zu vertrauen und weiter zu hoffen.

In diesem Zusammenhang möchte ich gern daran erinnern, dass das Heiligtum Unserer Lieben Frau von Guadalupe in Mexiko-Stadt sich darauf vorbereitet, im Jahr 2031 den 500. Jahrestag der ersten Erscheinung der Jungfrau zu feiern. Durch den jungen Juan Diego sandte die Mutter Gottes eine revolutionäre Botschaft der Hoffnung, die sie auch heute noch an alle Pilger und Gläubigen richtet: »Bin ich nicht hier, die ich deine Mutter bin?«.[20] Von ähnlichen Botschaften sind die vielen marianischen Heiligtümer auf der ganzen Welt geprägt, die Ziel vieler Pilger sind, welche der Mutter Gottes ihre Sorgen, ihren Kummer und ihre Wünsche anvertrauen. Mögen die Wallfahrtsorte in diesem Jubiläumsjahr heilige Orte der Gastfreundschaft und besondere Orte der Hoffnung sein. Ich lade die Pilger, die nach Rom kommen, ein, in den Marienheiligtümern der Stadt innezuhalten, um die Jungfrau Maria zu verehren und ihren Schutz zu erflehen. Ich bin zuversichtlich, dass alle, vor allem die Leidenden und Bedrängten, die Nähe der liebevollsten aller Mütter erfahren können, die ihre Kinder niemals verlässt, die für das heilige Volk Gottes ein »Zeichen der sicheren Hoffnung und des Trostes« ist.[21]

25. Auf dem Weg zum Heiligen Jahr wenden wir uns wieder der Heiligen Schrift zu und hören diese Worte als an uns gerichtet: So sollten wir »einen kräftigen Ansporn haben, wir, die wir unsere Zuflucht dazu genommen haben, die dargebotene Hoffnung zu ergreifen. In ihr haben wir einen sicheren und festen Anker der Seele, der hineinreicht in das Innere hinter dem Vorhang; dorthin ist Jesus für uns als Vorläufer hineingegangen« (Hebr 6,18-20). Das ist eine starke Einladung, die Hoffnung, die uns geschenkt wurde, niemals zu verlieren, sondern an ihr festzuhalten, indem wir Zuflucht bei Gott finden.

Das Bild des Ankers verweist auf die Stabilität und Sicherheit, die uns inmitten der unruhigen Gewässer des Lebens gegeben ist, wenn wir auf Jesus, den Herrn, vertrauen. Die Unwetter werden uns niemals etwas anhaben können, denn wir sind verankert in der Hoffnung auf die Gnade, die uns zu einem Leben in Christus befähigt und uns Sünde, Angst und Tod überwinden lässt. Diese Hoffnung, die weitaus größer ist als die alltäglichen Genugtuungen und Verbesserungen der Lebensumstände, lässt uns über die Prüfungen hinauswachsen und ermutigt uns, weiterzugehen, ohne die Größe des Ziels aus den Augen zu verlieren, zu dem wir berufen sind: den Himmel.

Das kommende Heilige Jahr wird also von der Hoffnung geprägt sein, die nicht schwindet, der Hoffnung auf Gott. Es helfe uns, das nötige Vertrauen wiederzufinden, in der Kirche wie in der Gesellschaft, in den zwischenmenschlichen Beziehungen, in den internationalen Beziehungen, in der Förderung der Würde eines jeden Menschen und in der Achtung der Schöpfung. Möge unser gläubiges Zeugnis in der Welt ein Sauerteig echter Hoffnung sein, die Verkündigung eines neuen Himmels und einer neuen Erde (vgl. 2 Petr 3,13), in der wir in Gerechtigkeit und Eintracht zwischen den Völkern leben können und die Erfüllung der Verheißung des Herrn erwarten.

Lassen wir uns fortan von der Hoffnung anziehen und lassen wir zu, dass sie durch uns auf jene überspringt, die sich nach ihr sehnen. Möge unser Leben ihnen sagen: »Hoffe auf den Herrn, sei stark und fest sei dein Herz! Und hoffe auf den Herrn!« (Ps 27,14). Möge die Kraft der Hoffnung unsere Gegenwart erfüllen, während wir zuversichtlich auf die Wiederkunft unseres Herrn Jesus Christus warten, dem jetzt und in aller Zukunft Lob und Herrlichkeit gebührt.

Gegeben zu Rom, bei Sankt Johannes im Lateran, am 9. Mai, dem Hochfest der Himmelfahrt unseres Herrn Jesus Christus, im Jahr 2024, dem zwölften meines Pontifikats.

FRANZISKUS

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[1] Sermones, 198 augm., 2.

[2] Vgl. Fontes Franciscani, Nr. 263, 6.10.

[3] Vgl. Misericordiae vultus, Verkündigungsbulle des Außerordentlichen Jubiläums der Barmherzigkeit, Nr. 1-3.

[4] Pastorale Konstitution Gaudium et spes, Nr. 4.

[5] Enzyklika Laudato si’, Nr. 50.

[6] Vgl. Katechismus der Katholischen Kirche, Nr. 2267.

[7] Enzyklika Laudato si’, Nr. 49.

[8] Enzyklika Fratelli tutti, Nr. 262.

[9] Enzyklika Laudato si’, Nr. 51.

[10] Nizänisches Glaubensbekenntnis: H. Denzinger – A. Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, Nr. 125.

[11] Ebd.

[12] Apostolisches Glaubensbekenntnis: H. Denzinger – A. Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, Nr. 30.

[13] Katechismus der Katholischen Kirche, Nr. 1817.

[14] Pastoralkonstitution Gaudium et spes, Nr. 21.

[15] Vgl. Römisches Messbuch, Präfation von den Verstorbenen I.

[16] Bekenntnisse, X, 28.

[17] Enzyklika Spe salvi, Nr. 47.

[18] Katechismus der Katholischen Kirche, Nr. 1472.

[19] Apostolisches Schreiben Apostolorum limina, 23. Mai 1974, II.

[20] Nican Mopohua, Nr. 119.

[21] Zweites Vatikanisches Konzil, Dogmatische Konstitution Lumen Gentium, Nr. 68

[00781-DE.01] [Originalsprache: Deutsch]

Testo in lingua spagnola

SPES NON CONFUNDIT

Bula de Convocación
del Jubileo Ordinario
del Año 2025

FRANCISCO
OBISPO DE ROMA
SIERVO DE LOS SIERVOS DE DIOS
A CUANTOS LEAN ESTA CARTA LA ESPERANZA LES COLME EL CORAZÓN

1. «Spes non confundit», «la esperanza no defrauda» (Rm 5,5). Bajo el signo de la esperanza el apóstol Pablo infundía aliento a la comunidad cristiana de Roma. La esperanza también constituye el mensaje central del próximo Jubileo, que según una antigua tradición el Papa convoca cada veinticinco años. Pienso en todos los peregrinos de esperanza que llegarán a Roma para vivir el Año Santo y en cuantos, no pudiendo venir a la ciudad de los apóstoles Pedro y Pablo, lo celebrarán en las Iglesias particulares. Que pueda ser para todos un momento de encuentro vivo y personal con el Señor Jesús, «puerta» de salvación (cf. Jn 10,7.9); con Él, a quien la Iglesia tiene la misión de anunciar siempre, en todas partes y a todos como «nuestra esperanza» (1 Tm 1,1).

Todos esperan. En el corazón de toda persona anida la esperanza como deseo y expectativa del bien, aun ignorando lo que traerá consigo el mañana. Sin embargo, la imprevisibilidad del futuro hace surgir sentimientos a menudo contrapuestos: de la confianza al temor, de la serenidad al desaliento, de la certeza a la duda. Encontramos con frecuencia personas desanimadas, que miran el futuro con escepticismo y pesimismo, como si nada pudiera ofrecerles felicidad. Que el Jubileo sea para todos ocasión de reavivar la esperanza. La Palabra de Dios nos ayuda a encontrar sus razones. Dejémonos conducir por lo que el apóstol Pablo escribió precisamente a los cristianos de Roma.

Una Palabra de esperanza

2. «Justificados, entonces, por la fe, estamos en paz con Dios, por medio de nuestro Señor Jesucristo. Por él hemos alcanzado, mediante la fe, la gracia en la que estamos afianzados, y por él nos gloriamos en la esperanza de la gloria de Dios. [...] Y la esperanza no quedará defraudada, porque el amor de Dios ha sido derramado en nuestros corazones por el Espíritu Santo, que nos ha sido dado» (Rm 5,1-2.5). Los puntos de reflexión que aquí nos propone san Pablo son múltiples. Sabemos que la Carta a los Romanos marca un paso decisivo en su actividad de evangelización. Hasta ese momento la había realizado en el área oriental del Imperio y ahora lo espera Roma, con todo lo que esta representa a los ojos del mundo: un gran desafío, que debe afrontar en nombre del anuncio del Evangelio, el cual no conoce barreras ni confines. La Iglesia de Roma no había sido fundada por Pablo, pero él sentía vivo el deseo de llegar allí pronto para llevar a todos el Evangelio de Jesucristo, muerto y resucitado, como anuncio de la esperanza que realiza las promesas, conduce a la gloria y, fundamentada en el amor, no defrauda.

3. La esperanza efectivamente nace del amor y se funda en el amor que brota del Corazón de Jesús traspasado en la cruz: «Porque si siendo enemigos, fuimos reconciliados con Dios por la muerte de su Hijo, mucho más ahora que estamos reconciliados, seremos salvados por su vida» (Rm 5,10). Y su vida se manifiesta en nuestra vida de fe, que empieza con el Bautismo; se desarrolla en la docilidad a la gracia de Dios y, por tanto, está animada por la esperanza, que se renueva siempre y se hace inquebrantable por la acción del Espíritu Santo.

En efecto, el Espíritu Santo, con su presencia perenne en el camino de la Iglesia, es quien irradia en los creyentes la luz de la esperanza. Él la mantiene encendida como una llama que nunca se apaga, para dar apoyo y vigor a nuestra vida. La esperanza cristiana, de hecho, no engaña ni defrauda, porque está fundada en la certeza de que nada ni nadie podrá separarnos nunca del amor divino: «¿Quién podrá entonces separarnos del amor de Cristo? ¿Las tribulaciones, las angustias, la persecución, el hambre, la desnudez, los peligros, la espada? [...] Pero en todo esto obtenemos una amplia victoria, gracias a aquel que nos amó. Porque tengo la certeza de que ni la muerte ni la vida, ni los ángeles ni los principados, ni lo presente ni lo futuro, ni los poderes espirituales, ni lo alto ni lo profundo, ni ninguna otra criatura podrá separarnos jamás del amor de Dios, manifestado en Cristo Jesús, nuestro Señor» (Rm 8,35.37-39). He aquí porqué esta esperanza no cede ante las dificultades: porque se fundamenta en la fe y se nutre de la caridad, y de este modo hace posible que sigamos adelante en la vida. San Agustín escribe al respecto: «Nadie, en efecto, vive en cualquier género de vida sin estas tres disposiciones del alma: las de creer, esperar, amar».[1]

4. San Pablo es muy realista. Sabe que la vida está hecha de alegrías y dolores, que el amor se pone a prueba cuando aumentan las dificultades y la esperanza parece derrumbarse frente al sufrimiento. Con todo, escribe: «Más aún, nos gloriamos hasta de las mismas tribulaciones, porque sabemos que la tribulación produce la constancia; la constancia, la virtud probada; la virtud probada, la esperanza» (Rm 5,3-4). Para el Apóstol, la tribulación y el sufrimiento son las condiciones propias de los que anuncian el Evangelio en contextos de incomprensión y de persecución (cf. 2 Co 6,3-10). Pero en tales situaciones, en medio de la oscuridad se percibe una luz; se descubre cómo lo que sostiene la evangelización es la fuerza que brota de la cruz y de la resurrección de Cristo. Y eso lleva a desarrollar una virtud estrechamente relacionada con la esperanza: la paciencia. Estamos acostumbrados a quererlo todo y de inmediato, en un mundo donde la prisa se ha convertido en una constante. Ya no se tiene tiempo para encontrarse, y a menudo incluso en las familias se vuelve difícil reunirse y conversar con tranquilidad. La paciencia ha sido relegada por la prisa, ocasionando un daño grave a las personas. De hecho, ocupan su lugar la intolerancia, el nerviosismo y a veces la violencia gratuita, que provocan insatisfacción y cerrazón.

Asimismo, en la era del internet, donde el espacio y el tiempo son suplantados por el “aquí y ahora”, la paciencia resulta extraña. Si aun fuésemos capaces de contemplar la creación con asombro, comprenderíamos cuán esencial es la paciencia. Aguardar el alternarse de las estaciones con sus frutos; observar la vida de los animales y los ciclos de su desarrollo; tener los ojos sencillos de san Francisco que, en su Cántico de las criaturas, escrito hace 800 años, veía la creación como una gran familia y llamaba al sol “hermano” y a la luna “hermana”[2]. Redescubrir la paciencia hace mucho bien a uno mismo y a los demás. San Pablo recurre frecuentemente a la paciencia para subrayar la importancia de la perseverancia y de la confianza en aquello que Dios nos ha prometido, pero sobre todo testimonia que Dios es paciente con nosotros, porque es «el Dios de la constancia y del consuelo» (Rm 15,5). La paciencia, que también es fruto del Espíritu Santo, mantiene viva la esperanza y la consolida como virtud y estilo de vida. Por lo tanto, aprendamos a pedir con frecuencia la gracia de la paciencia, que es hija de la esperanza y al mismo tiempo la sostiene.

Un camino de esperanza

5. Este entretejido de esperanza y paciencia muestra claramente cómo la vida cristiana es un camino, que también necesita momentos fuertes para alimentar y robustecer la esperanza, compañera insustituible que permite vislumbrar la meta: el encuentro con el Señor Jesús. Me agrada pensar que fue justamente un itinerario de gracia, animado por la espiritualidad popular, el que precedió la convocación del primer Jubileo en el año 1300. De hecho, no podemos olvidar las distintas formas por medio de las cuales la gracia del perdón ha sido derramada con abundancia sobre el santo Pueblo fiel de Dios. Recordemos, por ejemplo, el gran “perdón” que san Celestino V quiso conceder a cuantos se dirigían a la Basílica Santa María de Collemaggio, en L’Aquila, durante los días 28 y 29 de agosto de 1294, seis años antes de que el Papa Bonifacio VIII instituyese el Año Santo. Así pues, la Iglesia ya experimentaba la gracia jubilar de la misericordia. E incluso antes, en el año 1216, el Papa Honorio III había acogido la súplica de san Francisco que pedía la indulgencia para cuantos fuesen a visitar la Porciúncula durante los dos primeros días de agosto. Lo mismo se puede afirmar para la peregrinación a Santiago de Compostela; en efecto, el Papa Calixto II, en 1122, concedió que se celebrara el Jubileo en ese Santuario cada vez que la fiesta del apóstol Santiago coincidiese con el domingo. Es bueno que esa modalidad “extendida” de celebraciones jubilares continúe, de manera que la fuerza del perdón de Dios sostenga y acompañe el camino de las comunidades y de las personas.

No es casual que la peregrinación exprese un elemento fundamental de todo acontecimiento jubilar. Ponerse en camino es un gesto típico de quienes buscan el sentido de la vida. La peregrinación a pie favorece mucho el redescubrimiento del valor del silencio, del esfuerzo, de lo esencial. También el año próximo los peregrinos de esperanza recorrerán caminos antiguos y modernos para vivir intensamente la experiencia jubilar. Además, en la misma ciudad de Roma habrá otros itinerarios de fe que se añadirán a los ya tradicionales de las catacumbas y las siete iglesias. Transitar de un país a otro, como si se superaran las fronteras, pasar de una ciudad a la otra en la contemplación de la creación y de las obras de arte permitirá atesorar experiencias y culturas diferentes, para conservar dentro de sí la belleza que, armonizada por la oración, conduce a agradecer a Dios por las maravillas que Él realiza. Las iglesias jubilares, a lo largo de los itinerarios y en la misma Urbe, podrán ser oasis de espiritualidad en los cuales revitalizar el camino de la fe y beber de los manantiales de la esperanza, sobre todo acercándose al sacramento de la Reconciliación, punto de partida insustituible para un verdadero camino de conversión. Que en las Iglesias particulares se cuide de modo especial la preparación de los sacerdotes y de los fieles para las confesiones y el acceso al sacramento en su forma individual.

A los fieles de las Iglesias orientales, en especial a aquellos que ya están en plena comunión con el Sucesor de Pedro, quiero dirigir una invitación particular a esta peregrinación. Ellos, que han sufrido tanto por su fidelidad a Cristo y a la Iglesia, muchas veces hasta la muerte, deben sentirse especialmente bienvenidos a esta Roma que es Madre también para ellos y que custodia tantas memorias de su presencia. La Iglesia católica, que está enriquecida por sus antiquísimas liturgias, por la teología y la espiritualidad de los Padres, monjes y teólogos, quiere expresar simbólicamente la acogida a ellos y a sus hermanos y hermanas ortodoxos, en una época en la que ya están viviendo la peregrinación del Vía crucis; con la que frecuentemente son obligados a dejar sus tierras de origen, sus tierras santas, de las que la violencia y la inestabilidad los expulsan hacia países más seguros. Para ellos la experiencia de ser amados por la Iglesia —que no los abandonará, sino que los seguirá adondequiera que vayan— hace todavía más fuerte el signo del Jubileo.

6. El Año Santo 2025 está en continuidad con los acontecimientos de gracia precedentes. En el último Jubileo ordinario se cruzó el umbral de los dos mil años del nacimiento de Jesucristo. Luego, el 13 de marzo de 2015, convoqué un Jubileo extraordinario con la finalidad de manifestar y facilitar el encuentro con el “Rostro de la misericordia” de Dios[3], anuncio central del Evangelio para todas las personas de todos los tiempos. Ahora ha llegado el momento de un nuevo Jubileo, para abrir de par en par la Puerta Santa una vez más y ofrecer la experiencia viva del amor de Dios, que suscita en el corazón la esperanza cierta de la salvación en Cristo. Al mismo tiempo, este Año Santo orientará el camino hacia otro aniversario fundamental para todos los cristianos: en el 2033 se celebrarán los dos mil años de la Redención realizada por medio de la pasión, muerte y resurrección del Señor Jesús. Nos encontramos así frente a un itinerario marcado por grandes etapas, en las que la gracia de Dios precede y acompaña al pueblo que camina entusiasta en la fe, diligente en la caridad y perseverante en la esperanza (cf. 1 Ts 1,3).

Apoyado en esta larga tradición y con la certeza de que este Año jubilar será para toda la Iglesia una intensa experiencia de gracia y de esperanza, dispongo que la Puerta Santa de la Basílica de San Pedro, en el Vaticano, se abra a partir del 24 de diciembre del corriente año 2024, dando inicio así al Jubileo ordinario. El domingo sucesivo, 29 de diciembre de 2024, abriré la Puerta Santa de la Catedral de San Juan de Letrán, que el 9 de noviembre de este año celebrará los 1700 años de su dedicación. A continuación, el 1 de enero de 2025, solemnidad de Santa María, Madre de Dios, se abrirá la Puerta Santa de la Basílica papal de Santa María la Mayor. Y, por último, el domingo 5 de enero se abrirá la Puerta Santa de la Basílica papal de San Pablo extramuros. Estas últimas tres Puertas Santas se cerrarán el domingo 28 de diciembre del mismo año.

Establezco además que el domingo 29 de diciembre de 2024, en todas las catedrales y concatedrales, los obispos diocesanos celebren la Eucaristía como apertura solemne del Año jubilar, según el Ritual que se preparará para la ocasión. En el caso de la celebración en una iglesia concatedral el obispo podrá ser sustituido por un delegado designado expresamente para ello. Que la peregrinación desde una iglesia elegida para la collectio, hacia la catedral, sea el signo del camino de esperanza que, iluminado por la Palabra de Dios, une a los creyentes. Que en ella se lean algunos pasajes del presente Documento y se anuncie al pueblo la indulgencia jubilar, que podrá obtenerse según las prescripciones contenidas en el mismo Ritual para la celebración del Jubileo en las Iglesias particulares. Durante el Año Santo, que en las Iglesias particulares finalizará el domingo 28 de diciembre de 2025, ha de procurarse que el Pueblo de Dios acoja, con plena participación, tanto el anuncio de esperanza de la gracia de Dios como los signos que atestiguan su eficacia.

El Jubileo ordinario se clausurará con el cierre de la Puerta Santa de la Basílica papal de San Pedro en el Vaticano el 6 de enero de 2026, Epifanía del Señor. Que la luz de la esperanza cristiana pueda llegar a todas las personas, como mensaje del amor de Dios que se dirige a todos. Y que la Iglesia sea testigo fiel de este anuncio en todas partes del mundo.

Signos de esperanza

7. Además de alcanzar la esperanza que nos da la gracia de Dios, también estamos llamados a redescubrirla en los signos de los tiempos que el Señor nos ofrece. Como afirma el Concilio Vaticano II, «es deber permanente de la Iglesia escrutar a fondo los signos de la época e interpretarlos a la luz del Evangelio, de forma que, acomodándose a cada generación, pueda la Iglesia responder a los perennes interrogantes de la humanidad sobre el sentido de la vida presente y de la vida futura y sobre la mutua relación de ambas».[4] Por ello, es necesario poner atención a todo lo bueno que hay en el mundo para no caer en la tentación de considerarnos superados por el mal y la violencia. En este sentido, los signos de los tiempos, que contienen el anhelo del corazón humano, necesitado de la presencia salvífica de Dios, requieren ser transformados en signos de esperanza.

8. Que el primer signo de esperanza se traduzca en paz para el mundo, el cual vuelve a encontrarse sumergido en la tragedia de la guerra. La humanidad, desmemoriada de los dramas del pasado, está sometida a una prueba nueva y difícil cuando ve a muchas poblaciones oprimidas por la brutalidad de la violencia. ¿Qué más les queda a estos pueblos que no hayan sufrido ya? ¿Cómo es posible que su grito desesperado de auxilio no impulse a los responsables de las Naciones a querer poner fin a los numerosos conflictos regionales, conscientes de las consecuencias que puedan derivarse a nivel mundial? ¿Es demasiado soñar que las armas callen y dejen de causar destrucción y muerte? Dejemos que el Jubileo nos recuerde que los que «trabajan por la paz» podrán ser «llamados hijos de Dios» (Mt 5,9). La exigencia de paz nos interpela a todos y urge que se lleven a cabo proyectos concretos. Que no falte el compromiso de la diplomacia por construir con valentía y creatividad espacios de negociación orientados a una paz duradera.

9. Mirar el futuro con esperanza también equivale a tener una visión de la vida llena de entusiasmo para compartir con los demás. Sin embargo, debemos constatar con tristeza que en muchas situaciones falta esta perspectiva. La primera consecuencia de ello es la pérdida del deseo de transmitir la vida. A causa de los ritmos frenéticos de la vida, de los temores ante el futuro, de la falta de garantías laborales y tutelas sociales adecuadas, de modelos sociales cuya agenda está dictada por la búsqueda de beneficios más que por el cuidado de las relaciones, se asiste en varios países a una preocupante disminución de la natalidad. Por el contrario, en otros contextos, «culpar al aumento de la población y no al consumismo extremo y selectivo de algunos es un modo de no enfrentar los problemas».[5]

La apertura a la vida con una maternidad y paternidad responsables es el proyecto que el Creador ha inscrito en el corazón y en el cuerpo de los hombres y las mujeres, una misión que el Señor confía a los esposos y a su amor. Es urgente que, además del compromiso legislativo de los estados, haya un apoyo convencido por parte de las comunidades creyentes y de la comunidad civil tanto en su conjunto como en cada uno de sus miembros, porque el deseo de los jóvenes de engendrar nuevos hijos e hijas, como fruto de la fecundidad de su amor, da una perspectiva de futuro a toda sociedad y es un motivo de esperanza: porque depende de la esperanza y produce esperanza.

La comunidad cristiana, por tanto, no se puede quedar atrás en su apoyo a la necesidad de una alianza social para la esperanza, que sea inclusiva y no ideológica, y que trabaje por un porvenir que se caracterice por la sonrisa de muchos niños y niñas que vendrán a llenar las tantas cunas vacías que ya hay en numerosas partes del mundo. Pero todos, en realidad, necesitamos recuperar la alegría de vivir, porque el ser humano, creado a imagen y semejanza de Dios (cf. Gn 1,26), no puede conformarse con sobrevivir o subsistir mediocremente, amoldándose al momento presente y dejándose satisfacer solamente por realidades materiales. Eso nos encierra en el individualismo y corroe la esperanza, generando una tristeza que se anida en el corazón, volviéndonos desagradables e intolerantes.

10. En el Año jubilar estamos llamados a ser signos tangibles de esperanza para tantos hermanos y hermanas que viven en condiciones de penuria. Pienso en los presos que, privados de la libertad, experimentan cada día —además de la dureza de la reclusión— el vacío afectivo, las restricciones impuestas y, en bastantes casos, la falta de respeto. Propongo a los gobiernos del mundo que en el Año del Jubileo se asuman iniciativas que devuelvan la esperanza; formas de amnistía o de condonación de la pena orientadas a ayudar a las personas para que recuperen la confianza en sí mismas y en la sociedad; itinerarios de reinserción en la comunidad a los que corresponda un compromiso concreto en la observancia de las leyes.

Es una exhortación antigua, que surge de la Palabra de Dios y permanece con todo su valor sapiencial cuando se convoca a tener actos de clemencia y de liberación que permitan volver a empezar: «Así santificarán el quincuagésimo año, y proclamarán una liberación para todos los habitantes del país» (Lv 25,10). El profeta Isaías retoma lo establecido por la Ley mosaica: el Señor «me envió a llevar la buena noticia a los pobres, a vendar los corazones heridos, a proclamar la liberación a los cautivos y la libertad a los prisioneros, a proclamar un año de gracia del Señor» (Is 61,1-2). Estas son las palabras que Jesús hizo suyas al comienzo de su ministerio, declarando que él mismo era el cumplimiento del “año de gracia del Señor” (cf. Lc 4,18-19). Que en cada rincón de la tierra, los creyentes, especialmente los pastores, se hagan intérpretes de tales peticiones, formando una sola voz que reclame con valentía condiciones dignas para los reclusos, respeto de los derechos humanos y sobre todo la abolición de la pena de muerte, recurso que para la fe cristiana es inadmisible y aniquila toda esperanza de perdón y de renovación.[6] Para ofrecer a los presos un signo concreto de cercanía, deseo abrir yo mismo una Puerta Santa en una cárcel, a fin de que sea para ellos un símbolo que invita a mirar al futuro con esperanza y con un renovado compromiso de vida.

11. Que se ofrezcan signos de esperanza a los enfermos que están en sus casas o en los hospitales. Que sus sufrimientos puedan ser aliviados con la cercanía de las personas que los visitan y el afecto que reciben. Las obras de misericordia son igualmente obras de esperanza, que despiertan en los corazones sentimientos de gratitud. Que esa gratitud llegue también a todos los agentes sanitarios que, en condiciones no pocas veces difíciles, ejercitan su misión con cuidado solícito hacia las personas enfermas y más frágiles.

Que no falte una atención inclusiva hacia cuantos hallándose en condiciones de vida particularmente difíciles experimentan la propia debilidad, especialmente a los afectados por patologías o discapacidades que limitan notablemente la autonomía personal. Cuidar de ellos es un himno a la dignidad humana, un canto de esperanza que requiere acciones concertadas por toda la sociedad.

12. También necesitan signos de esperanza aquellos que en sí mismos la representan: los jóvenes. Ellos, lamentablemente, con frecuencia ven que sus sueños se derrumban. No podemos decepcionarlos; en su entusiasmo se fundamenta el porvenir. Es hermoso verlos liberar energías, por ejemplo cuando se entregan con tesón y se comprometen voluntariamente en las situaciones de catástrofe o de inestabilidad social. Sin embargo, resulta triste ver jóvenes sin esperanza. Por otra parte, cuando el futuro se vuelve incierto e impermeable a los sueños; cuando los estudios no ofrecen oportunidades y la falta de trabajo o de una ocupación suficientemente estable amenazan con destruir los deseos, entonces es inevitable que el presente se viva en la melancolía y el aburrimiento. La ilusión de las drogas, el riesgo de caer en la delincuencia y la búsqueda de lo efímero crean en ellos, más que en otros, confusión y oscurecen la belleza y el sentido de la vida, abatiéndolos en abismos oscuros e induciéndolos a cometer gestos autodestructivos. Por eso, que el Jubileo sea en la Iglesia una ocasión para estimularlos. Ocupémonos con ardor renovado de los jóvenes, los estudiantes, los novios, las nuevas generaciones. ¡Que haya cercanía a los jóvenes, que son la alegría y la esperanza de la Iglesia y del mundo!

