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Udienza ai partecipanti al Convegno promosso dal Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, 18.02.2023


Discorso del Santo Padre

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Traduzione in lingua araba

Questa mattina, il Santo Padre Francesco ha ricevuto in Udienza, nell’Aula del Sinodo in Vaticano, i partecipanti al Convegno Internazionale per i Presidenti e i Referenti delle Commissioni Episcopali per i Laici, promosso dal 16 al 18 febbraio dal Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita sul tema: “Pastori e fedeli laici chiamati a camminare insieme”.

Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa ha rivolto ai presenti all’Udienza:

Discorso del Santo Padre

Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti!

Ringrazio il Card. Farrell e saluto tutti voi, responsabili delle Commissioni episcopali per il laicato, con i dirigenti di associazioni e movimenti ecclesiali, gli officiali del Dicastero e tutti i presenti.

Siete venuti dai vostri Paesi per riflettere sulla corresponsabilità – corresponsabilità – dei pastori e dei fedeli laici nella Chiesa. Il titolo del Convegno parla di una “chiamata” a “camminare insieme”, collocando il tema nel contesto più grande della sinodalità. In effetti, la strada che Dio sta indicando alla Chiesa è proprio quella di vivere più intensamente e più concretamente la comunione e il camminare insieme. La invita a superare i modi di agire in autonomia o i binari paralleli che non si incontrano mai: il clero separato dai laici, i consacrati separati dal clero e dai fedeli, la fede intellettuale di alcune élites separata dalla fede popolare, la Curia romana separata dalle Chiese particolari, i vescovi separati dai sacerdoti, i giovani separati dagli anziani, i coniugi e le famiglie poco coinvolti nella vita delle comunità, i movimenti carismatici separati dalle parrocchie, e così via. Questa è la tentazione più grave in questo momento. C’è ancora tanta strada da fare perché la Chiesa viva come un corpo, come vero Popolo, unito dall’unica fede in Cristo Salvatore, animato dallo stesso Spirito santificatore e orientato alla stessa missione di annunciare l’amore misericordioso di Dio Padre.

Quest’ultimo aspetto è decisivo: un Popolo unito nella missione. E questa è l’intuizione che dobbiamo sempre custodire: la Chiesa è il santo Popolo fedele di Dio, secondo quanto afferma Lumen gentium ai nn. 8 e 12; non populismo né élitismo, è il santo Popolo fedele di Dio. Ciò non s’impara teoricamente, si capisce vivendolo. Poi si spiega, come si riesce, ma se non lo si vive non si saprà spiegarlo. Un Popolo unito nella missione. La sinodalità trova la sua sorgente e il suo scopo ultimo nella missione: nasce dalla missione ed è orientata alla missione. Pensiamo ai primordi, quando Gesù invia gli Apostoli ed essi ritornano tutti felici, in quanto i demoni “fuggivano da loro”: era stata la missione a portare quel senso di ecclesialità. Condividere la missione, infatti, avvicina pastori e laici, crea comunione di intenti, manifesta la complementarietà dei diversi carismi e perciò suscita in tutti il desiderio di camminare insieme. Lo vediamo in Gesù stesso, che si è circondato, fin dall’inizio, di un gruppo di discepoli, uomini e donne, e ha vissuto con loro il suo ministero pubblico. Ma mai da solo. E quando ha inviato i Dodici ad annunciare il Regno di Dio li ha mandati “a due a due”. La stessa cosa vediamo in San Paolo, che ha sempre evangelizzato insieme a collaboratori, anche laici e coppie di sposi. Non da solo. E così è stato nei momenti di grande rinnovamento e di slancio missionario nella storia della Chiesa: pastori e fedeli laici insieme. Non individui isolati, ma un Popolo che evangelizza, il santo Popolo fedele di Dio!

So che avete anche parlato della formazione dei laici, indispensabile per vivere la corresponsabilità. Anche su questo punto vorrei sottolineare che la formazione dev’essere orientata alla missione, non soltanto alle teorie, altrimenti si scade nelle ideologie. Ed è terribile, è una peste: l’ideologia nella Chiesa è una peste. Per evitare ciò la formazione dev’essere orientata alla missione. Non dev’essere scolastica, limitata a idee teoriche, ma anche pratica. Essa nasce dall’ascolto del Kerygma, si nutre con la Parola di Dio e i Sacramenti, fa crescere nel discernimento, personale e comunitario, e coinvolge da subito nell’apostolato e in varie forme di testimonianza, a volte semplici, che portano a farsi vicini agli altri. L’apostolato dei laici è anzitutto testimonianza! Testimonianza della propria esperienza, della propria storia, testimonianza della preghiera, testimonianza del servizio a chi è nel bisogno, testimonianza della vicinanza ai poveri, vicinanza alle persone sole, testimonianza dell’accoglienza, soprattutto da parte delle famiglie. E così ci si forma alla missione: andando verso gli altri. È una formazione “sul campo”, e al tempo stesso una via efficace di crescita spirituale.

Fin dall’inizio ho detto che “sogno una Chiesa missionaria” (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 27; 32). “Sogno una Chiesa missionaria”. E mi viene in mente un’immagine dell’Apocalisse, quando Gesù dice: «Sto alla porta e busso. Se qualcuno […] mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui» (Ap 3,20). Ma oggi il dramma della Chiesa è che Gesù continua a bussare alla porta, ma dal di dentro, perché lo lasciamo uscire! Tante volte si finisce per essere una Chiesa “prigioniera”, che non lascia uscire il Signore, che lo tiene come “cosa propria”, mentre il Signore è venuto per la missione e ci vuole missionari.

Questo orizzonte ci dà la giusta chiave di lettura per il tema della corresponsabilità dei laici nella Chiesa. In effetti, l’esigenza di valorizzare i laici non dipende da qualche novità teologica, e neppure da esigenze funzionali per la diminuzione dei sacerdoti; tanto meno nasce da rivendicazioni di categoria, per concedere una “rivincita” a chi è stato messo da parte in passato. Si basa piuttosto su una corretta visione della Chiesa: la Chiesa come Popolo di Dio, di cui i laici fanno parte a pieno titolo insieme ai ministri ordinati. I ministri ordinati non sono dunque i padroni, sono i servitori: i pastori, non i padroni.

Si tratta di recuperare una “ecclesiologia integrale”, come era nei primi secoli, nella quale tutto viene unificato dall’appartenenza a Cristo e dalla comunione soprannaturale con Lui e con i fratelli, superando una visione sociologica che distingue classi e ranghi sociali e che si basa in fondo sul “potere” assegnato ad ogni categoria. L’accento va posto sull’unità e non sulla separazione, sulla distinzione. Il laico, più che come “non chierico” o “non religioso”, va considerato come battezzato, come membro del Popolo santo di Dio, che è il sacramento che apre tutte le porte. Nel Nuovo Testamento non compare la parola “laico”, ma si parla di “credenti”, di “discepoli”, di “fratelli”, dei “santi”, termini applicati a tutti: fedeli laici e ministri ordinati, il Popolo di Dio in cammino.

In questo unico Popolo di Dio, che è la Chiesa, l’elemento fondamentale è l’appartenenza a Cristo. Nei racconti commoventi degli Atti dei martiri dei primi secoli, troviamo spesso una semplice professione di fede: “Sono cristiano”, dicevano, “e perciò non posso sacrificare agli idoli”. Lo dice, ad esempio, Policarpo, vescovo di Smirne;[1] lo dicono Giustino e altri suoi compagni, laici.[2] Questi martiri non dicono “sono vescovo” o “sono laico” – “sono dell’Azione Cattolica, sono di quella Congregazione mariana, sono dei Focolarini”. No, dicono solamente “sono cristiano”. Anche oggi, in un mondo che si secolarizza sempre di più, ciò che veramente ci distingue come Popolo di Dio è la fede in Cristo, non lo stato di vita in sé considerato. Siamo battezzati, cristiani, discepoli di Gesù. Tutto il resto è secondario. “Ma, Padre, anche un prete?” – “Sì, è secondario” – “Anche un vescovo?” – “Sì, è secondario” – “Anche un Cardinale?” – “È secondario”.

La nostra comune appartenenza a Cristo ci rende tutti fratelli. Il Concilio Vaticano II afferma: «I laici, come per benevolenza divina hanno per fratello Cristo, […] così anche hanno per fratelli coloro che, posti nel sacro ministero, […] svolgono nella famiglia di Dio l’ufficio di pastori» (Cost. Lumen gentium, 32). Fratelli con Cristo e fratelli con i sacerdoti, fratelli con tutti.

E in questa visione unitaria della Chiesa, dove siamo anzitutto cristiani battezzati, i laici vivono nel mondo e nello stesso tempo fanno parte del Popolo fedele di Dio. Il Documento di Puebla ha usato una espressione felice per esprimere questo: i laici sono uomini e donne «di Chiesa nel cuore del mondo» e uomini e donne «del mondo nel cuore della Chiesa».[3] È vero che i laici sono chiamati a vivere principalmente la loro missione nelle realtà secolari in cui sono immersi ogni giorno, ma ciò non esclude che abbiano anche le capacità, i carismi e le competenze per contribuire alla vita della Chiesa: nell’animazione liturgica, nella catechesi, e nella formazione, nelle strutture di governo, nell’amministrazione dei beni, nella programmazione e attuazione dei programmi pastorali, e così via. Per questo i pastori vanno formati, fin dai tempi del seminario, a una collaborazione quotidiana e ordinaria con i laici, così che il vivere la comunione diventi per loro un modo di agire naturale, e non un fatto straordinario e occasionale. Una delle cose più brutte che accade in un pastore è dimenticare il Popolo dal quale è venuto, la mancanza di memoria. A lui si può indirizzare quella parola della Bibbia tanto ripetuta: “Ricordati”; “ricordati da dove sei stato tolto, del gregge dal quale sei stato tolto per tornare a servirlo, ricordati delle tue radici” (cfr 2 Tm, 1).

