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Santa Messa in occasione della VII Giornata Mondiale dei Poveri, 19.11.2023


Omelia del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Traduzione in lingua araba

Alle ore 10.00 di questa mattina, XXXIII Domenica del Tempo Ordinario, il Santo Padre Francesco ha presieduto nella Basilica Vaticana la Santa Messa in occasione della VII Giornata Mondiale dei Poveri, che si celebra oggi sul tema “Non distogliere lo sguardo dal povero” (Tb 4,7).

Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa ha pronunciato dopo la proclamazione del Vangelo:

Omelia del Santo Padre

Tre uomini si ritrovano nelle mani un’enorme ricchezza, grazie alla generosità del loro signore che è in partenza per un lungo viaggio. Quel padrone, però, un giorno ritornerà e chiamerà nuovamente quei servi, nella speranza di poter gioire con loro per come nel frattempo hanno fatto fruttare i suoi beni. La parabola che abbiamo ascoltato (cfr Mt 25,14-30) ci invita allora a soffermarci su due percorsi: il viaggio di Gesù e il viaggio della nostra vita.

Il viaggio di Gesù. All’inizio della parabola, Egli parla di «un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni» (v. 14). Questo “viaggio” fa pensare al mistero stesso di Cristo, Dio fatto uomo, alla sua risurrezione e ascensione al Cielo. Egli, infatti, che è disceso dal seno del Padre per venire incontro all’umanità, morendo ha distrutto la morte e, risorgendo, è ritornato al Padre. Concludendo la sua vicenda terrena, Gesù compie perciò il suo “viaggio di ritorno” presso il Padre. Ma, prima di partire, ci ha consegnato i suoi beni, un vero e proprio “capitale”: ci ha lasciato sé stesso nell’Eucaristia, la sua Parola di vita, la sua santa Madre come nostra Madre, e ha distribuito i doni dello Spirito Santo perché noi possiamo continuare la sua opera nel mondo. Questi “talenti” sono elargiti – specifica il Vangelo – «secondo le capacità di ciascuno» (v. 15) e quindi per una missione personale che il Signore ci affida nella vita quotidiana, nella società e nella Chiesa. Lo afferma anche l’apostolo Paolo: a ciascuno di noi «è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. Per questo è detto: Asceso in alto, ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini» (Ef 4,7-8).

Fissiamo ancora lo sguardo su Gesù, che tutto ha ricevuto dalle mani del Padre, ma non ha tenuto questa ricchezza per sé, «non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo» (Fil 2,6-7). Si è rivestito della nostra fragile umanità, ha lenito come buon samaritano le nostre ferite, si è fatto povero per arricchirci della vita divina (cfr 2 Cor 8,9), è salito sulla croce. Lui, che era senza peccato, «Dio lo fece peccato in nostro favore» (2 Cor 5,21). In nostro favore. Gesù ha vissuto per noi, in nostro favore. Ecco che cosa ha animato il suo viaggio nel mondo prima di tornare al Padre.

La parabola odierna, però, ci dice pure che «il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro» (Mt 25,19). Infatti, al primo viaggio verso il Padre ne seguirà un altro, che Gesù compirà alla fine dei tempi, quando tornerà nella gloria e ci vorrà incontrare di nuovo, per “fare il rendiconto”, il rendiconto della storia e introdurci nella gioia della vita eterna. E allora, dobbiamo chiederci: come ci troverà il Signore quando tornerà? Come mi presenterò io all’appuntamento con Lui?

Questo interrogativo ci porta al secondo momento: al viaggio della nostra vita. Quale strada percorriamo noi, nella nostra vita, quella di Gesù che si è fatto dono oppure la strada dell’egoismo? Quella delle mani aperte verso gli altri, per donare e per donarci, o quella delle mani chiuse per avere di più e custodire soltanto noi stessi? La parabola ci dice che ciascuno di noi, secondo le proprie capacità e possibilità, ha ricevuto i “talenti”. Attenzione: non lasciamoci ingannare dal linguaggio comune: qui non si tratta delle capacità personali, ma, come dicevamo, dei beni del Signore, di ciò che Cristo ci ha lasciato tornando al Padre. Con essi Egli ci ha donato il suo Spirito, nel quale siamo diventati figli di Dio e grazie al quale possiamo spendere la vita testimoniando il Vangelo ed edificando il Regno di Dio. Il grande “capitale” che ci è stato messo nelle mani è l’amore del Signore, fondamento della nostra vita e forza del nostro cammino.

E allora dobbiamo chiederci: che ne faccio di un dono così grande lungo il viaggio della mia vita? La parabola ci dice che i primi due servi moltiplicano il dono ricevuto, mentre il terzo, più che fidarsi del suo signore, che gliel’ha dato, ne ha paura e rimane come paralizzato, non rischia, non si mette in gioco, finendo per sotterrare il talento. E questo vale anche per noi: possiamo moltiplicare quanto abbiamo ricevuto, facendo della vita un’offerta d’amore per gli altri, oppure possiamo vivere bloccati da una falsa immagine di Dio e per paura nascondere sotto terra il tesoro che abbiamo ricevuto, pensando solo a noi stessi, senza appassionarci a niente se non ai nostri comodi e interessi, senza impegnarci. La domanda è molto chiara: i primi due, negoziando con i talenti, rischiano. E la domanda che faccio: “Io, rischio, nella mia vita? Io rischio con la forza della mia fede? Io come cristiana, come cristiano, so rischiare o mi chiudo in me stesso per paura o per pusillanimità?”

Ecco, fratelli e sorelle, in questa Giornata Mondiale dei Poveri la parabola dei talenti è un monito per verificare con quale spirito stiamo affrontando il viaggio della vita. Abbiamo ricevuto dal Signore il dono del suo amore e siamo chiamati a diventare dono per gli altri. L’amore con cui Gesù si è preso cura di noi, l’olio della misericordia e della compassione con cui ha curato le nostre ferite, la fiamma dello Spirito con cui ha aperto i nostri cuori alla gioia e alla speranza, sono beni che non possiamo tenere soltanto per noi, amministrare per conto nostro o nascondere sottoterra. Colmati di doni, siamo chiamati a farci dono. Noi che abbiamo ricevuto tanti doni, dobbiamo farci dono per gli altri. Le immagini usate dalla parabola sono molto eloquenti: se non moltiplichiamo l’amore attorno a noi, la vita si spegne nelle tenebre; se non mettiamo in circolo i talenti ricevuti, l’esistenza finisce sottoterra, cioè è come se fossimo già morti (cfr vv. 25.30). Fratelli e sorelle, quanti cristiani sotterrati! Quanti cristiani vivono la fede come se vivessero sotto terra!

Pensiamo allora alle tante povertà materiali, alle povertà culturali, alle povertà spirituali del nostro mondo; pensiamo alle esistenze ferite che abitano le nostre città, ai poveri diventati invisibili, il cui grido di dolore viene soffocato dall’indifferenza generale di una società indaffarata e distratta… Quando pensiamo alla povertà, poi, non dobbiamo dimenticare il pudore: la povertà è pudica, si nasconde. Dobbiamo noi andare a cercarla, con coraggio. Pensiamo a quanti sono oppressi, affaticati, emarginati, alle vittime delle guerre e a coloro che lasciano la loro terra rischiando la vita; a coloro che sono senza pane, senza lavoro e senza speranza. Tante povertà quotidiane. E non sono una, due o tre: sono una moltitudine. I poveri sono una moltitudine. E pensando a questa immensa moltitudine di poveri, il messaggio del Vangelo è chiaro: non sotterriamo i beni del Signore! Mettiamo in circolo la carità, condividiamo il nostro pane, moltiplichiamo l’amore! La povertà è uno scandalo. La povertà è uno scandalo. Quando il Signore tornerà ce ne chiederà conto e – come scrive sant’Ambrogio – ci dirà: «Perché avete tollerato che tanti poveri morissero di fame, quando possedevate oro con il quale procurarvi cibo da dare a loro? Perché tanti schiavi sono stati venduti e maltrattati dai nemici, senza che nessuno si sia dato da fare per riscattarli?» (I doveri dei ministri: PL 16,148-149).

Preghiamo perché ciascuno di noi, secondo il dono ricevuto e la missione che gli è stata affidata, si impegni a “far fruttare la carità” – far fruttare la carità – e ad essere vicino a qualche povero. Preghiamo perché anche noi, al termine del nostro viaggio, dopo aver accolto Cristo in questi fratelli e sorelle, nei quali Lui stesso si è identificato (cfr Mt 25,40), possiamo sentirci dire: «Bene, servo buono e fedele […] prendi parte alla gioia del tuo padrone» (Mt 25,21).