13. No pueden faltar signos de esperanza hacia los migrantes, que abandonan su tierra en busca de una vida mejor para ellos y sus familias. Que sus esperanzas no se vean frustradas por prejuicios y cerrazones; que la acogida, que abre los brazos a cada uno en razón de su dignidad, vaya acompañada por la responsabilidad, para que a nadie se le niegue el derecho a construir un futuro mejor. Que a los numerosos exiliados, desplazados y refugiados, a quienes los conflictivos sucesos internacionales obligan a huir para evitar guerras, violencia y discriminaciones, se les garantice la seguridad, el acceso al trabajo y a la instrucción, instrumentos necesarios para su inserción en el nuevo contexto social.

Que la comunidad cristiana esté siempre dispuesta a defender el derecho de los más débiles. Que generosamente abra de par en par sus acogedoras puertas, para que a nadie le falte nunca la esperanza de una vida mejor. Que resuene en nuestros corazones la Palabra del Señor que, en la parábola del juicio final, dijo: «estaba de paso, y me alojaron», porque «cada vez que lo hicieron con el más pequeño de mis hermanos, lo hicieron conmigo» (Mt 25,35.40).

14. Signos de esperanza merecen los ancianos, que a menudo experimentan soledad y sentimientos de abandono. Valorar el tesoro que son, sus experiencias de vida, la sabiduría que tienen y el aporte que son capaces de ofrecer, es un compromiso para la comunidad cristiana y para la sociedad civil, llamadas a trabajar juntas por la alianza entre las generaciones.

Dirijo un recuerdo particular a los abuelos y a las abuelas, que representan la transmisión de la fe y la sabiduría de la vida a las generaciones más jóvenes. Que sean sostenidos por la gratitud de los hijos y el amor de los nietos, que encuentran en ellos arraigo, comprensión y aliento.

15. Imploro, de manera apremiante, esperanza para los millares de pobres, que carecen con frecuencia de lo necesario para vivir. Frente a la sucesión de oleadas de pobreza siempre nuevas, existe el riesgo de acostumbrarse y resignarse. Pero no podemos apartar la mirada de situaciones tan dramáticas, que hoy se constatan en todas partes y no sólo en determinadas zonas del mundo. Encontramos cada día personas pobres o empobrecidas que a veces pueden ser nuestros vecinos. A menudo no tienen una vivienda, ni la comida suficiente para cada jornada. Sufren la exclusión y la indiferencia de muchos. Es escandaloso que, en un mundo dotado de enormes recursos, destinados en gran parte a los armamentos, los pobres sean «la mayor parte […], miles de millones de personas. Hoy están presentes en los debates políticos y económicos internacionales, pero frecuentemente parece que sus problemas se plantean como un apéndice, como una cuestión que se añade casi por obligación o de manera periférica, si es que no se los considera un mero daño colateral. De hecho, a la hora de la actuación concreta, quedan frecuentemente en el último lugar».[7] No lo olvidemos: los pobres, casi siempre, son víctimas, no culpables.

Llamamientos a la esperanza

16. Haciendo eco a la palabra antigua de los profetas, el Jubileo nos recuerda que los bienes de la tierra no están destinados a unos pocos privilegiados, sino a todos. Es necesario que cuantos poseen riquezas sean generosos, reconociendo el rostro de los hermanos que pasan necesidad. Pienso de modo particular en aquellos que carecen de agua y de alimento. El hambre es un flagelo escandaloso en el cuerpo de nuestra humanidad y nos invita a todos a sentir remordimiento de conciencia. Renuevo el llamamiento a fin de que «con el dinero que se usa en armas y otros gastos militares, constituyamos un Fondo mundial, para acabar de una vez con el hambre y para el desarrollo de los países más pobres, de tal modo que sus habitantes no acudan a soluciones violentas o engañosas ni necesiten abandonar sus países para buscar una vida más digna».[8]

Hay otra invitación apremiante que deseo dirigir en vista del Año jubilar; va dirigida a las naciones más ricas, para que reconozcan la gravedad de tantas decisiones tomadas y determinen condonar las deudas de los países que nunca podrán saldarlas. Antes que tratarse de magnanimidad es una cuestión de justicia, agravada hoy por una nueva forma de iniquidad de la que hemos tomado conciencia: «Porque hay una verdadera “deuda ecológica”, particularmente entre el Norte y el Sur, relacionada con desequilibrios comerciales con consecuencias en el ámbito ecológico, así como con el uso desproporcionado de los recursos naturales llevado a cabo históricamente por algunos países».[9] Como enseña la Sagrada Escritura, la tierra pertenece a Dios y todos nosotros habitamos en ella como «extranjeros y huéspedes» (Lv 25,23). Si verdaderamente queremos preparar en el mundo el camino de la paz, esforcémonos por remediar las causas que originan las injusticias, cancelemos las deudas injustas e insolutas y saciemos a los hambrientos.

17. Durante el próximo Jubileo se conmemorará un aniversario muy significativo para todos los cristianos. Se cumplirán, en efecto, 1700 años de la celebración del primer gran Concilio ecuménico de Nicea. Conviene recordar que, desde los tiempos apostólicos, los pastores se han reunido en asambleas en diversas ocasiones con el fin de tratar temáticas doctrinales y cuestiones disciplinares. En los primeros siglos de la fe los sínodos se multiplicaron tanto en el Oriente como en el Occidente cristianos, mostrando cuánto fuese importante custodiar la unidad del Pueblo de Dios y el anuncio fiel del Evangelio. El Año jubilar podrá ser una oportunidad significativa para dar concreción a esta forma sinodal, que la comunidad cristiana advierte hoy como expresión cada vez más necesaria para corresponder mejor a la urgencia de la evangelización: que todos los bautizados, cada uno con su propio carisma y ministerio, sean corresponsables, para que por la multiplicidad de signos de esperanza testimonien la presencia de Dios en el mundo.

El Concilio de Nicea tuvo la tarea de preservar la unidad, seriamente amenazada por la negación de la plena divinidad de Jesucristo y de su misma naturaleza con el Padre. Estuvieron presentes alrededor de trescientos obispos, que se reunieron en el palacio imperial el 20 de mayo del año 325, convocados por iniciativa del emperador Constantino. Después de diversos debates, todos ellos, movidos por la gracia del Espíritu, se identificaron en el Símbolo de la fe que todavía hoy profesamos en la Celebración eucarística dominical. Los padres conciliares quisieron comenzar ese Símbolo utilizando por primera vez la expresión «Creemos»[10], como testimonio de que en ese “nosotros” todas las Iglesias se reconocían en comunión, y todos los cristianos profesaban la misma fe.

El Concilio de Nicea marcó un hito en la historia de la Iglesia. La conmemoración de esa fecha invita a los cristianos a unirse en la alabanza y el agradecimiento a la Santísima Trinidad y en particular a Jesucristo, el Hijo de Dios, «de la misma naturaleza del Padre»[11], que nos ha revelado semejante misterio de amor. Pero Nicea también representa una invitación a todas las Iglesias y comunidades eclesiales a seguir avanzando en el camino hacia la unidad visible, a no cansarse de buscar formas adecuadas para corresponder plenamente a la oración de Jesús: «Que todos sean uno: como tú, Padre, estás en mí y yo en ti, que también ellos sean uno en nosotros, para que el mundo crea que tú me enviaste» (Jn 17,21).

En el Concilio de Nicea se trató además el tema de la fecha de la Pascua. A este respecto, todavía hoy existen diferentes posturas, que impiden celebrar el mismo día el acontecimiento fundamental de la fe. Por una circunstancia providencial, esto tendrá lugar precisamente en el Año 2025. Que este acontecimiento sea una llamada para todos los cristianos de Oriente y de Occidente a realizar un paso decisivo hacia la unidad en torno a una fecha común para la Pascua. Muchos, es bueno recordarlo, ya no tienen conocimiento de las disputas del pasado y no comprenden cómo puedan subsistir divisiones al respecto.

Anclados en la esperanza

18. La esperanza, junto con la fe y la caridad, forman el tríptico de las “virtudes teologales”, que expresan la esencia de la vida cristiana (cf. 1 Co 13,13; 1 Ts 1,3). En su dinamismo inseparable, la esperanza es la que, por así decirlo, señala la orientación, indica la dirección y la finalidad de la existencia cristiana. Por eso el apóstol Pablo nos invita a “alegrarnos en la esperanza, a ser pacientes en la tribulación y perseverantes en la oración” (cf. Rm 12,12). Sí, necesitamos que “sobreabunde la esperanza” (cf. Rm 15,13) para testimoniar de manera creíble y atrayente la fe y el amor que llevamos en el corazón; para que la fe sea gozosa y la caridad entusiasta; para que cada uno sea capaz de dar aunque sea una sonrisa, un gesto de amistad, una mirada fraterna, una escucha sincera, un servicio gratuito, sabiendo que, en el Espíritu de Jesús, esto puede convertirse en una semilla fecunda de esperanza para quien lo recibe. Pero, ¿cuál es el fundamento de nuestra espera? Para comprenderlo es bueno que nos detengamos en las razones de nuestra esperanza (cf. 1 P 3,15).

19. «Creo en la vida eterna»[12]: así lo profesa nuestra fe y la esperanza cristiana encuentra en estas palabras una base fundamental. La esperanza, en efecto, «es la virtud teologal por la que aspiramos […] a la vida eterna como felicidad nuestra».[13] El Concilio Ecuménico Vaticano II afirma: «Cuando […] faltan ese fundamento divino y esa esperanza de la vida eterna, la dignidad humana sufre lesiones gravísimas —es lo que hoy con frecuencia sucede—, y los enigmas de la vida y de la muerte, de la culpa y del dolor, quedan sin solucionar, llevando no raramente al hombre a la desesperación».[14] Nosotros, en cambio, en virtud de la esperanza en la que hemos sido salvados, mirando al tiempo que pasa, tenemos la certeza de que la historia de la humanidad y la de cada uno de nosotros no se dirigen hacia un punto ciego o un abismo oscuro, sino que se orientan al encuentro con el Señor de la gloria. Vivamos por tanto en la espera de su venida y en la esperanza de vivir para siempre en Él. Es con este espíritu que hacemos nuestra la ardiente invocación de los primeros cristianos, con la que termina la Sagrada Escritura: «¡Ven, Señor Jesús!» (Ap 22,20).

20. Jesús muerto y resucitado es el centro de nuestra fe. San Pablo, al enunciar en pocas palabras este contenido —utiliza sólo cuatro verbos—, nos transmite el “núcleo” de nuestra esperanza: «Les he trasmitido en primer lugar, lo que yo mismo recibí: Cristo murió por nuestros pecados, conforme a la Escritura. Fue sepultado y resucitó al tercer día, de acuerdo con la Escritura. Se apareció a Pedro y después a los Doce» (1 Co 15,3-5). Cristo murió, fue sepultado, resucitó, se apareció. Por nosotros atravesó el drama de la muerte. El amor del Padre lo resucitó con la fuerza del Espíritu, haciendo de su humanidad la primicia de la eternidad para nuestra salvación. La esperanza cristiana consiste precisamente en esto: ante la muerte, donde parece que todo acaba, se recibe la certeza de que, gracias a Cristo, a su gracia, que nos ha sido comunicada en el Bautismo, «la vida no termina, sino que se transforma»[15] para siempre. En el Bautismo, en efecto, sepultados con Cristo, recibimos en Él resucitado el don de una vida nueva, que derriba el muro de la muerte, haciendo de ella un pasaje hacia la eternidad.

Y si bien, frente a la muerte —dolorosa separación que nos obliga a dejar a nuestros seres más queridos— no cabe discurso alguno, el Jubileo nos ofrecerá la oportunidad de redescubrir, con inmensa gratitud, el don de esa vida nueva recibida en el Bautismo, capaz de transfigurar su dramaticidad. En el contexto jubilar, es significativo reflexionar sobre cómo se ha comprendido este misterio desde los primeros siglos de nuestra fe. Por ejemplo, los cristianos, durante mucho tiempo construyeron la pila bautismal de forma octogonal, y todavía hoy podemos admirar muchos bautisterios antiguos que conservan dicha forma, como en San Juan de Letrán en Roma. Esto indica que en la fuente bautismal se inaugura el octavo día, es decir, el de la resurrección, el día que va más allá del tiempo habitual, marcado por la sucesión de las semanas, abriendo así el ciclo del tiempo a la dimensión de la eternidad, a la vida que dura para siempre. Esta es la meta a la que tendemos en nuestra peregrinación terrena (cf. Rm 6,22).

El testimonio más convincente de esta esperanza nos lo ofrecen los mártires, que, firmes en la fe en Cristo resucitado, supieron renunciar a la vida terrena con tal de no traicionar a su Señor. Ellos están presentes en todas las épocas y son numerosos, quizás más que nunca en nuestros días, como confesores de la vida que no tiene fin. Necesitamos conservar su testimonio para hacer fecunda nuestra esperanza.

Estos mártires, pertenecientes a las diversas tradiciones cristianas, son también semillas de unidad porque expresan el ecumenismo de la sangre. Durante el Jubileo, por lo tanto, mi vivo deseo es que haya una celebración ecuménica donde se ponga de manifiesto la riqueza del testimonio de estos mártires.

21. ¿Qué será de nosotros, entonces, después de la muerte? Más allá de este umbral está la vida eterna con Jesús, que consiste en la plena comunión con Dios, en la contemplación y participación de su amor infinito. Lo que ahora vivimos en la esperanza, después lo veremos en la realidad. San Agustín escribía al respecto: «Cuando me haya unido a Ti con todo mi ser, nada será para mí dolor ni pena. Será verdadera vida mi vida, llena de Ti».[16] ¿Qué caracteriza, por tanto, esta comunión plena? El ser felices. La felicidad es la vocación del ser humano, una meta que atañe a todos.

Pero, ¿qué es la felicidad? ¿Qué felicidad esperamos y deseamos? No se trata de una alegría pasajera, de una satisfacción efímera que, una vez alcanzada, sigue pidiendo siempre más, en una espiral de avidez donde el espíritu humano nunca está satisfecho, sino que más bien siempre está más vacío. Necesitamos una felicidad que se realice definitivamente en aquello que nos plenifica, es decir, en el amor, para poder exclamar, ya desde ahora: Soy amado, luego existo; y existiré por siempre en el Amor que no defrauda y del que nada ni nadie podrá separarme jamás. Recordemos una vez más las palabras del Apóstol: «Porque tengo la certeza de que ni la muerte ni la vida, ni los ángeles ni los principados, ni lo presente ni lo futuro, ni los poderes espirituales, ni lo alto ni lo profundo, ni ninguna otra criatura podrá separarnos jamás del amor de Dios, manifestado en Cristo Jesús, nuestro Señor» (Rm 8,38-39).

22. Otra realidad vinculada con la vida eterna es el juicio de Dios, que tiene lugar tanto al culminar nuestra existencia terrena como al final de los tiempos. Con frecuencia, el arte ha intentado representarlo —pensemos en la obra maestra de Miguel Ángel en la Capilla Sixtina— acogiendo la concepción teológica de su tiempo y transmitiendo a quien observa un sentimiento de temor. Aunque es justo disponernos con gran conciencia y seriedad al momento que recapitula la existencia, al mismo tiempo es necesario hacerlo siempre desde la dimensión de la esperanza, virtud teologal que sostiene la vida y hace posible que no caigamos en el miedo. El juicio de Dios, que es amor (cf. 1 Jn 4,8.16), no podrá basarse más que en el amor, de manera especial en cómo lo hayamos ejercitado respecto a los más necesitados, en los que Cristo, el mismo Juez, está presente (cf. Mt 25,31-46). Se trata, por lo tanto, de un juicio diferente al de los hombres y los tribunales terrenales; debe entenderse como una relación en la verdad con Dios amor y con uno mismo en el corazón del misterio insondable de la misericordia divina. En este sentido, la Sagrada Escritura afirma: «Tú enseñaste a tu pueblo que el justo debe ser amigo de los hombres y colmaste a tus hijos de una feliz esperanza, porque, después del pecado, das lugar al arrepentimiento […] y, al ser juzgados, contamos con tu misericordia» (Sb 12,19.22). Como escribía Benedicto XVI, «en el momento del Juicio experimentamos y acogemos este predominio de su amor sobre todo el mal en el mundo y en nosotros. El dolor del amor se convierte en nuestra salvación y nuestra alegría».[17]

El Juicio, entonces, se refiere a la salvación que esperamos y que Jesús nos ha obtenido con su muerte y resurrección. Por lo tanto, está dirigido a abrirnos al encuentro definitivo con Él. Y dado que no es posible pensar en ese contexto que el mal realizado quede escondido, este necesita ser purificado, para permitirnos el paso definitivo al amor de Dios. Se comprende en este sentido la necesidad de rezar por quienes han finalizado su camino terreno; solidarizándose en la intercesión orante que encuentra su propia eficacia en la comunión de los santos, en el vínculo común que nos une con Cristo, primogénito de la creación. De esta manera la indulgencia jubilar, en virtud de la oración, está destinada en particular a los que nos han precedido, para que obtengan plena misericordia.

23. La indulgencia, en efecto, permite descubrir cuán ilimitada es la misericordia de Dios. No sin razón en la antigüedad el término “misericordia” era intercambiable con el de “indulgencia”, precisamente porque pretende expresar la plenitud del perdón de Dios que no conoce límites.

El sacramento de la Penitencia nos asegura que Dios quita nuestros pecados. Resuenan con su carga de consuelo las palabras del Salmo: «Él perdona todas tus culpas y cura todas tus dolencias; rescata tu vida del sepulcro, te corona de amor y de ternura. […] El Señor es bondadoso y compasivo, lento para enojarse y de gran misericordia; […] no nos trata según nuestros pecados ni nos paga conforme a nuestras culpas. Cuanto se alza el cielo sobre la tierra, así de inmenso es su amor por los que lo temen; cuanto dista el oriente del occidente, así aparta de nosotros nuestros pecados» (Sal 103,3-4.8.10-12). La Reconciliación sacramental no es sólo una hermosa oportunidad espiritual, sino que representa un paso decisivo, esencial e irrenunciable para el camino de fe de cada uno. En ella permitimos que Señor destruya nuestros pecados, que sane nuestros corazones, que nos levante y nos abrace, que nos muestre su rostro tierno y compasivo. No hay mejor manera de conocer a Dios que dejándonos reconciliar con Él (cf. 2 Co 5,20), experimentando su perdón. Por eso, no renunciemos a la Confesión, sino redescubramos la belleza del sacramento de la sanación y la alegría, la belleza del perdón de los pecados.

Sin embargo, como sabemos por experiencia personal, el pecado “deja huella”, lleva consigo unas consecuencias; no sólo exteriores, en cuanto consecuencias del mal cometido, sino también interiores, en cuanto «todo pecado, incluso venial, entraña apego desordenado a las criaturas que es necesario purificar, sea aquí abajo, sea después de la muerte, en el estado que se llama Purgatorio».[18] Por lo tanto, en nuestra humanidad débil y atraída por el mal, permanecen los “efectos residuales del pecado”. Estos son removidos por la indulgencia, siempre por la gracia de Cristo, el cual, como escribió san Pablo VI, es «nuestra “indulgencia”».[19] La Penitenciaría Apostólica se encargará de emanar las disposiciones para poder obtener y hacer efectiva la práctica de la indulgencia jubilar.

Esa experiencia colma de perdón no puede sino abrir el corazón y la mente a perdonar. Perdonar no cambia el pasado, no puede modificar lo que ya sucedió; y, sin embargo, el perdón puede permitir que cambie el futuro y se viva de una manera diferente, sin rencor, sin ira ni venganza. El futuro iluminado por el perdón hace posible que el pasado se lea con otros ojos, más serenos, aunque estén aún surcados por las lágrimas.

Durante el último Jubileo extraordinario instituí los Misioneros de la Misericordia, que siguen realizando una misión importante. Que durante el próximo Jubileo también ejerciten su ministerio, devolviendo la esperanza y perdonando cada vez que un pecador se dirige a ellos con corazón abierto y espíritu arrepentido. Que sigan siendo instrumentos de reconciliación y ayuden a mirar el futuro con la esperanza del corazón que proviene de la misericordia del Padre. Quisiera que los obispos aprovecharan su valioso servicio, enviándolos especialmente allí donde la esperanza se pone a dura prueba, como las cárceles, los hospitales y los lugares donde la dignidad de la persona es pisoteada; en las situaciones más precarias y en los contextos de mayor degradación, para que nadie se vea privado de la posibilidad de recibir el perdón y el consuelo de Dios.

24. La esperanza encuentra en la Madre de Dios su testimonio más alto. En ella vemos que la esperanza no es un fútil optimismo, sino un don de gracia en el realismo de la vida. Como toda madre, cada vez que María miraba a su Hijo pensaba en el futuro, y ciertamente en su corazón permanecían grabadas esas palabras que Simeón le había dirigido en el templo: «Este niño será causa de caída y de elevación para muchos en Israel; será signo de contradicción, y a ti misma una espada te atravesará el corazón». (Lc 2,34-35). Por eso, al pie de la cruz, mientras veía a Jesús inocente sufrir y morir, aun atravesada por un dolor desgarrador, repetía su “sí”, sin perder la esperanza y la confianza en el Señor. De ese modo ella cooperaba por nosotros en el cumplimiento de lo que había dicho su Hijo, anunciando que «debía sufrir mucho y ser rechazado por los ancianos, los sumos sacerdotes y los escribas; que debía ser condenado a muerte y resucitar después de tres días» (Mc 8,31), y en el tormento de ese dolor ofrecido por amor se convertía en nuestra Madre, Madre de la esperanza. No es casual que la piedad popular siga invocando a la Santísima Virgen como Stella maris, un título expresivo de la esperanza cierta de que, en los borrascosos acontecimientos de la vida, la Madre de Dios viene en nuestro auxilio, nos sostiene y nos invita a confiar y a seguir esperando.

A este respecto, me es grato recordar que el Santuario de Nuestra Señora de Guadalupe en la Ciudad de México se está preparando para celebrar, en el 2031, los 500 años de la primera aparición de la Virgen. Por medio de Juan Diego, la Madre de Dios hacía llegar un revolucionario mensaje de esperanza que aún hoy repite a todos los peregrinos y a los fieles: «¿Acaso no estoy yo aquí, que soy tu madre?».[20] Un mensaje similar se graba en los corazones en tantos santuarios marianos esparcidos por el mundo, metas de numerosos peregrinos, que confían a la Madre de Dios sus preocupaciones, sus dolores y sus esperanzas. Que en este Año jubilar los santuarios sean lugares santos de acogida y espacios privilegiados para generar esperanza. Invito a los peregrinos que vendrán a Roma a detenerse a rezar en los santuarios marianos de la ciudad para venerar a la Virgen María e invocar su protección. Confío en que todos, especialmente los que sufren y están atribulados, puedan experimentar la cercanía de la más afectuosa de las madres que nunca abandona a sus hijos; ella que para el santo Pueblo de Dios es «signo de esperanza cierta y de consuelo».[21]

25. Mientras nos acercamos al Jubileo, volvamos a la Sagrada Escritura y sintamos dirigidas a nosotros estas palabras: «Nosotros, los que acudimos a él, nos sentimos poderosamente estimulados a aferrarnos a la esperanza que se nos ofrece. Esta esperanza que nosotros tenemos es como un ancla del alma, sólida y firme, que penetra más allá del velo, allí mismo donde Jesús entró por nosotros, como precursor» (Hb 6,18-20). Es una invitación fuerte a no perder nunca la esperanza que nos ha sido dada, a abrazarla encontrando refugio en Dios.

La imagen del ancla es sugestiva para comprender la estabilidad y la seguridad que poseemos si nos encomendamos al Señor Jesús, aun en medio de las aguas agitadas de la vida. Las tempestades nunca podrán prevalecer, porque estamos anclados en la esperanza de la gracia, que nos hace capaces de vivir en Cristo superando el pecado, el miedo y la muerte. Esta esperanza, mucho más grande que las satisfacciones de cada día y que las mejoras de las condiciones de vida, nos transporta más allá de las pruebas y nos exhorta a caminar sin perder de vista la grandeza de la meta a la que hemos sido llamados, el cielo.

El próximo Jubileo, por tanto, será un Año Santo caracterizado por la esperanza que no declina, la esperanza en Dios. Que nos ayude también a recuperar la confianza necesaria —tanto en la Iglesia como en la sociedad— en los vínculos interpersonales, en las relaciones internacionales, en la promoción de la dignidad de toda persona y en el respeto de la creación. Que el testimonio creyente pueda ser en el mundo levadura de genuina esperanza, anuncio de cielos nuevos y tierra nueva (cf. 2 P 3,13), donde habite la justicia y la concordia entre los pueblos, orientados hacia el cumplimiento de la promesa del Señor.

Dejémonos atraer desde ahora por la esperanza y permitamos que a través de nosotros sea contagiosa para cuantos la desean. Que nuestra vida pueda decirles: «Espera en el Señor y sé fuerte; ten valor y espera en el Señor» (Sal 27,14). Que la fuerza de esa esperanza pueda colmar nuestro presente en la espera confiada de la venida de Nuestro Señor Jesucristo, a quien sea la alabanza y la gloria ahora y por los siglos futuros.

Dado en Roma, en San Juan de Letrán, el 9 de mayo, Solemnidad de la Ascensión de Nuestro Señor Jesucristo, del año 2024, duodécimo de Pontificado.

FRANCISCO

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[1] Sermón 198, 2.

[2] Cf. Fuentes Franciscanas, n. 263, 6.10.

[3] Cf. Misericordiae Vultus, Bula de convocación del Jubileo Extraordinario de la Misericordia, nn. 1-3.

[4] Const. past. Gaudium et spes, n. 4.

[5] Carta enc. Laudato si’, n. 50.

[6] Cf. Catecismo de la Iglesia Católica, n. 2267.

[7] Carta enc. Laudato si’, n. 49.

[8] Carta enc. Fratelli tutti, n. 262.

[9] Carta enc. Laudato si’, n. 51.

[10] Símbolo niceno: H. Denzinger – A. Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, n. 125.

[11] Ibíd.

[12] Símbolo de los Apóstoles: H. Denzinger – A. Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, n. 30.

[13] Catecismo de la Iglesia Católica, n. 1817.

[14] Const. past. Gaudium et spes, n. 21.

[15] Misal Romano, Prefacio de difuntos I.

[16] Confesiones X, 28.

[17] Carta enc. Spe salvi, n. 47.

[18] Catecismo de la Iglesia Católica, n. 1472.

[19] Carta ap. Apostolorum limina (23 mayo 1974), II.

[20] Nican Mopohua, n. 119.

[21] Conc. Ecum. Vat. II, Const. dogm. Lumen gentium, n. 68.

[00781-ES.01] [Texto original: Español]

Testo in lingua portoghese

SPES NON CONFUNDIT
Bula de Proclamação
do Jubileu Ordinário
do Ano 2025

FRANCISCO
BISPO DE ROMA
SERVO DOS SERVOS DE DEUS
A QUANTOS LEREM ESTA CARTA
QUE A ESPERANÇA LHES ENCHA O CORAÇÃO

1. «Spes non confundit – a esperança não engana» (Rm 5, 5). Sob o sinal da esperança, o apóstolo Paulo infunde coragem à comunidade cristã de Roma. A esperança é também a mensagem central do próximo Jubileu, que, segundo uma antiga tradição, o Papa proclama de vinte e cinco em vinte e cinco anos. Penso em todos os peregrinos de esperança, que chegarão a Roma para viver o Ano Santo e em quantos, não podendo vir à Cidade dos apóstolos Pedro e Paulo, vão celebrá-lo nas Igrejas particulares. Possa ser, para todos, um momento de encontro vivo e pessoal com o Senhor Jesus, «porta» de salvação (cf. Jo 10, 7.9); com Ele, que a Igreja tem por missão anunciar sempre, em toda a parte e a todos, como sendo a «nossa esperança» (1 Tm 1, 1).

