Sala Stampa

www.vatican.va

Sala Stampa Back Top Print Pdf
Sala Stampa


Santa Messa in occasione della Festa della Presentazione del Signore e XXVIII Giornata Mondiale della Vita Consacrata, 02.02.2024


Omelia del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Traduzione in lingua araba

Alle ore 17.30 di questo pomeriggio, Festa della Presentazione del Signore e XXVIII Giornata Mondiale della Vita Consacrata, il Santo Padre Francesco ha celebrato la Santa Messa nella Basilica Vaticana.

Hanno concelebrato con il Santo Padre Cardinali, Vescovi e Sacerdoti appartenenti a Ordini, Congregazioni e Istituti religiosi.

Il rito si è aperto con la benedizione delle candele e la processione ed è proseguito con la celebrazione eucaristica.

Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa ha pronunciato nel corso della Santa Messa:

Omelia del Santo Padre

Mentre il popolo attendeva la salvezza del Signore, i profeti ne annunciavano la venuta, come afferma il profeta Malachia: «Entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate. E l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, eccolo venire» (3,1). Simeone e Anna sono immagine e figura di questa attesa. Vedono entrare il Signore nel suo tempio e, illuminati dallo Spirito Santo, lo riconoscono nel Bambino che Maria porta in braccio. Lo avevano atteso per tutta la vita: Simeone, «uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele» (Lc 2,25); Anna, che «non si allontanava mai dal tempio» (Lc 2,37).

Ci fa bene guardare a questi due anziani pazienti nell’attesa, vigilanti nello spirito e perseveranti nella preghiera. Il loro cuore è rimasto sveglio, come una fiaccola sempre accesa. Sono avanti in età, ma hanno la giovinezza del cuore; non si lasciano consumare dai giorni, perché i loro occhi rimangono rivolti a Dio in attesa (cfr Sal 145,15). Rivolti a Dio in attesa, sempre in attesa. Lungo il cammino della vita hanno sperimentato fatiche e delusioni, ma non si sono arresi al disfattismo: non hanno “mandato in pensione” la speranza. E così, contemplando il Bambino, riconoscono che il tempo è compiuto, la profezia si è realizzata, Colui che cercavano e sospiravano, il Messia delle genti, è arrivato. Tenendo desta l’attesa del Signore, diventano capaci di accoglierlo nella novità della sua venuta.

Fratelli e sorelle, l’attesa di Dio è importante anche per noi, per il nostro cammino di fede. Ogni giorno il Signore ci visita, ci parla, si svela in modo inaspettato e, alla fine della vita e dei tempi, verrà. Perciò Egli stesso ci esorta a restare svegli, a vigilare, a perseverare nell’attesa. La cosa peggiore che può capitarci, infatti, è scivolare nel “sonno dello spirito”: addormentare il cuore, anestetizzare l’anima, archiviare la speranza negli angoli oscuri delle delusioni e delle rassegnazioni.

Penso a voi, sorelle e fratelli consacrati, e al dono che siete; penso a ciascuno di noi cristiani di oggi: siamo ancora capaci di vivere l’attesa? Non siamo a volte troppo presi da noi stessi, dalle cose e dai ritmi intensi di ogni giornata, al punto da dimenticarci di Dio che sempre viene? Non siamo forse troppo rapiti dalle nostre opere di bene, rischiando di trasformare anche la vita religiosa e cristiana nelle “tante cose da fare” e tralasciando la ricerca quotidiana del Signore? Non rischiamo a volte di programmare la vita personale e la vita comunitaria sul calcolo delle possibilità di successo, invece che coltivare con gioia e umiltà il piccolo seme che ci è affidato, nella pazienza di chi semina senza pretendere nulla e di chi sa aspettare i tempi e le sorprese di Dio? A volte – dobbiamo riconoscerlo – abbiamo smarrito questa capacità di attendere. Ciò dipende da diversi ostacoli, e tra questi vorrei sottolinearne due.

Il primo ostacolo che ci fa perdere la capacità di attendere è la trascuratezza della vita interiore. È quello che succede quando la stanchezza prevale sullo stupore, quando l’abitudine prende il posto dell’entusiasmo, quando perdiamo la perseveranza nel cammino spirituale, quando le esperienze negative, i conflitti o i frutti che sembrano tardare ci trasformano in persone amare e amareggiate. Non fa bene masticare l’amarezza, perché in una famiglia religiosa – come in ogni comunità e famiglia – le persone amareggiate e con la “faccia scura” appesantiscono l’aria; quelle persone che sembrano avere aceto nel cuore. Occorre allora recuperare la grazia smarrita: andare indietro e, attraverso un’intensa vita interiore, ritornare allo spirito di umiltà gioiosa, di gratitudine silenziosa. E questo si alimenta con l’adorazione, con il lavoro di ginocchia e di cuore, con la preghiera concreta che lotta e intercede, capace di risvegliare il desiderio di Dio, l’amore di un tempo, lo stupore del primo giorno, il gusto dell’attesa.

Il secondo ostacolo è l’adeguamento allo stile del mondo, che finisce per prendere il posto del Vangelo. E il nostro è un mondo che spesso corre a gran velocità, che esalta il “tutto e subito”, che si consuma nell’attivismo e cerca di esorcizzare le paure e le angosce della vita nei templi pagani del consumismo o nello svago a tutti i costi. In un contesto del genere, dove il silenzio è bandito e smarrito, attendere non è facile, perché richiede un atteggiamento di sana passività, il coraggio di rallentare il passo, di non lasciarci travolgere dalle attività, di fare spazio dentro di noi all’azione di Dio, come insegna la mistica cristiana. Facciamo attenzione, allora, perché lo spirito del mondo non entri nelle nostre comunità religiose, nella vita ecclesiale e nel cammino di ciascuno di noi, altrimenti non porteremo frutto. La vita cristiana e la missione apostolica hanno bisogno che l’attesa, maturata nella preghiera e nella fedeltà quotidiana, ci liberi dal mito dell’efficienza, dall’ossessione del rendimento e, soprattutto, dalla pretesa di rinchiudere Dio nelle nostre categorie, perché Egli viene sempre in modo imprevedibile, viene sempre in tempi che non sono nostri e in modi che non sono quelli che ci aspettiamo.

Come afferma la mistica e filosofa francese Simone Weil, noi siamo la sposa che attende nella notte l’arrivo dello sposo, e «la parte della futura sposa è l’attesa […]. Desiderare Dio e rinunciare a tutto il resto: in ciò soltanto consiste la salvezza» (S. Weil, Attesa di Dio, Milano 1991, 152). Sorelle, fratelli, coltiviamo nella preghiera l’attesa del Signore e impariamo la buona “passività dello Spirito”: così saremo capaci di aprirci alla novità di Dio.

Come Simeone, prendiamo in braccio anche noi il Bambino, il Dio della novità e delle sorprese. Accogliendo il Signore, il passato si apre al futuro, il vecchio che è in noi si apre al nuovo che Lui suscita. Questo non è semplice – lo sappiamo – perché, nella vita religiosa come in quella di ogni cristiano, è difficile opporsi alla “forza del vecchio”: «non è facile infatti che il vecchio che è in noi accolga il bambino, il nuovo accogliere il nuovo, nella nostra vecchiaia accogliere il nuovo. […] La novità di Dio si presenta come un bambino e noi, con tutte le nostre abitudini, paure, timori, invidie pensiamo alle invidie!, preoccupazioni, siamo di fronte a questo bambino. Lo abbracceremo, lo accoglieremo, gli faremo spazio? Questa novità entrerà davvero nella nostra vita o piuttosto tenteremo di mettere insieme vecchio e nuovo, cercando di lasciarci disturbare il meno possibile dalla presenza della novità di Dio?» (C.M. Martini, Qualcosa di così personale. Meditazioni sulla preghiera, Milano 2009, 32-33).