[01763-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Trois hommes se retrouvent avec une énorme richesse entre les mains, grâce à la générosité de leur maître qui part pour un long voyage. Cependant, ce maître reviendra un jour et convoquera à nouveau ces serviteurs, dans l’espérance de pouvoir se réjouir avec eux de la manière dont ils auront fait, entre-temps, fructifier ses biens. La parabole que nous venons d’écouter (cf. Mt 25, 14-30) nous invite donc à nous arrêter sur deux parcours : le voyage de Jésus et le voyage de notre vie.

Le voyage de Jésus. Au début de la parabole, Jésus parle d’«un homme qui partait en voyage, appela ses serviteurs et leur confia ses biens» (v. 14). Ce “voyage” nous fait penser au mystère même du Christ, Dieu fait homme, à sa résurrection et à son ascension dans le Ciel. Lui qui est en effet descendu du sein du Père pour rencontrer l’humanité, il a, en mourant, détruit la mort et il est retourné vers le Père en ressuscitant. Au terme de sa vie terrestre, Jésus a donc effectué son “voyage de retour” vers le Père. Mais, avant de partir, il nous a confié ses biens, un véritable “capital”: il s’est laissé Lui-même dans l’Eucharistie, il nous a laissé sa Parole de vie, sa sainte Mère comme notre Mère, et il a répandu les dons de l’Esprit Saint pour que nous puissions continuer son œuvre dans le monde. Ces “talents” sont distribués – précise l’Évangile - «à chacun selon ses capacités» (v. 15) et donc pour une mission personnelle que le Seigneur nous confie dans la vie quotidienne, dans la société et dans l’Église. L’Apôtre Paul l’affirme également : «À chacun d’entre nous, la grâce a été donnée selon la mesure du don fait par le Christ. C’est pourquoi l’Écriture dit: Il est monté sur la hauteur, il a capturé des captifs, il a fait des dons aux hommes» (Ep 4, 7-8).

Fixons à nouveau notre regard sur Jésus qui a tout reçu des mains du Père mais n’a pas gardé cette richesse pour lui. Il «ne retint pas jalousement le rang qui l’égalait à Dieu. Mais il s’est anéanti, prenant la condition de serviteur» (Ph 2, 6-7). Il s’est revêtu de notre humanité fragile, il a pansé nos blessures en bon Samaritain, Il s’est fait pauvre pour nous enrichir de la vie divine (cf. 2 Co 8, 9), Il est monté sur la croix. Lui qui était sans péché, «Dieu l’a, pour nous, identifié au péché» (2 Co 5, 21). Pour nous. Jésus a vécu pour nous, en notre faveur. Voilà ce qui a marqué son voyage dans le monde avant qu’Il ne retourne auprès du Père.

Cependant, la parabole d’aujourd’hui nous dit aussi que «le maître de ces serviteurs revint et il leur demanda des comptes» (Mt 25, 19). En effet, le premier voyage vers le Père sera suivi d’un autre, que Jésus effectuera à la fin des temps, lorsqu’il reviendra dans la gloire et voudra nous rencontrer à nouveau pour “exiger les comptes”, les comptes de l’histoire et nous introduire dans la joie de la vie éternelle. Nous devons donc nous demander : comment le Seigneur nous trouvera-t-il à son retour ? Comment me présenterai-je, moi, au rendez-vous avec Lui ?

Cette question nous amène au deuxième moment : au voyage de notre vie. Quel route parcourons-nous, dans notre vie, celui de Jésus qui s’est fait don, ou bien la route de l’égoïsme ? Celle des mains ouvertes envers les autres, pour donner et se donner, ou celle des mains fermées pour avoir davantage et se garder seulement soi-même? La parabole nous dit que chacun d’entre nous, selon ses capacités et ses possibilités, a reçu les “talents”. Attention, ne nous laissons pas tromper par le langage courant : il ne s’agit pas ici de capacités personnelles, mais, comme nous l’avons dit, des biens du Seigneur, ce que le Christ nous a laissé en retournant vers le Père. Parmi eux, il nous a donné son Esprit dans lequel nous sommes devenus enfants de Dieu et grâce auquel nous pouvons dépenser notre vie en témoignant de l’Évangile et en édifiant le Royaume de Dieu. Le grand “capital” qui a été mis entre nos mains c’est l’amour du Seigneur, fondement de notre vie et force de notre marche.

Nous devons nous demander alors : qu’est-ce que je fais d’un don si grand sur le chemin de ma vie ? La parabole nous dit que les deux premiers serviteurs ont multiplié le don reçu, tandis que le troisième, au lieu de faire confiance à son seigneur qui le lui a donné, en a peur et reste comme paralysé. Il ne prend pas de risque, ne s’implique pas, et finit par enterrer le talent. Et cela vaut aussi pour nous : nous pouvons multiplier ce que nous avons reçu, en faisant de notre vie une offrande d’amour pour les autres, ou bien nous pouvons vivre bloqués par une fausse image de Dieu et, par peur, cacher sous terre le trésor que nous avons reçu, en ne pensant qu’à nous-mêmes, sans nous passionner pour autre chose que notre confort et nos intérêts personnels, sans nous engager. La question est très claire: les deux premiers, prennent des risques en négociant avec les talents. Et la question que je pose: «Moi, est-ce que je prends des risques dans ma vie? Est-ce que je prends des risques avec la force de ma foi? Moi, comme chrétien, comme chrétienne, est-ce que je sais prendre des risques ou est-ce que je me ferme en moi-même, par peur ou par pusillanimité?

Alors, frères et sœurs, en cette Journée Mondiale des Pauvres, la parabole des talents est une mise en garde pour vérifier dans quel esprit nous affrontons le voyage de la vie. Nous avons reçu du Seigneur le don de son amour et nous sommes appelés à devenir don pour les autres. L’amour par lequel Jésus a pris soin de nous, l’huile de miséricorde et de compassion avec laquelle il a guéri nos blessures, la flamme de l’Esprit avec laquelle il a ouvert nos cœurs à la joie et à l’espérance, sont des biens que nous ne pouvons pas garder pour nous seuls, gérer pour notre compte ou cacher sous terre. Comblés de dons, nous sommes appelés à nous faire don. Nous qui avons reçu tant de dons, nous devons nous faire don pour les autres. Les images utilisées dans la parabole sont très éloquentes : si nous ne multiplions pas l’amour autour de nous, la vie s’éteint dans les ténèbres ; si nous ne mettons pas en circulation les talents que nous avons reçus, l’existence finit sous terre, c'est-à-dire comme si nous étions déjà morts (cf. v. 25.30). Frères et sœurs, combien de chrétiens sont enterrés. Combien de chrétiens vivent la foi comme s’ils vivaient sous terre.

Pensons donc aux nombreuses pauvretés matérielles, aux pauvretés culturelles et aux pauvretés spirituelles de notre monde; pensons aux existences blessées qui habitent nos villes, aux pauvres devenus invisibles dont le cri de douleur est étouffé par l’indifférence générale d’une société affairée et distraite… Quand nous pensons à la pauvreté, nous ne devons pas oublier ensuite la pudeur: la pauvreté est pudique, elle se cache. Nous devons, nous, aller la chercher, avec courage. Pensons à ceux qui sont opprimés, épuisés, marginalisés, aux victimes des guerres et à ceux qui quittent leur terre au péril de leur vie ; à ceux qui sont sans pain, sans travail et sans espérance. Tant de pauvretés quotidiennes. Elles ne sont pas une, deux ou trois: elles sont une multitude. Les pauvres sont une multitude. Et en pensant à cette multitude de pauvres, le message de l’Évangile est clair : n’enterrons pas les biens du Seigneur ! Faisons circuler la charité, partageons notre pain, multiplions l’amour ! La pauvreté est un scandale. La pauvreté est un scandale! Quand le Seigneur reviendra, il nous en demandera compte et – comme l’écrit saint Ambroise – il nous dira : «Pourquoi as-tu laissé tant de miséreux mourir de faim? et assurément tu avais de l’or, tu aurais pu fournir de la nourriture. Pourquoi tant de prisonnier ont-ils été vendus et, n’ayant pas été rachetés, ont été tués par l’ennemi ?» (Les devoirs des ministres : PL 16:148-149).

Prions pour que chacun de nous, selon le don qu’il a reçu et la mission qui lui a été confiée, s’efforce de “faire fructifier la charité”, faire fructifier la charité, et d’être proche de quelque pauvre. Prions pour que, nous aussi, au terme de notre voyage, après avoir accueilli le Christ dans ces frères et sœurs auxquels Il s’est identifié (cf. Mt 25, 40), nous puissions nous entendre dire : «Très bien, serviteur bon et fidèle […] entre dans la joie de ton seigneur» (Mt 25, 21).

[01763-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

Three men find themselves given an enormous sum of money, thanks to the generosity of their master, who is departing on a long journey. That master will come back one day and summon those servants, trusting that he might rejoice with them on how they had made his wealth increase and bear fruit. The parable that we have just listened to (cf. Mt 25:14-30) invites us to reflect on two journeys: the journey of Jesus and the journey of our lives.

