Incontro con il mondo universitario e della cultura presso la Facoltà di Informatica e di Scienze Bioniche dell’Università Cattolica Péter Pázmány
Discorso del Santo Padre
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Traduzione in lingua polacca
Traduzione in lingua araba
Questo pomeriggio, dopo essersi congedato dal Personale e dai benefattori della Nunziatura Apostolica di Budapest, il Santo Padre Francesco si è recato all’Università Cattolica Péter Pázmány dove, presso la Facoltà di Informatica e di Scienze Bioniche, ha avuto luogo l’Incontro con il mondo universitario e della cultura.
Al Suo arrivo, alle ore 16.00, il Papa è stato accolto all’ingresso dal Rettore Magnifico e dal Decano della Facoltà. Quindi insieme si sono diretti verso il podio dove ha avuto luogo l’incontro.
Dopo il saluto di benvenuto di Mons. Prof. Géza Kuminetz, Rettore Magnifico dell’Università Cattolica “Péter Pázmány”, l’esecuzione di un intermezzo musicale e le testimonianze di un professore e di una studentessa, il Papa ha pronunciato il Suo discorso.
Al termine, dopo la consegna di un dono al Santo Padre, la recita del Padre Nostro e la benedizione finale, il Papa ha salutato alcuni dei presenti. Quindi ha lasciato l’Università Cattolica Péter Pázmány e si è trasferito in auto all’Aeroporto Internazionale Ferenc Liszt di Budapest per la cerimonia di congedo dall’Ungheria.
Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa ha pronunciato nel corso dell’incontro:
Discorso del Santo Padre
Cari fratelli e sorelle, buon pomeriggio!
Saluto ciascuno di voi e ringrazio per le belle parole che sono state dette e sulle quali mi soffermerò tra poco. Questo è l’ultimo incontro della mia visita in Ungheria e, con il cuore grato, mi piace pensare al corso del Danubio, che collega questo Paese a molti altri, unendone, oltre alla geografia, anche la storia. La cultura, in un certo senso, è come un grande fiume: collega e percorre varie regioni della vita e della storia mettendole in relazione, permette di navigare nel mondo e di abbracciare Paesi e terre lontane, disseta la mente, irriga l’anima, fa crescere la società. La stessa parola cultura deriva dal verbo coltivare: il sapere comporta una semina quotidiana che, immergendosi nei solchi della realtà, porta frutto.
Cent’anni fa Romano Guardini, grande intellettuale e uomo di fede, proprio mentre si trovava immerso in un paesaggio reso unico dalla bellezza delle acque, ebbe una feconda intuizione culturale. Scrisse: «In questi giorni ho più che mai compreso che vi sono due forme di conoscenza […], l’una conduce ad immergersi nell’oggetto e nel suo contesto, per cui l’uomo che vuol conoscere cerca di vivere in lui; l’altra, al contrario, raduna le cose, le decompone, le ordina in caselle, ne acquista padronanza e possesso, le domina» (Lettere dal Lago di Como. La tecnica e l’uomo, Brescia 2022, 55). Distingue tra una conoscenza umile e relazionale, la quale è come “un regnare che si ottiene per mezzo del servire; un creare secondo la natura, che non oltrepassa i limiti stabiliti” (cfr p. 57), e un’altra modalità di sapere, che «non osserva, ma analizza […] non s’immerge più nell’oggetto, lo afferra» (p. 56).
Ed ecco che in questo secondo modo di conoscere «le energie e le sostanze sono fatte convergere ad un unico fine: la macchina» (p. 58), e «così si sviluppa una tecnica dell’assoggettamento dell’essere vivente» (pp. 59-60). Guardini non demonizza la tecnica, la quale permette di vivere meglio, di comunicare e avere molti vantaggi, ma avverte il rischio che essa diventi regolatrice, se non dominatrice, della vita. In tal senso vedeva un grande pericolo: «L’uomo perde tutti i legami interiori che gli procurano un senso organico della misura e delle forme di espressione in armonia con la natura» e, «mentre nel suo essere interiore egli è divenuto senza contorni, senza misura, senza direzione, egli stabilisce arbitrariamente i suoi fini e costringe le forze della natura, da lui dominate, ad attuarli» (p. 60). E lasciava ai posteri una domanda inquietante: «Cosa ne sarà della vita se essa finirà sotto questo giogo? [...] Cosa accadrà […] quando ci troveremo davanti al prevalere degli imperativi della tecnica? La vita, ormai, è inquadrata in un sistema di macchine. […] In un tale sistema, la vita può rimanere vivente?» (p. 61).
La vita può rimanere vivente? È una questione che, specialmente in questo luogo, dove si approfondiscono l’informatica e le “scienze bioniche”, è bene porsi. Infatti, quanto intravisto da Guardini appare evidente ai nostri giorni: pensiamo alla crisi ecologica, con la natura che sta semplicemente reagendo all’uso strumentale che ne abbiamo fatto. Pensiamo alla mancanza di limiti, alla logica del “si può fare dunque è lecito”. Pensiamo anche alla volontà di mettere al centro di tutto non la persona e le sue relazioni, ma l’individuo centrato sui propri bisogni, avido di guadagnare e vorace di afferrare la realtà. E pensiamo di conseguenza all’erosione dei legami comunitari, per cui la solitudine e la paura, da condizioni esistenziali, paiono tramutarsi in condizioni sociali. Quanti individui isolati, molto “social” e poco sociali, ricorrono, come in un circolo vizioso, alle consolazioni della tecnica come a riempitivi del vuoto che avvertono, correndo in modo ancora più frenetico mentre, succubi di un capitalismo selvaggio, sentono come più dolorose le proprie debolezze, in una società dove la velocità esteriore va di pari passo con la fragilità interiore. Questo è il dramma. Dicendo ciò non voglio ingenerare pessimismo – sarebbe contrario alla fede che ho la gioia di professare –, ma riflettere su questa “tracotanza di essere e di avere”, che già agli albori della cultura europea Omero vedeva come minacciosa e che il paradigma tecnocratico esaspera, con un certo uso degli algoritmi che può rappresentare un ulteriore rischio di destabilizzazione dell’umano.
In un romanzo che ho più volte citato, Il padrone del mondo, di Robert Benson, si osserva «che complessità meccanica non è sinonimo di vera grandezza e che nell’esteriorità più fastosa si nasconde più sottile l’insidia» (Verona 2014, 24-25). In questo libro, in un certo senso “profetico”, scritto più di un secolo fa, viene descritto un futuro dominato dalla tecnica e nel quale tutto, in nome del progresso, viene uniformato: ovunque si predica un nuovo “umanitarismo” che annulla le differenze, azzerando le vite dei popoli e abolendo le religioni. Abolendo le differenze, tutte. Ideologie opposte convergono in una omologazione che colonizza ideologicamente. Questo è il dramma, la colonizzazione ideologica; l’uomo, a contatto con le macchine, si appiattisce sempre di più, mentre il vivere comune diventa triste e rarefatto. In quel mondo progredito ma cupo, descritto da Benson, dove tutti sembrano insensibili e anestetizzati, pare ovvio scartare i malati e applicare l’eutanasia, così come abolire le lingue e le culture nazionali per raggiungere la pace universale, che in realtà si trasforma in una persecuzione fondata sull’imposizione del consenso, tanto da far affermare a un protagonista che «il mondo sembra in balia di una vitalità perversa, che corrompe e confonde ogni cosa» (p. 145).
Mi sono protratto in questa disamina a tinte fosche perché proprio in tale contesto meglio risplendono i ruoli della cultura e dell’università. L’università è infatti, come indica il nome stesso, il luogo dove il pensiero nasce, cresce e matura aperto e sinfonico; non monocorde, non chiuso: aperto e sinfonico. È il “tempio” dove la conoscenza è chiamata a liberarsi dai confini angusti dell’avere e del possedere per diventare cultura, cioè, “coltivazione” dell’uomo e delle sue relazioni fondanti: con il trascendente, con la società, con la storia, con il creato. Afferma in proposito il Concilio Vaticano II: «La cultura deve mirare alla perfezione integrale della persona umana, al bene della comunità e di tutta la società umana. Perciò è necessario coltivare lo spirito in modo che si sviluppino le facoltà dell’ammirazione, dell’intuizione, della contemplazione, e si diventi capaci di formarsi un giudizio personale e di coltivare il senso religioso, morale e sociale» (Cost. past. Gaudium et spes, 59). Già nei tempi antichi si diceva che l’inizio del filosofare è l’ammirazione, la capacità di ammirazione. In questa prospettiva ho molto apprezzato le vostre parole. Le sue, Monsignor Rettore, quando ha detto che «in ogni vero scienziato c’è qualcosa dello scriba, del sacerdote, del profeta e del mistico»; e ancora che «con l’aiuto della scienza non vogliamo solo capire, vogliamo anche fare la cosa giusta, cioè costruire una civiltà umana e solidale, una cultura e un ambiente sostenibili. È con il cuore umile che possiamo salire non solo sul monte del Signore, ma anche sul monte della scienza».
È vero: i grandi intellettuali, infatti, sono umili. Il mistero della vita, d’altronde, si svela a chi sa entrare nelle piccole cose. È bello in proposito quanto ci ha detto Dorottya: «Scoprendo sempre più piccoli dettagli ci immergiamo nella complessità dell’opera di Dio». Così intesa, la cultura davvero rappresenta la salvaguardia dell’umano. Immerge nella contemplazione e plasma persone che non sono in balia delle mode del momento, ma ben radicate nella realtà delle cose. E che, umili discepole del sapere, sentono di dover essere aperte e comunicative, mai rigide e combattive. Chi ama la cultura, infatti, non si sente mai arrivato e a posto, ma porta in sé una sana inquietudine. Ricerca, interroga, rischia, esplora; sa uscire dalle proprie certezze per avventurarsi con umiltà nel mistero della vita, che si sposa con l’inquietudine, non con l’abitudine; che si apre alle altre culture e avverte il bisogno di condividere il sapere. Questo è lo spirito dell’università, e vi ringrazio perché lo vivete così; come ci ha detto il Professor Major, il quale ha raccontato la bellezza di cooperare con altre realtà educative, attraverso programmi di ricerca condivisi e anche accogliendo studenti provenienti da altre regioni del mondo, come il Medio Oriente, in particolare dalla martoriata Siria. È aprendosi agli altri che si conosce meglio sé stessi. L’apertura, aprirsi agli altri è come uno specchio: mi fa conoscere meglio me stesso.
La cultura ci accompagna a conoscere noi stessi. Lo ricorda il pensiero classico, che non deve mai tramontare. Vengono alla mente le celebri parole dell’oracolo di Delfi: «Conosci te stesso». È una delle due frasi-guida che vorrei lasciarvi in conclusione. Ma che cosa significa conosci te stesso? Vuol dire saper riconoscere i propri limiti e, di conseguenza, arginare la propria presunzione di autosufficienza. Ci fa bene, perché è anzitutto riconoscendoci creature che diventiamo creativi, immergendoci nel mondo anziché dominandolo. E mentre il pensiero tecnocratico insegue un progresso che non ammette limiti, l’uomo reale è fatto anche di fragilità, ed è spesso proprio lì che comprende di essere dipendente da Dio e connesso con gli altri e con il creato. La frase dell’oracolo di Delfi invita dunque a una conoscenza che, partendo dall’umiltà, partendo dal limite, partendo dall’umiltà del limite scopre le proprie meravigliose potenzialità, che vanno ben oltre quelle della tecnica. Conoscere sé stessi, in altre parole, chiede di tenere insieme, in una dialettica virtuosa, la fragilità e la grandezza dell’uomo. Dallo stupore di questo contrasto sorge la cultura: mai appagata e sempre in ricerca, inquieta e comunitaria, disciplinata nella sua finitezza e aperta all’assoluto. Vi auguro di coltivare questa appassionante scoperta della verità!
La seconda frase-guida si riferisce proprio alla verità. È una frase di Gesù Cristo: «La verità vi farà liberi» (Gv 8,32). L’Ungheria ha visto il susseguirsi di ideologie che si imponevano come verità, ma non davano libertà. E anche oggi il rischio non è scomparso: penso al passaggio dal comunismo al consumismo. Ad accomunare entrambi gli “ismi” c’è una falsa idea di libertà; quella del comunismo era una “libertà” costretta, limitata da fuori, decisa da qualcun altro; quella del consumismo è una “libertà” libertina, edonista, appiattita su di sé, che rende schiavi dei consumi e delle cose. E quanto è facile passare dai limiti imposti al pensare, come nel comunismo, al pensarsi senza limiti, come nel consumismo! Da una libertà frenata a una libertà senza freni. Gesù invece offre una via d’uscita, dicendo che è vero ciò che libera, quello che libera l’uomo dalle sue dipendenze e dalle sue chiusure. La chiave per accedere a questa verità è un conoscere mai slegato dall’amore, relazionale, umile e aperto, concreto e comunitario, coraggioso e costruttivo. È questo che le Università sono chiamate a coltivare e la fede ad alimentare. Auguro dunque a questa e ad ogni Università di essere un centro di universalità e di libertà, un cantiere fecondo di umanesimo, un laboratorio di speranza. Vi benedico di cuore e vi ringrazio per quanto fate: Grazie tante!
