Omelia del Santo Padre
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Alle ore 9.30 di questa mattina, VI Domenica del Tempo Ordinario, nella Basilica Vaticana, il Santo Padre Francesco ha presieduto la Celebrazione Eucaristica e il Rito di Canonizzazione della Beata Maria Antonia di San Giuseppe de Paz y Figueroa (1730–1799), Fondatrice della casa di esercizi spirituali a Buenos Aires.
Alla Santa Messa era presente il Presidente della Repubblica Argentina, S.E. il Sig. Javier Gerardo Milei, che il Santo Padre ha salutato all'inizio del Rito e successivamente prima che lasciasse la Basilica.
Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa ha pronunciato dopo la proclamazione del Vangelo:
Omelia del Santo Padre
La prima Lettura (cfr Lv 13,1-2.45-46) e il Vangelo (cfr Mc 1,40-45) parlano della lebbra: una malattia che comporta la progressiva distruzione fisica della persona e a cui spesso, purtroppo, vengono ancora oggi associati, in alcuni luoghi, atteggiamenti di emarginazione. Lebbra ed emarginazione: sono due mali da cui Gesù vuole liberare l’uomo che incontra nel Vangelo. Vediamo la sua situazione.
Quel lebbroso è costretto a vivere fuori della città. Fragile per la sua malattia, invece di essere aiutato dai suoi concittadini è abbandonato a sé stesso, anzi è ferito ulteriormente dall’allontanamento e dal rifiuto. Perché? Per paura, prima di tutto, la paura di essere contagiati e di fare la sua stessa fine: “Che non accada anche a noi! Non rischiamo, stiamo alla larga!”. La paura. Poi per pregiudizio: “Se ha una malattia tanto orribile – era l’opinione comune – certamente è perché Dio lo sta punendo per qualche colpa che ha commesso: e allora se lo merita, ben gli sta!”. Questo è il pregiudizio. E infine per falsa religiosità: a quel tempo, infatti, si riteneva che toccare un morto rendesse impuri, e i lebbrosi erano gente a cui la carne “moriva addosso”. Dunque – si pensava – sfiorarli voleva dire diventare impuri come loro: ecco una religiosità distorta, che alza barriere e affossa la pietà.
Paura, pregiudizio e falsa religiosità: ecco tre cause di una grande ingiustizia, tre “lebbre dell’anima” che fanno soffrire un debole, scartandolo come un rifiuto. Fratelli, sorelle, non pensiamo che siano solo cose del passato. Quante persone sofferenti incontriamo sui marciapiedi delle nostre città! E quante paure, pregiudizi e incoerenze, pure tra chi crede e si professa cristiano, continuano a ferirle ulteriormente! Anche nel nostro tempo c’è tanta emarginazione, ci sono barriere da abbattere, “lebbre” da curare. Ma come? Come possiamo farlo? Cosa fa Gesù? Gesù compie due gesti: tocca e guarisce.
Primo gesto: toccare. Gesù, al grido di aiuto di quell’uomo (cfr v. 40), sente compassione, si ferma, stende la mano e lo tocca (cfr v. 41) pur sapendo che, facendolo, diventerà a sua volta un “rifiutato”. Anzi, paradossalmente, le parti si invertiranno: il malato, quando sarà guarito, potrà andare dai sacerdoti ed essere riammesso nella comunità; Gesù, invece, non potrà più entrare in nessun centro abitato (cfr v. 45). Il Signore poteva allora evitare di toccare quella persona, sarebbe bastato “guarirla a distanza”. Ma Cristo non è così, la sua via è quella dell’amore che si fa vicino a chi soffre, che entra in contatto, che ne tocca le ferite. La vicinanza di Dio. Gesù è vicino, Dio è vicino. Il nostro Dio, cari fratelli e sorelle, non è rimasto distante in cielo, ma in Gesù si è fatto uomo per toccare la nostra povertà. E di fronte alla “lebbra” più grave, quella del peccato, non ha esitato a morire in croce, fuori dalle mura della città, rigettato come un peccatore, come un lebbroso, per toccare fino in fondo la nostra realtà umana. Un santo scriveva: “Si è fatto lebbroso per noi”.
E noi, che amiamo e seguiamo Gesù, sappiamo fare nostro il suo “tocco”? Non è facile e dobbiamo vigilare quando nel cuore si affacciano gli istinti contrari al suo “farsi vicino” e al suo “farsi dono”: ad esempio quando prendiamo le distanze dagli altri per pensare a noi stessi, quando riduciamo il mondo alle mura del nostro “star bene”, quando crediamo che il problema siano sempre e solo gli altri… In questi casi stiamo attenti, perché la diagnosi è chiara, è “lebbra dell’anima”: malattia che ci rende insensibili all’amore, alla compassione, che ci distrugge attraverso le “cancrene” dell’egoismo, del preconcetto, dell’indifferenza e dell’intolleranza. Stiamo attenti, fratelli e sorelle, anche perché, come per le prime macchioline di lebbra, che compaiono sulla pelle nella fase iniziale del male, se non si interviene subito, l’infezione cresce e diventa devastante. Davanti a questo rischio, alla possibilità di questa malattia dell’anima nostra, qual è la cura?
Ci aiuta il secondo gesto di Gesù, che guarisce (cfr v. 42). Il suo “toccare” infatti non indica solo vicinanza, ma è l’inizio della guarigione. E la vicinanza è lo stile di Dio: Dio sempre è vicino, compassionevole e tenero. Vicinanza, compassione e tenerezza. Questo è lo stile di Dio. E noi siamo aperti a questo? Perché è lasciandoci toccare da Gesù che guariamo dentro, nel cuore. Se ci lasciamo toccare da Lui nella preghiera, nell’adorazione, se gli permettiamo di agire in noi attraverso la sua Parola e i Sacramenti, il suo contatto ci cambia realmente, ci risana dal peccato, ci libera dalle chiusure, ci trasforma al di là di quanto possiamo fare da soli, con i nostri sforzi. Le nostre parti ferite – quelle del cuore e dell’anima nostra – le malattie dell’anima vanno portate a Gesù: la preghiera fa questo; ma non una preghiera astratta, fatta solo di formule da ripetere, bensì una preghiera sincera e viva, che depone ai piedi di Cristo le miserie, le fragilità, le falsità, le paure. Pensiamoci e chiediamoci: io faccio toccare a Gesù le mie “lebbre” perché mi guarisca?
Al “tocco” di Gesù, infatti, rinasce il meglio di noi stessi: i tessuti del cuore si rigenerano; il sangue delle nostre spinte creative riprende a fluire carico di amore; le ferite degli errori del passato si rimarginano e la pelle delle relazioni ritrova la sua consistenza sana e naturale. Ritorna così la bellezza che abbiamo, la bellezza che siamo; la bellezza di essere amati da Cristo, riscopriamo la gioia di donarci agli altri, senza paure e senza pregiudizi, liberi da forme di religiosità anestetizzanti e prive della carne del fratello; riprende forza in noi la capacità di amare, al di là di ogni calcolo e convenienza.
Allora, come dice una bellissima pagina della Scrittura (cfr Ez 37,1-14), da quella che sembrava una valle di ossa inaridite risorgono dei corpi viventi e rinasce un popolo di salvati, una comunità di fratelli. Ma sarebbe ingannevole pensare che questo miracolo richieda forme grandiose e spettacolari per realizzarsi. Esso avviene principalmente nella carità nascosta di ogni giorno: quella che si vive in famiglia, al lavoro, in parrocchia e a scuola; per strada, negli uffici e nei negozi; quella che non cerca pubblicità e non ha bisogno di applausi, perché all’amore basta l’amore (cfr S. Agostino, Enarr. in Ps. 118, 8, 3). Lo sottolinea Gesù oggi, quando ordina all’uomo guarito di «non dire niente a nessuno» (v. 44): vicinanza e discrezione. Fratelli e sorelle, Dio ci ama così e se ci lasciamo toccare da Lui, anche noi, con la forza del suo Spirito, potremo diventare testimoni dell’amore che salva!
E oggi pensiamo a María Antonia de San José, “Mama Antula”. È stata una viandante dello Spirito. Ha percorso migliaia di chilometri a piedi, attraverso deserti e strade pericolose, per portare Dio. Oggi è per noi un modello di fervore e audacia apostolica. Quando i Gesuiti furono espulsi, lo Spirito accese in lei una fiamma missionaria basata sulla fiducia nella Provvidenza e sulla perseveranza. Invocò l’intercessione di San Giuseppe e, per non stancarlo troppo, pure quella di San Gaetano Thiene. Per questo motivo introdusse la devozione a quest’ultimo, e la sua prima immagine arrivò a Buenos Aires nel secolo XVIII. Grazie a Mama Antula questo santo, intercessore della Divina Provvidenza, si fece strada nelle case, nei quartieri, nei trasporti, nei negozi, nelle fabbriche, e nei cuori, per offrire una vita dignitosa attraverso il lavoro, la giustizia, il pane quotidiano sulla tavola dei poveri. Preghiamo oggi María Antonia, Santa María Antonia de Paz de San José, che ci aiuti tanto. Il Signore ci benedica tutti.
