Sala Stampa

www.vatican.va

Sala Stampa Back Top Print Pdf
Sala Stampa


Messaggio del Santo Padre Francesco per la Quaresima 2024, 01.02.2024


Messaggio del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Traduzione in lingua araba

Pubblichiamo di seguito il testo del Messaggio del Santo Padre Francesco per la Quaresima 2024 sul tema “Attraverso il deserto Dio ci guida alla libertà”:

Messaggio del Santo Padre

Attraverso il deserto Dio ci guida alla libertà

Cari fratelli e sorelle!

Quando il nostro Dio si rivela, comunica libertà: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile» (Es 20,2). Così si apre il Decalogo dato a Mosè sul monte Sinai. Il popolo sa bene di quale esodo Dio parli: l’esperienza della schiavitù è ancora impressa nella sua carne. Riceve le dieci parole nel deserto come via di libertà. Noi li chiamiamo “comandamenti”, accentuando la forza d’amore con cui Dio educa il suo popolo. È infatti una chiamata vigorosa, quella alla libertà. Non si esaurisce in un singolo evento, perché matura in un cammino. Come Israele nel deserto ha ancora l’Egitto dentro di sé – infatti spesso rimpiange il passato e mormora contro il cielo e contro Mosè –, così anche oggi il popolo di Dio porta in sé dei legami oppressivi che deve scegliere di abbandonare. Ce ne accorgiamo quando ci manca la speranza e vaghiamo nella vita come in una landa desolata, senza una terra promessa verso cui tendere insieme. La Quaresima è il tempo di grazia in cui il deserto torna a essere – come annuncia il profeta Osea – il luogo del primo amore (cfr Os 2,16-17). Dio educa il suo popolo, perché esca dalle sue schiavitù e sperimenti il passaggio dalla morte alla vita. Come uno sposo ci attira nuovamente a sé e sussurra parole d’amore al nostro cuore.

L’esodo dalla schiavitù alla libertà non è un cammino astratto. Affinché concreta sia anche la nostra Quaresima, il primo passo è voler vedere la realtà. Quando nel roveto ardente il Signore attirò Mosè e gli parlò, subito si rivelò come un Dio che vede e soprattutto ascolta: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele» (Es 3,7-8). Anche oggi il grido di tanti fratelli e sorelle oppressi arriva al cielo. Chiediamoci: arriva anche a noi? Ci scuote? Ci commuove? Molti fattori ci allontanano gli uni dagli altri, negando la fraternità che originariamente ci lega.

Nel mio viaggio a Lampedusa, alla globalizzazione dell’indifferenza ho opposto due domande, che si fanno sempre più attuali: «Dove sei?» (Gen 3,9) e «Dov’è tuo fratello?» (Gen 4,9). Il cammino quaresimale sarà concreto se, riascoltandole, confesseremo che ancora oggi siamo sotto il dominio del Faraone. È un dominio che ci rende esausti e insensibili. È un modello di crescita che ci divide e ci ruba il futuro. La terra, l’aria e l’acqua ne sono inquinate, ma anche le anime ne vengono contaminate. Infatti, sebbene col battesimo la nostra liberazione sia iniziata, rimane in noi una inspiegabile nostalgia della schiavitù. È come un’attrazione verso la sicurezza delle cose già viste, a discapito della libertà.

Vorrei indicarvi, nel racconto dell’Esodo, un particolare di non poco conto: è Dio a vedere, a commuoversi e a liberare, non è Israele a chiederlo. Il Faraone, infatti, spegne anche i sogni, ruba il cielo, fa sembrare immodificabile un mondo in cui la dignità è calpestata e i legami autentici sono negati. Riesce, cioè, a legare a sé. Chiediamoci: desidero un mondo nuovo? Sono disposto a uscire dai compromessi col vecchio? La testimonianza di molti fratelli vescovi e di un gran numero di operatori di pace e di giustizia mi convince sempre più che a dover essere denunciato è un deficit di speranza. Si tratta di un impedimento a sognare, di un grido muto che giunge fino al cielo e commuove il cuore di Dio. Somiglia a quella nostalgia della schiavitù che paralizza Israele nel deserto, impedendogli di avanzare. L’esodo può interrompersi: non si spiegherebbe altrimenti come mai un’umanità giunta alla soglia della fraternità universale e a livelli di sviluppo scientifico, tecnico, culturale, giuridico in grado di garantire a tutti la dignità brancoli nel buio delle diseguaglianze e dei conflitti.

Dio non si è stancato di noi. Accogliamo la Quaresima come il tempo forte in cui la sua Parola ci viene nuovamente rivolta: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile» (Es 20,2). È tempo di conversione, tempo di libertà. Gesù stesso, come ricordiamo ogni anno la prima domenica di Quaresima, è stato spinto dallo Spirito nel deserto per essere provato nella libertà. Per quaranta giorni Egli sarà davanti a noi e con noi: è il Figlio incarnato. A differenza del Faraone, Dio non vuole sudditi, ma figli. Il deserto è lo spazio in cui la nostra libertà può maturare in una personale decisione di non ricadere schiava. Nella Quaresima troviamo nuovi criteri di giudizio e una comunità con cui inoltrarci su una strada mai percorsa.

Questo comporta una lotta: ce lo raccontano chiaramente il libro dell’Esodo e le tentazioni di Gesù nel deserto. Alla voce di Dio, che dice: «Tu sei il Figlio mio, l’amato» (Mc 1,11) e «Non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,3), si oppongono infatti le menzogne del nemico. Più temibili del Faraone sono gli idoli: potremmo considerarli come la sua voce in noi. Potere tutto, essere riconosciuti da tutti, avere la meglio su tutti: ogni essere umano avverte la seduzione di questa menzogna dentro di sé. È una vecchia strada. Possiamo attaccarci così al denaro, a certi progetti, idee, obiettivi, alla nostra posizione, a una tradizione, persino ad alcune persone. Invece di muoverci, ci paralizzeranno. Invece di farci incontrare, ci contrapporranno. Esiste però una nuova umanità, il popolo dei piccoli e degli umili che non hanno ceduto al fascino della menzogna. Mentre gli idoli rendono muti, ciechi, sordi, immobili quelli che li servono (cfr Sal 114,4), i poveri di spirito sono subito aperti e pronti: una silenziosa forza di bene che cura e sostiene il mondo.

È tempo di agire, e in Quaresima agire è anche fermarsi. Fermarsi in preghiera, per accogliere la Parola di Dio, e fermarsi come il Samaritano, in presenza del fratello ferito. L’amore di Dio e del prossimo è un unico amore. Non avere altri dèi è fermarsi alla presenza di Dio, presso la carne del prossimo. Per questo preghiera, elemosina e digiuno non sono tre esercizi indipendenti, ma un unico movimento di apertura, di svuotamento: fuori gli idoli che ci appesantiscono, via gli attaccamenti che ci imprigionano. Allora il cuore atrofizzato e isolato si risveglierà. Rallentare e sostare, dunque. La dimensione contemplativa della vita, che la Quaresima ci farà così ritrovare, mobiliterà nuove energie. Alla presenza di Dio diventiamo sorelle e fratelli, sentiamo gli altri con intensità nuova: invece di minacce e di nemici troviamo compagne e compagni di viaggio. È questo il sogno di Dio, la terra promessa verso cui tendiamo, quando usciamo dalla schiavitù.

La forma sinodale della Chiesa, che in questi anni stiamo riscoprendo e coltivando, suggerisce che la Quaresima sia anche tempo di decisioni comunitarie, di piccole e grandi scelte controcorrente, capaci di modificare la quotidianità delle persone e la vita di un quartiere: le abitudini negli acquisti, la cura del creato, l’inclusione di chi non è visto o è disprezzato. Invito ogni comunità cristiana a fare questo: offrire ai propri fedeli momenti in cui ripensare gli stili di vita; darsi il tempo per verificare la propria presenza nel territorio e il contributo a renderlo migliore. Guai se la penitenza cristiana fosse come quella che rattristava Gesù. Egli dice anche a noi: «Non diventate malinconici come gli ipocriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano» (Mt 6,16). Si veda piuttosto la gioia sui volti, si senta il profumo della libertà, si sprigioni quell’amore che fa nuove tutte le cose, cominciando dalle più piccole e vicine. In ogni comunità cristiana questo può avvenire.

Nella misura in cui questa Quaresima sarà di conversione, allora, l’umanità smarrita avvertirà un sussulto di creatività: il balenare di una nuova speranza. Vorrei dirvi, come ai giovani che ho incontrato a Lisbona la scorsa estate: «Cercate e rischiate, cercate e rischiate. In questo frangente storico le sfide sono enormi, gemiti dolorosi. Stiamo vedendo una terza guerra mondiale a pezzi. Ma abbracciamo il rischio di pensare che non siamo in un’agonia, bensì in un parto; non alla fine, ma all’inizio di un grande spettacolo. Ci vuole coraggio per pensare questo» (Discorso agli universitari, 3 agosto 2023). È il coraggio della conversione, dell’uscita dalla schiavitù. La fede e la carità tengono per mano questa bambina speranza. Le insegnano a camminare e, nello stesso tempo, lei le tira in avanti.[1]

Benedico tutti voi e il vostro cammino quaresimale.

Roma, San Giovanni in Laterano, 3 dicembre 2023, I Domenica di Avvento.

FRANCESCO

__________________________

[1] Cfr Ch. Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù, Milano 1978, 17-19.

[00201-IT.01] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

À travers le désert Dieu nous guide vers la liberté

Chers frères et sœurs !

Lorsque notre Dieu se révèle, il communique la liberté : « Je suis le Seigneur ton Dieu, qui t’ai fait sortir du pays d’Égypte, de la maison d’esclavage » (Ex 20, 2). C’est ainsi que s’ouvre le Décalogue donné à Moïse sur le mont Sinaï. Le peuple sait bien de quel exode Dieu parle : l’expérience de l’esclavage est encore gravée dans sa chair. Il reçoit les dix consignes dans le désert comme un chemin vers la liberté. Nous les appelons « commandements », pour souligner la force de l’amour avec lequel Dieu éduque son peuple. Il s’agit en effet d’un appel vigoureux à la liberté. Il ne se réduit pas à un seul événement, car il mûrit au cours d’un cheminement. De même qu’Israël dans le désert conserve encore en lui l’Égypte – en fait, il regrette souvent le passé et murmure contre le ciel et contre Moïse – de la même façon, aujourd’hui, le peuple de Dieu garde en lui des liens contraignants qu’il doit choisir d’abandonner. Nous nous en rendons compte lorsque nous manquons d’espérance et que nous errons dans la vie comme sur une lande désolée, sans terre promise vers laquelle tendre ensemble. Le Carême est le temps de la grâce durant lequel le désert redevient – comme l’annonce le prophète Osée – le lieu du premier amour (cf. Os 2, 16-17). Dieu éduque son peuple pour qu’il sorte de l’esclavage et expérimente le passage de la mort à la vie. Comme un époux, il nous ramène à lui et murmure à notre cœur des paroles d’amour.