Todos esperam. No coração de cada pessoa, encerra-se a esperança como desejo e expetativa do bem, apesar de não saber o que trará consigo o amanhã. Porém, esta imprevisibilidade do futuro faz surgir sentimentos por vezes contrapostos: desde a confiança ao medo, da serenidade ao desânimo, da certeza à dúvida. Muitas vezes encontramos pessoas desanimadas que olham, com ceticismo e pessimismo, para o futuro como se nada lhes pudesse proporcionar felicidade. Que o Jubileu seja, para todos, ocasião de reanimar a esperança! A Palavra de Deus ajuda-nos a encontrar as razões para isso. Deixemo-nos guiar pelo que o apóstolo Paulo escreve precisamente aos cristãos de Roma.

Uma Palavra de esperança

2. «Uma vez que fomos justificados pela fé, estamos em paz com Deus por Nosso Senhor Jesus Cristo. Por Ele tivemos acesso, na fé, a esta graça na qual nos encontramos firmemente e nos gloriamos, na esperança da glória de Deus (…). Ora a esperança não engana, porque o amor de Deus foi derramado nos nossos corações pelo Espírito Santo que nos foi dado» (Rm 5, 1-2.5). São Paulo oferece-nos aqui vários pontos de reflexão. Sabemos que a Carta aos Romanos assinala uma passagem decisiva na sua atividade evangelizadora. Até então, desenvolveu-a na zona oriental do Império; agora espera-o Roma com tudo o que esta representa aos olhos do mundo: um grande desafio, que há de enfrentar em nome do anúncio do Evangelho, que não conhece barreiras nem fronteiras. A Igreja de Roma não foi fundada por Paulo, mas este sente um vivo desejo de lá chegar logo que possível, para levar a todos o Evangelho de Jesus Cristo, morto e ressuscitado, como anúncio da esperança que realiza as promessas, introduz na glória e não desilude porque está fundada no amor.

3. Com efeito, a esperança nasce do amor e funda-se no amor que brota do Coração de Jesus trespassado na cruz: «Se de facto, quando éramos inimigos de Deus, fomos reconciliados com Ele pela morte de seu Filho, com muito mais razão, uma vez reconciliados, havemos de ser salvos pela sua vida» (Rm 5, 10). E a sua vida manifesta-se na nossa vida de fé, que começa com o Batismo, desenvolve-se na docilidade à graça de Deus e é por isso animada pela esperança, sempre renovada e tornada inabalável pela ação do Espírito Santo.

Na verdade, é o Espírito Santo, com a sua presença perene no caminho da Igreja, que irradia nos crentes a luz da esperança: mantém-na acesa como uma tocha que nunca se apaga, para dar apoio e vigor à nossa vida. Com efeito a esperança cristã não engana nem desilude, porque está fundada na certeza de que nada e ninguém poderá jamais separar-nos do amor divino: «Quem poderá separar-nos do amor de Cristo? A tribulação, a angústia, a perseguição, a fome, a nudez, o perigo, a espada? (…) Mas em tudo isso saímos mais do que vencedores graças Àquele que nos amou. Estou convencido de que nem a morte nem a vida, nem os anjos nem os principados, nem o presente nem o futuro, nem as potestades, nem a altura nem o abismo, nem qualquer outra criatura poderá separar-nos do amor de Deus, que está em Cristo Jesus, Senhor nosso» (Rm 8, 35.37-39). Por isso mesmo esta esperança não cede nas dificuldades: funda-se na fé e é alimentada pela caridade, permitindo assim avançar na vida. A propósito escreve Santo Agostinho: «Em qualquer modo de vida, não se pode passar sem estas três propensões da alma: crer, esperar, amar».[1]

4. São Paulo é muito realista. Sabe que a vida é feita de alegrias e sofrimentos, que o amor é posto à prova quando aumentam as dificuldades e a esperança parece desmoronar-se diante do sofrimento. E, no entanto, escreve: «Gloriamo-nos também das tribulações, sabendo que a tribulação produz a paciência, a paciência a firmeza, e a firmeza a esperança» (Rm 5, 3-4). Para o Apóstolo, a tribulação e o sofrimento são as condições típicas de todos aqueles que anunciam o Evangelho em contextos de incompreensão e perseguição (cf. 2 Cor 6, 3-10). Mas em tais situações, através da escuridão, vislumbra-se uma luz: descobre-se que a evangelização é sustentada pela força que brota da cruz e da ressurreição de Cristo. Isto faz crescer uma virtude, que é parente próxima da esperança: a paciência. Habituamo-nos a querer tudo e agora, num mundo onde a pressa se tornou uma constante. Já não há tempo para nos encontrarmos e, com frequência, as próprias famílias sentem dificuldade para se reunir e falar calmamente. A paciência foi posta em fuga pela pressa, causando grave dano às pessoas; com efeito sobrevêm a intolerância, o nervosismo e, por vezes, a violência gratuita, gerando insatisfação e isolamento.

Além disso, na era da internet, onde o espaço e o tempo são suplantados pelo «aqui e agora», a paciência deixou de ser de casa. Se ainda fôssemos capazes de admirar a criação, poderíamos compreender como é decisiva a paciência. Esperar a alternância das estações com os seus frutos; observar a vida dos animais e os ciclos do respetivo desenvolvimento; ter os olhos simples de São Francisco, que no seu Cântico das Criaturas, escrito precisamente há 800 anos, sentia a criação como uma grande família, chamando «irmão» ao sol e, à lua, «irmã».[2] Redescobrir a paciência faz bem a nós próprios e aos outros. Frequentemente São Paulo recorre à paciência para sublinhar a importância da perseverança e da confiança naquilo que nos foi prometido por Deus, mas sobretudo testemunha que Deus é paciente connosco: Ele, que é «o Deus da paciência e da consolação» (Rm 15, 5). A paciência – fruto também ela do Espírito Santo – mantém viva a esperança e consolida-a como virtude e estilo de vida. Por isso, aprendamos a pedir muitas vezes a graça da paciência, que é filha da esperança e, ao mesmo tempo, seu suporte.

Um caminho de esperança

5. Deste entrelaçamento de esperança e paciência, resulta claro que a vida cristã é um caminho, que precisa também de momentos fortes para nutrir e robustecer a esperança, insubstituível companheira que permite vislumbrar a meta: o encontro com o Senhor Jesus. Apraz-me pensar que um percurso de graça, animado pela espiritualidade popular, tenha antecedido a proclamação do primeiro Jubileu em 1300. Com efeito, não podemos esquecer as diversas formas através das quais se derramou com abundância a graça do perdão sobre o santo Povo fiel de Deus. Recordemos, por exemplo, o grande «perdão» que São Celestino V quis conceder a quantos iam à Basílica de Santa Maria de Collemaggio, em Áquila, nos dias 28 e 29 de agosto de 1294, seis anos antes do Papa Bonifácio VIII instituir o Ano Santo. Por isso, a Igreja já tinha a experiência da graça jubilar da misericórdia. E antes ainda, em 1216, o Papa Honório III acolhera a súplica de São Francisco, que pedia a indulgência para quantos tivessem visitado a Porciúncula nos dois primeiros dias de agosto. O mesmo se pode dizer da peregrinação a Santiago de Compostela: de facto, o Papa Calisto II, em 1122, concedeu que se celebrasse o Jubileu naquele Santuário sempre que a festa do apóstolo Tiago calhasse num domingo. É bom que continue esta modalidade «generalizada» de celebrações jubilares, de modo que a força do perdão de Deus sustente e acompanhe o caminho das comunidades e das pessoas.

Não é por acaso que a peregrinação representa um elemento fundamental de todo o evento jubilar. Pôr-se a caminho é típico de quem anda à procura do sentido da vida. A peregrinação a pé favorece muito a redescoberta do valor do silêncio, do esforço, da essencialidade. Também no próximo ano, os peregrinos de esperança não deixarão de percorrer caminhos antigos e modernos para viver intensamente a experiência jubilar. Além disso, na própria cidade de Roma, haverá itinerários de fé que se juntarão aos tradicionais das catacumbas e das Sete Igrejas. Deslocar-se dum país ao outro como se as fronteiras estivessem superadas, passar duma cidade a outra contemplando a criação e as obras de arte, permitirá acumular experiências e culturas diferentes e levar dentro de si, harmonizada pela oração, a beleza que faz agradecer a Deus as maravilhas que Ele realizou. As igrejas jubilares, ao longo dos percursos e em Roma, poderão ser oásis de espiritualidade onde é possível restaurar o caminho da fé e dessedentar-se nas fontes da esperança, a começar pelo sacramento da Reconciliação, ponto de partida insubstituível dum verdadeiro caminho de conversão. Nas Igrejas particulares, deve ser dada uma atenção especial à preparação dos sacerdotes e dos fiéis para as Confissões e para o acesso a este sacramento na sua forma individual.

Aos fiéis das Igrejas Orientais, sobretudo àqueles que já estão em plena comunhão com o Sucessor de Pedro, quero dirigir um convite particular a cumprir esta peregrinação. Eles que tanto sofreram, muitas vezes até à morte, pela sua fidelidade a Cristo e à Igreja, hão de sentir-se particularmente bem-vindos a Roma, que também é Mãe para eles e conserva tantas memórias da sua presença. A Igreja Católica, que está enriquecida pelas suas liturgias muito antigas e pela teologia e espiritualidade dos Padres, monges e teólogos, quer exprimir simbolicamente o acolhimento deles e dos irmãos e irmãs ortodoxos, num tempo em que vivem já a peregrinação da Via-Sacra, sendo muitas vezes obrigados a deixar as suas terras de origem, as suas terras santas, donde a violência e a instabilidade os expulsam rumo a países mais seguros. Para eles, a experiência de ser amados pela Igreja, que não os abandonará mas há de acompanhá-los para onde quer que forem, torna ainda mais forte o sinal do Jubileu.

6. O Ano Santo de 2025 está em continuidade com os anteriores eventos de graça. No último Jubileu ordinário, atravessou-se o limiar dos dois mil anos do nascimento de Jesus Cristo. Em seguida, no dia 13 de março de 2015, proclamei um Jubileu extraordinário com o objetivo de manifestar e permitir encontrar o «Rosto da misericórdia» de Deus,[3] anúncio central do Evangelho para toda a pessoa e em cada época. Agora chegou o momento dum novo Jubileu, em que se abre novamente de par em par a Porta Santa para oferecer a experiência viva do amor de Deus, que desperta no coração a esperança segura da salvação em Cristo. Ao mesmo tempo, este Ano Santo orientará o caminho rumo a outra data fundamental para todos os cristãos: de facto, em 2033, celebrar-se-ão os dois mil anos da Redenção, realizada por meio da paixão, morte e ressurreição do Senhor Jesus. Abre-se, assim, diante de nós um percurso marcado por grandes etapas, nas quais a graça de Deus precede e acompanha o povo que caminha zeloso na fé, diligente na caridade e perseverante na esperança (cf. 1 Ts 1, 3).

Sustentado por tão longa tradição e certo de que este Ano Jubilar poderá ser, para toda a Igreja, uma intensa experiência de graça e de esperança, estabeleço que a Porta Santa da Basílica de São Pedro, no Vaticano, seja aberta a 24 de dezembro do corrente ano de 2024, iniciando-se assim o Jubileu Ordinário. No domingo seguinte, 29 de dezembro de 2024, abrirei a Porta Santa da minha catedral de São João de Latrão, que celebrará, no dia 9 de novembro deste ano, 1700 anos da sua dedicação. Posteriormente, no dia 1 de janeiro de 2025, Solenidade de Santa Maria Mãe de Deus, será aberta a Porta Santa da Basílica Papal de Santa Maria Maior. Por fim, no domingo 5 de janeiro de 2025, será aberta a Porta Santa da Basílica Papal de São Paulo Fora dos Muros. Estas últimas três Portas Santas serão fechadas no domingo 28 de dezembro do mesmo ano.

Estabeleço ainda que, no domingo 29 de dezembro de 2024, em todas as catedrais e concatedrais, os Bispos diocesanos celebrem a Santa Missa como abertura solene do Ano Jubilar, segundo o Ritual que será preparado para a ocasião. Quanto à celebração na igreja concatedral, o Bispo poderá ser substituído por um Delegado, propositadamente designado. A peregrinação, desde a igreja escolhida para a concentração até à catedral, seja o sinal do caminho de esperança que, iluminado pela Palavra de Deus, une os crentes. Durante o percurso, leiam-se algumas passagens deste Documento e anuncie-se ao povo a Indulgência Jubilar, que poderá ser obtida segundo as prescrições contidas no mesmo Ritual para a celebração do Jubileu nas Igrejas particulares. Durante o Ano Santo, que terminará nas Igrejas particulares no domingo 28 de dezembro de 2025, zele-se para que o Povo de Deus possa acolher, com plena participação, tanto o anúncio de esperança da graça de Deus, como os sinais que atestam a sua eficácia.

O Jubileu Ordinário terminará com o encerramento da Porta Santa da Basílica Papal de São Pedro, no Vaticano, na solenidade da Epifania do Senhor, dia 6 de janeiro de 2026. Que a luz da esperança cristã chegue a cada pessoa, como mensagem do amor de Deus dirigida a todos. E que a Igreja seja testemunha fiel deste anúncio em todas as partes do mundo.

Sinais de esperança

7. Além de beber a esperança na graça de Deus, somos também chamados a descobri-la nos sinais dos tempos, que o Senhor oferece. Como afirma o Concílio Vaticano II, «é dever da Igreja investigar a todo o momento os sinais dos tempos, e interpretá-los à luz do Evangelho; para que assim possa responder, de modo adaptado em cada geração, às eternas perguntas dos homens acerca do sentido da vida presente e da futura, e da relação entre ambas».[4] Por isso, para não cair na tentação de nos considerarmos subjugados pelo mal e pela violência, é necessário prestar atenção a tanto bem que existe no mundo. Porém, os sinais dos tempos, que contêm o anélito do coração humano, carecido da presença salvífica de Deus, pedem para ser transformados em sinais de esperança.

8. Que o primeiro sinal de esperança se traduza em paz para o mundo, mais uma vez imerso na tragédia da guerra. Esquecida dos dramas do passado, a humanidade encontra-se de novo submetida a uma difícil prova que vê muitas populações oprimidas pela brutalidade da violência. Faltará ainda a esses povos algo que não tenham já sofrido? Como é possível que o seu desesperado grito de ajuda não impulsione os responsáveis das Nações a querer pôr fim aos demasiados conflitos regionais, cientes das consequências que daí podem derivar a nível mundial? Será excessivo sonhar que as armas se calem e deixem de difundir destruição e morte? O Jubileu recorde que serão «chamados filhos de Deus» todos aqueles que se fazem «obreiros de paz» (Mt 5, 9). A necessidade da paz interpela a todos e impõe a prossecução de projetos concretos. Que não falte o empenho da diplomacia para se construírem, de forma corajosa e criativa, espaços de negociação em vista duma paz duradoura.

9. Olhar para o futuro com esperança equivale a ter também uma visão da vida carregada de entusiasmo para transmitir. Infelizmente, em muitas situações, temos de constatar que falta esta perspetiva. A primeira consequência é a perda do desejo de transmitir a vida. Por causa dos ritmos frenéticos da vida, dos receios face ao futuro, da falta de garantias laborais e de adequada proteção social, de modelos sociais ditados mais pela procura do lucro do que pelo cuidado das relações humanas, assiste-se em vários países a uma preocupante queda da natalidade. Já noutros contextos, «culpar o incremento demográfico em vez do consumismo exacerbado e seletivo de alguns é uma forma de não enfrentar os problemas».[5]

A abertura à vida, com uma maternidade e uma paternidade responsáveis, é o projeto que o Criador inscreveu no coração e no corpo dos homens e das mulheres, uma missão que o Senhor confia aos cônjuges e ao seu amor. Além do empenho legislativo dos Estados, é urgente que não lhes falte o apoio convicto das comunidades crentes e da inteira comunidade civil em todas as suas componentes, porque o desejo dos jovens de gerar novos filhos e filhas, como fruto da fecundidade do seu amor, dá futuro a toda a sociedade e é uma questão de esperança: depende da esperança e gera esperança.

Por isso, a comunidade cristã não pode ficar atrás de ninguém no apoio à necessidade duma aliança social em prol da esperança, que seja inclusiva e não ideológica, e trabalhe por um futuro marcado pelo sorriso de tantos meninos e meninas que, em muitas partes do mundo, venham encher os demasiados berços vazios. Todos, na realidade, sentem a necessidade de recuperar a alegria de viver, porque o ser humano, criado à imagem e semelhança de Deus (cf. Gn 1, 26), não pode contentar-se com sobreviver ou ir vivendo nem conformar-se com o tempo presente, satisfazendo-se com realidades apenas materiais. Isto fecha-nos no individualismo e corrói a esperança, gerando uma tristeza que se aninha no coração, tornando-nos amargos e impacientes.

10. No Ano Jubilar, seremos chamados a ser sinais palpáveis de esperança para muitos irmãos e irmãs que vivem em condições de dificuldade. Penso nos presos que, privados de liberdade, além da dureza da reclusão, experimentam dia a dia o vazio afetivo, as restrições impostas e, em não poucos casos, a falta de respeito. Proponho aos Governos que, no Ano Jubilar, tomem iniciativas que lhes restituam esperança: formas de amnistia ou de perdão da pena, que ajudem as pessoas a recuperar a confiança em si mesmas e na sociedade; percursos de reinserção na comunidade, aos quais corresponda um compromisso concreto de cumprir as leis.

Trata-se de um apelo antigo que, provindo da Palavra de Deus, permanece com todo o seu valor sapiencial ao invocar atos de clemência e libertação que permitam recomeçar: «Santificareis o quinquagésimo ano, proclamando na vossa terra a libertação de todos os que a habitam» (Lv 25, 10). O que está estabelecido na Lei mosaica é retomado pelo profeta Isaías: «O Senhor (…) enviou-me para levar a boa-nova aos que sofrem, para curar os desesperados, para anunciar a libertação aos exilados e a liberdade aos prisioneiros, para proclamar um ano da graça do Senhor» (Is 61, 1-2). São palavras que Jesus fez suas no início do seu ministério, declarando em Si mesmo o cumprimento do «ano favorável da parte do Senhor» (Lc 4, 19). Em todos os cantos da terra, os crentes, especialmente os Pastores, façam-se intérpretes destes pedidos, formando uma só voz que peça corajosamente condições dignas para quem está recluso, respeito pelos direitos humanos e sobretudo a abolição da pena de morte, uma medida inadmissível para a fé cristã que aniquila qualquer esperança de perdão e renovação.[6] A fim de oferecer aos presos um sinal concreto de proximidade, eu mesmo desejo abrir uma Porta Santa numa prisão, para que seja para eles um símbolo que os convida a olhar o futuro com esperança e renovado compromisso de vida.

11. Sinais de esperança hão de ser oferecidos aos doentes, que se encontram em casa ou no hospital. Que os seus sofrimentos encontrem alívio na proximidade de pessoas que os visitem e no carinho que recebem! As obras de misericórdia são também obras de esperança, que despertam nos corações sentimentos de gratidão. E que a gratidão chegue a todos os profissionais de saúde que, em condições tantas vezes difíceis, desempenham a sua missão com solícito cuidado pelas pessoas doentes e mais frágeis.

Oxalá não falte a atenção inclusiva por todos aqueles que, encontrando-se em condições de vida particularmente extenuantes, experimentam a sua própria fragilidade, de modo especial se sofrem de patologias ou deficiências que limitam fortemente a autonomia pessoal. O cuidado para com eles é um hino à dignidade humana, um canto de esperança que exige a sincronização de toda a sociedade.

12. E de sinais de esperança também têm necessidade aqueles que, em si mesmos, a representam: os jovens. Muitas vezes, infelizmente, veem desmoronar-se os seus sonhos. Não os podemos dececionar: o futuro funda-se no seu entusiasmo. Como é belo vê-los irradiar energia, por exemplo, quando voluntariamente arregaçam as mangas e se comprometem nas situações de calamidade e mal-estar social! Já é triste ver jovens sem esperança; se bem que se torna inevitável viver o presente na melancolia e no tédio quando o futuro é incerto e impermeável aos sonhos, o estudo não oferece saídas e a falta de emprego ou dum trabalho suficientemente estável corre o risco de suprimir os desejos. A ilusão das drogas, o risco da transgressão e a busca do efémero criam nos jovens, mais do que nos outros, confusão e escondem-lhes a beleza e o sentido da vida, fazendo-os escorregar para abismos escuros e impelindo-os a gestos autodestrutivos. Por isso, que o Jubileu seja, na Igreja, ocasião para um impulso a favor deles: com renovada paixão, cuidemos dos adolescentes, dos estudantes, dos namorados, das gerações jovens! Mantenhamo-nos próximo dos jovens, alegria e esperança da Igreja e do mundo!

13. Não poderão faltar sinais de esperança em relação aos migrantes, que deixam a sua terra à procura duma vida melhor para si próprios e suas famílias. Que as suas expetativas não sejam frustradas por preconceitos e isolamentos! Ao acolhimento, que no respeito pela sua dignidade abre os braços a cada um deles, junte-se a responsabilidade, de modo que a ninguém seja negado o direito de construir um futuro melhor. A tantos exilados, deslocados e refugiados que, por acontecimentos internacionais controversos, são forçados a fugir para evitar guerras, violência e discriminação, sejam garantidos a segurança e o acesso ao trabalho e à instrução, instrumentos necessários para a sua inserção no novo contexto social.

Possa a comunidade cristã estar sempre pronta a defender os direitos dos mais débeis. Generosamente abra de par em par as portas do acolhimento, para que nunca falte a ninguém a esperança duma vida melhor. Ressoe nos corações a Palavra do Senhor que, na grande parábola do juízo final, disse: «Era estrangeiro e acolhestes-me», porque «sempre que fizestes isto a um destes meus irmãos mais pequeninos, a mim mesmo o fizestes» (Mt 25, 35.40).

14. Sinais de esperança merecem-nos os idosos, que muitas vezes experimentam a solidão e o sentimento de abandono. Valorizar o tesouro que eles são, a sua experiência de vida, a sabedoria que trazem consigo e o contributo que podem dar, é um empenho da comunidade cristã e da sociedade civil, chamadas a trabalhar em conjunto em prol da aliança entre as gerações.

Dirijo um pensamento particular aos avôs e às avós, que representam a transmissão da fé e da sabedoria de vida às gerações mais jovens. Sejam amparados pela gratidão dos filhos e pelo amor dos netos, que neles encontram as suas raízes, compreensão e estímulo.

15. E sentidamente, invoco a esperança para os milhares de milhões de pobres, a quem muitas vezes falta o necessário para viver. Face à sucessão de renovadas vagas de empobrecimento, corre-se o risco de nos habituarmos e resignarmos. Mas não podemos desviar o olhar de situações tão dramáticas, que se veem já por todo o lado, e não apenas em certas zonas do mundo. Todos os dias encontramos pessoas pobres ou empobrecidas e, por vezes, podem ser nossas vizinhas de casa. Frequentemente, não têm uma habitação nem alimentação suficiente para o dia. Sofrem a exclusão e a indiferença de muitos. É escandaloso que, num mundo dotado de enormes recursos destinados em grande parte para armas, os pobres sejam «a maioria (…), milhares de milhões de pessoas. Hoje são mencionados nos debates políticos e económicos internacionais, mas com frequência parece que os seus problemas se coloquem como um apêndice, como uma questão que se acrescenta quase por obrigação ou perifericamente, quando não são considerados meros danos colaterais. Com efeito, na hora da implementação concreta, permanecem frequentemente no último lugar». [7] Não esqueçamos: os pobres são quase sempre vítimas, não os culpados.

Apelos em favor da esperança

16. Fazendo ecoar a palavra antiga dos profetas, o Jubileu lembra que os bens da terra se destinam a todos, e não a poucos privilegiados. É preciso que seja generoso quem possui riquezas, reconhecendo o rosto dos irmãos em necessidade. Penso de modo particular naqueles que carecem de água e alimentação: a fome é uma chaga escandalosa no corpo da nossa humanidade, e convida todos a um rebate de consciência. Renovo o apelo para que, «com o dinheiro usado em armas e noutras despesas militares, constituamos um Fundo global para acabar de vez com a fome e para o desenvolvimento dos países mais pobres, a fim de que os seus habitantes não recorram a soluções violentas ou enganadoras, nem precisem de abandonar os seus países à procura duma vida mais digna».[8]

Outro convite premente que desejo fazer, tendo em vista o Ano Jubilar, destina-se às nações mais ricas, para que reconheçam a gravidade de muitas decisões tomadas e estabeleçam o perdão das dívidas dos países que nunca poderão pagá-las. Mais do que magnanimidade, é uma questão de justiça, agravada hoje por uma nova forma de desigualdade de que se vai tomando consciência: «Com efeito, há uma verdadeira “dívida ecológica”, particularmente entre o Norte e o Sul, ligada a desequilíbrios comerciais com consequências no âmbito ecológico e com o uso desproporcionado dos recursos naturais efetuado historicamente por alguns países».[9] Como ensina a Sagrada Escritura, a terra pertence a Deus e todos nós vivemos nela como «estrangeiros e hóspedes» (Lv 25, 23). Se queremos verdadeiramente preparar no mundo a senda da paz, empenhemo-nos em remediar as causas remotas das injustiças, reformulemos as dívidas injustas e insolventes, saciemos os famintos.

17. Durante o próximo Jubileu, ocorrerá um aniversário muito significativo para todos os cristãos: completar-se-ão 1700 anos da celebração do primeiro grande Concílio ecuménico, o de Niceia. É bom lembrar que já em diversas ocasiões, desde os tempos apostólicos, os Pastores se reuniram em assembleia com a finalidade de tratar temáticas doutrinais e questões disciplinares. Nos primeiros séculos da fé, multiplicaram-se os Sínodos tanto no Oriente como no Ocidente cristão, mostrando como era importante guardar a unidade do Povo de Deus e o anúncio fiel do Evangelho. O Ano Jubilar poderá ser uma importante oportunidade para tornar concreto este modo sinodal, que hoje a comunidade cristã sente como expressão cada vez mais necessária para melhor corresponder à urgência da evangelização: todos os batizados, cada qual com o próprio carisma e ministério, se sintam corresponsáveis pela mesma a fim de que muitos sinais de esperança deem testemunho da presença de Deus no mundo.

O Concílio de Niceia teve a missão de preservar a unidade, então seriamente ameaçada pela negação da plena divindade de Jesus Cristo e da sua igualdade com o Pai. Estiveram presentes cerca de trezentos Bispos que, convocados sob impulso do imperador Constantino em 20 de maio de 325, se reuniram no palácio imperial. Depois de vários debates, todos, com a graça do Espírito, se reconheceram no Símbolo de fé que ainda hoje professamos no Celebração Eucarística dominical. Os Padres conciliares quiseram iniciar aquele Símbolo empregando pela primeira vez a expressão «Nós cremos»,[10] testemunhando que, naquele «Nós», todas as Igrejas se encontravam em comunhão e todos os cristãos professavam a mesma fé.

O Concílio de Niceia é um marco miliário na história da Igreja. O aniversário da sua realização convida os cristãos a unirem-se no louvor e agradecimento à Santíssima Trindade e, em particular, a Jesus Cristo, o Filho de Deus, «consubstancial ao Pai»,[11] que nos revelou este mistério de amor. Mas Niceia constitui também um convite a todas as Igrejas e Comunidades eclesiais para avançarem rumo à unidade visível, não se cansando de procurar formas apropriadas para corresponder plenamente à oração de Jesus: «Que todos sejam um só, como Tu, Pai, estás em mim e Eu em ti; para que assim eles estejam em Nós e o mundo creia que Tu me enviaste» (Jo 17, 21).

No Concílio de Niceia, tratou-se também da data da Páscoa. A este respeito, ainda hoje existem posições diferentes, que impedem de celebrar, no mesmo dia, o evento fundante da fé. Por uma circunstância providencial, isso acontecerá precisamente no ano de 2025. Seja isto um apelo a todos os cristãos do Oriente e do Ocidente para darem resolutamente um passo rumo à unidade em torno duma data comum para a Páscoa. Vale a pena recordar que muitos desconhecem as diatribes do passado e não entendem como possam subsistir divisões a tal propósito.

