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Celebrazione Penitenziale presieduta dal Santo Padre Francesco nella parrocchia di Santa Maria delle Grazie al Trionfale, 17.03.2023


Discorso del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Traduzione in lingua araba

Questo pomeriggio, nella parrocchia di Santa Maria delle Grazie al Trionfale, il Santo Padre Francesco ha presieduto una Liturgia Penitenziale per la Riconciliazione di più penitenti con la confessione e l’assoluzione individuale.

La celebrazione ha aperto l’iniziativa quaresimale “24 ore per il Signore”, promossa dal Dicastero per l’Evangelizzazione. Anche quest’anno l’evento si celebrerà nelle diocesi di tutto il mondo, il 17 e il 18 marzo 2023, alla vigilia della IV domenica di Quaresima, domenica “in Laetare”.

Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa ha pronunciato nel corso della Celebrazione Penitenziale:

Omelia del Santo Padre

«Queste cose, che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo» (Fil 3,7). Così dichiara San Paolo nella prima Lettura che abbiamo ascoltato. E se ci chiediamo quali sono le cose che non ha più considerato fondamentali nella sua vita, contento perfino di perderle per poter trovare Cristo, ci accorgiamo che non si tratta di realtà materiali, ma di “ricchezze religiose”. Proprio così: era un uomo pio, un uomo zelante, un fariseo ligio e osservante (cfr vv. 5-6). Eppure, questo abito religioso, che poteva costituire un merito, un vanto, una ricchezza sacrale, era in realtà per lui un impedimento. E allora Paolo afferma: «Ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo» (v. 8). Tutto quello che gli aveva dato un certo prestigio, una certa fama...; “lascia perdere: per me, Cristo è più importante”.

Chi è troppo ricco di sé e della propria “bravura” religiosa presume di essere giusto e migliore degli altri – quante volte in parrocchia succede questo: “Io sono dell’Azione Cattolica, io vado ad aiutare il prete, io faccio la raccolta…, io, io, io”, quante volte succede di credersi migliori degli altri; ognuno, nel proprio cuore, pensi se qualche volta è successo – chi fa così si lascia appagare dal fatto che ha salvato le apparenze; si sente a posto, ma così non può fare posto a Dio perché non sente bisogno di Lui. E tante volte i “cattolici puliti”, quelli che si sentono giusti perché vanno in parrocchia, perché vanno la domenica a Messa e si vantano di essere giusti: “No, io non ho bisogno di nulla, il Signore mi ha salvato”. Che cosa è successo? Che il posto di Dio l’ha occupato con il proprio “io” e allora, anche se recita preghiere e compie azioni sacre, non dialoga veramente con il Signore. Sono monologhi che fa, non dialogo, non preghiera. Perciò la Scrittura ricorda che solo «la preghiera del povero attraversa le nubi» (Sir 35,21), perché solo chi è povero in spirito, chi si sente bisognoso di salvezza e mendicante di grazia, si presenta davanti a Dio senza esibire meriti, senza pretese, senza presunzione: non ha nulla e perciò trova tutto, perché trova il Signore.

Questo insegnamento Gesù ce lo offre nella parabola che abbiamo ascoltato (cfr Lc 18,9-14). È il racconto di due uomini, un fariseo e un pubblicano, che vanno entrambi al tempio a pregare, ma uno solo arriva al cuore di Dio. Prima di quello che fanno, è il loro atteggiamento fisico a parlare: il Vangelo dice che il fariseo pregava «stando in piedi» (v. 11), a fronte alta, mentre il pubblicano, «fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo» (v. 13), per vergogna. Riflettiamo un momento su queste due posture.

Il fariseo sta in piedi. È sicuro di sé, ritto e trionfante come uno che debba essere ammirato per la sua bravura, come un modello. In questo atteggiamento egli prega Dio, ma in realtà celebra sé stesso: io frequento il tempio, io osservo i precetti, io offro l’elemosina... Formalmente la sua preghiera è ineccepibile, esteriormente si vede un uomo pio e devoto, ma, invece di aprirsi a Dio portandogli la verità del cuore, maschera nell’ipocrisia le sue fragilità. E tante volte noi facciamo un maquillage sulla nostra vita. Questo fariseo non attende la salvezza del Signore come un dono, ma quasi la pretende come un premio per i suoi meriti. “Ho fatto i compiti, adesso dammi il premio”. Quest’uomo avanza senza esitazione verso l’altare di Dio – a fronte alta – per occupare il suo posto, in prima fila, ma finisce per andare troppo in là e mettersi davanti a Dio!

Invece l’altro, il pubblicano, sta a distanza. Non cerca di farsi largo, rimane in fondo. Ma proprio quella distanza, che manifesta il suo essere peccatore rispetto alla santità di Dio, è ciò che gli permette di fare l’esperienza dell’abbraccio benedicente e misericordioso del Padre. Dio può raggiungerlo proprio perché, restando a distanza, quell’uomo gli ha fatto spazio. Non parla di sé stesso, parla chiedendo perdono, parla guardando a Dio. Quanto è vero questo anche per le nostre relazioni familiari, sociali ed ecclesiali. C’è vero dialogo quando sappiamo custodire uno spazio tra noi e gli altri, uno spazio salutare che permette a ciascuno di respirare senza essere risucchiato o annullato. Allora quel dialogo, quell’incontro può accorciare la distanza e creare vicinanza. Succede così anche nella vita di quel pubblicano: fermandosi in fondo al tempio, si riconosce in verità così com’è, peccatore, di fronte a Dio: distante, e in questo modo permette che Dio si avvicini a lui.

Fratelli, sorelle, ricordiamoci questo: il Signore viene a noi quando prendiamo le distanze dal nostro io presuntuoso. Pensiamo: “Io sono presuntuoso? Mi credo migliore degli altri? Guardo qualcuno un po’ con disprezzo? “Ti ringrazio, Signore, perché tu mi hai salvato e non sono come questa gente che non capisce nulla, io vado in chiesa, io vado a Messa; io sono sposato, sposata in chiesa, questi sono dei divorziati peccatori…”: il tuo cuore è così? Andrai all’inferno. Per avvicinarsi a Dio, bisogna dire al Signore: “Io sono il primo dei peccatori, e se non sono caduto nella sporcizia più grande è perché la tua misericordia mi ha preso per mano. Grazie a Te, Signore, io sono vivo, grazie a Te, Signore, io non mi sono distrutto con il peccato”. Dio può accorciare le distanze con noi quando con onestà, senza infingimenti, gli portiamo la nostra fragilità. Ci tende la mano per rialzarci quando sappiamo “toccare il fondo” e ci rimettiamo a Lui nella sincerità del cuore. Così è Dio: ci aspetta in fondo, perché in Gesù Lui ha voluto “andare in fondo”, perché non ha paura di scendere fin dentro gli abissi che ci abitano, di toccare le ferite della nostra carne, di accogliere la nostra povertà, di accogliere i fallimenti della vita, gli errori che per debolezza o negligenza commettiamo, e tutti ne abbiamo fatti. Dio ci aspetta lì, nel fondo, ci aspetta specialmente quando, con tanta umiltà, andiamo a chiedere perdono nel sacramento della Confessione, come faremo oggi. Ci aspetta lì.

Fratelli e sorelle, facciamo oggi un esame di coscienza, ognuno di noi, perché il fariseo e il pubblicano abitano entrambi dentro di noi. Non nascondiamoci dietro l’ipocrisia delle apparenze, ma affidiamo con fiducia alla misericordia del Signore le nostre opacità, i nostri errori. Pensiamo ai nostri errori, alle nostre miserie, anche a quelle che per vergogna non siamo capaci di condividere, e sta bene, ma con Dio si devono mostrare. Quando ci confessiamo, ci mettiamo in fondo, come il pubblicano, per riconoscere anche noi la distanza che ci separa tra ciò che Dio ha sognato per la nostra vita e ciò che realmente siamo ogni giorno: dei poveracci. E, in quel momento, il Signore si fa vicino, accorcia le distanze e ci rimette in piedi; in quel momento, mentre ci riconosciamo spogli, Lui ci riveste con l’abito della festa. E questo è, e dev’essere, il sacramento della Riconciliazione: un incontro di festa, che guarisce il cuore e lascia la pace dentro; non un tribunale umano di cui aver paura, ma un abbraccio divino da cui essere consolati.

Una delle cose più belle di come ci accoglie Dio è la tenerezza dell’abbraccio che ci dà. Se noi leggiamo di quando il figlio prodigo torna a casa (cfr Lc 15,20-22) e incomincia il discorso, il padre non lo lascia parlare, lo abbraccia e lui non riesce a parlare. L’abbraccio misericordioso. E io qui mi rivolgo ai miei fratelli confessori: per favore, fratelli, perdonate tutto, perdonate sempre, senza mettere il dito troppo nelle coscienze; lasciate che la gente dica le sue cose e voi ricevete questo come Gesù, con la carezza del vostro sguardo, con il silenzio della vostra comprensione. Per favore, il sacramento della Confessione non è per torturare, ma è per dare pace. Perdonate tutto, come Dio perdonerà tutto a voi. Tutto, tutto, tutto.

In questo tempo quaresimale, con la contrizione del cuore, sussurriamo anche noi come il pubblicano: «O Dio, abbi pietà di me, peccatore» (v. 13). Facciamolo insieme: O Dio, abbi pietà di me, peccatore. Dio, quando mi dimentico di Te o ti trascuro, quando alla tua Parola antepongo le mie parole e quelle del mondo, quando presumo di essere giusto e disprezzo gli altri, quando chiacchiero degli altri, o Dio, abbi pietà di me, peccatore. Quando non mi prendo cura di chi mi sta accanto, quando sono indifferente a chi è povero e sofferente, debole o emarginato, o Dio, abbi pietà di me, peccatore. Per i peccati contro la vita, per la cattiva testimonianza che sporca il bel volto della Madre Chiesa, per i peccati contro il creato, o Dio, abbi pietà di me, peccatore. Per le mie falsità, le mie disonestà, la mia mancanza di trasparenza e legalità, o Dio, abbi pietà di me, peccatore. Per i miei peccati nascosti, quelli che nessuno conosce, per il male che anche senza accorgermi ho procurato ad altri, per il bene che avrei potuto fare e non ho fatto, o Dio, abbi pietà di me, peccatore.