L’exode de l’esclavage vers la liberté n’est pas un chemin abstrait. Pour que notre Carême soit aussi concret, la première démarche est de vouloir voir la réalité. Lorsque, dans le buisson ardent, le Seigneur attira Moïse et lui parla, il se révéla immédiatement comme un Dieu qui voit et surtout qui écoute : « J’ai vu, oui, j’ai vu la misère de mon peuple qui est en Égypte, et j’ai entendu ses cris sous les coups des surveillants. Oui, je connais ses souffrances. Je suis descendu pour le délivrer de la main des Égyptiens et le faire monter de ce pays vers un beau et vaste pays, vers un pays, ruisselant de lait et de miel » (Ex 3, 7-8). Aujourd’hui encore, le cri de tant de frères et sœurs opprimés parvient au ciel. Posons-nous la question : est-ce qu’il nous parvient à nous aussi ? Nous ébranle-t-il ? Nous émeut-il ? De nombreux facteurs nous éloignent les uns des autres, en bafouant la fraternité qui, à l’origine, nous liait les uns aux autres.

Lors de mon voyage à Lampedusa, j’ai opposé à la mondialisation de l’indifférence deux questions de plus en plus actuelles : « Où es-tu ? » (Gn 3, 9) et « Où est ton frère ? » (Gn 4, 9). Le parcours de Carême sera concret si, en les écoutant à nouveau, nous reconnaissons que nous sommes encore sous la domination du Pharaon. Une domination qui nous épuise et nous rend insensibles. C’est un modèle de croissance qui nous divise et nous vole l’avenir. La terre, l’air et l’eau en sont pollués, mais les âmes sont elles aussi contaminées. En effet, bien que notre libération ait commencé avec le baptême, il subsiste en nous une inexplicable nostalgie de l’esclavage. C’est comme une attirance vers la sécurité du déjà vu, au détriment de la liberté.

Je voudrais souligner, dans le récit de l’Exode, un détail qui n’est pas sans importance : c’est Dieu qui voit, qui s’émeut et qui libère, ce n’est pas Israël qui le demande. Le Pharaon, en effet, anéantit même les rêves, vole le ciel, fait apparaître comme immuable un monde où la dignité est bafouée et où les relations authentiques sont déniées. En un mot, il réussit à enchaîner à lui-même. Posons-nous la question : est-ce que je désire un monde nouveau ? Suis-je prêt à me libérer des compromis avec l’ancien ? Le témoignage de nombreux frères évêques et d’un grand nombre d’artisans de paix et de justice me convainc de plus en plus à devoir dénoncer un défaut d’espérance. Il s’agit d’un obstacle au rêve, d’un cri muet qui monte jusqu’au ciel et touche le cœur de Dieu et ressemble à ce regret de l’esclavage qui paralyse Israël dans le désert, en l’empêchant d’avancer. L’exode peut prendre fin : autrement, on ne pourrait pas expliquer pourquoi une humanité qui a atteint le seuil de la fraternité universelle et des niveaux de développement scientifique, technique, culturel et juridique capables d’assurer la dignité de tous, tâtonne dans l’obscurité des inégalités et des conflits.

Dieu ne s’est pas lassé de nous. Accueillons le Carême comme le temps fort durant lequel sa Parole s’adresse de nouveau à nous : « Je suis le Seigneur ton Dieu, qui t’ai fait sortir du pays d’Égypte, de la maison d’esclavage » (Ex 20, 2). C’est un temps de conversion, un temps de liberté. Jésus lui-même, comme nous le rappelons chaque année à l’occasion du premier dimanche de Carême, a été conduit par l’Esprit au désert pour être éprouvé dans sa liberté. Pendant quarante jours, il sera devant nous et avec nous : il est le Fils incarné. Contrairement au Pharaon, Dieu ne veut pas des sujets, mais des fils. Le désert est l’espace dans lequel notre liberté peut mûrir en une décision personnelle de ne pas retomber dans l’esclavage. Pendant le Carême, nous trouvons de nouveaux critères de jugement et une communauté avec laquelle nous engager sur une route que nous n’avons jamais parcourue auparavant.

Cela implique une lutte : le livre de l’Exode et les tentations de Jésus dans le désert nous le disent clairement. À la voix de Dieu, qui dit : « Tu es mon Fils bien-aimé ; en toi, je trouve ma joie » (Mc 1, 11) et « Tu n’auras pas d’autres dieux en face de moi » (Ex 20, 3), s’opposent en effet les mensonges de l’ennemi. Les idoles sont plus redoutables que le Pharaon : nous pourrions les considérer comme sa voix en nous. Pouvoir tout faire, être reconnu par tous, avoir le dessus sur tout le monde : chaque être humain ressent en lui la séduction de ce mensonge. C’est une vieille habitude. Nous pouvons nous accrocher ainsi à l’argent, à certains projets, à des idées, à des objectifs, à notre position, à une tradition, voire à certaines personnes. Au lieu de nous faire avancer, elles nous paralyseront. Au lieu de nous rapprocher, elles nous opposeront. Mais il y a une nouvelle humanité, le peuple des petits et des humbles qui n’a pas succombé à l’attrait du mensonge. Alors que les idoles rendent muets, aveugles, sourds, ou immobiles ceux qui les servent (cf. Ps 114, 4), les pauvres en esprit sont immédiatement ouverts et prêts : une silencieuse force de bien qui guérit et soutient le monde.

Il est temps d’agir, et durant le Carême, agir c’est aussi s’arrêter. S’arrêter en prière, pour accueillir la Parole de Dieu, et s’arrêter comme le Samaritain, en présence du frère blessé. L’amour de Dieu et du prochain est un unique amour. Ne pas avoir d’autres dieux, c’est s’arrêter en présence de Dieu, devant la chair de son prochain. C’est pourquoi la prière, l’aumône et le jeûne ne sont pas trois exercices indépendants, mais un seul mouvement d’ouverture, de libération : finies les idoles qui nous alourdissent, finis les attachements qui nous emprisonnent. C’est alors que le cœur atrophié et isolé s’éveillera. Alors, ralentir et s’arrêter. La dimension contemplative de la vie, que le Carême nous fera ainsi redécouvrir, mobilisera de nouvelles énergies. En présence de Dieu, nous devenons des frères et des sœurs, nous percevons les autres avec une intensité nouvelle : au lieu de menaces et d’ennemis, nous trouvons des compagnons et des compagnes de route. C’est le rêve de Dieu, la terre promise vers laquelle nous tendons une fois sortis de l’esclavage.

La forme synodale de l’Église, que nous redécouvrons et cultivons ces dernières années, suggère que le Carême soit aussi un temps de décisions communautaires, de petits et de grands choix à contre-courant, capables de changer la vie quotidienne des personnes et la vie d’un quartier : les habitudes d’achat, le soin de la création, l’inclusion de celui qui n’est pas visible ou de celui qui est méprisé. J’invite chaque communauté chrétienne à faire cela : offrir à ses fidèles des moments pour repenser leur style de vie ; se donner du temps pour vérifier leur présence dans le quartier et leur contribution à le rendre meilleur. Quel malheur si la pénitence chrétienne ressemblait à celle qui attristait Jésus. À nous aussi, il dit : « Et quand vous jeûnez, ne prenez pas un air abattu, comme les hypocrites : ils prennent une mine défaite pour bien montrer aux hommes qu’ils jeûnent » (Mt 6, 16). Au contraire, que l’on voie la joie sur les visages, que l’on sente le parfum de la liberté, qu’on libère cet amour qui fait toutes choses nouvelles, en commençant par les plus petites et les plus proches. Cela peut se produire dans chaque communauté chrétienne.

Dans la mesure où ce Carême sera un Carême de conversion, alors l’humanité égarée éprouvera un sursaut de créativité : l’aube d’une nouvelle espérance. Je voudrais vous dire, comme aux jeunes que j’ai rencontrés à Lisbonne l’été dernier : « Cherchez et risquez, cherchez et risquez. À ce tournant de l’histoire, les défis sont énormes, les gémissements douloureux. Nous assistons à une troisième guerre mondiale par morceaux. Prenons le risque de penser que nous ne sommes pas dans une agonie, mais au contraire dans un enfantement ; non pas à la fin, mais au début d’un grand spectacle. Il faut du courage pour penser cela » (Rencontre avec les jeunes universitaires, 3 août 2023). C’est le courage de la conversion, de la délivrance de l’esclavage. La foi et la charité tiennent la main de cette « petite fille espérance ». Elles lui apprennent à marcher et elle, en même temps, les tire en avant[1].

Je vous bénis tous ainsi que votre cheminement de Carême.

Rome, Saint-Jean-de-Latran, le 3 décembre 2023, 1er dimanche de l’Avent.

FRANÇOIS

_____________________

[1] Cf. Ch. Péguy, Le porche du mystère de la deuxième vertu, in Œuvres poétiques et dramatiques, Gallimard, Paris, 2014, p. 613.

[00201-FR.01] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

Through the Desert God Leads us to Freedom

Dear brothers and sisters!

When our God reveals himself, his message is always one of freedom: “I am the Lord your God, who brought you out of the land of Egypt, out of the house of slavery” (Ex 20:2). These are the first words of the Decalogue given to Moses on Mount Sinai. Those who heard them were quite familiar with the exodus of which God spoke: the experience of their bondage still weighed heavily upon them. In the desert, they received the “Ten Words” as a thoroughfare to freedom. We call them “commandments”, in order to emphasize the strength of the love by which God shapes his people. The call to freedom is a demanding one. It is not answered straightaway; it has to mature as part of a journey. Just as Israel in the desert still clung to Egypt – often longing for the past and grumbling against the Lord and Moses – today too, God’s people can cling to an oppressive bondage that it is called to leave behind. We realize how true this is at those moments when we feel hopeless, wandering through life like a desert and lacking a promised land as our destination. Lent is the season of grace in which the desert can become once more – in the words of the prophet Hosea – the place of our first love (cf. Hos 2:16-17). God shapes his people, he enables us to leave our slavery behind and experience a Passover from death to life. Like a bridegroom, the Lord draws us once more to himself, whispering words of love to our hearts.

