Messaggio del Santo Padre
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Pubblichiamo di seguito il testo del Messaggio del Santo Padre Francesco per la VII Giornata Mondiale dei Poveri che si celebra la XXXIII Domenica del Tempo Ordinario – quest’anno il 19 novembre 2023 – sul tema «Non distogliere lo sguardo dal povero» (Tb 4,7):
Messaggio del Santo Padre
1. La Giornata Mondiale dei Poveri, segno fecondo della misericordia del Padre, giunge per la settima volta a sostenere il cammino delle nostre comunità. È un appuntamento che progressivamente la Chiesa sta radicando nella sua pastorale, per scoprire ogni volta di più il contenuto centrale del Vangelo. Ogni giorno siamo impegnati nell’accoglienza dei poveri, eppure non basta. Un fiume di povertà attraversa le nostre città e diventa sempre più grande fino a straripare; quel fiume sembra travolgerci, tanto il grido dei fratelli e delle sorelle che chiedono aiuto, sostegno e solidarietà si alza sempre più forte. Per questo, nella domenica che precede la festa di Gesù Cristo Re dell’Universo, ci ritroviamo intorno alla sua Mensa per ricevere nuovamente da Lui il dono e l’impegno di vivere la povertà e di servire i poveri.
«Non distogliere lo sguardo dal povero» (Tb 4,7). Questa Parola ci aiuta a cogliere l’essenza della nostra testimonianza. Soffermarci sul Libro di Tobia, un testo poco conosciuto dell’Antico Testamento, avvincente e ricco di sapienza, ci permetterà di entrare meglio nel contenuto che l’autore sacro desidera trasmettere. Davanti a noi si apre una scena di vita familiare: un padre, Tobi, saluta il figlio, Tobia, che sta per intraprendere un lungo viaggio. Il vecchio Tobi teme di non poter più rivedere il figlio e per questo gli lascia il suo “testamento spirituale”. Lui è stato un deportato a Ninive ed ora è cieco, dunque doppiamente povero, ma ha sempre avuto una certezza, espressa dal nome che porta: “il Signore è stato il mio bene”. Quest’uomo, che ha confidato sempre nel Signore, da buon padre desidera lasciare al figlio non tanto qualche bene materiale, ma la testimonianza del cammino da seguire nella vita, perciò gli dice: «Ogni giorno, figlio, ricordati del Signore; non peccare né trasgredire i suoi comandamenti. Compi opere buone in tutti i giorni della tua vita e non metterti per la strada dell’ingiustizia» (4,5).
2. Come si può osservare subito, il ricordo che il vecchio Tobi chiede al figlio non si limita a un semplice atto della memoria o a una preghiera da rivolgere a Dio. Egli fa riferimento a gesti concreti che consistono nel compiere opere buone e nel vivere con giustizia. Questa esortazione si specifica ancora di più: «A tutti quelli che praticano la giustizia fa’ elemosina con i tuoi beni e, nel fare elemosina, il tuo occhio non abbia rimpianti» (4,7).
Stupiscono non poco le parole di questo vecchio saggio. Non dimentichiamo, infatti, che Tobi ha perso la vista proprio dopo aver compiuto un atto di misericordia. Come egli stesso racconta, la sua vita fin da giovane era dedicata a opere di carità: «Ai miei fratelli e ai miei compatrioti, che erano stati condotti con me in prigionia a Ninive, nel paese degli Assiri, facevo molte elemosine. […] Davo il pane agli affamati, gli abiti agli ignudi e, se vedevo qualcuno dei miei connazionali morto e gettato dietro le mura di Ninive, io lo seppellivo» (1,3.17).
Per questa sua testimonianza di carità, il re lo aveva privato di tutti i suoi beni rendendolo completamente povero. Il Signore però aveva ancora bisogno di lui; ripreso il suo posto di amministratore, non ebbe timore di continuare nel suo stile di vita. Ascoltiamo il suo racconto, che parla anche a noi oggi: «Per la nostra festa di Pentecoste, cioè la festa delle Settimane, avevo fatto preparare un buon pranzo e mi posi a tavola: la tavola era imbandita di molte vivande. Dissi al figlio Tobia: “Figlio mio, va’, e se trovi tra i nostri fratelli deportati a Ninive qualche povero, che sia però di cuore fedele, portalo a pranzo insieme con noi. Io resto ad aspettare che tu ritorni, figlio mio”» (2,1-2). Come sarebbe significativo se, nella Giornata dei Poveri, questa preoccupazione di Tobi fosse anche la nostra! Invitare a condividere il pranzo domenicale, dopo aver condiviso la Mensa eucaristica. L’Eucaristia celebrata diventerebbe realmente criterio di comunione. D’altronde, se intorno all’altare del Signore siamo consapevoli di essere tutti fratelli e sorelle, quanto più diventerebbe visibile questa fraternità condividendo il pasto festivo con chi è privo del necessario!
Tobia fece come gli aveva detto il padre, ma tornò con la notizia che un povero era stato ucciso e lasciato in mezzo alla piazza. Senza esitare, il vecchio Tobi si alzò da tavola e andò a seppellire quell’uomo. Tornato a casa stanco, si addormentò nel cortile; gli cadde sugli occhi dello sterco di uccelli e divenne cieco (cfr 2,1-10). Ironia della sorte: fai un gesto di carità e ti capita una disgrazia! Ci viene da pensare così; ma la fede ci insegna ad andare più in profondità. La cecità di Tobi diventerà la sua forza per riconoscere ancora meglio tante forme di povertà da cui era circondato. E il Signore provvederà a suo tempo a restituire al vecchio padre la vista e la gioia di rivedere il figlio Tobia. Quando venne quel giorno, «Tobi gli si buttò al collo e pianse, dicendo: “Ti vedo, figlio, luce dei miei occhi!”. Ed esclamò: “Benedetto Dio! Benedetto il suo grande nome! Benedetti tutti i suoi angeli santi! Sia il suo santo nome su di noi e siano benedetti i suoi angeli per tutti i secoli. Perché egli mi ha colpito, ma ora io contemplo mio figlio Tobia”» (11,13-14).
3. Possiamo chiederci: da dove Tobi attinge il coraggio e la forza interiore che gli permettono di servire Dio in mezzo a un popolo pagano e di amare a tal punto il prossimo a rischio della sua stessa vita? Siamo davanti a un esempio straordinario: Tobi è uno sposo fedele e un padre premuroso; è stato deportato lontano dalla sua terra e soffre ingiustamente; è perseguitato dal re e dai vicini di casa… Nonostante sia di animo così buono è messo alla prova. Come spesso ci insegna la sacra Scrittura, Dio non risparmia le prove a quanti operano il bene. Come mai? Non lo fa per umiliarci, ma per rendere salda la nostra fede in Lui.
Tobi, nel momento della prova, scopre la propria povertà, che lo rende capace di riconoscere i poveri. È fedele alla Legge di Dio e osserva i comandamenti, ma questo a lui non basta. L’attenzione fattiva verso i poveri gli è possibile perché ha sperimentato la povertà sulla propria pelle. Pertanto, le parole che rivolge al figlio Tobia sono la sua genuina eredità: «Non distogliere lo sguardo da ogni povero» (4,7). Insomma, quando siamo davanti a un povero non possiamo voltare lo sguardo altrove, perché impediremmo a noi stessi di incontrare il volto del Signore Gesù. E notiamo bene quell’espressione «da ogni povero». Ognuno è nostro prossimo. Non importa il colore della pelle, la condizione sociale, la provenienza… Se sono povero, posso riconoscere chi è veramente il fratello che ha bisogno di me. Siamo chiamati a incontrare ogni povero e ogni tipo di povertà, scuotendo da noi l’indifferenza e l’ovvietà con le quali facciamo scudo a un illusorio benessere.
4. Viviamo un momento storico che non favorisce l’attenzione verso i più poveri. Il volume del richiamo al benessere si alza sempre di più, mentre si mette il silenziatore alle voci di chi vive nella povertà. Si tende a trascurare tutto ciò che non rientra nei modelli di vita destinati soprattutto alle generazioni più giovani, che sono le più fragili davanti al cambiamento culturale in corso. Si mette tra parentesi ciò che è spiacevole e provoca sofferenza, mentre si esaltano le qualità fisiche come se fossero la meta principale da raggiungere. La realtà virtuale prende il sopravvento sulla vita reale e avviene sempre più facilmente che si confondano i due mondi. I poveri diventano immagini che possono commuovere per qualche istante, ma quando si incontrano in carne e ossa per la strada allora subentrano il fastidio e l’emarginazione. La fretta, quotidiana compagna di vita, impedisce di fermarsi, di soccorrere e prendersi cura dell’altro. La parabola del buon samaritano (cfr Lc 10,25-37) non è un racconto del passato, interpella il presente di ognuno di noi. Delegare ad altri è facile; offrire del denaro perché altri facciano la carità è un gesto generoso; coinvolgersi in prima persona è la vocazione di ogni cristiano.
5. Ringraziamo il Signore perché ci sono tanti uomini e donne che vivono la dedizione ai poveri e agli esclusi e la condivisione con loro; persone di ogni età e condizione sociale che praticano l’accoglienza e si impegnano accanto a coloro che si trovano in situazioni di emarginazione e sofferenza. Non sono superuomini, ma “vicini di casa” che ogni giorno incontriamo e che nel silenzio si fanno poveri con i poveri. Non si limitano a dare qualcosa: ascoltano, dialogano, cercano di capire la situazione e le sue cause, per dare consigli adeguati e giusti riferimenti. Sono attenti al bisogno materiale e anche a quello spirituale, alla promozione integrale della persona. Il Regno di Dio si rende presente e visibile in questo servizio generoso e gratuito; è realmente come il seme caduto nel terreno buono della vita di queste persone che porta il suo frutto (cfr Lc 8,4-15). La gratitudine nei confronti di tanti volontari chiede di farsi preghiera perché la loro testimonianza possa essere feconda.
6. Nel 60° anniversario dell’Enciclica Pacem in terris, è urgente riprendere le parole del santo Papa Giovanni XXIII quando scriveva: «Ogni essere umano ha il diritto all’esistenza, all’integrità fisica, ai mezzi indispensabili e sufficienti per un dignitoso tenore di vita, specialmente per quanto riguarda l’alimentazione, il vestiario, l’abitazione, il riposo, le cure mediche, i servizi sociali necessari; e ha quindi il diritto alla sicurezza in caso di malattia, di invalidità, di vedovanza, di vecchiaia, di disoccupazione, e in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà» (n. 6).
Quanto lavoro abbiamo ancora davanti a noi perché queste parole diventino realtà, anche attraverso un serio ed efficace impegno politico e legislativo! Malgrado i limiti e talvolta le inadempienze della politica nel vedere e servire il bene comune, possa svilupparsi la solidarietà e sussidiarietà di tanti cittadini che credono nel valore dell’impegno volontario di dedizione ai poveri. Si tratta certo di stimolare e fare pressione perché le pubbliche istituzioni compiano bene il loro dovere; ma non giova rimanere passivi in attesa di ricevere tutto “dall’alto”: chi vive in condizione di povertà va anche coinvolto e accompagnato in un percorso di cambiamento e di responsabilità.
7. Ancora una volta, purtroppo, dobbiamo constatare nuove forme di povertà che si assommano a quelle già descritte in precedenza. Penso in modo particolare alle popolazioni che vivono in luoghi di guerra, specialmente ai bambini privati di un presente sereno e di un futuro dignitoso. Nessuno potrà mai abituarsi a questa situazione; manteniamo vivo ogni tentativo perché la pace si affermi come dono del Signore Risorto e frutto dell’impegno per la giustizia e il dialogo.
Non posso dimenticare le speculazioni che, in vari settori, portano a un drammatico aumento dei costi che rende moltissime famiglie ancora più indigenti. I salari si esauriscono rapidamente costringendo a privazioni che attentano alla dignità di ogni persona. Se in una famiglia si deve scegliere tra il cibo per nutrirsi e le medicine per curarsi, allora deve farsi sentire la voce di chi richiama al diritto di entrambi i beni, in nome della dignità della persona umana.
Come non rilevare, inoltre, il disordine etico che segna il mondo del lavoro? Il trattamento disumano riservato a tanti lavoratori e lavoratrici; la non commisurata retribuzione per il lavoro svolto; la piaga della precarietà; le troppe vittime di incidenti, spesso a causa della mentalità che preferisce il profitto immediato a scapito della sicurezza… Tornano alla mente le parole di san Giovanni Paolo II: «Primo fondamento del valore del lavoro è l’uomo stesso. […] L’uomo è destinato ed è chiamato al lavoro, però prima di tutto il lavoro è “per l’uomo”, e non l’uomo “per il lavoro”» (Enc. Laborem exercens, 6).
8. Questo elenco, già di per sé drammatico, dà conto in modo solo parziale delle situazioni di povertà che fanno parte del nostro quotidiano. Non posso tralasciare, in particolare, una forma di disagio che appare ogni giorno più evidente e che tocca il mondo giovanile. Quante vite frustrate e persino suicidi di giovani, illusi da una cultura che li porta a sentirsi “inconcludenti” e “falliti”. Aiutiamoli a reagire davanti a queste istigazioni nefaste, perché ciascuno possa trovare la strada da seguire per acquisire un’identità forte e generosa.
È facile, parlando dei poveri, cadere nella retorica. È una tentazione insidiosa anche quella di fermarsi alle statistiche e ai numeri. I poveri sono persone, hanno volti, storie, cuori e anime. Sono fratelli e sorelle con i loro pregi e difetti, come tutti, ed è importante entrare in una relazione personale con ognuno di loro.
Il Libro di Tobia ci insegna la concretezza del nostro agire con e per i poveri. È una questione di giustizia che ci impegna tutti a cercarci e incontrarci reciprocamente, per favorire l’armonia necessaria affinché una comunità possa identificarsi come tale. Interessarsi dei poveri, quindi, non si esaurisce in frettolose elemosine; chiede di ristabilire le giuste relazioni interpersonali che sono state intaccate dalla povertà. In tal modo, “non distogliere lo sguardo dal povero” conduce a ottenere i benefici della misericordia, della carità che dà senso e valore a tutta la vita cristiana.
9. La nostra attenzione verso i poveri sia sempre segnata dal realismo evangelico. La condivisione deve corrispondere alle necessità concrete dell’altro, non a liberarmi del mio superfluo. Anche qui ci vuole discernimento, sotto la guida dello Spirito Santo, per riconoscere le vere esigenze dei fratelli e non le nostre aspirazioni. Ciò di cui sicuramente hanno urgente bisogno è la nostra umanità, il nostro cuore aperto all’amore. Non dimentichiamo: «Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro» (Evangelii gaudium, 198). La fede ci insegna che ogni povero è figlio di Dio e che in lui o in lei è presente Cristo: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).
10. Quest’anno ricorre il 150° anniversario della nascita di santa Teresa di Gesù Bambino. In una pagina della sua Storia di un’anima scrive così: «Ora capisco che la carità perfetta consiste nel sopportare i difetti altrui, non stupirsi assolutamente delle loro debolezze, edificarsi nei minimi atti di virtù che vediamo praticare, ma soprattutto ho capito che la carità non deve restare chiusa in fondo al cuore: “Nessuno, ha detto Gesù, accende una fiaccola per metterla sotto il moggio ma la si mette sul candeliere, affinché illumini tutti quelli che sono nella casa”. Mi sembra che questa fiaccola rappresenti la carità che deve illuminare, rallegrare non solo coloro che sono a me più cari, ma tutti coloro che sono nella casa, senza eccettuare nessuno» (Ms C, 12r°: Opere complete, Roma 1997, 247).
In questa casa che è il mondo, tutti hanno diritto a essere illuminati dalla carità, nessuno può esserne privato. La tenacia dell’amore di Santa Teresina possa ispirare i nostri cuori in questa Giornata Mondiale, ci aiuti a “non distogliere lo sguardo dal povero” e a mantenerlo sempre fisso sul volto umano e divino del Signore Gesù Cristo.
Roma, San Giovanni in Laterano, 13 giugno 2023, Memoria di Sant’Antonio di Padova, patrono dei poveri.
FRANCESCO
[00984-IT.01] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua francese
« Ne détourne ton visage d’aucun pauvre » (Tb 4, 7)
1. La Journée Mondiale des Pauvres, signe fécond de la miséricorde du Père, a lieu pour la septième fois afin de soutenir la marche de nos communautés. C’est un rendez-vous que l’Église enracine progressivement dans sa pastorale, pour découvrir toujours mieux le contenu central de l’Évangile. Chaque jour, nous sommes engagés dans l’accueil des pauvres, mais cela ne suffit pas. Un fleuve de pauvreté traverse nos villes et devient toujours plus grand jusqu’à déborder ; ce fleuve semble nous submerger si bien que le cri des frères et sœurs demandant de l’aide, du soutien et de la solidarité s’élève de plus en plus fort. C’est pourquoi, le dimanche qui précède la fête de Jésus Christ Roi de l’Univers, nous nous retrouvons autour de sa Table pour recevoir à nouveau de Lui le don et l’engagement de vivre la pauvreté et de servir les pauvres.
