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Celebrazione dei Secondi Vespri della solennità della Conversione di San Paolo Apostolo, a conclusione della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, 25.01.2024


Omelia del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Traduzione in lingua araba

 

Alle ore 17.30 di oggi, nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, il Santo Padre Francesco ha presieduto la celebrazione dei Secondi Vespri della solennità della Conversione di San Paolo Apostolo, a conclusione della 57.ma Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani sul tema: «Ama il Signore Dio tuo... e ama il prossimo tuo come te stesso» (cf. Lc 10, 27).

Hanno preso parte alla celebrazione i Rappresentanti delle altre Chiese e Comunità ecclesiali presenti a Roma.

Al termine dei Vespri, prima della benedizione apostolica, l’Em.mo Card. Kurt Koch, Prefetto del Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, ha rivolto al Santo Padre un indirizzo di saluto.

Pubblichiamo di seguito il testo dell’omelia che Papa Francesco ha pronunciato nel corso della celebrazione:

Omelia del Santo Padre

Nel Vangelo che abbiamo ascoltato, il dottore della Legge, sebbene si rivolga a Gesù chiamandolo «Maestro», non vuole lasciarsi istruire da lui, ma «metterlo alla prova». Una falsità ancora più grande emerge però dalla sua domanda: «Che devo fare per ereditare la vita eterna?» (Lc 10,25). Fare per ereditare, fare per avere: ecco una religiosità distorta, basata sul possesso anziché sul dono, dove Dio è il mezzo per ottenere ciò che voglio, non il fine da amare con tutto il cuore. Ma Gesù è paziente e invita quel dottore a trovare la risposta nella Legge di cui era esperto, la quale prescrive: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza econ tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso» (Lc 10,27).

Allora quell’uomo, «volendo giustificarsi», pone un secondo interrogativo: «E chi è il mio prossimo?» (Lc 10,29). Se la prima domanda rischiava di ridurre Dio al proprio “io”, questa cerca di dividere: dividere le persone in chi si deve amare e in chi si può ignorare. E dividere non è mai da Dio: è dal diavolo, che è divisore. Gesù, però, non replica facendo teoria, ma con la parabola del buon samaritano, con una storia concreta, che chiama in causa anche noi. Perché, cari fratelli e sorelle, a comportarsi male, con indifferenza, sono il sacerdote e il levita, i quali antepongono ai bisogni di chi soffre la tutela delle loro tradizioni religiose. A dare senso alla parola “prossimo” è invece un eretico, un Samaritano, perché si fa prossimo: prova compassione, si avvicina e teneramente si china sulle ferite di quel fratello; si prende cura di lui, indipendentemente dal suo passato e dalle sue colpe, e lo serve con tutto sé stesso (cfr Lc 10,33-35). Ciò permette a Gesù di concludere che la domanda corretta non è “Chi è il mio prossimo?”, ma: “Io mi faccio prossimo?” Solo questo amore che diventa servizio gratuito, solo questo amore che Gesù ha proclamato e vissuto, avvicinerà i cristiani separati gli uni agli altri. Sì, solo questo amore, che non torna sul passato per prendere le distanze o puntare il dito, solo questo amore che in nome di Dio antepone il fratello alla ferrea difesa del proprio sistema religioso, solo questo amore ci unirà. Prima il fratello, dopo il sistema.

Fratelli e sorelle, tra di noi non dovremmo mai porci la domanda “chi è il mio prossimo?”. Perché ogni battezzato appartiene allo stesso Corpo di Cristo; e di più, perché ogni persona nel mondo è mio fratello, mia sorella, e tutti componiamo la “sinfonia dell’umanità”, di cui Cristo è primogenito e redentore. Come ricorda sant’Ireneo, che ho avuto la gioia di proclamare “Dottore dell’unità”, «chi ama la verità non deve lasciarsi trasportare dalla differenza di ciascun suono né immaginare che uno sia l’artefice e il creatore di questo suono e un altro l’artefice e il creatore dell’altro […], ma deve pensare che lo ha fatto uno solo» (Adv. haer. II, 25, 2). Non dunque “chi è il mio prossimo?”, ma “io mi faccio prossimo?” Io e poi la mia comunità, la mia Chiesa, la mia spiritualità, si fanno prossime? O restano barricate in difesa dei propri interessi, gelose della loro autonomia, rinchiuse nel calcolo dei propri vantaggi, intavolando rapporti con gli altri solo per ricavarne qualcosa? Se così fosse, non si tratterebbe solo di sbagli strategici, ma di infedeltà al Vangelo.

Che devo fare per ereditare la vita eterna?”: così era cominciato il dialogo tra il dottore della Legge e Gesù. Ma oggi anche questa prima domanda viene ribaltata grazie all’Apostolo Paolo, di cui celebriamo, nella Basilica a lui dedicata, la conversione. Ebbene, proprio quando Saulo di Tarso, persecutore dei cristiani, incontra Gesù nella visione di luce che lo avvolge e gli cambia la vita, gli chiede: «Che devo fare, Signore?» (At 22,10). Non “che devo fare per ereditare?”, ma “che devo fare, Signore?”: il Signore è il fine della richiesta, la vera eredità, il sommo bene. Paolo non cambia vita sulla base dei suoi obiettivi, non diventa migliore perché realizza i suoi progetti. La sua conversione nasce da un capovolgimento esistenziale, dove il primato non appartiene più alla sua bravura di fronte alla Legge, ma alla docilità nei riguardi di Dio, in una totale apertura a ciò che Lui vuole. Non alla sua bravura ma alla sua docilità: dalla bravura alla docilità. Se Lui è il tesoro, il nostro programma ecclesiale non può che consistere nel fare la sua volontà, nell’andare incontro ai suoi desideri. E Lui, la notte prima di dare la vita per noi, ha ardentemente pregato il Padre per tutti noi, «perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21). Ecco la sua volontà.

Tutti gli sforzi verso la piena unità sono chiamati a seguire lo stesso percorso di Paolo, a mettere da parte la centralità delle nostre idee per cercare la voce del Signore e lasciare iniziativa e spazio a Lui. L’aveva ben compreso un altro Paolo, grande pioniere del movimento ecumenico, l’Abbé Paul Couturier, il quale pregando era solito implorare l’unità dei credenti “come Cristo la vuole”, “con i mezzi che Lui vuole”. Abbiamo bisogno di questa conversione di prospettiva e anzitutto di cuore, perché, come affermò sessant’anni fa il Concilio Vaticano II: «Non esiste un vero ecumenismo senza interiore conversione» (Unitatis redintegratio, 7). Mentre preghiamo insieme riconosciamo, ciascuno a partire da sé stesso, che abbiamo bisogno di convertirci, di permettere al Signore di cambiarci il cuore. Questa è la via: camminare insieme e servire insieme, mettendo la preghiera al primo posto. Infatti, quando i cristiani maturano nel servizio di Dio e del prossimo, crescono anche nella comprensione reciproca, come dichiara ancora il Concilio: «Quanto infatti più stretta sarà la loro comunione col Padre, col Verbo e con lo Spirito Santo, tanto più intima e facile potranno rendere la fraternità reciproca» (ibid).

Per questo siamo qui stasera da diversi Paesi, da diverse culture e tradizioni. Sono riconoscente a Sua Grazia Justin Welby¸ Arcivescovo di Canterbury, al Metropolita Policarpo, in rappresentanza del Patriarcato Ecumenico, e a tutti voi, che rendete presenti molte comunità cristiane. Rivolgo un saluto speciale ai membri della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali, che celebrano il XX anniversario del loro cammino, e ai Vescovi cattolici e anglicani che partecipano all’incontro della Commissione internazionale per l’Unità e la Missione. È bello che oggi con il mio fratello, l’Arcivescovo Justin, possiamo conferire a queste coppie di Vescovi il mandato di continuare a testimoniare l’unità voluta da Dio per la sua Chiesa nelle rispettive regioni, andando avanti insieme «a diffondere la misericordia e la pace di Dio in un mondo bisognoso» (Appello dei vescovi IARCCUM, Roma 2016). Saluto anche gli studenti borsisti del Comitato per la Collaborazione Culturale con le Chiese ortodosse del Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e i partecipanti alle visite di studio organizzate per giovani sacerdoti e monaci delle Chiese ortodosse orientali, e per gli studenti dell’Istituto Ecumenico di Bossey del Consiglio Ecumenico delle Chiese.

Insieme, come fratelli e sorelle in Cristo, preghiamo con Paolo dicendo: “Che cosa dobbiamo fare, Signore?”. E nel porre la domanda c’è già una risposta, perché la prima risposta è la preghiera. Pregare per l’unità è il primo compito del nostro cammino. Ed è un compito santo, perché è stare in comunione con il Signore, che per l’unità ha anzitutto pregato il Padre. E continuiamo a pregare pure per la fine delle guerre, specialmente in Ucraina e in Terra Santa. Un pensiero accorato va anche all’amato popolo del Burkina Faso, in particolare alle comunità che lì hanno preparato il materiale per la Settimana di Preghiera per l’Unità: possa l’amore al prossimo prendere il posto della violenza che affligge il loro Paese.

«“Che devo fare, Signore?”. E il Signore – racconta Paolo – mi disse: “Àlzati e prosegui”» (At 22,10). Alzati, dice Gesù a ciascuno di noi e alla nostra ricerca di unità. Alziamoci allora, nel nome di Cristo, dalle nostre stanchezze e dalle nostre abitudini, e proseguiamo, andiamo avanti, perché Lui lo vuole, e lo vuole «perché il mondo creda» (Gv 17,21). Preghiamo, dunque, e andiamo avanti, perché questo Dio desidera da noi. È questo che desidera da noi.