The exodus from slavery to freedom is no abstract journey. If our celebration of Lent is to be concrete, the first step is to desire to open our eyes to reality. When the Lord calls out to Moses from the burning bush, he immediately shows that he is a God who sees and, above all, hears: “I have observed the misery of my people who are in Egypt; I have heard their cry on account of their taskmasters. Indeed I know their sufferings, and I have come down to deliver them from the Egyptians, and to bring them up out of that land to a good and broad land, a land flowing with milk and honey” (Ex 3:7-8). Today too, the cry of so many of our oppressed brothers and sisters rises to heaven. Let us ask ourselves: Do we hear that cry? Does it trouble us? Does it move us? All too many things keep us apart from each other, denying the fraternity that, from the beginning, binds us to one another.

During my visit to Lampedusa, as a way of countering the globalization of indifference, I asked two questions, which have become more and more pressing: “Where are you?” (Gen 3:9) and “Where is your brother?” (Gen 4:9). Our Lenten journey will be concrete if, by listening once more to those two questions, we realize that even today we remain under the rule of Pharaoh. A rule that makes us weary and indifferent. A model of growth that divides and robs us of a future. Earth, air and water are polluted, but so are our souls. True, Baptism has begun our process of liberation, yet there remains in us an inexplicable longing for slavery. A kind of attraction to the security of familiar things, to the detriment of our freedom.

In the Exodus account, there is a significant detail: it is God who sees, is moved and brings freedom; Israel does not ask for this. Pharaoh stifles dreams, blocks the view of heaven, makes it appear that this world, in which human dignity is trampled upon and authentic bonds are denied, can never change. He put everything in bondage to himself. Let us ask: Do I want a new world? Am I ready to leave behind my compromises with the old? The witness of many of my brother bishops and a great number of those who work for peace and justice has increasingly convinced me that we need to combat a deficit of hope that stifles dreams and the silent cry that reaches to heaven and moves the heart of God. This “deficit of hope” is not unlike the nostalgia for slavery that paralyzed Israel in the desert and prevented it from moving forward. An exodus can be interrupted: how else can we explain the fact that humanity has arrived at the threshold of universal fraternity and at levels of scientific, technical, cultural, and juridical development capable of guaranteeing dignity to all, yet gropes about in the darkness of inequality and conflict.

God has not grown weary of us. Let us welcome Lent as the great season in which he reminds us: “I am the Lord your God, who brought you out of the land of Egypt, out of the house of slavery” (Ex 20:2). Lent is a season of conversion, a time of freedom. Jesus himself, as we recall each year on the first Sunday of Lent, was driven into the desert by the Spirit in order to be tempted in freedom. For forty days, he will stand before us and with us: the incarnate Son. Unlike Pharaoh, God does not want subjects, but sons and daughters. The desert is the place where our freedom can mature in a personal decision not to fall back into slavery. In Lent, we find new criteria of justice and a community with which we can press forward on a road not yet taken.

This, however, entails a struggle, as the book of Exodus and the temptations of Jesus in the desert make clear to us. The voice of God, who says, “You are my Son, the Beloved” (Mk 1:11), and “You shall have no other gods before me” (Ex 20:3) is opposed by the enemy and his lies. Even more to be feared than Pharaoh are the idols that we set up for ourselves; we can consider them as his voice speaking within us. To be all-powerful, to be looked up to by all, to domineer over others: every human being is aware of how deeply seductive that lie can be. It is a road well-travelled. We can become attached to money, to certain projects, ideas or goals, to our position, to a tradition, even to certain individuals. Instead of making us move forward, they paralyze us. Instead of encounter, they create conflict. Yet there is also a new humanity, a people of the little ones and of the humble who have not yielded to the allure of the lie. Whereas those who serve idols become like them, mute, blind, deaf and immobile (cf. Ps 114:4), the poor of spirit are open and ready: a silent force of good that heals and sustains the world.

It is time to act, and in Lent, to act also means to pause. To pause in prayer, in order to receive the word of God, to pause like the Samaritan in the presence of a wounded brother or sister. Love of God and love of neighbour are one love. Not to have other gods is to pause in the presence of God beside the flesh of our neighbour. For this reason, prayer, almsgiving and fasting are not three unrelated acts, but a single movement of openness and self-emptying, in which we cast out the idols that weigh us down, the attachments that imprison us. Then the atrophied and isolated heart will revive. Slow down, then, and pause! The contemplative dimension of life that Lent helps us to rediscover will release new energies. In the presence of God, we become brothers and sisters, more sensitive to one another: in place of threats and enemies, we discover companions and fellow travelers. This is God’s dream, the promised land to which we journey once we have left our slavery behind.

The Church’s synodal form, which in these years we are rediscovering and cultivating, suggests that Lent is also a time of communitarian decisions, of decisions, small and large, that are countercurrent. Decisions capable of altering the daily lives of individuals and entire neighbourhoods, such as the ways we acquire goods, care for creation, and strive to include those who go unseen or are looked down upon. I invite every Christian community to do just this: to offer its members moments set aside to rethink their lifestyles, times to examine their presence in society and the contribution they make to its betterment. Woe to us if our Christian penance were to resemble the kind of penance that so dismayed Jesus. To us too, he says: “Whenever you fast, do not look dismal, like the hypocrites, for they disfigure their faces so as to show others that they are fasting” (Mt 6:16). Instead, let others see joyful faces, catch the scent of freedom and experience the love that makes all things new, beginning with the smallest and those nearest to us. This can happen in every one of our Christian communities.

To the extent that this Lent becomes a time of conversion, an anxious humanity will notice a burst of creativity, a flash of new hope. Allow me to repeat what I told the young people whom I met in Lisbon last summer: “Keep seeking and be ready to take risks. At this moment in time, we face enormous risks; we hear the painful plea of so many people. Indeed, we are experiencing a third world war fought piecemeal. Yet let us find the courage to see our world, not as being in its death throes but in a process of giving birth, not at the end but at the beginning of a great new chapter of history. We need courage to think like this” (Address to University Students, 3 August 2023). Such is the courage of conversion, born of coming up from slavery. For faith and charity take hope, this small child, by the hand. They teach her to walk, and at the same time, she leads them forward.[1]

I bless all of you and your Lenten journey.

Rome, Saint John Lateran, 3 December 2023, First Sunday of Advent.

FRANCIS

________________________

[1] Cf. CH. PÉGUY, The Portico of the Mystery of the Second Virtue.

[00201-EN.01] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Durch die Wüste führt Gott uns zur Freiheit

Liebe Brüder und Schwestern!

Wenn unser Gott sich offenbart, teilt er Freiheit mit: »Ich bin der Herr, dein Gott, der dich aus dem Land Ägypten geführt hat, aus dem Sklavenhaus« (Ex 20,2). So beginnen die Zehn Gebote, die Mose auf dem Berg Sinai übergeben worden sind. Das Volk weiß gut, von welchem Auszug Gott spricht: Die Erfahrung der Sklaverei steckt ihm noch in den Gliedern. Es empfängt die zehn Gebote in der Wüste als einen Weg der Freiheit. Wir nennen sie „Gebote“ und betonen die Kraft der Liebe, mit der Gott sein Volk erzieht. Dieser Ruf zur Freiheit ist in der Tat ein kraftvoller Ruf. Er erschöpft sich nicht in einem einzigen Ereignis, vielmehr reift er im Verlauf eines Weges. So wie das Volk Israel in der Wüste immer noch Ägypten in sich trägt – es trauert nämlich oft der Vergangenheit nach und murrt gegen den Himmel und gegen Mose –, so trägt das Volk Gottes auch heute erdrückende Bindungen in sich, die es hinter sich lassen muss. Das merken wir, wenn es uns an Hoffnung fehlt und wir durch das Leben ziehen wie durch eine Einöde, ohne ein verheißenes Land, auf das wir gemeinsam zustreben können. Die Fastenzeit ist die Zeit der Gnade, in der die Wüste wieder – wie der Prophet Hosea verkündet – zum Ort der ersten Liebe wird (vgl. Hos 2,16-17). Gott erzieht sein Volk, damit es aus seiner Versklavung herauskommt und den Übergang vom Tod zum Leben erfährt. Wie ein Bräutigam zieht er uns wieder neu an sich und flüstert uns Worte der Liebe ins Herz.

Der Auszug aus der Sklaverei in die Freiheit ist kein abstrakter Weg. Damit auch unsere Fastenzeit konkret wird, besteht der erste Schritt darin, die Wirklichkeit sehen zu wollen. Als der Herr im brennenden Dornbusch Mose zu sich holte und mit ihm sprach, offenbarte er sich sogleich als ein Gott, der sieht und vor allem zuhört: »Ich habe das Elend meines Volkes in Ägypten gesehen und ihre laute Klage über ihre Antreiber habe ich gehört. Ich kenne sein Leid. Ich bin herabgestiegen, um es der Hand der Ägypter zu entreißen und aus jenem Land hinaufzuführen in ein schönes, weites Land, in ein Land, in dem Milch und Honig fließen« (Ex 3,7-8). Auch heute dringt der Schrei so vieler unterdrückter Brüder und Schwestern zum Himmel. Wir sollten uns fragen: Dringt er auch bis zu uns vor? Rüttelt er uns auf? Berührt er uns? Viele Faktoren entfernen uns voneinander und verleugnen die Geschwisterlichkeit, die uns ursprünglich miteinander verbindet.

Auf meiner Reise nach Lampedusa bin ich der Globalisierung der Gleichgültigkeit mit zwei Fragen begegnet, die immer mehr an Aktualität gewinnen: »Wo bist du?« (Gen 3,9) und »Wo ist […] dein Bruder?« (Gen 4,9). Unser Weg in der Fastenzeit wird ein konkreter sein, wenn wir uns beim erneuten Hören dieser Fragen eingestehen, dass wir noch heute unter der Herrschaft des Pharao stehen. Es handelt sich um eine Herrschaft, die uns erschöpft und gefühllos werden lässt. Es handelt sich um ein Wachstumsmodell, das uns spaltet und uns die Zukunft raubt. Es verunreinigt die Erde, die Luft und das Wasser, aber auch die Seelen werden dadurch kontaminiert. Wenn auch mit der Taufe unsere Befreiung begonnen hat, so bleibt in uns doch ein unerklärliches Heimweh nach der Sklaverei. Es ist wie ein Angezogensein von der Sicherheit des bereits Gesehenen, zu Lasten der Freiheit.