Questa corresponsabilità vissuta fra laici e pastori permetterà di superare le dicotomie, le paure e le diffidenze reciproche. È ora che pastori e laici camminino insieme, in ogni ambito della vita della Chiesa, in ogni parte del mondo! I fedeli laici non sono “ospiti” nella Chiesa, sono a casa loro, perciò sono chiamati a prendersi cura della propria casa. I laici, e soprattutto le donne, vanno maggiormente valorizzati nelle loro competenze e nei loro doni umani e spirituali per la vita delle parrocchie e delle diocesi. Possono portare, con il loro linguaggio “quotidiano”, l’annuncio del Vangelo, impegnandosi in varie forme di predicazione. Possono collaborare con i sacerdoti per formare i bambini e i giovani, per aiutare i fidanzati nella preparazione al matrimonio e per accompagnare gli sposi nella vita coniugale e familiare. Vanno sempre consultati quando si preparano nuove iniziative pastorali ad ogni livello, locale, nazionale e universale. Si deve dare loro voce nei consigli pastorali delle Chiese particolari. Devono essere presenti negli uffici delle Diocesi. Possono aiutare nell’accompagnamento spirituale di altri laici e dare il loro contributo anche nella formazione dei seminaristi e dei religiosi. Una volta ho sentito una domanda: “Padre, un laico può essere direttore spirituale?”. È un carisma laicale! Può essere un prete, ma il carisma non è presbiterale; l’accompagnamento spirituale, se il Signore ti dà la capacità spirituale di farlo, è un carisma laicale. E, insieme con i pastori, devono portare la testimonianza cristiana negli ambienti secolari: il mondo del lavoro, della cultura, della politica, dell’arte, della comunicazione sociale.

Potremmo dire: laici e pastori insieme nella Chiesa, laici e pastori insieme nel mondo.

Mi vengono in mente le ultime pagine del libro del Cardinale de Lubac, Méditation sur l'Église, dove, per dire qual è la cosa più brutta che può accadere alla Chiesa, dice che la mondanità spirituale, che si traduce nel clericalismo, «sarebbe infinitamente più disastrosa di ogni mondanità semplicemente morale». Se voi avete tempo, leggete queste ultime tre-quattro pagine di Méditation sur l'Église di de Lubac. Dà a intendere, anche citando degli autori, che il clericalismo è la cosa più brutta che possa accadere alla Chiesa, peggio ancora che ai tempi dei Papi concubinari. Il clericalismo va “cacciato via”. Un prete o un vescovo che cadono in questo atteggiamento fanno molto male alla Chiesa. Ma è una malattia che contagia: peggio ancora di un prete o del vescovo caduti nel clericalismo sono i laici clericalizzati: per favore, sono una peste nella Chiesa. Il laico sia laico.

Carissimi, con questi pochi cenni ho voluto indicare un ideale, un’ispirazione che può aiutarci nel cammino. Vorrei che tutti noi avessimo nel cuore e nella mente questa bella visione della Chiesa: una Chiesa protesa alla missione e dove si unificano le forze e si cammina insieme per evangelizzare; una Chiesa in cui ciò che ci lega è il nostro essere cristiani battezzati, il nostro appartenere a Gesù; una Chiesa dove fra laici e pastori si vive una vera fratellanza, lavorando fianco a fianco ogni giorno, in ogni ambito della pastorale, perché tutti sono battezzati.

Vi esorto a farvi promotori nelle vostre Chiese di quanto avete ricevuto in questi giorni, per continuare insieme il rinnovamento della Chiesa e la sua conversione missionaria. Di cuore benedico tutti voi e i vostri cari, e vi chiedo per favore di pregare per me. Grazie.

______________________

[1] Cfr Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, IV, 15,1-43.

[2] Cfr Atti del martirio dei santi Giustino e compagni, cap. 1-5; PG 6, 1366-1371.

[3] III Conferenza Gen. dell’Episcopato Latinoamericano, Documento finale, Puebla 1979, n. 786.

[00311-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Chers frères et sœurs, bonjour et bienvenue !

Je remercie le Card. Farrell et je vous salue tous, responsables des Commissions épiscopales pour le laïcat, avec les dirigeants d’associations et de mouvements ecclésiaux, les officiels du Dicastère et toutes les personnes présentes.

Vous êtes venus de vos pays pour réfléchir sur la coresponsabilité - coresponsabilité - des pasteurs et des fidèles laïcs dans l’Église. Le titre du Congrès parle d’un “appel” à “marcher ensemble”, en plaçant le thème dans le contexte plus grand de la synodalité. En effet, la route que Dieu indique à l’Église est précisément celle de vivre plus intensément et plus concrètement la communion et la marche ensemble. Il l’invite à dépasser les manières d’agir en autonomie ou les voies parallèles qui ne se rencontrent jamais : le clergé séparé des laïcs, les consacrés séparés du clergé et des fidèles, la foi intellectuelle de certaines élites séparée de la foi populaire, la Curie romaine séparée des Églises particulières, les évêques séparés des prêtres, les jeunes séparés des personnes âgées, les conjoints et les familles peu impliqués dans la vie des communautés, les mouvements charismatiques séparés des paroisses, etc. C’est la tentation la plus grave en ce moment. Il y a encore beaucoup de chemin à faire pour que l’Église vive comme un corps, comme un vrai Peuple, uni par l’unique foi dans le Christ Sauveur, animé par le même Esprit sanctificateur et orienté vers la même mission d’annoncer l’amour miséricordieux de Dieu le Père.

Ce dernier aspect est décisif : un Peuple uni dans la mission. Et telle est l’intuition que nous devons toujours garder : l’Église est le saint peuple fidèle de Dieu, selon ce qu’affirme Lumen gentium aux nn. 8 et 12; pas de populisme ni d’élitisme, c’est le saint Peuple fidèle de Dieu. Cela ne s’apprend pas théoriquement, on le comprend en le vivant. Ensuite on l’explique, comme on peut, mais si on ne le vit pas on ne saura pas l’expliquer. Un Peuple uni dans la mission. La synodalité trouve sa source et son but ultime dans la mission : elle naît de la mission et est orientée vers la mission. Pensons aux débuts, quand Jésus envoie les Apôtres et qu’ils reviennent tous joyeux, car les démons "fuyaient d’eux" : c’était la mission qui avait apporté ce sens d’ecclésialité. Partager la mission, en effet, rapproche les pasteurs et les laïcs, crée la communion d’intentions, manifeste la complémentarité des divers charismes et suscite donc en tous le désir de marcher ensemble. Nous le voyons en Jésus lui-même, qui s’est entouré, dès le début, d’un groupe de disciples, hommes et femmes, et a vécu avec eux son ministère public. Mais jamais seul. Et quand il a envoyé les Douze annoncer le Royaume de Dieu, il les a envoyés “deux par deux”. Nous voyons la même chose chez saint Paul qui a toujours évangélisé avec des collaborateurs, même des laïcs et des couples d’époux. Pas seul. Et il en a été ainsi dans les moments de grand renouveau et d’élan missionnaire dans l’histoire de l’Église : pasteurs et fidèles laïcs ensemble. Pas des individus isolés, mais un Peuple qui évangélise, le saint Peuple fidèle de Dieu.

Je sais que vous avez aussi parlé de la formation des laïcs, indispensable pour vivre la coresponsabilité. Sur ce point également, je voudrais souligner que la formation doit être orientée vers la mission, non seulement vers les théories, sinon on tombe dans les idéologies. Et c’est terrible, c’est une peste : l’idéologie dans l’Église est une peste. Pour éviter cela, la formation doit être orientée vers la mission. Elle ne doit pas être académique, limitée à des idées théoriques, mais aussi pratique. Elle naît de l’écoute du Kérygme, elle se nourrit de la Parole de Dieu et des Sacrements, elle fait grandir dans le discernement, personnel et communautaire, elle implique immédiatement dans l’apostolat et dans diverses formes de témoignage, parfois simples, qui conduisent à se faire proches des autres. L’apostolat des laïcs est avant tout un témoignage ! Témoignage de sa propre expérience, de sa propre histoire, témoignage de la prière, témoignage du service à ceux qui sont dans le besoin, témoignage de la proximité aux pauvres, proximité aux personnes seules, témoignage de l’accueil, surtout de la part des familles. Et ainsi, on se forme à la mission : en allant vers les autres. C’est une formation “sur le terrain”, et en même temps une voie efficace de croissance spirituelle.

Dès le début, j’ai dit que “je rêve d’une Église missionnaire” (cf. Exhort. ap. Evangelii gaudium, n. 27 ; 32). “Je rêve d’une Église missionnaire”. Et une image de l’Apocalypse me vient à l’esprit quand Jésus dit : « je me tiens à la porte, et je frappe. Si quelqu’un [...] ouvre la porte, j’entrerai chez lui ; je prendrai mon repas avec lui » (Ap 3, 20). Mais aujourd’hui, le drame de l’Église est que Jésus continue à frapper à la porte, mais de l’intérieur, pour que nous le laissions sortir ! Très souvent, on finit par être une Église "prisonnière", qui ne laisse pas le Seigneur sortir, qui le tient comme "chose propre", alors que le Seigneur est venu pour la mission et nous veut missionnaires.

Cet horizon nous donne la juste clé de lecture pour le thème de la coresponsabilité des laïcs dans l’Église. En effet, l’exigence de valoriser les laïcs ne dépend pas de quelque nouveauté théologique, ni même d’exigences fonctionnelles à cause de la diminution des prêtres ; elle ne naît pas non plus de revendications catégorielles, pour accorder une “revanche” à ceux qui ont été mis de côté dans le passé. Elle repose plutôt sur une vision correcte de l’Église : l’Église comme Peuple de Dieu, dont les laïcs font partie à part entière avec les ministres ordonnés. Les ministres ordonnés ne sont donc pas les maîtres, ils sont les serviteurs : les pasteurs, pas les maîtres.

Il s’agit de récupérer une “ecclésiologie intégrale”, comme elle l’était dans les premiers siècles, dans laquelle tout est unifié par l’appartenance au Christ et par la communion surnaturelle avec Lui et avec les frères, dépassant une vision sociologique qui distingue des classes et des rangs sociaux et qui repose au fond sur le “pouvoir” assigné à chaque catégorie. L’accent doit être mis sur l’unité et non sur la séparation, sur la distinction. Le laïc, plus que comme “non clerc” ou “non religieux”, doit être considéré comme un baptisé, comme un membre du Peuple saint de Dieu, qui est le sacrement qui ouvre toutes les portes. Dans le Nouveau Testament, on ne trouve pas le mot “laïc”, mais on parle de “croyants”, de “disciples”, de “frères”, des “saints”, termes appliqués à tous : fidèles laïcs et ministres ordonnés, le Peuple de Dieu en marche.