[00161-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Dans l’Évangile que nous avons écouté, le docteur de la Loi, bien qu’il s’adresse à Jésus en l’appelant «Maître», ne veut pas se laisser instruire par lui mais «le mettre à l’épreuve». Une fausseté encore plus grande ressort toutefois de sa question: «Maître, que dois-je faire pour avoir en héritage la vie éternelle?» (Lc 10, 25). Faire pour hériter, faire pour avoir: voilà une religiosité déformée, basée sur la possession plutôt que sur le don, où Dieu est le moyen d’obtenir ce que je veux, non la fin à aimer du fond du cœur. Mais Jésus est patient et invite ce docteur à trouver la réponse dans la Loi dont il était l’expert, qui prescrit: «Tu aimeras le Seigneur ton Dieu de tout ton cœur, de toute ton âme, de toute ta force et de toute ton intelligence, et ton prochain comme toi-même» (Lc 10, 27).

Cet homme, «voulant se justifier», pose une deuxième question: «Et qui est mon prochain?» (Lc 10, 29). Si la première question risquait de réduire Dieu au “moi”, celle-ci cherche à diviser: diviser les personnes entre celles que l’on doit aimer et celles que l’on peut ignorer. Et diviser ne vient jamais de Dieu: cela vient du diable, qui est diviseur. Jésus ne réplique pas en faisant de la théorie, mais avec la parabole du bon Samaritain, avec une histoire concrète qui nous interpelle nous aussi. Car, chers frères et sœurs, ce sont le prêtre et le lévite qui se comportent mal, avec indifférence, qui privilégient la protection de leurs traditions religieuses au détriment des besoins de ceux qui souffrent. Celui qui donne un sens au mot “prochain” est au contraire un hérétique, un Samaritain, parce qu’il se fait proche: il fait preuve de compassion, il s’approche et se penche tendrement sur les blessures de ce frère; il prend soin de lui, indépendamment de son passé et de ses fautes, et le sert de tout son être (cf. Lc 10, 33-35). Cela permet à Jésus de conclure que la bonne question n’est pas “Qui est mon prochain?” mais: “Est-ce que je me fais proche?” Seul cet amour qui devient service gratuit, seul cet amour que Jésus a proclamé et vécu, rapprochera les chrétiens séparés les uns des autres. Oui, seul cet amour, qui ne revient pas sur le passé pour prendre ses distances ou pointer du doigt, seul cet amour qui, au nom de Dieu, place le frère avant la défense farouche de son système religieux, seul cet amour nous unira. D’abord le frère, ensuite le système.

Frères et sœurs, entre nous, nous ne devrions jamais nous poser la question “qui est mon prochain?”. Parce que chaque baptisé appartient au même Corps du Christ; et plus encore, parce que chaque personne dans le monde est mon frère ou ma sœur, et nous composons tous la “symphonie de l’humanité” dont le Christ est le premier-né et le rédempteur. Comme le rappelle saint Irénée, que j’ai eu la joie de proclamer “Docteur de l’unité”: «Celui qui aime la vérité ne doit pas se laisser abuser par l’intervalle existant entre les différents sons ni soupçonner l’existence de plusieurs Artistes ou Auteurs […], il doit reconnaître au contraire qu’un seul et même Dieu a œuvré» (Adv. Haer. II, 25, 2). Donc, non pas “qui est mon prochain?” mais “est-ce que je me fais proche?” Et moi: ma communauté, mon Église, ma spiritualité, se sont-elles faites proches? Ou bien restent-elles barricadées pour défendre leurs intérêts, jalouses de leur autonomie, enfermées dans le calcul de leurs avantages, en nouant des relations avec les autres seulement pour en tirer quelque chose? Si tel était le cas, il ne s’agirait pas seulement d’erreurs stratégiques, mais d’infidélité à l’Évangile.

Que dois-je faire pour avoir en héritage la vie éternelle?”: Ainsi avait commencé le dialogue entre le docteur de la Loi et Jésus. Mais aujourd’hui encore, cette première question est renversée grâce à l’Apôtre Paul dont nous célébrons la conversion dans la Basilique qui lui est dédiée. C’est lorsque Saul de Tarse, persécuteur des chrétiens, rencontre Jésus dans la vision lumineuse qui l’enveloppe et qui change sa vie, qu’il lui demande: «Que dois-je faire, Seigneur?» (Ac 22, 10). Non pas “que dois-je faire pour avoir en héritage?”, mais “que dois-je faire, Seigneur?”: le Seigneur est la fin de la demande, le véritable héritage, le bien suprême. Paul ne change pas de vie sur la base de ses objectifs, il ne devient pas meilleur parce qu’il réalise ses projets. Sa conversion naît d’un renversement existentiel, où la primauté n’appartient plus à sa bravoure face à la Loi, mais à la docilité à l’égard de Dieu, dans une totale ouverture à ce qu’Il veut. Pas à sa bravoure mais à sa docilité: de la bravoure à la docilité. S’Il est le trésor, notre programme ecclésial ne peut consister qu’à faire sa volonté, à aller à la rencontre de ses désirs. Et Lui, la nuit avant de donner sa vie pour nous, a ardemment prié le Père pour nous tous, «afin que tous soient un» (Jn 17, 21). Voilà sa volonté.

Tous les efforts vers la pleine unité sont appelés à suivre le même chemin que Paul, à mettre de côté la centralité de nos idées pour chercher la voix du Seigneur et lui laisser l’initiative et la place. Un autre Paul, grand pionnier du mouvement œcuménique, l’avait bien compris, l’Abbé Paul Couturier qui, en priant, implorait l’unité des croyants “comme le Christ la veut”, “avec les moyens qu’Il veut”. Nous avons besoin de cette conversion de perspective et avant tout du cœur, car, comme l’a affirmé le Concile Vatican II il y a soixante ans: «Il n’y a pas de véritable œcuménisme sans conversion intérieure» (Unitatis redintegratio, n. 7). Tandis que nous prions ensemble, nous reconnaissons, chacun à partir de lui-même, que nous avons besoin de nous convertir, de permettre au Seigneur de changer notre cœur. Telle est la voie: marcher ensemble et servir ensemble, en mettant la prière à la première place. En effet, lorsque les chrétiens mûrissent dans le service de Dieu et du prochain, ils grandissent aussi dans la compréhension réciproque, comme le déclare encore le Concile: «Plus étroite, en effet, sera leur communion avec le Père, le Verbe et l’Esprit Saint, plus ils pourront rendre intime et facile la fraternité mutuelle» (ibid).

C’est pourquoi nous sommes ici ce soir de différents pays, de différentes cultures et traditions. Je suis reconnaissant à Sa Grâce Justin Welby, Archevêque de Canterbury, au Métropolite Polycarpe représentant le Patriarcat Œcuménique, et à vous tous, qui rendez présentes de nombreuses communautés chrétiennes. J’adresse un salut spécial aux membres de la Commission mixte internationale pour le dialogue théologique entre l’Église catholique et les Églises orthodoxes orientales, qui célèbrent le vingtième anniversaire de leur cheminement, et aux évêques catholiques et anglicans qui participent à la rencontre de la Commission internationale pour l’Unité et la Mission. Il est beau qu’aujourd’hui, avec mon frère, l’Archevêque Justin, nous puissions donner à ces évêques le mandat de continuer à témoigner de l’unité voulue par Dieu pour son Église dans leurs régions respectives, en avançant ensemble «à offrir la miséricorde et la paix de Dieu à un monde qui en a tant besoin» (Appel des évêques de l’IARCCUM, Rome 2016). Je salue également les étudiants boursiers du Comité pour la Collaboration Culturelle avec les Églises orthodoxes du Dicastère pour la Promotion de l’Unité des Chrétiens et les participants aux visites d’études organisées pour les jeunes prêtres et les moines des Églises orthodoxes orientales, et pour les étudiants de l’Institut Œcuménique de Bossey du Conseil Œcuménique des Églises.

Ensemble, comme frères et sœurs dans le Christ, prions avec Paul en disant: “Que devons-nous faire, Seigneur?”. Et en posant la question, il y a déjà une réponse, parce que la première réponse est la prière. Prier pour l’unité est la première tâche de notre cheminement. Et c’est une tâche sainte, parce que c’est être en communion avec le Seigneur qui pour l’unité a tout d’abord prié le Père. Et continuons à prier aussi pour la fin des guerres, en particulier en Ukraine et en Terre Sainte. Une pensée profonde va aussi au bien-aimé peuple du Burkina Faso, en particulier aux communautés qui y ont préparé le matériel pour la Semaine de Prière pour l’Unité: puisse l’amour du prochain prendre la place de la violence qui afflige leur pays.

«“Que dois-je faire, Seigneur?” Et le Seigneur – raconte Paul – me dit: “Relève-toi et va”» (Ac 22, 10). Relève-toi, dit Jésus à chacun de nous et à notre recherche d’unité. Relevons-nous donc, au nom du Christ, de nos fatigues et de nos habitudes, et continuons, avançons, parce qu’Il le veut, et Il le veut «pour que le monde croie» (Jn 17, 21). Prions donc et allons de l’avant, parce que Dieu le souhaite pour nous. C’est ce qu’il souhaite pour nous.

[00161-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

In the Gospel we have just heard, a lawyer calls Jesus “Teacher”. He does not want to learn anything from Jesus, but rather “to test him”. Even greater insincerity is evident in the question he asks: “What must I do to inherit eternal life?” (Lk 10:25). To do in order to inherit, to do in order to possess: these are the signs of a distorted religiosity based on getting rather than giving, in which God becomes a means to obtaining what I want, rather than an end to be loved with all our heart. Yet Jesus is patient; he asks the lawyer to find the answer in the Law itself, which commands: “You shall love the Lord your God with all your heart, and with all your soul, and with all your strength and with all your mind, and your neighbour as yourself” (Lk 10:27).