The journey of Jesus. At the beginning of the parable, the Lord speaks of “a man going on a journey, [who] summoned his slaves and entrusted his property to them” (v. 14). This “journey” reminds us of Christ’s own journey, in his incarnation, resurrection and ascension into heaven. Christ, who came down from the Father to dwell among us, by his death destroyed death and after rising from the dead, returned to the Father. At the conclusion of his earthly mission, then, Jesus made a “return journey” to the Father. Yet before departing, he left us his wealth, a genuine “capital”. He left us himself in the Eucharist. He left us his words of life, he gave us his holy Mother to be our Mother, and he distributed the gifts of the Holy Spirit so that we might continue his work on earth. These “talents” are given, the Gospel tell us, “according to the ability of each” (v. 15) and thus for a personal mission that the Lord entrusts to us in our daily lives, in society and in the Church. The apostle Paul says the same thing: “each of us was given grace according to the measure of Christ’s gift”. Therefore it is said, “When he ascended on high, he made captivity itself a captive; he gave gifts to his people” (Eph 4:7-8).

Let us look once more to Jesus, who received everything from the hands of the Father, yet did not keep this treasure for himself: “He did not regard equality with God as something to be exploited, but emptied himself, taking the form of a slave” (Phil 2:7). He clothed himself in our frail humanity. As a good Samaritan, he poured oil on our wounds. He became poor in order to make us rich (2 Cor 8:9), and was lifted up on the cross. “For our sake God made him to be sin who knew no sin” (2 Cor 5:21). For our sake. Jesus lived for us, for our sake. That was the purpose of his journey in the world, before his return to the Father.

Today’s parable also tells us that “the master of those slaves returned and settled accounts with them” (Mt 25:19). Jesus’ first journey to the Father will be followed by another journey, at the end of time, when he will return in glory and meet us once more, in order to “settle the accounts” of history and bring us into the joy of eternal life. We need, then, to ask ourselves: In what state will the Lord find us when he returns? How will I appear before him at the appointed time?

This question brings us to our second reflection: the journey of our lives. What path will we take in our lives: the path of Jesus, whose very life was gift, or the path of selfishness? The path with hands open towards others in order to give, give of ourselves, or that of closed hands so that we have more things and only care about ourselves? The parable tells us that, according to our own abilities and possibilities, each of us has received certain “talents”. Lest we be led astray by common parlance, we need to realize that those “talents” are not our own abilities, but as we said, the Lord’s gifts which Christ left to us when he returned to the Father. Together with those gifts, he has given us his Spirit, in whom we became God’s children and thanks to which we can spend our lives in bearing witness to the Gospel and working for the coming of God’s kingdom. The immense “capital” that was placed in our keeping is the love of the Lord, the foundation of our lives and our source of strength on our journey.

Consequently, we have to ask ourselves: What am I doing with this “talent” on the journey of my life? The parable tells us that the first two servants increased the value of the gift they had received, while the third, instead of trusting his master who had given him the talent, was afraid, paralyzed by fear. Refusing to take a risk, not putting himself on the line, he ended up burying his talent. This holds true for us as well. We can multiply the wealth we have been given, and make our lives an offering of love for the sake of others. Or we can live our lives blocked by a false image of God, and out of fear bury the treasure we received, thinking only of ourselves, unconcerned about anything but our own convenience and interests, remaining uncommitted and disengaged. The question is very clear: the first two take a risk through their transactions. And the question we must ask is: “Do I take a risk in my life? Do I take a risk through the power of my faith? As a Christian, do I know how to take a risk or do I close myself off out of fear or cowardice?

Brothers and sisters, on this World Day of the Poor the parable of the talents is a summons to examine the spirit with which we confront the journey of our lives. We have received from the Lord the gift of his love and we are called to become a gift for others. The love with which Jesus cared for us, the balm of his mercy, the compassion with which he tended our wounds, the flame of the Spirit by which he filled our hearts with joy and hope – all these are treasures that we cannot simply keep to ourselves, use for our own purposes or bury beneath the soil. Showered with gifts, we are called in turn to make ourselves a gift. Those of us who have received many gifts must make ourselves a gift for others. The images used by the parable are very eloquent: if we do not spread love all around us, our lives recede into the darkness; if we do not make good use of the talents we have received, our lives end up buried in the ground, as if we were already dead (cf. vv. 25.30). Brothers and sisters, so many Christians are “buried underground”! Many Christians live their faith as if they lived underground!

Let us think, then, of all those material, cultural and spiritual forms of poverty that exist in our world, of the great suffering present in our cities, of the forgotten poor whose cry of pain goes unheard in the generalized indifference of a bustling and distracted society. When we think of poverty, we must not forget about its discretion: poverty is discrete; it hides itself. We must courageously go and look for it. Let us think of all those who are oppressed, weary or marginalized, the victims of war and those forced to leave their homelands at the risk of their lives, those who go hungry and those without work and without hope. So much poverty on a daily basis: not one, two or three but a multitude. The poor are a multitude. When we think of the immense numbers of the poor in our midst, the message of today’s Gospel is clear: let us not bury the wealth of the Lord! Let us spread the wealth of charity, share our bread and multiply love! Poverty is a scandal. When the Lord returns, he will settle accounts with us and – in the words of Saint Ambrose – he will say to us: “Why did you allow so many of the poor to die of hunger when you possessed gold to buy food for them? Why were so many slaves sold and mistreated by the enemy, without anyone making an effort to ransom them?” (De Officiis: PL 16, 148-149).

Let us pray that each of us, according to the gift we received and the mission entrusted to us, may strive “to make charity bear fruit” and draw near to some poor person. Let us pray that at the end of our journey, having welcomed Christ in our brothers and sisters with whom he identified himself (cf. Mt 25:40), we too may hear it said to us: “Well done, good and trustworthy servant… Enter into the joy of your master” (Mt 25:21).

[01763-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Drei Männer verfügen dank der Freigebigkeit ihres Herrn, der sich auf eine lange Reise begibt, über einen enormen Reichtum. Dieser Herr wird jedoch eines Tages zurückkehren und diese Diener erneut zu sich rufen, in der Hoffnung, sich mit ihnen darüber freuen zu können, wie sie sein Vermögen in der Zwischenzeit vermehrt haben. Das Gleichnis, das wir gehört haben (vgl. Mt 25,14-30), lädt uns also ein, über zwei Reisen nachzudenken: über die Reise Jesu und über unsere Lebensreise.

Die Reise Jesu. Zu Beginn des Gleichnisses spricht er von einem »Mann, der auf Reisen ging. Er rief seine Diener und vertraute ihnen sein Vermögen an« (V. 14). Diese „Reise“ erinnert an das eigentliche Geheimnis Christi, des menschgewordenen Gottes, an seine Auferstehung und Himmelfahrt. Er, der aus dem Schoß des Vaters herabgestiegen ist, um zu den Menschen zu kommen, hat durch sein Sterben den Tod vernichtet und ist durch seine Auferstehung zum Vater zurückgekehrt. Am Ende seines irdischen Daseins tritt Jesus also seine „Rückreise“ zum Vater an. Doch bevor er ging, hat er uns sein Vermögen anvertraut, ein echtes „Kapital“: Er hat uns sich selbst in der Eucharistie hinterlassen, sein Wort des Lebens, er hat seine heilige Mutter auch uns zur Mutter gegeben und er hat die Gaben des Heiligen Geistes ausgeteilt, damit wir sein Werk in der Welt fortsetzen können. Diese „Talente“ werden – wie das Evangelium ausführt – »jedem nach seinen Fähigkeiten« (V. 15) und damit für eine persönliche Sendung verliehen, die der Herr uns im täglichen Leben, in der Gesellschaft und in der Kirche anvertraut. Auch der Apostel Paulus bekräftigt dies: »jeder von uns empfing die Gnade in dem Maß, wie Christus sie ihm geschenkt hat. Deshalb heißt es: Er stieg hinauf zur Höhe und erbeutete Gefangene, er gab den Menschen Geschenke« (Eph 4,7-8).

Richten wir noch einmal den Blick auf Jesus, der alles aus den Händen des Vaters empfangen hat, aber diesen Reichtum nicht für sich selbst behielt. Er hielt »nicht daran fest, Gott gleich zu sein, sondern er entäußerte sich und wurde wie ein Sklave« (Phil 2,6-7). Er hat unsere schwache Menschennatur angenommen, er hat als barmherziger Samariter unsere Wunden versorgt, er hat sich arm gemacht, um uns mit dem göttlichen Leben reich zu machen (vgl. 2 Kor 8,9), er wurde am Kreuz erhöht. Ihn, der ohne Sünde war, hat Gott »für uns zur Sünde gemacht« (2 Kor 5,21). Für uns. Jesus hat für uns gelebt, zu unserem Heil. Dies war der Beweggrund für seinen Weg in der Welt, bevor er dann zum Vater zurückkehrte.