[00690-IT.02] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua francese
Chers frères et sœurs, bon après-midi !
Je salue chacun de vous et je vous remercie pour les belles paroles qui ont été dites et sur lesquelles je m’arrêterai tout à l’heure. C’est la dernière rencontre de ma visite en Hongrie et j’aime penser, le cœur reconnaissant, au cours du Danube qui relie ce pays à beaucoup d’autres. Il les unit géographiquement mais aussi historiquement. La culture, en un certain sens, est comme un grand fleuve. Elle connecte et parcourt les différents lieux de la vie et de l’histoire en les reliant, elle permet de naviguer dans le monde et d’embrasser des pays et des terres lointaines, elle désaltère l’esprit, irrigue l’âme, fait croître la société. Le mot même de culture dérive du verbe cultiver : le savoir suppose une semence quotidienne qui, en s’introduisant dans les sillons de la réalité, porte du fruit.
Il y a cent ans, Romano Guardini, grand intellectuel et homme de foi, alors qu’il était face un paysage unique en raison de la beauté des eaux, eut une intuition culturelle féconde. Il écrivit : « Ces jours-ci j’ai plus que jamais compris qu’il y a deux formes de connaissance [...], l’une conduit à se plonger dans l’objet et dans son contexte, l’homme qui veut connaître cherche à vivre en lui. L’autre, au contraire, rassemble les choses, les décompose, les range dans des cases, en acquiert maîtrise et la possession, les domine » (Lettres du lac de Côme : sur la technique et l’humanité, Brescia 2022, p. 55). Il distingue entre une connaissance humble et relationnelle, qui est comme “une souveraineté qui s’obtient par le service ; une création selon la nature qui ne dépasse pas les limites établies” (cf. p. 57), et une autre manière de connaître qui « n’observe pas, mais analyse [...] qui ne s’immerge plus dans l’objet, mais qui le saisit » (p. 56).
Et voici que, dans cette seconde manière de connaître, « les énergies et les substances sont orientées vers une unique finalité : la machine » (p. 58), de sorte qu’ « une technique de l’assujettissement de l’être vivant se développe » (p. 59-60). Guardini ne diabolise pas la technique laquelle permet de mieux vivre, de communiquer et qui offre beaucoup d’avantages, mais il met en garde contre le risque qu’elle devienne régulatrice, sinon dominatrice, de la vie. En ce sens, il voyait un grand danger : que « l’homme perde tous les liens intérieurs qui lui procurent un sens organique de la mesure et des formes d’expression en harmonie avec la nature » et alors que, « devenu dans son être intérieur sans contours, sans mesure, sans direction, il établisse arbitrairement ses fins et contraigne les forces de la nature, qu’il domine, à les mettre en œuvre » (p. 60). Et il laissait à la postérité une question inquiétante : « Qu’adviendra-t-il de la vie si elle finit sous ce joug ? [...] Que se passera-t-il [...] lorsque nous nous trouverons face à la primauté des impératifs de la technique ? La vie est désormais encadrée par un système de machines. [...] Dans un tel système, la vie peut-elle rester vivante ? » (p. 61).
La vie peut-elle rester vivante ? C’est une question qu’il est bon de se poser, spécialement en ce lieu où l’informatique et les “sciences bioniques sont approfondies”. En effet, ce que Guardini a entrevu apparaît évident de nos jours. Pensons à la crise écologique, avec la nature qui ne fait que réagir à l’usage instrumental que nous en avons fait. Pensons au manque de limites, à la logique du “on peut le faire donc c’est licite”. Pensons aussi à la volonté de mettre au centre de tout, non pas la personne et ses relations, mais l’individu centré sur ses besoins, avide de s’enrichir et de s’emparer de la réalité. Et pensons, en conséquence, à l’érosion des liens communautaires sans lesquels la solitude et la peur, de conditions existentielles, semblent se transformer en conditions sociales. Combien d’individus isolés, très “social” et peu sociaux, recourent, comme dans un cercle vicieux, aux consolations de la technique pour remplir le vide qu’ils ressentent. Ils courent encore plus frénétiquement et, succombant à un capitalisme sauvage, ils ressentent comme plus douloureuses leurs faiblesses, dans une société où la vitesse extérieure va de pair avec la fragilité intérieure. C'est là le drame. En disant cela, je ne veux pas engendrer du pessimisme – ce serait contraire à la foi que j’ai la joie de professer –, mais réfléchir sur cette “arrogance d’être et d’avoir” que déjà, à l’aube de la culture européenne, Homère voyait comme menaçante et que le paradigme technocratique accentue, avec une certaine utilisation des algorithmes qui peut représenter un risque supplémentaire de déstabilisation de l’humain.
Dans un roman que j’ai plusieurs fois cité, Le maître de la terre, de Robert Benson, on observe « que la complexité mécanique n’est pas synonyme de vraie grandeur et qu’un piège se cache plus subtilement dans une extériorité plus magnifique » (Vérone 2014, pp. 24-25). Dans ce livre en un certain sens “prophétique”, écrit il y a plus d’un siècle, un avenir dominé par la technique est décrit, dans lequel tout est uniformisé au nom du progrès : partout l’on prêche un nouvel “humanitarisme” qui annule les différences, en réduisant à zéro la vie des peuples et en abolissant les religions. En abolissant les différences, toutes les différences. Des idéologies opposées convergent vers une homologation qui colonise idéologiquement. C’est là le drame, la colonisation idéologique ; l’homme s’aplatit de plus en plus au contact des machines, alors que la vie commune se raréfie et devient triste. Dans ce monde, avancé mais sombre, décrit par Benson, où tout le monde paraît insensible et anesthésié, il semble évident qu’il faut écarter les malades et appliquer l’euthanasie, abolir les langues et les cultures nationales pour atteindre une paix universelle qui se transforme, en réalité, en une persécution fondée sur l’imposition du consentement, au point de faire affirmer à un protagoniste que « le monde semble à la merci d’une vitalité perverse qui corrompt et confond tout » (p. 145).
Je me suis engagé dans cette sombre analyse parce que, dans ce contexte, les rôles de la culture et de l’université ressortent davantage. L’université est, en effet, comme son nom l’indique, le lieu où la pensée naît, grandit et mûrit, ouverte et symphonique, non pas monotone, non pas fermée : ouverte et symphonique. Elle est le “temple” où la connaissance est appelée à se libérer des limites étroites de l’avoir et de la possession pour devenir culture, c’est-à-dire “cultivation” de l’homme et de ses relations fondatrices : avec le transcendant, avec la société, avec l’histoire, avec la création. Le Concile Vatican II affirme à ce propos : « La culture doit être subordonnée au développement intégral de la personne, au bien de la communauté et à celui du genre humain tout entier. Aussi convient-il de cultiver l’esprit en vue de développer les puissances d’admiration, de contemplation, d’aboutir à la formation d’un jugement personnel et d’élever le sens religieux, moral et social » (Const. past. Gaudium et spes, n. 59). Dans l'Antiquité déjà, on disait que le commencement de la philosophie était l'admiration, la capacité d'admiration. Dans cette perspective, j’ai beaucoup apprécié vos paroles. Les vôtres, Monsieur le Recteur, lorsque vous avez dit qu’ « en tout vrai scientifique il y a quelque chose du scribe, du prêtre, du prophète et du mystique » ; et encore qu’« avec l’aide de la science, nous ne voulons pas seulement comprendre, nous voulons aussi faire la chose juste, c’est-à-dire construire une civilisation humaine et solidaire, une culture et un environnement durables. C’est le cœur humble que nous pouvons monter non seulement sur la montagne du Seigneur, mais aussi sur la montagne de la science ».
Cela est vrai en effet, les grands intellectuels sont humbles. D’ailleurs, le mystère de la vie se révèle à ceux qui savent entrer dans les petites choses. Ce qu’a dit Dorottya est beau : « En découvrant de plus en plus les petits détails, nous plongeons dans la complexité de l’œuvre de Dieu ». Ainsi comprise, la culture représente vraiment la sauvegarde de l’humain. Elle immerge dans la contemplation et façonne des personnes qui ne sont pas à la merci des modes du moment, mais bien enracinées dans la réalité des choses. Humbles disciples du savoir, elles sentent qu’elles doivent être ouvertes et communicatives, jamais rigides ni agressives. Celui qui aime la culture, en effet, ne se sent jamais arrivé, mais porte en lui une saine inquiétude. Il recherche, interroge, risque, explore ; il sait sortir de ses certitudes pour s’aventurer avec humilité dans le mystère de la vie. Il éprouve l’inquiétude, non l’habitude ; il s’ouvre aux autres cultures et il ressent le besoin de partager le savoir. Voilà l’esprit de l’université, et je vous remercie de le vivre ainsi, comme nous l’a dit le Professeur Major qui a dit la beauté de coopérer avec d’autres réalités éducatives, à travers des programmes de recherche partagés, et également en accueillant des étudiants d’autres régions du monde, comme le Moyen-Orient, en particulier de la Syrie meurtrie. C’est en s’ouvrant aux autres qu’on se connaît le mieux. L'ouverture, l'ouverture aux autres est comme un miroir : elle me permet de mieux me connaître.
La culture nous accompagne dans la connaissance de nous-mêmes. La pensée classique, qui ne doit jamais disparaître, nous le rappelle. Les célèbres paroles de l’oracle de Delphes viennent à l’esprit : « Connais-toi, toi-même ». C’est l’une des deux phrases-guides que je voudrais vous laisser en conclusion. Mais que signifie connais-toi, toi-même ? Cela signifie reconnaître ses propres limites et, par conséquent, limiter sa présomption d’autosuffisance. Cela nous est bon, car c’est avant tout en nous reconnaissant en tant que créatures que nous devenons créatifs ; en nous plongeant dans le monde au lieu de le dominer. Et tandis que la pensée technocratique poursuit un progrès qui n’admet pas de limites, l’homme réel est aussi fait de fragilité ; et c’est souvent là qu’il comprend qu’il est dépendant de Dieu et relié aux autres et à la création. L’oracle de Delphes invite donc à une connaissance qui, partant de l’humilité, partant de la limite, partant de l'humilité de la limite, découvre ses merveilleuses potentialités qui vont bien au-delà de celles de la technique. En d’autres termes, se connaître soi-même demande de tenir ensemble, dans une dialectique vertueuse, la fragilité et la grandeur de l’homme. La culture naît de l’émerveillement de ce contraste : jamais satisfaite et toujours en recherche, inquiète et communautaire, disciplinée dans sa finitude et ouverte à l’absolu. Je vous souhaite de cultiver cette passionnante découverte de la vérité !
La deuxième phrase-guide se réfère précisément à la vérité. C’est une phrase de Jésus-Christ : « La vérité vous rendra libres » (Jn 8, 32). La Hongrie a vu se succéder des idéologies qui s’imposaient comme vérité, mais qui ne donnaient pas la liberté. Et aujourd’hui encore, le risque n’a pas disparu : je pense au passage du communisme au consumérisme. Les deux “ismes” ont en commun une fausse idée de liberté. Celle du communisme était une “liberté” contrainte, limitée de l’extérieur, décidée par quelqu’un d’autre. Celle du consumérisme est une “liberté” libertine, hédoniste, aplatie sur elle-même, qui rend esclaves des produits de consommation et des choses. Et comme il est facile de passer des limites imposées au fait de penser, comme dans le communisme, au fait de se penser sans limites, comme dans le consumérisme ! D’une liberté freinée à une liberté sans freins. Jésus, au contraire, offre une issue en disant qu’est vrai ce qui libère, ce qui libère l’homme de ses dépendances et de ses fermetures. La clé pour accéder à cette vérité c’est une connaissance jamais détachée de l’amour relationnel, humble et ouvert, concret et communautaire, courageux et constructif. C’est ce que les universités sont appelées à cultiver, et la foi à nourrir. Je souhaite donc à chaque université, et celle-ci, d’être un centre d’universalité et de liberté, un chantier fécond d’humanisme, un laboratoire d’espérance. Je vous bénis de tout cœur et je vous remercie pour ce que vous faites : merci beaucoup !
[00690-FR.02] [Texte original: Italien]
Traduzione in lingua inglese
Dear brothers and sisters, good afternoon!
In greeting each of you, I express my appreciation for your fine words of welcome, which I will address in a moment. This is the final meeting of my visit to Hungary, for which I am most grateful. Here I think of the course of the Danube, which links this country to many others, uniting not only their geography but also their history. Culture is in some sense like a great river: it runs through and connects various areas of life and history, enabling us to navigate in this world and to embrace distant countries and lands. It nurtures the mind, satisfies the soul, and fosters the growth of society. The very word culture comes from the verb to cultivate: knowledge entails a constant planting of seeds that take root in the soil of reality and bear rich fruit.