[00268-IT.02] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua francese
La première lecture (cf. Lv 13, 1-2.45-46) et l’Évangile (cf. Mc 1, 40-45) parlent de la lèpre : une maladie qui entraîne une destruction physique progressive de la personne et à laquelle, malheureusement, des attitudes de marginalisation sont encore souvent associées en certains lieux. Lèpre et marginalisation : ce sont deux maux dont Jésus veut libérer l’homme qu’il rencontre dans l’Évangile. Regardons sa situation. 6e
Ce lépreux est contraint de vivre en dehors de la ville. Fragilisé par sa maladie, au lieu d’être aidé par ses compatriotes, il est livré à lui-même et souffre plus encore de l’éloignement et du rejet. Pourquoi ? Par peur, avant tout la peur d’être contaminé et de finir comme lui : “Que cela ne nous arrive pas à nous aussi ! Ne prenons pas ce risque, restons à distance”. La peur. Par préjugé ensuite : “S’il est atteint d’une maladie aussi horrible, disait-on, c’est sûrement parce que Dieu le punit d’une faute qu’il a commise : s’il la mérite, c’est donc bien fait pour lui”.
C’est le préjugé. Enfin, la fausse religiosité : à l’époque, en effet, on estimait que le fait de toucher un mort rendait impur, et les lépreux étaient des personnes dont la chair était “morte sur eux”. Les toucher signifiait donc, pensait-on, devenir impur comme eux : il s’agit là d’une religiosité déformée, qui élève des barrières et qui étouffe la piété.
La peur, les préjugés et la fausse religiosité sont les trois causes d’une grande injustice, trois “lèpres de l'âme” qui font souffrir le faible et qui le rejettent comme un déchet. Frères et sœurs, ne pensons pas qu’il s’agisse seulement d’un passé révolu. Combien de personnes souffrantes rencontrons-nous sur les trottoirs de nos villes ! Et combien de peurs, de préjugés et d’incohérences, même chez ceux qui croient et se disent chrétiens, continuent à les blesser davantage ! Même à notre époque, il y a beaucoup de marginalisation, de barrières à faire tomber, de “lèpres” à guérir. Mais comment ? Comment pouvons-nous le faire ? Que fait Jésus ? Jésus accomplit deux gestes : il touche et il guérit.
Premier geste : toucher. Jésus, à l’appel au secours de cet homme (cf. v. 40), éprouve de la compassion, s’arrête, tend la main et le touche (cf. v. 41), tout en sachant que, ce faisant, il deviendra à son tour un “rejeté”. En plus, paradoxalement, les rôles seront inversés : le malade, une fois guéri, pourra aller voir les prêtres et être réadmis dans la communauté ; Jésus, en revanche, ne pourra plus entrer dans aucun lieu habité (cf. v. 45). Le Seigneur aurait donc pu éviter de toucher cette personne, il aurait suffi de la “guérir à distance”. Mais le Christ n’est pas ainsi, son chemin est celui de l’amour qui se fait proche de ceux qui souffrent, qui entre en contact, qui touche leurs blessures. La proximité de Dieu. Jésus est proche, Dieu est proche. Notre Dieu, chers frères et sœurs, n’est pas resté distant au ciel, mais en Jésus il s’est fait homme pour toucher notre pauvreté. Et face à la “lèpre” la plus grave, celle du péché, il n’a pas hésité à mourir sur la croix, hors des murs de la ville, rejeté comme pécheur, comme lépreux, pour toucher au plus profond notre réalité humaine. Un saint a écrit : “Il s'est fait lépreux pour nous”.
Et nous, qui aimons et suivons Jésus, savons-nous nous approprier son “toucher”? Ce n’est pas facile, et nous devons être vigilants lorsque surgissent dans nos cœurs des instincts contraires à son “se faire proche” et à son “se faire don” : par exemple, lorsque nous nous éloignons des autres pour penser à nous-mêmes, lorsque nous réduisons le monde aux murs de notre “bien-être”, lorsque nous croyons que le problème est toujours et seulement les autres... Dans ces cas-là, nous devons être vigilants, car le diagnostic est clair, il s’agit de la “lèpre de l’âme” : une maladie qui nous rend insensibles à l’amour, à la compassion, qui nous détruit par la “gangrène” de l’égoïsme, des idées préconçues, de l’indifférence et de l’intolérance. Soyons également vigilants, frères et sœurs, car, comme les premières taches de la lèpre, qui apparaissent sur la peau dans la phase initiale de la maladie, si l’on n’intervient pas immédiatement, l’infection se développe et devient dévastatrice. Face à ce risque, à la possibilité de cette maladie de notre âme, quel est le remède ?
Nous sommes aidés par le deuxième geste de Jésus, qui guérit (cf. v. 42). En effet, son “toucher” n’indique pas seulement la proximité, mais il est le début de la guérison. Et la proximité est le style de Dieu : Dieu est toujours proche, compatissant et tendre. Proximité, compassion et tendresse. C'est le style de Dieu. Sommes-nous ouverts à cela ? Parce que c’est en nous laissant toucher par Jésus que nous guérissons à l’intérieur, dans notre cœur. Si nous nous laissons toucher par lui dans la prière, dans l’adoration, si nous le laissons agir en nous par sa Parole et les Sacrements, son contact nous change vraiment, nous guérit du péché, nous libère des fermetures, nous transforme au-delà de ce que nous pouvons faire par nous-mêmes, avec nos efforts. Nos blessures - celles de notre cœur et de notre âme - les maladies de l’âme, doivent être portées à Jésus : c’est ce que fait la prière ; mais pas une prière abstraite, faite uniquement de formules à répéter, mais une prière sincère et vivante qui dépose aux pieds du Christ les misères, les fragilités, les faussetés, les peurs. Réfléchissons et posons-nous la question : est-ce que je laisse Jésus toucher ma “lèpre” pour qu’il me guérisse ?
Au “toucher” de Jésus, en effet, le meilleur de nous-mêmes renaît : les tissus du cœur se régénèrent ; le sang de nos élans créatifs recommence à couler plein d’amour ; les blessures des erreurs du passé se cicatrisent et la peau des relations retrouve sa consistance saine et naturelle. Ainsi, la beauté que nous avons, la beauté que nous sommes, la beauté d’être aimés par le Christ revient, nous redécouvrons la joie de nous donner aux autres, sans peurs et sans préjugés, libres des formes de religiosité anesthésiante qui sont privées de la chair de nos frères et sœurs ; la capacité d’aimer, au-delà de tout calcul et de toute convenance, reprend force en nous.
Alors, comme le dit une belle page de l’Écriture (cf. Ez 37, 1-14), de ce qui semblait être une vallée d’ossements desséchés, des corps vivants se lèvent et un peuple de sauvés, une communauté de frères, renaît. Mais il serait trompeur de penser que ce miracle nécessite des formes grandioses et spectaculaires pour s’accomplir. Il se produit surtout dans la charité cachée de tous les jours : celle qui se vit en famille, au travail, dans la paroisse et à l’école ; dans la rue, dans les bureaux et les magasins ; celle qui ne cherche pas la publicité et qui n’a pas besoin d’applaudissements, parce que à l’amour suffit l’amour (cf. S. Augustin, Enarr. in Ps. 118, 8, 3). Jésus le souligne aujourd’hui lorsqu’il ordonne à l’homme guéri de “ne rien dire à personne” (v. 44) : proximité et discrétion. Frères et sœurs, c’est ainsi que Dieu nous aime, et si nous nous laissons toucher par Lui, nous pouvons nous aussi, par la force de son Esprit, devenir des témoins de l’amour qui sauve !
Et aujourd'hui, nous pensons à María Antonia de San José, “Mama Antula”. C'était une pèlerine de l'Esprit. Elle a parcouru des milliers de kilomètres à pied, à travers les déserts et les routes dangereuses, pour porter Dieu. Aujourd'hui, elle est pour nous un modèle de ferveur et d'audace apostolique. Lors de l'expulsion des Jésuites, l'Esprit a allumé en elle une flamme missionnaire basée sur la confiance en la Providence et la persévérance. Elle invoque l'intercession de saint Joseph et, pour ne pas trop le fatiguer, celle de saint Gaétan de Thiène. Pour cette raison, elle a donc introduit la dévotion à ce dernier et sa première image arriva à Buenos Aires au XVIIIe siècle. Grâce à Mama Antula, ce saint, intercesseur de la Divine Providence, est entré dans les maisons, les quartiers, les transports, les magasins, les usines et les cœurs, pour offrir une vie digne par le travail, la justice et le pain quotidien sur la table des pauvres. Prions aujourd'hui María Antonia, Sainte María Antonia de Paz de San José, pour qu'elle nous aide beaucoup. Que le Seigneur nous bénisse tous.
[00268-FR.02] [Texte original: Italien]
Traduzione in lingua inglese
The first reading (cf. Lev 13:1-2.45-46) and the Gospel (cf. Mk 1:40-45) speak of leprosy: a disease that involves the progressive physical deterioration of the person and which, tragically, even today, in some places causes people to be treated as outcasts. Leprosy and ostracism. These are the ills from which Jesus wanted to liberate the man whom he encounters in the Gospel. Let us take a look at his situation.