« Ne détourne ton visage d’aucun pauvre » (Tb 4, 7). Cette Parole nous aide à saisir l’essence de notre témoignage. Nous arrêter sur le Livre de Tobie, un texte peu connu de l’Ancien Testament, passionnant et riche de sagesse, nous permettra de mieux entrer dans le contenu que l’auteur sacré désire transmettre. Devant nous s’ouvre une scène de vie familiale : un père, Tobit, salue son fils, Tobie, qui est sur le point d’entreprendre un long voyage. Le vieux Tobit craint de ne plus pouvoir revoir son fils et c’est pourquoi il lui laisse son “testament spirituel”. Il a été déporté à Ninive et maintenant il est aveugle, donc doublement pauvre, mais il a toujours eu une certitude exprimée par le nom qu’il porte : “Le Seigneur a été mon bien”. Cet homme, qui a toujours fait confiance au Seigneur, en bon père, désire laisser à son fils non seulement quelque bien matériel, mais le témoignage du chemin à suivre dans la vie. C’est pourquoi il lui dit : « Chaque jour, mon enfant, souviens-toi du Seigneur. Garde-toi de pécher et de transgresser ses commandements. Fais ce qui est juste tous les jours de ta vie et ne marche pas dans les voies de l’injustice » (4, 5).
2. Comme on peut l’observer tout de suite, le souvenir que le vieux Tobit demande à son fils ne se limite pas à un simple acte de mémoire ou une prière à adresser à Dieu. Il fait référence à des gestes concrets qui consistent à accomplir de bonnes œuvres et à vivre avec justice. Cette exhortation se précise encore : « À tous ceux qui pratiquent la justice, fais l’aumône avec les biens qui t’appartiennent. Quand tu fais l’aumône, mon fils, n’aie aucun doute » (4, 7).
Les paroles de ce vieux sage sont trés étonnantes. N’oublions pas, en effet, que Tobit a perdu la vue précisément après avoir accompli un acte de miséricorde. Comme il le raconte lui-même, sa vie dès son plus jeune âge était consacrée à des œuvres de charité : « J’ai fait beaucoup d’aumônes à mes frères et aux gens de ma nation qui avaient été emmenés captifs avec moi au pays des Assyriens, à Ninive. […] Je donnais mon pain à ceux qui avaient faim et des vêtements à ceux qui étaient nus ; si je voyais le cadavre de quelqu’un de ma nation, jeté derrière le rempart de Ninive, je l’enterrais » (1, 3.17).
À cause de son témoignage de charité, le roi l’avait privé de tous ses biens, le rendant complètement pauvre. Mais le Seigneur avait encore besoin de lui. Ayant repris son poste d’administrateur, il n’a pas peur de persévérer dans son style de vie. Écoutons son récit qui, à nous aussi, parle aujourd’hui : « Lors de notre fête de la Pentecôte, qui est la sainte fête des Semaines, on me prépara un bon repas et je m’étendis pour le prendre. On plaça devant moi une table et on me servit quantité de petits plats. Alors je dis à mon fils Tobie : “Va, mon enfant, essaie de trouver parmi nos frères déportés à Ninive un pauvre qui se souvienne de Dieu de tout son cœur ; amène-le pour qu’il partage mon repas. Moi, mon enfant, j’attendrai que tu sois de retour.” » (2, 1-2). Comme il serait significatif qu’à l’occasion la Journée des Pauvres cette préoccupation de Tobit soit aussi la nôtre ! Inviter à partager le repas dominical après avoir partagé la Table eucharistique. L’Eucharistie célébrée deviendrait réellement critère de communion. Par ailleurs, si autour de l’autel du Seigneur nous sommes conscients d’être tous frères et sœurs, combien plus cette fraternité deviendrait visible en partageant le repas festif avec ceux qui sont privés du nécessaire !
Tobie fit ce que son père lui avait dit, mais il revint avec la nouvelle qu’un pauvre avait été tué et laissé au milieu de la place. Sans hésiter, le vieux Tobit se leva de table et alla enterrer cet homme. De retour chez lui fatigué, il s’endormit dans la cour ; la fiente d’oiseaux lui tomba dans les yeux et il devint aveugle (cf. 2,1-10). Ironie du sort : tu fais un geste de charité et il t’arrive un malheur ! On pourrait penser ainsi ; mais la foi nous enseigne à aller plus en profondeur. La cécité de Tobit deviendra sa force pour reconnaître encore mieux les nombreuses formes de pauvreté dont il était entouré. Et le Seigneur pourvoira en son temps à rendre au vieux père la vue et la joie de revoir son fils Tobie. Quand vint ce jour-là, « Tobit se jeta alors au cou de son fils et lui dit en pleurant : “Je te revois, mon enfant, toi, la lumière de mes yeux !” Et il ajouta : “Béni soit Dieu ! Béni soit son grand nom ! Bénis soient tous ses saints anges ! Que son grand nom soit sur nous ! Bénis soient tous les anges pour tous les siècles ! Car Dieu m’avait frappé, mais voici que je revois mon fils Tobie !” » (11, 13-14).
3. Nous pouvons nous demander : où est-ce que Tobit puise le courage et la force intérieure qui lui permettent de servir Dieu au milieu d’un peuple païen et d’aimer ainsi le prochain au risque de sa propre vie ? Nous sommes devant un exemple extraordinaire : Tobit est un époux fidèle et un père attentionné ; il a été déporté loin de sa terre et il souffre injustement ; il est persécuté par le roi et ses voisins... Bien qu’il soit bon cœur, il est mis à l’épreuve. Comme nous l’enseigne souvent l’Écriture sainte, Dieu n’épargne pas les épreuves à ceux qui œuvrent pour le bien. Pourquoi ? Il ne le fait pas pour nous humilier, mais pour affermir notre foi en Lui.
Tobit, au moment de l’épreuve, découvre sa propre pauvreté qui le rend capable de reconnaître les pauvres. Il est fidèle à la Loi de Dieu et observe les commandements, mais cela ne lui suffit pas. L’attention concrète envers les pauvres lui est possible parce qu’il a fait l’expérience de la pauvreté dans son corps. Par conséquent, les paroles qu’il adresse à son fils Tobie sont son véritable héritage : « Ne détourne ton visage d’aucun pauvre » (4, 7). En fait, lorsque nous sommes devant un pauvre, nous ne pouvons pas détourner le regard, parce que nous nous empêcherions de rencontrer le visage du Seigneur Jésus. Et nous remarquons bien cette expression « d’aucun pauvre ». Chacun d’eux est notre prochain. Peu importe la couleur de la peau, la condition sociale, la provenance... Si je suis pauvre, je peux reconnaître qui est vraiment le frère qui a besoin de moi. Nous sommes appelés à rencontrer tout pauvre et tout type de pauvreté, en secouant de nous l’indifférence et l’évidence avec lesquelles nous protégeons un bien-être illusoire.
4. Nous vivons un moment historique qui ne favorise pas l’attention envers les plus pauvres. Le volume de l’appel au bien-être s’élève de plus en plus, tandis que l’on impose le silence aux voix de ceux qui vivent dans la pauvreté. On a tendance à négliger tout ce qui ne rentre pas dans les modèles de vie destinés surtout aux plus jeunes générations, qui sont les plus fragiles face au changement culturel en cours. On met entre parenthèses ce qui est désagréable et qui cause de la souffrance, tout en exaltant les qualités physiques comme si elles étaient le but principal à atteindre. La réalité virtuelle prend le dessus sur la vie réelle et il est de plus en plus facile de confondre les deux mondes. Les pauvres deviennent des images qui peuvent émouvoir pendant quelques instants, mais quand on les rencontre en chair et en os dans la rue, la gêne et la marginalisation prennent place. La hâte, compagne quotidienne de vie, empêche de s’arrêter, de secourir et de prendre soin de l’autre. La parabole du bon samaritain (cf. Lc 10, 25-37) n’est pas un récit du passé, elle interpelle le présent de chacun de nous. Déléguer à d’autres est facile ; offrir de l’argent pour que d’autres fassent la charité est un geste généreux ; s’impliquer personnellement est la vocation de tout chrétien.
5. Remercions le Seigneur du fait que beaucoup d’hommes et de femmes se dévouent aux pauvres et aux exclus, et partagent avec eux ; des personnes de tous âges et de toutes conditions sociales qui pratiquent l’accueil et s’engagent aux côtés de ceux qui se trouvent dans des situations de marginalisation et de souffrance. Ce ne sont pas des surhommes, mais des “voisins” que nous rencontrons tous les jours et qui, dans le silence, se font pauvres avec les pauvres. Ils ne se contentent pas de donner quelque chose : ils écoutent, ils parlent, ils essaient de comprendre la situation et ses causes pour donner des conseils appropriés et des repères justes. Ils sont attentifs aux besoins matériels mais aussi spirituels, à la promotion intégrale de la personne. Le Royaume de Dieu est rendu présent et visible dans ce service généreux et gratuit ; il est vraiment comme la semence qui tombe dans la bonne terre de la vie de ces personnes et qui porte son fruit (cf. Lc 8, 4-15). La gratitude envers tant de volontaires doit se faire prière pour que leur témoignage soit fructueux.
6. À l’occasion du 60ème anniversaire de l’Encyclique Pacem in terris, il est urgent de reprendre les paroles du saint Pape Jean XXIII lorsqu'il écrivait : « Tout être humain a droit à la vie, à l'intégrité physique et aux moyens nécessaires et suffisants pour une existence décente, notamment en ce qui concerne l'alimentation, le vêtement, l'habitation, le repos, les soins médicaux, les services sociaux. Par conséquent, l'homme a droit à la sécurité en cas de maladie, d'invalidité, de veuvage, de vieillesse, de chômage et chaque fois qu'il est privé de ses moyens de subsistance par suite de circonstances indépendantes de sa volonté » (n. 6).
Que de chemin à parcourir pour que ces mots deviennent réalité, également à travers un engagement politique et législatif sérieux et efficace ! Malgré les limites et parfois les défaillances de la politique à voir et à servir le bien commun, puissent se développer la solidarité et la subsidiarité de nombre de citoyens qui croient en la valeur de l’engagement volontaire pour le service des pauvres. Il s’agit certes de stimuler et de faire pression pour que les institutions publiques remplissent bien leur devoir ; mais il ne sert à rien de rester passif en attendant de tout recevoir “d’en haut” : ceux qui vivent dans des conditions de pauvreté doivent elles aussi être impliquées et accompagnées dans un parcours de changement et de responsabilité.
7. Une fois de plus, malheureusement, nous devons constater de nouvelles formes de pauvreté qui s’ajoutent à celles déjà décrites ci-dessus. Je pense en particulier aux populations vivant dans des zones de guerre, notamment aux enfants privés d’un présent serein et d’un avenir digne. Personne ne pourra jamais s’habituer à cette situation ; maintenons vive toute tentative pour que la paix s’établisse comme don un du Seigneur ressuscité et le fruit de l’engagement pour la justice et le dialogue.
Je ne peux pas oublier les spéculations qui, dans différents secteurs, entraînent une augmentation dramatique des coûts qui rend de très nombreuses familles encore plus indigentes. Les salaires s’épuisent rapidement et entraînent des privations qui portent atteinte à la dignité de chaque personne. Si une famille doit choisir entre les aliments pour se nourrir et les médicaments pour se soigner, la voix de ceux qui réclament le droit aux deux biens doit être entendue, au nom de la dignité de la personne humaine.
Comment ne pas relever aussi le désordre éthique qui touche le monde du travail ? Le traitement inhumain réservé à nombre de travailleurs et de travailleuses ; le manque de rémunération proportionnée pour le travail accompli ; le fléau de la précarité ; les trop nombreuses victimes d’accidents, souvent dus à une mentalité qui préfère le profit immédiat au détriment de la sécurité... Les mots de saint Jean-Paul II nous reviennent à l’esprit : « Le premier fondement de la valeur du travail est l'homme lui-même. […] L'homme est destiné et est appelé au travail, le travail est avant tout “pour l’homme” et non l’homme “pour le travail” » (Enc. Laborem exercens, n. 6).
8. Cette liste, déjà dramatique en soi, ne rend que partiellement compte des situations de pauvreté qui font partie de notre quotidien. Je ne peux pas laisser de côté, en particulier, une forme de malaise qui se manifeste chaque jour davantage et qui touche le monde de la jeunesse. Combien de vies frustrées et même de suicides de jeunes, trompés par une culture qui les conduit à se sentir “non performants” et “ratés”. Aidons-les à réagir face à ces instigations néfastes, afin que chacun puisse trouver la voie à suivre pour acquérir une identité forte et généreuse.
Il est facile, en parlant des pauvres, de tomber dans la rhétorique. Il y a aussi une tentation insidieuse de s’arrêter aux statistiques et aux chiffres. Les pauvres sont des personnes, ils ont des visages, des histoires, des cœurs et des âmes. Ce sont des frères et des sœurs avec leurs mérites et leurs défauts, comme tout le monde, et il est important d’entrer dans une relation personnelle avec chacun d’entre eux.
Le livre de Tobie nous enseigne le caractère concret de notre action avec et pour les pauvres. C’est une question de justice qui nous engage tous à nous chercher et à nous rencontrer, pour favoriser l’harmonie nécessaire afin qu’une communauté puisse s’identifier comme telle. S’intéresser aux pauvres ne se limite donc pas à des aumônes hâtives, mais demande de rétablir les justes relations interpersonnelles qui ont été affectées par la pauvreté. Ainsi, “ne pas détourner les yeux des pauvres” permet d’obtenir les bénéfices de la miséricorde, de la charité qui donne sens et valeur à toute la vie chrétienne.
9. Que notre attention envers les pauvres soit toujours marquée par le réalisme évangélique. Le partage doit correspondre aux besoins concrets de l’autre, pas pour me débarrasser du superflu. Ici aussi, il faut du discernement, sous la conduite de l’Esprit Saint, pour reconnaître les véritables besoins de nos frères et non nos propres aspirations. Ce dont ils ont certainement besoin de toute urgence, c’est de notre humanité, de notre cœur ouvert à l’amour. N’oublions pas : « Nous sommes appelés à découvrir le Christ en eux, à prêter notre voix à leurs causes, mais aussi à être leurs amis, à les écouter, à les comprendre et à accueillir la mystérieuse sagesse que Dieu veut nous communiquer à travers eux » (Evangelii gaudium, n. 198). La foi nous enseigne que tout pauvre est un enfant de Dieu et que le Christ est présent en lui : « Chaque fois que vous l’avez fait à l’un de ces plus petits de mes frères, c’est à moi que vous l’avez fait » (Mt 25, 40).
10. Cette année marque le 150ème anniversaire de la naissance de sainte Thérèse de l’Enfant Jésus. Dans une page de son Histoire d’une âme, elle écrit : « Je comprends maintenant que la charité parfaite consiste à supporter les défauts des autres, à ne point s’étonner de leurs faiblesses, à s’édifier des plus petits actes de vertus qu’on leur voit pratiquer, mais surtout j’ai compris que la charité ne doit point rester enfermée dans le fond du cœur : “Personne, a dit Jésus, n’allume un flambeau pour le mettre sous le boisseau, mais on le met sur le chandelier, afin qu’il éclaire tous ceux qui sont dans la maison”. Il me semble que ce flambeau représente la charité qui doit éclairer, réjouir, non seulement ceux qui me sont les plus chers, mais tous ceux qui sont dans la maison, sans excepter personne » (Ms C, 12r° : Œuvres complètes, Rome 1997, 247).
Dans cette maison qu’est le monde, tous ont le droit d’être éclairés par la charité, personne ne peut en être privé. Que la ténacité de l’amour de sainte Thérèse inspire nos cœurs en cette Journée Mondiale, qu’elle nous aide à “ne pas détourner notre regard du pauvre” et à le maintenir toujours fixé sur le visage humain et divin du Seigneur Jésus-Christ.
Rome, Saint-Jean-de-Latran, 13 juin 2023, Mémoire de Saint-Antoine de Padoue, Patron des pauvres.
FRANÇOIS
[00984-FR.01] [Texte original: Italien]
Traduzione in lingua inglese
“Do not turn your face away from anyone who is poor” (Tob 4:7)
1. This, the seventh annual World Day of the Poor, is a fruitful sign of the Father’s mercy and a support for the lives of our communities. As its celebration becomes more and more rooted in the pastoral life of the Church, it enables us to discover ever anew the heart of the Gospel. Our daily efforts to welcome the poor are still not enough. A great river of poverty is traversing our cities and swelling to the point of overflowing; it seems to overwhelm us, so great are the needs of our brothers and sisters who plead for our help, support and solidarity. For this reason, on the Sunday before the Solemnity of Jesus Christ King of the Universe, we gather around his Table to receive from him once more the gift and strength to live lives of poverty and to serve the poor.
“Do not turn your face away from anyone who is poor” (Tob 4:7). These words help us to understand the essence of our witness. By reflecting on the Book of Tobit, a little-known text of the Old Testament, yet one that is charming and full of wisdom, we can better appreciate the message the sacred writer wished to communicate. We find ourselves before a scene of family life: a father, Tobit, embraces his son, Tobias, who is about to set out on a lengthy journey. The elderly Tobit fears that he will never again see his son, and so leaves him his “spiritual testament”. Tobit had been deported to Nineveh and is now blind, and thus doubly poor. At the same time, he remains always certain of one thing, expressed by his very name: “The Lord has been my good”. As a God-fearing man and a good father, he wants to leave his son not simply material riches, but the witness of the right path to follow in life. So he tells him: “Revere the Lord all your days, my son, and refuse to sin or to transgress his commandments. Live uprightly all the days of your life, and do not walk in the ways of wrongdoing” (4:5).