Das heutige Gleichnis sagt uns aber auch: Dann »kehrte der Herr jener Diener zurück und hielt Abrechnung mit ihnen« (Mt 25,19). Auf die erste Reise zum Vater wird nämlich eine weitere folgen, die Jesus am Ende der Zeiten macht, wenn er in Herrlichkeit wiederkommen wird und uns wiedersehen möchte, um die Geschichte „einer Rechnungsprüfung zu unterziehen“ und uns in die Freude des ewigen Lebens zu führen. Wir müssen uns also fragen: Wie wird der Herr uns vorfinden, wenn er wiederkommt? Wie werde ich bei dieser Begegnung vor ihm stehen?

Diese Frage bringt uns zum zweiten Aspekt: zu unserer Lebensreise. Welchen Weg gehen wir in unserem Leben, den Weg Jesu, der sich zum Geschenk gemacht hat, oder den Weg des Egoismus? Den Weg der offenen Hände, die andere beschenken und mit denen wir uns selbst schenken, oder den Weg der geschlossenen Hände, die mehr haben und mit denen wir nur uns selbst schützen wollen? Das Gleichnis sagt uns, dass jeder von uns, entsprechend seinen Fähigkeiten und Möglichkeiten, „Talente“ erhalten hat. Vorsicht: Lassen wir uns nicht vom allgemeinen Sprachgebrauch täuschen: Hier geht es nicht um persönliche Fähigkeiten, sondern, wie gesagt, um die Güter des Herrn, um das, was Christus uns hinterlassen hat, als er zum Vater zurückkehrte. Mit ihnen hat er uns seinen Heiligen Geist geschenkt, durch den wir Kinder Gottes geworden sind und dank dessen wir unser Leben dafür einsetzen können, das Evangelium zu bezeugen und das Reich Gottes aufzubauen. Das große „Kapital“, das uns in die Hände gelegt wurde, ist die Liebe des Herrn, die Grundlage unseres Lebens und die Kraft für unseren Weg.

Und so müssen wir uns also fragen: Was mache ich mit einem so großen Geschenk auf meiner Lebensreise? Das Gleichnis erzählt uns, dass die ersten beiden Diener die empfangene Gabe vervielfachen, während der dritte, statt seinem Herrn zu vertrauen, der sie ihm gegeben hat, Angst vor ihm hat und wie gelähmt ist. Er riskiert nichts, er setzt sich nicht ein und schließlich vergräbt er das Talent. Und das gilt auch für uns: Wir können das, was wir empfangen haben, vervielfachen, indem wir unser Leben aus Liebe für die anderen hingeben, oder wir können, durch ein falsches Gottesbild gelähmt, aus Angst den Schatz, den wir empfangen haben, in der Erde vergraben, indem wir nur an uns selbst denken, ohne uns für irgendetwas anderes zu begeistern als für unsere eigenen Annehmlichkeiten und Interessen und ohne uns einzubringen. Die Frage ist ganz klar: die ersten beiden, die mit dem Talent handeln, gehen ein Risiko ein. Und die Frage, die ich stelle ist die: „Riskiere ich etwas in meinem Leben? Riskiere ich etwas mit der Kraft meines Glaubens? Verstehe ich es als Christ, Risiken einzugehen, oder verschließe ich mich aus Angst oder Kleinmut in mir selbst?“

So, liebe Brüder und Schwestern, mahnt uns das Gleichnis von den Talenten an diesem Welttag der Armen, zu prüfen, mit welcher Gesinnung wir unsere Lebensreise angehen. Wir haben vom Herrn das Geschenk seiner Liebe erhalten und sollen ein Geschenk für die anderen werden. Die Liebe, mit der Jesus sich unser angenommen hat, das Öl der Barmherzigkeit und des Mitleids, mit dem er unsere Wunden geheilt hat, die Flamme des Heiligen Geistes, mit der er unsere Herzen für die Freude und die Hoffnung geöffnet hat, sind Güter, die wir nicht nur für uns behalten, allein verwalten oder in der Erde verstecken dürfen. Reich beschenkt mit Gaben, sind wir gerufen, uns selbst zu einer Gabe zu machen. Wir, die wir so viele geschenkt bekommen haben, müssen uns zu einem Geschenk für die anderen machen. Die Bilder, die in diesem Gleichnis verwendet werden, sind sehr aussagekräftig: Wenn wir die Liebe um uns herum nicht vermehren, erlischt das Leben in der Dunkelheit; wenn wir die Talente, die wir erhalten haben, nicht in Umlauf bringen, endet unser Dasein unter der Erde, es ist also so, als ob wir bereits tot wären (vgl. VV. 25.30). Brüder und Schwestern, es gibt so viele vergrabene Christen! Wie viele Christen leben den Glauben, als ob sie unter der Erde leben würden!

Denken wir also an die vielen materiellen Nöte, an die kulturellen Nöte, an die geistlichen Nöte unserer Welt; denken wir an die verwundeten Menschen, die unsere Städte bevölkern, an die Armen, die unsichtbar geworden sind und deren Schmerzensschrei von der allgemeinen Gleichgültigkeit einer geschäftigen und zerstreuten Gesellschaft erstickt wird… Wenn wir an die Armut denken, dann dürfen wir die Scham nicht vergessen: Armut ist schambehaftet, sie versteckt sich. Wir müssen sie suchen, mit Mut. Denken wir an die Unterdrückten, die Erschöpften, die Ausgegrenzten, an die Opfer von Kriegen und an diejenigen, die ihr Land unter Lebensgefahr verlassen; an diejenigen, die ohne Brot, ohne Arbeit und ohne Hoffnung sind. So viele alltägliche Nöte. Und es sind nicht eine, zwei oder drei Arten von Armut: es sind viele. Die Armen sind viele. Und wenn wir an diese unermessliche Menge armer Menschen denken, ist die Botschaft des Evangeliums klar: Lasst uns die Güter des Herrn nicht vergraben! Verbreiten wir Nächstenliebe, teilen wir unser Brot, vervielfachen wir die Liebe! Die Armut ist ein Skandal. Die Armut ist ein Skandal. Wenn der Herr wiederkommt, wird er von uns Rechenschaft darüber verlangen und – wie der heilige Ambrosius schreibt – sagen: »Warum habt ihr geduldet, dass so viele Arme vor Hunger sterben, wo ihr doch Gold besaßt, mit dem ihr ihnen zu essen geben konntet? Warum sind so viele Sklaven verkauft und von Feinden misshandelt worden, ohne dass jemand etwas unternommen hat, um sie freizukaufen?« (Von den Pflichten der Kirchendiener: PL 16,148-149).

Beten wir, dass ein jeder von uns sich entsprechend der Gabe, die er erhalten hat, und der Sendung, die ihm anvertraut wurde, darum bemüht, „die Nächstenliebe Früchte bringen zu lassen“ – die Nächstenliebe Früchte bringen zu lassen – und dem ein oder anderen armen Menschen nahe zu sein. Beten wir, dass auch wir am Ende unserer Reise, nachdem wir Christus in diesen Brüdern und Schwestern, mit denen er sich selbst identifiziert hat (vgl. Mt 25,40), aufgenommen haben, hören dürfen, wie er zu uns sagt: »Sehr gut, du tüchtiger und treuer Diener. […] Komm, nimm teil am Freudenfest deines Herrn!« (Mt 25,21).

[01763-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

Tres hombres se encuentran con una enorme riqueza entre las manos, gracias a la generosidad de su señor que parte para un largo viaje. Ese patrón, sin embargo, un día volverá y llamará de nuevo a aquellos siervos, con la esperanza de poder gozar con ellos, por la forma en que, durante ese tiempo, hicieron fructificar sus bienes. La parábola que hemos escuchado (cf. Mt 25,14-30) nos invita a detenernos en dos itinerarios: el viaje de Jesús y el viaje de nuestra vida.

El viaje de Jesús. Al inicio de la parábola, Él habla de «un hombre que, al salir de viaje, llamó a sus servidores y les confió sus bienes» (v. 14). Este “viaje” evoca el misterio mismo de Cristo, Dios hecho hombre, su resurrección y ascensión al cielo. Él, que bajó desde el seno del Padre para venir al encuentro de la humanidad, muriendo destruyó la muerte y, resucitando, volvió al Padre. Al concluir su jornada terrena, Jesús emprende su “viaje de regreso” hacia el Padre. Pero, antes de partir nos entregó sus bienes, un auténtico “capital”: nos dejó a sí mismo en la Eucaristía, su Palabra de vida, a su Madre como Madre nuestra, y distribuyó los dones del Espíritu Santo para que nosotros podamos continuar su obra en el mundo. Estos “talentos” son otorgados —especifica el Evangelio— «a cada uno según su capacidad» (v. 15) y por tanto para una misión personal que el Señor nos confía en la vida cotidiana, en la sociedad y en la Iglesia. Lo afirma también el apóstol Pablo: «cada uno de nosotros ha recibido su propio don, en la medida que Cristo los ha distribuido. Por eso dice la Escritura: “Cuando subió a lo alto, llevó consigo a los cautivos y repartió dones a los hombres”» (Ef 4,7-8).