Fratelli e sorelle, queste domande sono per noi, per ognuno di noi, sono per le nostre comunità, sono per la Chiesa. Lasciamoci inquietare, lasciamoci muovere dallo Spirito, come Simeone e Anna. Se come loro vivremo l’attesa nella custodia della vita interiore e nella coerenza con lo stile del Vangelo, se come loro vivremo così l’attesa, abbracceremo Gesù, che è luce e speranza della vita.

[00217-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Alors que le peuple attendait le salut du Seigneur, les prophètes annonçaient sa venue. Comme le déclare le prophète Malachie : «Il viendra dans son Temple le Seigneur que vous cherchez. Le messager de l’Alliance que vous désirez, le voici qui vient» (3, 1). Siméon et Anne sont l’image et la figure de cette attente. Ils voient le Seigneur entrer dans son temple et, éclairés par l’Esprit Saint, ils le reconnaissent en l’Enfant que Marie porte dans ses bras. Ils l’avaient attendu toute leur vie : Siméon, «un homme juste et religieux qui attendait la Consolation d’Israël» (Lc 2, 25) ; Anne, qui «ne s’éloignait pas du Temple» (Lc 2, 37).

Il nous est bon de regarder ces deux personnes âgées, patientes dans l’attente, vigilantes en esprit et persévérantes dans la prière. Leur cœur est resté éveillé, comme une torche toujours allumée. Ils sont avancés en âge mais ils ont la jeunesse du cœur ; ils ne se laissent pas consumer par le temps car leurs yeux restent tournés vers Dieu dans l’attente (cf. Ps 145, 15). Tournés vers Dieu dans l’attente, toujours dans l’attente. Ils ont connu des difficultés et des déceptions sur le chemin de la vie, mais ils n’ont pas cédé au défaitisme : ils n’ont pas “mis à la retraite” l’espérance. Alors, en contemplant l’Enfant, ils reconnaissent que les temps sont accomplis, que la prophétie s’est réalisée: Celui qu’ils cherchaient et désiraient, le Messie des nations, est arrivé. En tenant éveillée l’attente du Seigneur, ils deviennent capables de l’accueillir dans la nouveauté de sa venue.

Frères et sœurs, l’attente de Dieu est également importante pour nous, pour notre chemin de foi. Chaque jour, le Seigneur nous visite, Il nous parle, Il se révèle de manière inattendue et, à la fin de la vie et du temps, Il viendra. C’est pourquoi Lui-même nous exhorte à rester éveillés, à veiller, à persévérer dans l’attente. La pire chose qui puisse nous arriver serait de tomber dans le “sommeil de l’esprit” : l’endormissement du cœur, l’anesthésie de l’âme, le rangement de l’espérance dans les coins sombres de la déception et de la résignation.

Je pense à vous, frères et sœurs consacrés, et au don que vous êtes. Je pense à chacun de nous, chrétiens d’aujourd'hui : sommes-nous encore capables de vivre l’attente ? Ne sommes-nous pas trop pris parfois par nous-mêmes, par les choses et les rythmes intenses de tous les jours, au point d’oublier Dieu qui sans cesse vient? Ne sommes-nous pas trop pris par nos bonnes œuvres, au risque de transformer la vie religieuse et chrétienne en “beaucoup de choses à faire”, et de négliger la recherche quotidienne du Seigneur ? Ne risquons-nous pas de programmer parfois notre vie personnelle et la vie communautaire en calculant les chances de succès, au lieu de cultiver avec joie et humilité la petite graine qui nous est confiée, avec la patience de ceux qui sèment en ne prétendant à rien et de ceux qui savent attendre les temps et les surprises de Dieu ? Parfois – nous devons l’admettre – nous avons perdu cette capacité d’attendre. Cela est dû à plusieurs obstacles, je voudrais en souligner deux.

Le premier obstacle qui nous fait perdre la capacité d’attendre est la négligence de la vie intérieure. C’est ce qui arrive lorsque la fatigue l’emporte sur l’étonnement, lorsque l’habitude remplace l’enthousiasme, lorsque nous perdons la persévérance dans le cheminement spirituel, lorsque les expériences négatives, les conflits ou les fruits qui semblent tarder à venir nous transforment en personnes amères et aigries. Il n’est pas bon de ruminer l’amertume car, dans une famille religieuse – comme dans toute communauté et famille –, les personnes amères “au visage sombre” appesantissent l’atmosphère; ces personnes qui semblent avoir du vinaigre dans le cœur. Il faut alors retrouver la grâce perdue: revenir en arrière et, par une vie intérieure intense, revenir à l’esprit de joyeuse humilité, de gratitude silencieuse. Et cela se nourrit de l’adoration, du travail des genoux et du cœur, de la prière concrète qui lutte et intercède, capable de réveiller le désir de Dieu, l’amour d'antan, l’étonnement du premier jour, le goût de l’attente.

Le deuxième obstacle est l’adaptation au style du monde qui finit par se substituer à l’Évangile. Et notre monde est un monde qui court souvent à grande vitesse, qui exalte le “tout et tout de suite”, qui se consume dans l’activisme et cherche à exorciser les peurs et les angoisses de la vie dans les temples païens de la consommation ou dans le divertissement à tout prix. Dans un tel contexte où le silence est banni et perdu, l’attente n’est pas facile car elle requiert une saine passivité, le courage de ralentir le pas, de ne pas se laisser submerger par les activités, de faire place en nous à l’action de Dieu comme l’enseigne la mystique chrétienne. Veillons donc à ce que l’esprit du monde n’entre pas dans nos communautés religieuses, dans la vie ecclésiale et dans le cheminement de chacun, sinon nous ne porterons pas de fruits. La vie chrétienne et la mission apostolique ont besoin que l’attente, mûrie dans la prière et la fidélité quotidienne, nous libère du mythe de l’efficacité, de l’obsession de la performance, et surtout de la prétention d’enfermer Dieu dans nos catégories, parce qu’Il vient toujours de manière imprévisible, Il vient à des moments qui ne sont pas les nôtres et d’une manière qui n’est pas celle que nous attendons.

Comme l’affirme la mystique et philosophe française Simone Weil, nous sommes l’épouse qui attend dans la nuit l’arrivée de l’époux. «La part de la future mariée est l’attente [...]. Désirer Dieu et renoncer à tout le reste: en cela seul consiste le salut» (S. Weil, Attente de Dieu, Milan 1991, 152). Sœurs, frères, cultivons dans la prière l’attente du Seigneur et apprenons la bonne “passivité de l’Esprit” : nous pourrons ainsi nous ouvrir à la nouveauté de Dieu.

Comme Siméon, prenons, nous aussi, dans nos bras l’Enfant, le Dieu de la nouveauté et des surprises. En accueillant le Seigneur, le passé s’ouvre à l’avenir, ce qui est vieux en nous s’ouvre au nouveau qu’Il suscite. Ce n’est pas facile – nous le savons – parce que, dans la vie religieuse comme dans la vie de tout chrétien, il est difficile de s'opposer à la “force de ce qui est ancien” : «Il n’est pas facile en effet que l’ancien qui est en nous accueille l’enfant, ce qui est nouveau – accueillir le nouveau, dans notre vieillesse accueillir le nouveau –. [...]. La nouveauté de Dieu se présente comme un enfant et nous, avec toutes nos habitudes, nos peurs, nos craintes, nos envies – pensons aux envies! –, nos préoccupations, nous sommes face à cet enfant. Allons-nous l’embrasser, l’accueillir, lui faire de la place ? Cette nouveauté entrera-t-elle vraiment dans notre vie, ou tenterons-nous plutôt de mettre ensemble l’ancien et le nouveau, en essayant de nous laisser déranger le moins possible par la présence de la nouveauté de Dieu» (C.M. Martini, Qualcosa di così personale. Meditazioni sulla preghiera, Milano 2009, 32-33).

Frères et sœurs, ces questions sont pour nous, pour chacun de nous, elles sont pour nos communautés, elles sont pour l’Église. Laissons-nous inquiéter, laissons-nous mouvoir par l’Esprit, comme Siméon et Anne. Si, comme eux, nous vivons l’attente dans la garde de la vie intérieure et en cohérence avec le style de l’Évangile, si, comme eux, nous vivons l’attente, nous embrasserons Jésus qui est lumière et espérance de la vie.