Then that man, seeking to justify himself, asks a second question: “And who is my neighbour?” (Lk 10:29). If the first question risked reducing God to our own needs, this question attempts to divide: to separate people into those we should love and those we should shun. This kind of division is never from God; it is from the devil, who divides. Jesus does not answer in the abstract, but tells the parable of the Good Samaritan, a pointed story that challenges us as well. Because, dear brothers and sisters, the people who failed to do good, who proved callous, were the priest and the Levite, who were more concerned with respecting their religious traditions than with coming to the aid of a suffering person. The one who demonstrates what it means to be a “neighbour” is instead a heretic, a Samaritan. He draws near, he feels compassion, he bends down and gently tends the wounds of that brother. He is concerned for him, regardless of his past and his failings, and he puts himself wholly at his service (cf. Lk 10:33-35). Jesus can thus conclude that the right question is not: “Who is my neighbour?” but “Do I act like a neighbour?” Only a love that becomes gratuitous service, only the love that Jesus taught and embodied, will bring separated Christians closer to one another. Only that love, which does not appeal to the past in order to remain aloof or to point a finger, only that love which in God’s name puts our brothers and sisters before the ironclad defense of our own religious structures, only that love will unite us. First our brothers and sisters, then the structures.

Brothers and sisters, among ourselves, we should never have to ask: “Who is my neighbour?” For each baptized person is a member of the one Body of Christ; what is more, everyone in this world is my brother or my sister, and all together we compose that “symphony of humanity” of which Christ is the Firstborn and Redeemer. As Saint Irenaeus, whom I had the joy of proclaiming the “Doctor of Unity”, observed: “One who seeks the truth should not concentrate on the differences between one note and another, thinking as if each was created separately and apart from the others; instead, he should realize that one and the same person composed the entire melody” (Adv. Haer., II, 25, 2). In other words, not “Who is my neighbour?” but “Do I act like a neighbour? Do I, and then my community, my Church, my spirituality, act like a neighbour? Or are they barricaded in defense of their own interests, jealous of their autonomy, caught up in calculating what is in their own interest, building relationships with others only in order to gain something for themselves? If that were the case, it would not only be a matter of mistaken strategies, but of infidelity to the Gospel.

“What must I do to inherit eternal life?” That is how the dialogue between the lawyer and Jesus began. Today, however, that initial question is reversed, thanks to the Apostle Paul, whose conversion we celebrate in this Basilica dedicated to him. When Saul of Tarsus, the persecutor of Christians, encountered Jesus in the burst of light that enveloped him and changed his life, he immediately asks: “What am I to do, Lord?” (Acts 22:10). Not “What must I do to inherit?” but “What am I to do, Lord?” The Lord is the object of the question; he is the real “inheritance”, the supreme good. Paul’s life is not changed because he changes his goals in order better to achieve his aims. His conversion was the result of an existential reversal, in which his devotion to the Law gave way to docility to God and total openness to his will. It was not his devotion, but his docility: from devotion to docility. If God is our treasure, our ecclesial plan of action must surely consist in doing his will, in fulfilling his desires. On the night before he offered his life for us, he prayed fervently to the Father for all of us: “that they may be one” (Jn 17:21). That, we see, is his will.

All efforts to attain full unity are called to follow the same route as Paul, decentralizing our own ideas in order to hear the Lord’s voice and give him the space to take the initiative. This was clearly understood by yet another Paul, that great pioneer of the ecumenical movement, Abbé Paul Couturier, who was accustomed to pray for the unity of Christians “as Christ wills it and in accordance with the means he wills”. We need this reversal of perspective and above all this conversion of heart, for, as the Second Vatican Council stated sixty years ago: “There can be no ecumenism worthy of the name without interior conversion” (Unitatis Redintegratio, 7). As we pray together, may we acknowledge, each of us starting with himself or herself, our need for conversion, for letting the Lord change our hearts. This is the path before us: journeying together and serving together, giving priority of place to prayer. For when Christians grow in the service of God and neighbour, they also grow in reciprocal understanding. As the Council went on to say: “The closer their union with the Father, the Word and the Spirit, the more deeply and easily will they be able to grow in mutual love” (ibid.).

That is why we are here tonight, coming as we do from different countries, cultures and traditions. I am grateful to His Grace Justin Welby, the Archbishop of Canterbury, to Metropolitan Polycarp, who represents the Ecumenical Patriarchate, and to all of you, who make present many Christian communities. I offer a special greeting to the members of the Joint International Commission for Theological Dialogue between the Catholic Church and the Oriental Orthodox Churches, as they celebrate the twentieth anniversary of the dialogue, and to the Catholic and Anglican bishops taking part in the meeting of the International Commission for Unity and Mission. It is nice that today, with my brother, Archbishop Justin, we can confer on these joint groups of bishops the mandate of continuing to testify to the unity willed by God for his Church in their respective regions, as they move forward together “to extend the mercy and peace of God to a world in need” (Appeal from the IARCCUM Bishops, Rome, 2016). I also greet the scholarship holders of the Committee for Cultural Collaboration with the Orthodox Churches at the Dicastery for Promoting Christian Unity, and the participants in the study visits organized for young priests and monks of the Oriental Orthodox Churches, and those organized for the students of the Bossey Ecumenical Institute of the World Council of Churches.

Together, as brothers and sisters in Christ, let us pray with Paul and say: “What are we to do, Lord?” In asking that question, we already have an answer, because the first answer is prayer. Prayer for unity is the primary responsibility in our journey together. And it is a sacred responsibility, because it means being in communion with the Lord, who prayed above all to the Father for unity. Let us also continue to pray for an end to wars, especially in Ukraine and in the Holy Land. Our hearts also reach out to the beloved people of Burkina Faso, and in particular to the communities that prepared the materials for this Week of Prayer for Unity: May love of neighbour replace the violence that assails their country.

“What am I to do, Lord?” The Lord, Paul tells us, said: “Get up and go” (Acts 22:10). Get up, Jesus says to each of us and to our efforts on behalf of unity. So let us get up in the name of Christ from our tired routine and set out anew, for he wills it, and he wills it “so that the world may believe” (Jn 17:21). Let us pray, then, and let us keep moving forward, for that is what God desires of us. This is what he wants from us.

[00161-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Im Evangelium, das wir gehört haben, spricht der Gesetzeslehrer Jesus zwar mit »Meister« an, er will sich aber nicht von ihm unterweisen lassen, sondern ihn »auf die Probe […] stellen«. Eine noch größere Unaufrichtigkeit geht jedoch aus seiner Frage hervor: »Was muss ich tun, um das ewige Leben zu erben?« (Lk 10,25). Tun, um zu erben; tun, um zu haben: Dies ist eine verkehrte Religiosität, die auf Besitz gründet statt auf Hingabe und bei der Gott das Mittel ist, durch das ich bekomme, was ich will, und nicht das mit ganzem Herzen zu liebende Ziel. Aber Jesus ist geduldig und lädt den Lehrer ein, die Antwort im Gesetz zu finden, das dieser sehr gut kannte und das vorschreibt: »Du sollst den Herrn, deinen Gott, lieben mit deinem ganzen Herzen und deiner ganzen Seele, mit deiner ganzen Kraft und deinem ganzen Denken, und deinen Nächsten wie dich selbst« (Lk 10,27).

Jener Mann »wollte sich rechtfertigen« und stellte daraufhin eine zweite Frage: »Und wer ist mein Nächster?« (Lk 10,29). Wenn die erste Frage drohte, Gott auf das eigene „Ich“ zu reduzieren, versucht diese Frage zu spalten: Menschen in diejenigen zu unterteilen, die man lieben muss und diejenigen, die man ignorieren kann. Und das Spalten kommt niemals von Gott: Es kommt vom Teufel, der Spalter ist. Jesus antwortet jedoch nicht auf theoretische Weise, sondern mit dem Gleichnis vom barmherzigen Samariter, mit einer konkreten Geschichte, die auch Fragen an uns stellt. Denn, liebe Brüder und Schwestern, es sind der Priester und der Levit, die sich schlecht verhalten, die gleichgültig sind und den Bedürfnissen der Leidenden den Schutz ihrer religiösen Traditionen überordnen. Stattdessen ist es ein Ketzer, ein Samariter, der dem Wort „Nächster“ einen Sinn gibt, weil er sich selbst zum Nächsten macht. Er empfindet Mitleid, er nähert sich und beugt sich zärtlich über die Wunden jenes Bruders; er kümmert sich um ihn ungeachtet seiner Vergangenheit und seiner Fehler und dient ihm voller Hingabe (vgl. Lk 10,33-35). Daraus vermag Jesus zu schließen, dass die richtige Frage nicht lautet: „Wer ist mein Nächster?“, sondern: „Mache ich mich selbst zum Nächsten?“. Nur diese Liebe, die zu einem uneigennützigen Dienst wird, nur diese Liebe, die Jesus verkündet und gelebt hat, wird die getrennten Christen einander näherbringen. Ja, nur diese Liebe, die nicht in die Vergangenheit zurückkehrt, um auf Abstand zu gehen oder mit dem Finger auf jemanden zu zeigen, nur diese Liebe, die im Namen Gottes den Bruder vor die eherne Verteidigung des eigenen religiösen Systems stellt, nur diese Liebe wird uns einen. Zuerst der Bruder, danach das System.