A hundred years ago, Romano Guardini, a great intellectual and a man of deep faith, in contemplating the beauty of a magnificent lake and its surrounding hills, had a profound insight into contemporary culture. As he put it: “I have come to realize so clearly these days that there are two ways of knowing. The one sinks into a thing and its context. The aim is to penetrate, to move within, to live with. The other, however, unpacks, tears apart, arranges in compartments, takes over and rules” (Letters from Lake Como: Explorations in Technology and the Human Race, Edinburgh, 1994, p. 43). Guardini distinguished between a gentle, relational knowledge and mastery, which he described as “rule by service, creation out of natural possibilities, which does not transgress set limits” (p. 45), and another way of knowing, which “does not inspect; it analyzes. It does not construct a picture of the world, but a formula… a law that can be formulated rationally” (p. 44).
In this second form of knowledge, materials and energy are directed to a single end: the machine (cf. p. 46). As a result “a technique of controlling living people is developing” (p. 47). Guardini did not demonize technology, which improves life and communication and brings many advantages, but he warned of the risk that it might end up controlling, if not dominating, our lives. He foresaw a great threat: “[in that case] we lose all the inner contact that we might have derived from a sense of proportion and the following of natural forms. We become inwardly devoid of form, proportion and direction. We arbitrarily fix our goals and force the mastered powers of nature to bring them to fulfilment” (p. 48). And he left posterity with a troubling question, “What will become of life if it is delivered up to the power of this dominion?” (p. 49). What will happen when we become subject to the imperatives of technology? “A system of machines is engulfing life… Can life retain its living character in this system?” (ibid.).
Can life retain its “living” character? This is a question that is proper to ask, particularly in this place, which is a centre of research into information technology and the bionic sciences. Truth to tell, much of what Guardini foresaw seems obvious to us today. We need but think of the ecological crisis, in which nature is merely reacting to its exploitation at our hands. We can think of the lack of [ethical] boundaries, the mentality that “if it is doable, then it is permissible.” We can think too of our tendency to concentrate not on persons and their relationships, but on the individual, absorbed in his or her needs, greedy for gain and power, and on the consequent erosion of communal bonds, with the result that alienation and anxiety are no longer merely existential crises, but societal problems. How many isolated individuals, albeit immersed in social media, are becoming less and less “social” themselves, and often resort, as if in a vicious circle, to the consolations of technology to fill their interior emptiness. Living at a frenzied pace, prey to a ruthless capitalism, they become painfully conscious of their vulnerability in a society where outward speed goes hand in hand with inward fragility. This is a grave problem today. I mention this not to engender pessimism – for that would be contrary to the faith I rejoice to profess – but rather to reflect on that hubris of pride and power denounced at the dawn of European culture by the poet Homer, which the technocratic paradigm exacerbates, and threatens, through a certain use of algorithms, to further destabilize our human ecology.
In a novel that I have often quoted, The Lord of the World, by Robert Hugh Benson, we read that “size [is] not the same as greatness, and that an insistent external could not exclude a subtle internal” (New York, 1908, p. xxv). That book, written more than a century ago, was to some degree prophetic in its description of a future dominated by technology, where everything is made bland and uniform in the name of progress, and a new “humanitarianism” is proclaimed, cancelling diversity, suppressing the distinctiveness of peoples and abolishing religion, abolishing all differences. Opposed ideologies merge and an ideological colonization prevails – which is a huge problem – as humanity, in a world run by machines, is gradually diminished and social bonds are weakened. In the technically advanced yet grim world described by Benson, with its increasingly listless and passive populace, it appears obvious that the sick should be ignored, euthanasia practised and languages and cultures abolished, in order to achieve a universal peace that is nothing else than an oppression based on the imposition of a consensus. As one of his characters describes it: “the world seems very oddly alive… it is as if the whole thing was flushed and nervous” (ibid., p. 125).
I recognize that I have presented a rather somber scenario, but it is precisely against this backdrop that I believe we can appreciate the uniquely important role played by scholarship and culture in the life of society. A university is, as its very name indicates, a place where thought emerges and develops in a way both open and symphonic, and never monotonous. It is a “temple” where knowledge is set free from the constraints of “accumulating and possessing” and can thus become culture, that is, the “cultivation” of our humanity and its foundational relationships: with the transcendent, with society, with history and with creation. As the Second Vatican Council put it: “Culture must be directed to the total perfection of the human person, to the good of the community and human society as a whole. It should cultivate the mind in such a way as to encourage a capacity for wonder, for understanding, for contemplation for forming personal judgments and cultivating a religious, moral and social sense” (Gaudium et Spes, 59). Already in ancient times it was said that philosophy begins with awe, in the capacity to wonder. In this regard, I very much appreciated what our speakers had to say. I think of your observation, Monsignor Rector, that “in every true scientist there is something of the scribe, the priest, the prophet and the mystic”. And again, that “with the help of science we seek not only to understand, but also to do what is right, that is, to build a humane and solidary civilization, a sustainable culture and environment. For with a humble heart, we can climb not only the mountain of the Lord, but also scale the heights of science.”
The truth, as we know, is that the greatest intellectuals are humble. The mystery of life, after all, is disclosed to those who are concerned with the little things. Dorottya made a splendid point: “As we delve into the smallest details, we find ourselves immersed in the complexity of God's work”. Seen in this way, culture truly preserves and defends our humanity. It immerses us in contemplation and shapes persons who are not prey to the fashions of the moment, but solidly grounded in the reality of things. And who, as humble learners, feel the duty to remain open and communicative, never unbending and combative. True lovers of culture, in fact, never feel entirely satisfied; they always experience a healthy interior restlessness. They research, they raise questions, they take risks and they continue to probe. They are able to move beyond their certitudes and plunge with humility into the mystery of life, which reveals itself to the restless not the complacent, is open to other cultures and calls for the sharing of knowledge. That is the spirit of the university, and I thank you for experiencing it as such. Professor Major said as much when he spoke of the satisfaction that comes from cooperating with other educational institutions in shared research programmes and from welcoming students from other parts of the world, such as the Middle East, and in particular from war-torn Syria. It is by openness to others that we come to know ourselves better. Indeed, opening ourselves to others is like looking in a mirror, we come to know ourselves better.
Culture accompanies us on the journey of self-knowledge. Classical thought, which is undying, reminds us of this. The famous maxim from the temple of Delphi comes to mind: “Know thyself.” It is the first of two thoughts that I would like to leave with you as we conclude. What do those words mean: Know thyself? They counsel us to be able to recognize our limitations and, consequently, to curb the presumption of self-sufficiency. This proves beneficial precisely because, once we realize that we are creatures, we become creative. We learn to immerse ourselves in the world instead of attempting to dominate it. Technocratic thinking pursues a progress that admits no limits, yet flesh and blood human beings are fragile, and it is precisely by experiencing this, that they come to realize their dependence on God and their connectedness to others and to creation. The inscription at Delphi thus invites us to a kind of knowledge that, starting from the humility of our limitations, leads us to discover our amazing potential, which goes far beyond that of technology. Self-knowledge, in other words, bids us keep together, in a virtuous dialectic, our frailty and our grandeur as human beings. Wonder before this paradox gives rise to culture: never satisfied, constantly seeking, restless yet called to community, disciplined in its finitude yet open in freedom to the infinite. I pray that you will always cultivate this exhilarating journey towards the truth!
The second thought that I would leave with you has to do precisely with that truth. It comes from Jesus Christ, who said: “The truth will make you free” (Jn 8:32). Hungary has seen a succession of ideologies that imposed themselves as truth, yet failed to bestow freedom. Today too, the risk remains. I think of the shift from communism to consumerism. Common to both those “isms” is a false notion of freedom. Communism offered a “freedom” that was restricted, limited from without, determined by someone else. Consumerism promises a hedonistic, conformist, libertine “freedom” that enslaves people to consumption and to material objects. How easy it is to pass from limits imposed on thinking, as in communism, to the belief that there are no limits, as in consumerism! To pass from a blinkered freedom to an unbridled freedom. Instead, Jesus offers a way forward; he tells us that truth frees us from our fixations and our narrowness. The key to accessing this truth is a form of knowledge that is never detached from love, a knowledge that is relational, humble and open, concrete and communal, courageous and constructive. That is what universities are called to cultivate and faith is called to nurture. And so I take this occasion to express my hope that this University, and indeed every university, will always be a beacon of universality and freedom, a fruitful workshop of humanism, a laboratory of hope. I bless you from the heart, and I thank you for all that you are doing. Thank you very much!
[00690-EN.02] [Original text: Italian]
Traduzione in lingua tedesca
Liebe Brüder und Schwestern, guten Tag!
Ich grüße jeden Einzelnen von euch und danke euch für die schönen Worte, die gesagt worden sind und auf die ich gleich noch eingehen werde. Dies ist das letzte Treffen während meines Besuchs in Ungarn und ich denke dankbaren Herzens gern an den Lauf der Donau, die dieses Land mit vielen anderen verbindet, nicht nur geographisch, sondern auch geschichtlich. Die Kultur ist in gewisser Weise wie ein großer Fluss: Sie verbindet und sie fließt durch verschiedene Regionen des Lebens und der Geschichte und setzt sie miteinander in Beziehung, sie ermöglicht es, sich in der Welt zurechtzufinden und ferne Länder und Gegenden zu umfassen, sie stillt den Durst des Geistes, bewässert die Seele und lässt die Gesellschaft wachsen. Das Wort Kultur selbst leitet sich von dem Verb kultivieren ab: Das Wissen bringt eine tägliche Aussaat mit sich, es trägt Früchte, wenn es in die Ackerfurchen der Wirklichkeit hineinfällt.
Vor einhundert Jahren hatte Romano Guardini, ein großer Intellektueller und Mann des Glaubens, inmitten einer aufgrund der Schönheit ihrer Gewässer einzigartigen Landschaft, eine fruchtbare kulturelle Erkenntnis. Er schrieb: »Dieser Tage ist mir so deutlich zu Bewusstsein gekommen, dass es zwei Arten des Erkennens gibt. Eine führt zur Versenkung in das Ding und den Zusammenhang. Der Erkennende sucht einzudringen, inne zu werden, mitzuleben. Die andere Weise aber packt, zergliedert, ordnet in Fächer, nimmt in Besitz, herrscht« (Briefe vom Comer See, Mainz 1927, S. 52). Er unterscheidet zwischen einem bescheidenen und beziehungsorientierten Erkennen, das ist wie »ein Herrschen durch Dienst; ein Schaffen aus natürlich-gewiesenen Möglichkeiten heraus, das […] gesetzte Grenzen nicht überschritt« (S. 54), und einer anderen Art des Wissens, von dem gilt: es »schaut nicht, sondern analysiert. Es versenkt sich nicht, sondern packt zu« (S. 53).
Und in dieser zweiten Art des Erkennens »sind Kräfte und Stoffe in zweckgerichteten Zustand gebracht: Maschinen« (S. 55), und »so bildet sich eine Technik der Beherrschung des lebendigen Menschen aus« (S. 59-60). Guardini verteufelt die Technik nicht, welche es erlaubt, ein besseres Leben zu führen, zu kommunizieren und viele Vorteile zu haben, aber er spürt die Gefahr, dass sie regulierend oder gar dominierend auf das Leben wirkt. In diesem Sinne sah er eine große Gefahr: »während der Mensch alle inneren Bindungen durch organisches Maßgefühl und naturfolgende Bildungsgestalt verliert, während er innerlich bild-, maß-, richtungslos wird, bestimmt er willkürlich seine Ziele, und zwingt die beherrschten Naturkräfte, sie zu verwirklichen« (S. 57). Und er hinterließ der Nachwelt eine beunruhigende Frage: »Was wird aus dem Leben, wenn es in die Gewalt dieser Herrschaft gerät? [...] Was wird, wenn es […] in die Gewalt technischen Zwanges gerat? Ein System von Maschinen legt sich um das Leben. [...] Kann Leben lebendig bleiben in diesem System?« (S. 58-59).
