Discorso del Santo Padre
Traduzione in lingua inglese
Questa mattina, nel Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Francesco ha ricevuto in Udienza i partecipanti all’Assemblea plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, sul tema: Disability and the human condition. Changing the social determinants of disabilities and building a new culture of inclusion.
Riportiamo di seguito il discorso che il Papa ha rivolto loro nel corso dell’incontro:
Discorso del Santo Padre
Signori e Signore!
Con piacere do il benvenuto a tutti voi, membri della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, che venne istituita trent’anni or sono. Un pensiero alla Presidente, che è andata a casa perché la mamma è in fin di vita, e facciamo una preghiera per lei e per la mamma. Saluto il Cancelliere e il Vice Cancelliere e i collaboratori e li ringrazio per il loro servizio.
Ho apprezzato la scelta di mettere a tema di questa Assemblea plenaria l’esperienza umana della disabilità, i fattori sociali che la determinano e l’impegno per una cultura della cura e dell’inclusione. Infatti, l’Accademia delle Scienze Sociali è chiamata ad affrontare, secondo un modello transdisciplinare, alcune delle sfide attuali più urgenti. Penso alla tecnologia e alle sue implicazioni nella ricerca e in ambiti quali la medicina e la transizione ecologica; penso alla comunicazione e allo sviluppo dell’intelligenza artificiale – una versa sfida! –; come pure alla necessità di trovare nuovi modelli economici.
In tempi recenti la comunità internazionale ha compiuto notevoli passi in avanti nel campo dei diritti delle persone con disabilità. Molti Paesi si stanno muovendo in questa direzione. In altri, invece, tale riconoscimento è ancora parziale e precario. Tuttavia, là dove questo percorso è stato intrapreso, tra luci e ombre vediamo fiorire le persone e i germogli di una società più giusta e più solidale.
Ascoltando la voce degli uomini e delle donne con disabilità, siamo diventati più consapevoli del fatto che la loro vita è condizionata, oltre che dalle limitazioni funzionali, anche da fattori culturali, giuridici, economici e sociali, i quali possono ostacolarne le attività e la partecipazione sociale.
A fondamento della trattazione di questo tema sta naturalmente la dignità delle persone con disabilità, con le sue implicazioni antropologiche, filosofiche e teologiche. Senza appoggiarsi saldamente su tale base, può accadere che, mentre si afferma il principio della dignità umana, allo stesso tempo si agisca contro di essa. La dottrina sociale della Chiesa è molto chiara in proposito: le persone con disabilità «sono soggetti pienamente umani, titolari di diritti e doveri» (Compendio della Dottrina Sociale, n. 148). Ciascun essere umano ha il diritto a una vita dignitosa e a svilupparsi integralmente, «anche se è poco efficiente, anche se è nato o cresciuto con delle limitazioni; infatti ciò non sminuisce la sua immensa dignità come persona umana, che non si fonda sulle circostanze bensì sul valore del suo essere. Quando questo principio elementare non è salvaguardato, non c’è futuro né per la fraternità né per la sopravvivenza dell’umanità» (Lett. enc. Fratelli tutti, 107).
La vulnerabilità e la fragilità appartengono alla condizione umana e non sono proprie solo delle persone con disabilità. Ce lo hanno ricordato alcune di loro nella recente Assemblea sinodale: «La nostra presenza – hanno scritto – può contribuire a trasformare le realtà in cui viviamo, rendendole più umane e più accoglienti. Senza vulnerabilità, senza limiti, senza ostacoli da superare, non ci sarebbe vera umanità» (La Chiesa è la nostra casa, 2).
La sollecitudine della Chiesa per quanti portano una o più disabilità attualizza i tanti incontri di Gesù con queste persone, narrati nei Vangeli. Da tali racconti si possono trarre spunti di riflessione sempre attuali.
In primo luogo, Gesù entra in contatto diretto con quanti vivono la disabilità, perché essa, come ogni forma di infermità, non è da ignorare o da negare. Ma Gesù non solo si pone in relazione con essi: Egli cambia anche il senso della loro esperienza; infatti introduce un nuovo sguardo sulla condizione delle persone con disabilità, sia nella società sia davanti a Dio. Per Lui infatti ogni condizione umana, anche quella segnata da forti limitazioni, è un invito a tessere un rapporto singolare con Dio che fa rifiorire le persone: pensiamo ad esempio, nel Vangelo, al cieco Bartimeo (cfr Mc 10,46-52).
Purtroppo, in molte parti del mondo, sono ancora le persone e le famiglie isolate e spinte ai margini della vita sociale a causa della disabilità. E questo non solo nei Paesi più poveri, dove vive la maggior parte di esse e dove tale condizione le condanna spesso alla miseria, ma anche in contesti di maggior benessere: qui a volte l’handicap è considerato una “tragedia personale” e i disabili sono «“esiliati occulti” che vengono trattati come corpi estranei della società» (Lett. enc. Fratelli tutti, 98).