In silenzio, ripetiamo per qualche istante, col cuore pentito e fiducioso: o Dio, abbi pietà di me, peccatore. In silenzio. Ognuno lo ripeta nel suo cuore. O Dio, abbi pietà di me, peccatore. In questo atto di pentimento e di fiducia ci apriremo alla gioia del dono più grande: la misericordia di Dio.

[00443-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

«Mais tous ces avantages que j’avais, je les ai considérés, à cause du Christ, comme une perte» (Ph 3, 7). C’est ce que saint Paul déclare dans la première lecture que nous venons d’entendre. Et si nous nous demandons quelles sont les choses qu’il ne considère plus comme fondamentales dans sa vie, heureux même de les perdre pour trouver le Christ, nous nous rendons compte qu’il ne s’agit pas de réalités matérielles, mais de “richesses religieuses”. Et oui: il était un homme pieux, un homme zélé, un pharisien dévoué et pratiquant (cf. v. 5-6). Pourtant, cet habit religieux, qui aurait pu être un mérite, une source de fierté, une richesse sacrée, était en fait pour lui un obstacle. C’est pourquoi Paul affirme : «Je considère tout comme des ordures, afin de gagner un seul avantage, le Christ» (v. 8). Tout ce qui lui avait donné un certain prestige, une certaine réputation…, “laisse tomber: pour moi le Christ est plus important”.

Celui qui est trop riche de lui-même et de sa “valeur” religieuses présume qu’il est juste et meilleur que les autres - combien de fois cela se produit dans la paroisse : "Je suis Action Catholique, je vais aider le prêtre, je fais la quête..., moi, moi, moi", combien de fois se produit que l'on se croit meilleur que les autres. Que chacun, dans son cœur, pense si cela est arrivé quelquefois –, celui qui fait ainsi se laisse satisfaire par le fait qu’il a sauvé les apparences ; il se sent bien, mais il ne peut pas laisser de place à Dieu parce qu’il ne sent pas avoir besoin de Lui. Et bien souvent, les "catholiques propres", ceux qui se sentent justes parce qu'ils vont à la paroisse, parce qu'ils vont à la messe le dimanche, se vantent d'être justes : "Non, je n'ai besoin de rien, le Seigneur m'a sauvé". Que s'est-il passé ? La place de Dieu, il l’a occupée par son “moi”, et donc, même s’il récite des prières et accomplit des actes sacrés, il ne dialogue pas vraiment avec le Seigneur. Il fait des monologues, pas un dialogue, pas une prière. C’est pourquoi l’Écriture nous rappelle que seule «la prière du pauvre traverse les nuées» (Sir 35, 21), parce que seul celui qui est pauvre en esprit, qui sent avoir besoin de salut et qui mendie la grâce, se présente devant Dieu sans faire étalage de ses mérites, sans prétention, sans présomption : il n’a rien et donc il trouve tout, parce qu’il trouve le Seigneur.

Jésus nous donne cet enseignement dans la parabole que nous avons entendue (cf. Lc 18, 9-14). C’est le récit de deux hommes, un pharisien et un publicain, qui se rendent au temple pour prier, mais seul l’un d’eux parvient au cœur de Dieu. Au-delà de ce qu’ils font, c’est leur attitude physique qui parle : l’Évangile dit que le pharisien «se tenait debout» et priait (v. 11), la tête haute, tandis que le publicain, «se tenait à distance et n’osait même pas lever les yeux vers le ciel» (v. 13), par honte. Réfléchissons un instant à ces deux postures.

Le pharisien se tient debout. Il est sûr de lui, droit et triomphant comme quelqu’un qui doit être admiré pour sa valeur, comme un modèle. Dans cette attitude, il prie Dieu, mais en réalité, il se célèbre lui-même : je fréquente le temple, j’observe les préceptes, je fais l’aumône.... Formellement sa prière est irréprochable, extérieurement on voit un homme pieux et dévot, mais au lieu de s’ouvrir à Dieu en lui apportant la vérité de son cœur, il masque ses fragilités dans l’hypocrisie. Et souvent nous maquillons notre vie. Ce pharisien n’attend pas le salut du Seigneur comme un don, mais l’exige presque comme une récompense pour ses mérites. “J’ai fait mon devoir, maintenant donne-moi la récompense”. Il s’avance sans hésiter vers l’autel de Dieu, la tête haute, pour prendre sa place, au premier rang, mais finit par trop avancer au point de se mettre devant Dieu !

Au contraire, l’autre, le publicain reste à distance. Il ne cherche pas à se mettre en valeur, il reste à l’arrière. Mais c’est justement cette distance qui manifeste son être de pécheur par rapport à la sainteté de Dieu, et cela lui permet de faire l’expérience de la bénédiction et de l’étreinte miséricordieuse du Père. Dieu peut le rejoindre précisément parce que, en restant à distance, cet homme lui a fait de la place. Il ne parle pas de lui-même, il parle en demandant pardon, il parle en regardant Dieu. Comme cela est vrai aussi pour nos relations familiales, sociales et ecclésiales ! Il y a un vrai dialogue quand nous savons préserver un espace entre les autres et nous, un espace salutaire qui permet à chacun de respirer sans être aspiré ou annulé. Alors ce dialogue, cette rencontre, peut raccourcir la distance et créer la proximité. Il en est de même dans la vie de ce publicain : en s’arrêtant au fond du temple, il se reconnaît en vérité tel qu’il est, pécheur, devant Dieu : distant, et il permet ainsi à Dieu de s’approcher de lui.

Frères, sœurs, rappelons-nous ceci : le Seigneur vient à nous lorsque nous nous éloignons de notre ego prétentieux. Réfléchissons : Suis-je prétentieux ? Est-ce que je me crois meilleur que les autres ? Est-ce que je regarde quelqu'un avec mépris ? "Je te remercie, Seigneur, parce que tu m'as sauvé et que je ne suis pas comme ces gens qui ne comprennent rien, je vais à l'église, je vais à la messe ; je suis marié, je suis marié à l'église, ce sont des divorcés, pécheurs..." : ton cœur est-il ainsi ? Tu iras en enfer. Pour s'approcher de Dieu, il faut dire au Seigneur: "Je suis le premier des pécheurs, et si je ne suis pas tombé dans une plus grande saleté, c'est parce que Ta miséricorde m'a pris par la main. Grâce à Toi, Seigneur, je suis vivant ; grâce à Toi, Seigneur, je ne suis pas détruit par le péché". Dieu peut raccourcir les distances avec nous lorsque nous lui présentons honnêtement, sans prétention, notre fragilité. Il nous tend la main pour nous relever lorsque nous savons “toucher le fond” et que nous nous remettons à Lui dans la sincérité du cœur. Dieu est ainsi : il nous attend au fond, parce qu’en Jésus, Il a voulu “aller au fond” parce qu’il n’a pas peur de descendre jusque dans les abîmes qui nous habitent, de toucher les blessures de notre chair, d’accueillir notre pauvreté, d’accueillir les échecs de notre vie, les erreurs que nous commettons par faiblesse ou négligence, et tous nous en avons fait. Dieu nous attend là, au fond, il nous attend surtout lorsque, avec beaucoup d’humilité nous allons demander pardon dans le sacrement de la Confession, comme nous ferons aujourd’hui. Il nous attend là.

Frères et sœurs, faisons aujourd’hui, chacun, un examen de conscience car le pharisien et le publicain habitent tous deux en nous. Ne nous cachons pas derrière l’hypocrisie des apparences, mais confions avec confiance nos opacités, nos erreurs, à la miséricorde du Seigneur. Pensons à nos erreurs, à nos misères, même à celles que nous ne pouvons pas partager par honte, et c'est bien, mais avec Dieu, il faut les montrer. Quand nous nous confessons, nous nous mettons au fond, comme le publicain, pour reconnaître nous aussi la distance qui nous sépare entre ce que Dieu a rêvé pour notre vie et ce que nous sommes réellement chaque jour: des pauvres gens. Et, à ce moment-là, le Seigneur s’approche, Il réduit la distance et nous remet debout ; à ce moment-là, tandis que nous nous reconnaissons nus, Il nous revêt de l’habit de fête. Tel est et doit être le sacrement de la Réconciliation: une rencontre festive, qui guérit le cœur et laisse la paix à l’intérieur ; non pas un tribunal humain à craindre, mais une étreinte divine dont on sort consolé.

L'une des plus belles choses dans la manière dont Dieu nous accueille est la tendresse de l'étreinte qu'il nous donne. Si nous lisons le récit du fils prodigue qui rentre à la maison (cf. Lc 15, 20-22) et qui commence son discours, le père ne le laisse pas parler, il l'embrasse, et il ne réussit pas à parler. L'étreinte miséricordieuse. Et je m'adresse ici à mes frères confesseurs : s'il vous plaît, mes frères, pardonnez tout, pardonnez toujours, sans trop mettre le doigt dans les consciences ; laissez les gens dire leurs choses et vous recevez cela comme Jésus, avec la caresse de votre regard, avec le silence de votre compréhension. S'il vous plaît, le sacrement de la confession n'est pas fait pour torturer, mais pour donner la paix. Pardonnez tout, comme Dieu vous pardonnera tout. Tout, tout, tout.

En ce temps de Carême, cœur contrit, murmurons, nous aussi, comme le publicain : «Ô Dieu, aie pitié de moi, pécheur» (v. 13). Faisons-le ensemble : ô Dieu, aie pitié de moi, pécheur. Dieu, quand je t’oublie ou te néglige, quand je fais passer mes propres paroles et celles du monde avant ta Parole, quand je me prétends juste et que je méprise les autres, quand je parle sur les autres, ô Dieu, aie pitié de moi, pécheur. Quand je ne prends pas soin de ceux qui m’entourent, quand je suis indifférent à ceux qui sont pauvres et qui souffrent, faibles ou marginalisés, ô Dieu, aie pitié de moi, pécheur. Pour les péchés contre la vie, pour le mauvais témoignage qui salit le beau visage de notre Mère l’Église, pour les péchés contre la création, ô Dieu, aie pitié de moi, pécheur. Pour mes mensonges, ma malhonnêteté, mon manque de transparence et de droiture, ô Dieu, aie pitié de moi, pécheur. Pour mes péchés cachés, ceux que personne ne connaît, pour le mal que j’ai causé aux autres sans m’en rendre compte, pour le bien que j’aurais pu faire et que je n'ai pas fait, ô Dieu, aie pitié de moi, pécheur.