Ich möchte euch auf ein nicht unwichtiges Detail in der Exodus-Erzählung hinweisen: Gott ist es, der sieht, der gerührt ist und der befreit; es ist nicht Israel, das darum bittet. Der Pharao löscht nämlich sogar die Träume aus, er stiehlt den Himmel, er lässt eine Welt als unveränderlich erscheinen, in der die Würde mit Füßen getreten wird und echte Verbindungen verweigert werden. Es gelingt ihm also, die Menschen an sich zu binden. Fragen wir uns: Ersehne ich eine neue Welt? Bin ich bereit, mich von den Kompromissen mit der alten Welt zu lösen? Das Zeugnis vieler Mitbrüder im Bischofsamt und einer großen Zahl von Menschen, die sich für Frieden und Gerechtigkeit einsetzen, überzeugt mich mehr und mehr davon, dass ein Mangel an Hoffnung konstatiert werden muss. Es handelt sich um ein Hemmnis für Träume, um einen stummen Schrei, der bis in den Himmel reicht und das Herz Gottes berührt. So ähnlich wie jenes Heimweh nach der Sklaverei, das Israel in der Wüste lähmt und am Weiterkommen hindert. Der Auszug kann unterbrochen werden: Anders lässt es sich nicht erklären, warum eine Menschheit, die die Schwelle zur weltweiten Geschwisterlichkeit und einen wissenschaftlichen, technischen, kulturellen und juristischen Entwicklungsstand erreicht hat, der in der Lage ist, allen Menschen ihre Würde zu garantieren, im Dunkel der Ungleichheiten und der Konflikte herumtappt.

Gott ist unserer nicht überdrüssig. Nehmen wir die Fastenzeit an als kraftvolle Gnadenzeit, in der sein Wort wieder neu an uns ergeht: »Ich bin der Herr, dein Gott, der dich aus dem Land Ägypten geführt hat, aus dem Sklavenhaus« (Ex 20,2). Es ist eine Zeit der Umkehr, eine Zeit der Freiheit. Jesus selbst wurde vom Geist in die Wüste getrieben, um in seiner Freiheit auf die Probe gestellt zu werden, wie wir uns jedes Jahr am ersten Sonntag der Fastenzeit in Erinnerung rufen. Vierzig Tage lang wird er vor uns und bei uns sein: Er ist der menschgewordene Sohn. Anders als der Pharao will Gott keine Untergebenen, sondern Söhne und Töchter. Die Wüste ist der Raum, in dem unsere Freiheit zu einer persönlichen Entscheidung heranreifen kann, nicht wieder in die Sklaverei zu verfallen. In der Fastenzeit finden wir neue Urteilskriterien und eine Gemeinschaft, mit der wir uns auf einen noch nie zuvor beschrittenen Weg begeben können.

Das bringt einen Kampf mit sich: Das Buch Exodus und die Versuchungen Jesu in der Wüste berichten uns dies anschaulich. Denn der Stimme Gottes, der sagt: »Du bist mein geliebter Sohn, an dir habe ich Wohlgefallen gefunden« (Mk 1,11) und »Du sollst neben mir keine anderen Götter haben« (Ex 20,3), stellen sich die Lügen des Feindes entgegen. Gefährlicher als der Pharao sind die Götzen: Wir könnten sie als seine Stimme in uns betrachten. Alles können, von allen anerkannt werden, allen überlegen sein: Jeder Mensch spürt in seinem Inneren die Verlockung dieser Lüge. Es ist ein alter Weg. Wir können uns in dieser Weise an Geld, an bestimmte Projekte, Ideen, Ziele, an unsere Position, an eine Tradition oder sogar an bestimmte Menschen binden. Statt uns in Bewegung zu versetzen, werden sie uns lähmen. Statt uns zusammenzubringen, werden sie uns gegeneinanderstellen. Es gibt jedoch eine neue Menschheit, die Schar der Kleinen und Demütigen, die dem Reiz der Lüge nicht nachgegeben haben. Während die Götzen diejenigen, die ihnen dienen, stumm, blind, taub und unbeweglich machen (vgl. Ps 114,4), sind die Armen im Geiste sogleich aufgeschlossen und bereit: eine stille Kraft des Guten, die Sorge trägt für diese Welt und sie erhält.

Es ist Zeit zu handeln, und in der Fastenzeit heißt handeln auch innehalten. Innehalten im Gebet, um das Wort Gottes aufzunehmen und innehalten wie der Samariter angesichts des verwundeten Bruders. Die Liebe zu Gott und zum Nächsten ist ein und dieselbe Liebe. Keine anderen Götter zu haben heißt, in der Gegenwart Gottes und beim Nächsten sein. Deshalb sind Gebet, Almosen und Fasten nicht drei voneinander unabhängige Tätigkeiten, sondern eine einzige Bewegung der Öffnung, der Entäußerung: raus mit den Götzen, die uns beschweren, weg mit den Abhängigkeiten, die uns gefangen halten. Dann wird das verkümmerte und vereinsamte Herz wiedererwachen. Verlangsamen und anhalten, also. Die kontemplative Dimension des Lebens, die uns die Fastenzeit auf diese Weise wiederentdecken lässt, wird neue Energien freisetzen. In der Gegenwart Gottes werden wir zu Schwestern und Brüdern, wir nehmen die anderen mit neuer Intensität wahr: Anstelle von Bedrohungen und Feinden finden wir Weggefährtinnen und Weggefährten. Dies ist der Traum Gottes, das Gelobte Land, auf das wir zugehen, wenn wir aus der Sklaverei aussteigen.

Die synodale Form der Kirche, die wir in diesen Jahren wiederentdecken und pflegen, legt nahe, dass die Fastenzeit auch eine Zeit gemeinschaftlicher Entscheidungen sein sollte, eine Zeit kleiner und großer Entscheidungen gegen den Strom, die den Alltag der Menschen und das Leben eines Stadtteils verändern können: die Einkaufsgewohnheiten, die Sorge für die Schöpfung, die Einbeziehung derjenigen, die nicht gesehen oder verachtet werden. Ich lade jede christliche Gemeinschaft ein, dies zu tun: ihren Gläubigen Augenblicke anzubieten, in denen sie ihre Lebensweise überdenken können; sich selbst die Zeit zu nehmen, um sowohl die eigene Präsenz innerhalb ihres Gebiets zu reflektieren wie auch den eigenen Beitrag, um ihn weiter zu verbessern. Wehe, wenn die christliche Buße so wäre wie jene, die Jesus damals betrübte. Er sagt auch zu uns: »Macht kein finsteres Gesicht wie die Heuchler! Sie geben sich ein trübseliges Aussehen, damit die Leute merken, dass sie fasten« (Mt 6,16). Vielmehr soll man Freude in den Gesichtern sehen, den Wohlgeruch der Freiheit wahrnehmen und jene Liebe freisetzen, die alles erneuert, angefangen bei den kleinsten und naheliegendsten Dingen. Dies kann sich in jeder christlichen Gemeinschaft ereignen.

In dem Maße, in dem diese Fastenzeit eine Zeit der Umkehr sein wird, wird die verstörte Menschheit einen Schub an Kreativität verspüren: das Aufleuchten einer neuen Hoffnung. Wie den jungen Menschen, die ich letzten Sommer in Lissabon getroffen habe, möchte ich auch euch sagen: »Sucht und riskiert. In diesem bedeutenden Augenblick der Geschichte sind die Herausforderungen enorm, das Klagen ist schmerzerfüllt – wir erleben einen dritten Weltkrieg in Stücken –, aber lassen wir uns auf das Risiko ein, zu denken, dass wir uns nicht in einem Todeskampf, sondern in einer Geburt befinden; nicht am Ende, sondern am Anfang eines großen Schauspiels. Und es erfordert Mut, dies zu denken« (Ansprache an die Studenten, 3. August 2023). Dies ist der Mut zur Umkehr, zum Ausstieg aus der Sklaverei. Der Glaube und die Liebe halten dieses kleine Kind Hoffnung an der Hand. Sie bringen ihr das Laufen bei und zugleich ist sie es, die die beiden nach vorne zieht.[1]

Ich segne euch alle und euren Weg durch die Fastenzeit.

Rom, Sankt Johannes im Lateran, 3. Dezember 2023, Erster Adventssonntag.

FRANZISKUS

__________________________

[1] Vgl. C. Péguy, Das Tor zum Geheimnis der Hoffnung, Einsiedeln 42007, 14-16.

[00201-DE.01] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

A través del desierto Dios nos guía a la libertad

Queridos hermanos y hermanas:

Cuando nuestro Dios se revela, comunica la libertad: «Yo soy el Señor, tu Dios, que te hice salir de Egipto, de un lugar de esclavitud» (Ex 20,2). Así se abre el Decálogo dado a Moisés en el monte Sinaí. El pueblo sabe bien de qué éxodo habla Dios; la experiencia de la esclavitud todavía está impresa en su carne. Recibe las diez palabras de la alianza en el desierto como camino hacia la libertad. Nosotros las llamamos “mandamientos”, subrayando la fuerza del amor con el que Dios educa a su pueblo. La llamada a la libertad es, en efecto, una llamada vigorosa. No se agota en un acontecimiento único, porque madura durante el camino. Del mismo modo que Israel en el desierto lleva todavía a Egipto dentro de sí ―en efecto, a menudo echa de menos el pasado y murmura contra el cielo y contra Moisés―, también hoy el pueblo de Dios lleva dentro de sí ataduras opresoras que debe decidirse a abandonar. Nos damos cuenta de ello cuando nos falta esperanza y vagamos por la vida como en un páramo desolado, sin una tierra prometida hacia la cual encaminarnos juntos. La Cuaresma es el tiempo de gracia en el que el desierto vuelve a ser ―como anuncia el profeta Oseas― el lugar del primer amor (cf. Os 2,16-17). Dios educa a su pueblo para que abandone sus esclavitudes y experimente el paso de la muerte a la vida. Como un esposo nos atrae nuevamente hacia sí y susurra palabras de amor a nuestros corazones.

El éxodo de la esclavitud a la libertad no es un camino abstracto. Para que nuestra Cuaresma sea también concreta, el primer paso es querer ver la realidad. Cuando en la zarza ardiente el Señor atrajo a Moisés y le habló, se reveló inmediatamente como un Dios que ve y sobre todo escucha: «Yo he visto la opresión de mi pueblo, que está en Egipto, y he oído los gritos de dolor, provocados por sus capataces. Sí, conozco muy bien sus sufrimientos. Por eso he bajado a librarlo del poder de los egipcios y a hacerlo subir, desde aquel país, a una tierra fértil y espaciosa, a una tierra que mana leche y miel» (Ex 3,7-8). También hoy llega al cielo el grito de tantos hermanos y hermanas oprimidos. Preguntémonos: ¿nos llega también a nosotros? ¿Nos sacude? ¿Nos conmueve? Muchos factores nos alejan los unos de los otros, negando la fraternidad que nos une desde el origen.