That leper was forced to live outside the city. Weakened by his illness, rather than being helped by his fellow citizens, he finds himself forsaken and indeed further wounded by ostracism and rejection. Why? First, because of fear, fear of catching the disease and meeting the same end: “God forbid that it happen also to us! Let us not take a risk, but keep our distance!” Fear. Then, prejudice: “If he has this terrible illness” – for so people thought – “surely it is because God is punishing him for some sin he committed; so he deserves it after all!”
This is prejudice. And finally, because of false religiosity: in those days it was thought that touching a dead person made one ritually impure, and lepers were like the walking dead. It was thought that even slight contact with them made one impure like them. A case of distorted religiosity, one that erects barriers and buries pity.
Fear, prejudice and false religiosity. These are three causes of a great injustice. Three “leprosies of the soul” that cause the weak to suffer and then be discarded like refuse. Brothers, sisters, let us not think that these are only relics of the past. How many suffering men and women do we meet on the sidewalks of our cities! And how many fears, prejudices and inconsistencies, even among those who are believers and call themselves Christians, continue to wound them all the more! In our time too, there are striking cases of ostracism, barriers needing to be torn down, forms of “leprosy” to be cured. But how? How can we do it? What does Jesus do? He does two things: he touches and he heals.
The first thing: he touches the man. Jesus responds to his cry for help (cf. v. 40); he feels compassion, he halts, he reaches out and touches him (cf. v. 41), knowing full well that in doing so he will in turn become a “pariah”. Oddly enough, the roles are now reversed: once healed, the sick person will be able to go to the priests and be readmitted to the community; Jesus, on the other hand, will no longer be able to enter any town (cf. v. 45). The Lord could have avoided touching that man; it would have been enough to perform a “distance healing”. Yet that is not the way of Christ. His way is that of a love that draws near to those who suffer, enters into contact with them and touches their wounds. The closeness of God; Jesus is close to us, God is close to us. Our God, dear brothers and sisters, did not remain distant in heaven, but in Jesus, he became man in order to touch our poverty. And before the worst case of “leprosy”, which is sin, he did not hesitate to die on the cross, outside the walls of the city, rejected like a sinner, like a leper, in order to touch the depths of our human reality. A saint once wrote: “He became a leper for us”.
Are we, who love and follow Jesus, capable of imitating his “touch”? That is not easy to do, and we must be on guard lest our hearts harbour instincts contrary to his attitude of “drawing near” and “being a gift” to others. As, for example, when we withdraw from others and think only of ourselves; when we reduce the world around us to the limits of our own “comfort zone”; when we believe that the problem is always and only other people… In such cases, we need to be attentive, for the diagnosis is clear: a “leprosy of the soul”: a sickness that blinds us to love and compassion, one that destroys us by the “cankers” of selfishness, prejudice, indifference and intolerance. Let us also be attentive, brothers and sisters, since, as with the first signs of leprosy that appear on the skin, if we do not intervene immediately, the infection will grow and become devastating. In the face of this danger, this possible sickness in our souls, we ask ourselves if there is a cure?
Here we are helped by the second thing that Jesus does: he heals (cf. v. 42). His “touch” is not only a sign of closeness, but also the beginning of the process of healing. Closeness is God’s style: God is always close, compassionate and tender. Closeness, compassion and tenderness. This is God’s style. Are we open to it? Once we let ourselves be touched by Jesus, we start to heal within, in our hearts. If we let ourselves be touched by him in prayer and adoration, if we permit him to act in us through his Word and his sacraments, that contact truly changes us. It heals us of sin, sets us free from our self-absorption, and transforms us beyond anything we could possibly achieve by ourselves and our own efforts. Our wounds – those of the heart and soul –, our sicknesses of the soul, need to be brought to Jesus. Prayer accomplishes this: not prayer as an abstract and repetitive set of formulas, but a heartfelt and living prayer that places at the feet of Christ our miseries, our frailties, our failings and our fears. Let us think about it and ask ourselves: Do I allow Jesus to touch my “leprosies” in order to heal me?
At the “touch” of Jesus, the very best of ourselves is born anew: the tissues of our heart regenerate; the blood of our creative impulses, charged with love, begins once more to flow; the wounds of our past mistakes heal and the skin of our relationships becomes fresh and healthy. The beauty that we possess, the beauty that we are, is restored. Thanks to the love of Christ, we rediscover the joy of giving ourselves to others, without fears and prejudices, leaving behind a dull and disembodied religiosity and experiencing a renewed ability to love others in a generous and disinterested way.
Then, as a magnificent page of the Scriptures tells us (cf. Ez 37:1-14), from what appeared to be a valley of dry bones, living bodies rise up and a community of brothers and sisters is reborn and saved. Yet it would be illusory to think that this miracle takes place in grandiose and spectacular ways. It happens most often in the hidden charity practiced each day in our families, at work, in the parish and at school, on the streets, in our offices and stores. A charity that does not seek publicity and has no need of applause, since love is sufficient unto itself (cf. SAINT AUGUSTINE, Enn. in Ps. 118, 8, 3). Jesus makes this clear today, when he orders the man, now healed, to “say nothing to anyone” (v. 44): closeness and discretion. Brothers and sisters, that is how God loves us, and if we allow ourselves to be touched by him, we too, with the power of his Spirit, will be able to become witnesses of his saving love!
Today, we reflect on the life of María Antonia de San José, “Mama Antula”. She was a “wayfarer” of the Spirit. She travelled thousands of kilometers on foot, crossing deserts and dangerous roads, in order to bring God to others. She is a model of fervour and apostolic courage. When the Jesuits were expelled, the Spirit ignited in her a missionary fire grounded on trust in Providence and perseverance. She invoked the intercession of Saint Joseph and, in order not to tire him too much; she also invoked the intercession of Saint Gaetano Thiene. This is how devotion to the latter was introduced; his image first arrived in Buenos Aires in the eighteenth century. Thanks to Mama Antula, this saint, intercessor of Divine Providence, made his way through houses, neighbourhoods, public transport, stores, factories and hearts in order to offer a dignified life through work, justice and daily bread on the table of the poor. Let us pray that María Antonia, Saint María Antonia de Paz de San José, will help us. May the Lord bless everyone!
[00268-EN.02] [Original text: Italian]
Traduzione in lingua tedesca
In der ersten Lesung (vgl. Lev 13,1-2.45-46) und im Evangelium (vgl. Mk 1,40-45) ist von der Lepra die Rede: einer Krankheit, die eine fortschreitende körperliche Zerstörung des Menschen mit sich bringt und die mancherorts leider immer noch mit Ausgrenzung verbunden ist. Lepra und Ausgrenzung: Das sind zwei Übel, von denen Jesus den Mann befreien möchte, dem er im Evangelium begegnet. Sehen wir uns seine Situation an.
Dieser Leprakranke ist gezwungen, außerhalb der Stadt zu leben. Aufgrund seiner Krankheit ist er gebrechlich, aber statt von seinen Mitbürgern unterstützt zu werden, bleibt er sich selbst überlassen, ja wird er durch Ausgrenzung und Ablehnung noch weiter verletzt. Warum? Aus Angst, vor allem, aus Angst, sich anzustecken und so zu enden wie er: „Dass uns das nicht auch passiert! Riskieren wir nichts, halten wir uns fern!“ Die Angst. Sodann wegen Vorurteilen: „Wenn er eine so schreckliche Krankheit hat“, – lautete die allgemeine Meinung – „dann liegt das sicher daran, dass Gott ihn für irgendeine Schuld bestraft, die er auf sich geladen hat. Dann hat er es verdient und es geschieht ihm recht!“
Dies ist das Vorurteil. Und schließlich aus falscher Religiosität: Damals glaubte man nämlich, dass es unrein macht, einen Toten zu berühren, und Leprakranke waren Menschen, deren Fleisch „am Körper abstarb“. Sie zu berühren, bedeutete daher – so dachte man – wie sie unrein zu werden. Dies ist eine verkehrte Religiosität, die Schranken errichtet und das Erbarmen begräbt.
Angst, Vorurteile und falsche Religiosität: Dies sind drei Ursachen für eine große Ungerechtigkeit, drei „Leprainfektionen der Seele“, die einen Schwachen leiden lassen, weil er wie Abfall behandelt wird. Brüder und Schwestern, denken wir nicht, dass dies nur in der Vergangenheit geschah. Wie vielen leidenden Menschen begegnen wir auf den Bürgersteigen unserer Städte! Und wie viele Ängste, Vorurteile und inkongruente Verhaltensweisen auch vonseiten derer, die glauben und sich als Christen bezeichnen, verletzen sie weiterhin! Auch in unserer Zeit gibt es viel Ausgrenzung, gibt es Schranken, die es einzureißen gilt, gibt es „Leprainfektionen“, die der Heilung bedürfen. Aber wie? Wie können wir das machen? Was tut Jesus? Jesus vollzieht zwei Gesten: Er berührt und er heilt.