Dans cet unique Peuple de Dieu, qui est l’Église, l’élément fondamental est l’appartenance au Christ. Dans les récits émouvants des Actes des martyrs des premiers siècles, nous trouvons souvent une simple profession de foi : “Je suis chrétien”, disaient-ils, “et c’est pourquoi je ne peux pas sacrifier aux idoles”. Polycarpe, évêque de Smyrne, le dit, par exemple ;[1] Justin et ses autres compagnons, laïcs, le disent.[2] Ces martyrs ne disent pas “je suis évêque” ou “je suis laïc” - "je suis de l’Action Catholique, je suis de cette Congrégation mariale, je suis des Focolari". Non, ils disent seulement “je suis chrétien”. Aujourd’hui encore, dans un monde qui se sécularise de plus en plus, ce qui nous distingue vraiment comme Peuple de Dieu, c’est la foi dans le Christ, et non l’état de vie considéré en soi. Nous sommes baptisés, chrétiens, disciples de Jésus. Tout le reste est secondaire. "Mais, mon Père, même un prêtre ?" - "Oui, c’est secondaire" - "Même un évêque ?" - "Oui, c’est secondaire" - "Même un cardinal ?" - "C'est secondaire".

Notre appartenance commune au Christ nous rend tous frères. Le Concile Vatican II affirme : « Par la bienveillance de Dieu, les laïcs ont pour frère le Christ, [...] ainsi ils ont aussi pour frères ceux qui, appliqués au sacré ministère, font près de la famille de Dieu office de pasteurs » (Const. Lumen gentium, n. 32). Frères avec le Christ et frères avec les prêtres, frères avec tous.

Et dans cette vision unitaire de l’Église, où nous sommes avant tout chrétiens baptisés, les laïcs vivent dans le monde et en même temps font partie du Peuple fidèle de Dieu. Le Document de Puebla a utilisé une expression heureuse pour exprimer cela : les laïcs sont des hommes et des femmes « d’Église au cœur du monde » et des hommes et des femmes « du monde au cœur de l’Église ».[3] Il est vrai que les laïcs sont appelés à vivre principalement leur mission dans les réalités séculières où ils sont immergés chaque jour, mais cela n’exclut pas qu’ils aient aussi les capacités, les charismes et les compétences pour contribuer à la vie de l’Église : dans l’animation liturgique, dans la catéchèse, dans la formation, dans les structures de gouvernement, dans l’administration des biens, dans la programmation et la mise en œuvre des programmes pastoraux, etc. C’est pourquoi les pasteurs doivent être formés, dès le temps du séminaire, à une collaboration quotidienne et ordinaire avec les laïcs, de sorte que le fait de vivre la communion devienne pour eux une manière naturelle d’agir, et non un fait extraordinaire et occasionnel. Une des pires choses qui arrive chez un pasteur est d’oublier le Peuple dont il est issu, le manque de mémoire. On peut lui adresser cette parole de la Bible si répétée : "Souviens-toi"; "souviens-toi d’où tu as été tiré, du troupeau dont tu as été tiré pour le servir, souviens-toi de tes racines" (cf 2 Tm 1).

Cette coresponsabilité vécue entre laïcs et pasteurs permettra de dépasser les dichotomies, les peurs et les méfiances réciproques. Il est temps que pasteurs et laïcs marchent ensemble, dans tous les domaines de la vie de l’Église, dans toutes les parties du monde ! Les fidèles laïcs ne sont pas des “hôtes” dans l’Église, ils sont chez eux, c’est pourquoi ils sont appelés à prendre soin de leur maison. Les laïcs, et surtout les femmes, doivent être davantage valorisés dans leurs compétences et dans leurs dons humains et spirituels pour la vie des paroisses et des diocèses. Ils peuvent porter, par leur langage “quotidien”, l’annonce de l’Évangile, en s’engageant dans diverses formes de prédication. Ils peuvent collaborer avec les prêtres pour former les enfants et les jeunes, pour aider les fiancés dans la préparation au mariage et pour accompagner les époux dans la vie conjugale et familiale. Ils doivent toujours être consultés lors de la préparation de nouvelles initiatives pastorales à tous les niveaux, local, national et universel. Il faut leur donner une voix dans les conseils pastoraux des Églises particulières. Ils doivent être présents dans les bureaux des diocèses. Ils peuvent aider dans l’accompagnement spirituel d’autres laïcs et apporter également leur contribution dans la formation des séminaristes et des religieux. J’ai entendu une fois une question : "Mon Père, un laïc peut-il être directeur spirituel ? C'est un charisme laïc ! Il peut être prêtre, mais le charisme n'est pas presbytéral ; l'accompagnement spirituel, si le Seigneur vous donne la capacité spirituelle de le faire, est un charisme laïc. Et, avec les pasteurs, ils doivent apporter le témoignage chrétien dans les milieux séculiers : le monde du travail, de la culture, de la politique, de l’art, de la communication sociale.

Nous pourrions dire : laïcs et pasteurs ensemble dans l’Église, laïcs et pasteurs ensemble dans le monde.

Il me vient à l’esprit les dernières pages du livre du Cardinal de Lubac, Méditation sur l'Église, où, pour dire quelle est la pire chose qui puisse arriver à l'Église, il dit que la mondanité spirituelle, qui se traduit par le cléricalisme, "elle serait infiniment plus désastreuse que toute mondanité simplement morale". Si vous avez le temps, lisez ces trois ou quatre dernières pages de la Méditation sur l'Église de Lubac. Il laisse entendre, en citant même des auteurs, que le cléricalisme est la pire chose qui puisse arriver à l'Église, pire encore qu'à l'époque des papes concubins. Le cléricalisme doit être "chassé". Un prêtre ou un évêque qui tombe dans cette attitude fait beaucoup de mal à l'Église. Mais c'est une maladie qui infecte : pire encore qu'un prêtre ou un évêque tombé dans le cléricalisme, ce sont les laïcs cléricalisés : s'il vous plaît, ils sont une peste dans l'Église. Que le laïc soit laïc.

Très chers amis, avec ces quelques brefs rappels, j’ai voulu indiquer un idéal, une inspiration qui peut nous aider sur le chemin. Je voudrais que nous ayons tous dans le cœur et dans l’esprit cette belle vision de l’Église : une Église tendue vers la mission et où s’unissent les forces et où l’on marche ensemble pour évangéliser ; une Église où ce qui nous lie est notre identité chrétienne de baptisés, notre appartenance à Jésus ; une Église où une véritable fraternité est vécue entre laïcs et pasteurs, travaillant côte à côte chaque jour, dans tous les domaines de la pastorale, parce que tous sont baptisés.

Je vous exhorte à vous faire promoteurs dans vos Églises de ce que vous avez reçu ces jours-ci, pour continuer ensemble le renouveau de l’Église et sa conversion missionnaire. Je vous bénis tous de tout cœur, ainsi que vos proches, et je vous demande de prier pour moi. Merci.

______________________

[1] Cf. Eusèbe de Césarée, Histoire ecclésiastique, IV, 15, pp. 1-43.

[2] Cf. Actes du martyre de Justin et de ses compagnons, chap. 1-5 ; PG 6, pp. 1366-1371.

[3] IIIe Conférence générale de l’Épiscopat latino-américain, Document final, Puebla 1979, n. 786.

[00311-FR.01] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

Dear brothers and sisters, good day and welcome!

I thank Cardinal Farrell and I greet you, representatives of the Episcopal Commissions for the Laity, leaders of ecclesial associations and movements, officials of the Dicastery and all present.

You have come here from various countries to reflect on the shared responsibility of pastors and lay faithful in the Church. The title of your Conference speaks of a “call” to “move forward together”, thus setting the subject within the broader context of synodality. The path that God is indicating to the Church is precisely that of a more intense and concrete experience of communion and journeying together. He asks the Church to leave behind ways of acting separately, on parallel tracks that never meet. Clergy separated from laity, consecrated persons from clergy and the faithful; the intellectual faith of certain elites separated from the faith of ordinary people; the Roman Curia from the particular Churches, bishops from priests; young people from the elderly, spouses and families disengaged from the life of the communities, charismatic movements separated from parishes, and so forth. This is the worst temptation at the present moment. The Church still has a long way to go to live as a body, as a true people united by the same faith in Christ the Saviour, enlivened by the same Spirit of holiness and directed to the same mission of proclaiming the merciful love of God our Father.

This last aspect is critical: a people united in mission. This is the insight that we must always cherish: the Church is the faithful holy People of God, as Lumen Gentium affirms in nos. 8 and 12. The Church is neither populist nor elitist, but the faithful holy People of God. We cannot learn this theoretically, but through lived experience. Only then may we seek to explain, as best we can; but if we do not live it we cannot explain it. A people united in mission, then. Synodality has its origin and ultimate purpose in mission: it is born of mission and directed to mission. Let us think of the earliest days, when Jesus sends the Apostles and they all return happy, for the demons “fled from them”: it was mission that brought about that sense of the Church. Sharing in mission brings pastors and laypersons closer together; it builds a unity of purpose, manifests the complementarity of the differing charisms and thus awakens in all the desire to move forward together. We see this illustrated in Jesus himself, who from the beginning surrounded himself with a group of disciples, men and women, and, with them, carried out his public ministry. Never alone. When he sent the Twelve to proclaim the kingdom of God, he sent them “two by two”. We see the same thing in Saint Paul, who always proclaimed the Gospel with co-workers, including laypersons and married couples. Not by himself. This has been the case at times of great renewal and missionary outreach in the Church’s history: pastors and faithful together. Not isolated individuals, but a people that evangelizes, the faithful holy People of God!

I know that you have also discussed the training of laypersons, which is indispensable for exercising shared responsibility. Here too, I would stress that such training must be directed towards mission, not just towards theories, otherwise they will fall into ideology. And that is a terrible scourge: ideology in the Church is plague-like. To avoid this, formation must be mission-oriented, not academic, limited to theoretical ideas, but practical as well. It must arise from hearing the kerygma, be nurtured by the word of God and the sacraments, help people to grow in discernment, as individuals and in community, and engage from the beginning in the apostolate and in various forms of testimony, however simple, which can lead to closeness to others. The apostolate of the laity is primarily that of witness! The witness of one’s own experience and history, the witness of prayer, the witness of serving those in need, the witness of closeness to the poor and the forgotten, and the witness of welcome, above all on the part of families. That is the right training for mission: going out towards others, learning “on the ground”. And at the same time, an effective means of spiritual growth.