En silence, répétons pendant quelques instants, avec un cœur repentant et confiant : Ô Dieu, aie pitié de moi, pécheur. En silence, que chacun le répète dans son cœur. Ô Dieu, aie pitié de moi, pécheur. Dans cet acte de repentir et de confiance, nous nous ouvrirons à la joie du plus grand des dons : la miséricorde de Dieu.

[00443-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

“Whatever gains I had, these I have come to regard as loss because of Christ” (Phil 3:7). That is what Saint Paul tells us in the first reading. And if we ask ourselves what were those things that he no longer considered important in his life, and was even content to lose in order to find Christ, we realize that they were not material riches, but a fund of “religious” assets. Paul was devout and zealous, just and dutiful (cf. vv. 5-6). Yet, this very religiosity, which could have seemed a source of pride and merit, proved to be an impediment for him. Paul goes on to say: “I have suffered the loss of all things, and I regard them as rubbish, in order that I may gain Christ” (v. 8). Everything that had given him a certain prestige, a certain fame...; “forget it: for me, Christ is more important”.

People who are extremely rich in their own minds, and proud of their religious accomplishments, consider themselves better than others – how frequently does this happen in a parish: “I’m from Catholic Action; I’m going to help the priest; I do the collection... it’s all about me, me, me”; how often people believe themselves better than others; each of us, in our hearts, should reflect on whether this has ever happened – they feel satisfied that they cut a good figure. They feel comfortable, but they have no room for God because they feel no need for him. And many times “good Catholics”, those who feel upright because they go the parish, go to Mass on Sunday and boast of being righteous, say: “No, I don’t need anything, the Lord has saved me”. What has happened? They have replaced God with their own ego, and although they recite prayers and perform works of piety, they never really engage in dialogue with the Lord. They perform monologues in place of dialogue and prayer. Scripture tells us that only “the prayer of the humble pierces the clouds” (Sir 35:1), because only those who are poor in spirit, and conscious of their need of salvation and forgiveness, come into the presence of God; they come before him without vaunting their merits, without pretense or presumption. Because they possess nothing, they find everything, because they find the Lord.

Jesus offers us this teaching in the parable that we have just heard (cf. Lk 18:9-14). It is the story of two men, a Pharisee and a tax collector, who both go to the Temple to pray, but only one reaches the heart of God. Even before they do anything, their physical attitude is eloquent: the Gospel tells us that the Pharisee prayed, “standing by himself” right at the front, while the tax collector, “standing far off, would not even look up to heaven” (v. 13), out of shame. Let us reflect for a moment on these attitudes.

The Pharisee stood by himself. He is sure of himself, standing proudly erect, like someone to be respected for his accomplishments, like a model. With this attitude, he prays to God, but in fact he celebrates himself. I go to the Temple, I observe the Law, I give alms… Formally, his prayer is perfect; publicly, he appears pious and devout, but instead of opening his heart to God, he masks his weaknesses in hypocrisy. How often we make a façade of our lives. This Pharisee does not await the Lord’s salvation as a free gift, but practically demands it as a reward for his merits. “I’ve completed my tasks, now I demand my prize”. This man strides right up to the altar of God and takes his place in the front row, but he ends by going too far and puts himself before God!

The tax collector, on the other hand, stands far off. He doesn’t push himself to the front; he stays at the back. Yet that distance, which expresses his sinfulness before the holiness of God, enables him to experience the loving and merciful embrace of the Father. God could come to him precisely because, by standing far off, he had made room for him. He doesn’t speak about himself, he addresses God and asks for forgiveness. How true this is, also with regard to our relationships in our families, in society, and in the Church! True dialogue takes place when we are able to preserve a certain space between ourselves and others, a healthy space that allows each to breathe without being sucked in or overwhelmed. Only then, can dialogue and encounter bridge the distance and create closeness. That happens in the life of the tax collector: standing at the back of the Temple, he recognizes the truth of how he, a sinner, stands before God. “Far off”, and in this way making it possible for God to draw near to him.

Brothers, sisters, let us remember this: the Lord comes to us when we step back from our presumptuous ego. Let us reflect: Am I conceited? Do I think I’m better than others? Do I look at someone with a little contempt? “I thank you, Lord, because you have saved me and I’m not like those people who understand nothing; I go to church, I attend Mass; I am married, married in church, whereas they are divorced sinners…”: is your heart like this? That is the way to perdition. Yet to get closer to God, we must say to the Lord: “I am the first of sinners, and if I have not fallen into the worst filth it is because your mercy has taken me by the hand. Thanks to you, Lord, I am alive; thanks to you, Lord, I have not destroyed myself with sin”. God can bridge the distance whenever, with honesty and sincerity, we bring our weaknesses before him. He holds out his hand and lifts us up whenever we realize we are “hitting rock bottom” and we turn back to him with a sincere heart. That is how God is. He is waiting for us, deep down, for in Jesus he chose to “descend to the depths” because he is unafraid to descend even to our inner abysses, to touch the wounds of our flesh, to embrace our poverty, to accept our failures in life and the mistakes we make through weakness and negligence, and all of us have done so. There, deep down, God waits for us, and he waits for us especially in the sacrament of Penance, when, with much humility, we go to ask forgiveness, as we do today. God is waiting for us there.

Brothers and sisters, today let each of us make an examination of conscience, because the Pharisee and the tax collector both dwell deep within us. Let us not hide behind the hypocrisy of appearances, but entrust to the Lord’s mercy our darkness, our mistakes. Let us think about our wretchedness, our mistakes, even those that we feel unable to share because of shame, which is alright, but with God they must show themselves. When we go to confession, we stand “far off”, at the back, like the tax collector, in order to acknowledge the distance between God’s dream for our lives and the reality of who we are each day: poor sinners. At that moment, the Lord draws near to us; he bridges the distance and sets us back on our feet. At that moment, when we realize that we are naked, he clothes us with the festal garment. That is, and that must be, the meaning of the sacrament of Reconciliation: a festal encounter that heals the heart and leaves us with inner peace. Not a human tribunal to approach with dread, but a divine embrace in which to find consolation.

One of the most beautiful aspects of how God welcomes us is his tender embrace. If we read of when the prodigal son returns home (cf. Lk 15:20-22) and begins to speak, the father does not allow him to speak, he embraces him so he is unable to speak. A merciful embrace. Here, I address my brother confessors: please, brothers, forgive everything, always forgive, without pressing too much on people’s consciences; let them speak about themselves and welcome them like Jesus, with the caress of your gaze, with silent understanding. Please, the sacrament of Penance is not for torturing but for giving peace. Forgive everything, as God will forgive you everything. Everything, everything, everything.

In this season of Lent, with contrite hearts let us quietly say, like the tax collector, “God, be merciful to me, a sinner!” (v. 13). Let us do so together: God, be merciful to me, a sinner! God, when I forget you or I neglect you, when I prefer my words and those of the world to your own word, when I presume to be righteous and look down on others, when I gossip about others, God, be merciful to me, a sinner! When I care nothing for those all around me, when I’m indifferent to the poor and the suffering, the weak and the outcast, God, be merciful to me, a sinner! For my sins against life, for my bad example that mars the lovely face of Mother Church, for my sins against creation, God, be merciful to me, a sinner! For my falsehoods, my duplicity, my lack of honesty and integrity, God, be merciful to me, a sinner! For my hidden sins, which no one knows, for the ways in which I have unconsciously wronged others, and for the good I could have done and yet failed to do, God, be merciful to me, a sinner!

In silence, let us repeat these words for a few moments, with a repentant and trusting heart: God, be merciful to me, a sinner! And in this act of repentance and trust, let us open our hearts to the joy of an even greater gift: the mercy of God.

[00443-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

»Doch was mir ein Gewinn war, das habe ich um Christi willen für Verlust gehalten« (Phil 3,7). So sagt es der heilige Paulus in der ersten Lesung, die wir gehört haben. Und wenn wir uns fragen, welche Dinge er in seinem Leben nicht mehr als grundlegend ansah und sogar bereit war, sie zu verlieren, um Christus zu finden, bemerken wir, dass es nicht um materielle Dinge geht, sondern um „religiöse Reichtümer“. Genau dies: Er war ein frommer Mann, ein eifriger Mann, ein ergebener und strenggläubiger Pharisäer (vgl. VV. 5-6). Und doch war dieses religiöse Gewand, das einen Verdienst, einen Vorzug, einen heiligen Reichtum darstellen konnte, für ihn in Wirklichkeit ein Hindernis. Und so sagt Paulus: »Ich halte dafür, dass alles Verlust ist, weil die Erkenntnis Christi Jesu, meines Herrn, alles überragt« (V. 8). All das, was ihm ein gewisses Ansehen, eine gewisse Bekanntheit verliehen hatte …; „lass es sein: für mich ist Christus wichtiger“.

Wer zu sehr von sich selbst und seiner eigenen religiösen „Tüchtigkeit“ überzeugt ist, vermeint, gerecht und besser als andere zu sein – wie oft geschieht dies in der Pfarrei: „Ich bin von der Katholischen Aktion, ich gehe und helfe dem Priester, ich mache die Sammlung… ich, ich, ich“, wie oft geschieht es, dass man sich besser als die anderen wähnt; jeder soll im Herzen erwägen, ob dies manchmal passiert ist – wer sich so verhält, gibt sich damit zufrieden, dass er den Schein gewahrt hat; er hat das Gefühl, dass es ihm gut geht, aber auf diese Weise kann er keinen Platz für Gott schaffen, weil er kein Bedürfnis nach ihm verspürt. Und oft sind es die 'sauberen Katholiken', diejenigen, die sich gerecht fühlen, weil sie in die Gemeinde gehen, weil sie sonntags zur Messe gehen und sich rühmen, dass gerecht zu sein: 'Nein, ich brauche nichts, der Herr hat mich gerettet'. Was ist passiert? Dass Gottes Platz vom eigenen „Ich“ eingenommen wird und so kommt es, dass er zwar Gebete spricht und heilige Taten vollbringt, aber nicht wirklich mit dem Herrn spricht. Er hält Monologe, keinen Dialog, kein Gebet. Deshalb erinnert uns die Heilige Schrift daran, nur »das Gebet eines Demütigen durchdringt die Wolken« (Sir 35,21), denn nur die Armen im Geiste, die des Heils bedürftig sind und Gnade erflehen, treten vor Gott, ohne Verdienste zur Schau zu stellen, ohne Forderungen, ohne Anmaßung: Sie haben nichts und deshalb finden sie alles, weil sie den Herrn finden.