[00217-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

While the people waited for the Lord’s salvation the prophets announced his coming, as the prophet Malachi proclaims, “the Lord whom you seek will suddenly come to his temple; the messenger of the covenant in whom you delight, behold, he is coming.” (3:1). Simeon and Anna are the image and figure of this longing. Upon seeing the Lord enter his temple, they are enlightened by the Holy Spirit and recognize him as the child whom Mary carries in her arms. They had been waiting for him all their lives: Simeon, “righteous and devout, looking for the consolation of Israel, and the Holy Spirit was upon him” (Lk 2:25); Anna, who “did not depart from the temple” (Lk 2:37).

It is good for us to look at these two elders who were waiting patiently, vigilant in spirit and persevering in prayer. Their hearts have stayed awake, like an eternal flame. They are advanced in age, but young at heart. They do not let the days wear them down, for their eyes remain fixed on God in expectation (cf. Ps 145:15). Fixed on God in expectation, always in expectation. Along life’s journey, they have experienced hardships and disappointments, but they have not given in to defeat: they have not “retired” hope. As they contemplate the child, they recognize that the time has come, the prophecy has been fulfilled, the One they sought and yearned for, the Messiah of the nations, has arrived. By staying awake in expectation of the Lord, they are able to welcome him in the newness of his coming.

Brothers and sisters, waiting for God is also important for us, for our faith journey. Every day the Lord visits us, speaks to us, reveals himself in unexpected ways and, at the end of life and time, he will come. He himself exhorts us to stay awake, to be vigilant, to persevere in waiting. Indeed, the worst thing that can happen to us is to let “our spirit doze off”, to let the heart fall sleep, to anesthetize the soul, to lock hope away in the dark corners of disappointment and resignation.

I think of you, consecrated sisters and brothers, and of the gift that you are; I think of us Christians today: are we still capable of waiting? Are we not at times too caught up in ourselves, in things and in the intense rhythm of daily life to the point of forgetting God who always comes? Are we not too enraptured by our good works, which runs the risk of turning even religious and Christian life into having “many things to do” and neglecting the daily search for the Lord? Don’t we sometimes risk planning personal and community life by calculating the odds of success, instead of cultivating the small seed entrusted to us with joy and humility, with the patience of those who sow without expecting anything and those who know how to wait for God’s time and let him surprise us? We must recognize at times that we have lost the ability to wait. This is due to several obstacles, of which I would like to highlight two.

The first obstacle that makes us lose the ability to wait is neglect of the interior life. This is what happens when weariness prevails over amazement, when habit takes the place of enthusiasm, when we lose perseverance on the spiritual journey, when negative experiences, conflicts or seemingly delayed fruits turn us into bitter and embittered people. It is not good to ruminate on bitterness, because in a religious family, as in any community and family, bitter and “sour-faced” people are deflating, people who seem to have vinegar in their hearts. It is necessary then to recover the lost grace: to go back and, through an intense interior life, return to the spirit of joyful humility, of silent gratitude. This is nourished by adoration, by the work of the knees and the heart, by concrete prayer that struggles and intercedes, capable of reawakening a longing for God, that initial love, that amazement of the first day, that taste of waiting.

The second obstacle is adapting to a worldly lifestyle, which ends up taking the place of the Gospel. Ours is a world that often runs at great speed, that exalts “everything and now,” that is consumed in activism and seeks to exorcise life’s fears and anxieties in the pagan temples of consumerism or in entertainment at all costs. In such a context, where silence is banished and lost, waiting is not easy, for it requires an attitude of healthy passivity, the courage to slow our pace, to not be overwhelmed by activities, to make room within ourselves for God’s action. These are lessons of Christian mysticism. Let us be careful, then, that the spirit of the world does not enter our religious communities, ecclesial life and our individual journey, otherwise we will not bear fruit. The Christian life and apostolic mission need the experience of waiting. Matured in prayer and daily fidelity, waiting frees us from the myth of efficiency, from the obsession with performance and, above all, from the pretense of pigeonholing God, because he always comes in unpredictable ways, he always comes at times that we do not choose and in ways that we do not expect.

As the French mystic and philosopher Simone Weil states, we are the bride waiting in the night for the arrival of the bridegroom, and: “The role of the future wife is to wait…. To long for God and to renounce all the rest, that alone can save us” (Waiting for God, Milan 1991, 196). Sisters, brothers, let us cultivate in prayer the spirit of waiting for the Lord and learn about the proper “passivity of the Spirit”: thus, we will be able to open ourselves to the newness of God.

Like Simeon, let us also pick up this child, the God of newness and surprises. By welcoming the Lord, the past opens up to the future, the old in us opens up to the new that he awakens. This is not easy, we know this, because, in religious life as in the life of every Christian, it is difficult to go against the “force of the old”. “It is not easy for the old man in us to welcome the child, the new one – to welcome the new one, in our old age to welcome the new one – … The newness of God presents itself as a child and we, with all our habits, fears, misgivings, envies, – let us think of envies! – worries, come face to face with this child. Will we embrace the child, welcome the child, make room for the child? Will this newness really enter our lives or will we rather try to combine old and new, trying to let ourselves be disturbed as little as possible by the presence of God’s newness?” (C.M. MARTINI, Something So Personal. Meditations on Prayer, Milan 2009, 32-33).

Brothers and sisters, these questions are for us, for each of us, for our communities and for the Church. Let us be restless, let us be moved by the Spirit, like Simeon and Anna. If, like them, we live in expectation, safeguarding our interior life and in conformity with the Gospel, if, like them, we live in expectation, we will embrace Jesus, who is the light and hope of life.

[00217-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Während das Volk auf das Heil vom Herrn wartete, kündigten die Propheten sein Kommen an, wie der Prophet Maleachi sagt: »Dann kommt plötzlich zu seinem Tempel der Herr, den ihr sucht, und der Bote des Bundes, den ihr herbeiwünscht. Seht, er kommt!« (3,1). Simeon und Hanna sind Abbild und Gestalt dieser Erwartung. Sie sehen, wie der Herr in seinen Tempel eintritt, und erkennen ihn, erleuchtet vom Heiligen Geist, in dem Kind, das Maria auf dem Arm trägt. Sie hatten ihr ganzes Leben lang auf ihn gewartet: Simeon »war gerecht und fromm und wartete auf den Trost Israels« (Lk 2,25); Hanna »hielt sich ständig im Tempel auf« (Lk 2,37).

Es tut uns gut, auf diese beiden älteren Menschen zu blicken, die geduldig warten, wachsam im Geist und beharrlich im Gebet. Ihr Herz ist wach geblieben, wie eine stets brennende Fackel. Sie sind im fortgeschrittenen Alter, besitzen aber ein junges Herz; sie werden von den Tagen nicht aufgezehrt, denn ihre Augen bleiben erwartungsvoll auf Gott gerichtet (vgl. Ps 145,15). Erwartungsvoll auf Gott gerichtet, immer in Erwartung. Auf ihrem Lebensweg haben sie Schwierigkeiten und Enttäuschungen erlebt, aber sie haben nicht der Niedergeschlagenheit nachgegeben: Sie haben die Hoffnung nicht „in den Ruhestand geschickt“. Und so erkennen sie bei der Betrachtung des Kindes, dass die Zeit erfüllt ist, dass sich die Prophetie bewahrheitet hat, dass derjenige gekommen ist, den sie gesucht und ersehnt haben, der Messias der Völker. Indem sie die Erwartung des Herrn wach halten, werden sie fähig, ihn in der Neuheit seines Kommens aufzunehmen.

Brüder und Schwestern, die Erwartung Gottes ist auch für uns wichtig, für unseren Glaubensweg. Jeden Tag sucht uns der Herr auf, spricht zu uns, offenbart sich auf unerwartete Weise und am Ende des Lebens und der Zeit wird er kommen. Deshalb ermahnt er selbst uns, wach zu bleiben, wachsam zu sein und in der Erwartung beharrlich zu sein. Das Schlimmste, was uns passieren kann, ist, in den „Schlaf des Geistes“ abzugleiten: das Herz einzuschläfern, die Seele zu betäuben, die Hoffnung in die dunklen Ecken der Enttäuschung und der Resignation wegzuräumen.