La cultura dello scarto, in effetti, non ha confini. Vi è chi presume di poter stabilire, in base a criteri utilitaristici e funzionali, quando una vita ha valore ed è degna di essere vissuta. Questo tipo di mentalità può portare a gravi violazioni dei diritti delle persone più deboli, a forti ingiustizie e disuguaglianze là dove ci si lascia guidare prevalentemente dalla logica del profitto, dell’efficienza o del successo. Ma c’è anche, nell’odierna cultura dello scarto, un aspetto meno visibile e molto insidioso che erode il valore della persona con disabilità agli occhi della società e ai suoi stessi occhi: è la tendenza che porta a considerare la propria esistenza un peso per sé e per i propri cari. Il diffondersi di questa mentalità trasforma la cultura dello scarto in cultura di morte. In fondo, «le persone non sono più sentite come un valore primario da rispettare e tutelare, specie se povere o disabili, “non servono ancora” – come i nascituri –, o “non servono più” – come gli anziani» (ivi, 18). Questo è molto importante, i due estremi della vita: i nascituri con disabilità si abortiscono, e agli anziani in fase finale si fa la “dolce morte”, l’eutanasia, un’eutanasia travestita, sempre, ma è eutanasia alla fine.
Combattere la cultura dello scarto significa promuovere la cultura dell’inclusione – vanno uniti –, creando e rafforzando i legami di appartenenza alla società. Gli attori protagonisti di questa azione solidaristica sono coloro che, sentendosi corresponsabili del bene di ciascuno, si adoperano per una maggiore giustizia sociale e per rimuovere le barriere di vario genere che impediscono a tanti di godere dei diritti e delle libertà fondamentali. I risultati ottenuti con tali azioni sono maggiormente visibili nei Paesi economicamente più sviluppati. In questi Paesi, generalmente, le persone con disabilità hanno diritto a prestazioni sanitarie e sociali, e, sebbene non manchino le difficoltà, sono incluse in molteplici ambiti della vita sociale: da quello educativo a quello culturale, da quello lavorativo a quello sportivo. Nei Paesi più poveri tutto ciò dev’essere ancora in gran parte realizzato. Pertanto, i governi che si impegnano in tal senso vanno incoraggiati e sostenuti dalla comunità internazionale. Allo stesso modo, è doveroso sostenere anche le organizzazioni della società civile, poiché senza la loro capillare azione solidaristica in molto luoghi le persone sarebbero abbandonate a sé stesse.
Si tratta dunque di costruire una cultura dell’inclusione integrale. Il legame di appartenenza diventa ancora più saldo quando le persone con disabilità non sono destinatarie passive, ma partecipano alla vita sociale come protagoniste del cambiamento. Sussidiarietà e partecipazione sono i due pilastri di un’effettiva inclusione. E in questa luce si comprende bene l’importanza delle associazioni e dei movimenti delle persone con disabilità che promuovono la partecipazione sociale.
Cari amici, «riconoscere ogni essere umano come un fratello o una sorella e ricercare un’amicizia sociale che includa tutti non sono mere utopie. Esigono la decisione e la capacità di trovare i percorsi efficaci che ne assicurino la reale possibilità. Qualunque impegno in tale direzione diventa un esercizio alto della carità. Infatti, un individuo può aiutare una persona bisognosa ma, quando si unisce ad altri per dare vita a processi sociali di fraternità e di giustizia per tutti, entra nel “campo della più vasta carità, della carità politica”» (ivi, 180).
Vi ringrazio, fratelli e sorelle, perché dentro questo impegno c’è anche il vostro contributo: di studio e di confronto nell’ambito della comunità scientifica e di sensibilizzazione in diversi ambienti sociali ed ecclesiali. Grazie, in particolare, per l’attenzione concreta alle sorelle e ai fratelli con disabilità. Di cuore benedico voi e il vostro lavoro. E vi chiedo per favore di pregare per me. Grazie.
[00621-IT.01] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua inglese
Distinguished Ladies and Gentlemen,
I am pleased to welcome you, the members of the Pontifical Academy of Social Sciences, which was founded thirty years ago. Our thoughts go to the President, who has gone home because her mother is dying; let us say a prayer for her and for her mother. I greet the Chancellor and Vice-Chancellor and their staff, and I thank them for their work.
I appreciate the fact that you have chosen as the theme of this Plenary Assembly the human experience of disability, the social factors that determine it, and the need to foster a culture of care and inclusion. The Academy of Social Sciences is called to face, in accordance with a transdisciplinary model, some of the most urgent challenges of the present time. I am thinking, for example, of technology and its implications for research and for fields such as medicine and ecological transition. I also have in mind communications and the development of artificial intelligence (a great challenge indeed!), as well as the need to devise new economic models.
In recent years, the international community has made significant progress in acknowledging the rights of persons with disabilities. Many countries are moving forward in this direction. Yet in others, this acknowledgment is still partial and uncertain. Nonetheless, where progress has been made, we have seen, between lights and shadows, how individuals can flourish and the seeds can be sown for a more just and solidary society.
By listening to the voices of men and women with disabilities, we have come to realize better how their life is conditioned not only by functional limitations but also by cultural, legal, financial and social factors that stand in the way of their activities and their participation in the life of society.