Brüder und Schwestern, wir sollten uns untereinander niemals die Frage stellen: „Wer ist mein Nächster?“. Denn jeder Getaufte gehört demselben Leib Christi an. Ja, mehr noch, jeder Mensch auf der Welt ist mein Bruder oder meine Schwester und wir alle bilden die „Symphonie der Menschheit“, deren Erstgeborener und Erlöser Christus ist. Wie uns der heilige Irenäus in Erinnerung ruft, den ich mit Freude zum „Lehrer der Einheit“ erklärt habe: »Wer die Wahrheit liebt, darf sich durch die Unterschiedlichkeit der einzelnen Töne nicht verleiten lassen und mehrere Künstler und Schöpfer annehmen, wobei der eine die hohen Töne, ein anderer die tiefen und noch ein anderer die mittleren beigetragen hätte, sondern es war ein und derselbe« (Adv. haer. II, 25, 2). Die Frage ist also nicht „wer ist mein Nächster?“, sondern „mache ich mich selbst zum Nächsten?“ Ich und dann meine Gemeinschaft, meine Kirche, meine Spiritualität, machen sie sich zum Nächsten? Oder bleiben sie verbarrikadiert in der Verteidigung der eigenen Interessen, eifersüchtige Hüter ihrer Autonomie, gefangen im Berechnen des eigenen Vorteils, indem sie Beziehungen mit anderen nur aufnehmen, um damit etwas zu gewinnen? Wenn es so wäre, dann würde es sich nicht nur um strategische Fehler handeln, sondern um Untreue gegenüber dem Evangelium.

»Was muss ich tun, um das ewige Leben zu erben?« So begann der Dialog zwischen dem Gesetzeslehrer und Jesus. Aber selbst diese erste Frage wird heute dank des Apostels Paulus auf den Kopf gestellt, dessen Bekehrung wir in der ihm geweihten Basilika feiern. Als nämlich Saulus von Tarsus, der Christenverfolger, Jesus in einer lichtvollen Vision begegnet, die sein Leben verändert, fragt er ihn: »Herr, was soll ich tun?« (Apg 22,10). Nicht „was muss ich tun, um zu erben?“, sondern „Herr, was soll ich tun?“: Der Herr ist das Ziel der Bitte, das wahre Erbe, das höchste Gut. Paulus ändert sein Leben nicht aufgrund seiner Ziele, er wird nicht dadurch besser, dass er seine Pläne verwirklicht. Seine Bekehrung kommt aus einer existenziellen Umorientierung, wo an erster Stelle nicht mehr seine Tüchtigkeit vor dem Gesetz steht, sondern die Fügsamkeit gegenüber Gott, die völlige Offenheit für das, was Gott will. Nicht seine Tüchtigkeit, sondern die Fügsamkeit: von der Tüchtigkeit zur Fügsamkeit. Wenn er der Schatz ist, kann unser kirchliches Programm nur darin bestehen, seinen Willen zu tun, seinen Wünschen zu entsprechen. Und er hat in der Nacht, bevor er sein Leben für uns hingab, inbrünstig für uns alle zum Vater gebetet, »alle sollen eins sein« (Joh 17,21). Dies ist sein Wille.

Bei unserem Bemühen um die volle Einheit sind wir gerufen, den gleichen Weg zu gehen wie Paulus und das Kreisen um unsere eigenen Ideen aufzugeben, um die Stimme des Herrn zu suchen und ihm die Initiative zu überlassen und Raum zu geben. Dies hat ein anderer Paul gut verstanden, ein großer Pionier der ökumenischen Bewegung, Abbé Paul Couturier, der für die Einheit der Gläubigen zu beten pflegte, „wie Christus sie will“, „mit den Mitteln, die er will“. Wir brauchen diese Umkehr der Perspektive und insbesondere des Herzens, denn wie das Zweite Vatikanische Konzil vor sechzig Jahren feststellte, gibt es »keinen echten Ökumenismus ohne innere Bekehrung« (Unitatis redintegratio, 7). Wenn wir gemeinsam beten, erkennen wir, ein jeder von uns, dass wir der Bekehrung bedürfen, dass wir dem Herrn erlauben müssen, unsere Herzen zu verändern. Dies ist der Weg: gemeinsam gehen und gemeinsam dienen und dabei das Gebet an die erste Stelle setzen. Wenn die Christen nämlich im Dienst an Gott und dem Nächsten reifen, dann wachsen sie auch im gegenseitigen Verständnis, wie das Konzil feststellt: »Je inniger die Gemeinschaft ist, die sie mit dem Vater, dem Wort und dem Geist vereint, um so inniger und leichter werden sie imstande sein, die gegenseitige Brüderlichkeit zu vertiefen« (ebd.).

Deshalb sind wir heute Abend hier, aus verschiedenen Ländern, aus unterschiedlichen Kulturen und Traditionen. Ich danke Seiner Gnaden Justin Welby, dem Erzbischof von Canterbury, Metropolit Polycarp als dem Vertreter des Ökumenischen Patriarchats und euch allen, die ihr viele christliche Gemeinschaften hier anwesend sein lasst. Einen besonderen Gruß richte ich an die Mitglieder der Gemischten Internationalen Kommission für den theologischen Dialog zwischen der katholischen Kirche und den orientalisch-orthodoxen Kirchen, die heute das 20-jährige Bestehen ihres Weges feiern, sowie an die katholischen und anglikanischen Bischöfe, die an der Zusammenkunft der Internationalen Kommission für Einheit und Mission teilnehmen. Es ist schön, dass wir heute mit meinem Bruder Erzbischof Justin diesen Paaren von Bischöfen den Auftrag erteilen können, weiterhin die von Gott für seine Kirche gewollte Einheit in ihren jeweiligen Regionen zu bezeugen und gemeinsam voranzugehen, »um die Barmherzigkeit und den Frieden Gottes in einer Welt in Not zu verbreiten« (Appell der IARCCUM-Bischöfe, Rom 2016). Ich grüße auch die Stipendiaten des Komitees für die kulturelle Zusammenarbeit mit den orthodoxen Kirchen des Dikasteriums zur Förderung der Einheit der Christen und die Teilnehmer der Studienaufenthalte, die für junge Priester und Mönche der orientalisch-orthodoxen Kirchen wie auch für die Studenten des Ökumenischen Instituts Bossey des Ökumenischen Rates der Kirchen organisiert werden.

Gemeinsam beten wir mit Paulus als Brüder und Schwestern in Christus und sagen: „Was sollen wir tun, Herr?“. Und wenn wir diese Frage stellen, gibt es bereits eine Antwort, denn die erste Antwort ist das Gebet. Für die Einheit zu beten ist die erste Aufgabe auf unserem Weg. Und es ist eine heilige Aufgabe, denn es bedeutet, in Gemeinschaft mit dem Herrn zu sein, der zuerst den Vater um die Einheit gebeten hat. Und lasst uns weiterhin auch für ein Ende der Kriege beten, besonders in der Ukraine und im Heiligen Land. Ein inniger Gedanke geht auch an das geliebte Volk von Burkina Faso, insbesondere an die Gemeinschaften, die dort die Arbeitshilfen für die Gebetswoche für die Einheit vorbereitet haben: möge die Nächstenliebe an die Stelle der Gewalt treten, die ihr Land quält.

»Herr, was soll ich tun?« Und der Herr – berichtet Paulus – antwortete mir: »Steh auf und geh« (Apg 22,10). Steh auf, sagt Jesus zu jedem einzelnen von uns und zu unserem Streben nach Einheit. Erheben wir uns also im Namen Christi aus unserer Müdigkeit und unseren Gewohnheiten und machen wir weiter, gehen wir voran, denn er will es und er will es, »damit die Welt glaubt« (Joh 17,21). Beten wir also und gehen wir weiter, denn dies ist es, was Gott von uns will. Dies ist, was er von uns will.

[01061-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

En el Evangelio que hemos escuchado, el doctor de la Ley, aunque se dirige a Jesús llamándolo «Maestro», no quiere dejarse instruir por él, sino «ponerlo a prueba». Pero una falsedad aún mayor emerge de su pregunta: «¿qué tengo que hacer para heredar la Vida eterna?» (Lc 10,25). Hacer para heredar, hacer para tener: he aquí una religiosidad distorsionada, basada en la posesión más que en el don, donde Dios es el medio para obtener lo que quiero, no el fin a amar con todo el corazón. Pero Jesús es paciente e invita a ese doctor a encontrar la respuesta en la Ley de la que era experto, que prescribe: «Amarás al Señor, tu Dios, con todo tu corazón, con toda tu alma, con todas tus fuerzas y con todo tu espíritu, y a tu prójimo como a ti mismo» (Lc 10,27).

Entonces aquel hombre, «queriendo justificarse», plantea una segunda pregunta: «¿Y quién es mi prójimo?» (Lc 10,29). Si la primera pregunta corría el riesgo de reducir a Dios al propio “yo”, esta trata de dividir: dividir a las personas entre las que se deben amar y las que se pueden ignorar. Y dividir nunca es de Dios, es del diablo, que es divisor. Jesús, sin embargo, no responde teorizando, sino con la parábola del buen samaritano, con una historia concreta, que nos involucra también a nosotros. Porque, queridos hermanos y hermanas, quienes se comportan mal y con indiferencia, son el sacerdote y el levita, que anteponen a las necesidades del que sufre la tutela de sus tradiciones religiosas. El que da sentido a la palabra “prójimo” es, en cambio, un hereje, un samaritano, porque se hace prójimo: siente compasión, se acerca y se inclina tiernamente sobre las heridas de ese hermano; se ocupa de él, independientemente de su pasado y de sus culpas, y lo sirve con todo su ser (cf. Lc 10,33-35). Esto permite a Jesús concluir que la pregunta correcta no es “¿quién es mi prójimo?” sino: “¿me hago yo prójimo?” Sólo este amor que se convierte en servicio gratuito, sólo este amor que Jesús proclamó y vivió, acercará a los cristianos separados los unos a los otros. Sí, sólo este amor, que no vuelve al pasado para poner distancia o señalar con el dedo; sólo este amor, que en nombre de Dios antepone el hermano a la férrea defensa del propio sistema religioso, sólo este amor nos unirá. Primero el hermano, luego el sistema.