Die erste Geste: Berühren. Als Jesus den Hilferuf des Mannes vernimmt (vgl. V. 40), empfindet er Mitleid, er bleibt stehen, streckt die Hand aus und berührt ihn (vgl. V. 41), obwohl er weiß, dass er dadurch selbst zum „Ausgestoßenen“ wird. Paradoxerweise kehren sich die Rollen sogar um: Der Kranke kann, sobald er geheilt ist, zu den Priestern gehen und wieder zur Gemeinschaft zugelassen werden; Jesus hingegen wird in kein Dorf mehr hineingehen können (vgl. V. 45). Der Herr hätte es also vermeiden können, diesen Menschen zu berühren, es hätte gereicht, ihn „aus der Ferne zu heilen“. Aber Christus ist nicht so, sein Weg ist der der Liebe, die denen nahe sein will, die leiden, die Kontakt sucht und ihre Wunden berührt. Die Nähe Gottes. Jesus ist nahe, Gott ist nahe. Unser Gott, liebe Brüder und Schwestern, ist nicht weit weg im Himmel geblieben, sondern ist in Jesus Mensch geworden, um unsere Armut zu berühren. Und angesichts der schwersten „Lepra“, nämlich der Sünde, ist er nicht davor zurückgeschreckt, am Kreuz zu sterben, außerhalb der Stadtmauern, verstoßen wie ein Sünder, wie ein Aussätziger, um unsere menschliche Wirklichkeit bis zum Letzten zu berühren. Ein Heiliger schrieb einmal: „Er machte sich für uns zum Aussätzigen“.
Und wir, die wir Jesus lieben und ihm nachfolgen, wissen wir seine „Berührung“ nachzuahmen? Das ist nicht leicht, und wir müssen wachsam sein, wenn in unserem Herzen Neigungen auftauchen, die seinem „Sich-Nähern“ und seinem „Sich-Schenken“ zuwiderlaufen: Wenn wir uns beispielsweise von den anderen distanzieren, um an uns selbst zu denken; wenn wir die Welt auf die Mauern unseres „Wohlbefindens“ reduzieren; wenn wir denken, dass das Problem immer und nur die anderen sind... In diesen Fällen müssen wir vorsichtig sein, denn die Diagnose ist klar, es handelt sich um eine „Lepra der Seele“, eine Krankheit, die uns unempfindlich für die Liebe und das Mitgefühl macht, die uns durch den „Wundbrand“ des Egoismus, der Vorurteile, der Gleichgültigkeit und der Intoleranz zugrunde richtet. Brüder und Schwestern, wir sollten vorsichtig sein, denn wie bei den ersten Lepraflecken, die sich in der Anfangsphase der Krankheit auf der Haut zeigen, wird sich die Infektion ausbreiten und verheerend werden, wenn wir nicht sofort eingreifen. Was ist die rechte Therapie angesichts dieses Risikos, angesichts der Möglichkeit dieser Krankheit unserer Seele?
Dabei hilft uns die zweite Geste Jesu, der heilt (vgl. V. 42). Sein „Berühren“ bedeutet nämlich nicht nur Nähe, sondern ist der Beginn der Heilung. Und Nähe ist der Stil Gottes: Gott ist immer nah, mitfühlend und zärtlich. Nähe, Mitgefühl und Zärtlichkeit. Das ist der Stil Gottes. Und wir, sind wir dafür offen? Denn indem wir uns von Jesus berühren lassen, werden wir in unserem Inneren, in unserem Herzen geheilt. Wenn wir uns von ihm im Gebet und in der Anbetung berühren lassen, wenn wir ihn durch sein Wort und die Sakramente in uns wirken lassen, dann verändert uns seine Berührung wirklich. Sie heilt uns von der Sünde, befreit uns von Verschlossenheit, verwandelt uns über das hinaus, was wir allein mit unseren eigenen Anstrengungen tun können. Unsere Wunden – die des Herzens und unserer Seele –, die Krankheiten der Seele, müssen zu Jesus gebracht werden und dies geschieht im Gebet; freilich nicht in einem abstrakten Gebet, das nur aus zu wiederholenden Formeln besteht, sondern im aufrichtigen und lebendigen Gebet, mit dem man das Elend, die Schwächen, die Irrtümer, die Ängste Christus zu Füßen legt. Denken wir darüber nach und fragen wir uns: Lasse ich Jesus meine „Lepra“ berühren, damit er mich heilt?
Bei der „Berührung“ Jesu wird nämlich das Beste von uns wiedergeboren: Das Gewebe des Herzens wird erneuert; das Blut unserer schöpferischen Impulse fließt wieder voller Liebe; die Wunden unserer Fehler in der Vergangenheit heilen und die Haut unserer Beziehungen erhält ihre gesunde und natürliche Beschaffenheit zurück. Auf diese Weise kehrt die Schönheit, die wir haben, die Schönheit, die wir sind, zurück; die Schönheit, von Christus geliebt zu sein; entdecken wir die Freude wieder, uns den anderen zu schenken, ohne Ängste und ohne Vorurteile, frei von betäubenden Formen von Religiosität, bei denen der konkrete Mitmensch keine Rolle spielt; die Fähigkeit zu lieben gewinnt in uns wieder neu an Kraft, jenseits allen Kalküls und aller Nützlichkeit.
Dann werden, wie es an einer schönen Stelle in der Heiligen Schrift heißt (vgl. Ez 37,1-14), aus dem Tal, das voll ausgetrockneter Gebeine zu sein schien, lebendige Körper auferstehen und es wird ein Volk von Geretteten, eine Gemeinschaft von Geschwistern wiedergeboren. Es wäre jedoch trügerisch zu glauben, dass dieses Wunder großartige und spektakuläre Formen benötigt, um zu geschehen. Es ereignet sich vor allem in der verborgenen Nächstenliebe des Alltags, so wie sie in der Familie, am Arbeitsplatz, in der Pfarrei und in der Schule, auf der Straße, in den Büros und in den Geschäften gelebt wird; jener Nächstenliebe, die nicht die Öffentlichkeit sucht und keinen Beifall braucht, weil der Liebe die Liebe genügt (vgl. Augustinus, Enarr. in Ps. 118, 8, 3). Jesus unterstreicht dies heute, wenn er dem Geheilten befiehlt, »dass du niemandem etwas sagst« (V. 44): Nähe und Diskretion. Brüder und Schwestern, Gott liebt uns auf diese Weise, und wenn wir uns von ihm berühren lassen, können auch wir durch die Kraft seines Geistes zu Zeugen der erlösenden Liebe werden!
Und heute denken wir an María Antonia de San José, an „Mama Antula“. Sie war unterwegs im Heiligen Geiste. Sie legte Tausende von Kilometern zu Fuß zurück, durch Wüsten und gefährliche Wegstrecken, um den Menschen Gott zu bringen. Heute ist sie für uns ein Vorbild apostolischen Eifers und Mutes. Als die Jesuiten vertrieben wurden, entzündete der Heilige Geist in ihr ein missionarisches Feuer, das im Vertrauen auf die Vorsehung und auf ihrer Beharrlichkeit gründete. Sie rief den heiligen Josef um seine Fürsprache an und, um ihn nicht zu sehr zu ermüden, auch den heiligen Gaetano Thiene. So führte sie die Verehrung dieses Heiligen ein und sein erstes Bild traf im 18. Jahrhundert in Buenos Aires ein. Dank Mama Antula fand dieser Heilige als Fürsprecher der göttlichen Vorsehung seinen Weg in die Häuser, Wohnviertel, Verkehrsmittel, Geschäfte, Fabriken und in die Herzen, um durch Arbeit, Gerechtigkeit und das tägliche Brot auf dem Tisch der Armen ein würdiges Leben zu ermöglichen. Lasst uns heute zu María Antonia, der heiligen María Antonia de Paz de San José, beten, dass sie uns sehr helfen möge. Der Herr segne uns alle.
[00268-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]
Traduzione in lingua spagnola
La primera lectura (cf. Lv 13,1-2.45-46) y el Evangelio (cf. Mc 1,40-45) hablan de la lepra: una enfermedad que conlleva la progresiva destrucción física de la persona y a la que, en algunos lugares, lamentablemente, con frecuencia se asocian todavía actitudes de marginación. Lepra y marginación son dos males de los que Jesús quiere liberar al hombre que encuentra en el Evangelio. Veamos su situación.
Aquel leproso se ve obligado a vivir fuera de la ciudad. Frágil a causa de su enfermedad, en vez de ser ayudado por sus compatriotas es abandonado a su suerte, y se le hiere aún más con el alejamiento y el rechazo. ¿Por qué? Ante todo, por miedo, por el miedo a ser contagiados y terminar como él: “¡Que no nos suceda también a nosotros! ¡No nos arriesguemos, permanezcamos alejados!”. Y viene el miedo. Después, por prejuicio: “Si tiene una enfermedad tan horrible — era la opinión común — seguramente es porque Dios lo está castigando por alguna culpa que haya cometido; y entonces, claramente, se lo merece”. Esto es el prejuicio. Y, finalmente, la falsa religiosidad. En aquel tiempo, en efecto, se consideraba que quien tocaba a un muerto se volvía impuro, y los leprosos eran gente a quienes la carne “se les moría encima”. Por tanto, se pensaba que rozarlos significaba volverse impuros como ellos. Esta es una religiosidad distorsionada, que crea barreras y sepulta la piedad.