Ich denke an euch, gottgeweihte Schwestern und Brüder, und an das Geschenk, das ihr seid; ich denke an jeden einzelnen von uns Christen heute: Sind wir noch fähig, in Erwartung zu leben? Sind wir nicht manchmal zu sehr von uns selbst eingenommen, von den Dingen und dem intensiven Ablauf eines jeden Tages, so dass wir Gott vergessen, der immer kommt? Sind wir nicht zu sehr von unseren Werken für das Gute vereinnahmt und laufen Gefahr, selbst das Ordensleben und das christliche Leben in „die vielen Dinge, die zu tun sind“, zu verwandeln und dabei die tägliche Suche nach dem Herrn hintanzustellen? Laufen wir nicht manchmal Gefahr, unser persönliches Leben und das gemeinschaftliche Leben zu gestalten, indem wir uns unsere Erfolgschancen ausrechnen, statt den kleinen Samen, der uns anvertraut worden ist, mit Freude und Demut zu kultivieren, mit der Geduld derer, die säen, ohne etwas zu verlangen, und die es verstehen, auf Gottes Zeiten und Überraschungen zu warten? Wir müssen zugeben, dass wir manchmal diese Fähigkeit des Wartens verloren haben. Dies ist auf verschiedene Hindernisse zurückzuführen, von denen ich zwei hervorheben möchte.

Das erste Hindernis, das uns die Fähigkeit des Wartens verlieren lässt, ist die Vernachlässigung des inneren Lebens. Das passiert, wenn die Müdigkeit über das Staunen siegt, wenn die Gewohnheit an die Stelle des Enthusiasmus tritt, wenn wir die Beharrlichkeit auf dem geistlichen Weg verlieren, wenn negative Erfahrungen, Konflikte oder ausbleibende Ergebnisse uns zu bitteren und verbitterten Menschen machen. Es tut nicht gut, sich von der Bitterkeit erfassen zu lassen, denn in einer Ordensfamilie – so wie in jeder Gemeinschaft und Familie – belasten Menschen, die verbittert sind und ein „finsteres Gesicht“ machen, die Atmosphäre; diese Personen, die den Eindruck erwecken, als würden sie Essig im Herzen haben. Es ist also nötig, die verlorene Gnade wiederzuerlangen: zurückzugehen und durch ein intensives inneres Leben zum Geist freudiger Demut und stiller Dankbarkeit zurückzukehren. Und dies wird durch die Anbetung genährt, durch den Einsatz der Knie und des Herzens, durch das konkrete Gebet, das ringt und Fürsprache einlegt und in der Lage ist, die Sehnsucht nach Gott, die Liebe von einst, das Staunen des ersten Tages, die Freude an der Erwartung neu zu wecken.

Das zweite Hindernis ist die Anpassung an den Stil der Welt, der schließlich an die Stelle des Evangeliums tritt. Und unsere Welt verändert sich oft rasant, sie verherrlicht das Motto „Alles und Sofort“, sie reibt sich im Aktivismus auf und versucht, die Ängste und Bedrängnisse des Lebens durch die heidnischen Konsumtempel oder durch die Vergnügung um jeden Preis zu vertreiben. In einem solchen Kontext, in dem die Stille verbannt und verlorengegangen ist, ist die Erwartung nicht einfach, denn sie erfordert eine Haltung gesunder Passivität, den Mut, das Tempo zu reduzieren, uns nicht von Aktivitäten überwältigen zu lassen, um in uns selbst Raum für Gottes Handeln zu schaffen, so wie es die christliche Mystik lehrt. Passen wir also auf, dass der Geist der Welt nicht in unsere Ordensgemeinschaften, in das Leben der Kirche und in den Glaubensweg eines jeden von uns eindringt, sonst werden wir keine Früchte hervorbringen. Das christliche Leben und die Sendung zum Apostolat brauchen eine im Gebet und in der täglichen Treue gereifte Erwartung, die uns vom Mythos der Effizienz, von der Leistungsbesessenheit und vor allem von der Anmaßung befreit, Gott in unsere Kategorien einzuschließen, denn er kommt immer unvorhersehbar, er kommt immer zu Zeiten, die nicht die unseren sind, und in Weisen, die nicht die sind, die wir erwarten.

Wie die französische Mystikerin und Philosophin Simone Weil sagt, sind wir die Braut, die in der Nacht auf die Ankunft des Bräutigams wartet, und »die Aufgabe der zukünftigen Braut ist die Erwartung [...]. Gott zu begehren und auf alles andere zu verzichten: Darin allein besteht das Heil« (S. Weil, Attesa di Dio, Milano 1991, 152). Schwestern und Brüder, pflegen wir im Gebet die Erwartung des Herrn und erlernen wir die gute „Passivität des Geistes“: Auf diese Weise werden wir in der Lage sein, uns für die Neuheit Gottes zu öffnen.

Nehmen wir wie Simeon das Kind in die Arme, welches der Gott der Neuheit und der Überraschungen ist. Indem wir den Herrn aufnehmen, öffnet sich die Vergangenheit für die Zukunft, öffnet sich das Alte in uns für das Neue, das er erweckt. Dies ist nicht leicht – das wissen wir – denn im Ordensleben wie auch im Leben eines jeden Christen ist es schwierig, sich der „Macht des Alten“ zu widersetzen: »Es fällt dem alten Menschen in uns nämlich nicht leicht, das Kind, das Neue, anzunehmen ̶ das Neue anzunehmen, in unserem Alter das Neue anzunehmen ̶ [...]. Die Neuheit Gottes erscheint als Kind und wir stehen mit all unseren Gewohnheiten, Ängsten, unserem Neid – denken wir an den Neid! ̶ und den Sorgen diesem Kind gegenüber. Werden wir es umarmen, es willkommen heißen, ihm Raum geben? Wird diese Neuheit wirklich in unser Leben eintreten, oder werden wir vielmehr versuchen, Altes und Neues zusammenzubringen und uns bemühen, uns so wenig wie möglich von der Anwesenheit der Neuheit Gottes stören zu lassen?« (C.M. Martini, Qualcosa di così personale. Meditazioni sulla preghiera, Milano 2009, 32-33).

Brüder und Schwestern, diese Fragen richten sich an uns, an einen jeden von uns, sie richten sich an unsere Gemeinschaften, sie richten sich an die Kirche. Lassen wir uns in Unruhe versetzen, lassen wir uns vom Geist bewegen, so wie Simeon und Hanna. Wenn wir die Erwartung wie sie leben, indem wir das innere Leben pflegen und in Einklang mit dem Stil des Evangeliums leben, wenn wir wie sie so die Erwartung leben, dann werden wir Jesus umarmen, der das Licht und die Hoffnung des Lebens ist.

[00217-DE.01] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

Mientras el pueblo esperaba la salvación del Señor, los profetas anunciaban su venida, como afirmaba el profeta Malaquías: «entrará en su Templo el Señor que ustedes buscan; y el Ángel de la alianza que ustedes desean ya viene, dice el Señor de los ejércitos» (3,1). Simeón y Ana son imagen y figura de esta espera. Ellos ven al Señor entrar en su templo e, iluminados por el Espíritu Santo, lo reconocen en el Niño que María lleva en brazos. Llevaban toda la vida esperándolo: Simeón, «que era justo y piadoso, y esperaba el consuelo de Israel» (Lc 2,25); Ana, que «no se apartaba del Templo» (Lc 2,37).

Nos hace bien mirar a estos dos ancianos pacientes en la espera, vigilantes en el espíritu y perseverantes en la oración. Sus corazones permanecen velando, como una antorcha siempre encendida. Son de edad avanzada, pero tienen la juventud del corazón; no se dejan consumir por los días que pasan porque sus ojos permanecen fijos en Dios, en la espera (cf. Sal 145,15). Fijos en el Señor, en la espera, siempre en la espera. A lo largo del camino de la vida experimentaron dificultades y decepciones, pero no se rindieron al derrotismo: no “jubilaron” la esperanza. Y así, contemplando al Niño, reconocieron que se había cumplido el tiempo, la profecía se había hecho realidad, había llegado Aquel a quien buscaban y por quien suspiraban, el Mesías de las naciones. Habiendo mantenido despierta la espera del Señor, se hicieron capaces de acogerlo en la novedad de su venida.