Hermanos y hermanas, entre nosotros nunca deberíamos preguntarnos “¿quién es mi prójimo?”. Porque todo bautizado pertenece al mismo Cuerpo de Cristo; y más aún, porque toda persona en el mundo es mi hermano o mi hermana, y todos componemos la “sinfonía de la humanidad”, de la que Cristo es primogénito y redentor. Como recuerda san Ireneo, que tuve la alegría de proclamar “Doctor de la unidad”: «el amante de la verdad no debe dejarse engañar por el intervalo particular de cada tono, ni suponer un creador para uno y otro para otro […], sino uno sólo» (Adv. Haer. II, 25, 2). Entonces, no digamos “¿quién es mi prójimo?” sino “¿me hago yo prójimo?” Yo y también mi comunidad, mi Iglesia, mi espiritualidad, ¿se hacen prójimos? ¿O permanecen atrincheradas en defensa de sus propios intereses, celosas de su autonomía, encerradas en el cálculo de sus propias ventajas, entablando relaciones con los demás sólo para obtener algo de ellas? Si así fuera, no se trataría sólo de errores estratégicos, sino de infidelidad al Evangelio.

“¿Qué debo hacer para heredar la vida eterna?” Así comenzó el diálogo entre el doctor de la Ley y Jesús. Pero hoy esta primera pregunta también da un vuelco gracias al Apóstol san Pablo, cuya conversión celebramos en esta Basílica a él dedicada. Pues bien, precisamente cuando Saulo de Tarso, perseguidor de los cristianos, encuentra a Jesús en la visión de luz que lo envuelve y le cambia la vida, le pregunta: «¿Qué debo hacer, Señor?» (Hch 22,10). No “¿qué debo hacer para heredar?” sino “¿qué debo hacer, Señor?” El Señor es el objetivo de la petición, la verdadera herencia, el sumo bien. Pablo no cambia de vida según sus propósitos, no se vuelve mejor por realizar sus proyectos. Su conversión nace de un cambio existencial, donde el primado ya no le pertenece a su perfección frente a la Ley, sino a la docilidad para con Dios, en una apertura total a lo que Él quiere. No a su perfección sino a su docilidad, de la perfección a la docilidad. Si Él es el tesoro, nuestro programa eclesial no puede sino consistir en hacer su voluntad, en conformarse a sus deseos. Y Él, la noche antes de dar la vida por nosotros, oró ardientemente al Padre por todos nosotros, «que todos sean uno» (Jn 17,21). Esa es su voluntad.

Todos los esfuerzos hacia la unidad plena están llamados a seguir el mismo itinerario de san Pablo, a dejar de lado la centralidad de nuestras ideas para buscar la voz del Señor y dejarle iniciativa y espacio a Él. Lo había comprendido bien otro Pablo, gran pionero del movimiento ecuménico, el sacerdote Paul Couturier, quien rezando solía implorar la unidad de los creyentes “como Cristo la quiere”, “con los medios que Él quiere”. Necesitamos esta conversión de perspectiva y ante todo de corazón, porque, como afirmó hace sesenta años el Concilio Vaticano II: «El verdadero ecumenismo no puede darse sin la conversión interior» (Unitatis redintegratio, 7). Mientras oramos juntos reconozcamos, cada uno, que necesitamos convertirnos, dejar que el Señor nos cambie el corazón. Esta es la vía: caminar juntos y servir juntos, poniendo la oración como prioridad. En efecto, cuando los cristianos maduran en el servicio a Dios y al prójimo, crecen también en la comprensión recíproca, como declara asimismo el Concilio: «Porque cuanto más se unan en estrecha comunión con el Padre, con el Verbo y con el Espíritu, tanto más íntima y fácilmente podrán acrecentar la mutua hermandad» (Ibíd.).

Por eso estamos aquí esta noche provenientes de distintos países y de diferentes culturas y tradiciones. Me siento agradecido con Su Gracia Justin Welby, Arzobispo de Canterbury, con el Metropolita Policarpo, en representación del Patriarcado Ecuménico, y con todos ustedes, que hacen presentes a muchas comunidades cristianas. Dirijo un saludo especial a los miembros de la Comisión mixta internacional para el diálogo teológico entre la Iglesia católica y las Iglesias ortodoxas orientales, que celebran el XX aniversario de su camino, y a los Obispos católicos y anglicanos que participan en el encuentro de la Comisión internacional para la Unidad y la Misión. Es hermoso que hoy con mi hermano, el Arzobispo Justin, podamos conferir a este grupo de Obispos el mandato de seguir testimoniando la unidad querida por Dios para su Iglesia en sus respectivas regiones, caminando juntos «para difundir la misericordia y la paz de Dios en un mundo necesitado» (Obispos IARCCUM, Walking Together, Roma, 7 de octubre de 2016). Saludo también a los estudiantes becarios del Comité para la Colaboración Cultural con las Iglesias ortodoxas del Dicasterio para la Promoción de la Unidad de los Cristianos y a los participantes en las visitas de estudio organizadas para jóvenes sacerdotes y monjes de las Iglesias ortodoxas orientales, y para los estudiantes del Instituto Ecuménico de Bossey del Consejo Ecuménico de las Iglesias.

Juntos, como hermanos y hermanas en Cristo, imploremos con Pablo diciendo: “¿Qué debemos hacer, Señor?”. Y al hacer esta súplica ya tenemos una respuesta, porque la primera respuesta es la oración. Rezar por la unidad es la primera tarea de nuestro camino. Y es una tarea santa, porque es estar en comunión con el Señor, que rogó al Padre ante todo por la unidad. Y sigamos rezando también por el fin de las guerras, especialmente en Ucrania y en Tierra Santa. Saludo asimismo al amado pueblo de Burkina Faso, en particular a las comunidades que allí prepararon el material para la Semana de Oración por la Unidad. Que el amor al prójimo sustituya la violencia que aflige a ese país.

«“¿Qué debo hacer, Señor?”. Y el Señor —narra Pablo— me dijo: “Levántate y ve a Damasco”» (Hch 22, 10). Levántate, nos dice Jesús a cada uno de nosotros y a nuestra búsqueda de unidad. Levantémonos entonces, en nombre de Cristo, de nuestros cansancios y de nuestras costumbres, y continuemos, vayamos adelante, porque Él lo quiere, y lo quiere «para que el mundo crea» (Jn 17,21). Oremos, pues, y sigamos adelante, porque esto es lo que Dios desea de nosotros. Es esto lo que desea de nosotros.

[01061-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

No Evangelho que ouvimos, o doutor da Lei, embora se dirija a Jesus tratando-O por «Mestre», não quer deixar-se instruir por Ele, mas pô-Lo à prova «para O experimentar». Entretanto um equívoco ainda maior emerge da sua pergunta: «Que hei de fazer para possuir a vida eterna?» (Lc 10, 25). Fazer para possuir, fazer para ter: estamos perante uma religiosidade deturpada, assente na posse e não no dom, onde Deus é o meio para obter aquilo que quero, e não o fim que devo amar com todo o coração. Mas Jesus é paciente e convida aquele homem a encontrar a resposta na Lei em que é perito; nela se prescreve: «Amarás ao Senhor, teu Deus, com todo o teu coração, com toda a tua alma, com todas as tuas forças e com todo o teu entendimento, e ao teu próximo como a ti mesmo» (Lc 10, 27).

Então o doutor da Lei, «querendo justificar a pergunta», coloca uma segunda questão: «E quem é o meu próximo?» (Lc 10, 29). Se, na primeira pergunta, se arriscava a reduzir Deus ao próprio «eu», nesta procura-se dividir: dividir as pessoas entre aquelas que se deve amar e aquelas que se pode ignorar. E dividir nunca vem de Deus; é do diabo, que sempre divide. Jesus, porém, não replica com uma teoria, mas com a parábola do bom samaritano, com uma história concreta, que nos interpela também a nós. Com efeito, queridos irmãos e irmãs, quem se comporta mal, com indiferença, é o sacerdote e o levita que antepõem, às carências de quem sofre, a salvaguarda das suas tradições religiosas. Ao contrário é um herege, um Samaritano, que dá sentido à palavra «próximo», porque se faz próximo: sente compaixão, aproxima-se e inclina-se com ternura sobre as feridas daquele irmão; cuida dele, independentemente do seu passado e das suas culpas, e serve-o com o melhor de si mesmo (cf. Lc 10, 33-35). Isto permite a Jesus concluir que a pergunta correta não é «Quem é o meu próximo?», mas «Eu… faço-me próximo?» Só este amor que se torna serviço gratuito, só este amor que Jesus proclamou e viveu, aproximará uns dos outros os cristãos separados. Sim, só este amor, que não esquadrinha o passado para justificar distâncias ou acusas, só este amor que, em nome de Deus, antepõe o irmão à férrea defesa do próprio sistema religioso, só este amor… nos unirá. Primeiro o irmão, depois o sistema.