Miedo, prejuicio y falsa religiosidad, he aquí tres causas de una gran injusticia, tres “lepras del alma” que hacen sufrir a una persona débil descartándola como un desecho. Hermanos, hermanas, no pensemos que son sólo cosas del pasado. ¡Cuántas personas que sufren encontramos en las aceras de nuestras ciudades! ¡Y cuántos miedos, prejuicios e incoherencias, aun entre los que creen y se profesan cristianos, continúan a herirlas aún más! También en nuestro tiempo hay tanta marginación, hay barreras que derribar, “lepras” que sanar. Pero, ¿cómo? ¿Cómo podemos hacerlo?¿Qué hace Jesús? Jesús realiza dos gestos: toca y sana.
Primer gesto: tocar. Jesús, ante el grito de ayuda de aquel hombre (cf. v. 40), siente compasión, se detiene, extiende la mano y lo toca (cf. v. 41), aun sabiendo que, haciéndolo, se convertirá a su vez en un “rechazado”. Es más, paradójicamente, los papeles se invertirán: el enfermo, cuando sea sanado, podrá ir a presentarse a los sacerdotes y ser readmitido en la comunidad. Jesús, en cambio, no podrá entrar más en ninguna ciudad (cf. v. 45). El Señor habría podido entonces evitar tocar a aquella persona, habría sido suficiente con “curarla a distancia”. Pero Cristo no es así, su camino es el del amor que se acerca al que sufre, que entra en contacto, que toca sus heridas. Esta es la cercanía de Dios. Jesús es cercano, Dios es cercano. Nuestro Dios, queridos hermanos y hermanas, no permaneció distante en el cielo, sino que en Jesús se hizo hombre para tocar nuestra pobreza. Y frente a la “lepra” más grave, la del pecado, no dudó en morir en la cruz, fuera de los muros de la ciudad, repudiado como un pecador, como un leproso, para tocar nuestra realidad humana hasta lo más hondo. Un santo afirmó que el Señor “se hizo leproso por nosotros”.
Y nosotros, que amamos y seguimos a Jesús, ¿sabemos hacer nuestro su “toque”? No es fácil. Por eso debemos vigilar cuando en el corazón se asoman los instintos contrarios a su “hacerse cercano” y a su “hacerse don”. Por ejemplo, cuando tomamos distancia de los demás para centrarnos en nosotros mismos, cuando reducimos el mundo a los recintos de nuestro “estar bien”, cuando creemos que el problema son siempre y solamente los demás. En estos casos tengamos cuidado, porque el diagnóstico es claro: se trata de “lepra del alma”; una enfermedad que nos hace insensibles al amor, a la compasión, que nos destruye por medio de las “gangrenas” del egoísmo, del prejuicio, de la indiferencia y de la intolerancia. Estemos atentos, hermanos y hermanas, también porque sucede como en el caso de las primeras manchitas de lepra, las que aparecen en la piel en la fase inicial del mal: si no se actúa de inmediato, la infección crece y se vuelve devastadora. Ante este riesgo, ante la posibilidad de esta enfermedad de nuestra alma, ¿cuál es el tratamiento?
Para ello, nos ayuda el segundo gesto de Jesús, que sana (cf. v. 42). Su “tocar”, en efecto, no sólo indica cercanía, sino que es el inicio de la sanación. Porque la cercanía es el estilo de Dios, que siempre es cercano, compasivo y tierno. Cercanía, compasión y ternura son el estilo de Dios. Y nosotros, ¿estamos abiertos a esto? Porque es dejándonos tocar por Jesús que sanamos por dentro, en el corazón. Si nos dejamos tocar por Él en la oración, en la adoración, si le permitimos actuar en nosotros a través de su Palabra y de los sacramentos, el contacto con Él nos cambia realmente, nos sana del pecado, nos libera de las cerrazones, nos transforma más allá de cuanto podamos hacer por nosotros mismos, con nuestros propios esfuerzos. Nuestros miembros heridos ―nuestro corazón y nuestra alma― y las enfermedades del alma debemos presentárselos a Jesús; esto se hace en la oración. Pero no una oración abstracta, hecha sólo de fórmulas repetitivas, sino una oración sincera y viva, que deposita a los pies de Cristo las miserias, las fragilidades, las falsedades, los miedos. Pensemos y preguntémonos, ¿hago que Jesús toque mis “lepras” para que me sane?
Al “toque” de Jesús, en efecto, renace lo mejor de nosotros mismos. Los tejidos del corazón se regeneran; la sangre de nuestros impulsos creativos vuelve a fluir cargada de amor; las heridas de los errores del pasado se curan y la piel de las relaciones recupera su consistencia sana y natural. Retorna así la belleza que tenemos, la belleza que somos; la belleza de sentirnos amados por Cristo nos redescubre la alegría de entregarnos a los demás, sin miedos ni prejuicios, libres de formas de religiosidad anestesiante y despojadas de la carne del hermano. Así se fortalece en nosotros la capacidad de amar, más allá de cualquier cálculo y conveniencia.
Entonces, como dice una bellísima página de la Escritura (cf. Ez 37,1-14), de aquello que parecía un valle de huesos resecos, resurgen cuerpos vivientes y renace un pueblo de salvados, una comunidad de hermanos. Pero sería engañoso pensar que este milagro requiera formas grandiosas y espectaculares para realizarse, porque sucede principalmente en la caridad escondida de cada día; esa caridad que se vive en la familia, en el trabajo, en la parroquia y en la escuela; en la calle, en las oficinas y en los negocios; esa caridad que no busca publicidad y no tiene necesidad de aplausos, porque al amor le basta el amor (cf. S. Agustín, Enarr. in Ps. 118, 8, 3). Lo subraya hoy Jesús, cuando ordena al hombre sanado: «No le digas nada a nadie» (v. 44). Cercanía y discreción. Hermanos y hermanas, Dios nos ama así, y si nos dejamos tocar por Él, también nosotros, con la fuerza de su Espíritu, podremos convertirnos en testigos del amor que salva.
Y hoy pensemos en María Antonia de san José, “Mama Antula”. Ella fue una viandante del Espíritu. Recorrió miles de kilómetros a pie, atravesó desiertos y caminos peligrosos para llevar a Dios. Ahora ella es para nosotros un modelo de fervor y audacia apostólica. Cuando los jesuitas fueron expulsados, el Espíritu encendió en ella una llama misionera que tenía como cimiento la confianza en la Providencia y la perseverancia. La santa invocó la intercesión de san José y, para no cansarlo tanto, también la de san Cayetano de Thiene. Por ese motivo se introdujo la devoción de este último, y su primera imagen llegó a Buenos Aires en el siglo XVIII. Gracias a Mama Antula este santo, intercesor ante la Divina Providencia, entró en las casas, en los barrios, en los transportes, en las tiendas, en las fábricas y en los corazones, para ofrecer una vida digna a través del trabajo, la justicia y el pan de cada día en la mesa de los pobres. Pidámosle hoy a María Antonia, a santa María Antonia de Paz de san José, que nos asista. Que el Señor nos bendiga a todos.
[00268-ES.02] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua portoghese
A primeira Leitura (cf. Lv 13, 1-2.45-46) e o Evangelho (cf. Mc 1, 40-45) falam da lepra, uma doença que causa a progressiva destruição física da pessoa e que muitas vezes, infelizmente, ainda está hoje associada em certos lugares com atitudes de marginalização. Lepra e marginalização são dois males de que Jesus quer libertar o homem que encontra no Evangelho. Vejamos a sua situação.
Aquele leproso é obrigado a viver fora da cidade. Fragilizado pela doença, em vez de receber ajuda dos seus concidadãos, é abandonado a si mesmo, acabando duplamente ferido pelo afastamento e a rejeição. Porquê? Em primeiro lugar, por medo; medo de ser contagiado e acabar como ele: «Que não nos aconteça o mesmo… É melhor não arriscar! Mantenhamo-nos à distância». O medo; depois, por preconceito: «Se lhe veio uma doença assim horrível, com certeza (era opinião comum) é porque Deus o está a castigar por qualquer falta que cometera; merece-o. É bem feito!»
Este é o preconceito. E, finalmente, por uma falsa religiosidade: pensava-se então que tocar um morto tornava a pessoa impura, e os leprosos eram pessoas cuja carne lhe «morria no corpo»; por isso tocá-los (assim se pensava!) significava tornar-se impuro como eles: trata-se duma religiosidade vesga, que levanta barreiras e mina a piedade.
Medo, preconceito e falsa religiosidade: aqui estão três causas duma grande injustiça, três «lepras da alma» que fazem sofrer uma pessoa frágil, descartando-a como qualquer desperdício. Irmãos, irmãs, não pensemos que se trata de coisas só do passado. Quantas pessoas sofredoras encontramos nos passeios das nossas cidades! E quantos medos, preconceitos e incoerências, mesmo entre quem acredita e se professa cristão, continuam a ferir ainda mais! Também no nosso tempo há tanta marginalização, há barreiras a derrubar, «lepras» a curar. Mas como? O que podemos fazer? O que faz Jesus? Jesus realiza dois gestos: toca e cura.