2. We see immediately that what the elderly Tobit asks of his son is not simply to think of God and to call upon him in prayer. He speaks of making concrete gestures, carrying out good works and practising justice. He goes on to state this even more clearly: “To all those who practice righteousness give alms from your possessions, and do not let your eye begrudge the gift when you make it” (4:7).
The words of this wise old man make us think. We are reminded that Tobit had lost his sight after having performed a work of mercy. As he himself tells us, from youth he had devoted his life to works of charity: “I performed many acts of charity for my kindred and my people who had gone with me in exile to Nineveh in the land of the Assyrians… I would give my food to the hungry and my clothing to the naked; and if I saw the dead body of any of my people thrown out behind the wall of Nineveh, I would bury it” (1:3.17).
For this act of charity, the king had deprived him of all his goods and reduced him to utter poverty. Still, the Lord had need of Tobit; once he regained his post as an official, he courageously continued to do as he had done. Let us hear his tale, which can also speak to us today. “At our festival of Pentecost, which is the sacred festival of weeks, a good dinner was prepared for me and I reclined to it. When the table was set for me and an abundance of food was placed before me, I said to my son Tobias, ‘Go, my child, and bring whatever poor person you may find of our people among the exiles of Nineveh, who is wholeheartedly mindful of God, and he shall eat together with me. I will wait for you, until you come back’” (2:1-2). How meaningful it would be if, on the Day of the Poor, this concern of Tobit were also our own! If we were to invite someone to share our Sunday dinner, after sharing in the Eucharistic table, the Eucharist we celebrate would truly become a mark of communion. If it is true that around the altar of the Lord we are conscious that we are all brothers and sisters, how much more visible would our fraternity be, if we shared our festive meal with those who are in need!
Tobias did as his father told him, but he returned with the news that a poor man had been murdered and thrown into the market place. Without hesitating, the elderly Tobit got up from the table and went to bury that man. Returning home exhausted, he fell asleep in the courtyard; some bird droppings fell on his eyes and he became blind (cf. 2:1-10). An irony of fate: no good deed goes unpunished! That is what we are tempted to think, but faith teaches us to go more deeply. The blindness of Tobit was to become his strength, enabling him to recognize even more clearly the many forms of poverty all around him. In due time, the Lord would give him back his sight and the joy of once more seeing his son Tobias. When that day came, we are told, “Tobit saw his son and threw his arms around him, and he wept and said to him, ‘I see you, my son, the light of my eyes!’ Then he said, ‘Blessed be God, and blessed be his great name, and blessed be all his holy angels. May his holy name be blessed throughout all the ages. Though he afflicted me, he has had mercy upon me. Now I see my son Tobias’” (11:13-14).
3. We may well ask where Tobit found the courage and the inner strength that enabled him to serve God in the midst of a pagan people and to love his neighbour so greatly that he risked his own life. That of Tobit is a remarkable story: a faithful husband and a caring father, he was deported far from his native land, where he suffered unjustly, persecuted by the king and mistreated by his neighbours. Despite being such a good man, he was put to the test. As sacred Scripture often teaches us, God does not spare trials to those who are righteous. Why? It is not to disgrace us, but to strengthen our faith in him.
Tobit, in his time of trial, discovers his own poverty, which enables him to recognize others who are poor. He is faithful to God’s law and keeps the commandments, but for him this is not enough. He can show practical concern for the poor because he has personally known what it is to be poor. His advice to Tobias thus becomes his true testament: “Do not turn your face away from anyone who is poor” (4:7). In a word, whenever we encounter a poor person, we cannot look away, for that would prevent us from encountering the face of the Lord Jesus. Let us carefully consider his words: “from anyone who is poor”. Everyone is our neighbour. Regardless of the colour of their skin, their social standing, the place from which they came, if I myself am poor, I can recognize my brothers or sisters in need of my help. We are called to acknowledge every poor person and every form of poverty, abandoning the indifference and the banal excuses we make to protect our illusory well-being.
4. We are living in times that are not particularly sensitive to the needs of the poor. The pressure to adopt an affluent lifestyle increases, while the voices of those dwelling in poverty tend to go unheard. We are inclined to neglect anything that varies from the model of life set before the younger generation, those who are most vulnerable to the cultural changes now taking place. We disregard anything that is unpleasant or causes suffering, and exalt physical qualities as if they were the primary goal in life. Virtual reality is overtaking real life, and increasingly the two worlds blend into one. The poor become a film clip that can affect us for a moment, yet when we encounter them in flesh and blood on our streets, we are annoyed and look the other way. Haste, by now the daily companion of our lives, prevents us from stopping to help care for others. The parable of the Good Samaritan (cf. Lk 10:25-37) is not simply a story from the past; it continues to challenge each of us in the here and now of our daily lives. It is easy to delegate charity to others, yet the calling of every Christian is to become personally involved.
5. Let us thank the Lord that so many men and women are devoted to caring for the poor and the excluded; they are persons of every age and social status who show understanding and readiness to assist the marginalized and those who suffer. They are not superheroes but “next door neighbours”, ordinary people who quietly make themselves poor among the poor. They do more than give alms: they listen, they engage, they try to understand and deal with difficult situations and their causes. They consider not only material but also spiritual needs; and they work for the integral promotion of individuals. The Kingdom of God becomes present and visible in their generous and selfless service; like the seed that falls on good soil, it takes root in their lives and bears rich fruit (cf. Lk 8:4-15). Our gratitude to these many volunteers needs to find expression in prayer that their testimony will increasingly prove fruitful.
6. On this, the sixtieth anniversary of the encyclical Pacem in Terris, we do well to take to heart the following words of Pope Saint John XXIII: “Every human being enjoys the right to life, to bodily integrity and to the means necessary for the proper development of life, including food, clothing, shelter, medical care, rest, and, finally, the necessary social services. In consequence, every individual has the right to be looked after in the event of ill health; disability stemming from work; widowhood and forced unemployment; as well as in other cases when, through no fault of his own, he or she is deprived of the means of livelihood” (ed. Carlen, No. 11).
How much still needs to be done for this to become a reality, not least through a serious and effective commitment on the part of political leaders and legislators! For all the limitations and at times the failures of politics in discerning and serving the common good, may the spirit of solidarity and subsidiarity continue to grow among citizens who believe in the value of voluntary commitment to serving the poor. Certainly there is a need to urge and even pressure public institutions to perform their duties properly, yet it is of no use to wait passively to receive everything “from on high”. Those living in poverty must also be involved and accompanied in a process of change and responsibility.
7. In addition, we must once more acknowledge new forms of poverty, as well as those described earlier. I think in particular of peoples caught up in situations of war, and especially children deprived of the serene present and a dignified future. We should never grow accustomed to such situations. Let us persevere in every effort to foster peace as a gift of the risen Lord and the fruit of a commitment to justice and dialogue.
Nor can we ignore those forms of speculation in various sectors, which have led to dramatic price increases that further impoverish many families. Earnings are quickly spent, forcing sacrifices that compromise the dignity of every person. If a family has to choose between food for nourishment and medical care, then we need to pay attention to the voices of those who uphold the right to both goods in the name of the dignity of the human person.
Then too how can we fail to note the ethical confusion present in the world of labour? The inhumane treatment meted out to many male and female laborers; inadequate pay for work done; the scourge of job insecurity; the excessive number of accident-related deaths, often the result of a mentality that chooses quick profit over a secure workplace… We are reminded of the insistence of Saint John Paul II that “the primary basis of the value of work is man himself… However true it may be that man is destined for work and called to it, in the first place, work is ‘for man’ and not man ‘for work’” (Laborem Exercens, 6).
8. This list, deeply troubling in itself, only partially accounts for the situations of poverty that are now part of our daily lives. I cannot fail to mention in particular an increasingly evident form of poverty that affects young people. How much frustration and how many suicides are being caused by the illusions created by a culture that leads young people to think that they are “losers”, “good for nothing”. Let us help them react to these malign influences and find ways to help them grow into self-assured and generous men and women.
When speaking of the poor, it is easy to fall into rhetorical excess. It is also an insidious temptation to remain at the level of statistics and numbers. The poor are persons; they have faces, stories, hearts and souls. They are our brothers and sisters, with good points and bad, like all of us, and it is important to enter into a personal relation with each of them.
The Book of Tobit teaches us to be realistic and practical in whatever we do with and for the poor. This is a matter of justice; it requires us to seek out and find one another, in order to foster the harmony needed for the community to feel itself as such. Caring for the poor is more than simply a matter of a hasty hand-out; it calls for reestablishing the just interpersonal relationships that poverty harms. In this way, “not turning our face away from anyone who is poor” leads us to enjoy the benefits of mercy and charity that give meaning and value to our entire Christian life.
9. May our concern for the poor always be marked by Gospel realism. Our sharing should meet the concrete needs of the other, rather than being just a means of ridding ourselves of superfluous goods. Here too, Spirit-led discernment is demanded, in order to recognize the genuine needs of our brothers and sisters and not our own personal hopes and aspirations. What the poor need is certainly our humanity, our hearts open to love. Let us never forget that “we are called to find Christ in them, to lend our voice to their causes, but also to be their friends, to listen to them, to speak for them and to embrace the mysterious wisdom which God wishes to share with us through them” (Evangelii Gaudium, 198). Faith teaches us that every poor person is a son or daughter of God and that Christ is present in them. “Just as you did it to one of the least of these who are members of my family, you did it to me” (Mt 25:40).
10. This year marks the 150th anniversary of the birth of Saint Therese of the Child Jesus. In a page of her autobiography, Story of a Soul, she tells us: “I have come to realize that perfect charity means putting up with other people’s faults, not being at all taken aback by their faults, being edified by the smallest acts of virtue that we see practised. But above all, I have come to realize that charity must not remain locked in the depths of one’s heart: ‘No one’, Jesus says, ‘lights a candle to put it under a bushel basket, but puts it on a candle-stand, so that it can give light to everyone in the house’. For me, that candle represents the charity that must give light and bring joy not only to those dearest to me, but to everyone in the house, with the exception of none” (Ms C, 12r°).
In this house of ours, which is the world, everyone has a right to experience the light of charity; no one must be deprived of that light. May the steadfast love of Saint Therese stir our hearts on this World Day of the Poor, and help us not to “turn our face away from anyone who is poor”, but to keep it always focused on the human and divine face of Jesus Christ our Lord.
Rome, Saint John Lateran, 13 June 2023, Memorial of St. Anthony of Padua, Patron of the Poor.
FRANCIS
[00984-EN.01] [Original text: Italian]
Traduzione in lingua tedesca
»Wende dein Angesicht von keinem Armen ab« (Tob 4,7)
1. Der Welttag der Armen, ein fruchtbares Zeichen der Barmherzigkeit des Vaters, findet zum siebten Mal statt, um den Weg unserer Gemeinschaften zu begleiten. Es ist ein Termin, den die Kirche nach und nach in ihrer pastoralen Arbeit verankert, um immer mehr den zentralen Inhalt des Evangeliums zu entdecken. Jeden Tag bemühen wir uns darum, uns der Armen anzunehmen, und doch reicht das nicht aus. Ein Strom von Armut durchzieht unsere Städte und wird immer größer, bis er über die Ufer tritt; dieser Strom scheint uns zu überfluten – der Schrei unserer Brüder und Schwestern, die um Hilfe, Unterstützung und Solidarität bitten, wird immer lauter. Deshalb versammeln wir uns am Sonntag vor dem Hochfest unseres Herrn Jesus Christus, des Königs des Weltalls, um seinen Tisch, um von ihm erneut das Geschenk und die Verpflichtung entgegenzunehmen, die Armut zu leben und den Armen zu dienen.
»Wende dein Angesicht von keinem Armen ab« (Tob 4,7). Dieses Wort hilft uns, das Wesen unseres Zeugnisses zu begreifen. Die Betrachtung des Buches Tobit, eines wenig bekannten alttestamentlichen Textes, der fesselnd und reich an Weisheit ist, mag uns helfen, den Inhalt, den der biblische Autor vermitteln will, besser zu verstehen. Wir sehen vor uns eine Szene aus dem Familienleben: Ein Vater, Tobit, nimmt von seinen Sohn Tobias Abschied, der sich auf eine lange Reise begeben wird. Der alte Tobit fürchtet, dass er seinen Sohn nie wiedersehen wird, und hinterlässt ihm deshalb sein „geistiges Testament“. Er war nach Ninive deportiert worden und ist nun blind, also doppelt arm, aber er hatte immer eine Gewissheit, die in seinem Namen zum Ausdruck kommt: „Der Herr ist gut“. Dieser Mann, der immer auf den Herrn vertraut hat, möchte als guter Vater seinem Sohn nicht so sehr etwas Materielles hinterlassen, sondern das Zeugnis des Weges, den er im Leben gehen soll, und so sagt er zu ihm: »Alle deine Tage, Kind, gedenke des Herrn! Hüte dich, zu sündigen und seine Gebote zu übertreten! Vollbringe alle Tage deines Lebens gerechte Taten und wandle nicht auf den Wegen des Unrechts!« (4,5).
2. Wie man sofort sieht, beschränkt sich das Gedenken, das der alte Tobit von seinem Sohn fordert, nicht auf einen einfachen Akt des Erinnerns oder ein an Gott zu richtendes Gebet. Er verweist auf konkrete Gesten, die darin bestehen, gute Werke zu tun und gerecht zu leben. Die Ermahnung wird sogar noch konkreter: »Tu für alle, die die Gerechtigkeit tun, Almosen aus dem, was du hast! Wende dein Angesicht von keinem Armen ab, dann wird sich Gottes Angesicht nicht von dir abwenden!« (4,6-7).
Die Worte dieses betagten Weisen verwundern nicht wenig. Vergessen wir nicht, dass Tobit sein Augenlicht gerade nach einem Werk der Barmherzigkeit verloren hat. Wie er selbst erzählt, war sein Leben von Jugend an Werken der Nächstenliebe gewidmet: »Viele Werke der Barmherzigkeit tat ich meinen Brüdern und meinem Volk, die mit mir in das Land der Assyrer nach Ninive in Gefangenschaft gegangen waren […] Mein Brot gab ich den Hungernden und Kleider den Nackten; und wann immer ich sah, dass jemand aus meinem Volk starb und hinter die Mauer von Ninive geworfen wurde, begrub ich ihn« (1,3.17).
Wegen dieses Zeugnisses der Nächstenliebe hatte ihm der König alle seine Güter genommen und ihn völlig verarmen lassen. Aber der Herr brauchte ihn immer noch; nachdem er sein Amt als Verwalter wieder aufgenommen hatte, fürchtete er sich nicht, seinen Lebensstil weiter beizubehalten. Hören wir seinen Bericht, der auch uns heute anspricht: »An unserem Pfingstfest, welches das heilige Fest der Sieben Wochen ist, wurde mir ein gutes Mahl bereitet. Und ich ließ mich nieder, um zu essen. Mir wurde der Tisch gerichtet und verschiedene Speisen wurden mir aufgetragen. Da sagte ich zu meinem Sohn Tobias: „Kind, geh, und wenn du unter unseren nach Ninive verschleppten Brüdern einen Armen findest, der mit ganzem Herzen des Herrn gedenkt, dann führe ihn hierher und er soll gemeinsam mit mir speisen. Siehe, ich werde auf dich warten, mein Kind, bis du kommst“« (2,1-2). Wie bedeutsam wäre es, wenn wir uns dieses Anliegen Tobits am Welttag der Armen zu eigen machen würden! Wenn wir dazu einladen würden, das sonntägliche Mittagessen miteinander zu teilen, nachdem wir den eucharistischen Tisch geteilt haben. Die Feier der Eucharistie würde wirklich zu einem Kriterium für Gemeinschaft werden. Wenn wir uns, um den Altar des Herrn versammelt, bewusst sind, dass wir alle Brüder und Schwestern sind, wie viel sichtbarer würde diese Geschwisterlichkeit werden, wenn wir das festliche Mahl mit denen teilten, denen es am Nötigsten fehlt!
Tobias tat, was sein Vater ihm gesagt hatte, kam aber mit der Nachricht zurück, dass ein armer Mann getötet und mitten auf dem Platz liegen gelassen worden war. Ohne zu zögern, stand der alte Tobit vom Tisch auf und ging, um den Mann zu begraben. Als er müde nach Hause kam, schlief er im Hof ein; Vogelkot fiel auf seine Augen und er erblindete (vgl. 2,1-10). Ironie des Schicksals: Du tust einen Akt der Nächstenliebe und dich trifft das Unglück! So mögen wir denken; doch der Glaube lehrt uns, tiefer zu gehen. Tobits Blindheit wird zu seiner Stärke, so dass er die vielen Formen der Armut um ihn herum noch besser erkennen kann. Und der Herr wird dem alten Vater zu gegebener Zeit das Augenlicht wiederschenken und die Freude, seinen Sohn Tobias wiederzusehen. Als dieser Tag kam, fiel Tobit »ihm um den Hals, er weinte und rief Tobias zu: „Ich kann dich wieder sehen, Kind, du Licht meiner Augen! Und er sagte: Gepriesen sei Gott! Gepriesen sei sein gewaltiger Name! Gepriesen seien alle seine heiligen Engel! Möge sein Name groß sein über uns! Und gepriesen seien alle Engel in alle Ewigkeit! Denn er hat mich gezüchtigt, aber jetzt sehe ich meinen Sohn Tobias wieder“« (11,13-14).