Fijemos la mirada en Jesús, que recibió todo de las manos del Padre, pero no retuvo esa riqueza para sí, «no consideró esta igualdad con Dios como algo que debía guardar celosamente: al contrario, se anonadó a sí mismo, tomando la condición de servidor» (Fil 2,6-7). Se revistió de nuestra frágil humanidad, como el buen samaritano alivió nuestras heridas, se hizo pobre para enriquecernos con la vida divina (cf. 2 Co 8,9), y subió a la cruz. A Él, que no tenía pecado, «Dios lo identificó con el pecado en favor nuestro» (cf. 2 Co 5,21). En favor nuestro. Jesús vivió para nosotros, en favor nuestro. Esta es la razón que inspiró su camino por el mundo antes de subir al Padre.

La parábola que hemos escuchado, sin embargo, nos dice también que «llegó el señor y arregló las cuentas con sus servidores» (Mt 25,19). De hecho, al primer viaje hacia el Padre seguirá otro, que Jesús realizará al final de los tiempos, cuando volverá en gloria y querrá encontrarnos de nuevo, para “ajustar las cuentas”, ajustar las cuentas de la historia e introducirnos en la alegría de la vida eterna. Y entonces, debemos preguntarnos: ¿cómo nos encontrará el Señor cuando vuelva? ¿Cómo me presentaré yo a la cita que tengo con Él?

Este interrogante nos lleva al segundo momento: al viaje de nuestra vida. ¿Qué camino recorremos nosotros, en nuestra vida, el de Jesús que se hizo don o, por el contrario, el camino del egoísmo? ¿El camino de las manos abiertas hacia los demás, para dar y entregarnos, o el de las manos cerradas para tener más y asegurarnos sólo a nosotros mismos? La parábola nos dice que cada uno de nosotros, según las propias capacidades y posibilidades, ha recibido los “talentos”. Cuidado, no nos dejemos engañar por el lenguaje común, aquí no se trata de capacidades personales, sino, como decíamos, de los bienes del Señor, de aquello que Cristo nos dejó al volver al Padre. Con esos bienes Él nos ha dado su Espíritu, en el cual fuimos hechos hijos de Dios y gracias al cual podemos gastar la vida dando testimonio del Evangelio y edificando el Reino de Dios. El gran “capital” que ha sido puesto en nuestras manos es el amor del Señor, fundamento de nuestra vida y fuerza de nuestro camino.

Y entonces debemos preguntarnos: ¿Qué hago con un don tan grande a lo largo del viaje de mi vida? La parábola nos dice que los primeros dos servidores multiplicaron el don recibido, mientras el tercero, más que fiarse de su señor, que se lo había entregado, le tuvo miedo y permaneció como paralizado, no arriesgó, no se involucró, y terminó por enterrar el talento. Y esto vale también para nosotros, podemos multiplicar lo que hemos recibido, haciendo de nuestra vida una ofrenda de amor para los demás, o podemos vivir bloqueados por una falsa imagen de Dios y, a causa del miedo, esconder bajo tierra el tesoro que hemos recibido, pensando sólo en nosotros mismos, sin apasionarnos más que por nuestras propias conveniencias e intereses, sin comprometernos. La pregunta es muy clara, puesto que los primeros dos servidores, al negociar con los talentos, arriesgan. Y por eso hago esta pregunta: ¿Me atrevo a arriesgar en mi vida? ¿Con la fuerza de mi fe, me arriesgo? Yo, como cristiana, como cristiano, ¿sé arriesgarme o me refugio en mí mismo por miedo o por cobardía?

Hermanos y hermanas, en esta Jornada Mundial de los Pobres la parábola de los talentos nos sirve de advertencia para verificar con qué espíritu estamos afrontando el viaje de la vida. Hemos recibido del Señor el don de su amor y estamos llamados a ser don para los demás. El amor con el que Jesús se ha ocupado de nosotros, el aceite de la misericordia y de la compasión con el que ha curado nuestras heridas, la llama del Espíritu con la que ha abierto nuestros corazones a la alegría y a la esperanza, son bienes que no podemos guardar sólo para nosotros mismos, administrarlos por nuestra cuenta o esconderlos bajo tierra. Colmados de dones, estamos llamados a hacernos don. Nosotros, que hemos recibidos tantos dones, estamos llamados a hacer de nosotros mismo un don para los demás. Las imágenes usadas por la parábola son muy elocuentes. Si no multiplicamos el amor alrededor nuestro, la vida se apaga en las tinieblas; si no ponemos a circular los talentos recibidos, la existencia acaba bajo tierra, es decir, es como si estuviésemos ya muertos (cf. vv. 25.30). Hermanos y hermanas, ¡cuántos cristianos enterrados! ¡Cuántos cristianos viven su fe como si ya estuvieran bajo tierra!

Pensemos entonces en tantas pobrezas materiales, en las pobrezas culturales, en las pobrezas espirituales de nuestro mundo; pensemos en las existencias heridas que habitan en nuestras ciudades, en los pobres que se han convertido en invisibles, cuyo grito de dolor es sofocado por la indiferencia general de una sociedad muy ocupada y distraída. Cuando pensemos en la pobreza, no debemos olvidar el pudor, porque la pobreza es pudorosa, se esconde. Debemos ir a buscarla, con valentía. Pensemos en cuántos están oprimidos, cansados, marginados, en las víctimas de las guerras y en aquellos que dejan su tierra arriesgando la vida, en aquellos que están sin pan, sin trabajo y sin esperanza. Hay tantas pobrezas cotidianas; no sólo una, dos o tres, sino multitud. Los pobres son una multitud. Y pensando en esta inmensa multitud de pobres, el mensaje del Evangelio es claro: ¡no enterremos los bienes del Señor! Hagamos que circule la caridad, compartamos nuestro pan, multipliquemos el amor. La pobreza es un escándalo; es un escándalo. Cuando el Señor vuelva nos pedirá cuenta y —como escribía san Ambrosio— nos dirá: «¿Por qué han tolerado que muchos pobres muriesen de hambre, cuando poseían oro con el cual procurar comida para darles? ¿Por qué tantos esclavos han sido vendidos y maltratados por los enemigos, sin que nadie se haya preocupado de rescatarlos?» (Los deberes de los ministros, PL 16,148-149).

Recemos para que cada uno de nosotros, según el don recibido y la misión que le ha sido confiada, se comprometa a “hacer fructificar la caridad” ―hacer fructificar la caridad― y a hacerse cercano a algún pobre. Recemos para que también nosotros, al terminar nuestro viaje, después de haber acogido a Cristo en estos hermanos y hermanas, con quienes Él mismo se ha identificado (cf. Mt 25,40), podamos escuchar que nos dice: «Está bien, servidor bueno y fiel […] entra a participar del gozo de tu señor» (Mt 25,21).

[01763-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

Três homens veem-se na posse duma enorme riqueza, graças à generosidade do seu senhor, que está de saída para uma longa viagem. Um dia, porém, vai regressar e convocará aqueles servos, esperando poder alegrar-se com eles pela forma como entretanto fizeram render os seus bens. Assim, a parábola que ouvimos (cf. Mt 25, 14-30) convida-nos a deter-nos em dois percursos: a viagem de Jesus e a viagem da nossa vida.

A viagem de Jesus. No início da parábola, Ele fala de «um homem que, ao partir para fora, chamou os seus servos e confiou-lhes os seus bens» (25, 14). Esta viagem faz pensar no próprio mistério de Cristo, Deus feito homem, com a sua ressurreição e ascensão ao Céu. Com efeito, Ele que desceu do seio do Pai para vir ao encontro da humanidade, morrendo, destruiu a morte e, ressuscitando, retornou ao Pai. Assim Jesus, tendo terminado a sua existência terrena, realiza a «viagem de regresso» para junto do Pai. Mas, antes de partir, confiou-nos os seus bens, os seus talentos, um verdadeiro «capital»: deixou a Si mesmo na Eucaristia, a sua Palavra de vida, a sua santa Mãe como nossa Mãe, e distribuiu os dons do Espírito Santo para podermos continuar a sua obra no mundo. Tais «talentos» são concedidos «a cada qual – especifica o Evangelho – segundo a sua capacidade» (25, 15) e, naturalmente, para uma missão pessoal que o Senhor nos confia na vida quotidiana, na sociedade e na Igreja. O mesmo afirma o apóstolo Paulo: «a cada um de nós foi dada a graça, segundo a medida do dom de Cristo. Por isso se diz: Ao subir às alturas, levou cativos em cativeiro, deu dádivas aos homens» (Ef 4, 7-8).