Irmãos e irmãs, entre nós não deveríamos jamais perguntar-nos «quem é o meu próximo?». Porque todo o batizado pertence ao mesmo Corpo de Cristo; mais ainda, porque cada pessoa no mundo é meu irmão ou minha irmã e, todos, compomos a «sinfonia da humanidade», da qual Cristo é primogénito e redentor. Como recorda Santo Ireneu (que tive a alegria de proclamar «Doutor da unidade»), «quem ama a verdade não deve deixar-se enganar pela diferença entre cada um dos sons, nem imaginar que um músico seja o artífice e o criador deste som e outro o artífice e o criador do outro (…) mas há de pensar que um único músico os produziu a ambos» (Adversus haereses II, 25, 2). Assim não devo perguntar «quem é o meu próximo?», mas «eu…faço-me próximo?» Eu e, depois, a minha comunidade, a minha Igreja, a minha espiritualidade… fazemo-nos próximo? Ou ficamos entrincheirados na defesa dos próprios interesses, ciosos da própria autonomia, fechados no cálculo das próprias vantagens, estabelecendo relações com os outros apenas para daí ganhar qualquer coisa? Se assim fosse, não se trataria apenas de erros estratégicos, mas de infidelidade ao Evangelho.

«Que hei de fazer para possuir a vida eterna?»: começara assim o diálogo entre o doutor da Lei e Jesus. Mas tal pergunta também acaba alterada graças ao Apóstolo Paulo, de quem hoje celebramos a conversão, nesta Basílica a ele dedicada. Pois bem, justamente quando Saulo de Tarso, perseguidor dos cristãos, encontra Jesus naquela visão de luz que o envolve e muda a sua vida, pergunta-Lhe: «Que hei de fazer, Senhor?» (At 22, 10). Não pergunta «que hei de fazer para possuir…», mas «que hei de fazer, Senhor?». O Senhor é o fim do pedido, a verdadeira herança, o bem supremo. Paulo não muda de vida na base dos seus objetivos, não se torna melhor porque realiza os seus projetos. A sua conversão nasce duma reviravolta existencial, onde a primazia já não pertence à sua valentia em praticar a Lei, mas à docilidade para com Deus, numa abertura total ao que Ele quer. Não à sua valentia, mas à sua docilidade: uma reviravolta da valentia à docilidade. Se Jesus é o tesouro, o nosso programa eclesial não pode consistir senão em fazer a sua vontade, em ir ao encontro dos seus desejos. E Ele, na noite antes de dar a vida por nós, elevou uma ardente súplica ao Pai por todos nós, «para que todos sejam um só» (Jo 17, 21). Esta é a sua vontade.

Todos os esforços feitos com vista à plena unidade são chamados a seguir o mesmo percurso de Paulo, a pôr de lado a centralidade das nossas ideias para procurar a voz do Senhor e deixar-Lhe iniciativa e espaço. Bem o compreendera um outro Paulo, grande pioneiro do movimento ecuménico, o Abade Paulo Couturier, que na oração costumava implorar a unidade dos crentes «como Cristo a quer», «com os meios que Ele quer». Precisamos desta conversão de perspetiva e sobretudo de coração, pois, como afirmou o Concílio Vaticano II há sessenta anos, «não há verdadeiro ecumenismo sem conversão interior» (Decr. Unitatis redintegratio, 7). Enquanto rezamos juntos, reconheçamos – cada qual partindo de si mesmo – que precisamos de nos converter, de permitir que o Senhor mude os nossos corações. Esta é a estrada: caminhar juntos e servir juntos, colocando a oração em primeiro lugar. De facto, quando os cristãos maturam no serviço de Deus e do próximo, crescem também na compreensão mútua, como afirma o mesmo Concílio: «Quanto mais unidos estiverem em comunhão estreita com o Pai, o Verbo e o Espírito, tanto mais íntima e facilmente conseguirão aumentar a fraternidade mútua» (Ibidem).

Por isso encontramo-nos aqui, nesta tarde, vindos de diferentes países, de diversas culturas e tradições. Agradeço a Sua Graça Justin Welby, Arcebispo de Cantuária, ao Metropolita Policarpo, representante do Patriarcado Ecuménico, e a todos vós que tornais presente muitas comunidades cristãs. Dirijo uma saudação especial aos membros da Comissão Mista Internacional para o diálogo teológico entre a Igreja Católica e as Igrejas Ortodoxas Orientais, que celebram o XX aniversário do seu caminho, e aos Bispos católicos e anglicanos que participam no encontro da Comissão Internacional para a Unidade e a Missão. É belo poder hoje, com o meu irmão Arcebispo Justin, conferir a estes pares de Bispos o mandato de continuar a testemunhar a unidade querida por Deus para a sua Igreja nas respetivas regiões, avançando juntos para «difundir a misericórdia e a paz de Deus num mundo delas carecido» (Apelo dos bispos IARCCUM, Roma 2016). Saúdo também os bolseiros do Comité para a Colaboração Cultural com as Igrejas Ortodoxas do Dicastério para a Promoção da Unidade dos Cristãos e os participantes nas visitas de estudo organizadas para jovens sacerdotes e monges das Igrejas Ortodoxas Orientais, e para os estudantes do Instituto Ecuménico de Bossey do Conselho Ecuménico das Igrejas.

Juntos, como irmãos e irmãs em Cristo, rezemos com Paulo dizendo: «Que hei de fazer, Senhor?» E, no próprio ato de colocar a pergunta, já existe uma resposta, porque a primeira resposta é a oração. Rezar pela unidade é o primeiro dever do nosso caminho. E é um dever santo, porque é estar em comunhão com o Senhor, que antes de mais nada rezou ao Pai pela unidade. E continuemos a rezar ainda pelo fim das guerras, especialmente na Ucrânia e na Terra Santa. Penso sentidamente no amado povo do Burkina Faso, em particular nas comunidades que lá prepararam o material para esta Semana de Oração pela Unidade: oxalá o amor ao próximo tome o lugar da violência que aflige o seu país.

«Que hei de fazer, Senhor?» E o Senhor – conta Paulo – disse-me: «Ergue-te e vai…» (At 22, 10). Ergue-te, diz Jesus a cada um de nós e à nossa busca de unidade. Ergamo-nos então, em nome de Cristo, dos nossos cansaços e das nossas rotinas, e prossigamos, avancemos, porque Ele o quer, e quere-lo para que «o mundo creia» (Jo 17, 21). Rezemos, pois, e sigamos em frente, porque é isto que Deus deseja de nós. É isto que Ele deseja de nós.

[01061-PO.02] [Texto original: Italiano]

 

Traduzione in lingua polacca

W usłyszanej przez nas Ewangelii, uczony w Prawie, chociaż zwraca się do Jezusa nazywając Go „Nauczycielem”, nie chce być przez Niego pouczany, lecz chce „wystawić Go na próbę”. Jeszcze większy fałsz wyłania się jednak z jego pytania: „Co mam czynić, aby osiągnąć życie wieczne?” (Łk 10, 25). Czynić, aby odziedziczyć, czynić, aby mieć: oto wypaczona religijność, oparta na posiadaniu zamiast na darze, gdzie Bóg jest środkiem do uzyskania tego, czego chcę, a nie celem, który należy miłować całym sercem. Ale Jezus jest cierpliwy i zachęca owego uczonego do znalezienia odpowiedzi w Prawie, którego był ekspertem, a które nakazuje: „Będziesz miłował Pana, Boga swego, całym swoim sercem, całą swoją duszą, całą swoją mocą i całym swoim umysłem; a swego bliźniego jak siebie samego” (Łk 10, 27).

Następnie ów człowiek, „chcąc się usprawiedliwić”, zadaje drugie pytanie: „A kto jest moim bliźnim?” (Łk 10, 29). Jeśli pierwsze pytanie groziło sprowadzeniem Boga do własnego „ja”, to drugie ma na celu podział: podział ludzi na tych, których trzeba miłować i tych, których można ignorować. A dzielenie nigdy nie pochodzi od Boga, lecz od diabła, który wprowadza podziały. Jezus jednak nie odpowiada teoretyzując, lecz przypowieścią o dobrym Samarytaninie, konkretną historią, która dotyczy także nas. Ponieważ, drodzy bracia i siostry, to kapłan i lewita zachowują się źle, z obojętnością, i przedkładają ochronę swoich tradycji religijnych nad potrzeby cierpiącego. Natomiast heretyk, Samarytanin, nadaje sens słowu „bliźni”, ponieważ sam staje się bliźnim: okazuje współczucie, podchodzi i pochyla się z czułością nad ranami brata; troszczy się o niego, nie zważając na jego przeszłość i winy, i służy mu całym sobą (por. Łk 10, 33-35). Pozwala to Jezusowi podsumować, że poprawnym pytaniem nie jest: „Kto jest moim bliźnim?”, ale: „Czy ja czynię siebie bliźnim?”. Tylko ta miłość, która staje się bezinteresowną służbą, tylko ta miłość, którą głosił i którą żył Jezus, zbliży do siebie rozdzielonych chrześcijan. Tak, tylko taka miłość, która nie wraca do przeszłości, aby się odgrodzić lub wytykać palcami, tylko taka miłość, która w imię Boga przedkłada brata ponad zaciekłą obronę własnego systemu religijnego, tylko taka miłość nas zjednoczy. Najpierw brat, później system.