Ancorados na esperança

18. A esperança forma, juntamente com a fé e a caridade, o tríptico das «virtudes teologais», que exprimem a essência da vida cristã (cf. 1 Cor 13, 13; 1 Ts 1, 3). No dinamismo indivisível das três, a esperança é a virtude que imprime, por assim dizer, a orientação, indicando a direção e a finalidade da existência crente. Por isso, o apóstolo Paulo convida-nos a ser «alegres na esperança, pacientes na tribulação, perseverantes na oração» (Rm 12, 12). Assim deve ser; precisamos de transbordar de esperança (cf. Rm 15, 13) para testemunhar de modo credível e atraente a fé e o amor que trazemos no coração; para que a fé seja jubilosa, a caridade entusiasta; para que cada um seja capaz de oferecer ao menos um sorriso, um gesto de amizade, um olhar fraterno, uma escuta sincera, um serviço gratuito, sabendo que, no Espírito de Jesus, isso pode tornar-se uma semente fecunda de esperança para quem o recebe. Mas qual é o fundamento da nossa esperança? Para o compreender, é bom deter-nos nas razões da nossa esperança (cf. 1 Ped 3, 15).

19. «Creio na vida eterna»:[12] assim professa a nossa fé, e a esperança cristã encontra nestas palavras um ponto fundamental de apoio. De facto, «é a virtude teologal pela qual desejamos (…) a vida eterna como nossa felicidade».[13] O Concílio Ecuménico Vaticano II afirma: «Se faltam o fundamento divino e a esperança da vida eterna, a dignidade humana é gravemente lesada, como tantas vezes se verifica nos nossos dias, e os enigmas da vida e da morte, do pecado e da dor ficam sem solução, o que frequentemente leva os homens ao desespero».[14] Enquanto, em virtude da esperança na qual fomos salvos, vendo passar o tempo, temos a certeza que a história da humanidade e a de cada um de nós não correm para uma meta sem saída nem para um abismo escuro, mas estão orientadas para o encontro com o Senhor da glória. Por isso vivemos na expetativa do seu regresso e na esperança de vivermos n’Ele para sempre: é com este espírito que fazemos nossa aquela comovente invocação dos primeiros cristãos com que termina a Sagrada Escritura: «Vem, Senhor Jesus!» (Ap 22, 20).

20. Jesus morto e ressuscitado é o coração da nossa fé. São Paulo, ao enunciar este conteúdo em poucas palavras (usa só quatro verbos), transmite-nos o «núcleo» da nossa esperança. «Transmiti-vos, em primeiro lugar, o que eu próprio recebi: Cristo morreu pelos nossos pecados, segundo as Escrituras; foi sepultado e ressuscitou ao terceiro dia, segundo as Escrituras; apareceu a Cefas e depois aos Doze» (1 Cor 15, 3-5). Cristo morreu, foi sepultado, ressuscitou, apareceu. Por nós, passou através do drama da morte. O amor do Pai ressuscitou-O na força do Espírito, fazendo da sua humanidade as primícias da eternidade para a nossa salvação. A esperança cristã consiste precisamente nisto: face à morte onde tudo parece acabar, através de Cristo e da sua graça que nos foi comunicada no Batismo, recebe-se a certeza de que «a vida não acaba, apenas se transforma»,[15] para sempre. Com efeito, sepultados juntamente com Cristo no Batismo, recebemos n’Ele, ressuscitado, o dom duma vida nova, que derruba o muro da morte, fazendo dela uma passagem para a eternidade.

E se diante da morte, dolorosa separação que nos obriga a deixar os nossos entes queridos, não é possível qualquer retórica, o Jubileu oferecer-nos-á a oportunidade de descobrir, com imensa gratidão, o dom daquela vida nova recebida no Batismo, capaz de transfigurar o seu drama. É significativo repensar, no contexto jubilar, como este mistério foi compreendido desde os primeiros séculos da fé. Durante muito tempo, por exemplo, os cristãos construíram a pia batismal em forma octogonal, e ainda hoje podemos admirar muitos batistérios antigos que mantêm esta forma, como em São João de Latrão na cidade de Roma. Indica que, na fonte batismal, se inaugura o oitavo dia, isto é o da ressurreição, o dia que ultrapassa o ritmo habitual, marcado pela cadência semanal, abrindo assim o ciclo do tempo à dimensão da eternidade, à vida que dura para sempre: esta é a meta para a qual tendemos na nossa peregrinação terrena (cf. Rm 6, 22).

O testemunho mais convincente desta esperança é-nos oferecido pelos mártires que, firmes na fé em Cristo ressuscitado, foram capazes de renunciar à própria vida da terra para não trair o seu Senhor. Temo-los em todas as épocas e são numerosos – e talvez mais do que nunca nos nossos dias – como confessores da vida que não tem fim. Precisamos de conservar o seu testemunho para tornar fecunda a nossa esperança.

Estes mártires, pertencentes às diferentes tradições cristãs, são também sementes de unidade, porque exprimem o ecumenismo do sangue. Durante o Jubileu desejo ardentemente que não falte uma celebração ecuménica para evidenciar a riqueza do testemunho destes Mártires.

21. Então, que será de nós depois da morte? Com Jesus, além deste limiar, há a vida eterna, que consiste na plena comunhão com Deus, na contemplação e participação do seu amor infinito. Tudo o que agora vivemos na esperança, vê-lo-emos então na realidade. A propósito, escreveu Santo Agostinho: «Quando me unir a Vós com todo o meu ser, não existirá para mim em lado algum dor e tristeza. A minha vida será uma vida verdadeira, totalmente cheia de Vós».[16] Então, o que caraterizará tal plenitude de comunhão? O ser feliz. A felicidade é a vocação do ser humano, uma meta que diz respeito a todos.

Mas, o que é a felicidade? Que felicidade esperamos e desejamos? Não uma alegria passageira, uma satisfação efémera que, uma vez alcançada, volta sempre a pedir mais, numa espiral de avidez em que o espírito humano nunca se encontra saciado, antes sente-se cada vez mais vazio. Precisamos duma felicidade que se cumpra definitivamente naquilo que nos realiza, ou seja, no amor, para se poder dizer já agora: sou amado, logo existo; e existirei para sempre no Amor que não desilude e do qual nada e ninguém me poderá separar. Recordemos ainda as palavras do Apóstolo: «Estou convencido de que nem a morte nem a vida, nem os anjos nem os principados, nem o presente nem o futuro, nem as potestades, nem a altura nem o abismo, nem qualquer outra criatura poderá separar-nos do amor de Deus, que está em Cristo Jesus, Senhor nosso» (Rm 8, 38-39).

22. Outra realidade ligada à vida eterna é o juízo de Deus, quer no termo da nossa existência quer no fim dos tempos. Muitas vezes a arte tentou representá-lo – pensemos na obra-prima de Michelangelo, na Capela Sistina –, atendo-se à conceção teológica da época e transmitindo um sentimento de temor a quem o observa. Se é justo preparar-se com viva consciência e seriedade para o momento que recapitula a existência, ao mesmo tempo é necessário fazê-lo sempre na dimensão da esperança, virtude teologal que sustenta a vida e nos permite não cair no medo. O juízo de Deus, que é amor (cf. 1 Jo 4, 8.16), só poderá basear-se no amor, especialmente naquele que tivermos, ou não, praticado para com os mais necessitados, nos quais Cristo, o próprio Juiz, está presente (cf. Mt 25, 31-46). Trata-se, portanto, dum juízo diferente do juízo dos homens e dos tribunais terrenos; deve ser entendido como uma relação de verdade com Deus-amor e consigo mesmo dentro do mistério insondável da misericórdia divina. A Sagrada Escritura afirma a este respeito: «Tu ensinaste o teu povo que o justo deve ser amigo dos homens, e deste a teus filhos uma boa esperança, porque, após o pecado, dás a conversão (…), para que, ao sermos julgados, esperemos misericórdia» (Sab 12, 19.22). Como escreveu Bento XVI, «no momento do Juízo, experimentamos e acolhemos este prevalecer do seu amor sobre todo o mal no mundo e em nós. A dor do amor torna-se a nossa salvação e a nossa alegria».[17]

Por conseguinte, o juízo diz respeito à salvação na qual esperamos e que Jesus nos obteve com a sua morte e ressurreição. Visa abrir ao encontro definitivo com Ele. E, como em tal contexto não se pode pensar que o mal cometido permaneça oculto, o mesmo precisa de ser purificado, para nos permitir a passagem definitiva ao amor de Deus. Compreende-se, neste sentido, a necessidade de rezar por aqueles que concluíram o caminho terreno: uma solidariedade na intercessão orante que encontra a sua eficácia na comunhão dos santos, no vínculo comum que nos une em Cristo, primogénito da criação. Assim, a Indulgência Jubilar, em virtude da oração, destina-se de modo particular a todos aqueles que nos precederam, para que obtenham plena misericórdia.

23. De facto, a indulgência permite-nos descobrir como é ilimitada a misericórdia de Deus. Não é por acaso que, na antiguidade, o termo «misericórdia» era cambiável com o de «indulgência», precisamente porque pretende exprimir a plenitude do perdão de Deus que não conhece limites.

O sacramento da Penitência assegura-nos que Deus apaga os nossos pecados. Vêm à mente, com toda a sua carga de consolação, estas palavras do Salmo: «É Ele quem perdoa as tuas culpas e cura todas as tuas enfermidades. É Ele quem resgata a tua vida do túmulo e te enche de graça e de ternura. (…) O Senhor é misericordioso e compassivo, é paciente e cheio de amor. (…) Não nos tratou segundo os nossos pecados, nem nos castigou segundo as nossas culpas. Como é grande a distância dos céus à terra, assim são grandes os seus favores para os que O temem. Como o Oriente está afastado do Ocidente, assim Ele afasta de nós os nossos pecados» (Sal 103, 3-4.8.10-12). A Reconciliação sacramental não é apenas uma estupenda oportunidade espiritual, mas representa um passo decisivo, essencial e indispensável no caminho de fé de cada um. Ali permitimos ao Senhor que destrua os nossos pecados, sare o nosso coração, nos levante e abrace, nos faça conhecer o seu rosto terno e compassivo. Na verdade, não há modo melhor de conhecer a Deus do que deixar-se reconciliar por Ele (cf. 2 Cor 5, 20), saboreando o seu perdão. Por isso, não renunciemos à Confissão, mas descubramos a beleza do Sacramento da cura e da alegria, a beleza do perdão dos pecados.

Todavia o pecado, como sabemos por experiência pessoal, «deixa a sua marca», traz consigo consequências: não só exteriores, como consequências do mal cometido, mas também interiores, pois «todo o pecado, mesmo venial, traz consigo um apego desordenado às criaturas, o qual precisa de ser purificado, quer nesta vida quer depois da morte, no estado que se chama Purgatório».[18] Assim, na nossa débil humanidade atraída pelo mal, permanecem «efeitos residuais do pecado». São tirados pela indulgência, sempre por graça de Cristo, o Qual, como escreveu São Paulo VI, é «a nossa “indulgência”».[19] A Penitenciaria Apostólica providenciará à emanação das disposições necessárias para poder obter e tornar efetiva a prática da Indulgência Jubilar.

Uma tal experiência repleta de perdão não pode deixar de abrir o coração e a mente para perdoar. Perdoar não muda o passado, não pode modificar o que já aconteceu; no entanto, o perdão pode-nos permitir mudar o futuro e viver de forma diferente, sem rancor, ódio e vingança. O futuro iluminado pelo perdão permite ler o passado com olhos diversos, mais serenos, mesmo que ainda banhados de lágrimas.

No passado Jubileu extraordinário, instituí os Missionários da Misericórdia, que continuam a desempenhar uma missão importante. Que eles exerçam o seu ministério também durante o próximo Jubileu, restituindo esperança e perdoando todas as vezes que um pecador se dirija a eles de coração aberto e espírito arrependido. Continuem a ser instrumentos de reconciliação, e ajudem a olhar para o futuro com a esperança do coração que provém da misericórdia do Pai. Espero que os Bispos possam valer-se do seu precioso serviço, sobretudo enviando-os onde a esperança está posta a dura prova, como nas prisões, nos hospitais e nos lugares onde a dignidade da pessoa é espezinhada, nas situações mais desfavorecidas e nos contextos de maior degradação, para que ninguém fique privado da possibilidade de receber o perdão e a consolação de Deus.

24. A esperança encontra, na Mãe de Deus, a sua testemunha mais elevada. N’Ela vemos como a esperança não seja um efémero otimismo, mas dom de graça no realismo da vida. Como todas as mães, cada vez que olhava para o Filho pensava no seu futuro, e certamente no coração trazia gravadas aquelas palavras que Simeão Lhe dirigira no templo: «Este menino está aqui para queda e ressurgimento de muitos em Israel e para ser sinal de contradição; uma espada trespassará a tua alma» (Lc 2, 34-35). E aos pés da cruz, enquanto via Jesus inocente sofrer e morrer, embora atravessada por terrível angústia, repetia o seu «sim», sem perder a esperança e a confiança no Senhor. Desta forma, cooperava em nosso favor no cumprimento do que dissera seu Filho ao anunciar que Ele teria de «sofrer muito e ser rejeitado pelos anciãos, pelos sumos sacerdotes e pelos doutores da Lei, e ser morto e ressuscitar depois de três dias» (Mc 8, 31), e no parto daquela dor oferecida por amor tornava-Se nossa Mãe, Mãe da esperança. Não é por acaso que a piedade popular continua a invocar a Virgem Santa como Stella Maris, um título expressivo da esperança segura de que, nas tempestuosas vicissitudes da vida, a Mãe de Deus vem em nosso auxílio, apoia-nos e convida-nos a ter fé e a continuar a esperar.

A propósito, apraz-me recordar que o Santuário de Nossa Senhora de Guadalupe, na Cidade do México, está a preparar-se para celebrar, em 2031, os 500 anos da primeira aparição da Virgem. Através do jovem Juan Diego, a Mãe de Deus fazia-nos chegar uma revolucionária mensagem de esperança que, ainda hoje, repete a todos os peregrinos e fiéis: «Porventura não estou aqui Eu, que sou tua Mãe?»[20] Uma mensagem semelhante é impressa nos corações, em tantos Santuários Marianos espalhados pelo mundo, metas de inúmeros peregrinos que confiam à Mãe de Deus preocupações, sofrimentos e anseios. Neste Ano Jubilar, que os Santuários sejam lugares sagrados de acolhimento e espaços privilegiados para gerar esperança. Aos peregrinos que vierem a Roma, convido-os a fazerem uma paragem orante nos Santuários Marianos da cidade a fim de venerar a Virgem Maria e invocar a sua proteção. Estou confiante de que todos, especialmente aqueles que sofrem e estão atribulados, poderão experimentar a proximidade da mais afetuosa das mães, que nunca abandona os seus filhos; Ela que é, para o santo Povo de Deus, «sinal de esperança segura e de consolação».[21]

25. No caminho rumo ao Jubileu, voltemos à Sagrada Escritura e sintamos, dirigidas a nós, estas palavras: «Nós que procuramos refúgio n’Ele, encontramos grande estímulo agarrando-nos à esperança proposta. Nessa esperança, temos como que uma âncora segura e firme da alma, que penetra até ao interior do véu, onde Jesus entrou como nosso precursor» (Heb 6, 18-20). É um forte convite a nunca perder a esperança que nos foi dada, a mantê-la firme, encontrando refúgio em Deus.

A imagem da âncora é sugestiva para compreender a estabilidade e a segurança que possuímos no meio das águas agitadas da vida, se nos confiarmos ao Senhor Jesus. As tempestades nunca poderão prevalecer, porque estamos ancorados na esperança da graça, capaz de nos fazer viver em Cristo, superando o pecado, o medo e a morte. Esta esperança, muito maior do que as satisfações quotidianas e as melhorias nas condições de vida, transporta-nos para além das provações e exorta-nos a caminhar sem perder de vista a grandeza da meta a que somos chamados: o Céu.

Portanto, o próximo Jubileu há de ser um Ano Santo caraterizado pela esperança que não conhece ocaso, a esperança em Deus. Que nos ajude também a reencontrar a confiança necessária, tanto na Igreja como na sociedade, no relacionamento interpessoal, nas relações internacionais, na promoção da dignidade de cada pessoa e no respeito pela criação. Que o testemunho crente seja fermento de esperança genuína no mundo, anúncio de novos céus e nova terra (cf. 2 Ped 3, 13), onde habite a justiça e a harmonia entre os povos, visando a realização da promessa do Senhor.

Deixemo-nos, desde já, atrair pela esperança, consentindo-lhe que, por nosso intermédio, se torne contagiosa para quantos a desejam. Possa a nossa vida dizer-lhes: «Confia no Senhor! Sê forte e corajoso, e confia no Senhor» (Sal 27, 14). Que a força da esperança encha o nosso presente, aguardando com confiança o regresso do Senhor Jesus Cristo, a Quem é devido o louvor e a glória agora e nos séculos futuros.

Dado em Roma, junto de São João de Latrão, na Solenidade da Ascensão de Nosso Senhor Jesus Cristo, 9 de maio do ano 2024, décimo segundo de Pontificado.

FRANCISCO

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[1] Discursos, 198 augm., 2.

[2] Cf. Fonti Francescane, n. 263, 6.10.

[3] Cf. Misericordiae Vultus, Bula de proclamação do Jubileu Extraordinário da Misericórdia, nn. 1-3.

[4] Const. past. Gaudium et spes, n. 4.

[5] Francisco, Carta enc. Laudato si’, n. 50.

[6] Cf. Catecismo da Igreja Católica, n. 2267.

[7] Carta enc. Laudato si’, n. 49.

[8] Francisco, Carta enc. Fratelli tutti, n. 262.

[9] Carta enc. Laudato si’, n. 51.

[10] Símbolo Niceno: H. Denzinger – A. Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, n. 125.

[11] Ibidem.

[12] Símbolo dos Apóstolos: H. Denzinger – A. Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, n. 30.

[13] Catecismo da Igreja Católica, n. 1817.

[14] Const. past. Gaudium et spes, n. 21.

[15] Missal Romano, Prefácio dos defuntos I.

[16] Confissões, X, 28.

[17] Carta enc. Spe salvi, n. 47.

[18] Catecismo da Igreja Católica, 1472.

[19] Carta ap. Apostolorum limina, 23.05.1974, II.

[20] Nican Mopohua, n. 119.

[21] Conc. Ecum. Vat. II, Const. dogm. Lumen gentium, 68.

[00781-PO.01] [Texto original: Latino]

Testo in lingua polacca

SPES NON CONFUNDIT

Bulla Ogłaszająca
Jubileusz Zwyczajny
Roku 2025

FRANCISZEK
BISKUP RZYMU
SŁUGA SŁUG BOŻYCH
WSZYSTKIM, KTÓRZY PRZECZYTAJĄ TEN LIST
NIECH NADZIEJA NAPEŁNI SERCE

1.Spes non confundit”, „nadzieja zawieść nie może” (Rz 5, 5). W imię nadziei Paweł Apostoł napełnia odwagą chrześcijańską wspólnotę Rzymu. Nadzieja jest również głównym przesłaniem zbliżającego się Jubileuszu, który zgodnie ze starożytną tradycją papież ogłasza co dwadzieścia pięć lat. Myślę o wszystkich pielgrzymach nadziei, którzy przybędą do Rzymu, aby przeżyć Rok Święty, a także o tych, którzy nie mogąc dotrzeć do miasta Apostołów Piotra i Pawła, będą go obchodzić w Kościołach partykularnych. Niech to będzie dla wszystkich wydarzenie żywego i osobistego spotkania z Panem Jezusem, „bramą” zbawienia (por. J 10, 7.9); z Tym, którego Kościół ma misję głoszenia zawsze, wszędzie i wszystkim jako „naszą nadzieję” (1 Tm 1, 1).

Wszyscy mają nadzieję. Nadzieja jest obecna w sercu każdego człowieka jako pragnienie i oczekiwanie dobra, nawet jeśli nie wie, co przyniesie ze sobą jutro. Nieprzewidywalność przyszłości rodzi jednak niekiedy sprzeczne uczucia: od ufności do lęku, od pogody ducha do zniechęcenia, od pewności do zwątpienia. Często spotykamy osoby zniechęcone, które patrzą w przyszłość ze sceptycyzmem i pesymizmem, jakby nic nie mogło dać im szczęścia. Oby Jubileusz był dla wszystkich okazją do ożywienia nadziei. Słowo Boże pomaga nam znaleźć ku temu powody. Pozwólmy, aby poprowadziło nas słowo, które Apostoł Paweł napisał właśnie do chrześcijan Rzymu.

Słowo nadziei

2. „Dostąpiwszy więc usprawiedliwienia dzięki wierze, zachowajmy pokój z Bogiem przez Pana naszego Jezusa Chrystusa; dzięki Niemu uzyskaliśmy na podstawie wiary dostęp do tej łaski, w której trwamy, i chlubimy się nadzieją chwały Bożej. (...) Nadzieja zawieść nie może, ponieważ miłość Boża rozlana jest w sercach naszych przez Ducha Świętego, który został nam dany” (Rz 5, 1-2.5). Św. Paweł proponuje tutaj wiele punktów do refleksji. Wiemy, że List do Rzymian stanowi decydujący krok w jego działalności ewangelizacyjnej. Do tej pory prowadził ją we wschodniej części Imperium, a teraz czeka na niego Rzym ze wszystkim, co reprezentuje w oczach świata: wielkie wyzwanie, któremu należy stawić czoła w imię głoszenia Ewangelii, które nie może mieć przeszkód ani granic. Kościół w Rzymie nie został założony przez Pawła, a on odczuwa gorące pragnienie, by wkrótce do niego dotrzeć, żeby nieść wszystkim Ewangelię Jezusa Chrystusa, który umarł i zmartwychwstał, jako przepowiadanie nadziei, która wypełnia obietnice, wprowadza do chwały i, opierając się na miłości, nie zawodzi.

3. Nadzieja rodzi się w istocie z miłości i opiera się na miłości, która wypływa z Serca Jezusa przebitego na krzyżu: „Jeżeli bowiem, będąc nieprzyjaciółmi, zostaliśmy pojednani z Bogiem przez śmierć Jego Syna, to tym bardziej, będąc już pojednani, dostąpimy zbawienia przez Jego życie” (Rz 5, 10). A Jego życie objawia się w naszym życiu wiary, które zaczyna się od chrztu, rozwija się w uległości wobec łaski Bożej, i dlatego jest ożywiane nadzieją, która, dzięki działaniu Ducha Świętego, jest stale odnawiana i niewzruszona.

To właśnie Duch Święty, swoją nieustanną obecnością na drodze Kościoła, promieniuje w wierzących światłem nadziei: podtrzymuje ją jak pochodnię, która nigdy nie gaśnie, aby wspierać i ożywiać nasze życie. Istotnie, nadzieja chrześcijańska nie zwodzi ani nie rozczarowuje, ponieważ opiera się na pewności, że nic i nikt nigdy nie będzie w stanie oddzielić nas od Bożej miłości: „Któż nas może odłączyć od miłości Chrystusowej? Utrapienie, ucisk czy prześladowanie, głód czy nagość, niebezpieczeństwo czy miecz? [...] Ale we wszystkim tym odnosimy pełne zwycięstwo dzięki Temu, który nas umiłował. I jestem pewien, że ani śmierć, ani życie, ani aniołowie, ani Zwierzchności, ani rzeczy teraźniejsze, ani przyszłe, ani Moce, ani co [jest] wysoko, ani co głęboko, ani jakiekolwiek inne stworzenie nie zdoła nas odłączyć od miłości Boga, która jest w Chrystusie Jezusie, Panu naszym” (Rz 8, 35.37-39). Dlatego nadzieja ta nie ustępuje w obliczu trudności: opiera się na wierze i karmi się miłością, a tym samym pozwala iść naprzód w życiu. Św. Augustyn pisze na ten temat: „Nie można żyć w jakimkolwiek stanie bez tych trzech uczuć duszy: wierzenia, ufania i kochania”[1].

4. Św. Paweł jest wielkim realistą. Wie, że życie składa się z radości i smutków, że miłość jest poddawana próbie, gdy wzrastają trudności, a nadzieja wydaje się załamywać w obliczu cierpienia. Mimo to pisze: „Chlubimy się także z ucisków, wiedząc, że ucisk wyrabia wytrwałość, a wytrwałość – wypróbowaną cnotę, wypróbowana zaś cnota – nadzieję” (Rz 5, 3-4). Dla Apostoła, ucisk i cierpienie są typowymi warunkami tych, którzy głoszą Ewangelię w kontekście niezrozumienia i prześladowań (por. 2 Kor 6, 3-10). Ale w takich sytuacjach, przez ciemność przebija się światło: odkrywamy, jak ewangelizacja podtrzymywana jest przez moc płynącą z krzyża i zmartwychwstania Chrystusa. A to prowadzi do rozwoju cnoty ściśle związanej z nadzieją: cierpliwości. Nawykliśmy już, by chcieć wszystkiego i natychmiast, w świecie, w którym pośpiech stał się czymś stałym. Nie mamy już czasu na spotkania, a często nawet w rodzinach trudno jest być razem i spokojnie porozmawiać. Cierpliwość została wygnana przez pośpiech, wyrządzając ludziom wielką krzywdę. Niecierpliwość, nerwowość, czasem nieuzasadniona przemoc biorą górę, rodząc niezadowolenie i zamknięcie.

Ponadto, w dobie internetu, gdzie przestrzeń i czas są wypierane przez „tu i teraz”, cierpliwość nie jest czymś zawsze obecnym w naszym domu. Gdybyśmy nadal byli w stanie patrzeć z zadziwieniem na stworzenie, moglibyśmy zrozumieć, jak bardzo decydujące znaczenie ma cierpliwość. Trzeba czekać na zmianę pór roku z ich owocami; obserwować życie zwierząt i cykle ich rozwoju; mieć proste oczy św. Franciszka, który w swojej Pieśni słonecznej, napisanej dokładnie 800 lat temu, postrzegał stworzenie jako jedną wielką rodzinę i nazywał słońce „bratem”, a księżyc „siostrą”[2]. Odkrycie cierpliwości na nowo jest bardzo dobre dla nas samych i dla innych. Św. Paweł często odwołuje się do cierpliwości, aby podkreślić znaczenie wytrwałości i zaufania do tego, co Bóg nam obiecał, ale przede wszystkim świadczy o tym, że Bóg jest cierpliwy wobec nas, On jest „Bogiem, który daje cierpliwość i pociechę” (Rz 15, 5). Cierpliwość, będąca również owocem Ducha Świętego, podtrzymuje nadzieję i umacnia ją jako cnotę i sposób życia. Dlatego uczmy się często prosić o łaskę cierpliwości, która jest córką nadziei i jednocześnie ją wspiera.

Droga nadziei

5. Z tego przeplatania się nadziei i cierpliwości jasno wynika, że życie chrześcijańskie jest drogą, która potrzebuje również chwil mocnych, aby posilać i wzmacniać nadzieję, niezastąpioną towarzyszkę, która pozwala dostrzec cel: spotkanie z Panem Jezusem. Lubię myśleć, że droga łaski, ożywiona duchowością ludową, poprzedziła ogłoszenie pierwszego Jubileuszu w 1300 r. Nie możemy bowiem zapomnieć o różnych formach, poprzez które łaska przebaczenia została obficie wylana na święty wierny Lud Boży. Przypomnijmy na przykład wielkie „przebaczenie”, którego św. Celestyn V udzielił tym, którzy udali się do Bazyliki Santa Maria di Collemaggio w L'Aquila, w dniach 28 i 29 sierpnia 1294 r., sześć lat przed ustanowieniem Roku Świętego przez papieża Bonifacego VIII. Kościół doświadczał już zatem jubileuszowej łaski miłosierdzia. Jeszcze wcześniej, w 1216 r., papież Honoriusz III przyjął prośbę św. Franciszka o odpust dla tych, którzy odwiedzą Porcjunkulę w pierwszych dwóch dniach sierpnia. To samo można powiedzieć o pielgrzymce do Santiago de Compostela: w rzeczywistości papież Kalikst II w 1122 r. zezwolił na obchodzenie jubileuszu w tym sanktuarium za każdym razem, gdy święto Apostoła Jakuba przypadało w niedzielę. Dobrze, że ten „rozpowszechniony” sposób obchodów jubileuszowych jest kontynuowany, aby moc Bożego przebaczenia wspierała i towarzyszyła drodze wspólnot i osób.