En mi viaje a Lampedusa, ante la globalización de la indiferencia planteé dos preguntas, que son cada vez más actuales: «¿Dónde estás?» (Gn 3,9) y «¿Dónde está tu hermano?» (Gn 4,9). El camino cuaresmal será concreto si, al escucharlas de nuevo, confesamos que seguimos bajo el dominio del Faraón. Es un dominio que nos deja exhaustos y nos vuelve insensibles. Es un modelo de crecimiento que nos divide y nos roba el futuro; que ha contaminado la tierra, el aire y el agua, pero también las almas. Porque, si bien con el bautismo ya ha comenzado nuestra liberación, queda en nosotros una inexplicable añoranza por la esclavitud. Es como una atracción hacia la seguridad de lo ya visto, en detrimento de la libertad.

Quisiera señalarles un detalle de no poca importancia en el relato del Éxodo: es Dios quien ve, quien se conmueve y quien libera, no es Israel quien lo pide. El Faraón, en efecto, destruye incluso los sueños, roba el cielo, hace que parezca inmodificable un mundo en el que se pisotea la dignidad y se niegan los vínculos auténticos. Es decir, logra mantener todo sujeto a él. Preguntémonos: ¿deseo un mundo nuevo? ¿Estoy dispuesto a romper los compromisos con el viejo? El testimonio de muchos hermanos obispos y de un gran número de aquellos que trabajan por la paz y la justicia me convence cada vez más de que lo que hay que denunciar es un déficit de esperanza. Es un impedimento para soñar, un grito mudo que llega hasta el cielo y conmueve el corazón de Dios. Se parece a esa añoranza por la esclavitud que paraliza a Israel en el desierto, impidiéndole avanzar. El éxodo puede interrumpirse. De otro modo no se explicaría que una humanidad que ha alcanzado el umbral de la fraternidad universal y niveles de desarrollo científico, técnico, cultural y jurídico, capaces de garantizar la dignidad de todos, camine en la oscuridad de las desigualdades y los conflictos.

Dios no se cansa de nosotros. Acojamos la Cuaresma como el tiempo fuerte en el que su Palabra se dirige de nuevo a nosotros: «Yo soy el Señor, tu Dios, que te hice salir de Egipto, de un lugar de esclavitud» (Ex 20,2). Es tiempo de conversión, tiempo de libertad. Jesús mismo, como recordamos cada año en el primer domingo de Cuaresma, fue conducido por el Espíritu al desierto para ser probado en su libertad. Durante cuarenta días estará ante nosotros y con nosotros: es el Hijo encarnado. A diferencia del Faraón, Dios no quiere súbditos, sino hijos. El desierto es el espacio en el que nuestra libertad puede madurar en una decisión personal de no volver a caer en la esclavitud. En Cuaresma, encontramos nuevos criterios de juicio y una comunidad con la cual emprender un camino que nunca antes habíamos recorrido.

Esto implica una lucha, que el libro del Éxodo y las tentaciones de Jesús en el desierto nos narran claramente. A la voz de Dios, que dice: «Tú eres mi Hijo muy querido» (Mc 1,11) y «no tendrás otros dioses delante de mí» (Ex 20,3), se oponen de hecho las mentiras del enemigo. Más temibles que el Faraón son los ídolos; podríamos considerarlos como su voz en nosotros. El sentirse omnipotentes, reconocidos por todos, tomar ventaja sobre los demás: todo ser humano siente en su interior la seducción de esta mentira. Es un camino trillado. Por eso, podemos apegarnos al dinero, a ciertos proyectos, ideas, objetivos, a nuestra posición, a una tradición e incluso a algunas personas. Esas cosas en lugar de impulsarnos, nos paralizarán. En lugar de unirnos, nos enfrentarán. Existe, sin embargo, una nueva humanidad, la de los pequeños y humildes que no han sucumbido al encanto de la mentira. Mientras que los ídolos vuelven mudos, ciegos, sordos, inmóviles a quienes les sirven (cf. Sal 115,8), los pobres de espíritu están inmediatamente abiertos y bien dispuestos; son una fuerza silenciosa del bien que sana y sostiene el mundo.

Es tiempo de actuar, y en Cuaresma actuar es también detenerse. Detenerse en oración, para acoger la Palabra de Dios, y detenerse como el samaritano, ante el hermano herido. El amor a Dios y al prójimo es un único amor. No tener otros dioses es detenerse ante la presencia de Dios, en la carne del prójimo. Por eso la oración, la limosna y el ayuno no son tres ejercicios independientes, sino un único movimiento de apertura, de vaciamiento: fuera los ídolos que nos agobian, fuera los apegos que nos aprisionan. Entonces el corazón atrofiado y aislado se despertará. Por tanto, desacelerar y detenerse. La dimensión contemplativa de la vida, que la Cuaresma nos hará redescubrir, movilizará nuevas energías. Delante de la presencia de Dios nos convertimos en hermanas y hermanos, percibimos a los demás con nueva intensidad; en lugar de amenazas y enemigos encontramos compañeras y compañeros de viaje. Este es el sueño de Dios, la tierra prometida hacia la que marchamos cuando salimos de la esclavitud.

La forma sinodal de la Iglesia, que en estos últimos años estamos redescubriendo y cultivando, sugiere que la Cuaresma sea también un tiempo de decisiones comunitarias, de pequeñas y grandes decisiones a contracorriente, capaces de cambiar la cotidianeidad de las personas y la vida de un barrio: los hábitos de compra, el cuidado de la creación, la inclusión de los invisibles o los despreciados. Invito a todas las comunidades cristianas a hacer esto: a ofrecer a sus fieles momentos para reflexionar sobre los estilos de vida; a darse tiempo para verificar su presencia en el barrio y su contribución para mejorarlo. Ay de nosotros si la penitencia cristiana fuera como la que entristecía a Jesús. También a nosotros Él nos dice: «No pongan cara triste, como hacen los hipócritas, que desfiguran su rostro para que se note que ayunan» (Mt 6,16). Más bien, que se vea la alegría en los rostros, que se sienta la fragancia de la libertad, que se libere ese amor que hace nuevas todas las cosas, empezando por las más pequeñas y cercanas. Esto puede suceder en cada comunidad cristiana.

En la medida en que esta Cuaresma sea de conversión, entonces, la humanidad extraviada sentirá un estremecimiento de creatividad; el destello de una nueva esperanza. Quisiera decirles, como a los jóvenes que encontré en Lisboa el verano pasado: «Busquen y arriesguen, busquen y arriesguen. En este momento histórico los desafíos son enormes, los quejidos dolorosos —estamos viviendo una tercera guerra mundial a pedacitos—, pero abrazamos el riesgo de pensar que no estamos en una agonía, sino en un parto; no en el final, sino al comienzo de un gran espectáculo. Y hace falta coraje para pensar esto» (Discurso a los universitarios, 3 agosto 2023). Es la valentía de la conversión, de salir de la esclavitud. La fe y la caridad llevan de la mano a esta pequeña esperanza. Le enseñan a caminar y, al mismo tiempo, es ella la que las arrastra hacia adelante.[1]

Los bendigo a todos y a vuestro camino cuaresmal.

Roma, San Juan de Letrán, 3 de diciembre de 2023, I Domingo de Adviento.

FRANCISCO

__________________________

[1] Cf. Ch. Péguy, El pórtico del misterio de la segunda virtud, Madrid 1991, 21-23.

[00201-ES.01] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

Através do deserto, Deus guia-nos para a liberdade

Queridos irmãos e irmãs!

Quando o nosso Deus Se revela, comunica liberdade: «Eu sou o Senhor, teu Deus, que te fiz sair da terra do Egipto, da casa da servidão» (Ex 20, 2). Assim inicia o Decálogo dado a Moisés no Monte Sinai. O povo sabe bem de que êxodo Deus está a falar: traz ainda gravada na sua carne a experiência da escravidão. Recebe as «dez palavras» no deserto como caminho de liberdade. Nós chamamos-lhes «mandamentos», fazendo ressaltar a força amorosa com que Deus educa o seu povo; mas, de facto, a chamada para a liberdade constitui um vigoroso apelo. Não se reduz a um mero acontecimento, mas amadurece ao longo dum caminho. Como Israel no deserto tinha ainda dentro de si o Egito (vemo-lo muitas vezes lamentar a falta do passado e murmurar contra o céu e contra Moisés), também hoje o povo de Deus traz dentro de si vínculos opressivos que deve optar por abandonar. Damo-nos conta disto, quando nos falta a esperança e vagueamos na vida como em terra desolada, sem uma terra prometida para a qual tendermos juntos. A Quaresma é o tempo de graça em que o deserto volta a ser – como anuncia o profeta Oseias – o lugar do primeiro amor (cf. Os 2, 16-17). Deus educa o seu povo, para que saia das suas escravidões e experimente a passagem da morte à vida. Como um esposo, atrai-nos novamente a Si e sussurra ao nosso coração palavras de amor.

O êxodo da escravidão para a liberdade não é um caminho abstrato. A fim de ser concreta também a nossa Quaresma, o primeiro passo é querer ver a realidade. Quando o Senhor, da sarça ardente, atraiu Moisés e lhe falou, revelou-Se logo como um Deus que vê e sobretudo escuta: «Eu bem vi a opressão do meu povo que está no Egito, e ouvi o seu clamor diante dos seus inspetores; conheço, na verdade, os seus sofrimentos. Desci a fim de o libertar das mãos dos egípcios e de o fazer subir desta terra para uma terra boa e espaçosa, para uma terra que mana leite e mel» (Ex 3, 7-8). Também hoje o grito de tantos irmãos e irmãs oprimidos chega ao céu. Perguntemo-nos: E chega também a nós? Mexe connosco? Comove-nos? Há muitos fatores que nos afastam uns dos outros, negando a fraternidade que originariamente nos une.

Na minha viagem a Lampedusa, à globalização da indiferença contrapus duas perguntas, que se tornam cada vez mais atuais: «Onde estás?» (Gn 3, 9) e «Onde está o teu irmão?» (Gn 4, 9). O caminho quaresmal será concreto, se, voltando a ouvir tais perguntas, confessarmos que hoje ainda estamos sob o domínio do Faraó. É um domínio que nos deixa exaustos e insensíveis. É um modelo de crescimento que nos divide e nos rouba o futuro. A terra, o ar e a água estão poluídos por ele, mas as próprias almas acabam contaminadas por tal domínio. De facto, embora a nossa libertação tenha começado com o Batismo, permanece em nós uma inexplicável nostalgia da escravatura. É como uma atração para a segurança das coisas já vistas, em detrimento da liberdade.