Diese Lehre bietet uns Jesus in dem Gleichnis, das wir gehört haben (vgl. Lk 18,9-14). Es ist die Geschichte von zwei Männern, einem Pharisäer und einem Zöllner, die beide in den Tempel gehen, um zu beten, aber nur einer erreicht das Herz Gottes. Vor dem, was sie tun, spricht ihre körperliche Haltung: Das Evangelium sagt, der Pharisäer »stellte sich hin« und betete (V. 11), mit erhobenem Haupt, der Zöllner hingegen »blieb ganz hinten stehen und wollte nicht einmal seine Augen zum Himmel erheben« (V. 13), aus Scham. Lasst uns einen Moment über diese beiden Haltungen nachdenken.

Der Pharisäer stellt sich hin. Er ist selbstbewusst, steht aufrecht und triumphierend wie jemand, der für seine Tüchtigkeit bewundert werden muss, wie ein Vorbild. In dieser Haltung betet er zu Gott, aber in Wirklichkeit feiert er sich selbst: Ich gehe in den Tempel, ich halte die Gebote ein, ich gebe Almosen ... Formal ist sein Gebet untadelig, äußerlich sieht man einen frommen und andächtigen Mann, aber statt sich Gott zu öffnen, indem er ihm die Wahrheit seines Herzens vorträgt, maskiert er in der Heuchelei seine Schwächen. Und so oft legen wir ein Make-up auf unser Leben. Dieser Pharisäer erwartet das Heil nicht als Geschenk des Herrn, sondern fordert es fast als Belohnung für seine Verdienste. „Ich habe meine Hausaufgaben gemacht, gib mir jetzt die Belohnung“. Dieser Mann schreitet ohne zu zögern auf den Altar Gottes zu – mit erhobenem Haupt –, um seinen Platz in der ersten Reihe einzunehmen, aber am Ende geht er zu weit und stellt sich vor Gott!

Der andere hingegen, der Zöllner bleibt ganz hinten stehen. Er versucht nicht, sich den Weg zu bahnen, sondern bleibt ganz hinten. Aber gerade jener Abstand, der seine Sündhaftigkeit im Verhältnis zur Heiligkeit Gottes zum Ausdruck bringt, ermöglicht es ihm, die Erfahrung der segensreichen und barmherzigen Umarmung des Vaters zu machen. Gott kann ihn genau deshalb erreichen, weil jener Mensch dadurch, dass er auf Abstand bleibt, Platz für ihn geschaffen hat. Er spricht nicht von sich selbst, er spricht und bittet um Vergebung, er spricht und schaut auf Gott. Wie wahr ist dies auch für unsere familiären, gesellschaftlichen und kirchlichen Beziehungen! Es gibt einen echten Dialog, wenn wir wissen, wie wir einen Raum zwischen uns und anderen bewahren können, einen gesunden Raum, der es jedem erlaubt, zu atmen, ohne in einen Sog gezogen oder zunichtegemacht zu werden. Dann kann jener Dialog, jene Begegnung den Abstand verringern und Nähe schaffen. So geschieht es im Leben jenes Zöllners: Indem er ganz hinten im Tempel stehen bleibt, erkennt er sich als Sünder in Wahrheit so, wie er vor Gott ist: entfernt, und auf diese Weise erlaubt er, dass Gott ihm näherkommt.

Brüder, Schwestern, lasst uns daran denken: Der Herr kommt zu uns, wenn wir uns von unserem eingebildeten Ich entfernen. Lasst uns nachdenken: Bin ich eingebildet? Halte ich mich für besser als andere? Schaue ich auf jemanden herab? „Ich danke dir, Herr, denn du hast mich gerettet und ich bin nicht wie diese Leute, die nichts verstehen, ich gehe in die Kirche, ich gehe zur Messe; ich bin verheiratet, kirchlich getraut, das sind geschiedene Sünder...“: Ist dein Herz so? Du wirst in die Hölle kommen. Um sich Gott zu nähern, muss man dem Herrn sagen: „Ich bin der erste von allen Sündern, und wenn ich nicht in den größten Schmutz gefallen bin, dann deshalb, weil Deine Barmherzigkeit mich an die Hand genommen hat. Dank Dir, Herr, bin ich am Leben; dank Dir, Herr, habe ich mich nicht durch die Sünde zerstört.“ Gott kann den Abstand zu uns verkürzen, wenn wir ihm ehrlich und ohne Verstellung unsere Zerbrechlichkeit vortragen. Er streckt seine Hand aus, um uns aufzurichten, wenn wir „die Talsohle erreichen“ können und wir uns ihm in der Aufrichtigkeit des Herzens hingeben. So ist Gott: Er wartet auf uns in der Talsohle, denn in Jesus wollte er „bis in die Talsohle gehen“, weil er sich nicht scheut, in die Tiefen hinabzusteigen, die uns innewohnen, die Wunden unseres Fleisches zu berühren, sich unserer Armut anzunehmen, der Misserfolge des Lebens und der Fehler, die wir aus Schwäche oder Nachlässigkeit begehen, anzunehmen – und wir alle haben welche begangen. Gott wartet dort auf uns, in der Talsohle, er wartet auf uns vor allem, wenn wir mit viel Demut im Sakrament der Beichte um Vergebung bitten, wie wir es heute machen. Dort wartet er auf uns.

Brüder und Schwestern, lasst uns heute eine Gewissenserforschung machen, ein jeder von uns, denn der Pharisäer und der Zöllner wohnen beide in uns. Verstecken wir uns nicht hinter der Heuchelei des Scheins, sondern übergeben wir unsere Undurchsichtigkeit, unsere Fehler vertrauensvoll der Barmherzigkeit des Herrn. Lasst uns an unsere Fehler denken, an unser Elend, auch an das, das wir aus Scham nicht teilen können, und das ist in Ordnung, aber bei Gott muss es gezeigt werden. Wenn wir zur Beichte gehen, stellen wir uns wie der Zöllner ganz hinten hin und erkennen den Abstand zwischen dem, was Gott für unser Leben erträumt hat, und dem, was wir jeden Tag wirklich sind: arme Leute. Und in jenem Moment kommt der Herr uns nahe, verringert den Abstand und stellt uns wieder auf die Füße; in jenem Moment, in dem wir uns als nackt erkennen, kleidet er uns in das Festtagsgewand. Und das ist und das muss das Sakrament der Versöhnung sein: eine feierliche Begegnung, die das Herz heilt und Frieden im Innern hinterlässt; kein menschliches Tribunal, vor dem man sich fürchten muss, sondern eine göttliche Umarmung, die einen tröstet.

Eines der schönsten Dinge daran, wie Gott uns aufnimmt, ist die Zärtlichkeit der Umarmung, die er uns schenkt. Wenn wir lesen, wie der verlorene Sohn nach Hause kommt (vgl. Lk 15,20-22) und zu sprechen beginnt, lässt der Vater ihn nicht sprechen, umarmt ihn und er kann nicht sprechen. Die barmherzige Umarmung. Und hier wende ich mich an meine Brüder, die Beichtväter: Bitte, Brüder, vergebt alles, vergebt immer, ohne den Finger zu sehr in die Gewissen zu legen; lasst die Menschen ihre Dinge sagen, und nehmt dies wie Jesus auf, mit der Zärtlichkeit eures Blicks, mit der Stille eures Verständnisses. Bitte, das Sakrament der Beichte gibt es nicht, um zu foltern, sondern um Frieden zu geben. Vergebt alles, so wie Gott euch alles verzeihen wird. Alles, alles, alles.

Lasst uns in dieser Fastenzeit mit reuigem Herzen wie der Zöllner flüstern: »Gott, sei mir Sünder gnädig!« (V. 13). Lasst es uns gemeinsam tun: Gott, sei mir Sünder gnädig. Gott, wenn ich dich vergesse oder dich vernachlässige, wenn ich meine eigenen Worte und die der Welt über dein Wort stelle, wenn ich mir anmaße, gerecht zu sein und andere verachte, wenn ich über andere schwatze, Gott, sei mir Sünder gnädig. Wenn ich mich nicht um die Menschen kümmere, die mich umgeben, wenn ich denen gegenüber gleichgültig bin, die arm und leidend, schwach oder ausgegrenzt sind, Gott, sei mir Sünder gnädig. Für die Sünden gegen das Leben, für das schlechte Zeugnis, das das schöne Antlitz der Mutter Kirche befleckt, für die Sünden gegen die Schöpfung, Gott, sei mir Sünder gnädig. Für meine Unaufrichtigkeit, meine Unehrlichkeit, meinen Mangel an Transparenz und Redlichkeit, Gott, sei mir Sünder gnädig. Für meine verborgenen Sünden, die niemand kennt, für das Böse, das ich anderen zugefügt habe, auch ohne es zu merken, für das Gute, das ich hätte tun können und nicht getan habe, Gott, sei mir Sünder gnädig.

Lasst uns in Stille für ein paar Augenblicke mit reuigem und vertrauensvollem Herzen wiederholen: Gott, sei mir Sünder gnädig. In Stille. Jeder soll es in seinem Herzen wiederholen. Gott, sei mir Sünder gnädig. In diesem Akt der Reue und des Vertrauens werden wir uns für die Freude über das größte Geschenk öffnen: Gottes Barmherzigkeit.

[00443-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

«Todo lo que hasta ahora consideraba una ganancia, lo tengo por pérdida, a causa de Cristo» (Flp 3,7). De este modo se expresaba san Pablo en la primera lectura que hemos escuchado. Y si nos preguntamos qué es lo que dejó de considerar fundamental en su vida, más aún, lo que le alegraba perder con tal de encontrar a Cristo, vemos que no se trata de realidades materiales, sino de “riquezas religiosas”. Él era en verdad un hombre piadoso, un hombre con gran celo, un fariseo leal y observante (cf. vv. 5-6). Sin embargo, ese aspecto religioso, que podía constituir un mérito, un motivo de orgullo, una riqueza sagrada, para él era en realidad un impedimento. Y entonces, Pablo afirma: «He sacrificado todas las cosas, a las que considero como desperdicio, con tal de ganar a Cristo» (v. 8). Todo lo que le había dado un cierto prestigio, una cierta fama; “olvídalo, para mí Cristo es más importante”.