Kann das Leben lebendig bleiben? Das ist eine Frage, die man sich gerade an diesem Ort, an dem Informationstechnologie und „bionische Wissenschaften“ vertieft werden, stellen sollte. Was Guardini erahnte, scheint heute nämlich offensichtlich zu sein: Man denke an die ökologische Krise, in der die Natur einfach auf die zweckdienliche Benutzung reagiert, die wir ihr haben zukommen lassen. Man denke an das Fehlen von Grenzen, an die Logik des „es ist machbar, also ist es erlaubt“. Denken wir auch an den Willen, nicht den Menschen und seine Beziehungen in den Mittelpunkt zu stellen, sondern das Individuum, das auf seine eigenen Bedürfnisse zentriert ist, gierig nach Gewinn und unersättlich, die Wirklichkeit zu erfassen. Und denken wir folglich an die Zersetzung gemeinschaftlicher Bindungen, wodurch Einsamkeit und Angst sich von existenziellen Zuständen zu sozialen Zuständen zu verwandeln scheinen. Wie viele isolierte Individuen – sehr den „Social Media“ zugetan, aber wenig sozial – greifen wie in einem Teufelskreis zum Trost der Technik, wie zu einem Füllmittel für die Leere, die sie spüren. Dadurch hetzen sie noch hektischer umher und empfinden dabei – einem wilden Kapitalismus unterworfen – ihre eigenen Schwächen als noch schmerzlicher, und das in einer Gesellschaft, in der die äußere Geschwindigkeit mit der inneren Zerbrechlichkeit Hand in Hand geht. Dies ist das Drama. Wenn ich das sage, möchte ich keinen Pessimismus hervorrufen – das würde dem Glauben widersprechen, den ich mit Freude bekenne –, sondern über diese „Anmaßung des Seins und des Habens“ nachdenken, die Homer schon in der Morgendämmerung der europäischen Kultur als bedrohlich empfand und die das technokratische Paradigma mit einem bestimmten Gebrauch von Algorithmen, das ein weiteres Risiko für die Destabilisierung des Menschlichen darstellen kann, noch verschärft.
In einem Roman, aus dem ich schon mehrfach zitiert habe, Der Herr der Welt von Robert Benson, wird die Beobachtung gemacht, »dass mechanische Komplexität nicht gleichbedeutend ist mit wahrer Größe und dass sich in ausladender Äußerlichkeit ein Hinterhalt subtiler verbergen kann« (Verona 2014, 24-25). In diesem gewissermaßen „prophetischen“ Buch, das vor mehr als einem Jahrhundert verfasst wurde, wird eine Zukunft beschrieben, die von der Technik beherrscht wird und in der im Namen des Fortschritts alles vereinheitlicht wird: Überall wird ein neuer „Humanitarismus“ gepredigt, der die Unterschiede aufhebt, das Leben der Völker zunichtemacht und die Religionen beseitigt. Der die Unterschiede aufhebt, alle. Gegensätzliche Ideologien kommen in einer Vereinheitlichung überein, die ideologisch kolonisiert. Dies ist das Drama, die ideologische Kolonialisierung; der Mensch wird im Kontakt mit Maschinen immer flacher, während das gemeinschaftliche Leben traurig und dünn wird. In dieser fortschrittlichen, aber düsteren Welt, die Benson beschreibt und in der alle gefühllos und betäubt zu sein scheinen, ist es naheliegend, Kranke auszusondern und die Euthanasie anzuwenden sowie nationale Sprachen und Kulturen abzuschaffen, um einen weltweiten Frieden zu erreichen. Dieser verwandelt sich in Wirklichkeit jedoch in eine Verfolgung, die auf dem Zwang zum Konsens beruht, und zwar so sehr, dass einer der Protagonisten behauptet: »Die Welt scheint einer perversen Vitalität ausgeliefert zu sein, die alles verdirbt und verwirrt« (S. 145).
Ich habe mich auf diese düstere Untersuchung eingelassen, weil gerade in diesem Kontext die Rollen der Kultur und der Universität am besten zum Vorschein kommen. Die Universität ist nämlich, wie ihr Name schon sagt, der Ort, an dem das Denken geboren wird, wächst und reift, in Offenheit und im Zusammenklang; nicht je einzeln klingend, nicht verschlossen: in Offenheit und im Zusammenklang. Sie ist der „Tempel“, in dem die Erkenntnis aufgerufen ist, sich aus den engen Grenzen des Habens und Besitzens zu befreien, um zur Kultur zu werden, d. h. zur „Kultivierung“ des Menschen und seiner grundlegenden Beziehungen: mit dem Transzendenten, mit der Gesellschaft, mit der Geschichte, mit der Schöpfung. Das Zweite Vatikanische Konzil sagt diesbezüglich, »dass die Kultur auf die Gesamtentfaltung der menschlichen Person und auf das Wohl der Gemeinschaft sowie auf das der ganzen menschlichen Gesellschaft auszurichten ist. Darum muss der menschliche Geist so gebildet werden, dass die Fähigkeit des Staunens, der eigentlichen Wesenserkenntnis, der Kontemplation, der persönlichen Urteilsbildung und das religiöse, sittliche und gesellschaftliche Bewusstsein gefördert werden« (Pastoralkonstitution Gaudium et spes, 59). Schon in der Antike sagte man, dass der Beginn der Philosophie das Staunen ist, die Fähigkeit zum Staunen. In dieser Hinsicht habe ich eure Worte sehr geschätzt. Ihre Worte, hochwürdiger Msgr. Rektor, als Sie sagten, dass »in jedem wahren Wissenschaftler etwas vom Schriftgelehrten, vom Priester, vom Propheten und vom Mystiker ist« und weiter, dass »wir mit Hilfe der Wissenschaft nicht nur verstehen, sondern auch das Richtige tun wollen, nämlich eine menschliche und solidarische Gesellschaft, eine nachhaltige Kultur und Umwelt aufbauen. Mit einem demütigen Herzen können wir nicht nur den Berg des Herrn, sondern auch den Berg der Wissenschaft erklimmen«.
Es stimmt: Die großen Intellektuellen sind in der Tat bescheiden. Das Geheimnis des Lebens offenbart sich im Übrigen denen, die es verstehen, sich auf die kleinen Dinge einzulassen. In dieser Hinsicht ist schön, was Dorottya uns gesagt hat: »Indem wir immer kleinere Details entdecken, tauchen wir in die Komplexität von Gottes Werk ein«. So verstanden, stellt die Kultur wirklich die Rettung des Menschen dar. Sie taucht in die Kontemplation ein und formt Menschen, die nicht den Moden des Augenblicks ausgeliefert, sondern fest in der Wirklichkeit der Dinge verwurzelt sind; und die als demütige Jünger des Wissens spüren, dass sie offen und kommunikativ sein müssen, niemals starr und kampflustig. Wer die Kultur liebt, hat nie das Gefühl am Ziel angekommen zu sein und ist nie einfach zufrieden, sondern trägt eine gesunde Unruhe in sich. Er forscht, hinterfragt, riskiert und erkundet; er weiß, wie er aus seinen eigenen Gewissheiten heraustreten kann, um sich demütig in das Geheimnis des Lebens zu wagen, das sich mit der Unruhe und nicht mit der Gewohnheit gut verbindet; das sich anderen Kulturen gegenüber öffnet und das Bedürfnis verspürt, das Wissen zu teilen. Das ist der Geist der Universität, und ich danke euch, dass ihr ihn so lebt, wie Professor Major es uns gesagt hat, als er uns von der Schönheit der Zusammenarbeit mit anderen Bildungseinrichtungen erzählte, mittels gemeinsamer Forschungsprogramme und auch durch die Aufnahme von Studenten aus anderen Regionen der Welt, wie dem Nahen Osten, insbesondere aus dem heimgesuchten Syrien. Gerade indem man sich anderen gegenüber öffnet, lernt man sich selbst besser kennen. Die Offenheit, das sich anderen gegenüber Öffnen, ist wie ein Spiegel: Es ermöglicht mir, mich selbst besser kennenzulernen.
Die Kultur begleitet uns dabei, uns selbst zu erkennen. Daran erinnert das klassische Denken, das niemals untergehen darf. Es kommen die berühmten Worte des Orakels von Delphi in den Sinn: »Erkenne dich selbst«. Das ist einer der beiden Leitsätze, die ich euch zum Abschluss hinterlassen möchte. Aber was heißt erkenne dich selbst? Es bedeutet, die eigenen Grenzen zu erkennen und damit die eigene Anmaßung der Selbstgenügsamkeit zu zügeln. Das tut uns gut, denn vor allem, wenn wir uns selbst als Geschöpfe erkennen, werden wir kreativ und tauchen dabei in die Welt ein, statt sie zu beherrschen. Und während das technokratische Denken nach einem Fortschritt strebt, der keine Grenzen zulässt, hat der reale Mensch auch Schwachstellen, und oft begreift er gerade dadurch, dass er von Gott abhängig und mit den anderen und der Schöpfung verbunden ist. Der Satz des Orakels von Delphi lädt daher zu einer Erkenntnis ein, die, ausgehend von der Demut, ausgehend von der Begrenztheit, ausgehend von der demütig machenden Erfahrung der eigenen Begrenztheit, die eigenen wunderbaren Potenziale entdeckt, die weit über die der Technik hinausgehen. Sich selbst zu erkennen, bedeutet mit anderen Worten, die Schwäche und die Größe des Menschen in einer virtuosen Dialektik zusammenzuhalten. Aus dem Staunen über diesen Gegensatz entspringt die Kultur: niemals gesättigt und immer auf der Suche, unruhig und gemeinschaftlich, diszipliniert in ihrer Begrenztheit und offen für das Absolute. Ich wünsche euch, dass ihr diese fesselnde Entdeckung der Wahrheit pflegt!
Der zweite Leitsatz bezieht sich eben auf die Wahrheit. Er ist ein Satz von Jesus Christus: »Die Wahrheit wird euch befreien« (Joh 8,32). Ungarn hat eine Abfolge von Ideologien erlebt, die sich als Wahrheit aufdrängten, aber keine Freiheit brachten. Und auch heute ist die Gefahr noch nicht gebannt: Ich denke da an den Übergang vom Kommunismus zum Konsumismus. Was beide „Ismen“ gemeinsam haben, ist eine falsche Vorstellung von Freiheit; jene des Kommunismus war eine gezwungene „Freiheit“, die von außen eingeschränkt, begrenzt und von jemand anderem bestimmt wurde; jene des Konsumismus ist eine zügellose, hedonistische, flache „Freiheit“, die uns zu Sklaven des Konsums und der Dinge macht. Und wie einfach ist es, von den Grenzen, die dem Denken auferlegt werden – wie im Kommunismus –, dahin zu gelangen, dass man denkt, es gäbe keine Grenzen mehr – wie im Konsumismus! Von einer gehemmten Freiheit zu einer hemmungslosen Freiheit. Jesus jedoch bietet einen Ausweg an, indem er sagt, dass das wahr ist, was befreit, was den Menschenvon seinen Abhängigkeiten und den verschiedenen Formen der Verschlossenheit befreit. Der Schlüssel zu dieser Wahrheit ist ein Erkennen, das nie von der Liebe losgelöst ist, beziehungsorientiert, demütig und offen, konkret und gemeinschaftlich, mutig und konstruktiv. Das ist es, was die Universitäten pflegen sollen und was der Glaube nähren soll. Deshalb wünsche ich dieser und jeder anderen Universität, ein Zentrum von Universalität und Freiheit, eine fruchtbare Baustelle des Humanismus und ein Labor der Hoffnung zu sein. Ich segne euch von Herzen und danke euch für das, was ihr tut: Vielen Dank!
[00690-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]
Traduzione in lingua spagnola
Queridos hermanos y hermanas, ¡buenas tardes!
Saludo a cada uno de ustedes y agradezco las hermosas palabras que se han dicho y sobre las cuales me detendré en breve. Este es el último encuentro de mi visita a Hungría y, con el corazón agradecido, me da gusto pensar en el curso del Danubio, que conecta este país con muchos otros, uniendo, además de su geografía, también su historia. La cultura, en cierto sentido, es como un gran río: conecta y recorre varias regiones de la vida y de la historia poniéndolas en relación, permite navegar en el mundo y abrazar países y tierras lejanas, sacia la mente, riega el alma, hace crecer a la sociedad. La misma palabra cultura deriva del verbo cultivar. El saber conlleva una siembra cotidiana que, penetrando en los surcos de la realidad, da fruto.
Hace cien años, Romano Guardini, gran intelectual y hombre de fe, precisamente mientras se encontraba inmerso en un paisaje único por la belleza de las aguas, tuvo una fecunda intuición cultural. Escribió: «Estos días he comprendido claramente que existen dos modos de conocer. El primero, nos conduce a sumergirnos en las cosas y su contexto. El que conoce pretende penetrar, adentrarse en el objeto, convivir con él. El segundo modo consiste en aprehender, descomponer, clasificar, tomar posesión del objeto, dominarlo» (cf. Cartas del Lago de Como. La técnica y el hombre, Pamplona 2013, p. 59). Distingue entre un conocimiento humilde y relacional, que es como “un reinar sirviendo; una creación conforme a las posibilidades que ofrece la naturaleza, que no franquea los límites impuestos” (cf. p. 61), y otro modo de saber, que «no se detiene en la contemplación, sino que analiza. No se sumerge en las cosas, sino que se apodera de ellas» (pp. 60-61).