Primeiro gesto: tocar. Como resposta à súplica de ajuda daquele homem (cf. Mc 1, 40), Jesus sente compaixão, para, estende a mão e toca-o (cf. 1, 41), mesmo sabendo que Ele próprio, ao fazê-lo, tornar-Se-á uma «pessoa rejeitada». Mais ainda! Paradoxalmente, invertem-se os papéis: o doente, quando estiver curado, poderá ir ter com os sacerdotes e ser readmitido na comunidade; Jesus, ao contrário, não poderá mais entrar em nenhum centro habitado (cf. 1, 45). Ora o Senhor poderia evitar de tocar naquela pessoa; bastava «curá-la à distância». Mas Cristo não pensa assim; o seu caminho é o do amor, que O faz aproximar de quem sofre, entrar em contacto, tocar as suas feridas. A proximidade de Deus. Jesus é próximo, Deus é próximo. O nosso Deus, queridos irmãos e irmãs, não Se manteve distante no céu, mas em Jesus fez-Se homem para tocar a nossa pobreza. E perante a «lepra» mais grave, que é o pecado, não hesitou em morrer na cruz, fora das muralhas da cidade, rejeitado como um pecador, como um leproso, para tocar a fundo a nossa realidade humana. Um santo escreveu: «Fez-se leproso por nós».
E nós, que amamos e seguimos Jesus, sabemos assumir o mesmo «toque» d’Ele? Não é fácil e devemos prestar atenção sempre que, no coração, aparecem os instintos opostos àquele seu «aproximar-Se» e «fazer-Se dom»: por exemplo, quando nos distanciamos dos outros para pensar em nós mesmos, quando circunscrevemos o mundo às muralhas do nosso «estar tranquilos», quando julgamos que o problema são sempre e só os outros... Nestes casos, tenhamos cuidado, porque o diagnóstico é claro: «lepra da alma». Uma doença que nos torna insensíveis ao amor, à compaixão, que nos destrói com as «gangrenas» do egoísmo, preconceito, indiferença e intolerância. Tenhamos cuidado também porque, irmãos e irmãs, como acontece na fase inicial da doença com as primeiras manchas de lepra que aparecem na pele, se não se tomar medidas imediatas, a infeção cresce e torna-se devastadora. Diante deste risco, da possibilidade desta enfermidade em nossa alma, qual é a cura?
Nisto ajuda-nos o segundo gesto de Jesus, que cura (cf. Mc 1, 42). De facto, aquele seu «tocar» não indica apenas proximidade, mas é o início da cura. E o estilo de Deus é a proximidade: Deus é sempre próximo, compassivo e terno. Proximidade, compaixão e ternura. Este é o estilo de Deus. E nós, estamos abertos a isto? Pois é deixando-nos tocar por Jesus que nos curamos intimamente, no coração. Se nos deixarmos tocar por Ele na oração, na adoração, se Lhe permitirmos agir em nós através da sua Palavra e dos Sacramentos, o seu contacto muda-nos realmente, cura-nos do pecado, liberta-nos de fechamentos, transforma-nos para além daquilo que podemos fazer sozinhos, com os nossos esforços. As nossas partes feridas – as do coração e da alma –, as doenças da alma devem ser levadas a Jesus. É isto que faz a oração; não uma oração abstrata, feita apenas de repetição de fórmulas, mas uma oração sincera e viva, que depõe aos pés de Cristo as misérias, as fragilidades, as falsidades, os medos. Pensemos e perguntemo-nos: Deixo Jesus tocar as minhas «lepras», para que me cure?
Com efeito, ao «toque» de Jesus, renasce o melhor de nós mesmos: os tecidos do coração regeneram-se; o sangue dos nossos impulsos criativos recomeça a fluir cheio de amor; as feridas dos erros do passado cicatrizam-se e a pele das relações recupera a sua consistência sadia e natural. Assim retorna a beleza que possuímos, a beleza que somos; a beleza de sermos amados por Cristo, redescobrimos a alegria de nos doar aos outros, sem medos nem preconceitos, livres de formas de religiosidade anestesiante e desinteressada da carne do irmão; retoma força em nós a capacidade de amar, para além de todo e qualquer cálculo e conveniência.
Então, como diz uma página muito bela da Escritura (cf. Ez 37,1-14), daquilo que parecia um vale de ossos secos, ressurgem corpos vivos e renasce um povo de salvados, uma comunidade de irmãos. Mas seria enganador pensar que este milagre, para se realizar, requeira formas grandiosas e espetaculares. Na verdade, acontece principalmente na caridade sem alarde de cada dia: a caridade que se vive na família, no trabalho, na paróquia e na escola; na rua, no escritório e no mercado; a caridade que não busca publicidade nem precisa de aplausos, porque ao amor basta o amor (cf. Santo Agostinho, Enarratio in psalmos 118, 8, 3). Jesus sublinha isto hoje, quando ordena ao homem curado que não fale do caso a ninguém (cf. Mc 1, 44): proximidade e discrição. Irmãos e irmãs, é assim que Deus nos ama e, se nos deixarmos tocar por Ele, também nós, com a força do seu Espírito, poderemos tornar-nos testemunhas do amor que salva.
E hoje pensemos em Maria Antónia de São José, «Mama Antula». Foi uma peregrina do Espírito. Percorreu milhares de quilómetros a pé, através de desertos e de estradas perigosas, para levar Deus às pessoas. Hoje é para nós um modelo de fervor e de audácia apostólica. Quando os jesuítas foram expulsos, o Espírito acendeu nela uma chama missionária fundada sobre a confiança na Providência e sobre a perseverança. Invocou a intercessão de São José e, para não o cansar muito, também a de São Caetano de Thiene. Por este motivo, introduziu a devoção a este último, e a sua primeira imagem chegou a Buenos Aires no século XVIII. Graças à «Mama Antula» este santo, intercessor da Divina Providência, fez caminho entre as casas, os bairros, nos meios de transporte, nos locais de comércio, nas fábricas e nos corações, para oferecer uma vida digna através do trabalho, a justiça e o pão de cada dia na mesa dos pobres. Peçamos hoje a Maria Antónia, a Santa Maria Antónia de São José, que nos ajude muito. O Senhor nos abençoe a todos.
[00268-PO.02] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua polacca
Pierwsze czytanie (por. Kpł 13, 1-2; 45-46) i Ewangelia (por. Mk 1, 40-45) mówią o trądzie: chorobie, która pociąga za sobą postępujące wyniszczenie fizyczne człowieka, i z którą, niestety, w niektórych miejscach nadal często kojarzone są postawy marginalizacji. Trąd i marginalizacja: to dwa nieszczęścia, od których Jezus chce uwolnić człowieka, którego spotyka w Ewangelii. Przyjrzyjmy się jego sytuacji.
Ów trędowaty jest zmuszony do życia poza miastem. Kruchy ze względu na swoją chorobę, zamiast otrzymać pomoc od swoich współobywateli, jest pozostawiony samemu sobie, co więcej jest jeszcze bardziej zraniony przez wyobcowanie i odrzucenie. Dlaczego? Ze strachu, przede wszystkim strachu przed zarażeniem i skończeniem tak jak on: „Niech nam się to też nie przydarzy! Nie ryzykujmy, trzymajmy się z daleka!”. Strach. Następnie z powodu uprzedzenia: „Jeśli ma tak straszną chorobę – była to powszechna opinia – to na pewno dlatego, że Bóg karze go za jakąś winę, którą popełnił, a więc jeśli na to zasłużył, to dobrze mu tak!”. To jest uprzedzenie. I wreszcie fałszywa religijność: w tamtych czasach wierzono, że dotknięcie zmarłego czyni człowieka nieczystym, a trędowaci byli ludźmi, których ciało „umierało na nich”. Tak więc - jak sądzono – dotknięcie ich oznaczało stanie się nieczystym, tak jak oni: oto wypaczona religijność, która wznosi bariery i tłumi pobożność.
Strach, uprzedzenia i fałszywa religijność: oto trzy przyczyny wielkiej niesprawiedliwości, trzy „trądy duszy”, które sprawiają, że słaby cierpi, odrzucając go jak jakiegoś śmiecia. Bracia, siostry, nie myślmy, że to tylko sprawy z przeszłości. Jak wielu cierpiących ludzi spotykamy na ulicach naszych miast! I jakże wiele lęków, uprzedzeń i niekonsekwencji, nawet wśród tych, którzy wierzą i deklarują się, że są chrześcijanami, nadal rani ich jeszcze bardziej! Także w naszych czasach jest tak wiele marginalizacji, są bariery do przełamania, „trądy” do wyleczenia. Ale jak? Jak możemy to zrobić? Co czyni Jezus?. Jezus wykonuje dwa gesty: dotyka i uzdrawia.