From the beginning, I have said that “I dream of a missionary Church” (cf. Evangelii Gaudium, 27; 32). “I dream of a missionary Church”. Here, an image from the Book of Revelation comes to mind, when Jesus says: “I am standing at the door, knocking; if you […] open the door, I will come in to you and eat with you” (Rev 3:20). Today’s drama in the Church is that Jesus keeps knocking on the door, but from within, so that we will let him out! Often we end up being an “imprisoning” Church, which does not let the Lord out, which keeps him as “its own”, whereas the Lord came for mission and wants us to be missionaries.

It is in this perspective that we can properly approach the issue of shared responsibility on the part of laypersons in the Church. The need to enhance the role of the laity is not based on some theological novelty, or due to the shortage of priests, much less a desire to make up for their neglect in the past. Rather, it is grounded in a correct vision of the Church, which is the People of God, of which the laity, together with the ordained ministers, are fully a part. The ordained ministers, then, are not masters, they are servants: shepherds, not masters.

This means recovering an “integral ecclesiology”, like that of the first centuries, when everything was unified by membership in Christ and by supernatural communion with him and with our brothers and sisters. It means leaving behind a sociological vision that distinguishes classes and social rank, and is ultimately based on the “power” assigned to each category. The emphasis needs to be placed on unity, not on separation or distinction. The layperson is more than a “non-cleric” or a “non-religious”; he or she must be considered as a baptized person, a member of the holy People of God, for that is the sacrament which opens all doors. In the New Testament, the word “layperson” does not appear; we hear of “believers”, “disciples”, “brethren” and “saints”, terms applied to everyone: lay faithful and ordained ministers alike, the People of God journeying together.

In this one People of God that is the Church, the fundamental element is our belonging to Christ. In the moving accounts of the Acts of the early martyrs, we often find a simple profession of faith: “I am a Christian”, they would say, “and thus I cannot sacrifice to idols”. These were the words, for example, spoken by Polycarp, the bishop of Smyrna,[1] and by Justin and his companions, laypersons.[2] These martyrs did not say: “I am a bishop”, or “I am a layperson” – “I am from Catholic Action, I am from that Marian Congregation, I am a member of the Focolare Movement”. No, they said simply: “I am a Christian”. Today too, in a world that is increasingly secularized, what truly distinguishes us as the People of God is our faith in Christ, not our state of life considered in itself. We are the baptized; we are Christians; we are the disciples of Jesus. Everything else is secondary. “But, Father, also being a priest?” – “Yes, that too is secondary” – “And what about a bishop?” – “Yes, that is secondary” – “Even a Cardinal?” – “That too is secondary”.

Our common belonging to Christ makes us all brothers and sisters. As the Second Vatican Council states, “the laity by divine condescension have Christ as their brother… they also have as their brothers those who, placed in the sacred ministry…. exercise in God’s family the office of pastors” (Lumen Gentium, 32). Brothers and sisters with Christ, and brothers and sisters with priests, fraternity with everyone.

In this unitary vision of the Church, where we are first and foremost baptized Christians, the laity live in the world and at the same time belong to the faithful People of God. The Puebla Document expressed this nicely: laypersons are men and women “of the Church in the heart of the world”, and men and woman “of the world in the heart of the Church”.[3] True, the laity are called to live their mission chiefly amid the secular realities in which they are daily immersed. Yet that does not mean that they do not also have the abilities, charisms and competence to contribute to the life of the Church: in liturgical service, in catechesis and education, in the structures of governance, the administration of goods and the planning and implementation of pastoral projects, and so forth. For this reason, pastors need to be trained, from their time in the seminary, to work collaboratively with laypersons, so that communion, as a lived experience, will be reflected in their activity as something natural, not extraordinary and occasional. One of the worst things a shepherd can do is to forget the people from which he came, to lack that memory. We can address to him that much-repeated word from the Bible: “Remember”. “Remember where you were taken from, the flock from which you were taken in order to return and serve it, remember your roots” (cf. 2 Tim, 1).

This experience of shared responsibility between laypersons and pastors will help to overcome dichotomies, fears and reciprocal mistrust. Now is the time for pastors and laypersons to move forward together, in every sphere of the Church’s life and in every part of the world! The lay faithful are not “guests” in the Church; it is their home and they are called to care for it as such. Laypersons, and women in particular, must be better appreciated for the skills and for the human and spiritual gifts they bring to the life of parishes and dioceses. They can assist, with their “everyday” language, in the proclamation of the Gospel by engaging in various forms of preaching. They can cooperate with priests in training children and young people, helping engaged couples in preparation for marriage, and accompanying couples in marital and family life. They should always be consulted whenever new pastoral initiatives are planned at all levels, local, national and universal. They should be given a voice in the pastoral councils of the particular Churches and should be present in diocesan offices. They can assist in the spiritual accompaniment of other laypersons and contribute to the training of seminarians and religious. Once I heard a question: “Father, can a layperson be a spiritual director?”. Indeed it is a lay charism! A spiritual director may be a priest, but the charism is not priestly as such; spiritual accompaniment, if the Lord gives you the spiritual ability to do so, is a lay charism. Together with their pastors, laypersons must bring Christian witness to secular life: to the worlds of work, culture, politics, art and social communications.

We could put it this way: laity and pastors together in the Church, laypersons and pastors together in the world.

I am reminded of the last pages of Henri de Lubac’s book, Méditation sur l’Église. There, he explains that the worst thing that can happen to the Church is the spiritual worldliness that goes by the name of clericalism, which “would be infinitely more disastrous than any simply moral worldliness”. If you have time, read those last three or four pages of de Lubac’s Méditation sur l’Église. Quoting various authors, he seeks to show that clericalism is the ugliest thing that can happen to the Church, worse even than those times of papal mistresses. Clericalism must be “chased away”. A priest or a bishop who falls into this attitude does great harm to the Church. But it is a contagious disease: for the clericalized laity are a worse plague in the Church even than priests or bishops who have fallen into clericalism. Please, remember that laypersons are laypersons.

Dear friends, with these few observations, I have wanted to point to an ideal, an inspiration to help us in moving forward. How I wish that all of us might cherish in mind and heart this lovely vision of the Church! A Church that is intent on mission, where all join forces and walk together to proclaim the Gospel. A Church in which what binds us together is our being baptized Christians, our belonging to Jesus. A Church marked by fraternity between laity and pastors, as all work side-by-side each day in every sphere of pastoral life, for they are all baptized.

I encourage you to promote in your Churches all that you have received in these days, in order to continue together the renewal of the Church and her missionary conversion. From my heart I bless all of you and your loved ones, and I ask you, please, to pray for me. Thank you.

______________________

[1] Cf. EUSEBIUS OF CAESAREA, Ecclesiastical History, IV, 15, 1-43.

[2] Cf. Acts of the Martyrdom of Saints Justin and Companions, ch. 1-5: PG 6, 1366-1371.

[3] THIRD GENERAL CONFERENCE OF THE LATIN AMERICAN BISHOPS, Final Document, Puebla, 1979, No. 786.

[00311-EN.01] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Liebe Brüder und Schwestern, guten Tag und herzlich willkommen!

Ich danke Kardinal Farrell und begrüße euch alle, die Verantwortlichen der bischöflichen Kommissionen für die Laien, zusammen mit den Leitern kirchlicher Vereinigungen und Bewegungen, den Mitarbeitern des Dikasteriums und allen Anwesenden.

Ihr seid aus euren Ländern angereist, um über die gemeinsame Verantwortung – gemeinsame Verantwortung – von Hirten und Laien in der Kirche nachzudenken. Der Titel der Konferenz spricht von einem „Aufruf“ zum „gemeinsamen Unterwegssein“ und stellt das Thema so in den größeren Kontext der Synodalität. In der Tat ist der Weg, den Gott der Kirche weist, genau der, Gemeinschaft intensiver und konkreter zu leben und miteinander unterwegs zu sein. Er lädt sie ein, die Formen autonomen Handelns oder die parallelen Gleise zu überwinden, die sich nie treffen: der von den Laien getrennte Klerus, die vom Klerus und den Gläubigen getrennten Gottgeweihten, der vom Glauben des Volkes getrennte intellektuelle Glaube gewisser Eliten, die von den Teilkirchen getrennte römische Kurie, die von den Priestern getrennten Bischöfe, die von den älteren Menschen getrennten Jugendlichen, die wenig ins Gemeindeleben einbezogenen Ehepartner und Familien, die von den Pfarreien getrennten charismatischen Bewegungen und so weiter. Das ist momentan die ernsteste Versuchung. Es ist noch ein weiter Weg, bis die Kirche als ein Leib, als ein wirkliches Volk lebt, geeint durch den einen Glauben an Christus, den Erlöser, beseelt von demselben heiligenden Geist und auf dieselbe Sendung ausgerichtet, die barmherzigen Liebe Gottes, des Vaters, zu verkündigen.