Mas, voltemos a fixar o olhar em Jesus, que recebeu tudo das mãos do Pai, mas não reteve para Si esta riqueza, «não considerou um privilégio ser igual a Deus, mas esvaziou-Se a Si mesmo, tomando a condição de servo» (Flp 2, 6-7). Revestiu-Se da nossa frágil humanidade, cuidou como bom samaritano das nossas feridas, fez-Se pobre para nos enriquecer com a vida divina (cf. 2 Cor 8, 9), subiu à cruz. A Ele, que não tinha pecado, «Deus o fez pecado por nós» (2 Cor 5, 21), em nosso favor. Jesus viveu em nosso favor. Foi isto que animou a sua viagem pelo mundo, antes de voltar ao Pai.

Mas a parábola de hoje diz-nos ainda que «voltou o senhor daqueles servos e pediu-lhes contas» (Mt 25, 19). Com efeito, à primeira viagem rumo ao Pai, seguir-se-á outra que Jesus há de realizar no fim dos tempos, quando voltar na glória e quiser encontrar-nos de novo, para «fazer um balanço», o balanço da história, e introduzir-nos na alegria da vida eterna. Por isso devemos perguntar-nos: Como nos encontrará o Senhor, quando voltar? Como me apresentarei eu ao encontro com Ele?

Esta pergunta leva-nos ao segundo momento: à viagem da nossa vida. Que estrada estamos nós a percorrer na nossa vida: a de Jesus que Se fez dom ou a estrada do egoísmo? A das mãos abertas para os outros, para dar e nos darmos, ou a das mãos fechadas para ter mais e cuidar apenas de nós mesmos? A parábola diz-nos que cada um de nós recebeu os «talentos», segundo as próprias capacidades e possibilidades. Mas, atenção, não nos deixemos enganar pela linguagem habitual! Aqui não se trata das capacidades pessoais, mas – como dizíamos – dos bens do Senhor, daquilo que Cristo nos deixou ao regressar ao Pai. Com eles, deu-nos o seu Espírito, no qual nos tornamos filhos de Deus e graças ao qual podemos dedicar a nossa vida a dar testemunho do Evangelho e construir o Reino de Deus. O grande «capital», que foi colocado nas nossas mãos, é o amor do Senhor, fundamento da nossa vida e força do nosso caminho.

Por isso devemos perguntar-nos: Que faço eu dum dom tão grande ao longo da viagem da minha vida? A parábola diz-nos que os dois primeiros servos multiplicam o dom recebido, enquanto o terceiro, em vez de confiar no seu senhor, que lho dera, tem medo dele e fica como que paralisado, não arrisca, não se empenha, acabando por enterrar o talento. Isto aplica-se também a nós: podemos multiplicar o que recebemos, fazendo da vida uma oferta de amor pelos outros, ou então podemos viver bloqueados por uma falsa imagem de Deus e, com medo, esconder debaixo da terra o tesouro que recebemos, pensando só em nós mesmos, sem nos apaixonarmos por nada além das nossas comodidades e interesses, sem nos comprometermos. Punhamo-nos uma pergunta, muito clara. Os dois primeiros, negociando com os talentos, arriscam; e eu pergunto-me: «Arrisco na minha vida? Arrisco com a força da minha fé? Como cristã, como cristão, sei arriscar ou fecho-me em mim próprio por medo ou por pusilanimidade?»

Pois bem, meus irmãos e irmãs! Neste Dia Mundial dos Pobres, a parábola dos talentos é uma advertência para verificar com que espírito estamos a enfrentar a viagem da vida. Recebemos do Senhor o dom do seu amor e somos chamados a tornar-nos dom para os outros. O amor com que Jesus cuidou de nós, o azeite da misericórdia e da compaixão com que tratou as nossas feridas, a chama do Espírito com que abriu os nossos corações à alegria e à esperança, são bens que não podemos guardar só para nós, administrar à nossa vontade ou esconder debaixo da terra. Cumulados de dons, somos chamados a fazer-nos dom. Nós que temos recebido tantos dons, devemos fazer-nos dom para os outros. As imagens usadas pela parábola são muito eloquentes: se não multiplicarmos o amor ao nosso redor, a vida some-se nas trevas; se não colocarmos em circulação os talentos recebidos, a existência acaba debaixo da terra, ou seja, como se já estivéssemos mortos (cf. 25, 25.30). Irmãos e irmãs, quantos cristãos subterrados! Quanto cristãos vivem a fé como se estivessem sob terra!

Por isso pensemos nas inúmeras pobrezas materiais, pobrezas culturais, pobrezas espirituais do nosso mundo; pensemos nas existências feridas que povoam as nossas cidades, nos pobres tornados invisíveis, cujo grito de dor é sufocado pela indiferença geral duma sociedade atarefada e distraída… Depois, quando pensamos na pobreza, não devemos esquecer o pudor: a pobreza é púdica, esconde-se. Temos nós de ir procurá-la, com coragem. Pensemos em quantos estão oprimidos, cansados, marginalizados, nas vítimas das guerras e naqueles que deixam a sua terra arriscando a vida; naqueles que estão sem pão, sem trabalho e sem esperança. Tanta pobreza diária. E não se trata de um, dois ou três: são uma multidão; os pobres são uma multidão. E quando se pensa nesta multidão imensa de pobres, a mensagem do Evangelho resulta clara: não enterremos os bens do Senhor! Ponhamos em circulação a caridade, partilhemos o nosso pão, multipliquemos o amor! A pobreza é um escândalo. Sim, a pobreza é um escândalo. Quando o Senhor voltar, pedir-nos-á contas e – como escreve Santo Ambrósio – dir-nos-á: «Porquê tolerastes que tantos pobres morressem de fome, quando dispunhas de ouro com o qual obter alimento para lhes dar? Porquê tantos escravos foram vendidos e maltratados pelos inimigos, sem que ninguém fizesse nada para os resgatar?» (Os Deveres dos Ministros: PL 16, 148-149).

Rezemos para que cada um, segundo o dom recebido e a missão que lhe foi confiada, se comprometa a «pôr a render a caridade» – pôr a render a caridade – e a aproximar-se de qualquer pobre. Rezemos para que também nós, no termo da nossa viagem, depois de ter acolhido Cristo nestes irmãos e irmãs com quem Ele próprio Se identificou (cf. Mt 25, 40), possamos ouvir dizer-nos: «Muito bem, servo bom e fiel (…). Entra no gozo do teu senhor» (Mt 25, 21).

[01763-PO.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

Trzej ludzie znaleźli się z ogromnym majątkiem w rękach, dzięki hojności swego pana, który wyjeżdża w długą podróż. Jednak ten Pan powróci pewnego dnia i ponownie wezwie owe sługi, mając nadzieję, że będzie mógł cieszyć się wraz z nimi z pomnożonego przez nich, w międzyczasie, swego majątku. Przypowieść, którą usłyszeliśmy (por. Mt 25, 14-30), zachęca nas do zastanowienia się nad dwiema drogami: podróżą Jezusa i podróżą naszego życia.

Podróż Jezusa. Na początku przypowieści Jezus mówi o „pewnym człowieku, który mając się udać w podróż, przywołał swoje sługi i przekazał im swój majątek” (w. 14). Ta „podróż” przywodzi na myśl wręcz tajemnicę Chrystusa, Boga, który stał się człowiekiem, Jego zmartwychwstanie i wstąpienie do nieba. On, który zstąpił z łona Ojca, aby spotkać się z ludzkością, umierając zniszczył śmierć a zmartwychwstając powrócił do Ojca. Kończąc swoje życie na ziemi, Jezus podejmuje zatem swoją „podróż powrotną” do Ojca. Ale zanim odszedł, przekazał nam swój majątek, prawdziwy „kapitał”: zostawił nam siebie w Eucharystii, swoje Słowo życia, swoją świętą Matkę jako naszą Matkę, i rozdał dary Ducha Świętego, abyśmy mogli kontynuować Jego dzieło w świecie. Te „talenty” są udzielane – precyzuje Ewangelia – „każdemu według jego zdolności” (w. 15), a więc dla osobistej misji, którą Pan powierza nam w codziennym życiu, w społeczeństwie i w Kościele. Stwierdza to również Apostoł Paweł: każdemu z nas „została dana łaska według miary daru Chrystusowego. Dlatego mówi Pismo: Wstąpiwszy na wysokości wziął do niewoli jeńców, rozdał ludziom dary” (Ef 4, 7-8).