Quero apontar-vos, na narração do Êxodo, um detalhe de não pequena importância: é Deus que vê, que Se comove e que liberta, não é Israel que o pede. Com efeito, o Faraó extingue também os sonhos, rouba o céu, faz parecer imutável um mundo onde a dignidade é espezinhada e os vínculos autênticos são negados. Por outras palavras, o Faraó consegue vincular-nos a ele. Perguntemo-nos: Desejo um mundo novo? E estou disposto a desligar-me dos compromissos com o velho? O testemunho de muitos irmãos bispos e dum grande número de agentes de paz e justiça convence-me cada vez mais de que aquilo que é preciso denunciar é um défice de esperança. Trata-se de um impedimento a sonhar, um grito mudo que chega ao céu e comove o coração de Deus. Assemelha-se àquela nostalgia da escravidão que paralisa Israel no deserto, impedindo-o de avançar. O êxodo pode ser interrompido: não se explicaria doutro modo porque é que tendo uma humanidade chegado ao limiar da fraternidade universal e a níveis de progresso científico, técnico, cultural e jurídico capazes de garantir a todos a dignidade, tateie ainda na escuridão das desigualdades e dos conflitos.

Deus não Se cansou de nós. Acolhamos a Quaresma como o tempo forte em que a sua Palavra nos é novamente dirigida: «Eu sou o Senhor, teu Deus, que te fiz sair da terra do Egipto, da casa da servidão» (Ex 20, 2). É tempo de conversão, tempo de liberdade. O próprio Jesus, como recordamos anualmente no primeiro domingo da Quaresma, foi impelido pelo Espírito para o deserto a fim de ser posto à prova na sua liberdade. Durante quarenta dias, tê-Lo-emos diante dos nossos olhos e connosco: é o Filho encarnado. Ao contrário do Faraó, Deus não quer súbditos, mas filhos. O deserto é o espaço onde a nossa liberdade pode amadurecer numa decisão pessoal de não voltar a cair na escravidão. Na Quaresma, encontramos novos critérios de juízo e uma comunidade com a qual avançar por um caminho nunca percorrido.

Isto comporta uma luta: assim no-lo dizem claramente o livro do Êxodo e as tentações de Jesus no deserto. Com efeito, à voz de Deus, que diz «Tu és o meu Filho amado» (Mc 1, 11) e «não haverá para ti outros deuses na minha presença» (Ex 20, 3), contrapõem-se as mentiras do inimigo. Mais temíveis que o Faraó são os ídolos: poderíamos considerá-los como a voz do inimigo dentro de nós. Poder tudo, ser louvado por todos, levar a melhor sobre todos: todo o ser humano sente dentro de si a sedução desta mentira. É uma velha estrada. Assim podemos apegar-nos ao dinheiro, a certos projetos, ideias, objetivos, à nossa posição, a uma tradição, até mesmo a algumas pessoas. Em vez de nos pôr em movimento, paralisar-nos-ão. Em vez de nos fazer encontrar, contrapor-nos-ão. Mas existe uma nova humanidade, o povo dos pequeninos e humildes que não cedeu ao fascínio da mentira. Enquanto os ídolos tornam mudos, cegos, surdos, imóveis aqueles que os servem (cf. Sal 115, 4-8), os pobres em espírito estão imediatamente disponíveis e prontos: uma força silenciosa de bem que cuida e sustenta o mundo.

É tempo de agir e, na Quaresma, agir é também parar: parar em oração, para acolher a Palavra de Deus, e parar como o Samaritano em presença do irmão ferido. O amor de Deus e o do próximo formam um único amor. Não ter outros deuses é parar na presença de Deus, junto da carne do próximo. Por isso, oração, esmola e jejum não são três exercícios independentes, mas um único movimento de abertura, de esvaziamento: lancemos fora os ídolos que nos tornam pesados, fora os apegos que nos aprisionam. Então o coração atrofiado e isolado despertará. Para isso há que diminuir a velocidade e parar. Assim a dimensão contemplativa da vida, que a Quaresma nos fará reencontrar, mobilizará novas energias. Na presença de Deus, tornamo-nos irmãs e irmãos, sentimos os outros com nova intensidade: em vez de ameaças e de inimigos encontramos companheiras e companheiros de viagem. Tal é o sonho de Deus, a terra prometida para a qual tendemos, quando saímos da escravidão.

A forma sinodal da Igreja, que estamos a redescobrir e cultivar nestes anos, sugere que a Quaresma seja também tempo de decisões comunitárias, de pequenas e grandes opções contracorrente, capazes de modificar a vida quotidiana das pessoas e a vida de toda uma coletividade: os hábitos nas compras, o cuidado com a criação, a inclusão de quem não é visto ou é desprezado. Convido toda a comunidade cristã a fazer isto: oferecer aos seus fiéis momentos para repensarem os estilos de vida; reservar um tempo para verificarem a sua presença no território e o contributo que oferecem para o tornar melhor. Ai se a penitência cristã fosse como aquela que deixou Jesus triste! Também a nós diz Ele: «Não mostreis um ar sombrio, como os hipócritas, que desfiguram o rosto para que os outros vejam que eles jejuam» (Mt 6, 16). Pelo contrário, veja-se a alegria nos rostos, sinta-se o perfume da liberdade, irradie aquele amor que faz novas todas as coisas, a começar das mais pequenas e próximas. Isto pode acontecer em toda a comunidade cristã.

Na medida em que esta Quaresma for de conversão, a humanidade extraviada sentirá um estremeção de criatividade: o lampejar duma nova esperança. Quero dizer-vos, como aos jovens que encontrei em Lisboa no verão passado: «Procurai e arriscai; sim, procurai e arriscai. Neste momento histórico, os desafios são enormes, os gemidos dolorosos: estamos a viver uma terceira guerra mundial feita aos pedaços. Mas abracemos o risco de pensar que não estamos numa agonia, mas num parto; não no fim, mas no início dum grande espetáculo. E é preciso coragem para pensar assim» (Discurso aos estudantes universitários, 03/VIII/2023). É a coragem da conversão, da saída da escravidão. A fé e a caridade guiam pela mão esta esperança menina. Ensinam-na a caminhar e, ao mesmo tempo, ela puxa-as para a frente.[1]

Abençoo-vos a todos vós e ao vosso caminho quaresmal.

Roma – São João de Latrão, no I Domingo do Advento, 3 de dezembro de 2023.

FRANCISCO

_______________________

 

[1] Cf. Charles Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù, Milão 1978, 17-19.

[00201-PO.01] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

Bóg prowadzi nas przez pustynię ku wolności

Drodzy bracia i siostry!

Kiedy nasz Bóg się objawia, obwieszcza wolność: „Ja jestem Pan, twój Bóg, który cię wywiódł z ziemi egipskiej, z domu niewoli” (Wj 20, 2). Tak rozpoczyna się Dekalog dany Mojżeszowi na górze Synaj. Lud dobrze wie, o jakim wyjściu mówi Bóg: doświadczenie niewolnictwa jest wciąż odciśnięte w jego ciele. Otrzymuje dziesięć słów na pustyni jako drogę wolności. Nazywamy je „przykazaniami”, podkreślając siłę miłości, z jaką Bóg wychowuje swój lud. Jest to rzeczywiście mocne wezwanie do wolności. Nie wyczerpuje się ono w jednym wydarzeniu, ponieważ dojrzewa podczas wędrówki. Tak jak Izrael na pustyni wciąż ma wewnątrz siebie Egipt – istotnie często żałuje przeszłości i szemrze przeciwko Niebiosom i Mojżeszowi – tak i dziś Lud Boży nosi w sobie przytłaczające więzy, które musi porzucić. Zdajemy sobie z tego sprawę, gdy brakuje nam nadziei i wędrujemy przez życie jak przez pustkowie, bez ziemi obiecanej, do której moglibyśmy wspólnie dążyć. Wielki Post jest czasem łaski, w którym pustynia ponownie staje się – jak zapowiada prorok Ozeasz – miejscem pierwszej miłości (por. Oz 2, 16-17). Bóg wychowuje swój lud, aby wyszedł ze swoich zniewoleń i doświadczył przejścia ze śmierci do życia. Jak oblubieniec, ponownie przyciąga nas do siebie i szepcze do naszych serc słowa miłości.

Wyjście z niewoli ku wolności nie jest wędrówką abstrakcyjną. Aby nasz Wielki Post był również konkretny, pierwszym krokiem jest pragnienie widzenia rzeczywistości. Kiedy w krzewie gorejącym Pan przyciągnął Mojżesza i przemówił do niego, natychmiast objawił się jako Bóg, który widzi, a przede wszystkim słyszy: „Dosyć napatrzyłem się na udrękę ludu mego w Egipcie i nasłuchałem się narzekań jego na ciemięzców, znam więc jego uciemiężenie. Zstąpiłem, aby go wyrwać z ręki Egiptu i wyprowadzić z tej ziemi do ziemi żyznej i przestronnej, do ziemi, która opływa w mleko i miód” (Wj 3, 7-8). Również dzisiaj, wołanie jakże wielu uciskanych braci i sióstr dociera do nieba. Zadajmy sobie pytanie: czy dociera również do nas? Czy nami wstrząsa? Czy nas porusza? Wiele czynników oddala nas od siebie, zaprzeczając braterstwu, które w sposób naturalny nas łączy.

Podczas mojej podróży na Lampedusę, globalizacji obojętności przeciwstawiłem dwa pytania, które stają się coraz bardziej aktualne: „Gdzie jesteś?” (Rdz 3, 9) i „Gdzie jest brat twój?” (Rdz 4, 9). Wielkopostna wędrówka będzie konkretna, jeśli słuchając tych pytań ponownie, wyznamy, że wciąż jesteśmy pod panowaniem faraona. Jest to panowanie, które czyni nas wyczerpanymi i niewrażliwymi. Jest to model rozwoju, który nas dzieli i kradnie nam przyszłość. Są nim zanieczyszczone: ziemia, powietrze i woda, ale również dusze. Bo chociaż wraz z chrztem rozpoczęło się nasze wyzwolenie, pozostaje w nas niewytłumaczalna tęsknota za niewolnictwem. Jest to jakby przyciąganie do bezpieczeństwa rzeczy już widzianych, ze szkodą dla wolności.