3. Wir können uns fragen: Woher hat Tobit den Mut und die innere Stärke, die ihn befähigen, inmitten eines heidnischen Volkes Gott zu dienen und seinen Nächsten so sehr zu lieben, dass er dafür sein eigenes Leben riskiert? Wir haben es mit einem außergewöhnlichen Beispiel zu tun: Tobit ist ein treuer Ehemann und ein fürsorglicher Vater; er wird weit weg aus seiner Heimat verschleppt und leidet zu Unrecht; er wird vom König und seinen eigenen Nachbarn verfolgt... Obwohl er so gutherzig ist, wird er auf die Probe gestellt. Wie uns die Heilige Schrift oft lehrt, verschont Gott diejenigen, die Gutes tun, nicht vor Prüfungen. Wie kommt das? Er tut dies nicht, um uns zu demütigen, sondern um unseren Glauben an ihn zu festigen.
Tobit entdeckt in der Zeit der Prüfung seine eigene Armut, die ihn fähig macht, die Armen zu erkennen. Er ist dem Gesetz Gottes treu und hält die Gebote, aber das reicht ihm nicht. Die aktive Sorge um die Armen ist ihm möglich, weil er die Armut am eigenen Leib erfahren hat. Deshalb sind die Worte, die er an seinen Sohn Tobias richtet, sein wahres Vermächtnis: »Wende dein Angesicht von keinem Armen ab« (4,7). Wenn wir also vor einem Armen stehen, dürfen wir unsere Augen nicht abwenden, denn wir würden uns selbst daran hindern, dem Antlitz des Herrn Jesus zu begegnen. Und achten wir gut auf die Formulierung »von keinem Armen«. Jeder ist unser Nächster, unabhängig von der Hautfarbe, dem sozialen Status, der Herkunft... Wenn ich arm bin, kann ich erkennen, wer wirklich der Bruder ist, der mich braucht. Wir sind aufgerufen, jedem Armen und jeder Art von Armut zu begegnen und die Gleichgültigkeit und Selbstverständlichkeit abzuschütteln, mit denen wir unser illusorisches Wohlergehen abschirmen.
4. Wir leben in einem geschichtlichen Moment, in dem die Aufmerksamkeit für die Ärmsten nicht gefördert wird. Der Ruf nach Wohlstand wird immer lauter, während die Stimmen derer, die in Armut leben, mit einem Schalldämpfer versehen werden. Man tendiert dazu, alles zu übergehen, was nicht in die Lebensmodelle passt, die insbesondere für die jüngeren Generationen gedacht sind, die dem gegenwärtig stattfindenden kulturellen Wandel am schutzlosesten gegenüberstehen. Was unangenehm ist und Leid verursacht, wird ausgeklammert, während körperliche Qualitäten so hochgehalten werden, als wären sie das wichtigste Ziel, das es zu erreichen gilt. Die virtuelle Realität löst das reale Leben ab, und immer leichter passiert es, dass man die beiden Welten verwechselt. Die Armen werden zu Bildern, die einen für einige Augenblicke berühren, aber wenn man ihnen in Fleisch und Blut auf der Straße begegnet, stört man sich an ihnen und grenzt sie aus. Die Hektik, die tägliche Begleiterin des Lebens, verhindert, dass man innehält, dem anderen hilft und sich um ihn kümmert. Das Gleichnis vom barmherzigen Samariter (vgl. Lk 10,25-37) ist keine Erzählung aus der Vergangenheit, sondern stellt die Gegenwart eines jeden von uns in Frage. Es ist leicht, an andere zu delegieren; es ist eine großzügige Geste, anderen Geld für ihr karitatives Handeln zu geben; es ist die Berufung eines jeden Christen, sich persönlich zu einzubringen.
5. Danken wir dem Herrn, dass es so viele Männer und Frauen gibt, die sich den Armen und Ausgegrenzten widmen und mit ihnen teilen: Menschen jeden Alters und jeder sozialen Schicht, die sich derer annehmen und sich für diejenigen einsetzen, die am Rande stehen und leiden. Das sind keine Übermenschen, sondern „Nachbarn“, denen wir jeden Tag begegnen und die sich im Stillen mit den Armen selbst zu Armen machen. Sie beschränken sich nicht darauf etwas zu geben: Sie hören zu, treten in Dialog, versuchen, die Situation und ihre Ursachen zu verstehen, um angemessene Ratschläge und richtige Empfehlungen zu geben. Sie achten auf die materiellen, aber auch auf die geistigen Bedürfnisse, auf die ganzheitliche Förderung des Menschen. Das Reich Gottes wird in diesem großzügigen und unentgeltlichen Dienst gegenwärtig und sichtbar; es ist wirklich wie der Same, der in den guten Boden des Lebens dieser Menschen fällt und seine Frucht bringt (vgl. Lk 8,4-15). Die Dankbarkeit gegenüber den vielen Freiwilligen möge zum Gebet werden, auf dass ihr Zeugnis fruchtbar sei.
6. Am 60. Jahrestag der Enzyklika Pacem in terris ist es dringend geboten, die Worte des heiligen Papstes Johannes XXIII. aufzugreifen, der schrieb, »dass der Mensch das Recht auf Leben hat, auf die Unversehrtheit des Leibes sowie auf die geeigneten Mittel zu angemessener Lebensführung. Dazu gehören Nahrung, Kleidung, Wohnung, Erholung, ärztliche Behandlung und die notwendigen Dienste, um die sich der Staat gegenüber den einzelnen kümmern muss. Daraus folgt auch, dass der Mensch ein Recht auf Beistand hat im Falle von Krankheit, Invalidität, Verwitwung, Alter, Arbeitslosigkeit oder wenn er ohne sein Verschulden sonst der zum Leben notwendigen Dinge entbehren muss« (Nr. 6).
Wie viel Arbeit liegt noch vor uns, damit diese Worte Wirklichkeit werden, auch durch ein ernsthaftes und wirksames Bemühen in der Politik und in der Gesetzgebung! Möge sich trotz der Grenzen und manchmal des Versagens der Politik – wenn es darum geht, das Gemeinwohl zu sehen und ihm zu dienen – die Solidarität und Subsidiarität vieler Bürger entwickeln, die an den Wert des ehrenamtlichen Engagements für die Armen glauben. Sicherlich geht es darum, Anregungen zu geben und Druck zu machen, damit die öffentlichen Einrichtungen ihre Pflicht gut erfüllen; aber es hat keinen Sinn, passiv zu bleiben und darauf zu warten, dass alles „von oben“ kommt: Die in Armut Lebenden müssen ebenfalls einbezogen und in einem Prozess der Veränderung und Verantwortungsübernahme begleitet werden.
7. Leider müssen wir wieder einmal feststellen, dass zu den bereits beschriebenen Formen der Armut neue hinzukommen. Ich denke dabei insbesondere an die Bevölkerung in Kriegsgebieten, vor allem an die Kinder, die einer unbeschwerten Gegenwart und einer würdigen Zukunft beraubt sind. Niemand wird sich jemals an diese Situation gewöhnen können; versuchen wir weiterhin alles, damit sich der Friede als Geschenk des auferstandenen Herrn und als Frucht des Einsatzes für Gerechtigkeit und Dialog behaupten kann.
Ich kann die Spekulationen nicht auslassen, die in verschiedenen Bereichen zu einem dramatischen Anstieg der Kosten führen, wodurch viele Familien noch ärmer werden. Die Löhne sind schnell aufgebraucht und zwingen die Menschen zu Entbehrungen, die die Würde eines jeden Menschen beeinträchtigen. Wenn eine Familie zwischen Nahrungsmitteln für die Ernährung und Medikamenten für die Behandlung wählen muss, dann müssen sich diejenigen zu Wort melden, die im Namen der Menschenwürde das Recht auf beide Güter fordern.
Man kann des Weiteren nicht umhin, auch auf die ethischen Missstände in der Arbeitswelt hinzuweisen. Die unmenschliche Behandlung vieler Arbeitnehmer und Arbeitnehmerinnen, die unzureichende Entlohnung für die geleistete Arbeit, die Geißel der prekären Arbeitsverhältnisse, die zu vielen Opfer von Arbeitsunfällen, die oft einer Mentalität geschuldet sind, die den unmittelbaren Profit auf Kosten der Sicherheit bevorzugt... Da denkt man an die Worte des heiligen Johannes Paul II: »Die erste Grundlage für den Wert der Arbeit [ist] der Mensch selbst […] So wahr es auch ist, dass der Mensch zur Arbeit bestimmt und berufen ist, so ist doch in erster Linie die Arbeit für den Menschen da und nicht der Mensch für die Arbeit« (Enzyklika Laborem exercens, 6).
8. Diese an sich schon dramatische Auflistung gibt nur einen Teil der Armutssituationen wieder, die zu unserem täglichen Leben gehören. Ich kann insbesondere eine Form des Missstands nicht unerwähnt lassen, die jeden Tag deutlicher zutage tritt und die die Welt der Jugend betrifft. Wie viel Frustration und sogar Selbstmorde gibt es bei den jungen Menschen, die von einer Kultur getäuscht werden, die sie dazu bringt, sich als „unfähig“ und „gescheitert“ zu fühlen. Helfen wir ihnen, auf diese unheilvollen Impulse zu reagieren, damit jeder den Weg zur Erlangung einer starken und großmütigen Persönlichkeit finden kann.
Wenn man von den Armen spricht, verfällt man leicht in Phrasendrescherei. Eine tückische Versuchung ist es auch, bei Statistiken und Zahlen stehen zu bleiben. Die Armen sind Menschen, sie haben Gesichter, Geschichten, Herzen und Seelen. Sie sind Brüder und Schwestern mit ihren Vorzügen und Fehlern, wie alle anderen auch, und es ist wichtig, mit einem jedem von ihnen in eine persönliche Beziehung einzutreten.
Das Buch Tobit lehrt uns die Konkretheit unseres Handelns mit und für die Armen. Es ist eine Frage der Gerechtigkeit, die uns alle dazu verpflichtet, einander zu suchen und zu begegnen, um die Harmonie zu fördern, die notwendig ist, damit eine Gemeinschaft zu einer Gemeinschaft wird. Das Interesse an den Armen erschöpft sich also nicht im eiligen Almosengeben, sondern erfordert die Wiederherstellung der rechten zwischenmenschlichen Beziehungen, die durch die Armut beschädigt wurden. Das „Sich von keinem Armen abwenden“ führt auf diese Weise dazu, dass einem der Segen der Barmherzigkeit, der Nächstenliebe, zuteilwird, die dem ganzen christlichen Leben Sinn und Wert verleiht.
9. Unsere Aufmerksamkeit für die Armen soll immer von einem evangeliumsgemäßen Realismus geprägt sein. Das Teilen muss den konkreten Bedürfnissen des Anderen entsprechen, es geht nicht darum, dass ich Überflüssiges loswerde. Auch hier bedarf es der Unterscheidung, unter der Führung des Heiligen Geistes, damit wir die wahren Bedürfnisse unserer Brüder und Schwestern erkennen, und nicht unsere eigenen Bestrebungen. Was sie sicherlich dringend brauchen, ist unsere Mitmenschlichkeit, unser für die Liebe offenes Herz. Vergessen wir nicht: »Wir sind aufgerufen, Christus in ihnen zu entdecken, uns zu Wortführern ihrer Interessen zu machen, aber auch ihre Freunde zu sein, sie anzuhören, sie zu verstehen und die geheimnisvolle Weisheit anzunehmen, die Gott uns durch sie mitteilen will« (Evangelii gaudium, 198). Der Glaube lehrt uns, dass jeder Arme ein Kind Gottes ist und dass Christus in ihm oder ihr gegenwärtig ist: »Was ihr für einen meiner geringsten Brüder getan habt, das habt ihr mir getan« (Mt 25,40).
10. In diesem Jahr wird der 150. Jahrestag der Geburt der heiligen Therese vom Kinde Jesu begangen. Auf einer Seite ihrer Geschichte einer Seele schreibt sie: »Jetzt verstehe ich, dass die vollkommene Nächstenliebe darin besteht, die Fehler der anderen zu ertragen, sich über ihre Schwächen keinesfalls zu wundern, sich an den kleinsten Tugenden zu erbauen, die wir sie praktizieren sehen, aber vor allem habe ich verstanden, dass die Nächstenliebe nicht im Grunde des Herzens verschlossen bleiben darf: „Niemand, sagte Jesus, zündet ein Licht an, um es unter einen Scheffel zu stellen, sondern stellt es auf den Leuchter, damit es alle im Haus erleuchtet“. Mir scheint, dass dieses Licht für die Nächstenliebe steht, die nicht nur diejenigen erleuchten und aufmuntern soll, die mir am Herzen liegen, sondern alle, die im Haus sind, ohne jemanden auszuschließen» (Ms C, 12r).
In diesem Haus, das die Welt ist, hat jeder das Recht, von der Nächstenliebe erleuchtet zu werden, niemand kann davon ausgeschlossen werden. Möge die unermüdliche Liebe der heiligen Theresia unsere Herzen an diesem Welttag inspirieren und uns helfen, „das Angesicht nicht vom Armen abzuwenden“ und es immer dem menschlichen und göttlichen Antlitz unseres Herrn Jesus Christus zuzuwenden.
Rom, Sankt Johannes im Lateran, 13. Juni 2023, Gedenktag des heiligen Antonius von Padua, Patron der Armen.
FRANZISKUS
[00984-DE.01] [Originalsprache: Italienisch]
Traduzione in lingua spagnola
«No apartes tu rostro del pobre» (Tb 4,7)
1. La Jornada Mundial de los Pobres, signo fecundo de la misericordia del Padre, llega por séptima vez para apoyar el camino de nuestras comunidades. Es una cita que la Iglesia va arraigando poco a poco en su pastoral, para descubrir cada vez más el contenido central del Evangelio. Cada día nos comprometemos a acoger a los pobres, pero esto no basta. Un río de pobreza atraviesa nuestras ciudades y se hace cada vez más grande hasta desbordarse; ese río parece arrastrarnos, tanto que el grito de nuestros hermanos y hermanas que piden ayuda, apoyo y solidaridad se hace cada vez más fuerte. Por eso, el domingo anterior a la fiesta de Jesucristo, Rey del Universo, nos reunimos en torno a su Mesa para recibir de Él, una vez más, el don y el compromiso de vivir la pobreza y de servir a los pobres.
«No apartes tu rostro del pobre» (Tb 4,7). Esta Palabra nos ayuda a captar la esencia de nuestro testimonio. Detenernos en el Libro de Tobías, un texto poco conocido del Antiguo Testamento, fascinante y rico en sabiduría, nos permitirá adentrarnos mejor en lo que el autor sagrado desea transmitir. Ante nosotros se despliega una escena de la vida familiar: un padre, Tobit, despide a su hijo Tobías, que está a punto de emprender un largo viaje. El anciano teme no volver a ver a su hijo y por ello le deja su “testamento espiritual”. Tobit había sido deportado a Nínive y se había quedado ciego, por lo que era doblemente pobre, pero siempre había tenido una certeza, expresada en el nombre que lleva: “El Señor ha sido mi bien”. Este hombre, que siempre confió en el Señor, como buen padre no desea tanto dejarle a su hijo algún bien material, cuanto el testimonio del camino a seguir en la vida, por eso le dice: «Acuérdate del Señor todos los días de tu vida, hijo mío, y no peques deliberadamente ni quebrantes sus mandamientos. Realiza obras de justicia todos los días de tu vida y no sigas los caminos de la injusticia» (4,5).
2. Como se puede apreciar inmediatamente, lo que el anciano Tobit pide a su hijo que recuerde no se limita a un simple acto de memoria o a una oración dirigida a Dios. Se refiere a gestos concretos que consisten en hacer buenas obras y vivir con justicia. La exhortación se hace aún más específica: a todos los que practican la justicia, «da lismona de tus bienes y no lo hagas de mala gana» (4,7).
Las palabras de este sabio anciano no dejan de sorprendernos. En efecto, no olvidemos que Tobit había perdido la vista precisamente después de realizar un acto de misericordia. Como él mismo cuenta, su vida desde joven estuvo dedicada a hacer obras de caridad: «Hice muchas lismosnas a mis hermanos y a mis compatriotas deportados conmigo a Nínive, en el país de los Asirios. [...] Daba mi pan a los hambrientos, vestía a los que estaban desnudos y enterraba a mis compatriotas, cuando veía que sus cadáveres eran arrojados por encima de las murallas de Nínive» (1,3.17).
Por su testimonio de caridad, el rey lo había privado de todos sus bienes, dejándolo completamente pobre. Pero el Señor aún lo necesitaba; habiendo recuperado su puesto como administrador, no tuvo miedo de continuar con su estilo de vida. Escuchemos su relato, que también nos habla hoy a nosotros: «En nuestra fiesta de Pentecostés, que es la santa fiesta de las siete Semanas, me prepararon una buena comida y yo me dispuse a comer. Cuando me encontré con la mesa llena de manjares, le dije a mi hijo Tobías: “Hijo mío, ve a buscar entre nuestros hermanos deportados en Nínive a algún pobre que se acuerde de todo corazón del Señor, y tráelo para que comparta mi comida. Yo esperaré hasta que tú vuelvas”» (2,1-2). Sería muy significativo si, en la Jornada de los Pobres, esta preocupación de Tobit fuera también la nuestra. Invitar a compartir el almuerzo dominical, después de haber compartido la Mesa eucarística. La Eucaristía celebrada sería realmente criterio de comunión. Por otra parte, si en torno al altar somos conscientes de que todos somos hermanos y hermanas, ¡cuánto más visible sería esta fraternidad compartiendo la comida festiva con quien carece de lo necesario!