Pierwszy gest: dotyk. Jezus, słysząc wołanie człowieka o pomoc (por. w. 40), odczuwa współczucie, zatrzymuje się, wyciąga rękę i dotyka go (por. w. 41), chociaż wiedział, że czyniąc to, to on z kolei stanie się „odrzuconym”. Rzeczywiście, paradoksalnie role się odwrócą: chory, gdy zostanie uzdrowiony, będzie mógł udać się do kapłanów i zostać ponownie przyjęty do wspólnoty. Natomiast Jezus nie będzie już mógł wejść do żadnego miasta (por. w. 45). Pan mógł więc uniknąć dotknięcia tej osoby, wystarczyłoby „uzdrowić ją na odległość”. Ale Chrystus taki nie jest, Jego droga jest drogą miłości, która zbliża się do tych, którzy cierpią, która wchodzi w kontakt, która dotyka ich ran. Bliskość Boga. Jezus jest blisko, Bóg jest blisko. Nasz Bóg, drodzy bracia i siostry, nie pozostał oddalony w niebie, ale w Jezusie stał się człowiekiem, aby dotknąć naszego ubóstwa. I w obliczu najgroźniejszego „trądu”, jakim jest grzech, nie zawahał się umrzeć na krzyżu, poza murami miasta, odrzucony jako grzesznik, niczym trędowaty, aby dotknąć do głębi naszej ludzkiej rzeczywistości. Pewien święty napisał: “Stał się trędowaty dla nas”.
A my, którzy kochamy i naśladujemy Jezusa, czy potrafimy przyswoić sobie Jego „dotyk”? Nie jest to łatwe i musimy czuwać, gdy w naszych sercach pojawiają się odruchy, które są sprzeczne z Jego „stawaniem się bliskim” i Jego „stawaniem się darem”: na przykład, gdy oddalamy się od innych, aby myśleć o sobie, gdy sprowadzamy świat do murów naszego „dobrego samopoczucia”, gdy wierzymy, że problemem są zawsze i tylko inni... W takich przypadkach uważajmy, ponieważ diagnoza jest jasna, jest to „trąd duszy”: choroba, która czyni nas niewrażliwymi na miłość, na współczucie, która niszczy nas przez „gangrenę” egoizmu, uprzedzeń, obojętności i nietolerancji. Bądźmy również uważni, bracia i siostry, ponieważ, podobnie jak w przypadku pierwszych plam trądu, które pojawiają się na skórze w początkowej fazie choroby, jeśli nie zadziałamy natychmiast, infekcja rośnie i staje się niszczycielska. W obliczu tego ryzyka, możliwości wystąpienia tej choroby naszej duszy, jakie jest lekarstwo?
Z pomocą przychodzi nam drugi gest Jezusa, który uzdrawia (por. w. 42). Jego „dotknięcie” wskazuje bowiem nie tylko na bliskość, ale jest początkiem uzdrowienia. A bliskość jest stylem Boga: Bóg jest zawsze blisko, współczujący i czuły. Bliskość, współczucie i czułość. To jest styl Boga. Czy jesteśmy na to otwarci? Jeśli pozwalamy dotknąć się Jezusowi, odzyskujemy zdrowie wewnątrz, w naszych sercach. Jeśli pozwalamy się Jemu dotknąć na modlitwie, podczas adoracji, jeśli pozwolimy Jemu działać w nas poprzez Jego Słowo i sakramenty, to kontakt z Nim naprawdę nas zmienia, uzdrawia nas z grzechu, uwalnia nas od zamknięcia, przemienia nas ponad to, co możemy uczynić sami, naszymi własnymi wysiłkami. Nasze zranienia – i rany serca i rany naszej duszy – choroby duszy, muszą być przyniesione do Jezusa: to czyni modlitwa. Ale nie abstrakcyjna modlitwa, składająca się tylko z powtarzanych formuł, ale szczera i żywa modlitwa, która kładzie u stóp Chrystusa nasze nędze, słabości, fałsze, lęki. Zastanówmy się i zadajmy sobie pytanie: czy pozwalam Jezusowi dotknąć moich „trądów”, aby mógł mnie uzdrowić?
Z „dotknięciem” Jezusa odradza się bowiem to, co w nas najlepsze: regenerują się tkanki serca; wznawia się przepływ nasyconej miłością krwi naszych twórczych dążeń; rany dawnych błędów zostają uleczone, a skóra relacji odzyskuje zdrową i naturalną gładkość. W ten sposób powraca piękno, które mamy, piękno, którym jesteśmy; piękno bycia umiłowanymi przez Chrystusa, na nowo odkrywamy radość dawania siebie innym, bez lęków i bez uprzedzeń, wolni od form religijności znieczulających i pozbawionych wrażliwości na słabości brata; nasza zdolność do miłowania odzyskuje siłę, poza wszelką kalkulacją i wygodnictwem.
Wtedy, jak mówi piękna karta Pisma Świętego (por. Ez 37, 1-14), z tego, co wydawało się doliną uschłych kości, powstają żywe ciała i odradza się lud zbawionych, wspólnota braci i sióstr. Ale zwodnicze byłoby myślenie, że ten cud, aby się spełnił, wymaga wielkich i spektakularnych form. Dokonuje się on przede wszystkim w ukrytej miłości każdego dnia: tej, którą żyje się w rodzinie, w pracy, w parafii i w szkole; na ulicy, w biurach i sklepach; tej, która nie szuka rozgłosu i nie potrzebuje poklasku, ponieważ miłości wystarcza miłość (por. św. Augustyn, Enarr. in Ps. 118, 8, 3). Jezus podkreśla to dzisiaj, kiedy nakazuje uzdrowionemu człowiekowi „nikomu nic nie mówić” (w. 44): bliskość i dyskrecja. Bracia i siostry, Bóg kocha nas w ten sposób i jeśli pozwolimy się dotknąć przez Niego, my również, mocą Jego Ducha, możemy stać się świadkami miłości, która zbawia!
A dziś myślimy o Marii Antonii od św. Józefa, „Mamie Antuli”. Była wędrowcem Ducha. Pokonała pieszo tysiące kilometrów, przez pustynie i niebezpieczne drogi, aby nieść Boga. Dziś jest dla nas wzorem apostolskiej gorliwości i odwagi. Kiedy jezuici zostali wypędzeni, Duch Święty rozpalił w niej płomień misyjny oparty na zaufaniu Opatrzności i wytrwałości. Wzywała wstawiennictwa św. Józefa i, aby go zbytnio nie męczyć, św. Kajetana z Thieny. Z tego powodu wprowadziła nabożeństwo do tego ostatniego, a jego pierwszy wizerunek przybył do Buenos Aires w XVIII wieku. Dzięki Mamie Antuli ten święty, orędownik Bożej Opatrzności, dotarł do domów, dzielnic, środków transportu, sklepów, fabryk i serc, aby ofiarować godne życie poprzez pracę, sprawiedliwość i chleb powszedni na stole ubogich. Prośmy dziś Marię Antonię, św. Marię Antonię de Paz od św. Józefa, aby nam bardzo pomagała. Niech Pan błogosławi nas wszystkich.
[00268-PL.02] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua araba
عظة قداسة البابا فرنسيس
في القدّاس الإلهيّ
في إعلان قداسة الطّوباويّة ماريّا أنطونيا دي باز إي فيغويروا
(María Antonia de Paz y Figueroa)
(الأحد السّادس من زمن السّنة)
يوم الأحد 11 شباط/فبراير 2024
بازيليكا القدّيس بطرس
تتكلّم القراءة الأولى (راجع الأحبار 13، 1–2، 45–46) والإنجيل (راجع مرقس 1، 40–45) على البَرَص: وهو مرض يؤدّي إلى تدمير جسد الشّخص تدريجيًّا. ويضاف إلى هذا المرض حتّى اليوم، للأسف، في بعض الأماكن، موقف التّهميش والإبعاد للمصابين به. البَرَص والتّهميش: هُما شَرَّان، منهما أراد يسوع أن يحرّر الرّجل الذي التقى به في الإنجيل. لننظر إلى حالته.
كان هذا الأبرص مُجبَرًا أن يعيش خارج المدينة. كان ضعيفًا بسبب مرضه، وبدل أن يساعده مواطنوه، تركوه وحده، لا بل ازداد جرحه بسبب ابتعادهم عنه ورفضهم له. لماذا؟ بسبب الخوف، أوّلًا، بسبب خوفهم من أن يُصابوا بالعدوى وتصير نهايتهم مثله: ”قالوا: حتّى لا نصاب بالشّر نفسه. لا نغامِرْ، ولنبقَ بعيدين!“. الخوف. ثُمَّ، بسبب الحُكم المُسبَق: ”إن كان مريضًا بمثل هذا المرض المخيف – كانت هذه الفكرة الشّائعة – هذا يعني بالتّأكيد أنّ الله يعاقبه على خطأ ارتكبه: وبالتالي فهو يستحقّ ذلك، أن يكون كذلك!“.
هذا هو الحُكم المُسبَق. وأخيرًا، بسبب تديّن زائف: كان يُعتقد في ذلك الوقت أنّ لَمسَ المَيِّت يُنَجِّس، وأنَّ البُرص أشخاصٌ ”يحملون الموت في أجسادهم“. لذلك - كانوا يَعتقدون - أنّ لَمسَهُم يعني أنّهم سيتنجَّسون مثلهم: هذا هو التّديّن المزيَّف، الذي يبني الحواجز، ويُبعد الرّحمة.