Chciałbym zwrócić waszą uwagę na pewien szczegół w historii wyjścia z Egiptu, o niemałym znaczeniu: to Bóg widzi, wzrusza się i wyzwala, a Izrael o to nie prosi. Faraon gasi bowiem nawet marzenia, kradnie niebo, sprawia, że świat, w którym deptana jest godność i negowane są autentyczne więzi, wydaje się niemożliwy do zmiany. Udaje mu się przywiązać do siebie. Zadajmy sobie pytanie: czy pragnę nowego świata? Czy jestem gotów porzucić kompromisy ze starym? Świadectwo wielu braci biskupów i dużej liczby osób działających na rzecz pokoju i sprawiedliwości przekonuje mnie coraz bardziej, że tym, co należy potępić, jest deficyt nadziei. Mamy do czynienia z przeszkodą dla marzeń, niemym krzykiem, który sięga nieba i porusza serce Boga. Przypomina to ową tęsknotę za niewolą, która paraliżuje Izraela na pustyni, uniemożliwiając mu kroczenie naprzód. Exodus można przerwać: nie można by inaczej wyjaśnić, dlaczego ludzkość, która chociaż osiągnęła próg powszechnego braterstwa i poziom rozwoju naukowego, technicznego, kulturowego i prawnego, zdolny do zapewnienia wszystkim godności, błądzi po omacku w mrokach nierówności i konfliktów.

Bóg się nami nie zmęczył. Przyjmijmy Wielki Post jako okres mocny duchowo, w którym Jego Słowo jest ponownie skierowane do nas: „Ja jestem Pan, twój Bóg, który cię wywiódł z ziemi egipskiej, z domu niewoli” (Wj 20, 2). Jest to czas nawrócenia, czas wolności. Sam Jezus, jak przypominamy co roku w pierwszą niedzielę Wielkiego Postu, został wyprowadzony przez Ducha na pustynię, aby zostać wypróbowanym w wolności. Przez czterdzieści dni będzie On przed nami i wraz z nami: jest Synem wcielonym. W przeciwieństwie do faraona, Bóg nie chce poddanych, lecz synów. Pustynia jest przestrzenią, w której nasza wolność może dojrzeć w osobistej decyzji, by nie popaść na nowo w niewolę. W okresie Wielkiego Postu znajdujemy nowe kryteria osądu i wspólnotę, z którą możemy wyruszyć w drogę, jakiej nigdy wcześniej nie przebyliśmy.

Oznacza to walkę: Księga Wyjścia i pokusy Jezusa na pustyni mówią nam o tym wyraźnie. Głosowi Boga, który mówi: „Tyś jest mój Syn umiłowany” (Mk 1, 11), i „Nie będziesz miał cudzych bogów obok Mnie!” (Wj 20, 3), przeciwstawiają się kłamstwa nieprzyjaciela. Od faraona trzeba bardziej bać się bożków: możemy je uważać za jego głos w nas. Móc wszystko, być szanowanym przez wszystkich, mieć przewagę nad wszystkimi: każdy człowiek odczuwa uwodzenie tego kłamstwa w sobie. To stara droga. Możemy w ten sposób przywiązać się do pieniędzy, do pewnych projektów, idei, celów, do naszej pozycji, do tradycji, a nawet do pewnych osób. Zamiast nas poruszyć, sparaliżują nas. Zamiast sprawić, byśmy się spotkali, będą nam siebie przeciwstawiać. Istnieje jednak nowa ludzkość, lud maluczkich i pokornych, którzy nie ulegli urokowi kłamstwa. Podczas gdy bożki czynią niemymi, ślepymi, głuchymi i nieruchomymi tych, którzy im służą (por. Ps 114, 4), ubodzy w duchu są natychmiast otwarci i gotowi: są milczącą siłą dobra, która uzdrawia i podtrzymuje świat.

Jest to okres działania, a w okresie Wielkiego Postu działanie to także zatrzymanie się. Zatrzymanie się na modlitwie, aby przyjąć Słowo Boże i zatrzymać się jak Samarytanin, w obecności zranionego brata. Miłość Boga i bliźniego jest tą samą miłością. Nie mieć innych bogów to zatrzymać się w obecności Boga, przy ciele bliźniego. Dlatego modlitwa, jałmużna i post nie są trzema niezależnymi zadaniami, ale jednym ruchem otwartości, ogołocenia: precz z bożkami, które nas obciążają, precz z przywiązaniami, które nas więżą. Wówczas obumierające i odizolowane serce przebudzi się. Trzeba zatem zwolnić i zatrzymać się. Kontemplacyjny wymiar życia, który Wielki Post pozwoli nam odkryć na nowo, zmobilizuje nowe siły. W obecności Boga stajemy się siostrami i braćmi, odczuwamy innych z nową intensywnością: zamiast zagrożeń i nieprzyjaciół odnajdujemy towarzyszki i towarzyszy podróży. To właśnie jest marzeniem Boga, ziemia obiecana, do której zmierzamy, kiedy wychodzimy z niewoli.

Synodalna forma Kościoła, którą w tych latach odkrywamy na nowo i pielęgnujemy, sugeruje, aby Wielki Post był również okresem decyzji wspólnotowych, małych i dużych wyborów wbrew dominującemu nurtowi, zdolnych do zmiany codziennego życia ludzi i życia dzielnicy: nawyków zakupowych, troski o stworzenie, włączenia tych, których się nie dostrzega, lub pogardzanych. Zachęcam każdą wspólnotę chrześcijańską: do zaoferowania swoim wiernym chwil, w których będą mogli przemyśleć styl życia, oraz do spokojnego zastanowienia się, żeby zweryfikować swoją obecność na danym terenie i swój wkład w uczynienie go lepszym. Biada, gdyby chrześcijańska pokuta była podobna do tej, która zasmuciła Jezusa. Mówi On także do nas: „Nie bądźcie posępni jak obłudnicy. Przybierają oni wygląd ponury, aby pokazać ludziom, że poszczą” (Mt 6, 16). Niech raczej na twarzach widoczna będzie radość, poczujmy woń wolności, uwolnijmy tę miłość, która wszystko czyni nowym, poczynając od najmniejszych i najbliższych rzeczy. Może się to wydarzyć w każdej wspólnocie chrześcijańskiej.

Na ile ten Wielki Post będzie okresem nawrócenia, na tyle zagubiona ludzkość odczuje wstrząs kreatywności: błysk nowej nadziei. Chciałbym wam powiedzieć, podobnie jak młodym, których spotkałem w Lizbonie minionego lata: „Szukajcie i podejmujcie ryzyko. W tym momencie dziejów wyzwania są ogromne, zawodzenia bolesne, przeżywamy trzecią wojnę światową „w kawałkach”, ale podejmijmy ryzyko myślenia, że nie jesteśmy w agonii, lecz w chwili narodzin; nie u kresu, lecz na początku wielkiego spektaklu. Potrzeba odwagi, by tak pomyśleć.” (Przemówienie do studentów Portugalskiego Uniwersytetu Katolickiego, 3 sierpnia 2023 r.). Jest to odwaga nawrócenia, wyjścia z niewoli. Wiara i miłość trzymają za rękę to dziecię- nadzieję. Uczą je chodzić, a jednocześnie ono ciągnie je do przodu[1].

Błogosławię was wszystkich i waszą wielkopostną wędrówkę.

W Rzymie, u św. Jana na Lateranie, dnia 3 grudnia 2023 r., w Pierwszą Niedzielę Adwentu.

FRANCISZEK

________________________

[1] Por. CH. PÉGUY, Przedsionek tajemnicy drugiej cnoty, przeł. Leon Zaręba, Kraków 2007, s. 40-43.

[00201-PL.01] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua araba

رسالة قداسة البابا فرنسيس

في مناسبة الزّمن الأربعيني 2024

مِن البرِّيَّة يقودنا الله إلى الحرّيّة

أيّها الإخوة والأخوات الأعزّاء،

عندما يُظهِر الله لنا نفسه فإنّه يمنحنا الحرّيّة: "أَنا الرَّبُّ إِلٰهُكَ الَّذي أَخرَجَكَ مِن أَرضِ مِصرَ، مِن دارِ العُبودِيَّة" (خروج 20، 2). هكذا تبدأ الوصايا العشر التي أَعطاها الله لموسى على جبل سيناء. ويعرف الشّعب جيّدًا عن أيّ خروج يتكلّم الله: كانت خبرة العبوديّة لا تزال مطبوعة في أجسادهم. تلقى الشّعب الكلمات العشر في البرِّيَّة كطريق إلى الحرّيّة. نحن نسميها ”وصايا“، وهي تؤكّد قوّة المحبّة التي بها يؤدِّبُ الله شعبه. إنّها في الواقع دعوة شديدة إلى الحرّيّة. ولا تكتمل في حدث واحد، بل تنضج في مسيرة. وكما أنّ بني إسرائيل في البرِّيَّة كانوا لا يزالون يحمِلون مصر في داخلهم – إذ ندموا مرارًا على الماضي وتذمّروا على السّماء وعلى موسى -، كذلك شعب الله اليوم أيضًا يحمل في داخله روابط ظلم كثيرة، وعليه أن يختار التّخلّي عنها. نشعر بذلك عندما نفقد الأمل ونتيه في الحياة كما لو كنا في أرض مقفرة، ولا أرض ميعاد نسعى إليها معًا. الزّمن الأربعيني هو زمن النّعمة الذي فيه تصير البَرِّيَّة مرّة أخرى – كما قال النّبي هوشع – مكان الحبّ الأوّل (راجع هوشع 2، 16-17). أدَّب الله شعبه ليُخرجه من عبودياته ويعرف ما معنى الانتقال من الموت إلى الحياة. ومثل العريس يشدّنا إليه من جديد، ويهمس في قلوبنا بكلمات حبّه.