Hermanos y hermanas, la espera de Dios también es importante para nosotros, para nuestro camino de fe. Cada día el Señor nos visita, nos habla, se revela de maneras inesperadas y, al final de la vida y de los tiempos, vendrá. Por eso Él mismo nos exhorta a permanecer despiertos, a estar vigilantes, a perseverar en la espera. Lo peor que nos puede ocurrir, en efecto, es caer en el “sueño del espíritu”: dejar adormecer el corazón, anestesiar el alma, almacenar la esperanza en los rincones oscuros de la decepción y la resignación.

Pienso en ustedes, hermanas y hermanos consagrados, y en el don que representan; pienso en cada uno de nosotros, los cristianos de hoy: ¿somos todavía capaces de vivir la espera? ¿No estamos a veces demasiado atrapados en nosotros mismos, en las cosas y en los ritmos intensos de cada día, hasta el punto de olvidarnos de Dios que siempre viene? ¿No estamos demasiado embelesados por nuestras buenas obras, corriendo incluso el riesgo de convertir la vida religiosa y cristiana en las “muchas cosas que hacer” y de descuidar la búsqueda cotidiana del Señor? ¿No corremos a veces el peligro de programar nuestra vida personal y la vida comunitaria sobre el cálculo de las posibilidades de éxito, en lugar de cultivar con alegría y humildad la pequeña semilla que se nos confía, con la paciencia de quien siembra sin esperar nada, y de quien sabe esperar los tiempos y las sorpresas de Dios? A veces —hay que reconocerlo— hemos perdido esta capacidad de esperar. Esto se debe a diversos obstáculos, y de entre ellos quisiera destacar dos.

El primer obstáculo que nos hace perder la capacidad de esperar es el descuido de la vida interior. Es lo que ocurre cuando el cansancio prevalece sobre el asombro, cuando la costumbre sustituye al entusiasmo, cuando perdemos la perseverancia en el camino espiritual, cuando las experiencias negativas, los conflictos o los frutos, que parecen retrasarse, nos convierten en personas amargadas y resentidas. No es bueno masticar amargura, porque en una familia religiosa -—como en cualquier comunidad y familia— las personas amargadas y con “cara sombría” hacen pesado el ambiente; estas personas que parecer tener vinagre en el corazón. Es necesario entonces recuperar la gracia perdida, es decir, volver atrás y, mediante una intensa vida interior, retornar al espíritu de humildad gozosa y de gratitud silenciosa. Y esto se alimenta con la adoración, con el empeño de las rodillas y del corazón, con la oración concreta que combate e intercede, que es capaz de avivar el deseo de Dios, el amor de antaño, el asombro del primer día, el sabor de la espera.

El segundo obstáculo es la adaptación al estilo del mundo, que acaba ocupando el lugar del Evangelio. Y el nuestro es un mundo que a menudo corre a gran velocidad, que exalta el “todo y ahora”, que se consume en el activismo y en el buscar exorcizar los miedos y las ansiedades de la vida en los templos paganos del consumismo o en la búsqueda de diversión a toda costa. En un contexto así, en el que se destierra y se pierde el silencio, esperar no es fácil, porque requiere una actitud de sana pasividad, la valentía de bajar el ritmo, de no dejarnos abrumar por las actividades, de dejar espacio en nuestro interior a la acción de Dios, como enseña la mística cristiana. Cuidemos, pues, de que el espíritu del mundo no entre en nuestras comunidades religiosas, en la vida de la Iglesia y en el camino de cada uno de nosotros, pues de lo contrario no daremos fruto. La vida cristiana y la misión apostólica necesitan de la espera, madurada en la oración y en la fidelidad cotidiana, para liberarnos del mito de la eficiencia, de la obsesión por la productividad y, sobre todo, de la pretensión de encerrar a Dios en nuestras categorías, porque Él viene siempre de manera imprevisible, viene siempre en tiempos que no son los nuestros y de formas que no son las que esperamos.

Como afirma la mística y filósofa francesa Simone Weil, somos la esposa que espera en la noche la llegada del esposo, y «el papel de la futura esposa es esperar [...]. Desear a Dios y renunciar a todo lo demás es lo único que salva» (S. Weil, A la espera de Dios, Madrid 1996, 125-126). Hermanas, hermanos, cultivemos en la oración la espera del Señor y aprendamos la buena “pasividad del Espíritu”: así podremos abrirnos a la novedad de Dios.

Como Simeón, también nosotros carguemos en brazos al Niño, al Dios de la novedad y de las sorpresas. Cuando acogemos al Señor, el pasado se abre al futuro, lo viejo en nosotros se abre a lo nuevo que Él hace nacer. No es fácil —lo sabemos— porque, en la vida religiosa como en la vida de todo cristiano, es difícil oponerse a la “fuerza de lo viejo”: «porque no es fácil que lo viejo que hay en nosotros acoja a lo nuevo acoger lo nuevo, acogerlo en nuestra vejez[...]. La novedad de Dios se presenta como un niño y nosotros, con todos nuestros hábitos, miedos, temores, envidias pensemos en las envidas—, preocupaciones, nos hallamos frente a este niño. ¿Le abrazaremos, le acogeremos, le haremos espacio? ¿Entrará esta novedad de veras en nuestra vida, o más bien intentaremos casar lo viejo y lo nuevo, tratando que la presencia de la novedad de Dios nos moleste lo menos posible?». (C.M. Martini, Meditaciones sobre la oración, Madrid 2011, 32).

Hermanos y hermanas, estas preguntas son para nosotros, para cada uno de nosotros, son para nuestras comunidades, son para la Iglesia. Dejémonos interpelar, dejémonos mover por el Espíritu, como Simeón y Ana. Si como ellos sabremos vivir la espera en el cuidado de la vida interior y en coherencia con el estilo del Evangelio, si como ellos viviremos la espera, entonces abrazaremos a Jesús, que es luz y esperanza de la vida.

[00217-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

Ao povo que esperava a salvação do Senhor, os profetas anunciavam a sua vinda, como afirma o profeta Malaquias: «Entrará no seu santuário o Senhor, que vós procurais, e o mensageiro da aliança, que vós desejais. Ei-lo que chega!» (3, 1). Simeão e Ana são imagem e figura desta expetativa. Veem entrar o Senhor no seu santuário e, iluminados pelo Espírito Santo, reconhecem-No no Menino que Maria traz ao colo. Esperaram por Ele durante toda a vida: Simeão, homem «justo e piedoso que esperava a consolação de Israel» (Lc 2, 25), e Ana, que «não se afastava do templo» (Lc 2, 37).

Faz-nos bem contemplar estes dois anciãos, pacientes na expetativa, vigilantes no espírito e perseverantes na oração. O seu coração manteve-se desperto, como uma tocha sempre acesa. São de idade avançada, mas têm a juventude do coração; não se deixam desgastar pelos dias, porque, na expetativa, os seus olhos permanecem voltados para Deus (cf. Sal 145, 15)... voltados para Deus em expetativa, sempre à espera. Ao longo do caminho da vida, sentiram dificuldades e desilusões, mas não cederam ao derrotismo: não «mandaram para a reforma» a esperança. E assim, ao contemplar o Menino, reconhecem que o tempo se completou, que a profecia se realizou; Aquele que procuravam e por Quem suspiravam, o Messias das nações, chegou. Mantendo viva a expetativa do Senhor, tornam-se capazes de O acolher na novidade da sua vinda.