Quien es demasiado rico de sí mismo y de su propia “valía” religiosa presume de ser justo y mejor que los demás —cuántas veces pasa esto en la parroquia: “Yo soy de la Acción Católica, yo ayudo al sacerdote, yo recojo la ofrenda; yo, yo, yo”, cuántas nos creemos mejores que los demás; cada uno, en su propio corazón, piense si alguna vez le pasó—, quien actúa así se complace en el hecho de que ha salvado las apariencias; se siente bien, pero de ese modo no puede darle lugar a Dios, porque no lo necesita. Y muchas veces los “católicos limpios”, los que se sienten justos porque van a la parroquia, porque van a Misa los domingos y presumen de ser justos: “No, yo no necesito nada, el Señor ya me salvó”. ¿Qué fue lo que pasó? Que el lugar de Dios lo ha ocupado con su propio “yo” y entonces, aunque recite oraciones y realice acciones sagradas, no dialoga verdaderamente con el Señor. Tiene monólogos, no diálogo ni oración. Por eso la Escritura recuerda que sólo «la súplica del humilde atraviesa las nubes» (Si 35,17), porque sólo quien es pobre de espíritu, quien se siente necesitado de la salvación y mendigo de la gracia, se presenta ante Dios sin exhibir méritos, sin pretensiones, sin presunción. No tiene nada y por eso encuentra todo, porque encuentra al Señor.

Esta enseñanza nos la ofrece Jesús en la parábola que hemos escuchado (cf. Lc 18,9-14). Es el relato de dos hombres, un fariseo y un publicano, que van al templo a rezar, pero sólo uno llega al corazón de Dios. Antes de lo que hacen, es su lenguaje corporal el que habla. El Evangelio dice que el fariseo oraba «de pie» (v. 11), con la frente alta, mientras que el publicano, «manteniéndose a distancia, no se animaba siquiera a levantar los ojos al cielo» (v. 13), por vergüenza. Reflexionemos un momento sobre estas dos posturas.

El fariseo está de pie. Está seguro de sí, erguido y triunfante como alguien que debe ser admirado por sus capacidades, como un ejemplo. Con esta actitud reza a Dios, pero en realidad se celebra a sí mismo: yo voy al templo, yo cumplo los preceptos, yo doy limosna. Formalmente su oración es irreprochable, exteriormente se ve como un hombre piadoso y devoto, pero, en vez de abrirse a Dios presentándole la verdad del corazón, enmascara sus fragilidades con la hipocresía. Y muchas veces también nosotros maquillamos nuestra vida. Este fariseo no espera la salvación del Señor como un don, sino que casi la pretende como un premio por sus méritos. “Hice los deberes, ahora dame el premio”. Este hombre avanza sin titubeos hacia el altar de Dios —con la frente alta— para ocupar su puesto, en primera fila, pero acaba por ir demasiado adelante y ponerse frente a Dios.

En cambio el otro, el publicano, se mantiene a distancia. No trata de abrirse paso, se queda en el fondo. Pero precisamente esa distancia, que manifiesta su ser pecador respecto a la santidad de Dios, es lo que le permite experimentar el abrazo bendiciente y misericordioso del Padre. Dios puede alcanzarlo precisamente porque, permaneciendo a distancia, ese hombre le ha hecho espacio. No habla de sí mismo, sino habla pidiendo perdón, habla mirando a Dios. ¡Qué cierto es esto también en nuestras relaciones familiares, sociales y eclesiales! Hay verdadero diálogo cuando sabemos guardar un espacio entre nosotros y los demás, un espacio saludable que permite a cada uno respirar sin ser absorbido o anulado. Entonces ese diálogo, ese encuentro puede acortar la distancia y crear cercanía. Esto también sucede en la vida de ese publicano. Quedándose en el fondo del templo, se reconoce en verdad tal como es, pecador, ante Dios: distante, y de este modo permite que Dios se acerque a él.

Hermanos, hermanas, recordemos esto: el Señor llega a nosotros cuando tomamos distancia de nuestro yo presuntuoso. Pensemos: ¿Soy presuntuoso? ¿Me creo mejor que los demás? ¿Miro a alguien con un poco de desprecio? “Te agradezco, Señor, porque me has salvado y no soy como esta gente que no entiende nada, yo voy a la iglesia, voy a Misa; yo estoy casado, casada por la iglesia, estos divorciados son unos pecadores…”; ¿es así tu corazón? Irás al infierno. Para acercarse a Dios, es necesario decirle al Señor: “Yo soy el primero de los pecadores, y si no he caído en la suciedad más grande es porque tu misericordia me tomó de la mano. Gracias a Ti, Señor, estoy vivo; gracias a Ti, Señor, yo no me he destruido con el pecado”. Dios puede acortar la distancia con nosotros cuando honestamente, sin falsedades, le presentamos nuestra fragilidad. Nos da la mano para levantarnos cuando sabemos “tocar fondo” y volvemos a Él con sinceridad de corazón. Así es Dios, nos espera en el fondo, porque en Jesús Él quiso “ir hasta el fondo”, porque no tiene miedo de descender hasta los abismos que nos habitan, de tocar las heridas de nuestra carne, de acoger nuestra pobreza, de acoger los fracasos de la vida, los errores que cometemos por debilidad o negligencia, y todos los hemos cometido. Dios nos espera allí, en el fondo, nos espera especialmente cuando, con mucha humildad, vamos a pedirle perdón en el sacramento de la confesión, como haremos hoy. Nos espera allí.

Hermanos y hermanas, hagamos hoy un examen de conciencia, cada uno de nosotros, porque tanto el fariseo como el publicano habitan en nuestro interior. No nos escondamos detrás de la hipocresía de las apariencias, sino confiemos a la misericordia del Señor nuestras oscuridades, nuestros errores. Pensemos en nuestros errores, en nuestras miserias, también en aquello que por vergüenza no somos capaces de compartir, y está bien, pero a Dios hay que mostrárselo. Cuando nos confesamos, nos ponemos en el fondo, como el publicano, para reconocer también nosotros la distancia que nos separa entre lo que Dios ha soñado para nuestra vida y lo que realmente somos cada día: unos pobres necesitados. Y, en ese momento, el Señor se acerca, acorta las distancias y vuelve a levantarnos; en ese momento, mientras nos reconocemos desnudos, Él nos viste con el traje de fiesta. Y esto es, y debe ser, el sacramento de la reconciliación: un encuentro festivo, que sana el corazón y deja paz interior; no un tribunal humano al que tenemos miedo, sino un abrazo divino con el que somos consolados.

Una de las cosas más hermosas del modo en que Dios nos acoge es la ternura del abrazo que nos da. Si nosotros leemos cuando el hijo pródigo regresa a casa (cf. Lc 15,20-22) vemos que cuando comienza su discurso, el padre no lo deja hablar, lo abraza y él no puede hablar. El abrazo misericordioso. Y aquí me dirijo a mis hermanos confesores: por favor, hermanos, perdonen todo, perdonen siempre, sin meter demasiado el dedo en las conciencias; dejen que la gente diga sus cosas y ustedes reciban lo que digan como Jesús, con la caricia de su mirada, con el silencio de su comprensión. Por favor, el sacramento de la confesión no es para torturar, sino para dar paz. Perdonen todo, como Dios les perdonará todo a ustedes. Todo, todo, todo.

En este tiempo cuaresmal, con la contrición del corazón, también nosotros supliquemos como el publicano: «Dios mío, ten piedad de mí, que soy un pecador» (v. 13). Digámoslo juntos: Dios mío, ten piedad de mí, que soy un pecador. Cuando me olvido de ti o te descuido, cuando antepongo mis propias palabras y las del mundo a tu Palabra, cuando presumo de ser justo y desprecio a los otros, cuando critico a los demás: Dios mío, ten piedad de mí, que soy un pecador. Cuando no me ocupo de los que me rodean, cuando permanezco indiferente ante quien es pobre y sufre, es débil o marginado: Dios mío, ten piedad de mí, que soy un pecador. Por los pecados contra la vida, por el mal testimonio que ensucia el rostro hermoso de la Madre Iglesia, por los pecados contra la creación: Dios mío, ten piedad de mí, que soy un pecador. Por mis falsedades, por mi falta de honradez, por mi falta de transparencia y de rectitud: Dios mío, ten piedad de mí, que soy un pecador. Por mis pecados ocultos, esos que nadie conoce, por el mal que he causado a los demás aun sin darme cuenta, por el bien que podría haber hecho y no hice: Dios mío, ten piedad de mí, que soy un pecador.

En silencio, repitamos durante unos instantes, con el corazón arrepentido y lleno de confianza: Dios mío, ten piedad de mí, que soy un pecador. En silencio. Que cada uno lo repita en su corazón. Dios mío, ten piedad de mí, que soy un pecador. En este acto de arrepentimiento y confianza, nos abriremos a la alegría del don más grande, que es la misericordia de Dios.

[00443-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

«Tudo quanto para mim era ganho, isso mesmo considerei perda por causa de Cristo» (Flp 3, 7): afirma São Paulo na primeira Leitura que ouvimos. E se nos perguntarmos quais são as coisas que ele deixou de considerar fundamentais na sua vida, feliz até por as perder para encontrar Cristo, apercebemo-nos de que não se trata de realidades materiais, mas de «riquezas religiosas». É assim mesmo: era um homem devoto, um homem zeloso, um fariseu fiel e observante (cf. 3, 5-6). E no entanto estes hábitos religiosos, que podiam constituir um mérito, uma ostentação, uma riqueza sacra, na realidade eram um impedimento para ele. E então Paulo declara: «Tudo perdi e considero esterco, a fim de ganhar a Cristo» (3, 8). Tudo aquilo que lhe dera um certo prestígio, uma certa fama «deixa cair… para mim, Cristo é mais importante».