To nie przypadek, że pielgrzymowanie wyraża fundamentalny element każdego wydarzenia jubileuszowego. Wyruszanie w drogę jest typowe dla tych, którzy poszukują sensu życia. Piesze pielgrzymowanie bardzo sprzyja odkrywaniu na nowo wartości milczenia, wysiłku i tego, co istotne. Również w nadchodzącym roku pielgrzymi nadziei nie omieszkają przemierzyć dróg starożytnych i współczesnych, aby intensywnie przeżyć doświadczenie jubileuszowe. W samym Rzymie, oprócz tradycyjnych szlaków w katakumbach i Siedmiu Kościołach, pojawią się także szlaki wiary. Przechodzenie z jednego kraju do drugiego, jakby granice zostały pokonane, przechodzenie z jednego miasta do drugiego w kontemplacji stworzenia i dzieł sztuki, pozwoli docenić różne doświadczenia i kultury, nosić w sobie piękno, które zharmonizowane z modlitwą, prowadzi do dziękczynienia Bogu za cuda, których dokonał. Kościoły jubileuszowe, wzdłuż szlaków oraz w Wiecznym Mieście, będą mogły być oazami duchowości, w których można odświeżyć drogę wiary i napić się ze źródeł nadziei, przede wszystkim przystępując do sakramentu pojednania, niezastąpionego punktu wyjścia dla prawdziwej drogi nawrócenia. W Kościołach partykularnych należy zwrócić szczególną uwagę na przygotowanie kapłanów i wiernych do spowiedzi oraz na dostępność tego sakramentu w formie indywidualnej.

Podczas tej pielgrzymki chciałbym skierować szczególne zaproszenie do wiernych Kościołów Wschodnich, zwłaszcza tych, którzy są już w pełnej komunii z Następcą Piotra. Oni, którzy tak wiele wycierpieli, często aż do śmierci, za swoją wierność Chrystusowi i Kościołowi, muszą czuć się szczególnie mile widziani w tym Rzymie, który jest Matką także dla nich, i który przechowuje wiele pamiątek ich obecności. Kościół katolicki, który jest ubogacony ich starożytnymi liturgiami, teologią i duchowością Ojców, mnichów i teologów, pragnie symbolicznie wyrazić gościnność dla nich i ich prawosławnych braci i sióstr, w czasie, gdy już doświadczają pielgrzymki Drogi Krzyżowej, przez którą często są zmuszeni do opuszczenia swoich ojczyzn, swoich świętych ziem, z których przemoc i niestabilność wypędzają ich do krajów bezpieczniejszych. Dla nich doświadczenie bycia miłowanymi przez Kościół, który ich nie opuści, ale pójdzie za nimi, dokądkolwiek się udadzą, czyni znak Jubileuszu jeszcze mocniejszym.

6. Rok Święty 2025 nawiązuje do wcześniejszych wydarzeń łaski. W ostatnim zwyczajnym Jubileuszu przekroczono próg dwutysięcznej rocznicy narodzin Jezusa Chrystusa. Następnie, 13 marca 2015 roku ogłosiłem Jubileusz nadzwyczajny, którego celem było ukazanie i umożliwienie ludziom spotkania z „Obliczem Miłosierdzia” Boga[3], centralnym przepowiadaniem Ewangelii dla każdego człowieka w każdej epoce. Teraz nadszedł czas nowego Jubileuszu, w którym Drzwi Święte zostaną ponownie otwarte, aby dać żywe doświadczenie Bożej miłości, która wzbudza w sercu pewną nadzieję zbawienia w Chrystusie. Jednocześnie ten Rok Święty skieruje nas ku kolejnej fundamentalnej rocznicy dla wszystkich chrześcijan: w 2033 r. obchodzone będzie bowiem dwa tysiące lat Odkupienia dokonanego przez mękę, śmierć i zmartwychwstanie Pana Jezusa. Przed nami zatem droga naznaczona wielkimi etapami, w której łaska Boża poprzedza i towarzyszy ludziom gorliwie kroczącym w wierze, czynnym w miłości i wytrwałym w nadziei (por. 1 Tes 1, 3).

Wspierany tak długą tradycją i mając pewność, że ten Rok Jubileuszowy będzie dla całego Kościoła intensywnym doświadczeniem łaski i nadziei, zarządzam, aby Drzwi Święte Bazyliki Świętego Piotra w Watykanie zostały otwarte 24 grudnia bieżącego roku, rozpoczynając w ten sposób Jubileusz Zwyczajny. W niedzielę, 29 grudnia 2024 r., otworzę Drzwi Święte mojej katedry Świętego Jana na Lateranie, która 9 listopada tego roku będzie obchodzić 1700. rocznicę poświęcenia. Następnie, 1 stycznia 2025 r., w uroczystość Świętej Bożej Rodzicielki Maryi zostaną otwarte Drzwi Święte papieskiej Bazyliki Matki Bożej Większej. Na koniec, w niedzielę 5 stycznia, zostaną otwarte Drzwi Święte papieskiej Bazyliki Świętego Pawła za Murami. Te trzy ostatnie Drzwi Święte zostaną zamknięte przed niedzielą 28 grudnia tego samego roku.

Postanawiam również, że w niedzielę 29 grudnia 2024 r., we wszystkich katedrach i konkatedrach, biskupi diecezjalni będą sprawować Eucharystię jako uroczyste otwarcie Roku Jubileuszowego, zgodnie z Rytuałem, który zostanie przygotowany na tę okazję. Podczas celebracji w kościele konkatedralnym, biskupa może zastąpić jeden z jego specjalnie wyznaczonych delegatów. Niech pielgrzymka z kościoła wybranego na collectio [tj. zgromadzenie], do katedry, będzie znakiem drogi nadziei, która oświecona Słowem Bożym jednoczy wierzących. Niech podczas tej pielgrzymki odczytywane będą niektóre fragmenty niniejszego Dokumentu i niech będzie ogłoszony ludowi Odpust Jubileuszowy, który będzie można uzyskać w Kościołach partykularnych, zgodnie z przepisami zawartymi w tym samym Rytuale obchodów Jubileuszu. Podczas Roku Świętego, który w Kościołach partykularnych zakończy się w niedzielę 28 grudnia 2025 r., należy zatroszczyć się o to, aby Lud Boży mógł przyjąć z pełnym udziałem zarówno głoszenie nadziei łaski Bożej, jak i znaki potwierdzające jej skuteczność.

Jubileusz Zwyczajny zakończy się zamknięciem Drzwi Świętych Papieskiej Bazyliki Świętego Piotra w Watykanie, 6 stycznia 2026 r., w uroczystość Objawienia Pańskiego. Oby światło chrześcijańskiej nadziei dotarło do każdego człowieka, jako orędzie Bożej miłości skierowane do wszystkich! Niech Kościół będzie wiernym świadkiem tego orędzia na całym świecie!

Znaki nadziei

7. Oprócz czerpania nadziei z łaski Bożej, jesteśmy wezwani do odkrywania jej także w znakach czasu, które daje nam Pan. Jak stwierdza Sobór Watykański II, „Kościół zawsze jest zobowiązany do badania znaków czasu i ich interpretowania w świetle Ewangelii, tak aby w sposób dostoswany do każdego pokolenia mógł odpowiedzieć na odwieczne pytania ludzi o sens życia doczesnego i przyszłego oraz o ich wzajemną relację”[4]. Konieczne jest zatem zwrócenie uwagi na wiele dobra obecnego w świecie, aby nie ulec pokusie przekonania o byciu pokonanym przez zło i przemoc. Jednak znaki czasu, które zawierają tęsknotę ludzkiego serca, potrzebującego zbawczej obecności Boga, domagają się, by zostały przekształcone w znaki nadziei.

8. Niech pierwszy znak nadziei przełoży się na pokój dla świata, który po raz kolejny pogrąża się w tragedii wojny. Ludzkość niepomna na dramaty przeszłości, poddawana jest nowej i trudnej próbie, w której wiele ludów jest uciskanych przez brutalność przemocy. Czego jeszcze brakuje tym narodom, czego by jeszcze nie doznały? Jak to możliwe, że ich rozpaczliwe wołanie o pomoc nie pobudza przywódców narodów do zakończenia zbyt wielu regionalnych konfliktów, mimo świadomości konsekwencji, które mogą z nich wyniknąć na poziomie globalnym? Czy to zbyt wiele, by marzyć, aby broń umilkła i przestała przynosić zniszczenie i śmierć? Jubileusz przypomina nam, że ci, którzy stają się „wprowadzającymi pokój”, mogą być „nazwani dziećmi Bożymi” (Mt 5, 9). Potrzeba pokoju stanowi wyzwanie dla wszystkich i wymaga realizacji konkretnych projektów. Niech nie zabraknie zaangażowania dyplomacji w odważne i twórcze budowanie przestrzeni negocjacji, zmierzających do trwałego pokoju.

9. Spoglądanie w przyszłość z nadzieją oznacza również posiadanie wizji życia, pełnej entuzjazmu, którą trzeba przekazywać. Niestety, musimy ze smutkiem zauważyć, że w wielu sytuacjach, takiej perspektywy brakuje. Pierwszą konsekwencją jest utrata pragnienia przekazywania życia. Ze względu na szalone tempo życia, obawy o przyszłość, brak gwarancji zatrudnienia i odpowiedniej ochrony socjalnej oraz modele społeczne, w których program dyktuje pogoń za zyskiem, a nie pielęgnowanie relacji, w wielu krajach jesteśmy świadkami niepokojącego spadku wskaźnika urodzeń. Z drugiej strony, w innych kontekstach, „obwinianie wzrostu demograficznego, a nie skrajnego i selektywnego konsumpcjonizmu, jest sposobem na uniknięcie stawienia czoła problemom”[5].

Otwartość na życie z odpowiedzialnym macierzyństwem i ojcostwem, jest projektem, który Stwórca wpisał w serca i ciała mężczyzn i kobiet, jest misją, którą Pan powierza małżonkom oraz ich miłości. Jest sprawą pilną, aby oprócz pracy legislacyjnej państw, nie zabrakło niepodważalnego wsparcia wspólnot wierzących i całej wspólnoty obywatelskiej we wszystkich jej elementach, ponieważ pragnienie młodych ludzi rodzenia nowych synów i córek, jako owoc płodności ich miłości, daje przyszłość każdemu społeczeństwu i jest kwestią nadziei: zależy od nadziei i rodzi nadzieję.

Wspólnota chrześcijańska nie może zatem ustępować nikomu miejsca we wspieraniu potrzeby społecznego przymierza na rzecz nadziei, które byłoby inkluzywne, a nie ideologiczne, i niech działa na rzecz przyszłości naznaczonej uśmiechem wielu chłopców i dziewczynek, którzy przychodzą, by wypełnić nazbyt wiele pustych kołysek w wielu częściach świata. Ale wszyscy, w rzeczywistości, potrzebują odzyskać radość życia, ponieważ istota ludzka, stworzona na obraz i podobieństwo Boga (por. Rdz 1, 26), nie może zadowolić się przetrwaniem lub wegetacją, dostosowaniem się do teraźniejszości, pozwalając zadowolić się jedynie rzeczywistością materialną. To zamyka w indywidualizmie i niszczy nadzieję, rodząc smutek, który zagnieżdża się w sercu, czyniąc ludzi zgorzkniałymi i niecierpliwymi.

10. W Roku Jubileuszowym będziemy wezwani do bycia namacalnymi znakami nadziei dla wielu braci i sióstr żyjących w trudnych warunkach. Myślę o więźniach, którzy pozbawieni wolności doświadczają każdego dnia, oprócz surowości osadzenia, pustki emocjonalnej, nałożonych ograniczeń i, w wielu przypadkach, braku szacunku. Proponuję rządom, aby w Roku Jubileuszowym podjęły inicjatywy przywracające nadzieję; formy amnestii lub umorzenia wyroków, które mają pomóc ludziom odzyskać wiarę w siebie i w społeczeństwo; procesy reintegracji osadzonych ze wspólnotą, którym odpowiadałyby konkretne zobowiązania więźniów do przestrzegania prawa.

Jest to starożytne wezwanie, które pochodzi ze Słowa Bożego i zachowuje całą swoją wartość mądrościową w przywoływaniu aktów łaski i wyzwolenia, pozwalające zacząć od nowa: „Będziecie święcić pięćdziesiąty rok, obwieścicie wyzwolenie w kraju dla wszystkich jego mieszkańców” (Kpł 25, 10). To, co zostało ustanowione przez Prawo Mojżeszowe, zostało podjęte przez proroka Izajasza: „Posłał mnie Pan, abym głosił dobrą nowinę ubogim, bym opatrywał rany serc złamanych, żebym zapowiadał wyzwolenie jeńcom i więźniom swobodę; abym obwieszczał rok łaski Pańskiej” (Iz 61, 1-2). Są to słowa, które Jezus uczynił własnymi na początku swojej służby, ogłaszając w sobie wypełnienie „roku łaski Pańskiej” (por. Łk 4, 18-19). Niech w każdym zakątku ziemi, wierzący, zwłaszcza Pasterze, będą wyrazicielami tych próśb, tworząc jeden głos, który odważnie domaga się godnych warunków dla uwięzionych, poszanowania praw człowieka, a przede wszystkim zniesienia kary śmierci, środka nieprzystającego do wiary chrześcijańskiej i niszczącego wszelką nadzieję na przebaczenie i odnowę[6]. Aby ofiarować więźniom konkretny znak bliskości, sam pragnę otworzyć Drzwi Święte w więzieniu, aby były one dla nich symbolem zachęcającym do patrzenia w przyszłość z nadzieją i z odnowionym życiowym zaangażowaniem.

11. Niech znaki nadziei będą oferowane chorym, znajdującym się w domu, czy w szpitalu. Niech ich cierpienie znajdzie ulgę w bliskości osób, które ich odwiedzają i w czułości, jaką otrzymują. Dzieła miłosierdzia są również dziełami nadziei, które budzą w sercach uczucia wdzięczności. A wdzięczność niech dotrze do wszystkich pracowników służby zdrowia, którzy w nierzadko trudnych warunkach pełnią swoją misję, troskliwie opiekując się chorymi i słabymi.

Niech nie zabraknie inkluzywnej troski o tych, którzy znajdując się w szczególnie trudnych warunkach życia, doświadczają swej słabości, zwłaszcza jeśli cierpią z powodu chorób lub niepełnosprawności, które znacznie ograniczają osobistą autonomię. Troska o nich jest hymnem na cześć ludzkiej godności, pieśnią nadziei, która domaga się zgodnego chóru całego społeczeństwa.

12. Znaki nadziei są również potrzebne tym, którzy sami w sobie ją reprezentują: młodym. Niestety często widzą oni, jak rozpadają się ich marzenia. Nie możemy ich zawieść: na ich entuzjazmie opiera się przyszłość. Miło widzieć, jak wyzwalają z siebie energię, na przykład gdy zakasują rękawy i dobrowolnie angażują się w sytuacjach katastrof i trudności społecznych. Ale smutno widzieć młodych ludzi pozbawionych nadziei. Z drugiej strony, gdy przyszłość jest niepewna i niedostępna dla marzeń, gdy studia nie oferują dobrego startu, a brak pracy lub zatrudnienia wystarczająco stabilnego, grozi zniwelowaniem pragnień, dochodzi wtedy do nieuniknionego zagrożenia przeżywania teraźniejszości w melancholii i nudzie. Iluzja narkotyków, ryzyko wykroczeń i pogoń za tym, co krótkotrwałe, powodują w nich większy zamęt niż w innych, i ukrywają piękno i sens życia, powodując, iż wpadają w mroczne otchłanie, i popychają ich do czynów autodestrukcyjnych. Dlatego niech Jubileusz będzie dla Kościoła okazją do impulsu wobec nich: z odnowioną pasją zatroszczmy się o chłopców i dziewczęta, o studentów, narzeczonych, o młode pokolenia! Bliskość wobec młodych, którzy są radością oraz nadzieją Kościoła i świata!

13. Nie może zabraknąć znaków nadziei dla migrantów, którzy opuszczają swoją ziemię w poszukiwaniu lepszego życia dla siebie i swoich rodzin. Niech ich oczekiwania nie będą niweczone przez uprzedzenia i zamknięcia. Przyjęciu, które otwiera szeroko ramiona dla każdego, zgodnie z jego godnością, powinna towarzyszyć odpowiedzialność, aby nikomu nie odmawiano prawa do godnego życia. Niech liczni wygnańcy, uchodźcy i uciekinierzy, których spory międzynarodowe zmuszają do ucieczki, by uniknąć wojny, przemocy i dyskryminacji, mają zapewnione bezpieczeństwo oraz dostęp do pracy i edukacji, będących niezbędnymi narzędziami do ich integracji w nowym kontekście społecznym.

Niech wspólnota chrześcijańska będzie zawsze gotowa bronić praw najsłabszych. Niech z wielkodusznością otwiera szeroko drzwi gościnności, aby nikomu nigdy nie zabrakło nadziei na lepszą przyszłość. Niech rozbrzmiewa w naszych sercach słowo Pana, który w wielkiej przypowieści o sądzie ostatecznym powiedział: „Byłem przybyszem, a przyjęliście Mnie”, ponieważ „wszystko, co uczyniliście jednemu z tych braci moich najmniejszych, Mnieście uczynili” (Mt 25, 35.40).

14. Na znaki nadziei zasługują osoby starsze, które często doświadczają samotności i poczucia opuszczenia. Docenianie skarbu, jakim są, ich doświadczenia życiowego, mądrości, którą niosą i wkładu, jaki mogą wnieść, jest zobowiązaniem dla wspólnoty chrześcijańskiej i społeczeństwa obywatelskiego, wezwanych do współpracy na rzecz przymierza między pokoleniami.

Szczególną myśl kieruję do dziadków i babć, którzy przekazują wiarę i mądrość życiową młodszym pokoleniom. Niech będą wspierani wdzięcznością dzieci oraz miłością wnuków, które znajdują w nich zakorzenienie, zrozumienie i otuchę.

15. Z całego serca błagam o nadzieję dla miliardów ubogich, którym często brakuje tego, co konieczne do życia. W obliczu coraz to nowych fal zubożenia istnieje ryzyko przyzwyczajenia się i rezygnacji. Nie możemy jednak odwracać wzroku od sytuacji tak bardzo dramatycznych, które występują obecnie wszędzie, a nie tylko w niektórych regionach świata. Każdego dnia spotykamy ludzi ubogich lub zubożałych, a niekiedy mogą to być nasi sąsiedzi. Często nie mają domu ani odpowiedniego pożywienia na co dzień. Doznają wykluczenia i obojętności wielu osób. To skandal, że w świecie obdarzonym ogromnymi zasobami, z których większość idzie na zbrojenia, ubodzy są „większością [...], to miliardy ludzi. Wspomina się dziś o nich w międzynarodowych debatach politycznych i gospodarczych, ale najczęściej wydaje się, że ich problemy są poruszane jako dodatek, jako kwestia, którą się dodaje niemal z obowiązku lub w sposób marginalny, o ile nie są one postrzegane jako zwykły «negatywny efekt uboczny». W rzeczywistości, kiedy dochodzi do konkretnych działań, często pozostają na ostatnim miejscu”[7]. Nie zapominajmy: ubodzy są niemal zawsze ofiarami, a nie winnymi.

Apele o nadzieję

16. Podejmując starożytne słowa proroków, Jubileusz przypomina, że dobra ziemi nie są przeznaczone dla nielicznych uprzywilejowanych, lecz dla wszystkich. Trzeba, aby ci, którzy posiadają bogactwo, byli hojni, dostrzegając oblicze swoich braci i sióstr w potrzebie. Myślę w szczególności o tych, którym brakuje wody i żywności: głód jest skandaliczną plagą w ciele naszego człowieczeństwa i zachęca wszystkich do wstrząśnienia sumieniami. Ponawiam mój apel, aby „z pieniędzy, wykorzystywanych na broń i inne wydatki wojskowe, stworzyć Światowy Fundusz na rzecz ostatecznego wyeliminowania głodu i rozwoju krajów najuboższych, aby ich mieszkańcy nie uciekali się do przemocy lub rozwiązań podstępnych i nie byli zmuszani do opuszczania swoich krajów w poszukiwaniu bardziej godnego życia”[8].

W związku z Rokiem Jubileuszowym chciałbym skierować jeszcze jedną serdeczną zachętę: jest ona zaadresowana do najbogatszych narodów, aby uznały powagę tak wielu podjętych decyzji i zgodziły się umorzyć długi krajów, które nigdy nie będą mogły ich spłacić. Jest to nie tylko kwestia wielkoduszności, ale przede wszystkim sprawiedliwości, zaostrzonej dziś przez nową formę niesprawiedliwości, której staliśmy się świadomi: „Istnieje bowiem prawdziwy «dług ekologiczny», w szczególności między Północą a Południem, związany z mającym konsekwencje w dziedzinie ekologii brakiem równowagi handlowej oraz z nieproporcjonalnym wykorzystywaniem zasobów naturalnych, jakiego niektóre kraje dopuszczały się w przeszłości”[9]. Jak naucza Pismo Święte, ziemia należy do Boga, a my wszyscy mieszkamy na niej jako „przybysze i osadnicy” (Kpł 25, 23). Jeśli naprawdę chcemy przygotować drogę pokoju na świecie, zaangażujmy się w usuwanie odległych przyczyn niesprawiedliwości, regulowanie niesprawiedliwych i niewypłacalnych długów oraz w zaspokajanie głodu.

17. Podczas nadchodzącego Jubileuszu przypadnie bardzo ważna rocznica dla wszystkich chrześcijan. Upłynie bowiem 1700 lat od obchodów pierwszego wielkiego soboru powszechnego, Soboru Nicejskiego. Warto pamiętać, że od czasów apostolskich pasterze wielokrotnie zbierali się na zgromadzeniach w celu rozpatrzenia kwestii doktrynalnych i dyscyplinarnych. W pierwszych wiekach wiary, synody mnożyły się zarówno na chrześcijańskim Wschodzie, jak i na Zachodzie, pokazując, jak ważne było zachowanie jedności Ludu Bożego i wierne głoszenie Ewangelii. Rok Jubileuszowy może być ważną okazją do ukonkretnienia tej formy synodalnej, którą wspólnota chrześcijańska postrzega dziś jako coraz bardziej konieczny wyraz, aby lepiej odpowiedzieć na pilną potrzebę ewangelizacji: wszyscy ochrzczeni, każdy z własnym charyzmatem i posługą, współodpowiedzialni, aby wielorakie znaki nadziei świadczyły o obecności Boga w świecie.

Sobór Nicejski miał za zadanie zachowanie jedności, poważnie zagrożonej przez zaprzeczenie pełnej boskości Jezusa Chrystusa i Jego współistotności z Ojcem. Uczestniczyło w nim około trzystu biskupów, którzy zebrali się w pałacu cesarskim zwołanym przez cesarza Konstantyna, w dniu 20 maja 325 r. Po różnych debatach, wszyscy oni, dzięki łasce Ducha Świętego, uznali Symbol Wiary, który do dziś wyznajemy w niedzielnej celebracji eucharystycznej. Ojcowie Soboru chcieli rozpocząć ten Symbol od użycia po raz pierwszy wyrażenia „Wierzymy”[10], aby zaświadczyć, że w tym „My” wszystkie Kościoły były w jedności, a wszyscy chrześcijanie wyznawali tę samą wiarę.

Sobór Nicejski jest kamieniem milowym w dziejach Kościoła. Jego rocznica zachęca chrześcijan do zjednoczenia się w uwielbieniu i dziękczynieniu Trójcy Świętej, a w szczególności Jezusowi Chrystusowi, Synowi Bożemu, „z substancji Ojca”[11], który objawił nam tę tajemnicę miłości. Ale Nicea stanowi również zaproszenie dla wszystkich Kościołów i Wspólnot kościelnych, aby podążały drogą ku widzialnej jedności, niestrudzenie poszukując odpowiednich form, które w pełni odpowiadałyby modlitwie Jezusa: „Aby wszyscy stanowili jedno, jak Ty, Ojcze, we Mnie, a Ja w Tobie, aby i oni stanowili w Nas jedno, by świat uwierzył, że Ty Mnie posłałeś” (J 17, 21).

Sobór Nicejski zajmował się również datowaniem Wielkanocy. W tym względzie, jeszcze do dziś istnieją różne stanowiska, które uniemożliwiają świętowanie wydarzenia założycielskiego wiary tego samego dnia. Dzięki opatrznościowym okolicznościom nastąpi to dokładnie w 2025 r. Niech będzie to wezwaniem dla wszystkich chrześcijan Wschodu i Zachodu do podjęcia zdecydowanego kroku w kierunku jedności wokół wspólnej daty Wielkanocy. Należy pamiętać, że wiele osób nie jest już świadomych diatryb z przeszłości i nie rozumie, jak mogą istnieć podziały w tym względzie. Wielu, o czym warto pamiętać, nie jest już świadomych tyrad z przeszłości i nie rozumie, jak w tym względzie mogą istnieć podziały.

Zakotwiczeni w nadziei

18. Nadzieja, wraz z wiarą i miłością, tworzy tryptyk „cnót teologalnych”, które wyrażają istotę życia chrześcijańskiego (por. 1 Kor 13, 13; 1 Tes 1, 3). W ich nierozerwalnym dynamizmie, nadzieja jest tą, która niejako nadaje orientację, wskazuje kierunek i cel chrześcijańskiej egzystencji. Dlatego Paweł Apostoł zachęca nas: „Weselcie się nadzieją. W ucisku bądźcie cierpliwi, w modlitwie – wytrwali!” (Rz 12, 12). Tak, musimy „być bogaci w nadzieję” (por. Rz 15, 13), aby w sposób wiarygodny i pociągający dawać świadectwo wiary i miłości, które nosimy w naszych sercach; aby wiara była radosna, miłość entuzjastyczna; aby każdy był w stanie podarować choćby tylko uśmiech, gest przyjaźni, braterskie spojrzenie, szczere wysłuchanie, bezinteresowną posługę, wiedząc, że w Duchu Jezusa może to stać się owocnym ziarnem nadziei dla tych, którzy je przyjmują. Ale jaki jest fundament naszej nadziei? Aby to zrozumieć, dobrze zastanowić się nad motywami naszej nadziei (por. 1 P 3,15).

19. „Wierzę w żywot wieczny”[12]. W ten sposób wyznajemy naszą wiarę, a chrześcijańska nadzieja znajduje w tych słowach fundamentalną podstawę. Jest ona bowiem „cnotą teologalną, dzięki której pragniemy jako naszego szczęścia [...] życia wiecznego”[13]. Powszechny Sobór Watykański II stwierdza: „Jeżeli brakuje Bożego fundamentu i nadziei życia wiecznego, godność człowieka, jak to się często dzisiaj stwierdza, doznaje bardzo poważnego uszczerbku, a tajemnice życia i śmierci, winy i cierpienia pozostają bez rozwiązania, tak że ludzie nierzadko popadają w zwątpienie”[14]. My natomiast, na mocy nadziei, w której zostaliśmy zbawieni, patrząc na upływający czas, mamy pewność, że dzieje ludzkości i każdego z nas nie biegną w kierunku ślepego zaułku czy ciemnej otchłani, ale są ukierunkowane na spotkanie z Panem chwały. Żyjmy zatem w oczekiwaniu na Jego powrót i w nadziei życia wiecznego w Nim: to w tym duchu czynimy naszym poruszające wezwanie pierwszych chrześcijan, którym kończy się Pismo Święte: „Przyjdź, Panie Jezu!” (Ap 22, 20).

20. Jezus, który umarł i zmartwychwstał, jest centrum naszej wiary. Św. Paweł, wyrażając tę treść w kilku słowach, używając tylko czterech czasowników przekazuje nam „rdzeń” naszej nadziei: „Przekazałem wam na początku to, co przejąłem: że Chrystus umarł – zgodnie z Pismem – za nasze grzechy, że został pogrzebany, że zmartwychwstał trzeciego dnia, zgodnie z Pismem; i że ukazał się Kefasowi, a potem Dwunastu” (1 Kor 15, 3-5). Chrystus umarł, został pogrzebany, zmartwychwstał, ukazał się. Dla nas przeszedł przez dramat śmierci. Miłość Ojca wskrzesiła Go w mocy Ducha, czyniąc z Jego człowieczeństwa pierwociny wieczności dla naszego zbawienia. Chrześcijańska nadzieja polega właśnie na tym: w obliczu śmierci, gdzie wszystko wydaje się kończyć, otrzymujemy pewność, że dzięki Chrystusowi, dzięki Jego łasce przekazanej nam w chrzcie, „życie […] zmienia się, ale się nie kończy”[15] na zawsze. W chrzcie bowiem, pogrzebani razem z Chrystusem, otrzymujemy w Nim zmartwychwstałym dar nowego życia, które burzy mur śmierci, czyniąc z niej przejście do wieczności.