Y, de esa manera, en este segundo modo de conocer «las energías y la materia han sido conducidas hacia un fin único: las máquinas» (p. 62), y «así se constituye una técnica cuyo fin es subyugar al hombre en su vida» (p. 64). Guardini no demoniza la técnica, la cual permite vivir mejor, comunicar y tener muchas ventajas, sino que advierte el riesgo de que esta se vuelva reguladora, si no dominadora, de la vida. En ese sentido veía un gran peligro: «El hombre ha perdido su consistencia interior derivada de un sentimiento orgánico de la medida y de las formas naturales» y, «mientras permanece en su interior privado de equilibrio, sin orientación, establece arbitrariamente sus fines y obliga a las fuerzas de la naturaleza, que él mismo sometió, a convertirlos en realidad» (pp. 64-65). Y dejaba a las futuras generaciones una pregunta inquietante: «¿Qué va a ser de la vida si se deja someter por este orden de cosas? [...] ¿Qué será de la vida […] si se somete a los imperativos despóticos de la técnica? Un sistema mecanicista se cierne sobre la vida […]. ¿Puede la vida permanecer floreciente en medio de este sistema?» (pp. 65-66).
¿Puede la vida permanecer floreciente? Es una cuestión que, especialmente en este lugar, donde se profundizan la informática y las “ciencias biónicas”, es bueno plantearse. De hecho, lo que había intuido Guardini es evidente en nuestros días. Pensemos en la crisis ecológica, en la naturaleza que simplemente está reaccionando al uso instrumental que le hemos dado. Pensemos en la falta de límites, en la lógica del “se puede hacer, por tanto, es lícito”. Pensemos también en la voluntad de poner en el centro de todo no a la persona y sus relaciones, sino al individuo centrado en sus propias necesidades, ávido por acumular y voraz por aferrar la realidad. Y, en consecuencia, pensemos en la erosión de los vínculos comunitarios, por la que la soledad y el miedo, de condiciones existenciales, parecen transformarse en condiciones sociales. Cuántos individuos aislados, muy “de redes sociales” y poco sociales, recurren, como en un círculo vicioso, a los consuelos de la técnica para llenar el vacío que experimentan, corriendo de manera aún más frenética mientras, esclavos de un capitalismo salvaje, sienten de manera aún más dolorosa las propias debilidades, en una sociedad donde la velocidad exterior va a la par de la fragilidad interior. Este es el drama. Diciendo esto no quiero generar pesimismo —sería contrario a la fe que tengo la alegría de profesar—, sino reflexionar sobre esta “arrogancia de ser y de tener”, que ya en los albores de la cultura europea Homero veía como una amenaza y que el paradigma tecnocrático exaspera, con un cierto uso de los algoritmos que puede representar un ulterior riesgo de desestabilización de lo humano.
En una novela que he citado otras veces, Señor del mundo, de Robert Benson, se observa “que la complejidad mecánica no es sinónimo de verdadera grandeza y que en la exterioridad más fastuosa se esconde la insidia más sutil”. En este libro, en cierto sentido “profético”, escrito hace más de un siglo, se describe un futuro dominado por la técnica y en el que todo, en nombre del progreso, está uniformado; en todas partes se predica un nuevo “humanismo” que suprime las diferencias, anulando la vida de los pueblos y aboliendo las religiones. Aboliendo todas las diferencias. Ideologías opuestas convergen en una homologación que coloniza ideológicamente. Este es el drama la colonización ideológica; el hombre, en contacto con las máquinas, se achata cada vez más, mientras la vida común se vuelve triste y enrarecida. En ese mundo avanzado pero sombrío, que describe Benson, donde todos parecen insensibles y anestesiados, parece obvio descartar a los enfermos y aplicar la eutanasia, así como abolir las lenguas y las culturas nacionales para alcanzar la paz universal, que en realidad se transforma en una persecución fundada sobre la imposición del consenso, hasta el punto de hacer afirmar a uno de los protagonistas que “el mundo parece a merced de una vitalidad perversa, que lo corrompe y lo confunde todo”.
Me he extendido en este análisis sombrío precisamente porque es en ese contexto donde los roles de la cultura y de la universidad brillan mejor. La universidad es, en efecto, como indica el mismo nombre, el lugar donde el pensamiento nace, crece y madura abierto y sinfónico; no monocorde ni cerrado, más bien abierto y sinfónico. Es el “templo” donde el conocimiento está llamado a liberarse de los límites estrechos del tener y del poseer para convertirse en cultura, es decir, en “cultivo” del hombre y de sus relaciones fundamentales: con el trascendente, con la sociedad, con la historia, con la creación. A este respecto, afirma el Concilio Vaticano II: «La cultura debe estar subordinada a la perfección integral de la persona humana, al bien de la comunidad y de la sociedad humana entera. Por lo cual es preciso cultivar el espíritu de tal manera que se promueva la capacidad de admiración, de intuición, de contemplación y de formarse un juicio personal, así como el poder cultivar el sentido religioso, moral y social» (Const. past. Gaudium et spes, 59). Ya en la antigüedad se decía que el comienzo del filosofar es la admiración, la capacidad de admiración. En esta perspectiva, he apreciado mucho vuestras palabras. Las suyas, monseñor Rector, cuando ha dicho que «en todo verdadero científico hay algo de escriba, de sacerdote, de profeta y de místico»; y también que «con la ayuda de la ciencia no queremos sólo entender, queremos también hacer lo correcto, es decir, construir una civilización humana y solidaria, una cultura y un ambiente sostenibles. Es con el corazón humilde que podemos subir no sólo al monte del Señor, sino también al monte de la ciencia».
Es verdad, los grandes intelectuales, de hecho, son humildes. Por otra parte, el misterio de la vida se revela a quien sabe introducirse en las pequeñas cosas. A este respecto, es hermoso lo que nos ha dicho Dorottya: “Descubriendo detalles cada vez más pequeños nos sumergimos en la complejidad de la obra de Dios”. La cultura así entendida representa verdaderamente la salvaguardia de lo humano. Ahonda en la contemplación y moldea personas que no están a merced de las modas del momento, sino bien arraigadas en la realidad de las cosas. Y que, humildes discípulas del saber, sienten que deben ser abiertas y comunicativas, nunca rígidas y combativas. De hecho, quien ama la cultura no se siente nunca satisfecho, sino que lleva en sí una sana inquietud. Busca, interroga, arriesga, explora; sabe salir de sus propias certezas para aventurarse con humildad en el misterio de la vida, que se armoniza con la inquietud, no con la costumbre; que se abre a las otras culturas y advierte la necesidad de compartir el saber. Este es el espíritu de la universidad, y les agradezco porque lo viven así, como nos ha dicho el profesor Major, que ha explicado la belleza de cooperar con otras realidades educativas, por medio de programas de investigación compartidos y también acogiendo a estudiantes provenientes de otras regiones del mundo, como Oriente Medio, en particular de la martirizada Siria. Abriéndonos a los demás nos conocemos mejor a nosotros mismos. La apertura, abrirse a los demás es como un espejo: me hace conocerme mejor a mí mismo.
La cultura nos acompaña en el conocimiento de nosotros mismos. Lo recuerda el pensamiento clásico, que nunca debe desaparecer. Vienen a la mente las célebres palabras del oráculo de Delfos: «Conócete a ti mismo». Es una de las dos frases que quisiera dejarles como conclusión. Pero, ¿qué significa conócete a ti mismo? Quiere decir saber reconocer los propios límites y, en consecuencia, frenar la propia presunción de autosuficiencia. Nos hace bien, porque es sobre todo reconociéndonos criaturas cuando nos volvemos creativos, sumergiéndonos en el mundo, en vez de dominarlo. Y mientras que el pensamiento tecnocrático persigue un progreso que no admite límites, el hombre real está hecho también de fragilidad, y es a menudo justamente ahí cuando comprende que depende de Dios y que está conectado con los otros y con la creación. Por tanto, la frase del oráculo de Delfos invita a un conocimiento que, partiendo de la humildad, partiendo del límite, partiendo de la humildad del límite descubre sus maravillosas potencialidades, que van más allá de las de la técnica. En otras palabras, conocerse a sí mismo requiere mantener unidas, en una dialéctica virtuosa, la fragilidad y la grandeza del hombre. Del asombro de este contraste surge la cultura; nunca satisfecha y siempre en búsqueda, inquieta y comunitaria, disciplinada en su finitud y abierta al absoluto. Me gustaría que cultiven este apasionante descubrimiento de la verdad.
La segunda frase se refiere precisamente a la verdad. Es una frase de Jesús: «La verdad los hará libres» (Jn 8,32). Hungría ha visto subseguirse ideologías que se imponían como verdad, pero no daban libertad. Y hoy el riesgo tampoco ha desaparecido; pienso en el paso del comunismo al consumismo. En ambos “ismos” hay una falsa idea de libertad; la del comunismo era una “libertad” forzada, limitada desde fuera, decidida por otro; la del consumismo es una “libertad” libertina, hedonista, aplanada, que nos vuelve esclavos del consumo y de las cosas. Y qué fácil es pasar de los límites impuestos al pensar, como en el comunismo, al pensarse sin límites, como en el consumismo; de una libertad frenada a una libertad sin frenos. Jesús, en cambio, nos ofrece una salida, diciendo que la verdad es todo aquello que libera, aquello que libera al hombre de sus dependencias y de sus cerrazones. La clave para acceder a esta verdad es un conocimiento que nunca se desvincula del amor, relacional, humilde y abierto, concreto y comunitario, valiente y constructivo. Esto es lo que las universidades están llamadas a cultivar y la fe a alimentar. Les deseo, por tanto, a esta y a todas las universidades, que sean un centro de universalidad y de libertad, una fecunda obra de humanismo, un taller de esperanza. Los bendigo de corazón y les agradezco lo que hacen: ¡Muchas gracias!
[00690-ES.02] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua portoghese
Queridos irmãos e irmãs, boa tarde!
Saúdo a cada um de vós e agradeço pelas belas palavras que foram ditas e sobre as quais me deterei daqui a pouco. Este é o último encontro da minha visita à Hungria e, de coração agradecido, apraz-me pensar no curso do Danúbio, que liga este país a muitos outros, unindo a sua geografia e também a história. Em certo sentido, a cultura é como um grande rio: une e percorre várias regiões da vida e da história relacionando-as, permite navegar pelo mundo e abraçar países e terras distantes, sacia a mente, irriga a alma, faz crescer a sociedade. A própria palavra cultura deriva do verbo cultivar: o saber requer uma sementeira diária que, mergulhando nos sulcos da realidade, dá fruto.
Há cem anos, Romano Guardini, grande intelectual e homem de fé, precisamente enquanto se encontrava imerso numa paisagem tornada única pela beleza das águas, teve uma fecunda intuição cultural. Escreveu: «Nestes dias, compreendi melhor do que nunca que há duas formas de conhecimento (...), uma leva a mergulhar no objeto e seu contexto, de modo que o homem que deseja conhecer procura viver nele; a outra, pelo contrário, reúne as coisas, decompõe-nas, ordena-as em alíneas, adquire perícia e posse delas, domina-as» (Cartas do Lago de Como. A tecnologia e o homem, Brescia 2022, p. 55). Distingue entre um conhecimento humilde e relacional, que é como «um reinado que se obtém por meio do serviço; uma criação conforme à natureza, que não ultrapassa os limites estabelecidos» (p. 57), e a outra modalidade de saber que «não observa, mas analisa (...), já não se imerge no objeto, mas agarra-o» (p. 56).
Ora, nesta segunda maneira de conhecer, «as energias e as substâncias são feitas convergir para um único fim: a máquina» (p. 58), e «assim se desenvolve uma tecnologia da submissão do ser vivo» (pp. 59-60). Guardini não demoniza a tecnologia, a qual permite viver melhor, comunicar e ter muitas vantagens, mas alerta para o risco de ela se tornar reguladora, se não dominadora, da vida. Neste sentido, via um grande perigo: «O homem perde todos os laços interiores que lhe conferem um sentido orgânico da medida e das formas de expressão em harmonia com a natureza» e, «enquanto no seu ser interior fica sem contornos, sem medida, sem direção, ele estabelece arbitrariamente os seus fins e constringe as forças da natureza, por ele dominadas, a realizá-los» (p. 60). E deixava aos vindouros uma pergunta inquietante: «Que será da vida, se ela acabar sob este jugo? (...) Que acontecerá (...), quando nos encontrarmos perante o prevalecer dos imperativos da tecnologia? A vida, então, fica enquadrada num sistema de máquinas. (...) Num tal sistema, pode a vida permanecer vivível?» (p. 61).