Irmãos e irmãs, a expetativa de Deus é importante também para nós, para o nosso caminho de fé. Todos os dias, nos visita o Senhor: fala-nos, revela-Se-nos de maneira inesperada e há de vir no fim da vida e dos tempos. Por isso, Ele mesmo nos exorta a permanecer despertos, a vigiar, a perseverar na expetativa. De facto, a pior coisa que nos pode acontecer é deixar-nos cair no «sono do espírito»: adormecer o coração, anestesiar a alma, arquivar a esperança nos cantos obscuros das desilusões e resignações.

Penso em vós, irmãs e irmãos consagrados, e no dom que sois; penso em cada um de nós, cristãos de hoje… Ainda somos capazes de viver a expetativa? Não ficaremos às vezes demasiado ocupados connosco próprios, com as coisas e os ritmos intensos de cada dia, a ponto de nos esquecermos de Deus que sempre vem? Porventura não estaremos demasiado enleados com as nossas obras de bem-fazer, arriscando-nos a reduzir a própria vida consagrada e cristã às «muitas coisas a fazer» e negligenciando a busca diária do Senhor? Não correremos por vezes o risco de programar a vida pessoal e a vida comunitária com base no cálculo das possibilidades de sucesso, em vez de cultivar com alegria e humildade a pequena semente que nos foi confiada, na paciência de quem semeia sem esperar recompensa e de quem sabe esperar pelos tempos e as surpresas de Deus? Às vezes – temos de o reconhecer – perdemos esta capacidade de esperar. Isto depende de vários obstáculos, dos quais me apraz destacar dois.

O primeiro obstáculo que nos faz perder a capacidade de esperar é a negligência da vida interior. Acontece quando o cansaço prevalece sobre o encanto, quando o hábito ocupa o lugar do entusiasmo, quando perdemos a perseverança no caminho espiritual, quando as experiências negativas, os conflitos ou a demora no aparecimento dos frutos nos transformam em pessoas amargas e amarguradas. Não nos faz bem ruminar a amargura, porque, numa família religiosa – como em qualquer comunidade e família –, as pessoas amarguradas e de «cara triste» tornam a atmosfera pesada; são pessoas que parecem ter vinagre no coração. Então é necessário recuperar a graça perdida: voltar atrás e, através duma vida interior intensa, regressar ao espírito de humildade jubilosa, de silenciosa gratidão. E isto alimenta-se com a adoração, com o trabalho rezado e feito de coração, com a oração concreta que luta e intercede, capaz de despertar o anélito de Deus, o amor de outrora, o encanto do primeiro dia, o gosto da expetativa.

O segundo obstáculo é a adaptação ao estilo do mundo, que acaba por ocupar o lugar do Evangelho. E o nosso é um mundo que frequentemente corre a grande velocidade, que exalta o «tudo e já», que se consome no ativismo e procura exorcizar os medos e as angústias da vida nos templos pagãos do consumismo ou da diversão a todo o custo. Em tal contexto, onde é banido e se perdeu o silêncio, esperar não é fácil, porque exige um comportamento de sadia passividade, a coragem de abrandar o passo, de não nos deixarmos dominar pelas atividades, de criar espaço dentro de nós para a ação de Deus, como ensina a mística cristã. Por conseguinte estejamos atentos para que o espírito mundano não entre nas nossas comunidades religiosas, na vida eclesial e no caminho de cada um de nós; caso contrário, não daremos fruto. A vida cristã e a missão apostólica precisam que a expetativa, amadurecida na oração e na fidelidade diária, nos liberte do mito da eficiência, da obsessão do lucro e, sobretudo, da pretensão de encerrar Deus nas nossas categorias, porque Ele vem sempre de modo imprevisível, vem sempre em tempos que não são os nossos e sob forma diferente da que esperávamos.

Como afirma a mística e filósofa francesa Simone Weil, somos a noiva que espera durante a noite a chegada do noivo, e «o papel da futura esposa é a expetativa (…). Desejar Deus e renunciar a tudo o mais: nisto apenas consiste a salvação» (S. Weil, Expetativa de Deus, Milão 1991, 152). Irmãs, irmãos, cultivemos na oração a expetativa do Senhor e aprendamos a «passividade boa do Espírito»: assim seremos capazes de nos abrir à novidade de Deus.

Como Simeão, tomemos nos braços, também nós, o Menino, o Deus da novidade e das surpresas. Acolhendo o Senhor, o passado abre-se ao futuro, o velho que sobrevive em nós abre-se ao novo que Ele gera. Sabemos que isto não é simples, porque, na vida religiosa – como aliás na de cada cristão –, é difícil opor-se à «força do velho»: «de facto, não é fácil para o velho que há em nós acolher a criança, o novo – acolher o novo, na nossa velhice, acolher o novo - (…). A novidade de Deus apresenta-se como uma criança e nós, com todos os nossos hábitos, medos, temores, invejas – atenção às invejas! –, preocupações, temos à nossa frente esta criança. Abraçá-la-emos, acolhê-la-emos, dar-lhe-emos espaço? Esta novidade entrará verdadeiramente na nossa vida ou, ao contrário, tentaremos compaginar velho e novo, procurando deixar-nos perturbar o menos possível pela presença da novidade de Deus?» (C. M. Martini, Algo de muito pessoal. Meditações sobre a Oração, Milão 2009, 32-33).

Irmãos e irmãs, estas perguntas são-nos dirigidas a nós, a cada um de nós, são dirigidas às nossas comunidades, são dirigidas à Igreja. Deixemo-nos interpelar, deixemo-nos mover pelo Espírito, como Simeão e Ana. Se vivermos, como eles, a expetativa salvaguardando a vida interior e permanecendo coerentes com o estilo do Evangelho, se vivermos, como eles, a expetativa, abraçaremos Jesus, que é luz e esperança da vida.

[00217-PO.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

Podczas gdy lud oczekiwał zbawienia Pana, prorocy zapowiadali Jego przyjście, jak mówi prorok Malachiasz: „przybędzie do swej świątyni Pan, którego wy oczekujecie, i Anioł Przymierza, którego pragniecie. Oto nadejdzie” (3, 1). Symeon i Anna są obrazem i figurą tego oczekiwania. Widzą Pana wchodzącego do swojej świątyni i oświeceni Duchem Świętym rozpoznają Go w Dzieciątku, które Maryja niesie na rękach. Czekali na Niego przez całe życie: Symeon, „człowiek sprawiedliwy i pobożny, wyczekujący pociechy Izraela” (Łk 2, 25); Anna, która „nie rozstawała się ze świątynią” (Łk 2, 37).

Warto, abyśmy spojrzeli na te dwie starsze osoby, cierpliwe w oczekiwaniu, czujne duchowo i wytrwałe w modlitwie. Ich serce cały czas było czuwające, jak wiecznie płonąca pochodnia. Są w podeszłym wieku, ale mają młodzieńcze serca; nie dają się pochłonąć dniom, ponieważ ich oczy są stale zwrócone ku Bogu w oczekiwaniu (por. Ps 145, 15). Zwrócone ku Bogu w oczekiwaniu, zawsze w oczekiwaniu. Na drodze życia doświadczyli trudności i rozczarowań, ale nie poddali się defetyzmowi: nie posłali nadziei „na emeryturę”. W ten sposób, kontemplując Dzieciątko, uznają, że czas się wypełnił, spełniło się proroctwo, przybył Ten, którego szukali i za którym tęsknili, Mesjasz narodów. Z żywą uwagą oczekując na Pana, stają się zdolni do przyjęcia Go w nowości Jego przyjścia.

Bracia i siostry, oczekiwanie na Boga jest również ważne dla nas, dla naszej drogi wiary. Każdego dnia Pan nas nawiedza, przemawia do nas, objawia się w nieoczekiwany sposób, a na końcu życia i czasów nadejdzie. Dlatego On sam zachęca nas do czuwania, czujności, wytrwałości w oczekiwaniu. Najgorszą rzeczą, jaka może nam się przydarzyć, jest zapadnięcie w „sen ducha”: uśpienie serca, znieczulenie duszy, złożenie nadziei w ciemnych zakamarkach rozczarowań i rezygnacji.