Tobías hizo como le había dicho su padre, pero regresó con la noticia de que habían asesinado a un pobre y lo habían abandonado en medio de la plaza. Sin vacilar, el anciano Tobit se levantó de la mesa y fue a enterrar a aquel hombre. Al volver a su casa, cansado, se durmió en el patio; sobre los ojos le cayó estiércol de unos pájaros y se quedó ciego (cf. 2,1-10). Ironía de la suerte: haces un gesto de caridad y te sucede una desgracia. El hecho nos lleva a pensar así; pero la fe nos enseña a ir más en profundidad. La ceguera de Tobit será su fuerza para reconocer aún mejor las numerosas formas de pobreza que le rodeaban. Y el Señor se encargará a su tiempo de restituir al anciano padre la vista y la alegría de volver a ver a su hijo Tobías. Cuando llegó ese día, Tobit «lo abrazó llorando y le dijo: “¡Te veo, hijo mío, luz de mis ojos!”. Y añadió: “¡Bendito sea Dios! ¡Bendito sea su gran Nombre! ¡Benditos sean todos sus santos ángeles! ¡Que su gran Nombre esté sobre nosotros! Benditos sean los ángeles por todos los siglos! Porque él me había herido, pero […] ahora veo a mi hijo Tobías”» (11,13-15).
3. Podemos preguntarnos: ¿de dónde le vienen a Tobit la valentía y la fuerza interior que le permiten servir a Dios en medio de un pueblo pagano y de amar al prójimo hasta el punto de poner en peligro su propia vida? Estamos frente a un ejemplo extraordinario: Tobit era un esposo fiel y un padre atento; fue deportado lejos de su tierra y sufría injustamente; fue perseguido por el rey y por sus vecinos. A pesar de tener un alma tan buena, fue puesto a prueba. Como a menudo nos enseña la Sagrada Escritura, Dios no les evita las pruebas a los que hacen el bien. ¿Cómo es posible? No lo hace para humillarnos, sino para afianzar nuestra fe en Él.
Tobit, en el momento de la prueba, descubre su propia pobreza, que lo hace capaz de reconocer a los pobres. Es fiel a la Ley de Dios y observa los mandamientos, pero esto no le es suficiente. La atención efectiva hacia los pobres le era posible porque había experimentado la pobreza en su propia carne. Por lo tanto, las palabras que dirige a su hijo Tobías son su auténtica herencia: «No apartes tu rostro de ningún pobre» (4,7). En definitiva, cuando estamos ante un pobre no podemos volver la mirada hacia otra parte, porque eso nos impedirá encontrarnos con el rostro del Señor Jesús. Y fijémonos bien en esa expresión «de ningún pobre». Cada uno de ellos es nuestro prójimo. No importa el color de la piel, la condición social, la procedencia. Si soy pobre, puedo reconocer quién es el hermano que realmente me necesita. Estamos llamados a encontrar a cada pobre y a cada tipo de pobreza, sacudiendo de nosotros la indiferencia y la banalidad con las que escudamos un bienestar ilusorio.
4. Vivimos un momento histórico que no favorece la atención hacia los más pobres. La llamada al bienestar sube cada vez más de volumen, mientras las voces del que vive en la pobreza se silencian. Se tiende a descuidar todo aquello que no forma parte de los modelos de vida destinados sobre todo a las generaciones más jóvenes, que son las más frágiles frente al cambio cultural en curso. Lo que es desagradable y provoca sufrimiento se pone entre paréntesis, mientras que las cualidades físicas se exaltan, como si fueran la principal meta a alcanzar. La realidad virtual se apodera de la vida real y los dos mundos se confunden cada vez más fácilmente. Los pobres se vuelven imágenes que pueden conmover por algunos instantes, pero cuando se encuentran en carne y hueso por la calle, entonces intervienen el fastidio y la marginación. La prisa, cotidiana compañera de la vida, impide detenerse, socorrer y hacerse cargo de los demás. La parábola del buen samaritano (cf. Lc 10,25-37) no es un relato del pasado, interpela el presente de cada uno de nosotros. Delegar en otros es fácil; ofrecer dinero para que otros hagan caridad es un gesto generoso; la vocación de todo cristiano es implicarse en primera persona.
5. Agradecemos al Señor porque son muchos los hombres y mujeres que viven entregados a los pobres y a los excluidos y que comparten con ellos; personas de todas las edades y condiciones sociales que practican la acogida y se comprometen junto a aquellos que se encuentran en situaciones de marginación y sufrimiento. No son súper-hombres, sino “vecinos de casa” que encontramos cada día y que en el silencio se hacen pobres y con los pobres. No se limitan a dar algo; escuchan, dialogan, intentan comprender la situación y sus causas, para dar consejos adecuados y referencias justas. Están atentos a las necesidades materiales y también espirituales, a la promoción integral de la persona. El Reino de Dios se hace presente y visible en este servicio generoso y gratuito; es realmente como la semilla caída en la tierra buena de estas personas que da fruto (cf. Lc 8,4-15). La gratitud hacia tantos voluntarios pide hacerse oración para que su testimonio pueda ser fecundo.
6. En el 60 aniversario de la Encíclica Pacem in terris, es urgente retomar las palabras del santo Papa Juan XXIII cuando escribía: «Observamos que [el hombre] tiene un derecho a la existencia, a la integridad corporal, a los medios necesarios para un decoroso nivel de vida, cuales son, principalmente, el alimento, el vestido, la vivienda, el descanso, la asistencia médica y, finalmente, los servicios indispensables que a cada uno debe prestar el Estado. De lo cual se sigue que el hombre posee también el derecho a la seguridad personal en caso de enfermedad, invalidez, viudedad, vejez, paro y, por último, cualquier otra eventualidad que le prive, sin culpa suya, de los medios necesarios para su sustento» (n. 11).
Cuánto trabajo tenemos todavía por delante para que estas palabras se hagan realidad, también por medio de un serio y eficaz compromiso político y legislativo. Que pueda desarrollarse la solidaridad y la subsidiariedad de tantos ciudadanos que creen en el valor del compromiso voluntario de entrega a los pobres, no obstante los límites y en ocasiones las deficiencias de la política en ver y servir al bien común. Se trata ciertamente de estimular y hacer presión para que las instituciones públicas cumplan bien su deber; pero no sirve permanecer pasivos en espera de recibir todo “desde lo alto”; quienes viven en condiciones de pobreza también han de ser implicados y acompañados en un proceso de cambio y de responsabilidad.
7. Lamentablemente, debemos constatar una vez más nuevas formas de pobreza que se suman a las que se han descrito anteriormente. Pienso de modo particular en las poblaciones que viven en zonas de guerra, especialmente en los niños privados de un presente sereno y de un futuro digno. Nadie podrá acostumbrarse jamás a esta situación; mantengamos vivo cada intento para que la paz se afirme como don del Señor Resucitado y fruto del compromiso por la justicia y el diálogo.
Tampoco puedo olvidar las especulaciones que, en diversos sectores, llevan a un dramático aumento de los costes que vuelven a muchísimas familias aún más indigentes. Los salarios se acaban rápidamente, obligando a privaciones que atentan contra la dignidad de las personas. Si en una familia se debe elegir entre la comida para subsistir y las medicinas para recuperar la salud, entonces debe hacerse escuchar la voz del que reclama el derecho de ambos bienes, en nombre de la dignidad de la persona humana.
¿Cómo no llamar la atención, además, sobre el el desorden ético que marca el mundo del trabajo? El trato deshumano que se reserva a tantos trabajadores y trabajadoras; la retribución que no corresponde al trabajo realizado; el flagelo de la precariedad; las excesivas víctimas de accidentes, provocadas a menudo por una mentalidad que prefiere el beneficio inmediato en detrimento de la seguridad. Vuelven a la mente las palabras de san Juan Pablo II: «El primer fundamento del valor del trabajo es el hombre mismo. […] El hombre está destinado y llamado al trabajo; pero, ante todo, el trabajo está “en función del hombre” y no el hombre “en función del trabajo”» (Carta enc. Laborem exercens, 6).
8. Esta enumeración, ya de por sí dramática, describe sólo parcialmente las situaciones de pobreza que forman parte de nuestra cotidianidad. No puedo pasar por alto, en particular, un modo de sufrimiento que cada día es más evidente y que afecta al mundo juvenil. Cuántas vidas frustradas e incluso suicidios de jóvenes, engañados por una cultura que los lleva a sentirse “incompletos” y “fracasados”. Ayudémosles a reaccionar ante estas instigaciones nefastas, para que cada uno pueda encontrar el camino a seguir para adquirir una identidad fuerte y generosa.
Es fácil, hablando de los pobres, caer en la retórica. También es una tentación insidiosa la de quedarse en las estadísticas y en los números. Los pobres son personas, tienen rostros, historias, corazones y almas. Son hermanos y hermanas con sus cualidades y defectos, como todos, y es importante entrar en una relación personal con cada uno de ellos.
El Libro de Tobías nos enseña cómo actuar de forma concreta con y por los pobres. Es una cuestión de justicia que nos compromete a todos a buscarnos y encontrarnos recíprocamente, para favorecer la armonía necesaria, de modo que una comunidad pueda identificarse como tal. Por tanto, el interés por los pobres no se agota en limosnas apresuradas; exige restablecer las justas relaciones interpersonales que han sido afectadas por la pobreza. De ese modo, “no apartar el rostro del pobre” conduce a obtener los beneficios de la misericordia, de la caridad que da sentido y valor a toda la vida cristiana.
9. Nuestra atención hacia los pobres siempre está marcada por el realismo evangélico. Lo que se comparte debe responder a las necesidades concretas de los demás, no se trata de liberarse de lo superfluo. También en esto es necesario el discernimiento, bajo la guía del Espíritu Santo, para reconocer las verdaderas exigencias de los hermanos y no nuestras propias aspiraciones. Lo que de seguro necesitan con mayor urgencia es nuestra humanidad, nuestro corazón abierto al amor. No lo olvidemos: «Estamos llamados a descubrir a Cristo en ellos, a prestarles nuestra voz en sus causas, pero también a ser sus amigos, a escucharlos, a interpretarlos y a recoger la misteriosa sabiduría que Dios quiere comunicarnos a través de ellos» (Exhort. ap. Evangelii gaudium, 198). La fe nos enseña que cada uno de los pobres es hijo de Dios y que en él o en ella está presente Cristo: «Cada vez que lo hicieron con el más pequeño de mis hermanos, lo hicieron conmigo» (Mt 25,40).
10. Este año se conmemora el 150 aniversario del nacimiento de santa Teresa del Niño Jesús. En una página de su Historia de un alma escribió: «Sí, ahora comprendo que la caridad perfecta consiste en soportar los defectos de los demás, en no extrañarse de sus debilidades, en edificarse de los más pequeños actos de virtud que les veamos practicar. Pero, sobre todo, comprendí que la caridad no debe quedarse encerrada en el fondo del corazón: Nadie, dijo Jesús, enciende una lámpara para meterla debajo del celemín, sino para ponerla en el candelero y que alumbre a todos los de la casa. Yo pienso que esa lámpara representa a la caridad, que debe alumbrar y alegrar, no sólo a los que me son más queridos, sino a todos los que están en la casa, sin exceptuar a nadie» (Ms C, 12r°: Obras completas, Burgos 2006, 287-288).
En esta casa que es el mundo, todos tienen derecho a ser iluminados por la caridad, nadie puede ser privado de ella. Que la perseverancia del amor de santa Teresita pueda inspirar nuestros corazones en esta Jornada Mundial, que nos ayude a “no apartar el rostro del pobre” y a mantener nuestra mirada siempre fija en la faz humana y divina de nuestro Señor Jesucristo.
Roma, San Juan de Letrán, 13 de junio de 2023, Memoria de san Antonio de Padua, patrono de los pobres.
FRANCISCO
[00984-ES.01] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua portoghese
«Nunca afastes de algum pobre o teu olhar» (Tb 4, 7)
1. O Dia Mundial dos Pobres, sinal fecundo da misericórdia do Pai, vem pela sétima vez alentar o caminho das nossas comunidades. Trata-se duma ocorrência que se está a radicar progressivamente na pastoral da Igreja, fazendo-a descobrir cada vez mais o conteúdo central do Evangelho. Empenhamo-nos todos os dias no acolhimento dos pobres, mas não basta; a pobreza permeia as nossas cidades como um rio que engrossa sempre mais até extravasar; e parece submergir-nos, pois o grito dos irmãos e irmãs que pedem ajuda, apoio e solidariedade ergue-se cada vez mais forte. Por isso, no domingo que antecede a festa de Jesus Cristo, Rei do Universo, reunimo-nos ao redor da sua Mesa para voltar a receber d’Ele o dom e o compromisso de viver a pobreza e servir os pobres.
«Nunca afastes de algum pobre o teu olhar» (Tb 4, 7). Esta recomendação ajuda-nos a compreender a essência do nosso testemunho. Deter-se no Livro de Tobite, um texto pouco conhecido do Antigo Testamento, eloquente e cheio de sabedoria, permitir-nos-á penetrar melhor no conteúdo que o autor sagrado deseja transmitir. Abre-se diante de nós uma cena de vida familiar: um pai, Tobite, despede-se do filho, Tobias, que está prestes a iniciar uma longa viagem. O velho Tobite teme não voltar a ver o filho e, por isso, deixa-lhe o seu «testamento espiritual». Foi deportado para Nínive e agora está cego; é, por conseguinte, duplamente pobre, mas sempre viveu com a certeza que o próprio nome exprime: «O Senhor foi o meu bem». Este homem que sempre confiou no Senhor, deseja, como um bom pai, deixar ao filho não tanto bens materiais, mas sobretudo o testemunho do caminho que há de seguir na vida. Por isso diz-lhe: «Lembra-te sempre, filho, do Senhor, nosso Deus, em todos os teus dias, evita o pecado e observa os seus mandamentos. Pratica a justiça em todos os dias da tua vida e não andes pelos caminhos da injustiça» (Tb 4, 5).
2. Como salta à vista, a recordação, que o velho Tobite pede ao filho para guardar, não se reduz simplesmente a um ato da memória nem a uma oração dirigida a Deus. Faz referência a gestos concretos, que consistem em praticar boas obras e viver com justiça. E a exortação torna-se ainda mais específica: «Dá esmolas, conforme as tuas posses. Nunca afastes de algum pobre o teu olhar, e nunca se afastará de ti o olhar de Deus» (Tb 4, 7).
Muito surpreendem as palavras deste velho sábio. Não esqueçamos, de facto, que Tobite perdeu a vista precisamente depois de ter praticado um ato de misericórdia. Como ele próprio conta, desde a juventude que se dedicou a obras de caridade, «dando muitas esmolas aos meus irmãos, os da minha nação que comigo tinham sido levados cativos para a terra dos assírios, em Nínive (…), fornecendo pão aos esfomeados e vestindo os nus e, se encontrava morto alguém da minha linhagem, atirado para junto dos muros de Nínive, dava-lhe sepultura» (Tb 1, 3.17).
Por causa deste seu testemunho de caridade, viu-se privado de todos os seus bens pelo rei, ficando na pobreza completa. Mas, o Senhor precisava ainda dele! Foi-lhe devolvido o seu lugar de administrador e ele não teve medo de continuar o seu estilo de vida. Ouçamos a sua história, que hoje nos fala também a nós: «Pela festa do Pentecostes, que é a nossa festa das Semanas, mandei preparar um bom almoço e reclinei-me para comer. Mas, ao ver a mesa coberta com tantas comidas finas, disse a Tobias: “Filho, vai procurar, entre os nossos irmãos cativos em Nínive, um pobre que seja de coração fiel, e trá-lo para que participe da nossa refeição. Eu espero por ti, meu filho”» (Tb 2, 1-2). Como seria significativo se, no Dia dos Pobres, esta preocupação de Tobite fosse também a nossa! Ou seja, convidar para partilhar o almoço dominical, depois de ter partilhado a Mesa Eucarística. A Eucaristia celebrada tornar-se-ia realmente critério de comunhão. Aliás, se ao redor do altar do Senhor temos consciência de sermos todos irmãos e irmãs, quanto mais visível se tornaria esta fraternidade, compartilhando a refeição festiva com quem carece do necessário!
Tobias fez como o pai lhe dissera, mas voltou com a notícia de que um pobre fora morto e deixado no meio da praça. Sem hesitar, o velho Tobite levantou-se da mesa e foi enterrar aquele homem. Voltando cansado para casa, adormeceu no pátio; caíram-lhe nos olhos excrementos de pássaros, e ficou cego (cf. Tb 2, 1-10). Ironia do destino! Pratica um gesto de caridade e sucede-lhe uma desgraça... Apetece-nos pensar assim, mas a fé ensina-nos a ir mais a fundo. A cegueira de Tobite tornar-se-á a sua força para reconhecer ainda melhor tantas formas de pobreza ao seu redor. E, mais tarde, o Senhor providenciará a devolver ao velho pai a vista e a alegria de rever o filho Tobias. Quando chegou este momento, «Tobite lançou-se-lhe ao pescoço e, chorando, disse: “Vejo-te, filho, tu que és a luz dos meus olhos!” E continuou: “Bendito seja Deus e bendito o seu grande nome! Benditos os seus santos anjos! Que seu nome esteja sobre nós e benditos sejam todos os seus anjos, pelos séculos sem fim! Ele puniu-me, mas eis que volto a ver Tobias, o meu filho”» (Tb 11, 13-14).