Dieser letzte Aspekt ist entscheidend: ein in der Sendung vereintes Volk. Und das ist die Einsicht, die wir immer bewahren müssen: Die Kirche ist das heilige, gläubige Volk Gottes, wie es in Lumen Gentium unter den Nummern 8 und 12 heißt; nicht Populismus oder Elitarismus, sie ist das heilige, gläubige Volk Gottes. Das kann man nicht theoretisch lernen, man muss es verstehen, indem man es lebt. Dann kann man es erklären, so gut man kann, aber, wenn man es nicht lebt, wird man es nicht erklären können. Ein in der Sendung geeintes Volk. Die Synodalität hat ihre Quelle und ihr letztes Ziel in der Mission: Sie entsteht aus der Sendung und ist auf die Sendung ausgerichtet. Denken wir an die Anfänge zurück, als Jesus die Apostel aussandte und sie alle glücklich zurückkehrten, weil die Dämonen „vor ihnen flohen“: Es war die Mission, die zu diesem Empfinden von Kirchlichkeit führte. Die gemeinsame Mission bringt nämlich Hirten und Laien einander näher, schafft eine Gemeinschaft der Absichten, macht die Komplementarität der verschiedenen Charismen deutlich und weckt daher in allen den Wunsch, gemeinsam unterwegs zu sein. Wir sehen dies an Jesus selbst, der sich von Anfang an mit einer Gruppe von Jüngern, Männern und Frauen, umgab und sein öffentliches Wirken mit ihnen zusammen gelebt hat. Aber nie allein. Und als er die Zwölf aussandte, um das Reich Gottes zu verkünden, schickte er sie immer „zu zweit“. Dasselbe sehen wir beim heiligen Paulus, der immer zusammen mit Mitarbeitern das Evangelium verkündete, auch mit Laien und Ehepaaren. Nicht allein. Und so war es in den Momenten großer Erneuerung und missionarischen Aufbruchs in der Geschichte der Kirche: Hirten und gläubige Laien gemeinsam. Nicht isolierte Individuen, sondern ein Volk, welches das Evangelium verkündet, das heilige und gläubige Volk Gottes!

Ich weiß, dass ihr auch über die Ausbildung der Laien gesprochen habt, die unerlässlich ist, um die gemeinsame Verantwortung zu leben. Auch bei diesem Punkt möchte ich betonen, dass die Ausbildung auf die Sendung hin ausgerichtet sein muss, nicht nur auf Theorien, ansonsten verfällt man den Ideologien. Und es ist schrecklich, es ist eine Pest: Die Ideologie in der Kirche ist eine Pest. Um das zu verhindern, muss die Ausbildung auf die Sendung hin ausgerichtet sein. Sie darf nicht akademisch sein, auf theoretische Ideen beschränkt, sondern sie muss auch praktisch sein. Sie wächst aus dem Hören auf das Kerygma, nährt sich aus dem Wort Gottes und den Sakramenten, lässt die persönliche und gemeinschaftliche Unterscheidungskraft wachsen, bezieht von Anfang an in das Apostolat und in verschiedene, manchmal schlichte Formen des Zeugnisgebens ein, die dazu führen, anderen nah zu sein. Das Laienapostolat besteht in erster Linie darin, Zeugnis zu geben! Zeugnis der eigenen Erfahrung, der eigenen Geschichte, Zeugnis des Gebets, Zeugnis des Dienstes an den Bedürftigen, Zeugnis der Nähe zu den Armen, der Nähe zu den Einsamen, Zeugnis der Aufnahme, vor allem durch die Familien. Und so wird man für die Mission ausgebildet: indem man auf die Nächsten zugeht. Das ist eine Ausbildung „in der Praxis“ und gleichzeitig ein wirksamer Weg geistlichen Wachstums.

Von Anfang an habe ich gesagt, dass „ich von einer missionarischen Kirche träume“ (vgl. Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium, 27; 32). „Ich träume von einer missionarischen Kirche“. Und mir kommt ein Bild aus der Offenbarung in den Sinn, wo Jesus sagt: »Siehe, ich stehe vor der Tür und klopfe an. Wenn einer [...] die Tür öffnet, bei dem werde ich eintreten und Mahl mit ihm halten« (Offb 3,20). Aber das Drama der Kirche besteht heute darin, dass Jesus weiter an die Tür klopft, aber von innen, weil wir ihn hinauslassen! Oft enden wir als eine „gefangene“ Kirche, die den Herrn nicht nach draußen lässt, die ihn als „ihr Eigentum“ zurückhält, während der Herr mit einem Auftrag für uns gekommen ist und will, dass wir missionarisch sind.

Dieser Horizont gibt uns den richtigen Schlüssel zum Verständnis des Themas der Mitverantwortung der Laien in der Kirche. Tatsächlich hängt die Notwendigkeit einer Hervorhebung der Laien nämlich nicht von irgendeiner theologischen Neuigkeit ab, auch nicht von funktionalen Erfordernissen wegen der sinkenden Anzahl von Priestern, und schon gar nicht von den Forderungen eines Standes, denen, die in der Vergangenheit an den Rand gedrängt wurden, eine „Revanche“ zu gewähren. Sie beruht vielmehr auf einer korrekten Sicht von Kirche: der Kirche als Volk Gottes, dem die Laien vollberechtigt angehören wie die geweihten Amtsträger. Die geweihten Amtsträger sind also nicht Herren, sondern Diener: Hirten, nicht Herren.

Es geht darum, wieder zu einer „integralen Ekklesiologie“ zu finden, wie in den ersten Jahrhunderten, in welcher alles durch die Zugehörigkeit zu Christus und die übernatürliche Gemeinschaft mit ihm und den Brüdern und Schwestern vereint wird. So wird eine soziologische Sichtweise überwunden, die soziale Klassen und Ränge unterscheidet und im Wesentlichen auf der „Macht“ beruht, die jeder Kategorie zugewiesen wird. Die Betonung muss auf die Einheit und nicht auf die Trennung, den Unterschied, gelegt werden. Der Laie ist nicht zuerst als „Nicht-Kleriker“ oder „Nicht-Ordensangehöriger“ zu betrachten, sondern als Getaufter, als Mitglied des heiligen Volkes Gottes. Die Taufe ist das Sakrament, das alle Türen öffnet. Im Neuen Testament taucht das Wort „Laie“ nicht auf, sondern es wird von „Gläubigen“, „Jüngern“, „Brüdern“, „den Heiligen“ gesprochen, Begriffe, die auf alle angewandt werden: auf Laien und geweihte Amtsträger, das pilgernde Volk Gottes.

In diesem einen Volk Gottes, das die Kirche ist, ist das grundlegende Element die Zugehörigkeit zu Christus. In den bewegenden Märtyrerberichten der ersten Jahrhunderte finden wir oft ein einfaches Glaubensbekenntnis: „Ich bin Christ“, sagten sie, „und deshalb kann ich nicht den Götzen opfern“. Das sagt zum Beispiel Polykarp, Bischof von Smyrna;[1] das sagen Justin und andere seiner Gefährten, die Laien waren.[2] Diese Märtyrer sagen nicht: „Ich bin Bischof“ oder „ich bin Laie“, „ich bin von der „Azione Cattolica“, „ich bin von dieser marianischen Kongregation, ich bin von der Fokolar-bewegung“. Nein, sie sagen nur: „Ich bin Christ“. Auch heute, in einer zunehmend säkularisierten Welt, ist das, was uns als Volk Gottes wirklich auszeichnet, der Glaube an Christus und nicht der Lebensstand als solcher. Wir sind Getaufte, Christen, Jünger Jesu. Alles andere ist zweitrangig.  „Aber, Pater, auch ein Priester?“ – „Ja, das ist zweitrangig“ – „Auch ein Bischof?“ – „Ja, das ist zweitrangig.“ – „Auch ein Kardinal?“ – „Das ist zweitrangig“.

Unsere gemeinsame Zugehörigkeit zu Christus macht uns alle zu Brüdern und Schwestern. Das Zweite Vatikanische Konzil sagt: »Wie die Laien aus Gottes Herablassung Christus zum Bruder haben, […] so haben sie auch die geweihten Amtsträger zu Brüdern, die in Christi Autorität die Familie Gottes […] weiden« (Dogmatische Konstitution Lumen gentium, 32). Brüder und Schwestern Christi sowie Brüder und Schwestern der Priester, Brüder und Schwestern aller.

Und nach dieser auf die Einheit gerichteten Sicht von Kirche, in der wir in erster Linie getaufte Christen sind, leben die Laien in der Welt und sind gleichzeitig Teil des gläubigen Volkes Gottes. Das Dokument von Puebla drückt dies mit einer gelungenen Formulierung aus: Die Laien sind Männer und Frauen »der Kirche im Herzen der Welt« und Männer und Frauen »der Welt im Herzen der Kirche«[3]. Es stimmt, dass die Laien in erster Linie dazu berufen sind, ihre Sendung im säkularen Umfeld zu leben, in das sie täglich eingebettet sind, aber das schließt nicht aus, dass sie auch die Fähigkeiten, Charismen und Kompetenzen haben, zum Leben der Kirche beizutragen: bei der Gestaltung der Liturgie, in der Katechese, in der Ausbildung, in den Leitungsstrukturen, in der Güterverwaltung, in der Planung und Umsetzung von pastoralen Programmen und so weiter. Aus diesem Grund müssen die Seelsorger bereits im Seminar in der täglichen und normalen Zusammenarbeit mit den Laien geschult werden, damit es für sie zu einer natürlichen Handlungsweise wird, Gemeinschaft zu leben und nicht zu einem außergewöhnlichen und gelegentlichen Ereignis. Eines der schlimmsten Dinge, die einem Hirten passieren können, ist das Volk zu vergessen, aus dem er hervorgegangen ist, die mangelnde Erinnerung. Auf ihn kann das oft vorkommende Bibelwort angewandt werden: „Erinnere dich“; „erinnere dich, woher du genommen wurdest, erinnere dich der Herde, von der du genommen wurdest, um zu ihr zurückzukehren und ihr zu dienen, erinnere dich deiner Wurzeln“ (vgl. 2 Tim 1).

Diese von Laien und Hirten gemeinsam gelebte Verantwortung wird es ermöglichen, Zweiteilungen, Ängste und gegenseitiges Misstrauen zu überwinden. Es ist an der Zeit, dass Hirten und Laien in allen Bereichen des kirchlichen Lebens und in allen Teilen der Welt gemeinsam unterwegs sind! Die Laien sind keine „Gäste“ in der Kirche, sie sind dort zu Hause, und deshalb sind sie aufgerufen, sich um ihr eigenes Haus zu kümmern. Die Laien, und insbesondere die Frauen, müssen in ihren Fähigkeiten und ihren menschlichen und geistlichen Gaben für das Leben der Pfarreien und Diözesen mehr zur Geltung gebracht werden. Sie können das Evangelium durch ihre „Alltagssprache“ weitergeben und sich in verschiedenen Formen des Predigens einbringen. Sie können mit den Priestern zusammenarbeiten, um Kinder und Jugendliche heranzubilden, Verlobte bei der Ehevorbereitung zu unterstützen und Verheiratete im Ehe- und Familienleben zu begleiten. Sie müssen bei der Vorbereitung neuer pastoraler Initiativen auf allen Ebenen, auf lokaler, nationaler und universaler Ebene, stets zu Rate gezogen werden. Sie müssen in den Pastoralräten der Teilkirchen eine Stimme erhalten. Sie müssen in den Ämtern der Bistümer präsent sein. Sie können bei der geistlichen Begleitung anderer Laien helfen und auch ihren Beitrag zur Ausbildung von Seminaristen und Ordensleuten leisten. Ich habe einmal eine Frage gehört: „Pater, kann ein Laie ein geistlicher Leiter sein?“ Es ist ein Laien-Charisma! Es kann ein Priester sein, aber das Charisma ist nicht priesterlich. Die geistliche Begleitung, wenn der Herr dir die geistliche Fähigkeit dazu gibt, ist ein Laien-Charisma. Und zusammen mit den Seelsorgern müssen sie im säkularen Umfeld ein christliches Zeugnis geben: in der Welt der Arbeit, der Kultur, der Politik, der Kunst, der sozialen Kommunikation.