Bracia i siostry, między sobą nigdy nie powinniśmy zadawać pytania: „Kto jest moim bliźnim?”. Ponieważ każdy ochrzczony należy do tego samego Ciała Chrystusa; co więcej, ponieważ każda osoba na świecie jest moim bratem lub siostrą i wszyscy tworzymy „symfonię ludzkości”, której Chrystus jest pierworodnym i odkupicielem. Jak przypomina św. Ireneusz, którego miałem zaszczyt ogłosić „Doktorem Jedności”: „Kto miłuje prawdę, nie powinien przypisywać jednego dźwięku jednemu artyście i twórcy, a drugiego dźwięku innemu […], był to bowiem jeden i ten sam artysta, który je stworzył” (Adversus haereses, II, 25, 2). A zatem, nie: „Kto jest moim bliźnim?”, lecz: „Czy ja czynię siebie bliźnim?”. Czy ja, a następnie moja wspólnota, mój Kościół, moja duchowość, czynimy siebie bliźnimi? Czy też pozostają zabarykadowani w obronie własnych interesów, zazdrośni o swoją autonomię, zamknięci w kalkulacji własnych korzyści, angażując się w relacje z innymi tylko po to, by coś od nich zyskać? Gdyby tak było, nie chodziłoby jedynie o błędy strategiczne, lecz o niewierność Ewangelii.

„Co mam czynić, aby osiągnąć życie wieczne?”: tak rozpoczął się dialog między uczonym w Prawie a Jezusem. Ale dziś także to pierwsze pytanie zostaje obalone dzięki Apostołowi Pawłowi, którego nawrócenie obchodzimy w poświęconej mu bazylice. Właśnie kiedy Szaweł z Tarsu, prześladowca chrześcijan, spotyka Jezusa w wizji światła, która go ogarnia i zmienia jego życie, pyta Go: „Co mam czynić, Panie?” (Dz 22, 10). Nie: „Co mam czynić, aby osiągnąć?”, lecz: „Co mam czynić, Panie?” – celem prośby jest Pan, prawdziwym dziedzictwem, najwyższym dobrem. Paweł nie zmienia swojego życia biorąc pod uwagę swoje cele, nie staje się lepszy, ponieważ realizuje swoje plany. Jego nawrócenie wynika z przełomu życiowego, w którym prymat nie należy już do jego biegłości w Prawie, lecz do uległości wobec Boga, w całkowitej otwartości na to, czego On chce. Nie do jego biegłości, lecz do uległości: od biegłości do uległości. Jeśli On jest skarbem, to nasz program eklezjalny może polegać jedynie na wypełnianiu Jego woli, na wychodzeniu naprzeciw Jego pragnieniom. A On, owej nocy, zanim oddał za nas życie, gorąco modlił się do Ojca za nas wszystkich, „aby wszyscy stanowili jedno” (J 17, 21). Taka jest Jego wola.

Wszelkie wysiłki, zmierzające do pełnej jedności, są wezwane do podążania tą samą drogą Pawłową, do odsunięcia naszych idei z centrum na bok, aby szukać głosu Pana i pozostawić Jemu inicjatywę i przestrzeń. Dobrze rozumiał to inny Paweł, wielki prekursor ruchu ekumenicznego, ks. Paul Couturier, który zwykł modlić się o jedność wierzących, „której chce Chrystus”, „za pomocą środków, których On pragnie”. Potrzebujemy tego nawrócenia perspektywy, a przede wszystkim serca, ponieważ, jak stwierdził Sobór Watykański II sześćdziesiąt lat temu: „Rzeczywisty ekumenizmy nie istnieje bez wewnętrznej przemiany” (Unitatis redintegratio, 7). Modląc się razem, uznajemy, każdy wychodząc od siebie, że potrzebujemy nawrócenia, pozwolenia Panu, by zmienił nasze serca. To jest droga: kroczyć razem i służyć razem, stawiając na pierwszym miejscu modlitwę. Kiedy bowiem chrześcijanie dojrzewają w służbie Bogu i bliźniemu, wzrastają także we wzajemnym zrozumieniu, jak stwierdza Sobór: „Im mocniejszą więzią zespolą się z Ojcem, Synem i Duchem, tym łatwiej zdołają pogłębić wzajemne braterstwo” (tamże).

Dlatego jesteśmy tu dzisiaj z różnych krajów, z różnych kultur i tradycji. Jestem wdzięczny Jego Ekscelencji Justin’owi Welby'emu, Arcybiskupowi Canterbury, Metropolicie Polikarpowi, reprezentującemu Patriarchat Ekumeniczny, i wam wszystkim, którzy uobecniacie wiele wspólnot chrześcijańskich. Szczególne pozdrowienie kieruję do członków Międzynarodowej Komisji Mieszanej ds. Dialogu Teologicznego między Kościołem Rzymskokatolickim a Starożytnymi Kościołami Wschodnimi, obchodzących 20. rocznicę jej prac, oraz do biskupów katolickich i anglikańskich uczestniczących w spotkaniu Międzynarodowej Komisji ds. Jedności i Misji. To piękne, że dziś, wraz z moim bratem, Arcybiskupem Justinem, możemy dać tym parom biskupów mandat do dalszego świadczenia o jedności, jakiej Bóg pragnie dla swojego Kościoła w poszczególnych regionach, by idąc razem, „szerzyć Boże miłosierdzie i pokój w świecie, który jest w potrzebie” (Apel Biskupów IARCCUM, Rzym 2016). Pozdrawiam również studentów, stypendystów Komitetu ds. Współpracy Kulturalnej z Kościołami Prawosławnymi Dykasterii ds. Popierania Jedności Chrześcijan oraz uczestników wizyt studyjnych, organizowanych dla młodych kapłanów i mnichów Starożytnych Kościołów Wschodnich, a także dla studentów Instytutu Ekumenicznego Bossey Światowej Rady Kościołów.

Razem, jako bracia i siostry w Chrystusie, modlimy się z Pawłem, mówiąc: „Cóż mamy czynić, Panie?”. I w zadawaniu tego pytania jest już odpowiedź, ponieważ pierwszą odpowiedzią jest modlitwa. Modlitwa o jedność jest pierwszym zadaniem naszej wędrówki. I jest to święte zadanie, ponieważ jest to trwanie w komunii z Panem, który przede wszystkim modlił się do Ojca o jedność. I trwamy na modlitwie o zakończenie wojen, zwłaszcza na Ukrainie i w Ziemi Świętej. Serdeczne myśli kierujemy także do umiłowanego ludu Burkina Faso, zwłaszcza do tamtejszych wspólnot, które przygotowały materiały na Tydzień Modlitw o Jedność: oby miłość bliźniego zastąpiła przemoc, która nęka ich kraj.

„«Co mam czynić, Panie?». A Pan – mówi Paweł – powiedział do mnie: «Wstań i idź»” (Dz 22, 10). Wstań, mówi Jezus do każdego z nas i do naszego dążenia ku jedności. Wstańmy więc, w imię Chrystusa, z naszego znużenia i naszych przyzwyczajeń, i ruszajmy, idźmy naprzód, ponieważ On tego chce, i chce tego „aby świat uwierzył” (J 17, 21). Módlmy się więc i idźmy naprzód, bo tego pragnie od nas Bóg. Tego właśnie od nas oczekuje.

 

[00161-PL.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua araba

عظة قداسة البابا فرنسيس

في صلاة الغروب الثّانية يوم عيد اهتداء القدّيس بولس

في ختام أسبوع الصّلاة من أجل وَحدة المسيحيّين

يوم الخميس 25 كانون الثّاني/يناير 2024

بازيليكا القدّيس بولس خارج الأسوار

في الإنجيل الذي اصغينا إليه، أَحَد عُلماءِ الشّريعة توجّه إلى يسوع ودعاه "معلّمًا"، إلّا أنّه لم يُرد أن يتعلّم منه، بل أراد أن "يُحرِجَه". وظهر في سؤاله خطأ آخر أكبر: "ماذا أَعمَلُ لأَرِثَ الحَياةَ الأَبَدِيَّة؟" (لوقا 10، 25). أعمل لأرث، وأعمل لأحصَل: هذا هو التّديّن المشوَّه، الذي يقوم على الامتلاك بدل العطاء، وحيث الله هو وسيلة لكي أحصل على ما أريد، وليس الغاية التي أحبّها من كلّ قلبي. كان يسوع صبورًا ودعا ذلك العالِم إلى أن يجد الجواب في الشّريعة التي كان خبيرًا فيها، والتي تقول: "أَحبِبِ الرَّبَّ إِلٰهَكَ بِكُلِّ قَلبِكَ، وكُلِّ نَفسِكَ، وكُلِّ قُوَّتِكَ، وكُلِّ ذِهنِكَ، وأَحبِبْ قَريبَكَ حُبَّكَ لِنَفسِكَ" (لوقا 10، 27).