I o ile w obliczu śmierci, bolesnej rozłąki, która zmusza nas do opuszczenia najdroższych nam osób, nie jest dozwolona jakakolwiek retoryka, to Jubileusz da nam możliwość odkrycia na nowo, z ogromną wdzięcznością, daru tego nowego życia otrzymanego w chrzcie, które jest w stanie przekształcić ten dramat. Ważne, aby w kontekście Jubileuszu zastanowić się, jak rozumiano tę tajemnicę od pierwszych wieków wiary. Na przykład, przez długi czas chrześcijanie budowali chrzcielnicę w kształcie ośmiokąta, i także dzisiaj możemy podziwiać wiele starożytnych baptysteriów, które zachowały ten kształt, jak w Rzymie u Świętego Jana na Lateranie. Wskazuje on, że w chrzcielnicy inaugurowany jest ósmy dzień, to znaczy dzień zmartwychwstania, dzień, który wykracza poza zwykły rytm, naznaczony upływem każdego tygodnia, otwierając w ten sposób cykl czasu na wymiar wieczności, na życie, które trwa wiecznie: jest to cel, do którego dążymy w naszej ziemskiej pielgrzymce (por. Rz 6, 22).

Najbardziej przekonujące świadectwo tej nadziei dają nam męczennicy, którzy niezachwiani w wierze w zmartwychwstałego Chrystusa, byli w stanie wyrzec się życia tu na ziemi, aby nie zdradzić swego Pana. Są oni obecni we wszystkich wiekach i są liczni, być może bardziej niż kiedykolwiek, w naszych czasach, jako wyznawcy życia, które nie zna końca. Musimy strzec ich świadectwa, aby nasza nadzieja była owocna.

Ci męczennicy, należący do różnych tradycji chrześcijańskich, są także ziarnami jedności, ponieważ wyrażają ekumenizm krwi. Dlatego moim gorącym życzeniem jest, aby podczas Jubileuszu nie zabrakło celebracji ekumenicznej, która umożliwi ukazanie bogactwa świadectwa tych męczenników.

21. Co zatem stanie się z nami po śmierci? Z Jezusem za tym progiem jest życie wieczne, które polega na pełnej komunii z Bogiem, na kontemplacji i uczestnictwie w Jego nieskończonej miłości. To, czym teraz żyjemy w nadziei, zobaczymy w rzeczywistości. Św. Augustyn pisał na ten temat: „Kiedy do Ciebie przywrę całą moją istotą, skończy się dla mnie wszelki ból i wszelki trud. Wtedy moje życie będzie naprawdę żywe, całe napełnione Tobą”[16]. Co zatem będzie charakteryzować taką pełnię komunii? Bycie szczęśliwym. Szczęście jest powołaniem istoty ludzkiej, celem, który dotyczy każdego.

Ale czym jest szczęście? Jakiego szczęścia oczekujemy i pragniemy? Nie przelotnej radości, ulotnej satysfakcji, która raz osiągnięta, domaga się coraz więcej, w spirali chciwości, w której ludzka dusza nigdy nie jest nasycona, lecz coraz bardziej pusta. Potrzebujemy szczęścia, które jest definitywnie spełnione w tym, co nas spełnia, to znaczy w miłości, abyśmy mogli powiedzieć, już teraz: Jestem kochany, a zatem istnieję; i będę istniał na zawsze w Miłości, która nie zawodzi i od której nic i nikt nigdy nie będzie w stanie mnie oddzielić. Przypomnijmy raz jeszcze słowa Apostoła: „Jestem pewien, że ani śmierć, ani życie, ani aniołowie, ani Zwierzchności, ani rzeczy teraźniejsze, ani przyszłe, ani Moce, ani co wysokie, ani co głębokie, ani jakiekolwiek inne stworzenie nie zdoła nas odłączyć od miłości Boga, która jest w Chrystusie Jezusie, Panu naszym” (Rz 8, 38-39).

22. Inną rzeczywistością związaną z życiem wiecznym jest sąd Boży, zarówno na końcu naszego życia, jak i na końcu czasów. Sztuka często próbowała to przedstawić – pomyślmy o arcydziele Michała Anioła w Kaplicy Sykstyńskiej – przyjmując teologiczną koncepcję czasu i przekazując widzowi poczucie lęku. Jeśli słuszne jest przygotowanie się z wielką świadomością i powagą na moment, który podsumowuje życie, to jednocześnie musimy zawsze czynić to w wymiarze nadziei, cnoty teologalnej, która podtrzymuje życie i pozwala nam nie popaść w lęk. Sąd Boga, który jest miłością (por. 1 J 4, 8.16), nie może nie opierać się na miłości, zwłaszcza na tym, czy praktykowaliśmy ją wobec najbardziej potrzebujących, w których Chrystus, sam Sędzia, jest obecny (por. Mt 25, 31-46). Idzie zatem o osąd inny niż osąd ludzi i ziemskich sądów; należy go rozumieć jako relację prawdy z Bogiem-miłością i z samym sobą w niezgłębionej tajemnicy Bożego miłosierdzia. Pismo Święte stwierdza w tym względzie: „Nauczyłeś lud swój [...], że sprawiedliwy powinien być dobrym dla ludzi. I wlałeś synom swym wielką nadzieję, że po występkach dajesz nawrócenie. [...] byśmy oczekiwali miłosierdzia, gdy na nas sąd przyjdzie” (Mdr 12, 19.22). Jak napisał Benedykt XVI, „W chwili Sądu Ostatecznego doświadczamy i przyjmujemy, że Jego miłość przewyższa całe zło świata i zło w nas. Ból miłości staje się naszym zbawieniem i naszą radością”[17].

Sąd dotyczy więc zbawienia, w które ufamy i które Jezus dla nas wyjednał przez swoją śmierć i zmartwychwstanie. Jego celem jest zatem otwarcie nas na ostateczne spotkanie z Nim. A ponieważ w tym kontekście nie można myśleć, że wyrządzone zło pozostałoby ukryte, musi ono zostać oczyszczone, aby umożliwić nam ostateczne przejście do Bożej miłości. Rozumiemy zatem potrzebę modlitwy za tych, którzy zakończyli swoją ziemską wędrówkę, solidarności w modlitewnym wstawiennictwie, które znajduje swoją skuteczność w komunii świętych, we wspólnej więzi, która jednoczy nas w Chrystusie, pierworodnym wobec każdego stworzenia. Tak więc odpust jubileuszowy, na mocy modlitwy, jest przeznaczony w szczególny sposób dla tych, którzy odeszli przed nami, aby mogli otrzymać pełnię miłosierdzia.

23. Odpust, istotnie, pozwala nam odkryć, jak nieograniczone jest miłosierdzie Boga. To nie przypadek, że w starożytności termin „miłosierdzie” był używany zamiennie z terminem „odpust”, właśnie dlatego, że ma wyrażać pełnię Bożego przebaczenia, które nie zna granic.

Sakrament pokuty upewnia nas, że Bóg gładzi nasze grzechy. Słowa Psalmu powracają ze swoim ładunkiem pocieszenia: „On odpuszcza wszystkie twoje winy, On leczy wszystkie twe niemoce. On życie twoje wybawia od zguby, On wieńczy Cię łaską i zmiłowaniem. […] Miłosierny Pan i łagodny, nieskory do gniewu i bogaty w łaskę. […] Nie postępuje z nami według naszych grzechów, ani według win naszych nam nie odpłaca. Bo jak wysoko niebo wznosi się nad ziemią, tak trwała jest Jego łaska dla tych, co się Go boją. Jak jest odległy schód od zachodu, tak daleko odsuwa od nas nasze występki” (Ps 103, 3-4.8.10-12). Sakramentalne pojednanie jest nie tylko piękną sposobnością duchową, ale stanowi decydujący, istotny i niezbędny krok na drodze wiary każdego człowieka. Tam pozwalamy Panu zniszczyć nasze grzechy, uleczyć nasze serca, podnieść nas i objąć, abyśmy poznali Jego czułe i współczujące oblicze. Nie ma bowiem lepszego sposobu na poznanie Boga niż pozwolenie Mu, by nas pojednał ze sobą (por. 2 Kor 5, 20), rozkoszując się Jego przebaczeniem. Nie rezygnujmy zatem ze spowiedzi, ale odkryjmy na nowo piękno sakramentu uzdrowienia i radości, piękno przebaczenia grzechów!

Jednakże, jak wiemy z osobistego doświadczenia, grzech „pozostawia ślad”, pociąga za sobą konsekwencje: nie tylko zewnętrzne, jeśli chodzi o następstwa popełnionego zła, ale także wewnętrzne, ponieważ „każdy grzech, nawet powszedni, powoduje ponadto nieuporządkowane przywiązanie do stworzeń, które wymaga oczyszczenia, albo na ziemi, albo po śmierci, w stanie nazywanym czyśćcem”[18]. Tak więc w naszym słabym i skłonnym do zła człowieczeństwie trwają „pozostałe skutki grzechu”. Są one usuwane przez odpust, zawsze dzięki łasce Chrystusa, który, jak pisał św. Paweł VI, jest „naszym «odpustem»”[19]. Penitencjaria Apostolska wyda przepisy umożliwiające uzyskanie i skuteczne praktykowanie jubileuszowego odpustu.

Takie doświadczenie, pełne przebaczenia, pozwala otworzyć serce i umysł na przebaczenie. Przebaczenie nie zmienia przeszłości, nie może zmienić tego, co już się wydarzyło; a mimo to przebaczenie może umożliwić przemianę przyszłości i życie w odmienny sposób, bez urazy, rozgoryczenia i zemsty. Przyszłość oświecona przebaczeniem pozwala na odczytanie przeszłości innymi, bardziej pogodnymi oczami, choć wciąż wyżłobionymi łzami.

Podczas ostatniego Nadzwyczajnego Jubileuszu ustanowiłem Misjonarzy Miłosierdzia, którzy nadal wypełniają ważną misję. Niech pełnią swoją posługę także podczas nadchodzącego Jubileuszu, przywracając nadzieję i przebaczając za każdym razem, gdy grzesznik zwraca się do nich z otwartym sercem i skruszoną duszą. Niech nadal będą narzędziami pojednania i pomagają patrzeć w przyszłość z nadzieją serca, która pochodzi z miłosierdzia Ojca. Mam nadzieję, że biskupi będą mogli skorzystać z ich cennej posługi, zwłaszcza wysyłając ich do miejsc, w których nadzieja jest poddawana ciężkiej próbie, takich jak więzienia, szpitale i miejsca, w których deptana jest godność osoby, w najtrudniejszych sytuacjach i w kontekstach największej degradacji, aby nikt nie był pozbawiony możliwości otrzymania przebaczenia i pocieszenia Boga.

24. Nadzieja znajduje swoje najwznioślejsze świadectwo w Matce Bożej. W Niej widzimy, że nadzieja nie jest łatwowiernym optymizmem, lecz darem łaski w realizmie życia. Jak każda mama, za każdym razem, gdy patrzyła na swego Syna, myślała o Jego przyszłości i z pewnością w Jej sercu pozostały wyryte te słowa, które Symeon skierował do Niej w świątyni: „Oto Ten przeznaczony jest na upadek i na powstanie wielu w Izraelu, i na znak, któremu sprzeciwiać się będą. A Twoją duszę miecz przeniknie” (Łk 2, 34-35). A u stóp krzyża, gdy widziała, jak niewinny Jezus cierpi i umiera, chociaż odczuwała potworny ból, powtórzyła swoje „tak”, nie tracąc nadziei i ufności w Panu. W ten sposób współpracowała dla nas w wypełnianiu tego, co powiedział Jej Syn, zapowiadając, że będzie musiał „wiele cierpieć, że będzie odrzucony przez starszych, arcykapłanów i uczonych w Piśmie; że będzie zabity, ale po trzech dniach zmartwychwstanie” (Mk 8, 31). A w udręce tego bólu, ofiarowanego z miłości, stała się naszą Matką, Matką nadziei. To nie przypadek, że pobożność ludowa stale przyzywa Najświętszą Dziewicę jako Stella Maris [tj. Gwiazdę Morza], tytuł wyrażający pewną nadzieję, że w burzliwych wydarzeniach życia Matka Boża przychodzi nam na pomoc, wspiera nas i zaprasza do ufności i do zachowania nadziei.

W tym kontekście chciałbym przypomnieć, że Sanktuarium Matki Bożej z Gwadelupy, w Mieście Meksyku, przygotowuje się do obchodów 500. rocznicy pierwszego objawienia Dziewicy w 2031 r. Za pośrednictwem młodego Juana Diego, Matka Boża zaniosła rewolucyjne przesłanie nadziei, które do dziś powtarza wszystkim pielgrzymom i wiernym: „Czyż oto nie ma tu mnie, twojej Matki?”[20]. Podobne przesłanie jest odciśnięte w sercach wielu sanktuariów maryjnych na całym świecie, będących celem licznych pielgrzymów, którzy powierzają Matce Bożej swoje troski, cierpienia i oczekiwania. Niech w tym Roku Jubileuszowym sanktuaria będą świętymi miejscami gościnności i uprzywilejowanymi przestrzeniami budzenia nadziei. Zachęcam pielgrzymów przybywających do Rzymu, do zatrzymania się na modlitwie w sanktuariach maryjnych Wiecznego Miasta, aby oddać cześć Dziewicy Maryi i przyzywać Jej opieki. Jestem przekonany, że wszyscy, zwłaszcza cierpiący i udręczeni, będą mogli doświadczyć bliskości najczulszej z mam, która nigdy nie opuszcza swoich dzieci, która dla świętego Ludu Bożego jest „znakiem niezachwianej nadziei i pociechy”[21].

25. Podążając w kierunku Jubileuszu, powróćmy do Pisma Świętego i usłyszmy te słowa skierowane do nas: „My, którzyśmy się uciekli do uchwycenia zaofiarowanej nadziei, trzymajmy się jej jak bezpiecznej i silnej dla duszy kotwicy, która przenika poza zasłonę, gdzie Jezus poprzednik wszedł za nas” (Hbr 6, 18-20). Jest to mocne wezwanie, aby nigdy nie tracić nadziei, którą otrzymaliśmy, aby trzymać się jej, znajdując schronienie w Bogu.

Obraz kotwicy jest sugestywny, aby zrozumieć stabilność i bezpieczeństwo, jakie mamy pośród wzburzonych wód życia, jeśli polegamy na Panu Jezusie. Burze nigdy nie mogą zwyciężyć, ponieważ jesteśmy zakotwiczeni w nadziei łaski, która jest w stanie uczynić nas żyjącymi w Chrystusie, przezwyciężając grzech, lęk i śmierć. Ta nadzieja, znacznie większa niż satysfakcje każdego dnia i poprawa warunków życia, przenosi nas ponad próby i zachęca, byśmy szli, nie tracąc z oczu wielkości celu, do którego jesteśmy powołani – Nieba.

Zbliżający się Jubileusz będzie zatem Rokiem Świętym, charakteryzującym się nadzieją, która nie gaśnie, nadzieją w Bogu. Oby pomógł nam odkryć na nowo niezbędną ufność, zarówno w Kościele, jak i w społeczeństwie, w relacjach międzyludzkich, w stosunkach międzynarodowych, w promowaniu godności każdej osoby i w szacunku dla stworzenia. Niech świadectwo wiary będzie w świecie zaczynem prawdziwej nadziei, głoszeniem nowych niebios i nowej ziemi (por. 2 P 3, 13), gdzie możemy mieszkać w sprawiedliwości i zgodzie między narodami, dążąc do wypełnienia obietnicy Pana.

Pozwólmy, by od teraz pociągnęła nas nadzieja i pozwólmy, by przez nas stała się zaraźliwa dla tych, którzy jej pragną. Niech nasze życie mówi im: „Ufaj Panu, bądź mężny, niech się twe serce umocni, ufaj Panu!” (Ps 27, 14). Niech moc nadziei wypełnia naszą teraźniejszość, w ufnym oczekiwaniu na powrót Pana Jezusa Chrystusa, któremu niech będzie cześć i chwała teraz i na przyszłe wieki.

W Rzymie, u Świętego Jana na Lateranie, dnia 9 maja 2024, w uroczystość Wniebowstąpienia Pana naszego Jezusa Chrystusa, w dwunastym roku mego Pontyfikatu.

FRANCISZEK

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[1] Mowa 198, w: Wybór Mów, tłum. ks. Jan Jaworski, Warszawa 1973, s. 69.

[2] Por. Pieśń słoneczna, 6. 10, w: Pisma św. Franciszka z Asyżu. Teksty łacińskie i starowłoskie w polskim przekładzie, Kraków 2009, s. 237.

[3] Por. Misericordiae Vultus, Bulla ogłaszająca Nadzwyczajny Jubileusz Miłosierdzia, 1-3.

[4] Konst. duszp. Gaudium et spes o Kościele w świecie współczesnym (7 grudnia 1965), 4.

[5] Enc. Laudato si’ (24 maja 2015), 50.

[6] Por. Katechizm Kościoła Katolickiego, 2267.

[7] Enc. Laudato si’, 49.

[8] Enc. Fratelli tutti (3 października 2020), 262.

[9] Enc. Laudato si’, 51.

[10] Breviarium Fidei, Poznań 1989, s. 611.

[11] Tamże.

[12] Breviarium Fidei, dz. cyt., s. 608.

[13] Katechizm Kościoła Katolickiego, 1817.

[14] Konst. duszpast. Gaudium et spes, 21.

[15] Mszał Rzymski, 1. Prefacja o zmarłych.

[16] Wyznania, X, 28, tłum. Z. Kubiak, Warszawa 1992, s. 312-313.

[17] Enc. Spe salvi, 47.

[18] Katechizm Kościoła Katolickiego, 1472.

[19] List apost. Apostolorum limina (23 maja 1974), II.

[20] Nican Mopohua, 119.

[21] Sobór Wat. II, Konst. dogmat. Lumen gentium o Kościele, 68.

[00781-PL.01] [Testo originale: Latino]

Testo in lingua araba

SPES NON CONFUNDIT

الرَّجاءُ لا يُخَيِّبُ

 

مرسوم الدّعوة إلى اليوبيل العادي

لسنة 2025

فرنسيس

أسقف روما

خادم خدّام الله

إلى الّذين سيقرؤون هذه الرّسالة

ليملأ الرّجاء قلوبكم

1. «Spes non confundit»، "الرَّجاءُ لا يُخَيِّبُ" (رومة 5، 5). بعلامة الرّجاء، يفيض الرّسول بولس الشّجاعة في الجماعة المسيحيّة في روما. الرّجاء هو أيضًا الرّسالة المركزيّة لليوبيل القادم، الّذي يعلنه البابا، بحسب التّقليد القديم، كلّ خمس وعشرين سنة. أفكّر في جميع الحُجَّاج الممتلئين رجاءً الّذين سيأتون إلى روما ليتقدّسوا بالسّنة المقدّسة، وفي الّذين لا يستطيعون المجيء إلى مدينة الرَّسولَين بطرس وبولس، وسيحتفلون باليوبيل في الكنائس الخاصّة. ليكن اليوبيل للجميع لحظة لقاء شخصيّ وحيّ مع الرّبّ يسوع، "باب" الخلاص (راجع يوحنّا 10، 7. 9). معه، تحمل الكنيسة رسالتها وتنادي بها دائمًا، وفي كلّ مكان، وللجميع، أنّه هو "رجاؤنا" (1 طيموتاوس1، 1).

الجميع يرجو. في قلب كلّ إنسان رجاء هو رغبة وانتظار للخير، مع أنّه لا يعرف ما يحمله معه الغد. ومع ذلك، فإنّ عدم القدرة على التّنبّؤ بالمستقبل يؤدّي أحيانًا إلى ظهور مشاعر متضاربة: بين الثّقة والخوف، وبين الاطمئنان والإحباط، وبين اليقين والشّك. نلتقي مرارًا أشخاصًا محبطين ينظرون إلى المستقبل بشكّ وتشاؤم، وكأنّ لا شيء يمكن أن يقدِّم لهم السّعادة. ليكن اليوبيل فرصة للجميع لإحياء الرّجاء فيهم. وتساعدنا كلمة الله لنجد أسباب الرّجاء. لذلك، لِنسترشِدْ بما كتبه الرّسول بولس لمسيحيّي روما.

كلمة رجاء

2. "فلَمَّا بُرِّرْنا بِالإِيمان حَصَلْنا على السَّلامِ مع اللهِ بِرَبِّنا يسوعَ المَسيح، وبِه أَيضًا بَلَغْنا بِالإِيمانِ إِلى هٰذِه النِّعمَةِ الَّتي فيها نَحنُ قائِمون، ونَفتَخِرُ بِالرَّجاءِ لِمَجْدِ الله. [...] الرَّجاءُ لا يُخَيِّبُ صاحِبَه، لأَنَّ مَحَبَّةَ الله أُفيضَت في قُلوبِنا بِالرُّوحِ القُدُسِ الَّذي وُهِبَ لَنا" (رومة 5، 1-2. 5). في هذه الآيات نقاط تأمّل عديدة يقدّمها لنا القدّيس بولس. نحن نعلَم أنّ الرّسالة إلى أهل رومة تبدأ مرحلة جديدة حاسمة في نشاطه وبشارته بالإنجيل. حتّى تلك اللحظة قام بنشاطه في المنطقة الشّرقيّة من الإمبراطوريّة، والآن روما تنتظره بما تمثّله في نظر العالم: إنّه تحَدٍّ كبير يجب أن يواجهه باسم البشارة بالإنجيل الّذي لا يعرف الحواجز ولا الحدود. كنيسة روما لم يؤسّسها بولس، ولكنّه يشعر برغبة شديدة في الوصول إليها قريبًا، ليحمل إلى الجميع إنجيل يسوع المسيح، الّذي مات وقام من بين الأموات، وهي البشارة بالرّجاء الّذي يتمّم الوعود، ويقود إلى المجد وهو مؤسَّس على المحبّة، ولا يُخَيِّب.

3. في الواقع، الرّجاء يولد من المحبّة ويقوم على المحبّة المتدفّقة من قلب يسوع المطعون على الصّليب: "إِن صالَحَنا اللهُ بِمَوتِ ابنِه ونَحنُ أَعداؤُه، فما أَحرانا أَن نَنجُوَ بِحَياتِه ونَحنُ مُصالَحون" (رومة 5، 10). وتظهر حياته في حياة الإيمان فينا، الّتي تبدأ بالمعموديّة، وتنمو في الانقياد لنعمة الله، ولهذا يحييها الرّجاء، الّذي يجدِّده عمل الرّوح القدس ويثبِّتُه دائمًا.

في الواقع، هو الرّوح القدس، بحضوره الدّائم في مسيرة الكنيسة، الّذي يشعّ نور الرّجاء في المؤمنين: يبقيه مضاءً مثل شعلة لا تنطفئ أبدًا، ليمنح حياتنا العَون والقوّة. في الواقع، الرّجاء المسيحيّ لا يخدع ولا يُخيِّب، لأنّه مؤسَّس على اليقين بأنّ لا شيء ولا أحد يستطيع أن يَفصِلَنا عن محبّة الله: "مَن يَفصِلُنا عن مَحبَّةِ المسيح؟ أَشِدَّةٌ أَم ضِيقٌ أَمِ اضْطِهادٌ أَم جُوعٌ أَم عُرْيٌ أَم خَطَرٌ أَم سَيْف؟ [...] ولٰكِنَّنا في ذٰلِكَ كُلِّه فُزْنا فَوزًا مُبينًا، بِالَّذي أَحَبَّنا. وإِنِّي واثِقٌ بِأَنَّه لا مَوتٌ ولا حَياة، ولا مَلائِكَةٌ ولا أَصحابُ رِئاسة، ولا حاضِرٌ ولا مُستَقبَل، ولا قُوَّات، ولا عُلُوٌّ ولا عُمْق، ولا خَليقَةٌ أُخْرى، بِوُسعِها أَن تَفصِلَنا عن مَحبَّةِ اللهِ الَّتي في المَسيحِ يَسوعَ رَبِّنا" (رومة 8، 35. 37–39). ولهذا السّبب فإنّ هذا الرّجاء لا يستسلِم في الصّعاب: إنّه يرتكز على الإيمان ويتغذّى من المحبّة، ويسمح لنا بأن نستمرّ في الحياة. يقول القدّيس أغسطينس في هذا الصّدد: "مهما كان نوع الحياة، لا يمكن أن نعيش بدون هذه الأمور الثلاثة: الإيمان، والرّجاء، والمحبّة"[1].

4. القدّيس بولس واقعيّ جدًّا. إنّه يعلَم أنّ الحياة فيها أفراح وأحزان، وأنّ المحبّة تتعرّض للاختبار عندما تزداد الصّعاب ويبدو أنّ الرّجاء ينهار أمام المعاناة والألم. ومع ذلك فهو يقول: "نَفتَخِرُ بِشَدائِدِنا نَفْسِها لِعِلمِنا أَنَّ الشِّدَّةَ تَلِدُ الثَّبات، والثَّباتَ يَلِدُ فَضيلةَ الاِختِبار وفَضيلةَ الاِختِبار تَلِدُ الرَّجاء" (رومة 5، 3-4). بالنّسبة للرّسول، الشّدائد والآلام هي الظّروف النّموذجيّة للذين يبشِّرون بالإنجيل في بيئة يسودها سوء الفهم والاضطهاد (راجع 2 قورنتس 6، 3-10). ولكن في مثل هذه الظّروف، يمكن رؤية النّور من خلال الظّلام: إذ نكتشف أنّ القوّة المتدفّقة من صليب المسيح وقيامته هي الّتي تسند البشارة بالإنجيل. وهذا يؤدّي إلى تنمية فضيلة وثيقة الصّلة بالرّجاء: وهي الصَّبر. لقد اعتدنا حتّى الآن على أن نريد كلّ شيء وفورًا، في عالم صارت السّرعة فيه ميزة ثابتة. لم يَعُدْ لدينا وقت لنلتقي بعضنا مع بعض، وأحيانًا، حتّى في العائلات، يصبح من الصّعب أن نلتقي معًا ونتكلّم بهدوء. إنّ السّرعة قضت على الصّبر والترَوِّي، وفي هذا ضرَرٌ كبير للناس. إذ يسيطر على حياتنا القلق والعصبيّة وأحيانًا العنف غير المبرّر، وكلّ هذا يولِّد فينا عدم الرّضى والانغلاق.

وفي عصر ”الإنترنت“، حيث تمّ استبدال المكان والزّمان بـ ”هنا والآن“، لا مجال للصّبر. لو كنّا قادرين على النّظر إلى الخليقة والإعجاب بها، لأدركنا أهمّيّة الصّبر في الحياة. إذ ننتظر تعاقب الفصول بثمارها، ونراقب حياة الحيوانات ومراحل نمُوِّها، وننظر بعينَيْ القدّيس فرنسيس وبساطته، الّذي رأى في الخليقة عائلة كبيرة ودعا الشّمس ”أختي“ والقمر ”أخي“[2]، في نشيد المخلوقات، الّذي كتبه قبل 800 سنة. أن نكتشف الصّبر في الحياة مفيد جدًّا لنا وللآخرين. القدّيس بولس يشير مرارًا إلى الصّبر ليبيِّن أهمّيّة المثابرة والثّقة بما وعدنا به الله، ولكنّه يشهد خصوصًا أنّ الله يصبر علينا، هو "إِلهُ الثَّباتِ والعزاء" (رومة 15، 5). الصّبر، وهو أيضًا ثمرة الرّوح القدس، يحيي الرّجاء ويثبِّته كفضيلة وأسلوب حياة. لذلك، لنتعلَّم أن نطلب مرارًا نعمة الصّبر، الّذي هو ابن الرّجاء وهو في الوقت نفسه سنده.