Wir könnten sagen: Laien und Hirten gemeinsam in der Kirche, Laien und Hirten gemeinsam in der Welt.

Mir kommen die letzten Seiten von Kardinal de Lubacs Buch Méditation sur l'Église in den Sinn, wo er auf die Frage, was das Schlimmste ist, was der Kirche passieren kann, sagt, dass geistliche Weltlichkeit, die sich in Klerikalismus ausdrückt, „unendlich verhängnisvoller wäre als jede nur moralische Weltlichkeit“. Wenn ihr Zeit habt, lest diese letzten drei bis vier Seiten von de Lubacs Méditation sur l'Église. Er gibt zu verstehen, und zitiert dazu auch einige Autoren, dass der Klerikalismus das Schlimmste ist, was der Kirche passieren kann, schlimmer noch als das, was zur Zeit der Konkubinats-Päpste geschah. Der Klerikalismus muss „ausgetrieben“ werden. Ein Priester oder Bischof, der in diese Haltung verfällt, fügt der Kirche großen Schaden zu. Aber diese Krankheit ist ansteckend: Noch schlimmer als ein Priester oder Bischof, der in den Klerikalismus verfällt, sind die klerikalisierten Laien: Bitte, sie sind eine Seuche in der Kirche. Der Laie soll Laie sein.

Liebe Freunde, mit diesen wenigen Hinweisen wollte ich ein Ideal aufzeigen, eine Anregung, die uns auf unserem Weg helfen kann. Ich würde mir wünschen, dass wir alle diese schöne Vision der Kirche in unseren Herzen und Köpfen behalten: eine Kirche, die auf die Sendung ausgerichtet ist, in der sich die Kräfte vereinen und in der man gemeinsam unterwegs ist, um das Evangelium verkünden; eine Kirche, in der das, was uns verbindet, unsere Taufe und unser Christsein ist, unsere Zugehörigkeit zu Jesus; eine Kirche, in der Laien und Hirten echte Geschwisterlichkeit leben, indem sie jeden Tag Seite an Seite arbeiten, in jedem Bereich der Pastoral, weil sie alle getauft sind.

Ich fordere euch auf, in euren Kirchen das zu fördern, was ihr in diesen Tagen empfangen habt, um gemeinsam die Erneuerung der Kirche und ihre missionarische Umkehr fortzusetzen. Von Herzen segne ich euch alle und eure Angehörigen und bitte euch, für mich zu beten. Ich danke euch.

_________________________

 

 

[1] Vgl. Eusebius von Caesarea, Kirchengeschichte, IV, 15,1-43.

 

 

[2] Vgl. Gerichtsakten des hl. Justin und seiner Gefährten, Kap. 1-5; PG 6, 1366-1371.

 

 

[3] III. Generalversammlung des Lateinamerikanischen Episkopates, Schlussdokument, Puebla 1979, Nr. 786.

 

 

[00311-DE.01] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

Queridos hermanos y hermanas, buenos días y bienvenidos.

Agradezco al Card. Farrell y saludo a todos ustedes, responsables de las Comisiones episcopales para el laicado, dirigentes de asociaciones y movimientos eclesiales, oficiales del Dicasterio y demás personas presentes.

Han venido desde sus países para reflexionar sobre la corresponsabilidad —corresponsabilidad— de los pastores y los fieles laicos en la Iglesia. El título del Congreso habla de la “llamada” a “caminar juntos”, situando el tema en el contexto más amplio de la sinodalidad. El camino que Dios está indicando a la Iglesia es precisamente el de vivir de manera más intensa y concreta la comunión, y caminar juntos. La invita a superar los modos de obrar autónomos o como las vías paralelas del tren, que nunca se encuentran: el clero separado de los laicos, los consagrados separados del clero y de los fieles, la fe intelectual de algunas élites separada de la fe popular, la Curia romana separada de las Iglesias particulares, los obispos separados de los sacerdotes, los jóvenes separados de los ancianos, los matrimonios y las familias poco implicadas en la vida de las comunidades, los movimientos carismáticos separados de las parroquias, por citar sólo algunos. Esta es la tentación más grave en este momento. Todavía queda mucho camino por recorrer para que la Iglesia viva como un cuerpo, como verdadero Pueblo, unido por la única fe en Cristo Salvador, animado por el mismo Espíritu santificador y orientado a la misma misión de anunciar el amor misericordioso de Dios Padre.

Este último aspecto es decisivo: un Pueblo unido en la misión. Y esta es la intuición que siempre debemos custodiar: la Iglesia es el santo Pueblo fiel de Dios, según lo que afirma Lumen Gentium en los nn. 8 y 12; no populismo ni elitismo, es el santo Pueblo fiel de Dios. Esto no se aprende teóricamente, se entiende viviéndolo. Después se explica, como se puede, pero si no se vive no se sabrá explicar. Un Pueblo unido en la misión. La sinodalidad encuentra su origen y su fin último en la misión, nace de la misión y está orientada a la misión. Pensemos en los orígenes, cuando Jesús envió a los apóstoles y ellos volvieron muy contentos, porque los demonios “huían de ellos”; fue la misión la que dio ese sentido eclesial. De hecho, compartir la misión acerca a los pastores y a los laicos, les da un propósito común, manifiesta la complementariedad de los diversos carismas y, por eso, suscita en todos el deseo de caminar juntos. Lo vemos en Jesús mismo, que desde el comienzo se rodeó de un grupo de discípulos, hombres y mujeres, y vivió con ellos su ministerio público. Pero nunca solo. Y cuando envió a los Doce a anunciar el Reino de Dios, los mandó “de dos en dos”. Lo mismo vemos en san Pablo, que siempre evangelizó junto a otros colaboradores, también laicos y parejas de esposos; nunca solo. Y así fue en los momentos de gran renovación e impulso misionero en la historia de la Iglesia. Pastores y fieles laicos juntos. No individuos aislados, sino un Pueblo que evangeliza, el santo Pueblo fiel de Dios.

Sé que también han hablado de la formación de los laicos, indispensable para vivir la corresponsabilidad. También sobre este punto quisiera señalar que la formación tiene que orientarse a la misión; no solamente a las teorías, de otro modo se cae en las ideologías. Y es terrible, es una peste; la ideología en la Iglesia es una peste. Para evitarlo, la formación debe estar orientada a la misión. No ha de ser escolástica, limitada a ideas teóricas, sino también práctica. Esta formación nace de la escucha del Kerygma, se alimenta con la Palabra de Dios y los sacramentos, nos ayuda a crecer en el discernimiento, personal y comunitario, nos involucra inmediatamente en el apostolado y en diversas formas de testimonio, a veces sencillos, que nos llevan a acercarnos a los demás. ¡El apostolado de los laicos es sobre todo testimonio! Testimonio de la propia experiencia, de la propia historia, testimonio de la oración, testimonio del servicio a quienes pasan necesidad, testimonio de la cercanía a los pobres, cercanía a las personas solas, testimonio de la acogida, sobre todo por parte de las familias. Y es de este modo que se nos forma para la misión: saliendo al encuentro de los demás. Es una formación “sobre el terreno” y, al mismo tiempo, un camino eficaz de crecimiento espiritual.

Desde el comienzo he dicho que “sueño con una Iglesia misionera” (cf. Exhort. ap. Evangelii gaudium, 27; 32). “Sueño una Iglesia misionera”. Y me viene a la mente una imagen del Apocalipsis, cuando Jesús dice: «Yo estoy junto a la puerta y llamo: si alguien […] me abre, entraré en su casa y cenaremos juntos» (Ap 3,20). Pero hoy el drama de la Iglesia es que Jesús sigue llamando a la puerta, pero desde el interior, ¡para que lo dejemos salir! Muchas veces se termina siendo una Iglesia “prisionera”, que no deja salir al Señor, que lo tiene como “algo propio”, mientras el Señor ha venido para la misión y nos quiere misioneros.

Este horizonte nos da la clave de lectura apropiada para el tema de la corresponsabilidad de los laicos en la Iglesia. De hecho, la exigencia de valorar a los laicos no depende de ninguna novedad teológica, ni tampoco de requerimientos funcionales por la disminución de sacerdotes; mucho menos nace de reivindicaciones de categoría, para conceder una “revancha” a quienes fueron dejados de lado en el pasado. Se basa más bien en una correcta visión de la Iglesia, la Iglesia como Pueblo de Dios, del cual los laicos forman parte con pleno derecho, junto a los ministros ordenados. Los ministros ordenados no son los patrones, sino los servidores; son pastores, no patrones.

Se trata de recuperar una “eclesiología integral”, como en los primeros siglos, en la que todo estaba unificado por la pertenencia a Cristo y la comunión sobrenatural con Él y con los hermanos, superando una visión sociológica que distingue clases y rangos sociales y que, en el fondo, se basa en el “poder” asignado a cada categoría. El acento se pone en la unidad y no en la separación, en la distinción. El laico, más que como “no clérigo” o “no religioso”, se considera como bautizado, como miembro del Pueblo santo de Dios, que es el sacramento que abre todas las puertas. En el Nuevo Testamento no aparece la palabra “laico”; más bien se habla de “creyentes”, de “discípulos”, de “hermanos”, de los “santos”; términos aplicados a todos, fieles laicos y ministros ordenados, el Pueblo de Dios en camino.