عندئذٍ، ذلك الرّجل الذي "أَرادَ أَن يُزَكِّيَ نَفسَه" طرح سؤالًا ثانيًا: "ومَن قَريبي؟" (لوقا 10، 29). في السّؤال الأوّل جازف وحصر الله في ”الأنا“، وفي السّؤال الثّاني سعى إلى التّفريق: تقسيم النّاس إلى الذين يجب أن نحبّهم والذين يمكن أن نتجاهلهم. والتّقسيم ليس من الله أبدًا، بل من الشّيطان. لم يُجب يسوع بنظريّة، بل بمَثَل السّامري الرّحيم، وبقصّة واقعيّة، تدعونا نحن أيضًا إلى التّساؤل. لأنّ الذي تصرّف بشكلٍ سيّئ وبلا مبالاة، أيّها الإخوة والأخوات الأعزّاء، كان الكاهن واللاويّ، اللذَين وضعا حماية تقاليدهما الدّينية قبل احتياجات المتألّمين. بينما الذي أعطى معنًى لكلمة ”قريب“ كان شخصًا مهرطقًا، وسامريًّا، لأنّه جعل نفسه قريبًا: شعر بالرّأفة، واقترب وانحنى بحنان فوق جراح هذا الأخّ، واعتنى به، بغضّ النّظر عن ماضيه وعن أخطائه، وخَدَمَه بكلّ قواه (راجع لوقا 10، 33-35). سمح هذا الأمر ليسوع أن يستنتج أنّ السّؤال الصّحيح ليس "مَن قَريبي؟"، بل: ”هل أنا قريب للآخر؟“. فقط هذه المحبّة التي تصير خدمة مجّانيّة، وفقط هذه المحبّة التي علَّمها يسوع وعاشها، يمكن أن تقرّب المسيحيّين المُنفصلين بعضهم من بعض. نعم، فقط هذه المحبّة، التي لا ترجع إلى الماضي لتثبِّتَ المسافات بيننا وبين الآخر أو لتُشير إليه بأصبع الاتّهام، وفقط هذه المحبّة التي تضع باسم الله الأخّ قبل دفاعنا المنيع عن نظامنا الدّينيّ، هي التي توحّدنا.

أيّها الإخوة والأخوات، علينا ألّا نطرح هذا السّؤال أبدًا فيما بيننا: "مَن قَريبي؟". لأنّ كلّ معمّد ينتمي إلى جسد المسيح الواحد، وأكثر من ذلك، لأنّ كلّ شخص في العالم هو أخي أو أختي، وكلّنا نكوِّن ”سيمفونيّة الإنسانيّة“، والمسيح هو بِكرُها وفاديها. كما يذكّرنا القدّيس إيريناوس، الذي سُرِرتُ بأن أعلنه ”معلّم الوَحدة“: "من يحبّ الحقيقة يجب ألّا ينخدع على الاختلاف بين نغمة وأخرى، ولا يفترض وجود مبدع للواحدة ومبدع آخر للأخرى [...]، إنّما المبدع واحدٌ" (Adversus Haereses, II, 25, 2). لذلك، ليس "مَن قَريبي؟"، بل: ”هل أنا قريب للآخر؟“ هل أنا وثمّ جماعتي، وكنيستي وروحانيّتي، قريبون للآخر؟ أم يبقون متحصّنين للدّفاع عن مصالحهم الخاصّة، وغيّورين على استقلاليّتهم، ومنغلقين على حسابات فوائدهم الخاصّة، ولا يقيمون علاقات مع الآخرين إلّا من أجل الحصول على شيء منهم؟ إن كان الأمر كذلك، فهو ليس مجرّد أخطاء استراتيجيّة، بل خيانة للإنجيل.

"ماذا أَعمَلُ لأَرِثَ الحَياةَ الأَبَدِيَّة؟": هكذا بدأ الحوار بين عالِم الشّريعة ويسوع. واليوم أيضًا ينقلب هذا السّؤال الأوّل بفضل بولس الرّسول، الذي نحتفل باهتدائه في هذه البازيليكا المكرّسة له. عندما التقى شاول الطّرسوسيّ، ومضطهد المسيحيّين، بيسوع في رؤية النّور الذي أحاط به وغيّر حياته، سأله: "ماذا أَعمَل، يا ربّ؟" (أعمال الرّسل 22، 10). لم يسأله ”ماذا أعمل لأرث؟“، بل "ماذا أَعمَل، يا ربّ": الرّبّ يسوع هو هدف الطّلب، والميراث الحقيقيّ، والخير الأسمى. لم يغيّر بولس حياته بناءً على أهداف له، ولم يَصِر أفضل لأنّه كان له مشاريع يريد أن يحقِّقها. نجم اهتداؤه عن انقلاب في حياته، حيث لم تعُد الأولويّة شجاعته في المحافظة على الشّريعة، بل طاعته لله، وانفتاحه الكامل على ما يريده. إن كان الله هو الكنز، فإنّ برنامجنا الكنسيّ لا يمكن أن يقوم إلّا على تنفيذ إرادته، وتلبية رغباته. وهو، في الليلة التي سبقت بَذْلَ حياته من أجلنا، صلَّى بحرارة إلى الآب من أجلنا جميعًا، "ليكونوا بِأَجمَعِهم واحِدًا" (يوحنّا 17، 21). هذه هي إرادته.

كلّ الجهود نحو الوَحدة الكاملة مدعوّة إلى أن تتبع طريق بولس نفسه، وأن تضع جانبًا أولوية أفكارنا لكي نبحث عن صوت الرّبّ يسوع ونترك له المبادرة والمجال. فَهِمَ هذا الأمر جيّدًا بولس آخر، وهو رائدٌ كبير في الحركة المسكونيّة، الأب بول كوتورييه، الذي كان معتادًا في صلاته أن يطلب وحدة المؤمنين ”كما أرادها المسيح“، ”وبالوسائل التي يريدها“. نحن بحاجة إلى اهتداء في رؤيتنا، وقبل كلّ شيء، في قلبنا، لأنّه، كما أكّد المجمع الفاتيكانيّ الثّاني قبل ستّين سنة، قال: "ما من سبيلٍ إلى قيام حركةٍ مسكونيّةٍ حقيقيّةٍ بدونِ اهتداءٍ في داخلنا" (قرار مجمعي، الحركة المسكونيّة، 7). بينما نصلّي الآن معًا، لنعترف، كلّ واحدٍ منّا في نفسه، أنّنا بحاجة إلى اهتداء، ولنَدَعْ الرّبّ يسوع يغيّر قلوبنا. هذا هو الطّريق: نسير معًا ونخدم معًا، ونضع الصّلاة في المقام الأوّل. في الواقع، عندما ينضج المسيحيّون في خدمة الله والآخرين، فإنَّهُم ينمون أيضًا في التّفاهم المتبادل، كما أعلن أيضًا المجمع الفاتيكاني الثّاني: "بمقدارِ ما تتوثَّق شركتهم مع الآب والكلمة والرّوح القدس يستطيعون أن يجعلوا الأخوّة المتبادلة صادقة وسهلة" (المرجع نفسه).

لهذا السّبب نحن هنا الليلة من بلدان وثقافات وتقاليد مختلفة. أشكر صاحب السّيادة رئيس الأساقفة جوستين ويلبي، رئيس أساقفة كانتربري، والمتروبوليت بوليكاربو، ممثّل البطريركيّة المسكونيّة، وأنتم جميعًا، الذين تجعلون جماعات مسيحيّة كثيرة حاضرة هنا. أحيّي تحيّة خاصّة أعضاء اللجنة الدّوليّة المختلطة للحوار اللاهوتي بين الكنيسة الكاثوليكيّة والكنائس الأرثوذكسيّة الشّرقيّة، الذين يحتفلون بالذّكرى العشرين لمسيرتهم، وأحيّي الأساقفة الكاثوليك والأنجليكان المشاركين في اجتماع اللجنة الدّوليّة للوَحدة والرّسالة. جميلٌ اليوم أنّي مع أخي، رئيس الأساقفة جوستين، يمكننا أن نُعطي هؤلاء الأساقفة التّفويض ليواصلوا الشّهادة للوَحدة التي أرادها الله لكنيسته في مناطقهم، وأن نستمرّ معًا "في نشر رحمة الله وسلامه في عالم مُحتاج" (نداء أساقفة IARCCUM، روما 2016). أحيّي أيضًا الطّلاب الذين يدرسون بمِنَح دراسيّة مُقدّمة من قبل لجنة التّعاون الثّقافي مع الكنائس الأرثوذكسيّة لدى دائرة تعزيز وَحدة المسيحيّين والمشاركين في الزّيارات الدّراسيّة المنظّمة للكهنة والرّهبان الشّباب من الكنائس الأرثوذكسيّة الشّرقيّة، ولطُلّاب المعهد المسكوني في بوسِّي (Bossey) التّابع لمجلس الكنائس المسكونيّ.

معًا، إخوة وأخوات في المسيح، لنصلِّ مع بولس ونقول: ”ماذا نعمل يا رب؟“ وفي سؤالنا يوجد الجواب مسبقًا، لأنّ الجواب الأوّل هو الصّلاة. الصّلاة من أجل الوَحدة هي المهمّة الأولى في مسيرتنا. وهي مهمّة مقدّسة، لأنّها تُبقينا في شركة مع الرّبّ يسوع، الذي صلّى أوَّلًا إلى الآب من أجل الوَحدة. ولنستمرّ في أن نصلّي أيضًا من أجل نهاية الحروب، وخاصّة في أوكرانيا وفي الأرض المقدّسة. أوجّه أيضًا فِكري واهتامي إلى شعب بوركينا فاسو الحبيب، وخاصّة إلى الجماعات التي حضّرت هناك ما يلزم لأسبوع الصّلاة من أجل الوَحدة: لِتَحِلَّ المحبَّة مَحَلَّ العنف الحالِّ ببلدهم.

"ماذا أَعمَل، يا ربّ؟". قال بولس: فقالَ لِيَ الرَّبّ: "قُمْ فاذهَبْ" (أعمال الرّسل 22، 10). ويسوع يقول لكلّ واحدٍ منّا، ولسعينا في البحث عن الوَحدة: قُمْ. لنَقُم، إذًا، باسم المسيح، من تعبنا وعاداتنا، ولنتابع مسيرتنا ولنتقدّم، لأنّه هو يريد ذلك، ويُريد ذلك "لِيُؤمِنَ العالَمُ" (يوحنّا 17، 21). لنصلِّ إذن ولنتقدّم في سعينا، لأنّ هذا ما يريده الله منّا.

[00161-AR.02] [Original text: Italian]

[B0083-XX.02]