Quem se sente demasiado rico de si e da sua probidade religiosa presume-se justo e melhor do que os outros – quantas vezes acontece isto na paróquia: «eu sou da Ação Católica, eu vou ajudar o padre, eu faço o peditório..., eu, eu, eu»; quantas vezes sucede crer que se é melhor do que os outros; cada qual, no seu coração, pense se já alguma vez lhe aconteceu isto – quem assim procede, contenta-se em salvar as aparências; considera-se satisfeito, mas assim não pode dar lugar a Deus, porque não sente necessidade d’Ele. E tantas vezes os «católicos impecáveis», aqueles que se sentem justos, porque vão à paróquia, porque vão à missa no domingo e gabam-se de ser justos: «Não, eu não preciso de nada; o Senhor salvou-me». Que sucedeu? Que ocupou o lugar de Deus com o próprio «eu» e então, ainda que recite orações e realize atos de piedade, verdadeiramente não dialoga com o Senhor. São monólogos que faz, não há diálogo, nem oração. Por isso, a Escritura recorda que apenas «a oração do humilde chegará às nuvens» (Sir 35, 17), porque só quem é pobre em espírito, quem se sente necessitado de salvação e mendicante da graça se apresenta diante de Deus sem exibir méritos, nem pretensões ou presunções: não tem nada e, por isso, encontra tudo, porque encontra o Senhor.

Jesus dá-nos este ensinamento na parábola que ouvimos (cf. Lc 18, 9-14). É o caso de dois homens, um fariseu e um publicano; ambos vão ao templo para rezar, mas só um chega ao coração de Deus. Mais do que os gestos que fazem, fala a sua postura física: o Evangelho diz que o fariseu rezava «de pé» (18, 11), com fronte altiva, enquanto o publicano, «mantendo-se à distância, nem sequer ousava levantar os olhos ao céu» (18, 13), por vergonha. Reflitamos por momentos sobre estas duas posturas.

O fariseu está de pé. Está seguro de si, aprumado e triunfante como alguém que deve ser admirado pela sua probidade, como um modelo. Nesta atitude, reza a Deus, mas na realidade celebra-se a si mesmo: eu frequento o templo, eu observo os preceitos, eu dou esmolas... Formalmente, a sua oração é impecável, exteriormente vê-se um homem piedoso e devoto, mas, em vez de se abrir a Deus levando-Lhe a verdade do coração, esconde hipocritamente as suas fraquezas. E quantas vezes fazemos a maquilhagem à nossa vida. Este fariseu não espera a salvação do Senhor como um dom, mas pretende-a quase como um prémio pelos seus méritos. «Fiz os deveres, agora dá-me o prémio». Este homem avança sem hesitação até ao altar de Deus – com fronte altiva – para ocupar o seu lugar, na primeira fila, mas acaba por ir longe demais e colocar-se à frente de Deus!

Ao contrário o outro, o publicano mantém-se à distância. Não procura abrir caminho; fica ao fundo. Mas é precisamente esta distância, expressão do seu ser de pecador face à santidade de Deus, que lhe permite experimentar o abraço bendito e misericordioso do Pai. Deus pode alcançá-lo, precisamente porque aquele homem Lhe deixou espaço, permanecendo à distância. Não fala de si próprio, fala a pedir perdão, fala com o olhar em Deus. Oh como isto é verdade também nas nossas relações familiares, sociais e eclesiais! Há verdadeiro diálogo, quando sabemos preservar um espaço entre nós e os outros, um espaço salutar que permite a cada um respirar sem ser absorvido ou aniquilado. Então aquele diálogo, aquele encontro pode encurtar a distância e criar proximidade. É assim que sucede também na vida daquele publicano. Detendo-se ao fundo do templo, reconhece-se verdadeiramente como é, pecador, diante de Deus: distante, e assim permite que Deus Se aproxime dele.

Irmãos, irmãs, lembremo-nos disto: o Senhor vem a nós, quando nos distanciamos do nosso eu presunçoso. Pensemos: «Eu sou presunçoso? Creio-me melhor do que os outros? Olho para alguém com um pouco de desprezo? «Eu Te agradeço, Senhor, porque me salvaste e não sou como esta gente que não percebe nada; eu vou à igreja, vou à Missa; eu sou casado, casado pela Igreja, estes são divorciados pecadores…»: o teu coração é assim? Vais para o inferno. Para se aproximar de Deus, é preciso dizer ao Senhor: «Eu sou o primeiro dos pecadores, e se não caí numa imundície maior é porque a tua misericórdia me tomou pela mão. Graças a Ti, Senhor, estou vivo; graças a Ti, Senhor, não me destruí com o pecado». Deus pode encurtar as distâncias connosco quando, com honestidade e sem fingimento, Lhe trazemos a nossa fragilidade. Estende a mão para nos levantar, quando nos apercebemos de «tocar o fundo» e entregamo-nos a Ele na sinceridade do coração. Deus é assim: espera-nos lá ao fundo, porque, em Jesus, Ele quis «descer até ao fundo», porque não tem medo de descer dentro dos abismos em que caímos, tocar as feridas da nossa carne, acolher a nossa pobreza, acolher os fracassos da vida, os erros que cometemos por fraqueza ou negligência... e todos nós os cometemos. Deus espera-nos lá, no fundo, espera-nos especialmente quando vamos, com grande humildade, pedir perdão no sacramento da Confissão, como faremos hoje. Ele espera-nos lá.

Irmãos e irmãs, façamos hoje – cada um de nós – um exame de consciência, porque tanto o fariseu como o publicano habitam dentro de nós. Não nos escondamos atrás da hipocrisia das aparências, mas entreguemos confiadamente à misericórdia do Senhor as nossas opacidades, os nossos erros. Pensemos nos nossos erros, nas nossas misérias, mesmo aquelas que por vergonha não somos capazes de partilhar, e está bem, mas a Deus devem-se mostrar. Quando nos confessamos, colocamo-nos ao fundo como o publicano, para reconhecermos, também nós, a distância que nos separa entre aquilo que Deus sonhou para a nossa vida e o que realmente somos no dia a dia: pobres miseráveis. E, naquele momento, o Senhor aproxima-Se, encurta as distâncias e põe-nos de pé; naquele momento, enquanto nos reconhecemos despidos, Ele reveste-nos com o traje da festa. Isto é, e deve ser, o sacramento da Reconciliação: um encontro de festa, que cura o coração e nos deixa a paz dentro; não um tribunal humano que mete medo, mas um abraço divino pelo qual somos consolados.

Uma das coisas mais belas do modo como Deus nos acolhe é a ternura do abraço que nos dá. Ao lermos quando o filho pródigo volta para casa (cf. Lc 15, 20-22), vemos que ele começa o discurso, mas o pai não o deixa falar, abraça-o e ele não consegue falar. O abraço misericordioso. E aqui dirijo-me aos meus irmãos confessores: por favor, irmãos, perdoai tudo, perdoai sempre, sem esquadrinhar demasiado nas consciências; deixai que as pessoas digam as suas coisas e vós recebei isso como Jesus, com a carícia do vosso olhar, com o silêncio da vossa compreensão. Por favor, o sacramento da Confissão não é para torturar, mas para dar paz. Perdoai tudo, como Deus perdoará tudo a vós. Tudo, tudo, tudo.

Neste tempo quaresmal, com o coração contrito, sussurremos também nós como o publicano: «Ó Deus, tem piedade de mim, que sou pecador» (18, 13). Façamo-lo juntos: Ó Deus, tem piedade de mim, que sou pecador. Ó Deus, quando me esqueço de Ti ou Te transcuro, quando anteponho as minhas palavras e as do mundo à tua Palavra, quando presumo ser justo e desprezo os outros, quando murmuro dos outros, ó Deus, tem piedade de mim, que sou pecador. Quando não cuido de quem está ao meu lado, quando me mostro indiferente a quem é pobre e atribulado, frágil ou marginalizado, ó Deus, tende piedade de mim, que sou pecador. Pelos pecados contra a vida, pelo mau testemunho que mancha o belo rosto da Mãe Igreja, pelos pecados contra a criação, ó Deus, tende piedade de mim, que sou pecador. Pelas minhas falsidades, as minhas desonestidades, a minha falta de transparência e integridade, ó Deus, tem piedade de mim, que sou pecador. Pelos meus pecados ocultos, aqueles que ninguém conhece, pelo mal que – mesmo sem me dar conta – fiz aos outros, pelo bem que poderia ter feito e não fiz, ó Deus, tende piedade de mim, que sou pecador.

Em silêncio por alguns momentos continuemos a repetir de coração arrependido e confiante: ó Deus, tem piedade de mim, que sou pecador. Em silêncio. Cada um repita no seu coração: Ó Deus, tem piedade de mim, que sou pecador. E, neste ato de arrependimento e confiança, abrir-nos-emos à alegria do dom maior: a misericórdia de Deus.

[00443-PO.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

„To wszystko, co było dla mnie zyskiem, ze względu na Chrystusa uznałem za stratę” (Flp 3, 7). Tak oświadcza święty Paweł w pierwszym czytaniu, które właśnie usłyszeliśmy. A jeśli zadamy sobie pytanie, jakich rzeczy nie uważał już w swoim życiu za zasadnicze, ciesząc się nawet ich stratą, aby móc znaleźć Chrystusa, uświadomimy sobie, że nie chodzi o realia materialne, ale o „bogactwa religijne”. To prawda: był człowiekiem pobożnym, gorliwym, obowiązkowym i przestrzegającym zasad faryzeuszem (por. w. 5-6). Jednak ten religijny zwyczaj, który mógł być zasługą, chlubą, świętym bogactwem, był w istocie dla niego przeszkodą. Dlatego Paweł mówi: „wyzułem się ze wszystkiego i uznaję to za śmieci, bylebym pozyskał Chrystusa” (w. 9). To wszystko, co postrzegał jako prestiż, swoistą sławę…; „uznaję za stratę: dla mnie ważniejszy jest Chrystus”.