مسيرة رجاء

5. من هذا التّشابك بين الرّجاء والصّبر، يبدو واضحًا أنّ الحياة المسيحيّة هي مسيرة، تحتاج أيضًا إلى لحظات قوّة تغذّي وتقوّي الرّجاء، وهو رفيق لا بديل له يُظهر الهدف من بعيد: وهو اللقاء مع الرّبّ يسوع. أحبّ أن أفكّر في أنّ طريق النّعمة، الّذي تحييه الرّوحانيّة الشّعبيّة، سبق الدّعوة إلى أوّل يوبيل سنة 1300. في الواقع، لا يمكننا أن ننسى الأشكال المختلفة الّتي من خلالها انسكبت نعمة المغفرة بغزارة على شعب الله المقدّس المؤمن: لنتذكّر، مثلًا، ”المغفرة“ الكبرى الّتي أراد القدّيس البابا سلستينوس الخامس أن يمنحها للذين يذهبون إلى بازيليكا القدّيسة مريم في كوليماجيو، في لاكويلا، يومَي 28 و29 آب/أغسطس 1294، ستّ سنوات قبل تأسيس البابا بونيفاشيوس الثّامن للسّنة المقدّسة. كانت الكنيسة تختبر من قبل نعمة الرّحمة في اليوبيل. وحتّى قبل ذلك، في سنة 1216، قَبِلَ البابا هونوريوس الثّالث ابتهال القدّيس فرنسيس الّذي طلب إليه منح الغفران للذين يزورون بورتسيونكولا ”Porziuncola“ (وهي كنيسة صغيرة تقع داخل بازيليكا القدّيسة مريم سيِّدة الملائكة البابويّة بالقرب من أسيزي) في أوّل يومَين من شهر آب/أغسطس. ويمكن قول الشّيء نفسه عن الحجّ إلى سانتياغو في كومبوستيلا (Santiago di Compostela): في الواقع، سمح البابا كاليستوس الثّاني، في سنة 1122، بالاحتفال باليوبيل في ذلك المزار في كلّ مرّة يصادف فيها عيد الرّسول يعقوب يوم الأحد. حسنٌ أن يستمرّ هذا الأسلوب ”المنتشر“ للاحتفال باليوبيل، لكي تسند قوّة مغفرة الله وترافق مسيرة الجماعات والشّعوب.

وليس من قبيل الصّدفة أن يكون الحجّ عنصرًا أساسيًّا في كلّ يوبيل. الانطلاق في مسيرة هو أمرٌ نموذجيّ للذين يبحثون عن معنى الحياة. فالحجّ سيرًا على الأقدام يشجّع بشكل كبير على أن نكتشف من جديد قيمة الصّمت والتّعب وما هو الأهمّ في الحياة. وفي السّنة المقبلة أيضًا، سيسير حجّاج الرّجاء على الطّرق القديمة والحديثة ليعيشوا خبرة اليوبيل بصورة حيّة. وكذلك، في مدينة روما نفسها، ستكون مسيرات إيمانيّة، بالإضافة إلى المسيرات التّقليديّة في سراديب الشّهداء وفي الكنائس السّبع. الانتقال من بلد إلى آخر، كما لو تمّ التّغلّب على الحدود، والعبور من مدينة إلى أخرى مع التّأمّل في الخليقة والأعمال الفنّيّة، يسمح للحاجّ بتقدير الخبرات والثّقافات المختلفة، ويحمل في داخله الجمال الّذي ينسجم مع الصّلاة، ويؤدّي إلى شكر الله على الأمور المدهشة الّتي صنعها. كنائس اليوبيل، على طول طريق الحجّ وفي مدينة روما، يمكن أن تكون واحات روحيّة حيث يمكن أن نقوّي وننعش مسيرة الإيمان فينا ونشرب من ينابيع الرّجاء، أوّلًا وقبل كلّ شيء، بالاقتراب من سرّ المصالحة، وهو نقطة الانطلاق الّتي لا غنَى عنها لمسيرة توبة حقيقيّة. في الكنائس الخاصّة، ينبغي إيلاء اهتمام خاصّ لتحضير الكهنة والمؤمنين لسرّ الاعتراف ولإمكانيّة وصول النّاس إلى السّرّ بشكل فردي.

في هذا الحجّ، أودّ أن أوجّه دعوة خاصّة إلى مؤمني الكنائس الشّرقيّة، ولا سيِّما إلى الّذين هم في شركة كاملة مع خليفة بطرس. هم الّذين تألّموا كثيرًا، ومرارًا حتّى الموت، بسبب أمانتهم للمسيح والكنيسة، يجب أن يشعروا بأنفسهم مرحَّبًا بهم بشكل خاصّ في روما الّتي هي أمّهم أيضًا والّتي تحافظ على ذكريات كثيرة لحضورهم. الكنيسة الكاثوليكيّة، استغنت بطقوسهم القديمة جدًّا، وبلاهوت وروحانيّة الآباء والرّهبان واللاهوتيّين، وتريد أن تُعرِب بصورة رمزيّة عن ترحيبها بهم وبإخوتهم وأخواتهم الأرثوذكس، في عصر يعيشون فيه أصلًا حجًّا هو درب صليب، أُجبِروا فيه مرارًا على ترك أراضيهم الأصليّة، وأراضيهم المقدّسة، الّتي طردهم منها نحو بلدان أكثر أمانًا العنف وعدم الاستقرار. بالنّسبة لهم، فإنّ خبرتهم بأنّ الكنيسة تحبّهم، ولن تتخلّى عنهم، بل ستتبعهم أينما ذهبوا، يزيد معنى اليوبيل وضوحًا.

6. السّنة المقدّسة 2025 هي استمراريّة لأحداث النّعمة السّابقة. في اليوبيل العادي الأخير، مررنا عتبة الذّكرى السّنويّة الألفيّة لميلاد يسوع المسيح. بعد ذلك، في 13 أذار/مارس 2015، أعلنتُ يوبيلًا استثنائيًّا بهدف إظهار ”وجه رحمة“ الله الّذي يسمح لنا بلقائه[3]، وهو إعلان رئيسيّ للإنجيل لكلّ شخص وفي كلّ عصر. لقد حان الآن وقت يوبيل جديد، فيه نفتح الباب المقدّس من جديد على مصراعَيه لنقدّم خبرة محبّة الله الحيّة، الّتي تفيض في القلب الرّجاء الأكيد بالخلاص في المسيح. وفي الوقت نفسه، ستوجِّه هذه السّنة المقدّسة المسيرة نحو ذكرى أساسيّة أخرى لجميع المسيحيّين: في سنة 2033، سيتمّ الاحتفال بألفي سنة بعد سنة الفداء الّذي تمّ بآلام وموت وقيامة الرّبّ يسوع. وهكذا، فإنّنا أمام مسار يتميّز بمراحل كبيرة، حيث نعمة الله تتقدّم الشّعب وترافقه وهو يسير بغَيرة في الإيمان، وباجتهاد في المحبّة، وبثبات في الرّجاء (راجع 1 تسالونيقي1، 3).

استنادًا على هذا التّقليد العريق، وباليقين بأنّ سنة اليوبيل هذه يمكن أن تكون خبرة مكثّفة للنّعمة والرّجاء للكنيسة جمعاء، أحدِّد بأنّ الباب المقدّس لبازيليكا القدّيس بطرس في الفاتيكان سيتمّ فتحه في 24 كانون الأوّل/ديسمبر 2024، وبذلك يبدأ اليوبيل العادي. وفي يوم الأحد التّالي، 29 كانون الأوّل/ ديسمبر 2024، سأفتح الباب المقدّس لكاتدرائيَّتي، كاتدرائيّة القدّيس يوحنّا في اللاتران، الّتي نحتفل في 9 تشرين الثّاني/نوفمبر من هذه السّنة بالذّكرى الـ 1700 لتكريسها. لاحقًا، في 1 كانون الثّاني/يناير 2025، في عيد القدّيسة مريم البتول والدة الله، سيتمّ فتح الباب المقدّس لبازيليكا كنيسة القدّيسة مريم الكبرى البابويّة. أخيرًا، في يوم الأحد 5 كانون الثّاني/يناير، سيتمّ فتح الباب المقدّس لبازيليكا القدّيس بولس البابويّة خارج الأسوار. سيتمّ إغلاق هذه الأبواب المقدّسة الثّلاثة الأخيرة بحلول يوم الأحد 28 كانون الأوّل/ديسمبر من السّنة نفسها.

وأُحدِّد أيضًا: في يوم الأحد 29 كانون الأوّل/ديسمبر 2024، في جميع الكاتدرائيّات والكونكاتدرائيّات، يَحتفل أساقفة الأبرشيات بالافخارستيّا المقدّسة وفيها يفتتحون رسميًّا سنة اليوبيل، وفقًا للطّقوس الّتي سيتمّ إعدادها لهذه المناسبة. بالنّسبة للاحتفال في الكنيسة الكونكاتدرائيّة، يجوز أن يحلّ محلّ الأسقف منتدَبٌ معيَّن لهذا الغرض. الحجّ من الكنيسة، الّتي يتمّ اختيارها للتجمّع، إلى الكاتدرائيّة، هو علامة مسيرة الرّجاء الّتي تنيرها كلمة الله، وتوحِّد المؤمنين. وفيها يتمّ قراءة بعض فقرات هذه الوثيقة ويُعلن للشّعب غفران اليوبيل، الّذي يمكن الحصول عليه حسب الإرشادات الواردة في الرّتبة نفسها للاحتفال باليوبيل في الكنائس الخاصّة. خلال السّنة المقدّسة، الّتي ستنتهي في الكنائس الخاصّة يوم الأحد 28 كانون الأوّل/ديسمبر 2025، يجب الاهتمام لكي يتمكّن شعب الله من المشاركة الكاملة واستقبال إعلان الرّجاء بنعمة الله والعلامات الّتي تشهد على فعّاليّته.

وسيُختَتَم اليوبيل العادي بإغلاق الباب المقدّس لبازيليكا القدّيس بطرس البابويّة في الفاتيكان في 6 كانون الثّاني/يناير 2026، في عيد ظهور الرّبّ يسوع. لِيَصِلْ نور الرّجاء المسيحيّ إلى كلّ إنسان، كرسالة محبّة الله الموجَّهة إلى الجميع! وَلْتَكُنِ الكنيسة شاهدة أمينة لهذا الإعلان في كلّ أنحاء العالم!

علامات الرّجاء

7. بالإضافة إلى استمداد الرّجاء من نعمة الله، نحن مدعوّون أيضًا إلى أن نكتشفه في علامات الأزمنة الّتي يقدّمها الله لنا. وكما يقول المجمع الفاتيكانيّ الثّاني: "إنَّ مِن واجبَ الكنيسة، كي تقومَ بهذه المهمّةِ أحَسَنَ قِيام، أن تتفحَّصَ في كلِّ آنٍ علاماتَ الأزمنةِ وتُفَسِّرَها على ضوءِ الإنجيل، فتستطيعَ أن تُجيبَ بصورةٍ مُلائمةٍ لكلِّ جيلٍ، على أسئلةِ النّاس الدّائمةِ حولَ مَعنى الحياةِ الحاضرةِ والمستقبلة، وحول العلاقاتِ القائمةِ بينهما"[4]. لذلك من الضّروريّ الانتباه إلى الصّلاح الكثير الموجود في العالم حتّى لا نقع في تجربة اعتبار أنفسنا غارقين في الشّرّ والعنف. وعلامات الأزمنة، الّتي تتضمّن أشواق قلب الإنسان، المحتاج إلى حضور الله الخلاصيّ، تقتضي أن تتحوّل إلى علامات رجاء.

8. أوّل علامة رجاء هي السّلام في العالم، الّذي يجد نفسه مرّة أخرى غارقًا في مأساة الحرب. نسيت البشريّة مآسي الماضي، وتتعرّض اليوم لمحنة جديدة وصعبة، فيها اضطهاد شعوب كثيرة وعنف وحشيّ. ماذا ينقص لهذه الشّعوب بعد، وماذا لم تتحمَّل من قبل؟ كيف يمكن ألّا تبلغ صرخاتهم اليائسة إلى قادة الأمم، فتدفعهم إلى وضع حدّ لصراعات إقليميّة كثيرة، وهم يدركون العواقب الّتي يمكن أن تنشأ عنها على المستوى العالميّ؟ هل من المبالغة أن نحلم بأن تصمت الأسلحة وتتوقّف عن جلب الدّمار والموت؟ اليوبيل يذكّر بأنّ "السَّاعينَ إِلى السَّلام" هم الّذين يُدعَون "أبناء الله" (متّى 5، 9). الحاجة إلى السّلام مسؤوليّة تهمّ الجميع وتقتضي القيام بمشاريع عمليّة. لذلك، لا تَغِبْ الجهود الدّبلوماسيّة لكي توفِّر بشجاعة وإبداع أماكن للتفاوض لتحقيق سلام دائم.

النّظر إلى المستقبل برجاء يعني أيضًا وجود رؤية للحياة مليئة بالحماس لنقل الحياة. للأسف، يجب أن نلاحظ بحزن أنّ هذه الرّؤية مفقودة في كثير من الحالات. والنّتيجة الأولى هي فقدان الرّغبة في نقل الحياة. بسبب وتيرة الحياة المتسرّعة حتّى الهَوَج، والمخاوف بشأن المستقبل، وانعدام ضمانات العمل والحماية الاجتماعيّة الكافية، والنّماذج الاجتماعيّة التي يتصدَّرها البحث عن الرّبح بدلًا من الاهتمام بالعلاقات بين النّاس، نشاهد في مختلف البلدان انخفاضًا مقلقًا في المواليد. عكس ذلك، في مجتمعات أخرى، "الشّكوى من الزّيادة السّكانيّة، وليس من النّزعة الاستهلاكيّة المبالغ فيها أو الانتقائيّة الّتي يمارسها البعض، هو نوع من الهروب من مواجهة المشاكل"[5].

9. الانفتاح على الحياة مع أمومة وأبوّة مسؤولة هو المشروع الّذي رسمه الخالق في قلوب وأجساد الرّجال والنّساء، وهو رسالة أوكلَها الله إلى الأزواج وإلى محبّتهم بعضهم لبعض. وبالإضافة إلى الالتزام التّشريعيّ للدّول، من المُلِحّ ألّا يغيب التأييد المقنع من الجماعات المؤمنة ومن المجتمع المدنيّ بأكمله بجميع مكوّناته، لأنّ رغبة الشّباب في ”إنجاب أبناء وبنات جدد“، ثمرة لخصوبة حبّهم، تضمن المستقبل في كلّ مجتمع، وهي مسألة رجاء: تعتمد على الرّجاء وتَلِد الرّجاء.

لذلك، لا يمكن للمجتمع المسيحيّ أن يكون في المرتبة الثّانية بعد أيٍّ كان، في دعم ضرورة حلف الرّجاء الاجتماعيّ، وليكن عمليًّا لا أيديولوجيًّا، يعمل من أجل مستقبل يتميّز بابتسامات الأطفال الكثيرين الّذين يملأون أسِرَّةِ المولودين الفارغة الكثيرة الآن في أنحاء كثيرة من العالم. والجميع، في الواقع، يحتاجون إلى أن يستعيدوا فرحة الحياة، لأنّ الإنسان، المخلوق على صورة الله ومثاله (راجع تكوين 1، 26)، لا يمكنه أن يكتفي بالبقاء وبالشّيخوخة في الحياة، وبالتّكيّف مع الحاضر وبالسّماح لنفسه بالاكتفاء بالأمور الماديّة فقط. هذا يحصرنا في الفرديّة ويفسد الرّجاء فينا، ويولِّد حزنًا يعشّش في القلب، وحِدَّة في المزاج وانعدام الصّبر.

10. في سنة اليوبيل، نحن مدعوّون إلى أن نكون علامات رجاء عمليّة للإخوة والأخوات الكثيرين الّذين يعيشون في ظروف صعبة. أفكّر في السّجناء الّذين حُرِموا الحرّيّة، والّذين يختبرون كلّ يوم، بالإضافة إلى قسوة السّجن، الفراغ العاطفيّ والقيود المفروضة، وفي بعض الحالات، عدم الاحترام. أقترح على الحكومات أن تقوم في سنة اليوبيل بمبادرات تعيد إليهم الرّجاء، مثل أشكال من العفو أو تخفيف الأحكام الّتي تهدف إلى مساعدة الأشخاص على استعادة الثّقة بأنفسهم وبالمجتمع، أو مسارات إدماج من جديد في المجتمع، والّتي تتّفق وتلتزم عمليًّا بمراعاة القوانين.

إنّها دعوة قديمة، تأتي من كلمة الله، وتحتفظ بكلّ قيمتها وحكمتها في القيام بأعمال رحمة وتحرير تسمح بأن يبدأوا حياتهم من جديد: "قَدِّسوا سَنةَ الخَمْسين ونادوا بإِعْتاقٍ في الأَرضِ لِجَميعِ أَهْلِها" (الأحبار 25، 10). وما ثبَّتته الشّريعة الموسويّة تبَنَّاه أشعيا النّبي. قال: "مَسَحَنى الرَّبّ وأَرسَلَني لِأُبشِّرَ الفُقَراء وأَجبُرَ مُنكَسِري القُلوب وأُنادِيَ بِإِفْراجٍ عنَ المَسبِيِّين وبتَخلِيَةٍ لِلمَأسورين لِأُعلِنَ سَنَةَ رِضًا عِندَ الرّبّ" (أشعيا 61، 1–2). وهذه كلمات قالها يسوع في بداية رسالته، فأعلن في نفسه تحقيق ”سنة نعمة الرّبّ“ (راجع لوقا 4، 18-19). في كلّ ركن من أركان الأرض، يجب على المؤمنين، وخاصّة الرّعاة، أن يعملوا بهذه التّوجيهات، فيكونوا صوتًا واحدًا يدعو بشجاعة إلى توفير أوضاع كريمة للمسجونين، واحترام حقوق الإنسان، وقبل كلّ شيء إلغاء عقوبة الإعدام، وهو حكم يتعارض مع الإيمان المسيحيّ ويقضي على أيّ رجاء في المغفرة والتّجدّد.[6] لكي أقدّم للسّجناء علامة قرب عمليّة، أودّ بنفسي أن أفتح بابًا مقدّسًا في السّجن، ليكون رمزًا لهم يدعوهم إلى أن ينظروا إلى المستقبل برجاء والتزام متجدّد بالحياة.

11. وينبغي تقديم علامات الرّجاء للمرضى سواء كانوا في البيت أو في المستشفى. فَلْتَجِدْ آلامهم راحة في قرب الأشخاص الّذين يزورونهم وفي المودّة الّتي يَلقَوْنها منهم. أعمال الرّحمة هي أيضًا أعمال رجاء، توقظ مشاعر الشّكر في القلوب. ولْيَبلُغْ الامتنان والشّكر إلى جميع العاملين في مجال الصّحّة الّذين يقومون بمهمّتهم برعاية واهتمام بالمرضى والأضعفين، في ظروف صعبة غالبًا.

ولا يَغِبْ الاهتمام الشّامل تجاه الّذين يجدون أنفسهم في ظروف معيشيّة صعبة بشكل خاصّ، ويعانون من ضعف أنفسهم، خاصّة إن كانوا يعانون من أمراض أو إعاقات تحُدُّ بشكل كبير من استقلاليّتهم الشّخصيّة. فالاهتمام بهم بالنّسبة لهم هو نشيد للكرامة الإنسانيّة، ونشيد رجاء يتطلّب انضمام المجتمع كلّه إليه.

12. علامات الرّجاء يحتاج إليها أيضًا هم أنفسهم الّذين يمثّلونها: أي الشّباب. للأسف، إنّهم يرَون مرارًا أحلامهم تنهار. ولا يمكننا أن نخيِّبهم ونحبطهم: فالمستقبل يعتمد على حماسهم واندفاعهم. حسنٌ أن نراهم يطلقون طاقاتهم، مثلًا عندما يشَمِّرون عن سواعدهم ويلتزمون العمل التّطوّعيّ في حالات الكوارث والمصاعب الاجتماعيّة. ومن المحزن أن نرى شبابًا بلا رجاء. ومن ناحية أخرى، عندما يكون المستقبل غير مؤكّد ولا مكان فيه للأحلام، وعندما لا تفضي الدّراسة إلى أيّة فرصة في الحياة، وعندما يكون نقص في العمل، وفي مِهَن مستقرّة، كلّ هذا يوشك أن يقضي على الرّغبات فيهم، ومِن المُحَتَّم إذّاك أن يعيشوا الحاضر في الكآبة والملل. فيهاجمهم وَهْمُ المخدّرات ومخالفة القوانين والبحث عن الزّائل، ويخلق البلبلة فيهم أكثر من غيرهم ويخفي جمال الحياة ومعناها، ما يجعلهم ينزلقون إلى هاوية مظلمة ويدفعهم إلى أن يقوموا بأعمال تدمير لذاتهم. لهذا السّبب، اليوبيل للكنيسة هو فرصة انطلاق تجاههم: بمحبّة متجدّدة، لنهتمّ بالشّباب، والطّلاب، والخُطَّاب، والأجيال الشّابّة! القرب من الشّباب، فرح ورجاء الكنيسة والعالم!

13. ولن تغيب علامات الرّجاء للمهاجرين الّذين يتركون أراضيهم بحثًا عن حياة أفضل لأنفسهم ولعائلتهم. فلا نقف عائقًا أمام توقّعاتهم بسبب أحكام مسبقة وإنغلاقات. بل لِنُرَحِّبْ بهم ونستقبلهم ونفتح أذرعنا لكلّ واحد منهم بحسب كرامته، ولْنَقُمْ بذلك بمسؤوليّة، حتّى لا يُحرَم أحد من حقِّه في بناء مستقبل أفضل. المنفيّون والنّازحون واللاجئون، الّذين أجبرتهم الأحداث والصّراعات الدّوليّة على الفرار لتجنّب الحروب والعنف والتّمييز، يجب أن يلقَوا الأمن والعمل والتّعليم، وهي وسائل ضروريّة لإدماجهم في السّياق الاجتماعيّ الجديد.

لتكن الجماعة المسيحيّة دائمًا مستعدّة للدفاع عن حقوق الأضعفين. افتحوا أبواب التّرحيب واسعة، حتّى لا يغيب الرّجاء عند أحد بوجود حياة أفضل. لتتردّد كلمة الرّبّ يسوع في قلوبنا، الّذي قال، في مثل الدّينونة العظمى: "كُنتُ غَريبًا فآويتُموني"، لأنّ "كُلَّما صَنعتُم شَيئًا مِن ذلك لِواحِدٍ مِن إِخوَتي هؤُلاءِ الصِّغار، فلي قد صَنَعتُموه" (متّى 25، 35. 40).

14. المسِنّون، الّذين يشعرون مرارًا بالعزلة والخذلان، يستحقّون أن يُعطَوا علامات رجاء. إنّهم كنز، ويجب تقديرهم، وتقدير خبرة حياتهم، والحكمة الّتي يقدّمونها والمساهمة الّتي يمكنهم تقديمها، كلّ هذا التّزام للجماعة المسيحيّة والمجتمع المدنيّ، المدعوّين إلى العمل معًا من أجل التّحالف بين الأجيال.

أتوجّه بفكرة خاصّة إلى الأجداد والجدّات، الّذين ينقلون الإيمان وحكمة الحياة إلى الأجيال الشّابّة. لِيَكُنْ شكر الأبناء ومحبّة الأحفاد سندًا لهم، ففيهم يجدون الجذور والفَهم والتّشجيع.

15. أطلب الرّجاء بكلّ قلبي لمليارات الفقراء، الّذين يفتقرون مرارًا إلى ضروريّات الحياة. أمام تتابع موجات الفقر الجديدة باستمرار، هناك خطر أن نعتاد ونستسلم للواقع. لا يمكننا أن نحوِّل نظرنا عن مثل هذه المواقف المأساويّة، الّتي نجدها الآن في كلّ مكان، وليس فقط في مناطق معيّنة من العالم. إنّنا نلتقي كلّ يوم بأشخاص فقراء أو يصيرون فقراء، وأحيانًا يمكن أن يكونوا جيراننا. أحيانًا ليس لديهم سكَنٌ ولا طعام كافٍ ليومهم. يتألّمون من الإقصاء واللامبالاة من قبل الكثيرين. إنّه شكّ وعثرة في عالم يتمتّع بموارد هائلة، تُخصَّص إلى حدّ كبير للتسلّح، بينما الفقراء هم "الغالبيّة" [...]، مليارات البشر. واليوم يُذكَرُون في النّقاشات السّياسيّة والاقتصاديّة الدّوليّة، ولكن في أفضل الأحوال يبدو مرارًا أنّ مشاكلهم تُطرحُ كملحق، وكأنّها مسألة تُضاف تقريبًا كفرض أو تُطرَح بطريقةٍ هامشيّة، هذا إن لم تُعتبر مجرّد ”ضرّر جانبيّ“. في الواقع، عند التّنفيذ العمليّ، تحتلّ مرارًا مشاكلهم المكان الأخير"[7]. لا ننسَ: إنّ الفقراء هم في الغالب ضحايا، وليسوا مذنبين.

نداء من أجل الرّجاء

16. تكرارًا لكلمة الأنبياء القديمة، يذكّرنا اليوبيل أنّ خيرات الأرض ليست مخصّصة لعدد قليل من النّاس المميَّزين، بل للجميع. من الضّروري أن يكون الأغنياء أسخياء ويتعرّفون على وجوه إخوتهم المحتاجين. أفكّر بشكل خاصّ في الّذين ينقصهم الماء والطّعام: الجوع آفة وشكٌّ كبير في جسم إنسانيّتنا ويدعو الجميع إلى أن يقوموا بمراجعة للضّمير. أجدّد ندائي حتّى يُوَجَّهَ "المال الّذي يُستخدَم في السّلاح والنّفقات العسكريّة الأخرى، لإنشاء صندوق عالميّ، من أجل القضاء على الجوع نهائيًّا وتنمية الدّول الفقيرة، حتّى لا يلجأ سكّانها إلى حلول عنيفة أو مخادعة، ولا يحتاجوا إلى مغادرة بلادهم بحثًا عن حياة كريمة"[8].

أودّ أن أوجّه دعوة صادقة أخرى في ضوء سنة اليوبيل: إنّها موجّهة إلى الدّول الغنيّة، لكي تُدرك خطورة القرارات الكثيرة التي اتّخذتها وتقرّر أن تعفي من الدّيون البلدان التي لن تستطيع أبدًا أن تسدّدها. هذه المبادرة، قبل أن تكون مسألة سخاء، هي مسألة عدل، تفاقمت اليوم بسبب شكل جديد من أشكال الخطيئة الّذي صِرنا نراه: "هناك في الواقع ”دَينٌ إيكولوجيّ“ حقيقيّ، بالأخصّ بين الشّمال والجنوب، يرتبط باختلالات تجاريّة مقرونة بتداعيات إيكولوجيّة، وكذلك باستهلاكٍ غير متناسبٍ للمواردِ الطّبيعيةِ مُمَارس تاريخيًّا من قبل بعض الدّول"[9]. يعلّمنا الكتاب المقدّس، أنّ الأرض لله ونحن كلّنا نعيش عليها مثل "نُزَلاء وضُيوف" (الأحبار 25، 23). إن أردنا حقًّا أن نمهّد طريق السّلام في العالم، فلنلتزم بأن نعالج الأسباب البعيدة للظّلم، ولنعِد النّظر في الدّيون المتعسّفة والّتي لا يمكن تسديدها، ولنُشبع الجياع.

17. في أثناء اليوبيل القادم، سيكون هناك ذكرى مهمّة جدًّا للمسيحيّين كلّهم. في الواقع، سيكون مرور 1700 سنة على الاحتفال بالمجمع المسكونيّ الأوّل الكبير، وهو مجمع نيقيَة. من الجيّد أن نتذكّر أنّه منذ العصور الرّسوليّة، كان الرّعاة يجتمعون في مناسبات مختلفة في جمعيّات، ليناقشوا موضوعات عقائديّة ومسائل نظاميّة. كَثُرَت السّينودسات في القرون الأولى الّتي تميَّزت بالإيمان، سواء في الشّرق أم في الغرب المسيحيّ، وأظهرت كم هو مهمّ الحفاظ على وَحدة شعب الله وإعلان الإنجيل بأمانة. يمكن أن تكون سنة اليوبيل فرصة مهمّة لكي تعطي المعنى الحقيقيّ لهذه الطّريقة السّينوديّة، الّتي ترى الجماعة المسيحيّة اليوم أنّها طريقة ضروريّة لإعلان بشارة الإنجيل: المعمّدون كلّهم، وكلّ واحدٍ بموهبته وخدمته، كلّهم يحملون مسؤوليّة مُشتركة، حتّى يشهدوا لعلامات الرّجاء المتعدّدة لحضور الله في العالم.

كانت مهمّة مجمع نيقيَة الحفاظ على الوَحدة، الّتي كانت مهدّدة بشكل خطير بسبب إنكار ألوهيّة يسوع المسيح ومساواته مع الآب. حَضَرَ حوالي ثلاثمائة أسقف، اجتمعوا في القصر الإمبراطوريّ بدعوة من الإمبراطور قسطنطين في 20 أيّار/مايو 325. بعد مناقشات عديدة، اعترف الجميع، وبنعمة الرّوح القدس، بقانون الإيمان الّذي ما زلنا نعترف به حتّى اليوم في الاحتفال الافخارستيّ يوم الأحد. أراد آباء المجمع أن يبدأوا هذا القانون باستخدام عبارة "نؤمن"[10] لأوّل مرّة، ليشهدوا على أنّ في تعبير ”نحن“ كلّ الكنائس كانت تجد نفسها في شركة، وكلّ المسيحيّين كانوا يعترفون بالإيمان نفسه.