Myślę o was, konsekrowani bracia i siostry, i o darze, jakim jesteście; myślę o każdym z nas, współczesnych chrześcijanach: czy jesteśmy jeszcze zdolni do życia w oczekiwaniu? Czyż nie jesteśmy czasem zbyt pochłonięci sobą, sprawami i intensywnym rytmem każdego dnia, tak bardzo, że zapominamy o Bogu, który zawsze przychodzi? Czy nie jesteśmy zbyt pochłonięci naszymi dobrymi uczynkami, co grozi tym, że nawet życie religijne i chrześcijańskie zamieni się w „wiele rzeczy do zrobienia” i zaniedbywaniem codziennego poszukiwania Pana? Czy nie grozi nam czasem programowanie życia osobistego i życia wspólnotowego w oparciu o kalkulowanie szans powodzenia, zamiast pielęgnować z radością i pokorą powierzone nam małe ziarno, w cierpliwości tych, którzy sieją, niczego się nie spodziewając, i tych, którzy umieją czekać na czasy i niespodzianki Boga? Czasami – musimy to przyznać – zatraciliśmy tę zdolność oczekiwania. Dzieje się tak z powodu różnych przeszkód, a spośród nich chciałbym podkreślić dwie.

Pierwszą przeszkodą, która sprawia, że tracimy zdolność oczekiwania jest zaniedbanie życia wewnętrznego. Dzieje się tak, gdy znużenie przeważa nad zadziwieniem, gdy nawyk zastępuje entuzjazm, gdy tracimy wytrwałość na drodze duchowej, gdy doświadczenia negatywne, konflikty lub owoce, które zdają się opóźniać, zmieniają nas w osoby zgorzkniałe i rozgoryczone. Nie dobrze przeżuwać gorycz, bo w rodzinie zakonnej – jak w każdej wspólnocie i rodzinie – osoby rozgoryczone i o „ponurych obliczach” sprawiają, że powietrze staje się ciężkie; te osoby wydają się mieć ocet w sercu. Trzeba więc odzyskać utraconą łaskę: cofnąć się i, poprzez intensywne życie wewnętrzne, powrócić do ducha radosnej pokory, cichej wdzięczności. A to karmi się adoracją, pracą kolan i serca, konkretną modlitwą, która walczy i wstawia się, jest zdolna do rozbudzenia: pragnienia Boga, miłości która była kiedyś, zadziwienia pierwszego dnia, smaku oczekiwania.

Drugą przeszkodą jest dostosowanie się do stylu świata, który ostatecznie zajmuje miejsce Ewangelii. A nasz świat jest światem, który często mknie z wielką prędkością, który wychwala formułę „wszystko i natychmiast”, który wyczerpuje się w aktywizmie i stara się odpędzić lęki i niepokoje życia w pogańskich świątyniach konsumpcjonizmu lub w rozrywce za wszelką cenę. W takim kontekście, w którym cisza jest wygnana i zagubiona, czekanie nie jest łatwe, ponieważ wymaga postawy zdrowej bierności, odwagi, by zwolnić krok, nie dać się przytłoczyć zajęciom, zrobić w sobie miejsce na działanie Boga, jak uczy mistyka chrześcijańska. Uważajmy zatem, aby duch świata nie wszedł do naszych wspólnot zakonnych, do życia kościelnego i do drogi każdego z nas, w przeciwnym razie nie przyniesiemy owoców. Życie chrześcijańskie i misja apostolska potrzebują oczekiwania, dojrzewającego w modlitwie i codziennej wierności, aby uwolnić nas od mitu skuteczności, od obsesji na punkcie wydajności, a przede wszystkim od usiłowania zamknięcia Boga w naszych kategoriach, ponieważ On zawsze przychodzi w sposób nieprzewidywalny, zawsze przychodzi w czasach, które nie są nasze, i w sposób, którego się nie spodziewamy.

Jak twierdzi francuska mistyczka i filozof Simone Weil, my jesteśmy oblubienicą czekającą w nocy na przybycie oblubieńca, a „rola przyszłej oblubienicy polega na czekaniu [...]. Pragnąć Boga i wyrzec się wszystkiego innego: tylko na tym polega zbawienie” (S. Weil, Attesa di Dio, Milano 1991, 152). Siostry, bracia, pielęgnujmy w modlitwie oczekiwanie na Pana i uczmy się dobrej „bierności Ducha”: w ten sposób będziemy mogli otworzyć się na nowość Boga.

Podobnie jak Symeon, my również weźmy na ręce Dzieciątko, Boga nowości i niespodzianek. Przyjmując Pana, przeszłość otwiera się na przyszłość, stare w nas otwiera się na nowe, które On przynosi. Nie jest to łatwe – wiemy – ponieważ w życiu zakonnym, podobnie jak w życiu każdego chrześcijanina, trudno jest przeciwstawić się „sile starego”: „istotnie nie łatwo staremu człowiekowi w nas przyjąć dziecko, nowe – przyjąć nowe, w naszym podeszłym wieku przyjąć nowe –. [...]. Nowość Boga przedstawia się jako dziecko, a my, ze wszystkimi naszymi nawykami, lękami, obawami, zazdrością – zastanówmy się nad zazdrością! –, zmartwieniami, stajemy wobec tego dziecka. Czy przyjmiemy je, powitamy, uczynimy dla niego miejsce? Czy ta nowość naprawdę wejdzie w nasze życie, czy raczej będziemy próbowali połączyć stare z nowym, starając się, aby obecność nowości Boga jak najmniej nas niepokoiła?” (C.M. Martini, Qualcosa di così personale. Meditazioni sulla preghiera, Milano 2009, 32-33).

Bracia i siostry, te pytania są dla nas, dla każdego z nas, są dla naszych wspólnot, są dla Kościoła. Pozwólmy się zaniepokoić, pozwólmy się poruszyć Duchowi, jak Symeon i Anna. Jeśli, tak jak oni, będziemy żyli oczekiwaniem, strzegąc życia wewnętrznego i w zgodzie ze stylem Ewangelii, jeśli, tak jak oni, będziemy żyli oczekiwaniem w ten sposób, przyjmiemy Jezusa, który jest światłem i nadzieją życia.

[00217-PL.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua araba

عظة قداسة البابا فرنسيس

في القدّاس الإلهيّ

في عيد تقدمة الرّبّ يسوع إلى الهيكل

واليوم العالمي الثّامن والعشرين للحياة المكرّسة

2 شباط/فبراير 2024

بازيليكا القدّيس بطرس

بينما كان الشّعب ينتظر خلاص الرّبّ، كان الأنبياء يُعلِنون مجيئه، كما يقول النّبي ملاخي: "يَأتي فَجأَةً إِلى هَيكَلِه السَّيِّدُ الَّذي تَلتَمِسونَه، ومَلاكُ العَهدِ الَّذي تَرتَضونَ بِه. ها إِنَّه آتٍ" (3، 1). سمعان وحنَّة هما صورة ووجهان لهذا الانتظار. رَأَيَا الرّبّ يسوع يدخل إلى هيكله، وقد أنارهما الرّوح القدس، فعرفاه في الطّفل الذي كانت تحمله مريم بين ذراعيها. فقد انتظراه طيلة حياتهما: كان سمعان "رَجُلًا بارًّا تَقِيًّا، يَنتَظِرُ الفَرَجَ لإِسرائيل" (لوقا 2، 25)؛ وكانت حنَّة "لا تُفارِقُ الهَيكَل" (لوقا 2، 37).

حَسَنٌ لنا أن ننظر إلى هذَين المتقدِّمَين في السِّن الصَّابرَين في الانتظار، والسّاهرَين في الرّوح، والمواظبَين على الصّلاة. بقي قلبهما يقظًا مثل النّار المشتعلة دائمًا. كانا متقدّمين في السّن ولكن في قلبهما شباب الانتظار. لم يسمحا للأيام بأن تُضعف قواهما، لأنّ أعينهما بقيت موجَّهة نحو الله وكانا ينتظران (راجع مزمور 145، 15). اختبرا في مسيرة حياتهما مصاعب وخيبات أمل، لكنّهما لم يستسلما للانهزاميّة: لم يفقدا الأمل. فلمّا أخذا يتأمّلان في الطّفل، اعترفا بأنّ الزّمان قد تمّ، والنّبوءة قد تحقّقت، والذي كانا يبحثان عنه متلهَّفين إليه، مسيح الأمم، قد جاء. وببقائهما مستيقظَين في انتظار الرّبّ، صارا قادرَين على استقباله وقبوله في كلّ ما هو جديد في مجيئه.