Ponownie skierujmy nasz wzrok na Jezusa, który otrzymał wszystko z rąk Ojca, ale nie zatrzymał tego bogactwa dla siebie, „nie skorzystał ze sposobności, aby na równi być z Bogiem, lecz ogołocił samego siebie, przyjąwszy postać sługi” (Flp 2, 6-7). Przyoblekł się w nasze kruche człowieczeństwo, ukoił nasze rany jako dobry Samarytanin, stał się ubogim, aby ubogacić nas boskim życiem (por. 2 Kor 8, 9), wstąpił na krzyż. Jego, który był bez grzechu, Bóg „dla nas grzechem uczynił” (2 Kor 5, 21). Dla nas. Jezus żył dla nas, dla naszego dobra. To właśnie było motywacją Jego podróży po świecie, przed powrotem do Ojca.

Jednak dzisiejsza przypowieść mówi nam również, że „powrócił pan owych sług i zaczął rozliczać się z nimi” (Mt 25, 19). Istotnie, po pierwszej podróży do Ojca nastąpi kolejna, którą Jezus odbędzie na końcu czasów, kiedy powróci w chwale i będzie chciał spotkać się z nami ponownie, aby „zrobić rozliczenie”, rozliczyć historię i wprowadzić nas do radości życia wiecznego. Musimy więc zadać sobie pytanie: jakimi zastanie nas Pan, gdy powróci? Jakim ja stawię się na spotkanie z Nim?

To pytanie prowadzi nas do drugiego momentu: do podróży naszego życia. Jaką drogę przemierzamy, w naszym życiu: czy drogę Jezusa, który uczynił siebie darem, czy też drogę egoizmu? Tę z otwartymi rękami ku innym, aby dawać i dawać siebie, czy tę z zamkniętymi rękami, aby mieć więcej i jedynie ustrzec siebie? Przypowieść mówi nam, że każdy z nas, według swoich zdolności i możliwości otrzymał „talenty”. Uwaga: nie dajmy się zwieść językowi potocznemu: nie mówimy tutaj o zdolnościach osobistych, ale, jak powiedzieliśmy, o dobrach Pana, o tym, co zostawił nam Chrystus powracając do Ojca. Wraz z nimi dał nam swojego Ducha, w którym staliśmy się dziećmi Bożymi, i dzięki któremu możemy przeżyć nasze życie dając świadectwo Ewangelii i budując królestwo Boże. Wielkim „kapitałem”, który został złożony w naszych rękach, jest miłość Pana, będąca fundamentem naszego życia i siłą naszej wędrówki.

Musimy więc zadać sobie pytanie: co czynię z tak wielkim darem na mojej życiowej podróży? Przypowieść mówi nam, że dwaj pierwsi słudzy pomnożyli otrzymany dar, podczas gdy trzeci, zamiast zaufać swojemu panu, który go obdarzył, boi się go i pozostaje jakby sparaliżowany, nie podejmuje ryzyka, nie angażuje się, i w końcu zakopuje talent. Dotyczy to również nas: możemy pomnażać to, co otrzymaliśmy, czyniąc z naszego życia ofiarę miłości dla innych, albo możemy żyć zablokowani fałszywym obrazem Boga, i ze strachu ukrywać otrzymany skarb pod ziemią, myśląc tylko o sobie, nie dbając o nic, poza własnymi wygodami i interesami, nie angażując się. Pytanie jest bardzo jasne: dwaj pierwsi posiadając talenty dokonują transakcji, ryzykują. I stawiam wam pytanie: czy ja ryzykuję w moim życiu? Czy podejmuję ryzyko z siłą mojej wiary? Czy jako chrześcijanka, jako chrześcijanin, umiem ryzykować, czy też zamykam się w sobie ze strachu lub z tchórzostwa?".

Bracia i siostry, w tym Światowym Dniu Ubogich, przypowieść o talentach jest przestrogą, abyśmy sprawdzili z jakim duchem podchodzimy do życiowej podróży. Otrzymaliśmy od Pana dar Jego miłości i jesteśmy wezwani, by stać się darem dla innych. Miłość, z jaką Jezus zatroszczył się o nas, olej miłosierdzia i współczucia, którym leczył nasze rany, płomień Ducha, którym otworzył nasze serca na radość i nadzieję, są dobrami, których nie możemy zatrzymać tylko dla siebie, zarządzać nimi na własną rękę lub ukrywać pod ziemią. Pełni darów, jesteśmy powołani do stawania się darem. My, którzy otrzymaliśmy tak wiele darów, musimy stać się darem dla innych. Obrazy użyte w przypowieści są bardzo wymowne: jeśli nie pomnażamy miłości wokół nas, życie gaśnie w ciemnościach; jeśli nie wprowadzamy w obieg otrzymanych talentów, egzystencja kończy się pod ziemią, to znaczy tak, jakbyśmy już byli martwi (por. w. 25.30). Bracia i siostry, jakże wiele jest pogrzebanych chrześcijan! Jakże wielu chrześcijan przeżywa wiarę, jakby żyli pod ziemią!

Pomyślmy zatem o wielu biedach materialnych, o biedach kulturowych, o biedach duchowych naszego świata; pomyślmy o zranionych istnieniach, obecnych w naszych miastach, o ubogich, którzy stali się niewidzialni, których krzyk bólu jest tłumiony przez ogólną obojętność zabieganego i roztargnionego społeczeństwa… Kiedy myślimy o biedzie, nie możemy zapominać o wstydzie: bieda jest wstydliwa, ukrywa się. Musimy iść i odważnie jej szukać. Pomyślmy o tych, którzy są uciskani, utrudzeni, marginalizowani, o ofiarach wojen i tych, którzy opuszczają swoją ziemię z narażeniem życia; o tych, którzy nie mają chleba, pracy i nadziei. Jakże wiele jest codziennych niedostatków. I nie jest to jeden, dwa czy trzy: jest ich mnóstwo. Są całe rzesze ubogich. A myśląc o tej ogromnej rzeszy ubogich, przesłanie Ewangelii jest jasne: nie zakopujmy dóbr Pana! Rozpowszechniajmy miłość miłosierną, dzielmy się chlebem, pomnażajmy miłość! Bieda jest skandalem. Nędza jest skandalem. Kiedy Pan powróci, zapyta nas o to i – jak pisze święty Ambroży – powie: „Dlaczego pozwoliliście, żeby tylu ubogich umarło z głodu? A przecież miałeś złoto, byś mógł dostarczyć żywności. Dlaczego tylu jeńców, wystawionych na sprzedaż i nie wykupionych, zginęło z ręki wroga?” (Obowiązki duchownych, tłum. Kazimierz Abgarowicz, Warszawa 1967, s. 158; [PL 16:148-149].

Módlmy się, aby każdy z nas, zgodnie z otrzymanym darem i powierzoną misją, starał się „przynosić owoce miłości miłosiernej” – przynosić owoce miłości miłosiernej – i być blisko jakiegoś biedaka. Módlmy się, abyśmy i my, na końcu naszej podróży, przyjąwszy Chrystusa w tych braciach i siostrach, z którymi On sam się utożsamił (por. Mt 25, 40), mogli usłyszeć: „Dobrze, sługo dobry i wierny! ... wejdź do radości twego pana!” (Mt 25, 21).

[01763-PL.02] [Testo originale: Italiano]

 

Traduzione in lingua araba

عظة قداسة البابا فرنسيس

في القدّاس الإلهيّ

في مناسبة يوم الفقير العالمي

19 تشرين الثّاني/نوفمبر 2023

بازيليكا القدّيس بطرس

ثلاثة رجال يجدون بين أيديهم ثروة كبيرة، بفضل كَرَمِ سيِّدهم الذي كان مزمعًا على سَفَرٍ طويل. ولكن، ذلك السَّيَد سيعود يومًا ما وسيدعو هؤلاء الخُدَّام مرّة أخرى، على أملِ أن يستطيع أن يفرح معهم في الأرباح التي حققوها في استثمار أمواله في فترة غِيابه. يدعونا المَثَل الذي استمعنا إليه (راجع متّى 25، 14-30) إلى أن نتوقّف عند أمرَيْن: رحلة يسوع ورحلة حياتنا.