A vida pode permanecer vivível? É uma questão que será bom pormo-nos, especialmente neste lugar onde se aprofundam a informática e as «ciências biónicas». De facto, aquilo que Guardini vislumbrou, é hoje evidente: pensemos na crise ecológica, com a natureza que está simplesmente a reagir ao uso instrumental que dela fizemos. Pensemos na falta de limites, na lógica do «se pode ser feito, é lícito». Pensemos também na vontade de colocar no centro de tudo, não a pessoa e as suas relações, mas o indivíduo centrado nas suas próprias necessidades, ávido de lucros e voraz no aferrar a realidade. E pensemos depois na erosão dos laços comunitários, pelo que a solidão e o medo parecem transformar-se, de condições existenciais, em condições sociais. Quantos indivíduos isolados – muita rede social, mas pouco sociais – recorrem, como num círculo vicioso, às consolações da tecnologia para preencher o vazio que sentem, correndo de forma ainda mais frenética, enquanto, súcubos dum capitalismo selvagem, sentem como mais dolorosas as suas fragilidades, numa sociedade onde a velocidade exterior anda de mãos dadas com a fragilidade interior. Este é o drama. Não quero, com isto, gerar pessimismo – seria contrário à fé que tenho a alegria de professar –, mas refletir sobre esta «petulância de ser e ter», que já nos alvores da cultura europeia, Homero via como ameaçadora e que o paradigma tecnocrático exacerba, com um certo uso dos algoritmos que pode representar mais um risco de desestabilização do humano.
Num romance que já mencionei várias vezes, O senhor do mundo, de Robert Benson, observa-se «que a complexidade mecânica não é sinónimo de verdadeira grandeza e que, na exterioridade mais sumptuosa, se esconde a cilada mais subtil» (Verona 2014, 24-25). Escrito há mais de um século, este livro – em certo sentido «profético» – descreve um futuro dominado pela tecnologia onde, em nome do progresso, tudo é uniformizado: por toda a parte se proclama um novo «humanitarismo» que anula as diferenças, apagando as vidas dos povos e abolindo as religiões. Abolindo as diferenças, todas. Ideologias opostas convergem numa homogeneização que coloniza ideologicamente. Este é o drama: a colonização ideológica; o homem, em contacto com as máquinas, torna-se cada vez mais igual, enquanto a vida comum se torna triste e rarefeita. Neste mundo avançado, mas sombrio, descrito por Benson, onde todos parecem entorpecidos e anestesiados, apresenta-se como óbvio descartar os doentes e aplicar a eutanásia, bem como abolir as línguas e culturas nacionais para alcançar a paz universal, o que, na realidade, se transforma numa perseguição fundada na imposição do consenso, a ponto de um protagonista afirmar que «o mundo parece à mercê duma vitalidade perversa, que tudo corrompe e confunde» (p. 145).
Demorei-me neste exame em tons sombrios, porque é precisamente em tal contexto que melhor resplandecem os papéis da cultura e da universidade. De facto a universidade, como o próprio nome indica, é o lugar onde o pensamento nasce, cresce e matura aberto e sinfónico: não monocorde, nem fechado, mas aberto e sinfónico. É o «templo» onde o conhecimento é chamado a libertar-se dos limites estreitos do ter e do possuir para se tornar cultura, isto é, «cultivação» do homem e das suas relações fundantes: com o transcendente, com a sociedade, com a história, com a criação. A propósito, afirma o Concílio Vaticano II que «a cultura deve orientar-se para a perfeição integral da pessoa humana, para o bem da comunidade e de toda a sociedade. Por isso, é necessário cultivar o espírito de modo a desenvolver-lhe a capacidade de admirar, de intuir, de contemplar, de formar um juízo pessoal e de cultivar o sentido religioso, moral e social» (Const. past. Gaudium et spes, 59). Já na antiguidade se dizia que o filosofar tem o seu início na admiração, na capacidade de admirar. Nesta perspetiva, muito apreciei as palavras de Monsenhor Reitor, quando disse que, «em todo o verdadeiro cientista, há algo do escriba, do sacerdote, do profeta e do místico»; e ainda que, «com a ajuda da ciência, não queremos apenas compreender, mas queremos também fazer a coisa justa, isto é, construir uma civilização humana e solidária, uma cultura e um ambiente sustentáveis. É com o coração humilde que podemos subir não só ao monte do Senhor, mas também ao monte da ciência».
É verdade! Os grandes intelectuais são humildes. Aliás o mistério da vida desvenda-se a quem sabe penetrar nas pequenas coisas. Estupendo é a este respeito o que nos disse Dorottya: «Descobrindo cada vez mais pequenos detalhes, mergulhamos na complexidade da obra de Deus». Assim entendida, a cultura representa verdadeiramente a salvaguarda do humano. Mergulha na contemplação e molda pessoas que não estão à mercê das modas do momento, mas bem radicadas na realidade das coisas. E que, humildes discípulas do conhecimento, sentem que devem ser abertas e comunicativas, nunca rígidas e combativas. De facto, quem ama a cultura nunca sente ter chegado ao fim acomodando-se, mas sente dentro de si uma saudável inquietação. Investiga, questiona, arrisca, explora; sabe sair das próprias certezas para se aventurar, humildemente, no mistério da vida, que se une com a inquietude, não com o hábito; que se abre às outras culturas e sente a necessidade de partilhar o saber. Este é o espírito da universidade, e agradeço-vos por o viverdes assim, como nos disse o Professor Major, que nos falou da beleza de cooperar com outras realidades educativas, através de programas de investigação partilhados e também acolhendo estudantes originários doutras regiões do mundo, como o Médio Oriente, em particular da martirizada Síria. É abrindo-se aos outros que se conhece melhor a si mesmo. A abertura aos outros é como um espelho: faz-me conhecer melhor a mim mesmo.
A cultura acompanha-nos no conhecimento de nós mesmos. Recorda-no-lo o pensamento clássico, que nunca deve ter ocaso. Vêm à mente as célebres palavras do oráculo de Delfos: «Conhece-te a ti mesmo». É uma das duas frases orientadoras que vos quero deixar ao concluir. Mas que significa conhece-te a ti mesmo? Quer dizer saber reconhecer os próprios limites e, consequentemente, conter a própria presunção de autossuficiência. Faz-nos bem, porque é primariamente reconhecendo-nos como criaturas que nos tornamos criativos, mergulhando-nos no mundo em vez de o dominar. E enquanto o pensamento tecnocrata persegue um progresso que não admite limites, o homem real é feito também de fragilidades, e muitas vezes é precisamente aí que compreende ser dependente de Deus e conexo com os outros e com a criação. Por conseguinte a frase do oráculo de Delfos convida a um conhecimento que, partindo da humildade, partindo do limite, partindo da humildade do limite, descobre as próprias potencialidades maravilhosas, que vão muito além das da tecnologia. Por outras palavras, conhecer-se a si mesmo requer que se mantenham juntas, numa dialética virtuosa, a fragilidade e a grandeza do homem. Da maravilha por este contraste, surge a cultura: nunca satisfeita e sempre à procura, inquieta e comunitária, disciplinada na sua finitude e aberta ao absoluto. Desejo que possais cultivar esta apaixonante descoberta da verdade!
A segunda frase orientadora refere-se precisamente à verdade. É uma frase de Jesus Cristo: «A verdade vos tornará livres» (Jo 8, 32). A Hungria viu uma sucessão de ideologias que se impunham como verdades, mas não davam liberdade. E ainda hoje o risco não desapareceu: penso na passagem do comunismo ao consumismo. A acomunar ambos os «ismos» é uma falsa ideia de liberdade; a do comunismo era uma «liberdade» forçada, limitada de fora, decidida por outrem; a do consumismo é uma «liberdade» libertina, hedonista, nivelada sobre si mesma, que torna escravos do consumo e das coisas. E quão fácil é passar dos limites impostos ao pensar, como no comunismo, ao pensar-se sem limites, como no consumismo; duma liberdade frenada a uma liberdade sem freios! Em vez disso, Jesus oferece um caminho de saída, dizendo que é verdadeiro o que liberta, o que liberta o homem dos seus vícios e dos seus isolamentos. A chave para ter acesso a esta verdade é um conhecimento nunca desligado do amor, relacional, humilde e aberto, concreto e comunitário, corajoso e construtivo. É isto que as Universidades são chamadas a cultivar, e a fé a nutrir. Assim, eis os votos que formulo, para esta e para todas as Universidades: que sejam um centro de universalidade e liberdade, um fecundo estaleiro de humanismo, um laboratório de esperança. De coração vos abençoo e agradeço por tudo o que fazeis. Muito obrigado!
[00690-PO.02] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua polacca
Drodzy bracia i siostry, dzień dobry!
Pozdrawiam każdego z was i dziękuję za piękne słowa, które zostały wypowiedziane i nad którymi zatrzymam się za chwilę. Jest to ostatnie spotkanie podczas mojej wizyty na Węgrzech i z wdzięcznym sercem chciałbym się zatrzymać myślami nad biegiem Dunaju, który łączy ten kraj z wieloma innymi, jednocząc nie tylko ich geografię, ale i historię. Kultura, w pewnym sensie, jest niczym wielka rzeka: przepływa i łączy różne przestrzenie życia i historii jednocząc je, pozwala poruszać się po świecie i otaczać dalekie kraje i ziemie, zaspokaja umysł, nawadnia duszę i rozwija społeczeństwo. Samo słowo kultura wywodzi się od czasownika uprawiać: wiedza oznacza więc codzienny zasiew, który wpadając w bruzdy rzeczywistości przynosi owoc.
Sto lat temu Romano Guardini, wielki intelektualista i człowiek wiary, będąc właśnie zanurzonym w krajobrazie, który piękno wód uczyniło niepowtarzalnym, doznał owocnego natchnienia dotyczącego kultury. Napisał: „Ostatnio wyraźnie uświadomiłem sobie, że istnieją dwa rodzaje poznania. Jedno skutkuje zagłębieniem się w rzeczach i w związkach między nimi. Poznający usiłuje w nie wniknąć, uzmysłowić je sobie, wczuć się w nie. Drugi sposób polega na chwytaniu, rozbijaniu, układaniu w szufladkach, podporządkowywaniu sobie, zdobywaniu” (Listy znad jeziora Como, przeł. Kamil Markiewicz, Warszawa 2021, s. 51). Rozróżnia on dwa rodzaje poznania. Pierwszy z nich, pokorny i relacyjny, jest niczym „panowanie przez służbę, tworzenie za sprawą naturalnych zdolności przypisanych ludziom, nieopuszczających przewidzianych torów, nieprzekraczających wyznaczonych granic” (por. s. 52). Zaś inny sposób poznania, „nie przenika, lecz analizuje [...] nie zanurza się w przedmiocie, lecz go porywa” (s. 52).
I oto, w tym drugim sposobie poznania „przenosi się siły i substancje w pożądany stan – w maszynę” (s. 53), i „tak powstaje technika sprawowania władzy nad żywym człowiekiem” (s. 54). Guardini nie demonizuje techniki, która umożliwia lepsze życie, komunikację i posiada wiele zalet, lecz przestrzega przed zagrożeniem, że będzie ona wyznaczać porządek życia, a może nawet nim rządzić. W tym kontekście, dostrzegał więc wielkie niebezpieczeństwo: „człowiek – pisał – który wewnątrz całkowicie wyzbywa się organicznego wyczucia miary i naturalnej formy kształcenia, tracący miarę, wizję i kierunek, arbitralnie określa swoje cele i zmusza podporządkowane siły natury, aby pomagały mu w ich urzeczywistnieniu” (s. 55). Pozostawił też następnym pokoleniom niepokojące pytanie: „Co stanie się z życiem, gdy podda się ono temu panowaniu? […] Co się stanie [...], gdy spęta siła przymusu stosowanego przez technikę? Życie jest osaczone przez system maszyn. [...] Czy w tym systemie życie może pozostać żywe?” (s. 55).
Czy życie może pozostać żywe? Jest to pytanie, które warto zadać, zwłaszcza w tym miejscu, w którym zgłębia się informatykę i bionikę. Bowiem to, co dostrzegał Guardini, uwidacznia się w naszych czasach: pomyślmy o kryzysie ekologicznym, w którym jedynie przyroda reaguje na jej instrumentalne wykorzystywanie przez nas. Pomyślmy o braku granic, o logice, według której „jeśli coś jest możliwe, to jest również dozwolone”. Pomyślmy też o pragnieniu postawienia w centrum wszystkiego – nie osobę i jej relacje, lecz jednostkę skoncentrowaną na własnych potrzebach, zachłannej wobec zysku i żarłocznie wykorzystującej rzeczywistość. I pomyślmy o wynikającej z tego erozji więzi wspólnotowych, która prowadzi do tego, że samotność i lęk zdają się przekształcać z warunków egzystencjalnych, w warunki społeczne. Ileż to odizolowanych jednostek, bardzo „społecznościowych” i mało społecznych, ucieka się, jak w błędnym kole, do pociech technologicznych jako wypełniaczy doświadczanej pustki, gnając naprzód jeszcze bardziej gorączkowo, podczas gdy zniewolone przez dziki kapitalizm, odczuwają jako bardziej bolesne własne słabości, w społeczeństwie, w którym szybkość zewnętrzna idzie w parze z kruchością wewnętrzną. Na tym polega dramat. Mówiąc to, nie chcę wywoływać pesymizmu – byłoby to sprzeczne z wiarą, którą z radością wyznaję – ale chcę zastanowić się nad tą „pychą bycia i posiadania”, którą już u zarania kultury europejskiej Homer postrzegał jako zagrożenie, a którą paradygmat technokratyczny, doprowadza do ostateczności, posługując się algorytmami, które mogą stanowić dalsze ryzyko destabilizacji tego, co ludzkie.