Ten, kto jest zbyt pewny siebie i swojej religijnej „doskonałości”, uważając się za sprawiedliwego i lepszego od innych – ileż razy dzieje się to w parafii:  „ja jestem z Akcji Katolickiej, ja idę pomóc księdzu, ja zrobię zbiórkę… ja, ja , ja, ileż razy zdarza się, że myślisz, że jesteś lepszy od innych; każdy, we własnym sercu niech zastanowi się czy to zdarzyło się kilka razy. Taki człowiek jest zadowolony z faktu, że ocalił pozory; czuje się „w porządku”, ale w ten sposób nie może uczynić miejsca dla Boga, ponieważ nie odczuwa Jego potrzeby. Wiele razy, „czyści katolicy”, czyli tacy którzy czują się w porządku, bo chodzą do parafii, bo chodzą w niedzielę na Mszę św., i chwalą się, że są sprawiedliwi: nie, ja nie potrzebuję niczego, Pan mnie zbawił”. Co się stało? Miejsce Boga zajmuje jego własne „ja” i dlatego, choć odmawia modlitwy i wypełnia święte obrzędy, tak naprawdę nie rozmawia z Panem. To co czyni, to monologi a nie dialog, nie modlitwa. Dlatego Pismo Święte przypomina, że tylko „modlitwa ubogiego przenika chmury” (Syr 35, 21), ponieważ tylko ubogi w duchu, który czuje się potrzebującym zbawienia i błagającym o łaskę, staje przed Bogiem bez okazywania zasług, bez domagania się czegoś, bez udawania: nie ma nic i dlatego znajduje wszystko, bo znajduje Pana.

 

Jezus daje nam tę naukę w wysłuchanej przez nas przypowieści, (por. Łk 18, 9-14). Jest to historia dwóch ludzi, faryzeusza i celnika, którzy obaj idą do świątyni, aby się modlić, ale tylko jeden dociera do serca Boga. Przed tym, co robią, jest postawa fizyczna, który przemawia: Ewangelia mówi, że faryzeusz modlił się „stojąc” z podniesionym obliczem (w. 11), podczas gdy celnik, „stał z daleka i nie śmiał nawet oczu wznieść ku niebu” (w. 13), ze wstydu. Zastanówmy się przez chwilę nad tymi dwoma postawami.

 

Faryzeusz stoi. Jest pewny siebie, stoi wyprostowany i triumfuje jako ten, którego należy podziwiać za jego doskonałość, jak jakiś wzorzec. W tej postawie modli się do Boga, ale w rzeczywistości celebruje siebie samego: uczęszczam do świątyni, zachowuję przykazania, daję jałmużnę... Formalnie jego modlitwa jest nienaganna, na zewnątrz widać człowieka pobożnego i oddanego, ale zamiast otworzyć się na Boga, przynosząc mu prawdę swojego serca, maskuje w obłudzie swoje słabości. Wiele razy nakładamy makijaż na nasze życie. Ten faryzeusz nie oczekuje zbawienia Pana jako daru, ale niemal domaga się go jako nagrody za swoje zasługi. „Wypełniłem swoje obowiązki a teraz daj mi nagrodę”. Ten człowiek podchodzi bez wahania w kierunku ołtarza Bożego, z podniesionym czołem, aby zająć swoje miejsce, w pierwszym rzędzie, ale zagalopowuje się, stawiając siebie samego przed Bogiem!

Natomiast drugi, celnik, stoi z daleka. Nie stara się o wyrobienie sobie miejsca, pozostaje z tyłu. Ale właśnie ten dystans, który ukazuje jego grzeszność w stosunku do świętości Boga, pozwala mu doświadczyć błogosławieństwa i miłosiernego uścisku Ojca. Bóg może dotrzeć do niego właśnie dlatego, że pozostając w oddaleniu, ten człowiek uczynił dla Niego miejsce. Nie mówi o sobie, mówi prosząc o przebaczenie, mówi patrząc na Boga. Jakże prawdziwe jest to także dla naszych relacji rodzinnych, społecznych i kościelnych. Prawdziwy dialog istnieje wtedy, gdy umiemy zachować pewną przestrzeń między nami a innymi, zdrową przestrzeń, która pozwala każdemu oddychać, nie być wchłoniętym ani zniszczonym. Wtedy ten dialog, to spotkanie może skrócić dystans i stworzyć bliskość. Tak dzieje się również w życiu owego celnika: zatrzymując się w głębi świątyni, rozpoznaje siebie w prawdzie takim, jakim jest, grzesznikiem, przed Bogiem: dalekim, i w ten sposób pozwala, że Bóg zbliża się do niego.

Bracia, siostry, pamiętajmy o tym: Pan przychodzi do nas, kiedy dystansujemy się od naszego zarozumiałego „ja”. Zastanówmy się: „Czy jestem zarozumiały? Czy uważam się za lepszego od innych? Czy patrzę na kogoś z pogardą? „Dziękuję Ci, Panie, ponieważ mnie zbawiłeś i nie jestem jak ci ludzie, którzy nic nie rozumieją, chodzę do kościoła, chodzę na Mszę Świętą; wziąłem, wzięłam ślub w kościele, ci są rozwiedzeni grzesznicy...”: czy twoje serce jest takie? Pójdziesz do piekła. Aby zbliżyć się do Boga, trzeba powiedzieć Panu: „Jestem pierwszym z grzeszników, a jeśli nie wpadłem w największy brud, to dlatego, że Twoje miłosierdzie wzięło mnie za rękę. Dzięki Tobie, Panie, żyję; dzięki Tobie, Panie, nie jestem zniszczony przez grzech”. Bóg może skrócić dystanse wobec nas, kiedy uczciwie, bez udawania przynosimy Jemu naszą słabość. Wyciąga rękę, by nas podnieść, gdy potrafimy „sięgnąć dna” i powierzamy się Jemu w szczerości serca. Taki jest Bóg: czeka na nas na dnie, bo w Jezusie chciał „pójść na dno”, ponieważ nie boi się zejść w otchłanie, które są w nas, dotknąć ran naszego ciała, przyjąć nasze ubóstwo, przyjąć porażki życiowe, błędy, które popełniamy na skutek słabości lub zaniedbania, a wszyscy je popełniliśmy. Bóg czeka tam na nas, w głębi, czeka na nas szczególnie kiedy z wielką pokorą idziemy prosić o przebaczenie w sakramencie spowiedzi, jak to uczynimy dzisiaj. Tam na nas czeka.

Bracia i siostry, zróbmy dziś rachunek sumienia, każdy z nas, bo zarówno faryzeusz, jak i celnik są w nas. Nie chowajmy się za obłudą pozorów, ale ufnie powierzmy miłosierdziu Pana nasze nieprzejrzystości, nasze błędy. Pomyślmy o naszych błędach, nędzach, nawet tych, którymi nie potrafimy się podzielić z powodu wstydu, i to jest w porządku, ale trzeba je pokazać u Bogu. Kiedy idziemy do spowiedzi stańmy z tyłu, jak celnik, aby rozpoznać dystans, jaki dzieli nas między tym, co Bóg wymarzył dla naszego życia, a tym, jacy naprawdę jesteśmy na co dzień: nędzarzami. I w tym momencie Pan zbliża się, skraca dystans i stawia nas na nogi; w tym momencie, gdy uznajemy nasze ogołocenie, przyodziewa nas w szatę godową. I to jest, i taki musi być sakrament pojednania: świąteczne spotkanie, które leczy serce i pozostawia w nim pokój; nie ludzki trybunał, którego trzeba się bać, lecz Boski uścisk, który daje pociechę.

Jedną z najpiękniejszych rzeczy w tym, jak Bóg nas przyjmuje, jest czułość uścisku, którym nas obdarza. Jeśli czytamy o tym, jak syn marnotrawny powraca do domu (por. Łk 15, 20-22) i zaczyna mówić, ojciec nie pozwala mu mówić, obejmuje go a on nie potrafi mówić. Miłosierny uścisk. I tu zwracam się do moich braci spowiedników: proszę, bracia, przebaczajcie wszystko, zawsze przebaczajcie, nie wtrącając się zbytnio w sumienia; pozwólcie ludziom mówić swoje rzeczy, a wy przyjmijcie to tak, jak Jezus, czułością swojego spojrzenia, milczeniem swojego zrozumienia. Proszę was, sakrament spowiedzi nie jest po to, by torturować, jest po to, by obdarzyć pokojem. Przebaczajcie wszystko, jak Bóg wam wszystko przebaczy. Wszystko, wszystko, wszystko.

W tym okresie Wielkiego Postu, ze skruchą w sercu, wyszeptajmy i my jak celnik: „Boże, miej litość dla mnie, grzesznika!” (w. 13). Uczyńmy to razem: „Boże, miej litość dla mnie, grzesznika!". Boże, kiedy zapominam o Tobie lub zaniedbuję Ciebie, kiedy przedkładam własne słowa i słowa świata nad Twoje Słowo, kiedy uważam się za sprawiedliwego i gardzę innymi, kiedy plotkuję o innych, Boże, zmiłuj się nad mną, grzesznikiem. Kiedy nie troszczę się o tych, którzy mnie otaczają, kiedy jestem obojętny wobec tych, którzy są ubodzy i cierpiący, słabi lub zepchnięci na margines,  Boże, zmiłuj się nad mną, grzesznikiem. Za grzechy przeciwko życiu, za złe świadectwo, które oszpeca piękne oblicze Matki Kościoła, za grzechy przeciwko stworzeniu, Boże, zmiłuj się nade mną, grzesznikiem. Za moje fałsze, za moją nieuczciwość, za mój brak przejrzystości i prawości, Boże, zmiłuj się nade mną, grzesznikiem. Za moje ukryte grzechy, te, których nikt nie zna, za zło, które wyrządziłem innym nie zdając sobie z tego sprawy, za dobro, które mogłem uczynić, a nie uczyniłem, Boże, zmiłuj się nad mną, grzesznikiem.

W milczeniu powtarzajmy przez kilka chwil z sercem skruszonym i ufnym: Boże, zmiłuj się nade mną, grzesznikiem. W milczeniu, niech każdy powtórzy to w swym sercu: Boże, zmiłuj się nad mną, grzesznikiem. W tym akcie skruchy i zaufania otworzymy się na radość z największego daru: Bożego miłosierdzia.