En este único Pueblo de Dios, que es la Iglesia, el elemento fundamental es la pertenencia a Cristo. En los relatos conmovedores de las Actas de los mártires de los primeros siglos, encontramos con frecuencia una sencilla profesión de fe: “Soy cristiano”, decían, “y por eso no puedo hacer sacrificios a los ídolos”. Lo dice, por ejemplo, Policarpo, obispo de Esmirna;[1] lo dicen Justino y sus otros compañeros, laicos.[2] Estos mártires no dicen “soy obispo” o “soy laico” —“soy de la Acción Católica, soy de esa Congregación mariana, soy de los Focolares”—. No, dicen solamente “soy cristiano”. También hoy, en un mundo que se seculariza cada vez más, lo que verdaderamente nos distingue como Pueblo de Dios es la fe en Cristo, no el estado de vida considerado en sí mismo. Somos bautizados, cristianos, discípulos de Jesús. Todo el resto es secundario. “Pero, Padre, ¿también un cura?” “Sí, es secundario.” “¿También un obispo?” “Sí, es secundario.” “¿También un cardenal?” “Es secundario.”

Nuestra pertenencia común a Cristo nos hace a todos hermanos. El Concilio Vaticano II afirma: «Los laicos, del mismo modo que por la benevolencia divina tienen como hermano a Cristo […], también tienen por hermanos a los que, constituidos en el sagrado ministerio […], apacientan a la familia de Dios» (Const. Lumen gentium, 32). Hermanos con Cristo y hermanos con los sacerdotes, hermanos con todos.

Y en esta visión unitaria de la Iglesia, donde somos ante todo cristianos bautizados, los laicos viven en el mundo y al mismo tiempo forman parte del Pueblo fiel de Dios. El Documento de Puebla usó una expresión feliz para decir esto: los laicos son hombres y mujeres «de Iglesia en el corazón del mundo» y hombres y mujeres «del mundo en el corazón de la Iglesia».[3] Es verdad que los laicos están llamados a vivir su misión principalmente en las realidades seculares en las que están inmersos cada día, pero eso no excluye que también tengan las capacidades, los carismas y las competencias para contribuir a la vida de la Iglesia: en la animación litúrgica, en la catequesis y en la formación, en las estructuras de gobierno, en la administración de los bienes, en la programación y puesta en marcha de los planes pastorales, etcétera. Por eso se ha de formar a los pastores, ya desde el tiempo del seminario, para una colaboración cotidiana y ordinaria con los laicos, de manera que vivir la comunión sea para ellos un modo de obrar natural, y no un hecho extraordinario y ocasional. Una de las cosas más feas que le ocurren a un pastor es olvidarse del Pueblo del que vino, la falta de memoria. Se le puede aplicar aquella palabra de la Biblia muchas veces repetida: “Acuérdate”; “acuérdate de dónde te tomaron, del rebaño del que fuiste sacado para volver a servirlo, acuérdate de tus raíces” (cf. 2 Tm, 1).

Esta corresponsabilidad vivida entre laicos y pastores permitirá superar las dicotomías, los miedos y la desconfianza mutua. Es momento de que los pastores y los laicos caminen juntos, en cada ámbito de la vida de la Iglesia, en cada lugar del mundo. Los fieles laicos no son “huéspedes” en la Iglesia; se encuentran en su propia casa, por eso están llamados a hacerse cargo de ella. Los laicos, y sobre todo las mujeres, han de ser más valorizados en sus competencias y en sus dones humanos y espirituales para la vida de las parroquias y de las diócesis. Pueden realizar el anuncio del Evangelio con su lenguaje “cotidiano”, comprometiéndose en diversas formas de predicación. Pueden colaborar con los sacerdotes para formar a los niños y a los jóvenes, para ayudar a los novios en la preparación al matrimonio y para acompañar a los esposos en la vida conyugal y familiar. Siempre que se preparen nuevas iniciativas pastorales a todo nivel —local, nacional y universal—, tienen que ser consultados. Hay que darles voz en los consejos pastorales de las Iglesias particulares. Tienen que estar presentes en las oficinas de las diócesis. Pueden ayudar en el acompañamiento espiritual de otros laicos y también ofrecer su aporte en la formación de los seminaristas y los religiosos. Una vez escuché esta pregunta: “Padre, ¿un laico puede ser director espiritual?”. ¡Es un carisma laical! Puede ser un cura, pero el carisma no es presbiteral; el acompañamiento espiritual, si el Señor te da la capacidad espiritual de hacerlo, es un carisma laical. Y, junto con los pastores, han de llevar el testimonio cristiano a los ambientes seculares: el mundo del trabajo, de la cultura, de la política, del arte, de la comunicación social.

Podríamos decir: laicos y pastores juntos en la Iglesia, laicos y pastores juntos en el mundo.

Me vienen a la mente las últimas páginas del libro del Cardenal de Lubac, Méditation sur l’Église, donde, para decir qué es lo más feo que puede suceder en la Iglesia, dice que la mundanidad espiritual, que se traduce en el clericalismo, «sería infinitamente más desastroso que cualquier mundanidad simplemente moral». Si ustedes tienen tiempo, lean estas últimas tres o cuatro páginas de Méditation sur l’Église, de de Lubac. Da a entender, también citando a otros autores, que el clericalismo es lo más feo que pueda ocurrir en la Iglesia, peor incluso que los tiempos de los Papas concubinos. El clericalismo hay que “echarlo fuera”. Un cura o un obispo que caen en esta actitud hacen mucho daño a la Iglesia. Pero es una enfermedad que se contagia; peor aún que un cura o un obispo caídos en el clericalismo son los laicos clericalizados. Por favor, son una peste en la Iglesia. Que el laico sea laico.

Queridos hermanos y hermanas, con estas pocas indicaciones quise señalar un ideal, una inspiración que puede ayudarnos en el camino. Quisiera que todos nosotros tuviéramos en el corazón y en la mente esta hermosa visión de la Iglesia: una Iglesia orientada a la misión, donde las fuerzas se unifican y caminamos juntos para evangelizar; una Iglesia donde lo que nos une es nuestro ser cristianos bautizados, nuestra pertenencia a Jesús; una Iglesia donde se vive una verdadera fraternidad entre laicos y pastores, trabajando cada día codo a codo, en todos los ámbitos de la pastoral, porque todos son bautizados.

Los exhorto a que sean promotores en sus Iglesias de todo lo que han recibido durante estos días, para continuar juntos la renovación de la Iglesia y su conversión misionera. A todos ustedes y a sus seres queridos los bendigo de corazón, y les pido por favor que recen por mí. Gracias.

_____________________

[1] Cf. Eusebio de Cesarea, Historia eclesiástica, IV, 15,1-43.

[2] Cf. Actas del martirio de los santos Justino y compañeros, cap. 1-5; PG 6, 1366-1371.

[3] III Conferencia General del Episcopado Latinoamericano, Documento final, Puebla 1979, n. 786.

[00311-ES.01] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

Amados irmãos e irmãs, bom dia e bem-vindos!

Agradeço ao Cardeal Farrell e saúdo a todos vós, responsáveis das Comissões Episcopais para o Laicado, com os dirigentes de associações e movimentos eclesiais, os oficiais do Dicastério e todos os presentes.

Viestes dos vossos países para refletir sobre a corresponsabilidade – corresponsabilidade – dos pastores e dos fiéis-leigos na Igreja. O título do Convénio fala duma «chamada» para «caminhar juntos», colocando o tema no contexto mais amplo da sinodalidade. Com efeito, a estrada que Deus está a apontar à Igreja é precisamente viver, de forma mais intensa e concreta, a comunhão e caminhar juntos. Convida-a a superar os modos autónomos de agir ou as linhas paralelas que nunca se encontram: o clero separado dos leigos, os consagrados separados do clero e dos fiéis, a fé intelectual de algumas elites separada da fé popular, a Cúria Romana separada das Igrejas Particulares, os bispos separados dos sacerdotes, os jovens separados dos idosos, os esposos e as famílias pouco envolvidos na vida das comunidades, os movimentos carismáticos separados das paróquias, etc. Esta é a tentação mais séria neste momento. Existe ainda um longo caminho a percorrer para que a Igreja viva como um corpo, como um verdadeiro Povo, unido pela única fé em Cristo Salvador, animado pelo mesmo Espírito santificador e orientado para a mesma missão de anunciar o amor misericordioso de Deus Pai.

Este último aspeto é decisivo: um Povo unido na missão. E esta é a intuição que devemos guardar sempre: a Igreja é o santo Povo fiel de Deus, segundo afirma a Lumen gentium nos nos 8 e 12; não é populismo nem elitismo, é o santo Povo fiel de Deus. Isso não se aprende teoricamente, compreende-se vivendo-o. Depois explica-se, tanto quanto possível, mas se não se vive não se conseguirá explicar. Um Povo unido na missão. A sinodalidade encontra a sua fonte e finalidade última na missão: nasce da missão e está orientada para a missão. Pensemos nos primeiros tempos, quando Jesus envia os Apóstolos e eles regressam felizes, porque os demónios «fugiam deles»: foi a missão que lhes deu aquele sentido de eclesialidade. De facto, a partilha da missão aproxima pastores e leigos, cria comunhão de intentos, manifesta a complementaridade dos diversos carismas e, consequentemente, suscita em todos o desejo de caminhar juntos. Vemo-lo no próprio Jesus, que, desde o início, Se rodeou de um grupo de discípulos, homens e mulheres, e viveu com eles o seu ministério público. Mas nunca sozinho. E quando enviou os Doze a anunciar o Reino de Deus, mandou-os «dois a dois». Vemos o mesmo em São Paulo, que sempre evangelizou juntamente com colaboradores, incluindo leigos e casais. Não sozinho. E assim foi nos momentos de grande renovação e zelo missionário na história da Igreja: pastores e fiéis-leigos juntos. Não indivíduos isolados, mas um Povo que evangeliza, o santo Povo fiel de Deus!