3. Podemos questionar-nos: Donde tira Tobite a coragem e a força interior que lhe permitem servir a Deus no meio dum povo pagão e amar o próximo até ao ponto de pôr em risco a própria vida? Estamos diante dum exemplo extraordinário: Tobite é um marido fiel e um pai carinhoso; foi deportado para longe da sua terra e sofre injustamente; é perseguido pelo rei e pelos vizinhos de casa... Apesar de ânimo tão bom, é posto à prova. Como muitas vezes nos ensina a Sagrada Escritura, Deus não poupa as provações a quem pratica o bem. E porquê? Não o faz para nos humilhar, mas para tornar firme a nossa fé n’Ele.
Tobite, no período da provação, descobre a própria pobreza, que o torna capaz de reconhecer os pobres. É fiel à Lei de Deus e observa os mandamentos, mas para ele isto não basta. A solicitude operosa para com os pobres torna-se-lhe possível, porque experimentou a pobreza na própria pele. Por isso, as palavras que dirige ao filho Tobias constituem a sua verdadeira herança: «Nunca afastes de algum pobre o teu olhar» (Tb 4, 7). Enfim, quando nos deparamos com um pobre, não podemos virar o olhar para o lado oposto, porque impediríamos a nós próprios de encontrar o rosto do Senhor Jesus. E notemos bem aquela expressão «de algum pobre», de todo o pobre. Cada um deles é nosso próximo. Não importa a cor da pele, a condição social, a proveniência... Se sou pobre, posso reconhecer de verdade quem é o irmão que precisa de mim. Somos chamados a ir ao encontro de todo o pobre e de todo o tipo de pobreza, sacudindo de nós mesmos a indiferença e a naturalidade com que defendemos um bem-estar ilusório.
4. Vivemos um momento histórico que não favorece a atenção aos mais pobres. O volume sonoro do apelo ao bem-estar é cada vez mais alto, enquanto se põe o silenciador relativamente às vozes de quem vive na pobreza. Tende-se a ignorar tudo o que não se enquadre nos modelos de vida pensados sobretudo para as gerações mais jovens, que são as mais frágeis perante a mudança cultural em curso. Coloca-se entre parênteses aquilo que é desagradável e causa sofrimento, enquanto se exaltam as qualidades físicas como se fossem a meta principal a alcançar. A realidade virtual sobrepõe-se à vida real, e acontece cada vez mais facilmente confundirem-se os dois mundos. Os pobres tornam-se imagens que até podem comover por alguns momentos, mas quando os encontramos em carne e osso pela estrada, sobrevêm o fastídio e a marginalização. A pressa, companheira diária da vida, impede de parar, socorrer e cuidar do outro. A parábola do bom samaritano (cf. Lc 10, 25-37) não é história do passado; desafia o presente de cada um de nós. Delegar a outros é fácil; oferecer dinheiro para que outros pratiquem a caridade é um gesto generoso; envolver-se pessoalmente é a vocação de todo o cristão.
5. Damos graças ao Senhor porque há tantos homens e mulheres que vivem a dedicação aos pobres e excluídos e a partilha com eles; pessoas de todas as idades e condições sociais que praticam a hospitalidade e se empenham junto daqueles que se encontram em situações de marginalização e sofrimento. Não são super-homens, mas «vizinhos de casa» que encontramos cada dia e que, no silêncio, se fazem pobres com os pobres. Não se limitam a dar qualquer coisa: escutam, dialogam, procuram compreender a situação e as suas causas, para dar conselhos adequados e indicações justas. Estão atentos tanto à necessidade material como à espiritual, ou seja, à promoção integral da pessoa. O Reino de Deus torna-se presente e visível neste serviço generoso e gratuito; é realmente como a semente que caiu na boa terra da vida destas pessoas, e dá fruto (cf. Lc 8, 4-15). A gratidão a tantos voluntários deve fazer-se oração para que o seu testemunho possa ser fecundo.
6. No 60º aniversário da Encíclica Pacem in terris, é urgente retomar as palavras do Santo Papa João XXIII quando escrevia: «O ser humano tem direito à existência, à integridade física, aos recursos correspondentes a um digno padrão de vida: tais são especialmente a nutrição, o vestuário, a moradia, o repouso, a assistência sanitária, os serviços sociais indispensáveis. Segue-se daí, que a pessoa tem também o direito de ser amparada em caso de doença, de invalidez, de viuvez, de velhice, de desemprego forçado, e em qualquer outro caso de privação dos meios de sustento por circunstâncias independentes da sua vontade» (n. 11).
Quanto trabalho temos ainda pela frente para tornar realidade estas palavras, inclusive através dum sério e eficaz empenho político e legislativo! Não obstante os limites e por vezes as lacunas da política para ver e servir o bem comum, possa desenvolver-se a solidariedade e a subsidiariedade de muitos cidadãos que acreditam no valor do empenho voluntário de dedicação aos pobres. Isto, naturalmente sem deixar de estimular e fazer pressão para que as instituições públicas cumpram do melhor modo possível o seu dever. Mas não adianta ficar passivamente à espera de receber tudo «do alto». E, quem vive em condição de pobreza, seja também envolvido e apoiado num processo de mudança e responsabilização.
7. Mais uma vez, infelizmente, temos de constatar novas formas de pobreza que se vêm juntar às outras descritas já anteriormente. Penso de modo particular nas populações que vivem em cenários de guerra, especialmente nas crianças privadas dum presente sereno e dum futuro digno. Ninguém poderá jamais habituar-se a esta situação; mantenhamos viva toda a tentativa para que a paz se afirme como dom do Senhor Ressuscitado e fruto do empenho pela justiça e o diálogo.
Não posso esquecer as especulações, em vários setores, que levam a um aumento dramático dos preços, deixando muitas famílias numa indigência ainda maior. Os salários esgotam-se rapidamente, forçando a privações que atentam contra a dignidade de cada pessoa. Se, numa família, se tem de escolher entre o alimento para se nutrir e os remédios para se curar, então deve fazer-se ouvir a voz de quem clama pelo direito a ambos os bens, em nome da dignidade da pessoa humana.
Além disso, como não assinalar a desordem ética que marca o mundo do trabalho? O tratamento desumano reservado a muitos trabalhadores e trabalhadoras; a remuneração não equivalente ao trabalho realizado; o flagelo da precariedade; as demasiadas vítimas de incidentes, devidos muitas vezes à mentalidade que privilegia o lucro imediato em detrimento da segurança... Voltam à mente as palavras de São João Paulo II: «O primeiro fundamento do valor do trabalho é o próprio homem. (...) O homem está destinado e é chamado ao trabalho, contudo antes de mais nada o trabalho é “para o homem”, e não o homem “para o trabalho”» (Enc. Laborem exercens, 6).
8. Este elenco, já em si mesmo dramático, dá conta apenas de modo parcial das situações de pobreza que fazem parte da nossa vida diária. Não posso deixar de fora, em particular, uma forma de mal-estar que aparece cada dia mais evidente e que atinge o mundo juvenil. Quantas vidas frustradas e até suicídios de jovens, iludidos por uma cultura que os leva a sentirem-se «inacabados» e «falidos». Ajudemo-los a reagir a estas instigações nocivas, para que cada um possa encontrar a estrada que deve seguir para adquirir uma identidade forte e generosa.
É fácil cair na retórica, quando se fala dos pobres. Tentação insidiosa é também parar nas estatísticas e nos números. Os pobres são pessoas, têm rosto, uma história, coração e alma. São irmãos e irmãs com os seus valores e defeitos, como todos, e é importante estabelecer uma relação pessoal com cada um deles.
O Livro de Tobias ensina-nos a ser concretos no nosso agir com e pelos pobres. É uma questão de justiça que nos obriga a todos a procurar-nos e encontrar-nos reciprocamente, favorecendo a harmonia necessária para que uma comunidade se possa identificar como tal. Portanto, interessar-se pelos pobres não se esgota em esmolas apressadas; pede para restabelecer as justas relações interpessoais que foram afetadas pela pobreza. Assim «não afastar o olhar do pobre» leva a obter os benefícios da misericórdia, da caridade que dá sentido e valor a toda a vida cristã.
9. Que a nossa solicitude pelos pobres seja sempre marcada pelo realismo evangélico. A partilha deve corresponder às necessidades concretas do outro, e não ao meu supérfluo de que me quero libertar. Também aqui é preciso discernimento, sob a guia do Espírito Santo, para distinguir as verdadeiras exigências dos irmãos do que constitui as nossas aspirações. Aquilo de que seguramente têm urgente necessidade é da nossa humanidade, do nosso coração aberto ao amor. Não esqueçamos: «Somos chamados a descobrir Cristo neles: não só a emprestar-lhes a nossa voz nas suas causas, mas também a ser seus amigos, a escutá-los, a compreendê-los e a acolher a misteriosa sabedoria que Deus nos quer comunicar através deles» (Francisco, Exort. ap. Evangelii gaudium, 198). A fé ensina-nos que todo o pobre é filho de Deus e que, nele ou nela, está presente Cristo: «Sempre que fizestes isto a um destes meus irmãos mais pequeninos, a Mim mesmo o fizestes» (Mt 25, 40).
10. Este ano completam-se 150 anos do nascimento de Santa Teresa do Menino Jesus. Numa página da sua História de uma alma, deixou escrito: «Compreendo agora que a caridade perfeita consiste em suportar os defeitos dos outros, em não se escandalizar com as suas fraquezas, em edificar-se com os mais pequenos atos de virtude que se lhes vir praticar; mas compreendi, sobretudo, que a caridade não deve ficar encerrada no fundo do coração: “Ninguém, disse Jesus, acende uma candeia para a colocar debaixo do alqueire, mas coloca-a sobre o candelabro para alumiar todos os que estão em casa”. Creio que essa luz representa a caridade, que deve iluminar e alegrar, não só os que são mais queridos, mas todos aqueles que estão na casa, sem excetuar ninguém» (Manuscrito C, 12rº: História de uma alma, Avessadas 2005, 255-256).
Nesta casa que é o mundo, todos têm direito de ser iluminados pela caridade, ninguém pode ser privado dela. Possa a tenacidade do amor de Santa Teresinha inspirar os nossos corações neste Dia Mundial, ajudar-nos a «nunca afastar de algum pobre o olhar» e a mantê-lo sempre fixo no rosto humano e divino do Senhor Jesus Cristo.
Roma – São João de Latrão, na Memória de Santo António, Patrono dos pobres, 13 de junho de 2023.
FRANCISCO
[00984-PO.01] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua polacca
Nie odwracaj twarzy od żadnego biedaka (Tb 4, 7)
1. Światowy Dzień Ubogich, będący owocnym znakiem miłosierdzia Ojca, już po raz siódmy wspiera drogę naszych wspólnot. Jest to spotkanie, które Kościół stopniowo zakorzenia w swojej pracy duszpasterskiej, aby coraz bardziej odkrywać centralną treść Ewangelii. Każdego dnia jesteśmy zaangażowani w przyjmowanie ubogich, ale to nie wystarczy. Rzeka ubóstwa płynie przez nasze miasta i staje się coraz większa, aż występuje z brzegów. Ta rzeka wydaje się nas przytłaczać, tak bardzo, że wołanie naszych braci i sióstr, którzy proszą o pomoc, wsparcie i solidarność staje się coraz głośniejsze. Dlatego w niedzielę poprzedzającą uroczystość Jezusa Chrystusa, Króla Wszechświata, gromadzimy się wokół Jego Stołu, aby ponownie otrzymać od Niego dar i misję życia w ubóstwie i służenia ubogim.
Nie odwracaj twarzy od żadnego biedaka (Tb 4, 7). Słowo to pomaga nam zrozumieć istotę naszego świadectwa. Zastanowienie się nad Księgą Tobiasza, mało znanym tekstem Starego Testamentu, przekonującym i bogatym w mądrość, pozwoli nam lepiej wniknąć w treść, którą chce przekazać autor natchniony. Przed nami rozgrywa się scena z życia rodzinnego: ojciec, Tobiasz, wita swojego syna, Tobiasza, który ma wyruszyć w długą podróż. Stary Tobiasz obawia się, że już nigdy nie zobaczy swojego syna i dlatego zostawia mu swój „testament duchowy”. Był zesłańcem w Niniwie i jest teraz niewidomy, a więc podwójnie biedny, ale zawsze miał jedną pewność, wyrażoną przez imię, które nosi: „Pan był moim dobrem”. Człowiek ten, który zawsze ufał Panu, jak dobry ojciec chce pozostawić swojemu synowi nie tyle jakieś dobra materialne, ile świadectwo drogi, którą należy podążać w życiu, więc mówi do niego: „Pamiętaj, dziecko, na Pana przez wszystkie dni twoje! Nie pragnij grzeszyć ani przestępować Jego przykazań! Przez wszystkie dni twojego życia spełniaj uczynki miłosierne i nie chodź drogami nieprawości” (4, 5).
2. Jak można od razu zauważyć, pamięć, o którą stary Tobiasz prosi swojego syna, nie ogranicza się jedynie do aktu pamięci czy modlitwy skierowanej do Boga. Odnosi się do konkretnych czynów, polegających na czynieniu dobrych czynów i życiu sprawiedliwym. Napomnienie to staje się jeszcze bardziej konkretne: „A wszystkim, którzy postępują sprawiedliwie, dawaj jałmużnę z majętności swojej i niech oko twoje nie będzie skąpe w czynieniu jałmużny!” (4, 7).
Spore zdziwienie wzbudzają słowa tego mądrego starca. Nie zapominajmy bowiem, że Tobiasz stracił wzrok właśnie wypełniwszy akt miłosierdzia. Jak sam wspomina, jego życie od najmłodszych lat było poświęcone dziełom miłosierdzia: „Dawałem wiele jałmużny moim braciom i moim rodakom, uprowadzonym razem ze mną do kraju Asyrii, do Niniwy. [...] Dawałem mój chleb głodnym i ubranie nagim. A jeśli widziałem zwłoki któregoś z moich rodaków wyrzucone poza mury Niniwy, grzebałem je” (1, 3.17).
Ze względu na jego świadectwo miłosierdzia, król pozbawił go całego majątku, czyniąc go całkowicie biednym. Jednak Pan nadal potrzebował go. Powróciwszy na stanowisko zarządcy, nie lękał się kontynuować swojego sposobu życia. Posłuchajmy jego opowieści, która przemawia również do nas dzisiaj: „Na naszą Pięćdziesiątnicę, to jest na Święto Tygodni, przygotowano mi wspaniałą ucztę, a ja zająłem miejsce przy stole. Zastawiono mi stół i przyniesiono liczne potrawy. Wtedy powiedziałem do mojego syna Tobiasza: «Dziecko, idź, a gdy znajdziesz kogo biednego z braci moich uprowadzonych do Niniwy, który zachowuje wierność całym sercem, przyprowadź go tu, aby jadł razem ze mną. Ja czekam, dziecko, na twój powrót»” (2, 1-2). Jakże byłoby to znamienne, gdyby w Dniu Ubogich ta troska Tobiasza była również naszą troską! Gdybyśmy zaprosili na wspólny niedzielny obiad, po dzieleniu Stołu eucharystycznego. Celebrowana Eucharystia stałaby się naprawdę kryterium komunii. Z drugiej strony, jeśli wokół ołtarza Pańskiego jesteśmy świadomi, że wszyscy jesteśmy braćmi i siostrami, o ileż bardziej widoczne stałoby się to braterstwo poprzez dzielenie się świątecznym posiłkiem z tymi, którym brakuje niezbędnych środków do życia!
Tobiasz uczynił tak, jak kazał mu ojciec, ale wrócił z wiadomością, że pewien biedak został zabity i porzucony na środku rynku. Bez wahania stary Tobiasz wstał od stołu i poszedł pochować mężczyznę. Wracając do domu zmęczony, zasnął na dziedzińcu; ptasie łajno spadło mu na oczy i oślepł (por. 2, 1-10). Ironia losu: czynisz uczynki miłosierdzia, a spotyka cię nieszczęście! Możemy tak myśleć, ale wiara uczy nas sięgać głębiej. Ślepota Tobiasza stanie się jego siłą, aby jeszcze lepiej rozpoznać wiele form ubóstwa, którymi był otoczony. We właściwym czasie Pan przywróci staremu ojcu wzrok i radość z ponownego ujrzenia syna Tobiasza. Kiedy nadszedł ten dzień, Tobiasz „rzucił mu się na szyję, zaczął płakać i zawołał: «Ujrzałem cię, dziecko, światło moich oczu». I rzekł: «Niech będzie błogosławiony Bóg! Niech będzie błogosławione wielkie imię Jego! Niech będą błogosławieni wszyscy Jego święci aniołowie! Niech będzie obecne nad nami wielkie imię Jego! I niech będą błogosławieni wszyscy aniołowie Jego po wszystkie wieki! Ponieważ doświadczył mnie, a oto teraz widzę Tobiasza, mego syna »” (11, 13-14).