مجمع نيقيَة هو مرحلة مهمّة في تاريخ الكنيسة. تذكاره يدعو المسيحيّين إلى أن يتّحدوا في التّسبيح والشّكر للثّالوث الأقدس، وخاصّة ليسوع المسيح، ابن الله، "مُساوٍ للآبِ في الجَّوهَرِ"[11]، الّذي كشف لنا سرّ المحبّة هذا. مجمع نيقيَة هو أيضًا دعوة لجميع الكنائس والجماعات الكنسيّة لكي تتقدّم في مسيرتها نحو الوَحدة المنظورة، ولا تتعب من البحث عن طرق مناسبة تتّفق اتّفاقًا تامًّا مع صلاة يسوع: "فَلْيكونوا بِأَجمَعِهم واحِدًا: كَما أَنَّكَ فِيَّ، يا أَبَتِ، وأَنا فيك، فَلْيكونوا هُم أَيضًا فينا، لِيُؤمِنَ العالَمُ بِأَنَّكَ أَنتَ أَرسَلتَني" (يوحنّا 17، 21).

نُوقِشَ في مجمع نيقيَة أيضًا تاريخ عيد الفصح. وفي هذا الموضوع، لا تزال هناك اليوم أيضًا مواقف مختلفة، تمنع من الاحتفال بحدث الإيمان التّأسيسيّ في اليوم نفسه. ويصادف، صدفة من العناية الإلهيّة، أنّ الاحتفال بالعيد سيكون معًا في سنة 2025. لِيَكُنْ هذا الحدث دعوة للمسيحيّين جميعهم، في الشّرق وفي الغرب، ليقوموا بخطوة حاسمة نحو الوَحدة، حول تاريخ مشترك لعيد الفصح. حسنٌ أن نُذكِّرَ أنّ الكثيرين لم يَعُد لديهم عِلم بجدالات الماضي، ولا يفهمون كيف يمكن أن يكون هناك انقسامات في هذا الصّدد.

مؤسّسين على الرّجاء

18. الرّجاء، مع الإيمان والمحبّة، يشكّل ثلاثيّة ”الفضائل اللاهوتيّة“، الّتي تعبّر عن جوهر الحياة المسيحيّة (راجع 1 قورنتس 13، 13؛ 1 تسالونيكي 1، 3). في ديناميكيّتها الّتي لا تنفصل، الرّجاء هو الّذي يُوَجِّه، إن صحّ التّعبير، ويشير إلى الاتّجاه والهدف لحياة الإيمان. لذلك يدعونا بولس الرّسول إلى أن نكون "في الرَّجاءِ فَرِحين وفي الشِّدَّةِ صابِرين وعلى الصَّلاةِ مُواظِبين" (رومة 12، 12). نَعم، نحن بحاجة لأن ”تفيض نفوسنا رجاءً“ (راجع رومة 15، 13) لكي نشهد بطريقة صادقة وجذّابة للإيمان والمحبّة اللذَين نحملهما في قلوبنا، ولكي يكون الإيمان فَرِحًا، والمحبّة مندفعة، ولكي يستطيع كلّ واحدٍ أن يقدّم ولو ابتسامة فقط، أو علامة صداقة، أو نظرة أخويّة، أو إصغاء صادقًا، أو خدمة مجّانيّة، ونحن نعلَم أنّ ذلك يمكن أن يصير، في روح يسوع، بذرة رجاء مثمرة للذين يَرَوْنها منّا. وما هو أساس رجائنا؟ لنفهم ذلك لننظر ما هي أسباب الرّجاء. (راجع 1 بطرس 3، 15).

19. "أؤمن بالحياة الأبديّة"[12]: هكذا نعترف بإيماننا، والرّجاء المسيحيّ يجد في هذه الكلمات مفصلًا أساسيًّا. في الواقع، الرّجاء "هو الفضيلة الإلهيّة الّتي بها نرغب [...] في الحياة الأبديّة، ونرى فيها سعادتنا"[13]. قال المجمع المسكونيّ الفاتيكانيّ الثّاني: "عندما يغيب الأساس الدّينيّ والرّجاء في الحياة الأبديّة، تُجرح كرامة الإنسان جرحًا بليغًا كما نراه غالبًا في أيّامنا. ويبقى لغزَ الحياة والموت والخطيئة والألَم دون حلٍّ: وهكذا غالبًا ما يهوي البشر في هوّة اليأس"[14]. بينما نحن، وبفضل الرّجاء الّذي بِهِ خُلِّصنا، إن نظرنا إلى الوقت الّذي يمرّ، نحن متأكّدون بأنّ تاريخ البشريّة وتاريخ كلّ واحدٍ منّا لا يسير نحو نقطةٍ عمياء أو هاوية مُظلمة، بل هو موجّه نحو اللّقاء مع رَبِّ المَجد. لذلك، لِنَحْيَ في انتظار عودته وعلى رجاء أن نحيا فيه إلى الأبد: وبهذا الرّوح نجعل من صلاة المسيحيّين الأوائل المؤثّرة صلاتنا، وبها خُتِمَ الكتاب المقدّس: "تَعالَ، أَيُّها الرَّبُّ يَسوع" (رؤيا يوحنّا 22، 20).

20. يسوع الّذي مات وقام من بين الأموات هو قلب إيماننا. لمّا عَبَّرَ القدّيس بولس عن هذا المضمون بكلمات قليلة، واستخدم أربعة أفعال فقط، نَقَلَ إلينا ”جوهر“ رجائنا: "سَلَّمتُ إِلَيكم قبلَ كُلِّ شَيءٍ ما تَسَلَّمتُه أَنا أَيضًا، وهو أَنَّ المسيحَ ماتَ مِن أَجْلِ خَطايانا كما وَرَدَ في الكُتُب، وأَنَّه قُبِرَ وقامَ في اليَومِ الثَّالِثِ كما وَرَدَ في الكُتُب، وأَنَّه تَراءَى لِصَخْرٍ فالاِثْنَي عَشَر" (1 قورنتس 15، 3-5). المسيح مات، وقُبر، وقام، وتراءى. مَرَّ من أجلنا من خلال مأساة الموت. ومحبّة الآب أقامته من بين الأموات بقوّة الرّوح القدس، وجعلت من إنسانيّته باكورة الأبديّة لخلاصنا. الرّجاء المسيحيّ هو هذا: أمام الموت، وحيث يبدو أنّ كلّ شيء قد انتهى، نحن متأكّدون أنّ "الحياة لا تزول، بل تتبدّل"[15]، وذلك بفضل المسيح، وبنعمته الّتي أعطيت لنا في المعموديّة. في الواقع، نُدفن مع المسيح في المعموديّة، وننال فيه، هو الرّبّ القائم من بين الأموات، عطيّة الحياة الجديدة، الّتي تهدم جدار الموت، وتجعل منه ممرًّا نحو الأبديّة.

وإن كان الموت واقعًا لا يُناقَش، وهو انفصالٌ مؤلم يُجبرنا على أن نترك أعزَّ مشاعرنا، فإنّ اليوبيل يتيح لنا الفرصة لأن نكتشف من جديد، وبشكرٍ كبير، عطيّة الحياة الجديدة الّتي قبلناها في المعموديّة، والقادرة أن تبدّل المأساة. من المهمّ أن نعيد التّفكير، في سياق اليوبيل، كيف تمّ فَهمُ هذا السّرّ منذ القرون الأولى للإيمان. مثلًا، ولمدّة طويلة من الزّمن، بنى المسيحيّون جُرن المعموديّة على شكل مُثَمَّن، واليوم أيضًا، يمكننا أن نشاهد أجران معموديّة قديمة كثيرة تحتفظ بهذا الشّكل، مثل جرن معموديّة القدّيس يوحنّا في اللاتران في روما. يدلّ هذا الشّكل إلى أنّنا نحتفل في جرن المعموديّة باليوم الثّامن، أيّ يوم القيامة، واليوم الّذي ليس في الزّمن، يتجاوز نمط الزّمن المُعتاد، المحدّد بمدّة أسبوع، وبالتّالي، يفتح دورة الزّمن على البُعد الأبديّ، وعلى الحياة الّتي تدوم إلى الأبد: هذا هو الهدف الّذي إليه نسعى في حَجِّنَا الأرضيّ (راجع رومة 6، 22).

أكبر شهادة لهذا الرّجاء، يقدّمها لنا الشّهداء، الّذين استطاعوا أن يتخلّوا عن الحياة نفسها هنا حتّى لا يخونوا ربّهم، وذلك بثباتهم في إيمانهم بالمسيح القائم من بين الأموات. إنّهم حاضرون في كلّ العصور، وهم كثيرون في أيّامنا هذه، وربّما أكثر من أيّ وقتٍ مضى، إنّهم يعترفون بالحياة الّتي لا نهاية لها. وإنّنا بحاجة إلى شهادتهم ونحافظ عليها حتّى يكون رجاؤنا مثمرًا.

هؤلاء الشّهداء، الّذين ينتمون إلى تقاليد مسيحيّة مختلفة، هم أيضًا بذور الوَحدة لأنّهم يعبِّرون عن مسكونيّة الدّم. لذلك، خلال اليوبيل، أرغب بشدّة في ألّا يغيب احتفال مسكونيّ ليعيد إظهار غنى شهادة هؤلاء الشّهداء.

21. إذًا، ماذا سيحلّ بنا بعد الموت؟ مع يسوع، وبعد هذه العتبة، توجد الحياة الأبديّة، الّتي تقوم بالشّركة والوَحدة الكاملة مع الله، والمشاهدة والمشاركة في محبّته اللامتناهية. بقَدرِ ما نعيش الرّجاء الآن، سيكون بعد ذلك حقيقة نحياها. كتب القدّيس أغسطينس في هذا الصّدد: "عندما أتّحد بك بكلّ كياني، لن يكون ألم وحزن فيَّ في أيّ مكان. ستكون حياتي حياةً حقيقيّة، كلّها مليئة بِكَ"[16]. إذًا، ما الّذي يميّز ملء الشّركة هذه؟ أن نكون سعداء. السّعادة هي دعوة الإنسان، وهي هدف يهمّ الجميع.

وما هي السّعادة؟ وأيّ سعادة ننتظر ونرغب فيها؟ لا ننتظر فرحًا عابرًا، ورضًا سريع الزّوال، الّذي متى وُجِد، طلب المزيد والمزيد دائمًا، في دوّامة من الجشع، لا تجد النّفس البشريّة فيها شِبَعَها أبدًا، بل تزداد فراغًا. نحن بحاجة إلى سعادة تتحقّق بشكل نهائيّ في ما يحقّقنا، أي في الحبّ، حتّى نستطيع أن نقول، والآن: أنا محبوب، إذن أنا موجود، وسأكون موجودًا إلى الأبد في الحبّ الّذي لا يخيِّب أملي والّذي لن يستطيع أيّ شيء أو أيّ أحد من أن يفصلني عنه. لنتذكّر من جديد كلمات الرّسول: "إِنِّي واثِقٌ بِأَنَّه لا مَوتٌ ولا حَياة، ولا مَلائِكَةٌ ولا أَصحابُ رِئاسة، ولا حاضِرٌ ولا مُستَقبَل، ولا قُوَّات، ولا عُلُوٌّ ولا عُمْق، ولا خَليقَةٌ أُخْرى، بِوُسعِها أَن تَفصِلَنا عن مَحبَّةِ اللهِ الَّتي في المَسيحِ يَسوعَ رَبِّنا" (رومة 8، 38-39).

22. حقيقةٌ أخرى مرتبطة بالحياة الأبديّة هي دينونة الله، سواء في نهاية حياتنا أم في نهاية الأزمنة. حاول الفنّ كثيرًا أن يجسّدها - لنفكّر في تحفة مايكل أنجلو في كابيلا سيستينا - من خلال المفهوم اللاهوتيّ للزّمن ونقله إلى المشاهدين إحساسًا بالخوف. إن كان من الواجب أن نُعِدَّ أنفسنا بوعيٍ وجدّيّة كبيرَين في اللحظة التي تلخّص الحياة، من الضّروريّ في الوقت نفسه أن نقوم بذلك دائمًا تحت علامة الرّجاء، وهو الفضيلة الإلهيّة الّتي تسند الحياة وتسمح لنا بألّا نقع في الخوف. دينونة الله، الّذي هو المحبّة (راجع 1 يوحنّا 4، 8. 16)، لا يمكن أن تتأسّس إلّا على المحبّة، ولا سيّما بمقدار ما مارسناها أم لم نمارسها تجاه المحتاجين وأشدِّهِم حاجة، الّذين يكون المسيح، قاضينا نفسه، حاضرًا فيهم (راجع متّى 25، 31–46). لذلك، هي دينونة تختلف عن دينونة البشر وعن المحاكم الأرضيّة، وعلينا أن نفهمها على أنّها علاقة حقيقة مع الله الّذي هو محبّة ومع نفسنا، في سرّ الرّحمة الإلهيّة الّذي لا يُسبر غوره. قال الكتاب المقدّس في هذا الصّدد: "علَّمتَ شَعبَكَ أَنَّ البارَّ يَجِبُ علَيه أَن يَكونَ مُحِبًّا لِلنَّاس، وجَعَلتَ لأَبنائِكَ رَجاءً حَسَنًا، لأَنَّكَ تَمنَحُ التَّوبَةَ عنِ الخَطايا. [...] ونَنتَظِرَ رَحمَتَكَ إِذا حُوكِمْنا" (الحكمة 12، 19. 22). وكما كتب البابا بندكتس السّادس عشر: "سوف نختبرُ ونقبلُ في لحظة الدّينونة انتصار محبّته على كلّ الشّرّ في العالم وفينا. فيغدو ألَم المحبّة خلاصنا وفرحنا"[17].

إذن الدّينونة مرتبطة بالخلاص الّذي نتمنّاه والّذي حقَّقه لنا يسوع بموته وقيامته من بين الأموات. لذلك، الدّينونة موجّهة إلى الانفتاح على اللقاء النّهائي مع الله. وبما أنّه لا يمكننا أن نفكّر، في هذا السّياق، أنّ الشّرّ الّذي صنعناه يمكنه أن يبقى مَخفِيًّا، فلا بدّ من تطهيره، لكي يسمح لنا بالعبور النّهائي إلى محبّة الله. نفهم، بهذا المعنى، ضرورة الصّلاة من أجل الّذين أكملوا مسيرتهم الأرضيّة، والتّضامن في صلاة الشّفاعة الّتي تجد فعّاليّتها في شركة القدّيسين، وهي الرّباط المشترك الّذي يوحّدنا في المسيح، بِكرِ الخليقة. وهكذا، فإنّ الغفران في اليوبيل، بقوّة الصّلاة، موجّه بشكل خاصّ للذين سبقونا، حتّى ينالوا الرّحمة الكاملة.

23. في الواقع، يسمح لنا الغفران بأن نكتشف رحمة الله غير المحدودة. ليس من قبيل الصّدفة أنّه في العصور القديمة كانت لفظة ”الرّحمة“ مرادفة للفظة ”غفران“، وذلك لأنّ هذه اللفظة تعبّر عن ملء مغفرة الله الّتي لا حدود لها.

يؤكّد لنا سرّ التّوبة أنّ الله يمحو خطايانا. وتعود إلينا كلمات المزمور محمّلة بالتّعزية: "هو الَّذي يَغفِرُ جَميعَ آثامِكِ، ويَشْفي جَميعَ أَمْراضِكِ. يَفتَدي مِنَ الهُوَّةِ حَياتَكِ، ويُكَلِّلُكِ بِالرَّحمَةِ والرَّأفة. […] الرَّبُّ رؤُوفٌ رَحيم، طَويلُ الأَناةِ كَثيرُ الرَّحمَة. […] لا على حَسَبِ خَطايانا عامَلَنا، ولا على حَسَبِ آثامِنا كافَأَنا. بل كارتِفاعِ السَّماءِ عنِ الأَرضِ، عَظُمَت رَحمَتُه على الَّذينَ يَتَّقونَه كبُعْدِ المَشْرِقِ عنِ المَغرِب، أَبعَدَ عنَّا مَعاصِيَنا" (مزمور 103، 3–4. 8. 10–12). ليست المصالحة الأسراريّة مجرّد فرصة روحيّة جميلة، بل هي خطوة حاسمة وأساسيّة ولا غنَى عنها في مسيرة الإيمان لكلّ واحد. فيها نسمح لله بأن يدمّر خطايانا، ويشفي قلوبنا، ويرفعنا ويعانقنا، ويجعلنا نعرف وجهه الحنون والرّؤوف. في الواقع، لا يوجد طريقة أفضل لنعرف الله، من أن نسمح له بأن يتصالح معنا (راجع 2 قورنتس 5، 20)، ونتذوّق طعم مغفرته. لذلك، لا نتركْ سرّ الاعتراف، بل لنكتشف من جديد جمال سرّ الشّفاء والفرح فيه، وجمال مغفرة الخطايا!

مع ذلك، وكما نعلَم من تجربتنا الشّخصيّة، فإنّ الخطيئة ”تترك علامة“، وتحمل معها عواقب: ليس فقط خارجيّة، الّتي هي عواقب الشّرّ الّذي ارتكبناه، بل أيضًا داخليّة، والّتي هي أنَّ "كلّ خطيئة، حتّى الخطيئة العرضيّة، تجعلنا نتعلّق تعلّقًا مَرَضِيًّا بالخلائق، يحتاج إلى تنقية، سواء في هذا العالم أم بعد الموت، في الحالة المعروفة بالمطهر"[18]. لذلك، تبقى ”الآثار المتبقّية من الخطيئة“ في إنسانيّتنا الضّعيفة والمنجذبة إلى الشّرّ. هذه الآثار المتبقّية تُمحى بالغفران، ودائمًا بنعمة المسيح، الّذي، كما كتب القدّيس بولس السّادس، هو "مغفرتنا"[19]. ستُصدر دائرة التّوبة الرّسوليّة أحكامًا تمكِّن من الحصول على غفران اليوبيل، وجعله أمرًا عمليًّا.

هذه الخبرة المليئة بالمغفرة لا يمكنها إلّا أن تفتح قلبنا وعقلنا لكي نغفر. المغفرة لا تغيّر الماضي، ولا يمكنها أن تعدّل ما حدث من قبل، لكن يمكن للمغفرة أن تسمح لنا بأن نغيّر المستقبل ونعيش بشكل مختلف، دون استياء وكراهية وانتقام. المستقبل الّذي تنيره المغفرة، يسمح لنا بأن نقرأ الماضي بعيون مختلفة ومطمئنّة، ولو كانت تملأها الدّموع أيضًا.

في اليوبيل الاستثنائيّ الأخير قُمت بتأسيس مرسلِيْ الرّحمة، وهم مستمرّون بالقيام برسالة مهمّة. آمَل أن يقوموا بخدمتهم في اليوبيل القادم أيضًا، فيعيدوا الرّجاء ويمنحوا المغفرة في كلّ مرّة يلجأ إليهم الخاطئ بقلب منفتح ونفس تائبة. وليستمرّوا في أن يكونوا أدوات للمصالحة ويساعدوا للنّظر إلى المستقبل برجاء القلب الّذي يأتي من رحمة الآب. آمَل أن يتمكّن الأساقفة من الاستفادة من خدمتهم الثّمينة، لا سيّما بإرسالهم إلى حيث يكون الرّجاء في محنة، مثل السّجون والمستشفيات والأماكن الّتي تُداس فيها كرامة الإنسان، وفي أشدّ الحالات آلامًا، وفي سياقات شديدة الانحلال، حتّى لا يُحرم أحد من إمكانيّة الحصول على مغفرة الله وتعزيته.

24. يجد الرّجاء أسمى شهادة له في والدة الله. نرى فيها أنّ الرّجاء ليس تفاؤلًا سطحيًّا، بل عطيّة نعمة في واقع الحياة. مثل كلّ أُمّ، في كلّ مرّة كانت مريم تنظر فيها إلى ابنها، كانت تفكّر في مستقبله، وبالتّأكيد ظلّت الكلمات الّتي وجَّهها إليها سمعان الشّيخ في الهيكل منقوشًة في قلبها: "ها إِنَّه جُعِلَ لِسقُوطِ كَثيرٍ مِنَ النَّاس وقِيامِ كَثيرٍ مِنهُم في إِسرائيل وآيَةً مُعَرَّضةً لِلرَّفْض. وأَنتِ سيَنفُذُ سَيفٌ في نَفْسِكِ" (لوقا 2، 34– 35). وعند أقدام الصّليب، كانت ترى يسوع البريء يتألّم ويموت، ورغم أنّها كانت تتألّم، جدَّدَتْ قولها لله ”نَعم“، دون أن تفقد الرّجاء والثّقة بالله. وبهذه الطّريقة تعاونت في تحقيق ما قاله ابنها، عندما أعلن أنّه يجب أن "يُعانيَ آلامًا شديدة، وأَن يرْذُلَه الشُّيوخُ وعُظماءُ الكَهَنَةِ والكَتَبَة، وأَن يُقتَل، وأَن يقومَ بَعدَ ثَلاثَةِ أَيَّام" (مرقس 8، 31)، وفي عذاب هذا الألم الّذي قدّمته بمحبّة، صارت أمّنا، أمّ الرّجاء. ليس من قبيل الصّدفة أنّ التّقوى الشّعبيّة تستمرّ في أن تبتهل إلى مريم العذراء القدّيسة باسم ”نجمة البحر“، وهو لقب يعبِّر عن الرّجاء الأكيد بأنّ والدة الله تأتي لمساعدتنا، في أحداث الحياة العاصفة، وتسندنا وتدعونا إلى أن نتحلّى بالثّقة ونستمرّ في الرّجاء.

وفي هذا الصّدد، يَسُرُّني أن أذكر أنّ مزار سيّدتنا مريم العذراء سيّدة غوادالوبه في المكسيك يستعدّ للاحتفال، في سنة 2031، بالذّكرى الخمسمائة لأوّل ظهور للعذراء مريم هناك. من خلال الشّاب خوان دييغو، أرسلت والدة الله رسالة رجاء ثوريّة، وهي تكرّرها حتّى اليوم لجميع الحجّاج والمؤمنين: "ألست أنا هنا، أنا أمّك؟"[20]. وتنطبع رسالة مشابهة في قلوب المزارات المريميّة العديدة المنتشرة في العالم، وهي وجهة الحجّاج الكثيرين الّذين يوكلون همومهم وآلامهم وتوقّعاتهم إلى والدة الله. في سنة اليوبيل هذه، لِتَكُنِ المزارات أماكن مقدّسة للاستقبال والتّرحيب وأماكن مميّزة لولادة الرّجاء. أدعو الحجّاج القادمين إلى روما إلى أن يتوقّفوا للصّلاة في المزارات المريميّة في المدن لتكريم مريم العذراء القدّيسة ولطلب حمايتها. أنا واثق أنّ الجميع، ولا سيّما المتألّمين والمضطربين، سيتمكّنون من اختبار قرب أكثر الأمّهات حنانًا، وهي لا تتخلّى عن أبنائها أبدًا، وهي بالنّسبة لشعب الله المقدّس "علامة العزاءِ والرّجاء الأكيد"[21].

25. في مسيرتنا نحو اليوبيل، لِنَعُدْ إلى الكتاب المقدّس ولْنَسمَعْ هذه الكلمات موجَّهةً إلينا: "أَن نَتَشَدَّدَ تَشدُّدًا قَوِيًّا نَحنُ الَّذينَ التَجَأُوا إِلى التَّمَسُّكِ بِالرَّجاءِ المَعْروضِ عليهم. وهو لَنا مِثْلُ مِرساةٍ لِلنَّفْسِ أَمينَةٍ مَتينَةٍ تَختَرِقُ الحِجابَ إِلى حَيثُ دَخَلَ يسوعُ مِن أَجْلِنا سابِقًا لَنا" (العبرانيّين 6، 18-20). إنّها دعوة شديدة لكي لا نفقد أبدًا الرّجاء الّذي أُعطي لنا، بل نتمسَّك به ونجد به ملجأ في الله.

صورة المرساة مُلهِمَة وتفهمنا ما هو الاستقرار والأمان اللذان نجدهما في وسط مياه الحياة المضطربة، إن أوكلنا أنفسنا إلى الرّبّ يسوع: لا يمكن للعواصف أن تنتصر علينا أبدًا، لأنّنا راسخون في رجاء النّعمة، القادر أن يجعلنا نعيش في المسيح ونتغلّب على الخطيئة والخوف والموت. هذا الرّجاء، الّذي هو أكبر بكثير من كلّ الأمور الّتي نجد فيها رضانا وراحتنا في حياتنا اليوميّة، ومن كلّ تحسين في الظّروف المعيشيّة، يجعلنا نجتاز المحن ويدعونا إلى أن نسير دون أن تغيب عنّا عظمة الهدف الّذي نحن مدعوّون إليه، أيّ السّماء.

سيكون اليوبيل القادم إذًا سنة مقدّسة تتميّز بالرّجاء الّذي لا يغيب، أي الرّجاء في الله. ليساعدنا أيضًا لنجد من جديد، في الكنيسة كما في المجتمع، الثّقة الضّروريّة في العلاقات بين الأشخاص، وفي العلاقات الدّوليّة، وفي تعزيز كرامة كلّ شخص واحترام الخليقة. لِتَكُنْ شهادة المؤمنين خميرة رجاء حقيقيّ في العالم، وإعلانًا لسموات جديدة وأرض جديدة (راجع 2 بطرس 3، 13)، حيث نعيش في عدل ووئام بين الشّعوب، والجميع مندفعون لتحقيق وعود الله.

لِنَترُك أنفسنا منذ الآن ننجذب بالرّجاء، ولْنَجذِب غيرنا بمثالنا، كلّ الّذين يرغبون في ذلك. لِتَكُن حياتنا لهم هذه الكلمة: "أُرجُ الرَّبَّ وتَشَدَّدْ وليَتَشَجَّعْ قَلبُكَ وارجُ الرَّبّ" (مزمور 27، 14). ولتملأ قوّة الرّجاء حاضرنا، ونحن ننتظر بثقة عودة الرّبّ يسوع المسيح، له التّسبيح والمجد الآن وإلى الأبد.

صَدَرَ في روما، في بازيليكا القدّيس يوحنّا في اللاتران، في 9 أيار/مايو، في عيد صعود الرّبّ، سنة 2024، في السّنة الثّانية عشرة من حبريّتي.

فرنسيس

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[1] خطابات، 198، 2.

[2] راجع مصادر فرنسيسكانيّة، رقم 263، 6. 10.

[3] راجع وجه الرّحمة، مرسوم الدّعوة إلى اليوبيل الرّحمة الاستثنائي، الأرقام 1-3.

[4] دستور رعائي، فرح ورجاء، رقم 4.

[5] رسالة بابويّة عامّة، كُنْ مُسَبَّحًا، رقم 50.

[6] راجع التّعليم المسيحيّ للكنيسة الكاثوليكيّة، رقم 2267.

[7] رسالة بابويّة عامّة، كُنْ مُسَبَّحًا، رقم 49.

[8] رسالة بابويّة عامّة، كلّنا إخوة، رقم 262.

[9] رسالة بابويّة عامّة، كُنْ مُسَبَّحًا، رقم 51.

[10] Simbolo niceno (القانون النّيقاوي): H. Denzinger – A. Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, n. 125.

[11] المرجع نفسه.

[12] Simbolo degli Apostoli (قانون إيمان الرّسل): H. Denzinger – A. Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, n. 30.

[13] التّعليم المسيحيّ للكنيسة الكاثوليكيّة، رقم 1817.

[14] دستور رعائي، فرح ورجاء، رقم 21.

[15] كتاب القدّاس، مقدّمة الصّلاة الإفخارستيّة، مقدّمة الموتى 1.

[16] إعترافات، 10، 28.

[17] رسالة بابويّة عامّة، بالرّجاء مخلَّصون، رقم 47.

[18] التّعليم المسيحيّ للكنيسة الكاثوليكيّة، رقم 1472.

[19] رسالة بابويّة عامّة، Apostolorum limina، 23 أيار/مايو 1974، 2.

[20] Nican Mopohua, n. 119.

[21] المجمع الفاتيكاني الثّاني، دستور عقائدي، نور الأمم، رقم 68.

[00781-AR.01] [Testo originale: Arabo]

 

[B0374-XX.02]