الخوف والحُكم المُسبَق والتّديّن الزّائف: هذه هي الأسباب الثّلاثة للظّلم الكبير، وهي ثلاثة ”أنواع برص في النّفس“ تجعل الضّعيف يتألّم، ونُقصيه كأنّه نفاية. أيّها الإخوة والأخوات، لا نفكّر أنّ هذه أمور من الماضي فقط. كَم من المتألّمين نلتقي بهم على أرصفة مدننا! وكَم من المخاوف والأحكام المسبقة والتّناقضات، حتّى بين الذين يؤمنون ويعترفون بأنّهم مسيحيّون، تستمرّ في الإساءة إليهم! حتّى في زمننا هذا يوجد تهميشٌ كثير، وحواجزٌ يجب هدمها، و”بَرَصٌ“ يجب علاجه. ولكن كيف؟ ماذا فعل يسوع؟ قام يسوع بحركتين: لَمَسَ وشَفَى.
الحركة الأولى: لَمَسَ. عندما صرخ ذلك الرّجل وطلب المساعدة (راجع الآية 40)، أشفق عليه يسوع، وتوقّف، ومدّ يده ولمسه (راجع الآية 41) على الرّغم من أنّه كان يعلَم أنّه إن قام بذلك، سيصير هو بدوره ”مرفوضًا“ من قِبَلِ الآخرين. في الواقع، والمفارقة، أنّ الأدوار ستنقلب: فالمريض، بعد أن شُفِيَ، استطاع أن يذهب إلى الكهنة وصار مقبولًا من جديد في الجماعة، أمّا يسوع، فصار لا يستطيع أن يدخل بعد ذلك إلى أيّ مكان مأهول (راجع الآية 45). إذًا، كان بإمكان الرّبّ يسوع أن يتجنّب لمس هذا الشّخص، وكان يكفي أن ”يشفيه من بعيد“. لكن ليست هذه طريقة المسيح. طريقته هي المحبّة التي تقترب من المتألّمين، وتتواصل معهم، وتلمس جراحهم. أيّها الإخوة والأخوات الأعزّاء، لم يبقَ إلهنا بعيدًا في السّماء، بل صار إنسانًا في يسوع ليلمس فقرنا. وأمام ”البَرَص“ الأشدّ خطرًا، وهو بَرَص الخطيئة، لم يتردّد في أن يموت على الصّليب، وخارج أسوار المدينة، ومَرفوضًا كأنّه خاطئ وأبرص، ليلمس أعمق أعماق واقعنا البشريّ.
ونحن الذين نحبّ يسوع ونتبعه، هل نعرف أن نجعل طريقته طريقتنا؟ ليس الأمر سهلًا، وعلينا أن ننتبه عندما تظهر في قلبنا الغرائز التي تقاوم طريقته التي هي ”الاقتراب“ و ”بذلِ الذّات“: مثلًا، عندما نبتعد عن الآخرين لكي نفكّر في أنفسنا، وعندما نختصر العالم بين جدران ”راحتنا“، وعندما نعتقد أنّ المشكلة هي دائمًا وفقط في الآخرين... لنتنبَّه في هذه الحالات، لأنّ التّشخيص واضح، إنّه ”بَرَص النّفس“: هو مرض يجعلنا غير حسّاسين للمحبّة والرّأفة، ويدمّرنا من خلال ”غرغرينا“ الأنانيّة، والأحكام المسبقة، واللامبالاة وعدم التّسامح. أيّها الإخوة والأخوات، لنتنبَّه أيضًا لأنّه، مثل بُقَع البَرَص الأولى، التي تظهر على الجلد في المرحلة الأولى من المرض، إن لم نتدخّل مباشرةً، سينمو المرض ويصير مدمّرًا. أمام هذا الخطر، واحتمال الإصابة بهذا المرض في نفوسنا، ما هو العلاج؟
تساعدنا الحركة الثّانية في يسوع: الشّفاء. (راجع الآية 42). في الواقع، ”لَمْسَة يسوع“ لا تدلّ فقط على القُرب، بل هي بداية الشّفاء. لأنّه إن تركنا يسوع يلمسنا، سنشفى من الدّاخل، في قلبنا. إن تركناه يلمسنا في صلاتنا، وفي سجودنا، وإن سمحنا له بأن يعمل فينا بكلمته وبالأسرار، اتصالُنا به يغيِّرنا تغييرًا حقيقيًّا، ويشفينا من الخطيئة، ويحرّرنا من انغلاقاتنا، ويحوّلنا إلى ما هو أبعد ممّا يمكننا أن نصنعه وحدنا، بجهودنا. علينا أن نحمل إلى يسوع كلّ جراحنا، وكلّ أمراض نفسنا: الصّلاة تفعل ذلك، لكن ليس الصّلاة التجريديّة، والنّصوص التي نكرّرها، بل الصّلاة الصّادقة والحَيَّة، التي تضع البّؤس والضّعف والأكاذيب والمخاوف عند أقدام المسيح. لنفكّر ولنسأل أنفسنا: هل أدع يسوع يلمس ”بَرَصِي“ ليشفيني؟
في الواقع، عندما يلمسنا يسوع، يتحرّك فينا أفضلُ ما فينا: أنسجة قلبنا تتجدّد، والدّم في دوافعنا الخلّاقة يبدأ يتدفّق من جديد، مليئًا بالمحبّة، وجراح أخطاء الماضي التي ارتكبناها تُشفى، وروح العلاقات يستعيد تماسكه الصّحّيّ والطّبيعيّ. وهكذا، يرجع جمالنا، وجمال وجودنا. ولأنّ المسيح أحبّنا، نكتشف من جديد فرح العطاء للآخرين، دون خوف أو أحكام مسبقة، أحرارًا من أشكال التّديّن المُخَدِّرَة، التي تحرمنا من الشّعور بجسد أخينا. والقدرة على المحبّة تستعيد قوّتها فينا، بما يتجاوز كلّ الحسابات والمصالح.
إذًا، كما كُتِبَ في صفحة جميلة جدًّا من الكتاب المقدّس (راجع حزقيال 37، 1–14)، في المكان الذي كان يبدو أنّه سَهلٌ مُمتلئٌ عظامًا يابسة، تقوم من جديد أجسادٌ حَيَّة ويُولَدُ من جديد شعبٌ مُخَلَّص، وجماعة إخوة. قد ننخدع ونفكّر أن هذه المعجزة تتطلّب عملًا ومظاهر كبيرة مدهشة لكي تتحقَّق. إنّها تَحدُث بشكلٍ رئيسيّ في المحبّة المخفيّة اليوميّة: المحبّة التي نعيشها في العائلة، وفي العمل، وفي الرّعيّة وفي المدرسة، وفي الشّارع، وفي المكاتب وفي المحلّات التّجاريّة. المحبّة التي لا تبحث عن الشّهرة ولا تحتاج إلى التّصفيق، لأنّ المحبّة تكفيها المحبّة (راجع القدّيس أغسطينس، تفاسير، في المزمور 118، 8، 3). أكّد يسوع اليوم هذا الأمر عندما أمر الرّجل الذي شفاه وقال له: "إِيَّاكَ أَن تُخبِرَ أَحَدًا بِشَيء" (الآية 44): قُربٌ وتكتّم. أيّها الإخوة والأخوات، هكذا يحبّنا الله، وإن تركناه يلمسنا، سنكون قادرين نحن أيضًا، وبقوّة روحه القدّوس، أن نصير شهودًا للمحبّة التي تُخَلِّص!
واليوم لنفكّر في ماريّا أنطونيا دي باز إي فيغويروا (María Antonia de Paz y Figueroa)، ”ماما أنتولا“ (Mama Antula). لقد كانت مسافرة بالرّوح. قطعت آلاف الكيلومترات سيرًا على الأقدام، عبر الصّحاري والطّرق الخطرة، لتحمل الله إلى النّاس. وهي اليوم بالنسبة لنا نموذج للحماسة والجرأة الرّسوليّة. ولمّا طُرِدَ اليسوعيّون، أضرم فيها الرّوح نار الرّسالة المبنيّة على الثّقة بالعناية الإلهيّة والمثابرة. وابتهلت إلى شفاعة القدّيس يوسف، وحتّى لا تتعبه كثيرًا، ابتهلت أيضًا إلى شفاعة القدّيس غايتانو ثيني (Gaetano Thiene). ولهذا السّبب، كانت تكرِّم هذا القدّيس الأخير، وكانت قد صلت صورته الأولى إلى بوينس آيرس في القرن الثّامن عشر. بفضل ”ماما أنتولا“ (Mama Antula)، هذا القدّيس، شفيع العناية الإلهيّة، صار معروفًا في البيوت والأحياء ووسائل النّقل والمتاجر والمصانع والقلوب، ليقدّم حياة كريمة من خلال العمل والعدل والخبز اليومي على مائدة الفقراء. لنصلِّ اليوم إلى ماريّا أنطونيا، القدّيسة ماريّا أنطونيا دي باز إي فيغويروا، حتّى تساعدنا كثيرًا. بارككم الرّبّ جميعًا.
[00268-AR.02] [Testo originale: Italiano]
[B0136-XX.02]