3. Możemy postawić sobie pytanie: skąd Tobiasz czerpie odwagę i wewnętrzną siłę, które pozwalają mu służyć Bogu pośród pogańskiego ludu i miłować bliźniego do tego stopnia, że ryzykuje własnym życiem? Mamy do czynienia z niezwykłym przykładem: Tobiasz jest wiernym małżonkiem i troskliwym ojcem. Został zesłany daleko od swojej ojczyzny i cierpi niesprawiedliwie. Jest prześladowany przez króla i swoich sąsiadów... Pomimo, że ma takie dobre serce, zostaje poddany próbie. Jak często uczy nas Pismo święte, Bóg nie szczędzi prób tym, którzy czynią dobro. Dlaczego? Nie czyni tego, by nas upokorzyć, lecz aby umocnić naszą wiarę w Niego.
Tobiasz w czasie próby odkrywa swoje ubóstwo, co czyni go zdolnym do zauważania ubogich. Jest wierny Prawu Bożemu i przestrzega przykazań, ale to mu nie wystarcza. Może okazać czynną troskę o ubogich, ponieważ na własnej skórze doświadczył ubóstwa. Dlatego słowa, które kieruje do swojego syna Tobiasza są jego prawdziwym spadkiem: „Nie odwracaj twarzy od żadnego biedaka” (4, 7). Krótko mówiąc, kiedy stajemy przed ubogim, nie możemy odwracać wzroku, ponieważ uniemożliwilibyśmy sobie samym spotkanie z obliczem Pana Jezusa. Zwróćmy uwagę na wyrażenie: „od żadnego biedaka”. Każdy jest naszym bliźnim. Bez względu na kolor skóry, status społeczny, pochodzenie... Jeśli jestem ubogi, potrafię rozpoznać, kto naprawdę jest bratem, który mnie potrzebuje. Jesteśmy wezwani do wychodzenia naprzeciw każdemu ubogiemu i każdemu rodzajowi ubóstwa, otrząsając się z obojętności i sloganów, którymi osłaniamy iluzoryczny dobrobyt.
4. Przeżywamy moment dziejowy, który nie sprzyja zwracaniu uwagi na najuboższych. Wołanie o dostatek staje się coraz głośniejsze, podczas gdy głosy osób żyjących w ubóstwie są uciszane. Istnieje skłonność do pomijania wszystkiego, co nie pasuje do modeli życia przeznaczonych szczególnie dla młodszych pokoleń, które są najbardziej wrażliwe w obliczu mających miejsce przemian kulturowych. To, co nieprzyjemne i powodujące cierpienie, jest odsuwane na bok, podczas gdy cechy fizyczne są wywyższane, jakby były głównym celem do osiągnięcia. Rzeczywistość wirtualna zastępuje prawdziwe życie i coraz łatwiej pomylić te dwa światy. Ubodzy stają się obrazami, które mogą poruszyć na kilka chwil, ale kiedy ich napotykamy konkretnie na ulicy, to wówczas następują irytacja i marginalizacja. Pośpiech, codzienny towarzysz życia, uniemożliwia zatrzymanie się, pomoc i troskę o drugiego człowieka. Przypowieść o dobrym Samarytaninie (por. Łk 10, 25-37) nie jest opowieścią o przeszłości, ale pytaniem o teraźniejszość każdego z nas. Łatwo przekazywać zadania innym; ofiarowanie pieniędzy, aby inni prowadzili działalność charytatywną jest wielkodusznym gestem; osobiste zaangażowanie jest powołaniem każdego chrześcijanina.
5. Dziękujmy Panu, że jest tak wielu mężczyzn i kobiet żyjących poświęceniem dla ubogich i wykluczonych, dzieląc się z nimi; osób w każdym wieku i różnego statusu społecznego, którzy oddają się gościnności i angażują u boku tych, którzy są w sytuacjach marginalizacji i cierpienia. Nie są to nadludzie, ale „sąsiedzi”, których spotykamy każdego dnia i którzy w milczeniu stają się ubogimi wraz z ubogimi. Nie tylko coś dają: słuchają, prowadzą dialog, starają się zrozumieć sytuację i jej przyczyny, aby udzielić odpowiednich rad i właściwych odniesień. Zwracają uwagę na potrzeby materialne, ale także duchowe, na integralną promocję osoby. Królestwo Boże staje się obecne i widoczne w tej wielkodusznej i bezinteresownej służbie. Jest naprawdę jak ziarno, które pada na dobrą glebę życia tych ludzi i przynosi owoce (por. Łk 8, 4-15). Wdzięczność dla jakże wielu wolontariuszy winna stać się modlitwą, aby ich świadectwo mogło być owocne.
6. W 60. rocznicę Encykliki Pacem in terris należy pilnie podjąć słowa świętego papieża Jana XXIII, który pisał, że każda istota ludzka ma „prawo do życia, do nienaruszalności ciała, do posiadania środków potrzebnych do zapewnienia sobie odpowiedniego poziomu życia, do których należy zaliczyć przede wszystkim żywność, odzież, mieszkanie, wypoczynek, opiekę zdrowotną oraz niezbędne świadczenia ze strony władz na rzecz jednostek. Z tego wynika, że człowiekowi przysługuje również prawo zabezpieczenia społecznego w wypadku choroby, niezdolności do pracy, owdowienia, starości, bezrobocia oraz niezawinionego pozbawienia środków niezbędnych do życia” (Enc. Pacem in terris, 11, w: Dokumenty nauki społecznej Kościoła,
cz. 1, red. nauk. ks. Marian Radwan, Rzym-Lublin 1987, s. 273).
Jakże przed nami jeszcze wiele pracy, aby te słowa stały się rzeczywistością, także poprzez poważne i skuteczne wysiłki polityczne i legislacyjne! Pomimo ograniczeń, a niekiedy niezgodności polityki w dostrzeganiu i służeniu dobru wspólnemu, oby rozwijała się solidarność i pomocniczość tak wielu obywateli, którzy wierzą w wartość dobrowolnego zaangażowania i poświęcenia na rzecz ubogich. Z pewnością jest to kwestia pobudzania i wywierania presji na instytucje publiczne, aby dobrze wypełniały swoje obowiązki. Ale nie ma sensu pozostawać biernym, czekając na wszystko „z góry”: te, który żyje w warunkach ubóstwa, również musi być zaangażowany i wspierany na drodze przemiany i odpowiedzialności.
7. Musimy niestety po raz kolejny zwrócić uwagę na nowe formy ubóstwa, które dołączają do tych opisanych już powyżej. Myślę w szczególności o ludziach żyjących w strefach wojennych, zwłaszcza o dzieciach pozbawionych spokojnej teraźniejszości i godnej przyszłości. Nikt nigdy nie może przyzwyczaić się do tej sytuacji. Nie ustawajmy w wysiłkach, aby pokój umacniał się jako dar Zmartwychwstałego Pana i owoc zaangażowania na rzecz sprawiedliwości i dialogu.
Nie mogę zapomnieć o spekulacjach, które w różnych sektorach prowadzą do dramatycznego wzrostu kosztów, co czyni wiele rodzin jeszcze bardziej biednymi. Płace szybko się wyczerpują, zmuszając do niedostatku, uwłaczającego godności każdej osoby. Jeśli rodzina musi wybierać między pożywieniem a lekarstwami, to głos tych, którzy domagają się prawa do obu tych dóbr, musi zostać wysłuchany w imię godności osoby ludzkiej.
Jak możemy nie zauważyć etycznego nieładu, który cechuje świat pracy? Nieludzkie traktowanie jakże wielu pracowników i pracownic; nieadekwatne wynagrodzenie za wykonaną pracę; plaga niepewności; zbyt wiele ofiar wypadków, często z powodu mentalności, która preferuje doraźny zysk ze szkodą dla bezpieczeństwa... Przychodzą na myśl słowa św. Jana Pawła II: „pierwszą podstawą wartości pracy jest sam człowiek. […] O ile prawdą jest, że człowiek jest przeznaczony i powołany do pracy, to jednak nade wszystko praca jest «dla człowieka», a nie człowiek «dla pracy»” (Enc. Laborem exercens, 6).
8. Ta lista, już sama w sobie dramatyczna, daje tylko częściowy obraz sytuacji ubóstwa, które są częścią naszego codziennego życia. Nie mogę pominąć w szczególności formy niedogodności, która z każdym dniem staje się coraz bardziej widoczna i dotyka świata młodzieży. Ileż jest sfrustrowanych istnień, a nawet samobójstw ludzi młodych, oszukanych przez kulturę, która prowadzi ich do poczucia „braku realizacji” i „porażki”. Pomóżmy im zareagować w obliczu tych nikczemnych podżegań, żeby każdy mógł znaleźć drogę, którą powinien podążać, aby zdobyć silną i szczodrą tożsamość.
Mówiąc o ubogich, łatwo jest popaść w retorykę. Jest to również podstępna pokusa, aby zatrzymać się na statystykach i liczbach. Ubodzy są ludźmi, mają twarze, historie, serca i dusze. Są braćmi i siostrami ze swoimi zaletami i wadami, jak wszyscy inni, i ważne, aby wejść w osobistą relację z każdym z nich.
Księga Tobiasza uczy nas konkretności naszego działania z ubogimi i dla ubogich. Jest to kwestia sprawiedliwości, która zobowiązuje nas wszystkich do szukania i spotykania się nawzajem, aby wspierać harmonię niezbędną do tego, by wspólnota mogła się określać jako taka. Zainteresowanie się ubogimi nie kończy się więc na pochopnym dawaniu jałmużny. Wymaga przywrócenia właściwych relacji międzyludzkich, które zostały zniszczone przez ubóstwo. W ten sposób „nieodwracanie wzroku od biednych” prowadzi do zyskania pożytku z miłosierdzia, miłości, która nadaje sens i wartość całemu życiu chrześcijańskiemu.
9. Niech nasza troska o ubogich będzie zawsze nacechowana ewangelicznym realizmem. Dzielenie się musi odpowiadać konkretnym potrzebom drugiego, a nie uwolnieniu się od tego, co zbędne. Również w tym przypadku potrzeba rozeznania, pod przewodnictwem Ducha Świętego, aby rozpoznać prawdziwe potrzeby naszych braci, a nie nasze własne aspiracje. To, czego z pewnością pilnie potrzebują, to nasze człowieczeństwo, nasze serce otwarte na miłość. Nie zapominajmy: „Jesteśmy wezwani do odkrycia w nich Chrystusa, do użyczenia im naszego głosu w ich sprawach, ale także do bycia ich przyjaciółmi, słuchania ich, zrozumienia ich i przyjęcia tajemniczej mądrości, którą Bóg chce nam przekazać przez nich” (Adhort. apost. Evangelii gaudium, 198). Wiara uczy nas, że każdy ubogi jest dzieckiem Boga, i że jest w nim obecny Chrystus: „Wszystko, co uczyniliście jednemu z tych braci moich najmniejszych, Mnieście uczynili” (Mt 25, 40).
10. W tym roku przypada 150. rocznica urodzin św. Teresy od Dzieciątka Jezus. Na jednej ze stron swoich Dziejów duszy pisze ona: „Ach! Teraz pojmuję, że doskonała miłość bliźniego polega na tym, by znosić błędy innych, nie dziwić się wcale ich słabościom, budować się nawet najdrobniejszymi aktami cnót, które u nich spostrzegamy. Przede wszystkim jednak zrozumiałem, że miłość bliźniego nie powinna pozostawać zamknięta w głębi serca. «Nikt, powiedział Jezus, nie zapala pochodni, by ją wsadzić pod korzec, ale stawia ją na świeczniku, aby oświecała WSZYSTKICH, którzy są w domu». Zdaje mi się, że ta pochodnia wyobraża miłość bliźniego, która winna oświecać, rozweselać, nie tylko moich najdroższych, ale WSZYSTKICH, którzy są w domu, nie wyłączając nikogo” (Dzieje duszy, Kraków 1984, s. 215).
W tym domu, jakim jest świat, każdy ma prawo być oświecony miłosierdziem, nikt nie może być go pozbawiony. Niech nieugiętość miłości św. Tereski, inspiruje nasze serca w tym Światowym Dniu, niech pomaga nam „nie odwracać twarzy od biedaka” i zawsze wpatrywać się w ludzkie i Boskie oblicze Pana Jezusa Chrystusa.
Rzym, u św. Jana na Lateranie, dnia 13 czerwca 2023 r., we wspomnienie św. Antoniego z Padwy, patrona ubogich.
FRANCISZEK
[00984-PL.01] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua araba
رسالة قداسة البابا فرنسيس
في مناسبة اليوم العالمي السّابع للفقراء
19 تشرين الثّاني/نوفمبر 2023
"لا تُحَوِّلْ وَجهَكَ عن فَقير" (طوبِيّا 4، 7)
1. اليوم العالمي للفقراء، علامة خصبة لرحمة الآب، ترافق مسيرة جماعاتنا للمرّة السّابعة. إنّه موعد أخذت الكنيسة بتجذيره تدريجيًا في عملها الرّعوي، لتكتشف أكثر فأكثر مضمون الإنجيل الرّئيسيّ. كلّ يوم نحن ملتزمون باستقبال الفقراء، وهذا لا يكفي. نهر الفقر يجتاز مدننا ويكبر أكثر فأكثر حتّى يفيض. يبدو أنّ هذا النّهر يغمرنا، وصراخ الإخوة والأخوات الذين يطلبون المساعدة والدّعم والتّضامن يعلو ويزداد. لهذا فإنّنا نلتقي في يوم الأحد الذي يسبق عيد يسوع الملك، ونجتمع حول مائدته لنتسلَّم منه مرّة أخرى العطيّة والالتزام بـأن نعيش الفقر وأن نخدم الفقراء.
"لا تُحَوِّلْ وَجهَكَ عن فَقير" (طوبِيّا 4، 7). تساعدنا هذه الآية على فهم جوهر شهادتنا. لنتوقّف عند سفر طوبِيّا، وهو كتاب غير معروف كثيرًا من العهد القديم، جذَّاب ومليء بالحكمة. سيسمح لنا بأن نفهم المضمون الذي يريد الكاتب المُلهَم أن يبلِّغَنا إياه. أمامنا مشهد من الحياة العائليّة: الأب، طوبيت، يسلِّم على ابنه، طوبيّا، الذي هو على وشك الانطلاق في رحلة طويلة. يخشى طوبيت المتقدّم في السّن أنّه لن يتمكن من رؤية ابنه مرّة أخرى، ولهذا يترك له ”وصيته الرّوحية“. هو أحد المَجلُوِّين إلى نينوى، وهو اليوم أعمى، وبالتالي كان فقيرًا مرّتين، لكنّه كان دائمًا متأكِّدًا، بحسب ما يعني اسمه، أن ”الرّبّ طيِّبٌ“. هذا الرّجل الذي وضع ثقته في الرّبّ دائمًا، وكان أبًا مُحِبًا لم يُرِدْ أن يترك لابنه فقط بعض الخيرات المادية، بل شهادة الطّريق التي يجب أن يتبعها في الحياة، ولهذا قال له: "آذكُرِ الرَّبَّ، يا بُنَيَّ، جَميعَ أَيَّامِكَ، ولا تَرْضَ بِأَن تَخطأَ وتَتَعَدَّى وَصاياه. اعمَل أَعْمالَ البِرِّ جَميعَ أَيَّامِ حَياتِكَ، ولا تَسلُكْ سُبُلَ الإِثْم" (4، 5).
2. يمكن أن نلاحظ على الفور، أنّ الذّكرى التي طلبها طوبيت المتقدّم في السّن من ابنه لا تقتصر على مجرد ذاكرة أو صلاة موجّهة إلى الله، بل يوصيه بأعمال محسوسة هي القيام بأعمال الخير وبالعيش في البرّ والصّلاح. ويبيِّن بِمَ تقوم نصيحته فيقول: "شأنَ الَّذينَ يَعمَلونَ بِالبِرّ. تَصَدَّقْ مِن مالِكَ ولا تُحَوِّلْ وَجهَكَ عن فَقير" (4، 7).
تدهشنا كثيرًا كلمات هذا الشّيخ الحكيم. لا ننسى، في الواقع، أنّ طوبيت فقد بصره بعد أن قام هو نفسه بعمل خير. كما روى هو نفسه، كانت حياته منذ صغره مكرَّسة لأعمال المحبّة: "تَصَدَّقتُ كَثيرًا على إِخْوَتي وعلىَ بَني أُمَّتي الَّذينَ جُلوا معي الى نينَوى في بِلادِ أَشُّور. [...] فكُنتُ أُقَدِّمُ خُبْزي لِلجِياعِ وثيابًا لِلْعُراة، وإِذا رَأَيتُ أَحَدًا مِنِ بَني أُمَّتي قد ماتَ وأُلقِيَ مِن وَراء أَسْوارِ نينوى، كُنتُ أَدفِنُه" (1، 3. 17).