[00443-PL.01] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua araba

عظة قداسة البابا فرنسيس

في الاحتفال بسرّ التّوبة

17 آذار/مارس 2023

رعيّة القدّيسة مريم أمّ النِّعم في تريونفالي (Trionfale)

"ما كانَ في كُلِّ ذٰلِكَ مِن رِبْحٍ لي عَدَدتُه خُسْرانًا مِن أَجلِ المسيح" (فيلبي 3، 7). هكذا أعلن القدّيس بولس في القراءة الأولى التي أصغينا إليها. وإن سألنا أنفسنا ما هي الأشياء التي لم يعد الرّسول يعُدُّها أساسيّة في حياته، بل كان سعيدًا بأن يخسرها لكي يستطيع أن يجد المسيح، فإنّنا ندرك أنّ ما خسره ليس أمورًا مادية، بل هو ”غنى دينيّ“. كان بولس على هذه الحال: كان رجلًا بارًّا وغيورًا، وفريسيًّا أمينًا ومحافظًا (راجع الآيات 5-6). ومع ذلك، فإنّ هذه الحالة الدينيّة، التي يمكن أن تكون له سبب استحقاق، وتفاخر، وغنى مقدّس، كانت له في الواقع عائقًا. عند ذلك أكّد بولس: "مِن أَجْلِه خَسِرتُ كُلَّ شَيء وعَددتُ كُلَّ شَيءٍ نُفايَة لأَربَحَ المسيحَ" (الآية 8).

الذي يبالغ في غنى نفسه وفي ”صلاحه“ الدينيّ يظن أنّه بارٌّ وأفضل من الآخرين، ويُطَمْئِن نفسه بأنّه يحافظ على المظاهر. يشعر أنّ كلّ شيء على يرام. لكن بهذه الطّريقة لا يستطيع أن يجعل مكانًا لله لأنّه لا يشعر بالحاجة إليه. لقد احتلّت ”الأنا“ في نفسه مكان الله، وبالتالي، حتّى لو تلا صلوات وأتمّ أعمالًا مقدّسة، فهو لا يتحدّث حقًا مع الرّبّ يسوع. لذلك يذكِّرنا الكتاب المقدّس أنّ "صَلاةَ المُتَواضِعِ فقط تَنفُذُ الغُيوم" (يشوع بن سيراخ 35، 21)، لأنّ الفقير بالرّوح فقط، الذي يحتاج إلى الخلاص ويستَجدِي النّعمة، ويقف أمام الله دون أن يعرض استحقاقاته، وبدون ادعاءات ولا غرور: هو فقط لأنّه لا يملك شيئًا، يجد كلّ شيء لأنّه وجد الرّبّ يسوع.

يسوع يقدّم لنا هذا التّعليم في المثل الذي أصغينا إليه (راجع لوقا 18، 9-14). إنّها قصة رجلَين، الفرّيسيّ والعشّار. ذهب كلاهما إلى الهيكل للصّلاة، لكن واحدًا فقط بلغ إلى قلب الله. وقبل عملهما، موقفهما الجسديّ أفصح عمّا فيهما: يقول الإنجيل إنّ الفريسي كان يصلّي "وهو منتصب" (راجع الآية 11)، بينما العشار "وَقَفَ بَعيدًا لا يُريدُ أَن يَرفَعَ عَينَيهِ نَحوَ السَّماء" (آية 13)، بسبب الخجل. لنتأمّل للحظة في هذين الموقفَين.

كان الفرّيسيّ منتصبًا. كان واثقًا من نفسه، كان شامخًا ومتفوقًا، يرى أنّه يَستحق الإعجاب لصلاحه. في هذا الموقف كان يصلّي إلى الله، لكنّه في الواقع كان يحتفل بنفسه ويقول: أنا أذهب إلى الهيكل، وأحفظ الوصايا، وأُعطي الحسنات... رسميًا صلاته لا تشوبها شائبة، وظاهرًا يرى نفسه رجلًا تقيًّا وورعًا، لكن، بدلًا من أن يفتح نفسه لله ويحمل إليه حقيقة قلبه، فقد وضع قناع المراءاة على ضعفه. هذا الفرّيسيّ لا ينتظر الخلاص عطيّةً من الله، بل كان يتوقع تقريبًا مكافأةً على استحقاقه. تقدّم بلا تردّد نحو هيكل الله، ليأخذ مكانه، وليجلس في الصّف الأوّل، لكن انتهى به الأمر بالذهاب بعيدًا، وهو يظن أنّه أمام الله!

لكن العشّار وقف بَعيدًا. لم يحاول أن يتقدّم، بل بقيت عيناه في الأرض. وهذا البعد الذي بيّن أنّه كائنٌ خاطئ أمام قداسة الله، هو الذي سمح له بأن يختبر عناق بركة الآب ورحمته. استطاع الله أن يصل إليه لأنّ ذلك الإنسان ترك له مكانًا، ببقائه بعيدًا. كم هو صحيح هذا أيضًا في علاقاتنا العائليّة والاجتماعيّة والكنسيّة! هناك حوار حقيقيّ عندما نعرف أن نحافظ على المسافات بيننا وبين الآخرين، مسافة صحيّة تسمح لكلّ واحد بأن يتنفس دون تقزيم الآخر أو إلغائه. عندئذٍ، هذا الحوار، هذا اللقاء يمكن أن يقصّر المسافات ويُحدِث التّقارب. هذا ما حدث في حياة ذلك العشّار: وقف بعيدًا في الهيكل، وعرف حقيقة نفسه كما هو أمام الله: وقف بعيدًا، وبهذه الطّريقة سمح لله بأن يقترب منه.

أيّها الإخوة والأخوات، لنتذكّر هذا: الرّبّ يسوع يأتي إلَينا عندما نبتعد عن ذاتنا المُتغطرِسَة. هو، يمكنه أن يُقصِّر المسافات بيننا عندما نحمل إليه ضعفنا بِصِدق، ومن دون ادّعاء. هو يَمُدُّ يَدَهُ إلينا لكي يُقيمنا من جديد عندما نعترف ”بضَعَتنا وضعفنا“، ونثق به بقلبٍ صادق. هذا هو الله: إنّه ينتظرنا في ”ضعتنا“، لأنّه في يسوع أراد أن ”ينحدر ويتواضع حتّى النّهاية“، ولأنّه لا يَخَاف من النّزول إلى داخل الهاوية التي تسكننا، لا يخاف أن يلمس جراحات أجسادنا، وأن يقبل فقرنا، وفشل حياتنا، والأخطاء التي ارتكبناها بسبب ضعفنا أو إهمالنا. الله ينتظرنا هناك، ”في ضعتنا“، وينتظرنا خصوصًا عندما نذهب، بكلّ تواضع، لطلب المغفرة في سرّ الاعتراف، كما سنعمل اليوم. إنّه ينتظرنا هناك.

أيّها الإخوة والأخوات، لنفحص ضميرنا اليوم، لأنّ الفرّيسيّ والعشّار يعيشان كلاهما في داخلنا. لا نختبئ وراء رياء المظاهر، بل لنوكِل بثقة إلى رحمة الرّبّ يسوع كلّ العوائق التي فينا، وأخطاءنا وبؤسنا. عندما نعترف بخطايانا، لنتواضع، مثل العشّار، لكي نعترف نحن أيضًا بالمسافة التي تفصلنا بين ما يريده الله لحياتنا وما نحن عليه حقًّا كلّ يوم. في تلك اللحظة، يقترب الرّبّ يسوع، ويُقصّر البعد والمسافات ويوقِفُنا على أقدامنا. في تلك اللحظة، عندما نعرف أنّنا عريانون، يُلبسنا هو ثوب العيد. وهذا العيد هو، ويجب أن يكون، سرّ المُصالحة: إنّه لِقاءُ العيد، الذي يَشفي القلب ويضع السّلام فيه. وليس محكمة بشريّة نخاف منها، بل هو عناق الله الذي يعزّينا.

واحدة من الأشياء الجميلة في كيفية استقبال الله لنا هي حنان عناقه الذي يعطينا إياه. إن قرأنا منذ لحظة عودة الابن الضّال إلى بيته (راجع لوقا 15، 20-22) وبداية الكلام، فإنّ الأب لم يتركه يتكلّم، بل عانقه ولم يستطع الكلام. العناق الرّحيم. وهنا أتوجّه إلى أخوتي الذين يسمعون الاعترافات: من فضلكم، أيّها الإخوة، اغفروا كلّ شيء، اغفروا دائمًا، دون أن توجّهوا إصبعكم كثيرًا إلى ضمائر الناس. اتركوا الناس يقولون خطاياهم وأنتم تقبلوا هذا مثل يسوع، بلطف في نظركم، وبتفهم صامت. من فضلكم، سرّ الاعتراف ليس للتعذيب، بل لمنح السّلام. اغفروا كلّ شيء، لأن الله سيغفر لكم كلّ شيء.

في هذا الزّمن الأربعينيّ، لنهمس نحن أيضًا مثل العشّار ولنقُلْ: "اللَّهُمّ ارْحَمْني أَنا الخاطِئ" (الآية 13). لنقُلْ معًا: اللَّهُمّ ارْحَمْني أَنا الخاطِئ. عندما أنساك أو أهملك، وعندما أضع كلامي وكلام العالم بدل كلمتك، وعندما أدَّعي أني بارٌّ وأحتقر الآخرين، وعندما أُثرثر على الآخرين، اللَّهُمّ ارْحَمْني أَنا الخاطِئ. عندما لا أعتني بِمَن هم حولي، وعندما لا أكترث للفقراء والمتألّمين، والضّعفاء أو المهمّشين، اللَّهُمّ ارْحَمْني أَنا الخاطِئ. من أجل الخطايا ضدّ الحياة، ومن أجل الشّهادة السّيّئة التي تُلطّخ وجه الكنيسة الأمّ الجميل، ومن أجل الخطايا ضدّ الخليقة، اللَّهُمّ ارْحَمْني أَنا الخاطِئ. من أجل كَذِبِي، وخِداعي، وقلَّة شفافيّتي ومخالفاتي للقوانين، اللَّهُمّ ارْحَمْني أَنا الخاطِئ. من أجل خطايايَ الخفيّة، تلك التي لا يعرفها أحد، ومن أجل الشّرّ الذي صنعته للآخرين حتّى من دون أن أُدرك، ومن أجل الخير الذي كان بإمكاني أن أصنعه ولم أصنعه، اللَّهُمّ ارْحَمْني أَنا الخاطِئ.

في صمت، لنكرّر، بعضَ اللحظات، بقلبٍ تائبٍ وواثق: اللَّهُمّ ارْحَمْني أَنا الخاطِئ. في صمت. ليكرّرها كلّ واحد في قلبه: اللَّهُمّ ارْحَمْني أَنا الخاطِئ. بفعل التّوبة والثّقة هذا، سنفرح بأكبر عطيّة، هي: رحمة الله.

[00443-AR.02] [Testo originale: Italiano]

[B0207-XX.02]