أيّها الإخوة والأخوات، انتظار الله مهمّ لنا أيضًا، في مسيرة إيماننا. كلّ يوم، الله يزورنا، ويكلّمنا، ويكشف عن نفسه بطريقة غير متوقّعة، وفي نهاية الحياة والأزمنة، سيأتي إلينا. لذلك فهو نفسه يحثّنا على البقاء مستيقظين، ساهرين مثابرين في الانتظار. إنّ أسوأ ما يمكن أن يحدث لنا، في الواقع، هو أن نقع في "سبات الرّوح“: نوم القلب، وتخدير النّفس، ونسيان الأمل في زوايا الفشل والاستسلام المظلمة.

أفكّر فيكم، أيّها الإخوة والأخوات المكرّسون، وفي العطيّة التي هي أنتم، وأفكّر في كلّ واحد منّا نحن المسيحيّين اليوم: هل ما زلنا قادرين على أن نحيا منتظرين؟ ألسنا منشغلين أحيانًا بأنفسنا، وبالأشياء والإيقاعات اليوميّة الضّاغطة علينا، إلى حدّ أنّنا نسينا الله الذي يأتي إلينا دائمًا؟ ألسنا غارقين في أعمالنا الصّالحة، ونوشك أن نحوِّل حياتنا الرّهبانيّة والمسيحيّة إلى ”شيء من الأشياء التي يجب أن نقوم بها“ ونهمل بحثنا اليوميّ عن الله؟ ألا نوشك أحيانًا بأن نخطّط حياتنا الشّخصيّة والجماعيّة بناءً على حسابات فرص النّجاح، بدلًا من أن نزرع بفرح وتواضع البَذْرَة الصّغيرة الموكولة إلينا، في صبر الذي يزرع دون أن يتوقّع شيئًا والذي يعرف أن ينتظر الأوقات ومفاجآت الله؟ أحيانًا – يجب أن نعترف بذلك – فقدنا القدرة على الانتظار. وهذا تسبّبه عدة عوائق، أودّ أن أركِّز على اثنين منها.

العائق الأوّل الذي يفقدنا القدرة على الانتظار هو إهمالنا لحياتنا الدّاخليّة. هذا ما يحدث عندما يتغلّب التّعب على اليقظة والاندهاش، وعندما تحلّ العادة محلّ الحماس، وعندما نفقد المثابرة في مسيرتنا الرّوحيّة، وعندما تُحوّلنا الخبرات السّلبيّة والصّراعات أو الثّمار التي تبدو لنا أنّها متأخّرة، إلى أشخاص عابسين نعيش في المرارة. ليس جيّدًا لنا أن نعيش في المرارة، لأنّه في العائلة الرّهبانيّة - كما في كلّ جماعة وعائلة – الأشخاص الذين يشعرون بالمرارة و ”وجوههم عابسة“ يجعلون الجوَّ العامّ ثقيلًا. يجب أن نستعيد النّعمة التي فقدناها: أن نعود من جديد، من خلال حياة داخلية مكثّفة، إلى روح التّواضع والفرح والشُّكر الصّامت. والغذاء لكلّ هذا هو السّجود، وبركوع الرّكبتين والقلب، وبالصّلاة الحقيقيّة التي تُجاهِد وتَتشفَّع، تقدر أن تُوقظ الشّوق إلى الله فينا، ومحبّتنا كما كانت في الماضي، واندهاشنا في أوّل يوم، وطعم الانتظار.

العائق الثّاني هو التّكيّف مع أسلوب العالم الذي ينتهي إلى أن يحلّ محلّ الإنجيل. وعالمنا هو عالمٌ يسير غالبًا بسرعة كبيرة، ويريد ”كلّ شيء وفورًا“، ويَستَنفِد نفسه في النّشاط الزائد ويحاول أن يَتَخَلَّص من مخاوف وقلق الحياة في معابد الاستهلاك الوثنيّة أو في التّرفيه بأيّ ثمن. في مثل هذا السّياق، حيث يُنفَى الصّمت ويضيع، الانتظار ليس سهلًا، لأنّه يتطلّب منّا موقفًا من السّلبيّة الصّحيّة، وشجاعة لتخفيف السّرعة، لكي لا تطغى علينا النّشاطات، ولكي نُفسح مجالًا في داخلنا لعمل الله، كما يعلّمنا التّصوّف المسيحيّ. لنتنبَّه، إذًا، حتّى لا يدخل روح العالم في جماعاتنا الرّهبانيّة، والحياة الكنسيّة، وفي مسيرة كلّ واحدٍ منّا، وإلّا فلن نُؤتي ثمرًا. الحياة المسيحيّة والرّسالة الرّسوليّة يحتاجان إلى الانتظار، الذي تنضّجه الصّلاة والأمانة اليوميّة، والذي يحرّرنا من أسطورة الفعّالية الفورية ومن هوس الإنتاج، ومن الغرور، الذي نظن به أنّنا نقدر أن نحصر الله في أطرنا، لأنّ الله يأتي دائمًا بطريقة غير متوقّعة، وفي أوقات ليست أوقاتنا وبالطّرق التي لا ننتظرها.

كما أكّدت المتصوّفة والفيلسوفة الفرنسيّة سيمون ويل، نحن العروس التي تنتظر وصول العريس في الليل، و "دور عروس المستقبل هو الانتظار [...]. أن نطلب الله ونزهد بكلّ شيء آخر: في هذا فقط يكمُن الخلاص" (سيمون ويل، انتظار الله، ميلانو 1991، 152). أيّها الإخوة والأخوات، لِنُنَمِّ انتظار الرّبّ يسوع في صلاتنا ولنتعلّم ”الانتظار الإيجابي من الرّوح القدس“: كذلك نكون قادرين على قبول كلّ ما هو جديد من الله.

مِثلَ سمعان، لنحمل نحن أيضًا الطّفل بين ذراعَينا، إنّه إله كلّ جديد وإله المفاجآت. عندما نقبل الرّبّ يسوع، ينفتح الماضي على المستقبل، والقديم فينا ينفتح على الجديد الذي يُلهمنا إياه هو. وهذا الأمر ليس بسيطًا - نحن نعرف ذلك - لأنّه، في الحياة الرّهبانيّة كما في حياة كلّ مسيحيّ، من الصّعب غالبًا أن نعترض على ”قوّة القديم“: "في الواقع، ليس سهلًا على القديم الذي فينا أن يقبل الطّفل، الجديد [...]. كلّ ما هو جديد في الله يظهر لنا مِثلَ طفلٍ، ونحن، مع كلّ عاداتنا وخوفنا ومخاوفنا وحسدنا وهمومنا، نقف أمام هذا الطّفل. هل نعانقه، وهل نقبله، وهل نفسح له المجال؟ هل يدخل الجديد حقًّا في حياتنا، أم نحاول أن نجمع القديم مع الجديد، ونحاول أن نتأثّر أقل ما يمكن بحضور جديد الله فينا؟ (كارلو ماريّا مارتيني، شيء ما شخصيّ جدًّا، تأمّلات في الصّلاة، ميلانو 2009، 32-33).

أيّها الإخوة والأخوات، هذه الأسئلة موجّهة إلينا، وإلى كلّ واحد منّا، وإلى جماعاتنا، وإلى الكنيسة. لنضطرب، ولندع الرّوح القدس يحرّكنا، مثل سمعان وحنَّة. إن عرفنا أن ننتظر مثلهما، حافظين حياتنا الدّاخليّة ومنسجمين مع أسلوب الإنجيل، سنعانق يسوع، نورًا ورجاءً للحياة.

[00217-AR.02] [Testo originale: Italiano]

 

[B0112-XX.02]