رحلة يسوع: في بداية المثل، تكلّم يسوع على "رَجُلٍ أَرادَ السَّفَر، فدعا خَدَمَه وسَلَّمَ إِلَيهِم أَموالَه" (الآية 14). هذا ”السَّفَر“ يجعلنا نفكّر في سِرِّ المسيح نفسه، الله الذي صار إنسانًا، وفي قيامته وصعوده إلى السّماء. في الواقع، يسوع الذي نزل من عند الآب ليلتقي بالبشريّة، قهر الموت بموته، ورَجِعَ إلى الآب بقيامته من بين الأموات. لمّا أنهى عمله على الأرض، أكمل يسوع ”رحلة عودته“ إلى الآب. لكن، قبل أن يغادر، سلَّمَنا ”ما يملك“، وهو ”رَصِيد“ حقيقيّ: ترك لنا ذاته في الإفخارستيّا، وكلمتهُ التي هي كلمة حياة، وأمَّه القدّيسة أُمًّا لنا، ووزَّع مواهب الرّوح القدس علينا حتّى نستطيع أن نُكمل عمله في العالم. قال الإنجيل: أُعطِيَت هذه المواهب "لكلّ واحدٍ على قَدْرِ طاقَتِه" (الآية 15). سلَّمنا كلّ ذلك من أجل رسالة خاصّة أوكلها إلينا في الحياة اليوميّة وفي المجتمع وفي الكنيسة. يؤكّد ذلك أيضًا بولس الرّسول: "كُلُّ واحِدٍ مِنَّا أُعطِيَ نَصيبَه مِنَ النِّعمَةِ على مِقْدارِ هِبَةِ المسيح. فقَد وَرَدَ في الكِتاب: صَعِدَ إِلى العُلى فأَخَذَ أَسْرى، وأَعْطى النَّاسَ العَطايا" (أفسس 4، 7-8).

لنركّز نظرنا على يسوع، الذي تلقّى كلّ شيء من الآب، ولم يحتفظ بهذا الغِنَى لنفسه، "لم يعُدَّ مُساواتَه للهِ غَنيمَة، بل تَجَرَّدَ مِنْ ذاتِه مُتَّخِذًا صُورة العَبْد" (فيلبي 2، 6-7). اتَّخَذَ إنسانيّتنا الضّعيفة، وداوى جراحنا مثل السّامري الرّحيم، وصار فقيرًا لكي يُغنينا بالحياة الإلهيّة (راجع 2 قورنتس 8، 9)، وصَعِدَ على الصَّليب. هو الذي كان بلا خطيئة "جَعَلَه اللهُ خَطيئَةً مِن أَجْلِنا" (2 قورنتس 5، 21). مِن أجلنا ومن أجل خلاصنا عاش يسوع. من أجلنا. هذا ما حمله على المجيء إلى العالم قبل أن يرجع إلى الآب.

مَثَلُ اليوم يقول لنا أيضًا: "رَجَعَ سَيِّدُ أُولئِكَ الخَدَمِ وحاسَبَهم" (متّى 25، 19). في الواقع، عودة يسوع الأولى إلى الآب ستتبعها عودة أخرى، عندما يعود في نهاية الأزمنة، سيعود بمجده ويريد أن يلتقي بنا من جديد، ”ليُحاسبنا“ عمّا صنعنا في التّاريخ ويُدخلنا إلى فرح الحياة الأبديّة. ولذلك، علينا أن نتساءل: كيف سيجدنا الرّبّ يسوع عندما يعود؟ كيف سأقدّم نفسي في لقائي معه؟

يقودنا هذا السّؤال إلى القسم الثّاني: رحلة حياتنا. في أيّ طريق نسير، هل أسير في طريق يسوع الذي بذل نفسه عطيّة أم في طريق الأنانيّة؟ يقول لنا المَثَل إنّ كلّ واحدٍ منّا تلقّى مواهب، بحسب قدراته وإمكانيّاته. لنتنبّه: لا نَنخَدِع بكلام النّاس: فهنا لا نتكلّم على القدرات الشّخصيّة، بل كما قُلنا سابقًا، على خيرات هي للرّبّ يسوع، وما تركه لنا عندما رَجِعَ إلى الآب. ترك لنا ما له، وأعطانا روحه القدس، وفيه صرنا أبناء الله وبفضله يمكننا أن نقضي حياتنا في الشّهادة للإنجيل ونبني ملكوت الله. و”الرّصيد“ الكبير الذي وُضِع بين أيدينا هو محبّة الله، وهو أساس حياتنا وقوّة مسيرتنا.

لذا، علينا أن نتساءل: ماذا أصنع بهذه العطيّة الكبيرة خلال رحلة حياتي؟ قال لنا المثل إنّ الخادمَين الأوّلَين ضاعفا العطيّة التي تلقّياها، بينما الثّالث، بدل أن يثق بسيّده، خاف منه، وبقي مثل المشلول، لم يخاطر ولم يُغامر بنفسه، وانتهى به الأمر أن دفن موهبته في التّراب. وهذا الأمر ينطبق علينا أيضًا: يمكننا أن نُضاعف ما تلقّيناه، ونجعل من حياتنا تقدمة محبّة للآخرين، أو يمكننا أن نعيش، ونحن نحاصر أنفسنا بصورة زائفة عن الله، وبسبب خوفنا نُخبِئ في التّراب الكنز الذي تلقّيناه، ونفكّر في أنفسنا فقط، ودون أن نتحمّس لأيّ شيء سِوى راحتنا ومصالحنا، ودون أيّ التزام. السّؤال واضح جدًّا: الخادمان الأوّلان، عندما غامرا بموهبتهما، خاطرا. والسّؤال الذي أطرحه: هل أخاطر في حياتي؟ هل أخاطر بقوّة إيمانيّ؟ وبكوني مسيحيّ، هل أعرف أن أخاطر أم أنغلق على نفسي بسبب الخوف أو ضعف النّفس؟

إذًا، أيّها الإخوة والأخوات، مَثَل الوزنات في يوم الفقير العالمي هذا، هو تحذير لكي نتحقّق بأيّ روح ننظر إلى رحلة حياتنا. تلقّينا من الله عطيّة حبّه ونحن مدعوّون إلى أن نصير عطيّة للآخرين. المحبّة التي بها اعتنى يسوع بنا، وزيت الرّحمة والرّأفة الذي به شفى جراحنا، وشُعلة الرّوح القدس التي بها فتح قلوبنا على الفرح والرّجاء، هي عطايا لا يمكننا أن نحتفظ بها لأنفسنا فقط، ولا أن نُديرها بأنفسنا أو أن نُخبِئَها تحت الأرض. غمرنا الله بالعطايا، ونحن مدعوّون إلى أن نصير عطيّة. الصُّوَر التي استخدمها المَثَل بليغة جدًّا: إن لم نضاعف المحبّة من حولنا، ستنطفئ الحياة في الظُّلمة، وإن لم نستثمر المواهب التي تلقّيناها، سينتهي الوجود تحت الأرض، أيْ كما لو صِرْنا أمواتًا (راجع الآيات 25. 30). أيّها الإخوة والأخوات، كم من المسيحيّين الموجودين تحت الأرض! كم من المسيحيّين يعيشون إيمانهم كما لو كانوا يعيشون تحت الأرض!

لنفكّر إذن في أنواع الفقر في عالمنا، الفقر المادّي والثّقافي والرّوحي الكثير، وفي حياة الجرحى الكثيرين الذين يسكنون مُدننا، وفي الفقراء الذين صار النّاس لا يرونهم، والذين اختنقت صرخة ألمهم بسبب اللامبالاة العامّة مِن قِبَلِ مجتمعٍ مشغول ومشتَّت. لنفكّر في كلّ المظلومين والمتعبين والمهمّشين، وفي ضحايا الحروب، والذين يتركون أرضهم ويخاطرون بحياتهم، والذين لا خبز لهم، ولا عمل ولا رجاء. بالتَّفكير في هذا العدد الهائل من الفقراء، رسالة الإنجيل واضحة: لا ندفن عطايا الله تحت الأرض! لنتعامل بالمحبّة، ولنُشارك خبزنا مع الآخرين، ولنضاعف المحبّة! الفَقر شكٌّ وحجر عثرة. عندما يعود الرّبّ يسوع سيحاسبنا على ذلك، وسيقول لنا - كما كتب القدّيس أمبروسيوس -: "لماذا تركتم هذا العدد الكبير من الفقراء يموتون جوعًا، ولديكم ذهب كان بإمكانكم أن تحصلوا بِهِ على الطّعام وتعطوه لهم؟ لماذا بِيعَ عبيدٌ كثيرون وأساء الأعداء معاملتهم، ولم يصنع أحد شيئًا ليفديهم؟" (واجبات الخدّام: المؤلّفات اللاتينيّة لآباء الكنيسة 16، 148-149).

لنصلِّ حتّى يلتزم كلّ واحدٍ منّا، بحسب العطيّة التي تلقّاها والرّسالة التي أوكلت إليه، لكي ”يجعل المحبّة تُثمر“ ولكي يكون قريبًا من بعض الفقراء. لنصلِّ حتّى نستطيع نحن أيضًا، في نهاية رحلتنا، وبعد أن تلقّينا المسيح في إخوتنا وأخواتنا هؤلاء، الذين قال إنّه فيهم، (راجع متّى 25، 40)، حتّى نستطيع أن نسمعه يقول لنا: "أَحسَنتَ أَيُّها الخادِمُ الصَّالِحُ الأَمين […] أُدخُلْ نَعيمَ سَيِّدِكَ" (متّى 25، 21).

[01763-AR.02] [Testo originale: Italiano]

[B0809-XX.02]