Naturally, the basis for any discussion of this issue must be the recognition of the dignity of persons with disabilities, with its varied anthropological, philosophical and theological implications. Without this solid foundation, it can happen that, even as we uphold the principle of human dignity, we act concretely in ways contrary to it. The Church’s social teaching is very clear in this regard: “Persons with disabilities are fully human subjects, with rights and duties” (Compendium of the Social Doctrine of the Church, 148). Every human being has the right to live with dignity and to develop integrally: “Even if they are unproductive, or were born with or develop limitations, this does not detract from their great dignity as human persons, a dignity based not on circumstances but on the intrinsic worth of their being. Unless this basic principle is upheld, there will be no future either for fraternity or for the survival of humanity” (Fratelli Tutti, 107).
Vulnerability and frailty are part of the human condition, and not something proper only to persons with disabilities. Some of them reminded us of this in the context of the recent Synod: “Our presence may help to transform the actual situations in which we live, making them more human and more welcoming. Without vulnerability, without limits, without obstacles to overcome, there would be no true humanity” (The Church is Our Home, 2).
The Church’s care and concern for those with one or more disabilities concretely reflects the many encounters of Jesus with such persons, as described in the Gospels. In these accounts, we can find a number of timely points for our reflection.
First, Jesus enters into direct contact with those with disabilities, since, like every form of infirmity, disabilities must not be ignored or denied. Yet Jesus not only relates to disabled persons; he also changes the meaning of their experience. In fact, he showed a new approach to the condition of persons with disabilities, both in society and before God. In Jesus’ eyes, every human condition, including those marked by grave limitations, is an invitation to a unique relationship with God that enables people to flourish. We can think, for example, of the Gospel account of the blind Bartimaeus (cf. Mk 10:46-52).
Sadly, in various parts of the world, many persons and families continue to be isolated and forced to the margins of social life because of disabilities. And this not only in poorer countries, where the majority of disabled persons live and where their condition often condemns them to extreme poverty, but also in situations of greater prosperity, where, at times, handicaps are considered a “personal tragedy” and the disabled “hidden exiles”, treated as foreign bodies in society (cf. Fratelli Tutti, 98).
The throwaway culture, in effect, has no borders. There are those who presume to be able to establish, on the basis of utilitarian and functional criteria, when a life has value and is worth being lived. Such a mentality can lead to grave violations of the rights of the most vulnerable, to serious injustices and situations of inequality, resulting for the most part from the mindset of profit, efficiency and success. Yet there is also present, in today’s throwaway culture, a less visible but extremely insidious factor that erodes the value of the disabled in the eyes of society and in their own eyes. It is the tendency to make individuals view their life as a burden both for themselves and for their loved ones. The spread of this mentality turns the throwaway culture into a culture of death. In the end, “persons are no longer seen as a paramount value to be cared for and respected, especially when they are poor and disabled, ‘not yet useful’ – like the unborn, or ‘no longer needed’ – like the elderly” (ibid., 18). This is so important: the two extremes of life: the unborn with disabilities are aborted, and the elderly close to the end are administered an “easy death”, euthanasia, a euthanasia in disguise, but euthanasia all the same.
Combating the throwaway culture calls for promoting the culture of inclusion – the two things go together – by forging and consolidating the bonds of belonging within society. The primary agents of such solidarity are those who, out of a sense of responsibility for the good of each individual, work for greater social justice and for the removal of the barriers that prevent many people from exercising their basic rights and freedoms. The fruits of these activities are mostly visible in economically more developed countries, where persons with disabilities generally enjoy the right to health care and social assistance, and, even if difficulties are not lacking, are included in many spheres of social life, such as education, culture, the workplace and sports. In poorer countries, this remains, for the most part, a goal to be achieved. Governments that are committed in this regard must thus be encouraged and supported by the international community. It is likewise necessary to support the organizations of civil society, since, without their networks of solidarity, in many places people would be left to themselves.
What is needed, then, is the development of a culture of integral inclusion. The bonds of belonging become even stronger when persons with disabilities are not simply passive receivers, but take an active part in the life of society as agents of change. Subsidiarity and participation are the two pillars of effective inclusion. In this regard, we can appreciate the importance of associations and movements of disabled persons that work to promote their participation in society.
Dear friends, “recognizing that all people are our brothers and sisters, and seeking forms of social friendship that include everyone, is not merely utopian. It demands a decisive commitment to devising effective means to this end. Any effort along these lines becomes a noble exercise of charity. For whereas individuals can help others in need, when they join together in initiating social processes of fraternity and justice for all, they enter the field of charity at its most vast, namely political charity” (ibid., 180).
Brothers and sisters, I thank you because part of this commitment is your own work of research and discussion within the scientific community, as well as your efforts to raise consciousness in different social and ecclesial circles. In a special way, I am grateful for your concrete concern for our sisters and brothers with disabilities. I cordially bless you and your work, and I ask you, please, to pray for me.
[00621-EN.01] [Original text: Italian]
[B0290-XX.01]