W cytowanej przeze mnie wielokrotnie powieści „Władca świata” Roberta Bensona zauważa się, „że ogrom to coś innego niż wielkość i że narzucająca się powierzchowność nie może wyłączyć subtelności wewnętrznej” (Warszawa 2017, tłum. Stefan Barszczewski, s. 17). W tej, w pewnym sensie „proroczej” książce, napisanej ponad wiek temu, opisana jest zdominowana przez technikę przyszłość, w której, w imię postępu, wszystko zostaje ujednolicone: wszędzie głoszony jest nowy „humanitaryzm”, który anuluje różnice, niszcząc życie ludów i likwidując religie. Likwidując wszelkie różnice. Przeciwstawne ideologie homologują się w sposób, który jest ideologiczną kolonizacją. Na tym polega dramat kolonizacji ideologicznej. Człowiek w kontakcie z maszynami staje się coraz bardziej banalny, podczas gdy życie we wspólnocie staje się smutne i miałkie. W tym postępowym, ale ponurym świecie opisanym przez Bensona, w którym wszyscy sprawiają wrażenie odrętwiałych i znieczulonych, oczywiste wydaje się odrzucenie osób chorych i stosowanie eutanazji, a także zlikwidowanie języków i kultur narodowych w celu osiągnięcia powszechnego pokoju, co tak naprawdę zamienia się w prześladowanie oparte na narzucaniu zgody, do tego stopnia, że jeden z bohaterów stwierdza, iż „świat wydaje się dziwnie ożywionym. Czuć w nim podniecenie i nerwowość” (s.91).
Poświęciłem tyle czasu tej ponurej analizie, ponieważ właśnie w tym kontekście lepiej jaśnieją role kultury i uniwersytetu. Uniwersytet bowiem, jak wskazuje sama jego nazwa, jest miejscem, gdzie myśl rodzi się, rozwija i dojrzewa otwarta i symfoniczna, nie jednolita, nie zamknięta, lecz otwarta i symfoniczna. Jest „świątynią”, w której wiedza ma wyzwolić się z ciasnych ram posiadania i dysponowania, aby stać się kulturą, czyli „uprawą” człowieka i jego podstawowych relacji: z tym, co transcendentne, ze społeczeństwem, z historią, ze stworzeniem. Sobór Watykański II stwierdza w tym względzie: „kulturę należy odnieść do integralnego doskonalenia osoby ludzkiej, dobra wspólnoty i całego społeczeństwa ludzkiego. Dlatego trzeba rozbudzać ducha w ten sposób, aby rozwijana była zdolność do podziwiania, poznawania istoty rzeczy, kontemplowania i kształtowania osobistego osądu, a także do doskonalenia zmysłu religijnego, moralnego i społecznego! (Konst. duszp. Gaudium et spes, 59). Już w starożytności mówiono, że początkiem filozofowania jest zadziwienie, zdolność do zachwytu. W tej perspektywie bardzo ceniłem sobie wasze słowa. Te, Księże Rektorze, kiedy stwierdził Ksiądz, że „w każdym prawdziwym naukowcu jest coś z uczonego w Piśmie, kapłana, proroka i mistyka”; i jeszcze, że „z pomocą nauki chcemy nie tylko zrozumieć, chcemy także czynić rzecz słuszną, to znaczy budować cywilizację ludzką i solidarną, zrównoważoną kulturę i środowisko. To właśnie z pokornym sercem możemy wejść nie tylko na górę Pana, ale także na górę nauki”.
Jest prawdą, że wielcy intelektualiści są w istocie pokorni. Natomiast tajemnica życia objawia się tym, którzy umieją pochylać się nad małymi sprawami. W tym względzie piękne jest to, co powiedziała nam Dorottya: „Odkrywając coraz więcej małych detali zanurzamy się w złożoności dzieła Bożego”. Tak rozumiana kultura stanowi rzeczywiście ochronę tego, co ludzkie. Zanurza w kontemplacji i kształtuje osoby, które nie są zdane na łaskę i niełaskę mody obowiązującej w danej chwili, ale są mocno zakorzenione w rzeczywistości rzeczy. I które będąc pokornymi uczennicami wiedzy, czują, że muszą być otwarte i komunikatywne, a nigdy sztywne i nastawione bojowo. Kto kocha kulturę, nigdy tak naprawdę nie czuje, że osiągnął swój cel i jest w porządku, ale nosi w sobie pewien zdrowy niepokój. Poszukiwanie, stawianie pytań, ryzykuje i bada; potrafi odrzucić własne pewniki, by z pokorą wejść w tajemnicę życia, która łączy się z niepokojem, a nie z nawykiem; która otwiera się na inne kultury i czuje potrzebę dzielenia się wiedzą. Taki jest duch uniwersytetu i dziękuję, że tak go przeżywacie, jak powiedział nam o tym profesor Major, opowiadając o pięknie współpracy z innymi instytucjami edukacyjnymi, poprzez wspólne programy badawcze, a także przyjmując studentów z innych regionów świata, na przykład z Bliskiego Wschodu, a zwłaszcza z udręczonej Syrii. To właśnie otwierając się na innych, poznaje się lepiej samych siebie. Otwarcie, otwarcie się na innych jest jakby zwierciadłem: pozwala mi lepiej poznać samego siebie.
Kultura pomaga nam w poznawaniu siebie. Przypomina o tym myśl klasyczna, która nigdy nie może zaniknąć. Przychodzą mi na myśl słynne słowa wyroczni w Delfach: „Poznaj samego siebie”. Jest to jedno z dwóch przewodnich zdań, z którymi – kończąc – chciałbym was zostawić. Ale co znaczy poznać samego siebie? To znaczy umieć rozpoznać własne ograniczenia i w konsekwencji pohamować zarozumiałość samowystarczalności. To nam robi dobrze, bowiem to przede wszystkim uznając samych siebie za stworzenia, stajemy się twórczy, zanurzając się w świecie, zamiast panując nad nim. I podczas, gdy myśl technokratyczna dąży do postępu, który nie uznaje granic, to prawdziwy człowiek uczyniony jest również z kruchości i często właśnie za jej sprawą rozumie, że jest zależny od Boga i związany z innymi i ze stworzeniem. Słowa wyroczni delfickiej zapraszają zatem do takiego poznania, które wychodząc od pokory, wychodząc od ograniczoności, wychodząc od pokory ograniczoności odkrywa własne cudowne możliwości, wykraczające daleko poza technikę. Innymi słowy, poznanie samego siebie wymaga połączenia, w uczciwej dialektyce, kruchości i wielkości człowieka. Ze zdumienia tym kontrastem rodzi się kultura: nigdy niezaspokojona, lecz zawsze poszukująca, niespokojna i wspólnotowa, zdyscyplinowana w swej skończoności i otwarta na Absolut. Życzę wam, abyście pielęgnowali to pasjonujące odkrywanie prawdy!
Drugie zdanie przewodnie odnosi się właśnie do prawdy. To zdanie Jezusa Chrystusa: „Prawda was wyzwoli” (J 8, 32). Węgry były świadkiem ideologii następujących jedna po drugiej, które narzucały się jako prawda, ale nie dawały wolności. I także dzisiaj to ryzyko nie zniknęło: myślę o przejściu od komunizmu do konsumpcjonizmu. Wspólne dla obu „izmów” jest fałszywa idea wolności; idea komunizmu była „wolnością” wymuszoną, ograniczoną z zewnątrz, o której decydował ktoś trzeci; idea konsumpcjonizmu zaś jest „wolnością” libertyńską, hedonistyczną, zamkniętą w sobie, która czyni nas niewolnikami konsumpcji i rzeczy. Jakże łatwo jest przejść od ograniczeń narzuconych sposobowi myślenia, jak w komunizmie, do myślenia bez ograniczeń, jak w konsumpcjonizmie! Od wolności ograniczonej do wolności bez hamulców. Jezus proponuje wyjście, mówiąc, że jest prawdziwe to, co wyzwala, to, co uwalnia człowieka z jego uzależnień i zamknięć. Kluczem dostępu do tej prawdy jest poznanie, które nigdy nie jest oderwane od miłości, relacyjne, pokorne i otwarte, konkretne i wspólnotowe, odważne i konstruktywne. To jest właśnie to, do czego pielęgnowania powołane są uniwersytety, a wiara – do jego podsycania. Dlatego życzę temu i każdemu uniwersytetowi, aby był ośrodkiem uniwersalności i wolności, owocnym miejscem budowania humanizmu, laboratorium nadziei. Z serca Wam błogosławię i dziękuję za to, co czynicie: Bardzo dziękuję!
[00690-PL.02] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua araba
الزيارة الرسوليّة إلى هنغاريا
كلمة قداسة البابا فرنسيس
في اللقاء مع العالم الأكاديميّ والثّقافيّ
في الجامعة الكاثوليكيّة “Péter Pázmány”
الأحد 30 نيسان/أبريل 2023
أيّها الإخوة والأخوات الأعزّاء، مساء الخير!
أحيّي كلّ واحد منكم وأشكركم على الكلمات الطّيبة التي قيلت والتي سأتوقّف عندها بعد قليل. هذا هو اللقاء الأخير لزيارتي إلى هنغاريا، وبقلب شاكر، أودّ أن أفكّر في مسار نهر الدانوب، الذي يربط هذا البلد بالعديد من البلدان الأخرى، ويوحّدها، في الجغرافيا وفي التّاريخ أيضًا. الثّقافة، بنوع ما، تشبه نهرًا كبيرًا: فهي تتدفّق عبر مناطق مختلفة من الحياة والتّاريخ وتربطها بعضها ببعض، وتسمح لنا بأن نبحر في العالم وأن نعانق البلدان والأراضيّ البعيدة، وتروي العقل والنّفس، وتُنَمِّي المجتمع. كلمة الثّقافة (في اللغة الإيطاليّة cultura) نفسها مشتقة من الفعل coltivare أي حرث الأرض وزرعها: فالمعرفة هي مثل زرع يومي، يُغرَس في أخاديد الواقع، ويؤتي ثمرًا.
قبل مائة سنة، رومانو غوارديني، المفكّر الكبير والرّجل المؤمن، وجد نفسه يومًا يتأمّل في منظر طبيعي فريد بجمال المياه، فجاءه إلهام مَعرِفِيّ خصب. كتب: "فهمت في هذه الأيام أكثر من أيّ وقت مضى أنّ هناك نوعَيْن من المعرفة [...]، الأولى تؤدّي إلى الاندماج في الموضوع والواقع من حوله، لأنّ الإنسان الذي يريد أن يعرف الموضوع يحاول أن يعيش فيه. والثّانية، عكس الأولى، تجمع الأشياء وتحلّلها وترتبها في قوالب وتصير أنت السّيّد والمالك والمسيطر"(Lettere dal Lago di Como. La tecnica e l’uomo, Brescia 2022, 55). ميّز رومانو غوارديني بين المعرفة المتواضعة والمبنية على العلاقة، والتي هي مثل ”من يملك بواسطة الخدمة، ويخلق بحسب الطّبيعة، ولا يتجاوز الحدود المقرّرة“ (راجع صفحة 57)، وبين طريقة أخرى للمعرفة، التي "لا تراقب، بل تحلّل [...] ولا تندمج في الموضوع، بل تسيطر عليه" (صفحة 56).
وهنا، في هذه الطّريقة الثّانية للمعرفة "تُوَجَّهُ الطّاقات إلى الآلة" (صفحة 58)، و "هكذا تُطوَّر تِقنيَّةُ إخضاع الكائن الحيّ" (صفحات 59-60). غوارديني لا يحُطّ من قيمة التّكنولوجيا، التي تجعل العيش أفضل، وكذلك التّواصل ولها مزايا عديدة، بل حذّر من خطر أن تصير هي المنظِّمة، أو المسيطِرة في الحياة. بهذا المعنى، رأى خطرًا كبيرًا: "الإنسان يفقد جميع روابطه الدّاخليّة التي تمنحه إحساسًا عضويًا بالقياس وأشكال التّعبير المنسجمة مع الطّبيعة" و "إذ يصير في كيانه الداخليّ بدون أطُرٍ محدَّدة، وبدون قياس، وبدون اتِّجاه، يأخذ بتحديد غاياته بشكل تعسفي ويفرض نفسه على قوى الطّبيعة، التي يهيمن عليها، ليكيِّفها بحسب حاجته" (صفحة 60). وبهذا يترك للأجيال القادمة سؤالًا يبعث على القلق: "ماذا ستكون الحياة إذا انتهت تحت هذه العبوديّة؟ [...] ماذا سيحدث [...] عندما نجد أنفسنا أمام أوامر التّكنولوجيا؟ الحياة، الآن، مؤطّرة في نظام من الآلات. [...] في مثل هذا النّظام، هل يمكن للحياة أن تبقى حيّة؟" (صفحة 61).