من أجل شهادة المحبّة هذه، حرمه الملك من جميع خيراته، فصار فقيرًا معدومًا. ومع ذلك، كان االله لا يزال بحاجة إليه. فبعد أن عاد إلى منصبه في الشُّؤُون الإِدارِيَّة، لم يخَفْ أن يستمرّ في أسلوب حياته. لنصغِ إلى قصته، التي تخاطبنا اليوم أيضًا: "في عيدِنا، عيد العَنْصَرَة، أو عيد الأسابيع، أُقيمَت لي مأدُبَةٌ فاخِرة، وجَلَستُ لِلطَّعام وقُرِّبَت إلَيَّ المائِدَة وجيءَ لي بِألْوانٍ كَثيرة. فقُلتُ لِطوبِيَّا آبني: هَلُمَّ، يا بُنَي، ومَن تَجدُه فقيرًا يَذكُرُ الله بِكُل قَلبِه بَينَ إِخوَتنا المَجلُوِّينَ الى نينَوى، فأتِ بِه لِيُشارِكَني في الطَّعام. وها إِنِّي في آنتِظارِكَ، يا بُنَيَّ، إِلى أن تعود" (2، 1-2). كم يكون مناسبًا وذا مغزًى، في يوم الفقراء، لو كان اهتمام طوبيت هذا هو اهتمامنا أيضًا! أن ندعُوَ إلى مشاركتنا غداء يوم الأحد، بعد أن تشاركنا في المائدة الإفخارستيّة. فتصير الإفخارستيا التي احتفلنا بها، عامل شركة ووَحدة حقًّا. من ناحية أخرى، إن كنا ندرك ونحن حول مذبح الرّبّ أنّنا جميعًا إخوة وأخوات، ستظهر هذه الأخُوّة من خلال مشاركة طعام العيد مع الذين يفتقرون إلى ما هو ضروري!
فَعَلَ طوبيّا ما قاله له والده، لكنّه عاد مع خبر بأن فقيرًا كان قد قُتِلَ وتُرِكَ في وسط ساحة المدينة. فقام طوبيت المسِنّ، دون تردّد، من على المائدة وذهب لدفن الرّجل. وعندما عاد إلى بيته متعبًا، نام في ساحة داره. فسقط ذَرقُ طيرٍ في عينيّه وأصيب بالعمى (راجع 2، 1-10). من سخرية الأقدار أنّك تقوم بعمل محبّة وتقع عليك مصيبة! قد يكون هذا فكرنا. لكن الإيمان يعلّمنا أن ننظر فيما هو أعمق. سيصير عمى طوبيت قوّةً فيه للتعرّف على أشكال الفقر العديدة التي كانت تحيط به. وسيرى الله في الوقت المناسب، ويرُدُّ البصر للوالد الشّيخ، ويمنحه الفرح برؤية ابنه طوبِيَّا مرّة أخرى. ولما جاء ذلك اليوم، "أَلْقى طوبيت بِنَفْسِه على عُنُقِه وبَكى ثُمَّ قال: إِنِّي أَراكَ يا وَلَدي ونورَ عَينَيَّ. وأَضاف: مُبارَكٌ الله ومبارَكٌ أسمُه العَظيم! مُباركةٌ جَميعُ مَلائكتِه القِدّيسين! مُباركٌ آسمُه العَظيم أَبَدَ الدُّهور! لأَنَّه ضَرَبَني فَرحِمَني ولِأَنِّي أَرى طوبِيَّا آبْني" (11: 13-15).
3. يمكننا أن نتساءل: من أين يستمّد طوبيت الشّجاعة والقوّة الدّاخليّة التي تسمح له بأن يخدم الله في وسط شعب وثني وأن يحبّ قريبه إلى هذا الحدّ، إلى حدّ المخاطرة بحياته؟ نحن أمام مثالٍ غير عادي: طوبيت زوج مخلِص وأب حنون. تمّ جَلاؤه بعيدًا عن أرضه وهو يتألّم ظلمًا. اضطهده الملك وكذلك جيران بيته... كان طيِّبًا وصالحًا، ومع ذلك ابتُلِيَ بالمحن. كما يعلّمنا الكتاب المقدّس غالبًا، إنّ الله لا يبعد المحن عمَّن يصنع الخير. كيف يكون ذلك؟ إنّه لا يعمل ذلك لإذلالنا، بل ليثبِّتَ إيماننا به.
طوبيت، في لحظة المحنة، اكتشف فقره، الذي جعله قادرًا على التّعرّف على الفقراء. كان أمينًا لشريعة الله وحافظًا للوصايا، لكن هذا لم يكن كافِيًا له. صار يهتمّ فعلًا بالفقراء لأنّه اختبر الفقر في نفسه. لذلك، الكلام الذي وجّهه لابنه طوبيّا هو ميراثه العفوي: "لا تُحَوِّلْ وَجهَكَ عن فَقير" (4، 7). باختصار، عندما نواجه شخصًا فقيرًا، لا يمكننا أن نحوّل نظرنا بعيدًا عنه، لأنّنا بذلك نمنع أنفسنا من أن نلتقي وجه الرّبّ يسوع. ولنلاحظ جيّدًا هذه العبارة "عن فقيرٍ" أي عن كلّ فقير. كلّ واحد هو قريبنا. لا يهمّ لون البشرة، والحالة الاجتماعيّة، ومن أين هو... إن كنتُ فقيرًا، يمكنني أن أتعرّف على من هو الأخ الذي يحتاج إليَّ حقًّا. نحن مدعوّون إلى لقاء كلّ فقير وكلّ نوع من أنواع الفقر، ومدعوّون إلى التّخلّص من اللامبالاة والقول ”هذا أمر عادي“، به نظن أنّنا نحمي رفاهنا الوهمي.
4. نحن نعيش فترة تاريخيّة لا تشجّع على الانتباه إلى الفقراء. نداء الرّفاهية يرتفع ويزداد، بينما نُسكِت أصوات الذين يعيشون في الفَقر. نميل إلى إهمال كلّ ما لا يدخل ضمن نماذج الحياة التي نوجِّه إليها خصوصًا الأجيال الشّابّة، التي هي الأضعف أمام التّغيّر الثّقافي الحالي. نضع بين قوسين ما هو غير سارّ ويسبّب الألم، بينما نكبّر الصّفات الجسديّة كما لو كانت الهدف الرّئيسي الذي يجب أن نحقّقه. ويسيطر الواقع الافتراضي على الحياة الواقعيّة، والخلط بين العالمَين يزداد بسهولة. يصير الفقراء صورًا يمكن أن تحرك المشاعر للحظات قليلة، لكن عندما نلتقي بهم شخصيًّا في الطّريق، حينئذ يَغلِب علينا الانزعاج والتَّهميش. السُّرعة، التي صارت رفيقة درب في حياتنا اليوميّة، تمنعنا من أن نتوقّف لنساعد الآخر ونعتني به. مَثَلُ السّامري الرّحيم (راجع لوقا 10، 25-37) ليس قصّة من الماضي، بل هو مَثَلٌ يُخاطب كلّ واحد منّا اليوم في هذا الزّمن الحاضر. من السّهل أن نفوّض الآخرين، وأن نعطِيَ المال حتّى يقوم الآخرون بأعمال المحبّة: إنّه عمل صالح، لكن المشاركة شخصيًّا في هذه الأعمال هي دعوة كلّ مسيحيّ.
5. لنشكر الرّبّ يسوع لأنّه يوجد رجالٌ ونساءٌ كثيرون يعيشون بتفانٍ مع الفقراء والمُستبعدين ويتشاركون معهم، وأشخاصٌ من جميع الأعمار والظّروف الاجتماعيّة يستقبلون ويلتزمون ببقائهم قُربَ الذين يوجدون في أوضاع تهميش ومعاناة. هؤلاء ليسوا رجالًا خارقين، بل هُم ”جيران“ نلتقي بهم كلَّ يوم، وهم بِصَمت يصيرون فقراء مع الفقراء. هُم لا يكتفون بأن يقدّموا شيئًا ما: بل يُصغون ويتحاورون ويحاولون أن يفهموا المواقف وأسبابها، لكي يقدّموا النّصائح المناسبة ويدُلُّوا على المرجعيّات الصّحيحة. وهُم متنبّهون إلى الحاجة الماديّة والرّوحيّة أيضًا، لتنمية الإنسان الكامل في الشّخص. وبهذه الخدمة السّخية والمجّانيّة، يصير ملكوت الله حاضرًا ومرئيًّا. ويصير مثل البِذرة التي تقع في الأرض الطّيّبة في حياة هؤلاء الأشخاص، فتعطي ثمارها (راجع لوقا 8، 4-15). شُكرُنا للمتطوّعين الكثيرين يطلب منّا أن نصلّي لكي تكون شهادتهم مثمرة.
6. في الذّكرى السّنويّة السّتّين للرّسالة البابويّة العامّة، السّلام على الأرض (Pacem in terries)، من الضّروري أن نستعيد كلمات القدّيس البابا يوحنّا الثّالث والعشرين: "كلّ إنسان له الحقّ في الوجود، وفي السّلامة الجسديّة الكاملة، ووسائل الحياة الأساسيّة والكافية ليعيش في مستوى حياة كريمة، لا سيّما فيما يتعلّق بالمأكل والملبس والمسكن والرّاحة والرّعاية الطّبيّة والخدمات الاجتماعيّة الضّروريّة، وبالتّالي له الحقّ في الضّمان في حالة المرض والعجز والتّرمّل والشّيخوخة والبطالة، وفي كلّ حالة أخرى فيها يفقد وسائل العيش بسبب ظروف خارجة عن إرادته" (رقم 6).
كم علينا أن نعمل بعد حتّى تصير هذه الكلمات حقيقة، وأيضًا من خلال التزام سياسيّ وتشريعيّ جادّ وفعّال! على الرّغم من حدود وفشل السّياسة أحيانًا في رؤية وخدمة الخير العام، يمكن أن يطوّر التّضامنَ واللامركزيّةَ لدى الكثير من المواطنين الذين يؤمنون بقيمة الالتزام الطّوعي للتّفاني من أجل الفقراء. بالتّأكيد، علينا أن نحفّز ونضغط حتّى تقوم المؤسّسات العامّة بواجبها على أكمل وجه. ولا ينفعنا أن نبقى غير فعّالين وننتظر أن نتلقّى كلّ شيء ”من فوق“: فمن يعيش في حالة فَقر، يجب أيضًا أن نُشرِكَهُ ونُرافِقَهُ في مسيرة التّغيير والمسؤوليّة.
7. مرّة أخرى، للأسف، علينا أن نلاحظ أشكالًا جديدة من الفَقر تُضاف إلى تلك التي ذكرناها من قبل. أفكّر بشكل خاصّ في الشّعوب الذين يعيشون في أماكن الحرب، وخاصّة الأطفال المحرومين من حاضر هادئ ومستقبل كريم. لا يستطيع أحد أبدًا أن يعتاد على هذه الحالة. لندعم ونؤيّد كلّ محاولة لإحلال السّلام وتثبيته، عطيّةً من الرّبّ يسوع القائم من بين الأموات وثمرةً للالتزام من أجل العدل والحوار.
لا يمكنني أن أنسى التّلاعبات الماليّة التي أدّت، في قطاعات مختلفة، إلى ارتفاع الأسعار بصورة مأساويّة، ومِن ثَمَّ إلى ازدياد فقر عائلات كثيرة. تنفد الأجور بسرعة، فتُجبر على الحرمان الذي يهدّد كرامة كلّ شخص. توجد عائلات يجب أن يختار أفرادها بين الطّعام وبين الأدوية للعلاج. هذا يعني أنّه يجب على الذين يدعون إلى الحقّ أن يُسمعوا صوتهم من أجل كِلا الأمرين، باسم كرامة الإنسان.
علاوة على ذلك، كيف يمكننا ألّا نلاحظ الاضطراب الأخلاقي الذي يميّز عالم العمل؟ المعاملة اللاإنسانيّة التي يعاني منها الكثير من العمّال والعاملات، والأجر غير المتكافئ عن العمل المُنجز، وآفة عدم الاستقرار، وضحايا الحوادث الكثيرة، غالبًا بسبب العقليّة التي تفضّل الرِّبح الفوري على حساب السّلامة... تتبادر إلى ذهني كلمات القدّيس يوحنّا بولس الثّاني: "الأساس الأوّل لقيمة العمل هو الإنسان نفسه. [...] الإنسان مُوجَّه ومدعُوٌّ إلى العمل، لكن العمل أوّلًا هو ”من أجل الإنسان“، وليس الإنسان ”من أجل العمل“" (الرّسالة البابويّة العامّة، ”القيام بالعمل“ Laborem exercens ، 6).
8. هذه اللائحة، التي هي بحدّ ذاتها مأساويّة، تقدّم عرضًا جزئيًّا فقط لحالات الفقر التي تشكّل جزءًا من حياتنا اليوميّة. لا يمكن أن أتجاهل، خصوصًا، شكلًا من أشكال القلق الذي يبدو ويظهر واضحًا اليوم في عالم الشّباب. كم من الإحباط، وحتّى حالات الانتحار بين الشّباب الذين خدعتهم ثقافةٌ قادتهم إلى طرق مسدودة وإلى الفشل.. لنساعدهم على أن يقاوموا أمام هذه العوامل القتالة، حتّى يستطيع كلّ واحدٍ أن يجد طريقه ويصنع لنفسه هويّة مبنية على القوَّة والكرامة.
عندما نتكلّم على الفقراء، من السّهل أن نتوقّف عند الخطابة. وتجربة أخرى شريرة أيضًا هي وقوفنا عند الإحصائيّات والأرقام. الفقراء هُم أشخاص، ولهم وجوه وتاريخ وقلوب وأرواح. إنّهم إخوة وأخوات بمواطن القوّة والضّعف فيهم، مثل الجميع، ومن المهمّ أن ندخل في علاقة شخصيّة مع كلّ واحدٍ منهم.
سفر طوبيّا يعلّمنا كيف نتعامل في الواقع مع الفقراء وماذا نعمل من أجلهم. إنّها مسألة عَدل تُلزمنا كلّنا أن نبحث ونلتقي بعضنا مع بعض، لتعزيز الانسجام الضّروري، حتّى تستطيع الجماعة أن تكون فعلًا جماعة. لذلك، اهتمامنا بالفقراء لا ينتهي بإعطائنا لهم بعض الصّدقة السّريعة، بل يتطلّب منّا أن نعيد تحديد العلاقات الشّخصيّة الصّحيحة التي أزالها الفقر. بهذه الطّريقة، تقودنا الآية ”لا تحوِّل نظرك عن الفقير“ إلى فوائد الرّحمة والمحبّة التي تعطي معنى وقيمة للحياة المسيحيّة كلّها.
9. ليكُنْ اهتمامنا بالفقراء مُتَّسمًا دائمًا بالواقعيّة الإنجيليّة. يجب أن تكون مشاركتنا متناسبة مع احتياجات الآخر الحقيقيّة، وليس فقط إعطاء بعض الفائض من مالي. هنا أيضًا، نحن بحاجة إلى التّمييز، بقيادة الرّوح القدس، لكي نرى احتياجات الإخوة الحقيقيّة، وليس تطلّعاتنا. ما هُم بحاجة مُلِحَّة إليه بالتّأكيد هو إنسانيّتنا، وقلبنا المُنفتح على الحُبّ. لا ننسَ هذا: "إنّنا مدعوّون إلى أن نكتشف المسيح فيهِم، أن نعيرهم صوتنا للدّفاع عن قضاياهم، لكن أيضًا بأن نكون لهم أصدقاء، وأن نصغي إليهم، ونفهمهم وأن نتقبّل الحكمة السرّيّة التي يريد الله أن يبلغنا إيّاها من خلالهم" (الإرشاد الرّسوليّ، فرح الإنجيل، 198). يعلّمنا الإيمان أنّ كلّ فقير هو ابن لله وأنّ المسيح حاضر فيه أو فيها: "كُلَّما صَنعتُم شَيئًا مِن ذلك لِواحِدٍ مِن إِخوَتي هؤُلاءِ الصِّغار، فلي قد صَنَعتُموه" (متّى 25، 40).
10. هذه السّنة هي الذّكرى السّنويّة المئة والخمسون لولادة القدّيسة تريزا الطّفل يسوع. في صفحة من صفحات كتابها ”حِكايَةُ نَفْس“ (Storia di un’anima) كتبت ما يلي: "الآن فهمت أنّ المحبّة الكاملة تقوم بتحمّل عيوب الآخرين، وفي ألّا نستغرب إطلاقًا من ضعفهم، وأن نستفيد من أصغر أعمال الفضيلة التي نراها فيهم، وخصوصًا فهمت أنّ المحبّة يجب ألّا تبقى دفينة في أعماق القلب: ”قال يسوع: لا أحد يضيء شعلة ليضعها تحت المكيال، بل ليضعها على الشّمعدان، حتّى تنير كلّ الذين في البيت“. يبدو أنّ هذه الشّعلة تمثّل المحبّة التي يجب أن تُنير وتُبهج ليس فقط الذين أحبّهم وأفضِّلهم، بل كلّ الذين في البيت، دون استثناء أحد" (Ms C, 12r°: Opere complete, Roma 1997, 247).
في هذا البيت الذي هو العالم، الكلّ له الحقّ في أن يستنير بالمحبّة، ولا يجوز أن يُحرَمَ أحد منها. لِيُلهم إصرار المحبّة في القدّيسة تريزا قلوبنا في هذا اليوم العالمي، ولتساعدنا على ”ألّا نُحوِّل نظرنا عن الفقير“ ونبقيه ثابتًا دائمًا في وجه الرّبّ يسوع المسيح، البشريّ والإلهي.
روما، بازيليكا القدّيس يوحنا في اللاتران، يوم 13 حزيران/يونيو 2022، تذكار القدّيس أنطونيوس البدواني، شفيع الفقراء.
فرنسيس
[00984-AR.01] [Testo originale: Italiano]
[B0441-XX.03]