الخروج من العبوديّة إلى الحرّيّة ليس مسيرة نظريّة. لكي يكون صومنا نحن أيضًا عمليًّا، الخطوة الأولى هي أن تكون فينا الرّغبة في رؤيّة الواقع. عندما جذب الله موسى إلى العليقة المشتعلة وكلّمه، كشف على الفور عن نفسه أنّه إلهٌ يرى ويسمع بصورة خاصّة: "إِنّي قد رَأَيتُ مذَلَّةَ شَعْبي الَّذي بِمِصْر، وسَمِعتُ صُراخَه بِسَبَبِ مُسَخِّريه، وعَلِمتُ بآلامِه، فنَزَلتُ لأُنقِذَه مِن أَيدي المِصرِيِّين وأُصعِدَه مِن هٰذه الأَرضِ إِلى أَرضٍ طَيِّبةٍ واسِعة، إِلى أَرْضٍ تَدُرُّ لَبَنًا حَليبًا وعَسَلًا" (خروج 3، 7– 8). واليوم أيضًا، صراخ العديد من الإخوة والأخوات المظلومين يصِل إلى السّماء. لنسأل أنفسنا: هل يصِل إلينا أيضًا؟ هل يهزّنا؟ هل يؤثّر فينا؟ عوامل كثيرة تبعدنا بعضنا عن بعض، وتُنكِرُ الأخوّة التي تربطنا في الأصل.

في رحلتي إلى لامبيدوسا (Lampedusa)، وأمام عولمة اللامبالاة، طرحت سؤالَين ما زالا ينطبقان علينا أيضًا: "أَيْنَ أَنتَ؟" (تكوين 3، 9) و"أَينَ أَخوك؟" (تكوين 4، 9). مسيرة الزّمن الأربعيني ستكون عمليّة إن أصغينا إلى السّؤالَين مرّة أخرى، واعترفنا بأنّنا ما زلنا حتّى اليوم تحت سيطرة فرعون. وهي سيطرة تُنهكنا وتجعلنا عديمي الإحساس. إنّها طريقة النّمو التي تفرّق بيننا وتسلبنا مستقبلنا. الأرض والهواء والماء تلوّثت بها، وأيضًا تلوّثت بها نفوسنا. في الواقع، على الرّغم مِن أنّ تحرّرنا بدأ بالمعموديّة، ما زال فينا حنين إلى العبوديّة ولا يمكن تفسيره. إنّه مثل افتتان بضمانٍ ماضٍ جربناه، على حساب الحرّيّة.

في قصّة الخروج، أودّ أن أذكر لكم أمرًا وهو بالغ الأهميّة: الله هو الذي يرى، ويتحرّك، ويحرّر، وليس بنو إسرائيل هم الذين سألوه. في الواقع، قتل فرعون الأحلام أيضًا، وسلب السّماء، وجعل العالم الذي تُداس فيه الكرامة، وتُنكَر فيه الرّوابط الحقيقيّة، يبدو غير قابل للتّغيير. نجح في ربط كلّ شيء بنفسه. لنتساءل: هل أريد عالمًا جديدًا؟ هل أنا مستعِدٌّ للخروج من المساومات مع القديم؟ شهادة العديد من الإخوة الأساقفة وعدد كبير من العاملين في مجال السّلام والعدل تقنعني أكثر فأكثر أنّ ما يجب أن نندِّد به هو فقدان الأمل. هناك من يمنعون الأحلام، هناك صراخ صامت يصِل إلى السّماء ويحرّك قلب الله. إنّها حالة تشبه الحنين إلى العبوديّة الذي أصاب بني إسرائيل بالشّلل في البرِّيَّة ومنعهم من التّقدّم. الخروج يمكن أن يتوقّف: وإلّا فكيف نفسِّر حالة الإنسانيّة التي وصلت إلى عتبة الأخوّة العالميّة وإلى مستويّات متقدمة في التّطوّر العلميّ والتّقنيّ والثّقافيّ والقانونيّ، والقادرة على ضمان الكرامة للجميع، كيف نفسِّر أنّها ما زالت تتعثَّر في ظلام عدم المساواة والصّراعات.

الله لا يتعب منّا. لنستقبل الزّمن الأربعيني باعتباره الزّمن القويّ الذي يوجّه الله فيه كلامه إلينا مرّة أخرى: "أَنا الرَّبُّ إِلٰهُكَ الَّذي أَخرَجَكَ مِن أَرضِ مِصرَ، مِن دارِ العُبودِيَّة" (خروج 20، 2). إنّه زمن التّوبة، وزمن الحرّيّة. يسوع نفسه، كما نتذكّر كلّ سنة في الأحد الأوّل من الزّمن الأربعيني، دفعه الرّوح القدس إلى البرِّيَّة ليُجرَّبَ في حرّيّته. مدّة أربعين يومًا سيكون أمامنا ومعنا: هو ابن الله المتجسّد. وعلى عكس فرعون، فإنّ الله لا يريدنا أن نكون خاضعين، بل أبناء. البرِّيَّة هي المكان الذي يمكن أن تنضج فيه حرّيتنا فنتَّخذ قرارًا شخصيًّا بألّا نعود مرّة أخرى إلى العبوديّة. في الزّمن الأربعيني نجد معايير جديدة للحكم وجماعة نسير معها على طريق لم نسلكه قط.

هذا الأمر يقتضي معركة: يقول لنا ذلك بوضوح سِفرُ الخُروج وتجارب يسوع في البرّيّة. الله يقول: "أَنتَ ابنِيَ الحَبيب" (مرقس 1، 11) و"لا يَكُنْ لَكَ آلِهَةٌ أُخْرى تُجاهي" (خروج 20، 3). وتعارضه أكاذيب العدو. والأصنام هي أشدّ قسوة من الفرعون: إذ يمكننا أن نعتبرها مثل صوته فينا. أن نكون قادرين على كلّ شيء، وأن يَعترف بنا ويقدِّرنا الجميع، وأن نكون أفضل من الجميع: كلّ إنسان يشعر بإغراء هذا الكذب في داخلهِ. إنّه طريق قديم. بهذه الطّريقة يمكننا أن نتعلّق بالمال، وببعض المشاريع، والأفكار، والأهداف، وبمنصب لنا، وبتقليد لنا، وحتّى ببعض الأشخاص. وبذلك، بدل أن نتحرّك، نُصاب بالشّلل. وبدل أن نلتقي، نتعارض. مع ذلك، توجد إنسانيّة جديدة، وهو شعب الصّغار والمتواضعين الذين لم يستسلموا لإغراء الأكاذيب. الأصنام تجعل خدامها بُكمًا، وعُميانًا، وصُمًّا، وجامدين بلا حراك (راجع المزامير 115، 5-6)، بينما الفُقراء بالرّوح هم فورًا منفتحون ومستعدّون: إنّهم قوّة الخير الصّامتة التي تعتني بالعالم وتسنده.

إنّه زمن العمل، وفي زمن الصّوم الأربعيني العمل هو أيضًا أن نتوقّف، لنصلّي، لنتقبل كلمة الله، ونتوقف مثل السّامري، أمام أخينا الجريح. محبّة الله ومحبّة القريب هي محبّة واحدة. نقف في حضرة الله ومع قريبنا، يعني أن ليس لنا آلهة أخرى نتوقّف عندها. لهذا، الصّلاة والصّدَقَة والصّوم ليست ثلاثة أعمال منفصلة، بل هي حركة واحدة، انفتاح على الآخر، وتجرُّدٌ ممّا في أنفسنا: لنُخرج الأصنام التي تُثقلنا، ولنُبعد الأمور التي نتعلّق بها وتقيّدنا. إذّاك قَلبُنا الضّامر والمنعزل يستيقظ. لنبطئ الخطى إذًا ولنتوقّف. سمة التّأمّل في الحياة، التي نستعيدها في الزّمن الأربعيني ستحرّك فينا طاقات جديدة. في حضرة الله، نصير إخوة وأخوات، ونشعر بالآخرين بقوّة جديدة: وبدل التّهديدات والأعداء، نجد رفاق سفر. هذا هو حلم الله، وأرض الميعاد التي إليها نتَّجه، عندما نخرج من العبوديّة.

صورة الكنيسة السّينوديّة، التي نعيد اكتشافها وتنميتها في هذه السّنوات الأخيرة، توحي إلينا أنّ زمن الصّوم هو أيضًا وقت لاتّخاذ قرارات جماعيّة، ولخيارات صغيرة وكبيرة عكس التّيّار، قادرة على تغيير حياة الأشخاص اليوميّة والحياة في الجوار: العادات في الشِّراء، والعناية بالخليقة، والتّرحيب بالذين لا يراهم النّاس أو يحتقرونهم. أدعو كلّ جماعة مسيحية إلى أن تقوم بما يلي: أن تقدّم لمؤمنيها وقتًا يعيدون فيه التّفكير في أساليب حياتهم، وأن تتخذ الوقت لتتأكّد من القيام بدورها في المنطقة ومساهمتها في تحسينه. الويل إن كانت التّوبة المسيحيّة مثل التّوبة التي كانت تحزن يسوع. فهو يقول لنا أيضًا: "لا تُعبِّسوا كالمُرائين، فإِنَّهم يُكلِّحونَ وُجوهَهُم، لِيَظْهَرَ لِلنَّاسِ أَنَّهم صائمون" (متّى 6، 16). بل، ليظهر الفرح على وجوهكم، وليَفُحْ منكم عِطر الحريّة، ولنُطلق السّراح للحبّ الذي يجعل كلّ شيء جديدًا، ولنبدأ بأصغر الأمور وأقربها. كلّ جماعة مسيحيّة يمكن أن تعمل هذا.

بقدر ما سيكون الزّمن الأربعيني هذا زمن توبة، ستشعر البشريّة الضّائعة بفرح الإبداع، وبقوس قزح لرجاءٍ جديد. أودّ أن أقول لكم، كما قلت للشّباب الذين التقيت بهم في لشبونة في الصّيف الماضي: "ابحثوا وجازفوا. في هذا المنعطف التّاريخي، التّحديّات هائلة والأنّات مؤلِمة. إنّنا نَشهَد حربًا عالميّة ثالثة مجزّأة. لكن لنقبل ولنغامر ولنفكّر في أنّنا لسنا في حالة نزاع، بل في حالة مخاض وولادة. ولسنا في النّهاية، بل في بداية مشهد كبير. تَلزمنا الشّجاعة لكي نفكّر هكذا" (كلمة في اللقاء مع الشّباب الجامعيّين، 3 آب/أغسطس 2023). إنّها شجاعة التّوبة، والخروج من العبوديّة. الإيمان والمحبّة يمسكان بيد الرّجاء الوليد. يعلّمانه المَشِي، وفي الوقت نفسه، هو يشدّهما إلى الأمام[1].

أبارككم جميعًا، وأبارك مسيرتكم في الزّمن الأربعيني.

روما، بازيليكا القدّيس يوحنّا في اللاتران، يوم 3 كانون الأوّل/ديسمبر2023، الأحد الأوّل من زمن المجيء.

فرنسيس

[00201-AR.01] [Testo originale: Italiano]

[B0105-XX.02]

 

 

[1] Cfr Ch. Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù, Milano 1978, 17-19.