هل يمكن للحياة أن تبقى حيّة؟ إنّه سؤال، من الجيّد طرحه، خاصّة في هذا المكان، حيث يتمّ التعمّق في تكنولوجيا المعلومات و ”علوم الحياة الصّناعيّة“. في الواقع، ما رآه غوارديني يبدو واضحًا في أيامنا هذه: لنفكّر في الأزمة البيئيّة، مع الطّبيعة التي تَرُدُّ بكلّ بساطة على استخدامنا الآلي الذي فرضناه عليها ولنفكّر في غياب الحدود، وفي منطق: ”يمكن القيام به، إذن يجوز القيام به“. ولنفكّر أيضًا في وضع الإنسان وعلاقاته على جدة، وإرادة تأسيس كلّ شيء، على الفرد الذي يركّز كلّ شيء على احتياجاته الخاصّة، والحريص على الكسب ويريد أن يلتهم الواقع. وبالتالي لنفكّر في تآكل الرّوابط الجماعيّة، حيث يبدو أنّ العزلة والخوف، بدل أن تكون ظروفًا حياتيّة متقلّبة عابرة، تتحولان إلى حالات اجتماعيّة ثابتة. كم عدد الأفراد المعزولين. وهناك ”تواصل اجتماعيّ على الشّبكة“ كثير، و”حياة اجتماعيّة“ قليلة، يلجأون، كما في حلقة مفرغة، إلى تعزية التّكنولوجيا لملء الفراغ الذي يشعرون به، ويركضون بسرعة جنونيّة، وهم خاضعون بغير وعي لرأسماليّة متوحشة، ويزداد ألَمُهم مع شعورهم بضعفهم، في مجتمع حيث السّرعة الخارجيّة تساوي الضّعف الداخليّ. هذه هي المأساة. بقولي هذا لا أريد أن أثير التّشاؤم - فذلك مخالف للإيمان الذي يسعدني الاعتراف به - لكن للتّفكير في ”غطرسة الوجود والتّملك“، التي رأى خطرها هوميروس منذ فجر الثّقافة الأوروبيّة، والتي تتفاقم مع النّموذج التّكنوقراطي، ومع استخدام لبعض الخوارزميات (هي مجموعة من الخطوات الرّياضيّة والمنطقيّة والمتسلسلة اللازمة لحلّ مشكلة ما) التي يمكن أن تمثّل خطرًا إضافيًا لزعزعة استقرار الإنسان.
في رواية ذكرتها عدّة مرات، رواية ”سيّد العالم“ لروبرت بنسون (Robert Benson)، نلاحظ أنّ "الإنجازات الميكانيكيّة ليست مرادفًا للسّمو الحقيقيّ، وأنّ أفخم المظاهر الخارجيّة يَكمُن فيها إفساد خفيّ". (فيرونا 2014، 24-25). في هذا الكتاب، الذي يمكن أن نقول فيه بمعنى ما إنه ”نبويّ“، والذي كُتِبَ منذ أكثر من قرن، يصف مستقبلًا تُهَيمِنُ عليه التّكنولوجيا ويتمّ فيه توحيد وتسوية كلّ شيء، باسم التّقدّم: في كلّ مكان يتمّ الوعظ بـ ”إنسانيّة متشابهة“ جديدة تلغي الاختلافات، وتعتبر حياة الشّعوب كلا شيء، وتلغي الأديان. والأيديولوجيّات المعارضة تتلاقى فيها في تجانس أيديولوجيّ استعماريّ. هذه هي المأساة، الاستعمار الأيديولوجيّ. الإنسان، في اتصال مع الآلات، يزداد انحدارًا، وتصير الحياة المشتركة حزينة ومجمَّدة. في هذا العالم المتقدّم ولكن الكئيب، الذي وصفه بنسون، حيث يبدو الجميع بلا إحساس ومخدَّرِين، يبدو واضحًا التّخلّص من المرضى وتطبيق الموت الرّحيم، وكذلك إلغاء اللغات والثّقافات الوطنيّة لتّحقيق السّلام العالميّ، والذي يتحوّل في الواقع إلى اضطهاد مؤسّس على فرض الإجماع، لدرجة أن أحد شخصيّات الرّواية يؤكّد أنّ "العالم يبدو تحت رحمة حيوية شريرة، تُفسد وتخلط كلّ شيء" (صفحة 145).
لقد واصلت هذا الفحص بألوانه القاتمة، لأنّه في هذا السّياق بالتّحديد يتألّق دور الثّقافة والجامعة بشكل أفضل. الجامعة في الواقع، كما يشير الاسم نفسه، هي المكان الذي يولد فيه الفكر وينمو وينضج منفتحًا ومتعدِّدًا ومنسجمًا. إنّه "الهيكل“ حيث المعرفة مدعوة إلى أن تتحرّر من الحدود الضّيقة للكسب والامتلاك، لتصير ثقافة، أي ”عمل تنمية“ مبنِيًّا على علاقاته الأساسيّة: مع ما هو أعلى من الإنسان ، ومع المجتمع، ومع التّاريخ، ومع الخليقة. في هذا الصّدد، يؤكّد المجمع الفاتيكانيّ الثّاني: "الثّقافة يجب أن تهدف إلى نمو الشّخص الكلّي، وإلى خير الجماعة وخير الجنس البشري بأسره. ولهذا من الضّروريّ تنمية الرّوح حتّى تنمو قوى التّعجب والتّبصر، ويصل الإنسان الى تكوين حكم شخصيّ، وصقل الحس الدّينيّ والأدبيّ والاجتماعيّ" (دستور رعائي في الكنيسة في عالم اليوم، فرح ورجاء، 59). من وجهة النّظر هذه، أنا أقدّر كلماتكم كثيرًا. كلماتك، سيادة المطران رئيس الجامعة، عندما قلت: "في كلّ عالِمٍ حقيقيّ يوجد شيء من الكاتب والكاهن والنّبيّ والصّوفي"؛ وأيضًا "بمساعدة العِلم لا نريد أن نفهم فقط، بل نريد أيضًا أن نصنع الشّيء الصّحيح، وهو بناء حضارة إنسانيّة متضامنة، وثقافة وبيئة مستدامة. وبقلب متواضع يمكننا أن نصعد ليس فقط جبلَ الرّبّ، بل جبل العِلم أيضًا".
هذا صحيح: المفكّرون الكبار في الواقع متواضعون. من ناحية أخرى، سرّ الحياة ينكشف للذين يعرفون الدّخول في الأشياء الصّغيرة. في هذا الصّدد، جميل ما قالته لنا دوروتيا: "باكتشاف المزيد والمزيد من التّفاصيل الصّغيرة، ندخل في عمل الله الكبير". إذا فهمنا الثّقافة بهذه الطّريقة، فإنها تُمَثِّلُ حقًا حماية الإنسانيّة. إنّها تأمُّلٌ عميق، وتصنع أشخاصًا ليسوا تحت رحمة الأزياء المتقلّبة، بل هم متأصلّون في واقع الأشياء. إنّهم تلاميذ متواضعون للمعرفة، ويشعرون أنّه يجب أن يكونوا منفتحين ومتواصلين مع الآخرين، لا جامدين ومقاتلين. في الواقع، الذين يحبّون الثّقافة لا يشعرون أبدًا أنّهم وصلوا وأنّ كلّ شيء على ما يرام، بل يحملون في داخلهم قلقًا. فيبحثون ويسألون ويجازفون ويستكشفون. ويعرفون كيف يخرجون من يقينهم ليغامروا بتواضع في سرّ الحياة، الذي يقترن بالقلق وليس بالعادة؛ وينفتح على ثقافات أخرى ويشعر بالحاجة إلى أن يتقاسم المعرفة مع غيره. هذه هي روح الجامعة، وأشكركم لأنّكم هكذا تعيشونها، كما قال لنا الأستاذ ميجور، الذي روى لنا جمال التّعاون مع وقائع تربويّة أخرى، من خلال برامج بحث مشتركة وأيضًا من خلال التّرحيب بالطّلاب القادِمين من مناطق أخرى من العالم، مثل الشّرق الأوسط، وخاصّة من سوريا المعذّبة. بالانفتاح على الآخرين، نتعرّف على أنفسنا بشكل أفضل. الانفتاح، أن نفتح أنفسنا على الآخرين هو مثل المرآة: الانفتاح على الآخرين يجعلني أتعرّف على نفسي بشكل أفضل.
الثّقافة ترافقنا لنعرف أنفسنا. كذلك الفكر الكلاسيكيّ، الذي يجب ألّا يغيب عنا أبدًا. يذكّرنا بذلك كلمات شهيرة من ”نبوءة هيكل دلفي“: "اعرف نفسك". إنّها إحدى الإرشادَين اللذين أودّ أن أتركهما لكم في الختام. لكن ماذا تعني عبارة ”اعرف نفسك“؟ إنّها تعني أن نعرف حدودنا، وبالتالي، أن نوقف ادّعاءنا بأنّنا نكفي أنفسنا. هذا مفيد لنا، لأنّنا قبل كلّ شيء، بالتّعرف على أنفسنا كمخلوقات نصير مبدعين، ونندمج في العالم بدلًا من أن نسيطر عليه. وبينما يسعى الفكر التّكنوقراطي إلى تقدّم لا يعرف الحدود، فإنّ الإنسان الواقعيّ مكوَّن أيضًا من الضّعف، وبذلك يدرك أنّه يحتاج إلى الله وإلى الآخرين والخليقة. عبارة نبوءة دلفي تدعونا إذن إلى المعرفة، التي تنطلق من تواضع الاعتراف بمحدوديتنا، فنكتشف إمكاناتنا المدهشة، والتي هي أكثر بكثير من المعرفة المكتسبة بالتّكنولوجيا. بعبارة أخرى، تتطلّب معرفة الذات التّماسك، في جدلية مؤسَّسة على الفضيلة، وتشمل ضعف الإنسان وسموّه. من الاندهاش أمام هذا التّعارض تنشأ الثّقافة: ثقافة غير مطمئِنَّة أبدًا، تبحث دائمًا، وتعمل مع الجماعة، منضبطة في محدوديتها ومنفتحة على المطلق. أتمنّى لكم أن تبلغوا هذا الاكتشاف المدهش للحقيقة!
الإرشاد الثّاني له صلة بالحقيقة. هو كلمة ليسوع المسيح الذي قال: "الحَقُّ يُحَرِّرُكُم" (يوحنّا 8، 32). شهدت هنغاريا سلسلة من الأيديولوجيّات التي فرضت نفسها على أنّها الحقيقة لكنّها لم تمنح الحرّيّة. واليوم أيضًا، لم يَزُلْ الخطر: أفكّر في الانتقال من الشّيوعيّة إلى الاستهلاكيّة. القاسم المشترك بينهما هو فكرة خاطئة عن الحرّيّة. كانت الحرّيّة عند الشّيوعيّة ”حرّيّة“ قسرية، مقيدة من الخارج، يقرّرها شخص آخر. والحرّيّة الاستهلاكيّة ”حرّيّة“ منفلتة، مبنية على المتعة، متزلِّفة، تجعلنا عبيدًا للاستهلاك وللأشياء. وما أسهل أن ننتقل من القيود المفروضة على الفكر، كما في الشّيوعيّة، إلى التّفكير أنّنا بلا حدود، كما في النّزعة الاستهلاكيّة! من حرّيّة مقيّدة إلى حرّيّة بدون قيود أو حدود. قدّم يسوع لنا مخرجًا، فقال إنّ الحقّ هو الذي يحرّر الإنسان من عبودياته وانغلاقاته. مفتاح الوصول إلى هذه الحقيقة هو المعرفة التي لا تنفصل أبدًا عن المحبّة، والمعرفة المبنية على العلاقة، والمتواضعة والمنفتحة، عمليّة ومع الجماعة، وهي شجاعة وبنّاءة. الجامعات مدعُوّة إلى هذا، إلى أن تنَمِّيَ الثّقافة، وإلى أن تغذِّيَ بالإيمان. لذلك أتمنّى لهذه الجامعة ولكلّ جامعة أن تكون مركزًا للشّموليّة والحرّيّة، ومشغلًا خصبًا لبناء الإنسانيّة، ومختبرًا للأمل. أبارككم من كلّ قلبي وأشكركم على كلّ ما تصنعونه: شكرًا جزيلًا!
[00690-AR.02] [Testo originale: Italiano]
[B0322-XX.02]