Sei que falastes também da formação dos leigos, indispensável para viver a corresponsabilidade. Também neste ponto gostaria de sublinhar que a formação deve estar orientada para a missão, não só para as teorias, sob pena de se terminar em ideologias. E é terrível, é uma praga: a ideologia na Igreja é uma praga. Para evitá-la, a formação deve estar orientada para a missão. Não deve ser escolástica, limitada a ideias teóricas, mas incluir também a prática. Aquela nasce da escuta do querigma, alimenta-se com a Palavra de Deus e os Sacramentos, faz crescer no discernimento pessoal e comunitário, e envolve imediatamente no apostolado e em várias formas de testemunho, por vezes simples, que levam a aproximar-se dos outros. O apostolado dos leigos é, primariamente, um testemunho. Testemunho da própria experiência, da própria história, testemunho da oração, testemunho do serviço a quem passa necessidade, testemunho da proximidade aos pobres, às pessoas sozinhas, testemunho do acolhimento, sobretudo por parte das famílias. E assim, indo ao encontro dos outros, formamo-nos para a missão. É uma formação feita «no campo de ação» e, ao mesmo tempo, um caminho eficaz de crescimento espiritual.

Desde o início, venho afirmando que sonho uma Igreja missionária (cf. Exort. ap. Evangelii gaudium, 27; 32). «Sonho uma Igreja missionária». E vem-me à memória uma imagem do Apocalipse, quando Jesus diz: «Eu estou à porta e bato: se alguém [...] me abrir a porta, Eu entrarei na sua casa e cearei com ele» (Ap 3, 20). Mas hoje o drama da Igreja é que Jesus continua a bater à porta, mas da parte de dentro, para que o deixemos sair! Muitas vezes acabamos por ser uma Igreja “prisioneira”, que não deixa o Senhor sair, que o retém como “propriedade sua”, quando o Senhor veio para a missão e quer que sejamos missionários.

Este horizonte dá-nos a correta chave de leitura para o tema da corresponsabilidade dos leigos na Igreja. Com efeito, a exigência de valorizar os leigos não deriva de uma novidade teológica qualquer, nem de exigências funcionais por causa da diminuição dos sacerdotes; e menos ainda de reivindicações de categoria, para dar a «contrapartida» a quem esteve posto de lado no passado. Pelo contrário, baseia-se numa visão correta da Igreja: a Igreja como Povo de Deus, do qual fazem parte, a pleno título, os leigos juntamente com os ministros ordenados. Por conseguinte, os ministros ordenados não são patrões, são servos: pastores, não patrões.

Trata-se de recuperar a «eclesiologia integral» dos primeiros séculos, na qual tudo se unifica pela pertença a Cristo e pela comunhão sobrenatural com Ele e com os irmãos, superando a visão sociológica que distingue classes e escalões sociais e se baseia, em última análise, no «poder» atribuído a cada categoria. A ênfase deve ser colocada na unidade, não na separação, na distinção. Mais do que como «não-clérigo» ou «não-religioso», o leigo deve ser considerado como batizado, como membro do Povo santo de Deus, que é o sacramento que abre todas as portas. No Novo Testamento, não aparece a palavra «leigo», mas fala-se de «crentes», «discípulos», «irmãos», «santos», termos que eram aplicados a todos: fiéis-leigos e ministros ordenados, o Povo de Deus a caminho.

Neste único Povo de Deus que é a Igreja, o elemento fundamental é a pertença a Cristo. Nos relatos comoventes das Atas dos Mártires dos primeiros séculos, encontramos muitas vezes uma simples profissão de fé: «Sou cristão – diziam – e por isso não posso sacrificar aos ídolos». Di-lo, por exemplo, Policarpo, bispo de Esmirna (cf. Eusébio de Cesareia, História Eclesiástica, IV, 15,1-43); di-lo Justino e outros companheiros seus, todos leigos (cf. Atas do martírio dos Santos Justino e companheiros, cap. 1-5: PG 6, 1366-1371). Estes mártires não dizem «sou bispo» ou «sou leigo» – «sou da Ação Católica, sou daquela Congregação Mariana, sou dos Focolares». Não, dizem apenas «sou cristão». Também hoje, num mundo cada vez mais secularizado, aquilo que nos distingue verdadeiramente como Povo de Deus é a fé em Cristo, não o estado de vida considerado em si mesmo. Somos batizados, cristãos, discípulos de Jesus. O resto é secundário. «Mas, Padre, também um presbítero?» – «Sim, é secundário» – «E um bispo?» – «Sim, é secundário» – «Mesmo um cardeal?» – «É secundário».

A nossa pertença comum a Cristo torna-nos todos irmãos. O Concílio Vaticano II afirma: «Os leigos, portanto, do mesmo modo que, por divina condescendência, têm por irmão a Cristo (…), de igual modo têm por irmãos aqueles que, uma vez estabelecidos no sagrado ministério, apascentam a família de Deus» (Const. dogm. Lumen gentium, 32). Irmãos com Cristo e irmãos com os sacerdotes, irmãos com todos.

Nesta visão unitária da Igreja, onde primariamente somos cristãos batizados, os leigos vivem no mundo e, ao mesmo tempo, fazem parte do Povo fiel de Deus. Para exprimir isto, o Documento de Puebla usou uma expressão feliz: os leigos são homens e mulheres «de Igreja no coração do mundo» e homens e mulheres «do mundo no coração da Igreja» (III Conferência Geral do Episcopado Latino-americano, Documento final, Puebla 1979, n. 786). É verdade que os leigos são chamados principalmente a viver a sua missão nas realidades seculares onde estão imersos dia a dia, mas isto não exclui que tenham também as capacidades, os carismas e as competências destinados a contribuir para a vida da Igreja: na animação litúrgica, na catequese e na formação, nas estruturas de governo, na administração dos bens, no planeamento e implementação dos programas pastorais, etc. Por isso, os pastores devem ser formados, desde os tempos do Seminário, para uma colaboração quotidiana e ordinária com os leigos, de tal modo que a vivência da comunhão se torne para eles um modo natural de agir, não um facto extraordinário e ocasional. Uma das piores coisas que acontece a um pastor é esquecer o Povo de onde veio, a falta de memória. A ele, pode dirigir-se aquela palavra da Bíblia muitas vezes repetida: «Lembra-te»; «Lembra-te de onde foste tirado, do rebanho de onde te retiraram para voltares a servi-lo, lembra-te das tuas raízes» (cf. 2 Tm 1).

Esta corresponsabilidade vivida entre leigos e pastores permitirá superar as dicotomias, os medos e as desconfianças recíprocas. É tempo de pastores e leigos caminharem juntos, em todas as áreas da vida da Igreja, por toda a parte do mundo. Os fiéis-leigos não são «hóspedes» na Igreja, estão na casa deles, por isso são chamados a cuidar da própria casa. Os leigos, sobretudo as mulheres, devem ser mais valorizados nas suas competências e nos seus dons humanos e espirituais para a vida das paróquias e dioceses. Podem levar o anúncio do Evangelho com a sua linguagem «quotidiana», comprometendo-se em várias formas de pregação. Podem colaborar com os sacerdotes para formar as crianças e os jovens, ajudar os noivos na preparação do matrimónio e acompanhar os esposos na vida conjugal e familiar. Devem ser sempre consultados, quando se preparam novas iniciativas pastorais a todos os níveis: local, nacional e universal. Devem ter voz nos conselhos pastorais das Igrejas particulares. Devem estar presentes nos serviços das Dioceses. Podem ajudar no acompanhamento espiritual doutros leigos e prestar a sua contribuição também na formação de seminaristas e religiosos. Uma vez ouvi esta pergunta: «Padre, um leigo pode ser diretor espiritual?». É um carisma laical! Pode ser um padre a fazê-lo, mas o carisma não é presbiteral; o acompanhamento espiritual, se o Senhor dá a capacidade espiritual para o realizar, é um carisma laical. E, juntamente com os pastores, devem levar o testemunho cristão para os ambientes seculares: o mundo do trabalho, da cultura, da política, da arte, da comunicação social.

Poderíamos dizer: leigos e pastores juntos na Igreja, leigos e pastores juntos no mundo.

Lembro-me das últimas páginas do livro do Cardeal de Lubac, Méditation sur l’Église, no qual, para dizer qual é a pior coisa que pode acontecer à Igreja, diz que a mundanidade espiritual, que se traduz no clericalismo, «seria infinitamente mais desastrosa do que qualquer mundanidade simplesmente moral». Se tiverdes tempo, lede estas três ou quatro últimas páginas de Méditation sur l’Église do Cardeal de Lubac. Dá a entender, citando também alguns autores, que o clericalismo é a pior coisa que pode acontecer à Igreja, pior ainda do que nos tempos dos papas concubinários. O clericalismo deve ser “expulso”. Um padre ou um bispo que caia nesta atitude causa um grande dano à Igreja. Mas é uma doença contagiosa: e ainda pior do que um padre ou bispo que caiu no clericalismo são os leigos clericalizados. Por favor, são uma praga na Igreja. O leigo seja leigo.

Queridos amigos, com estes poucos tópicos quis apontar um ideal, uma inspiração que nos pode ajudar no caminho. Gostaria que todos nós tivéssemos, no coração e na mente, esta bela visão da Igreja: uma Igreja voltada para a missão e onde se unificam as forças e se caminha em conjunto para evangelizar; uma Igreja onde o que nos une é o nosso ser cristão batizado, a nossa pertença a Jesus; uma Igreja onde se vive uma verdadeira fraternidade entre leigos e pastores, trabalhando lado a lado diariamente, nos diversos âmbitos da pastoral, porque todos são batizados.

Exorto a que vos façais promotores nas vossas Igrejas particulares de quanto recebestes nestes dias, para continuarmos juntos a renovação da Igreja e a sua conversão missionária. De coração abençoo a todos vós e aos vossos entes queridos, e peço-vos, por favor, que rezeis por mim. Obrigado.

[00311-PO.01] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

…………..

[00311-PL.01] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua araba

 

كلمة قداسة البابا فرنسيس

إلى المشاركين في مؤتمر رؤساء ومقرِّري اللجان الأسقفيّة للعلمانيّين للمجالس الأسقفيّة

18 شباط/فبراير 2023

قاعة السّينودس

أيّها الإخوة والأخوات الأعزّاء، صباح الخير وأهلًا وسهلًا بكم.

أشكر الكاردينال فاريل وأحيّيكم جميعًا، أنتم المسؤولين عن اللجان الأسقفيّة للعلمانيّين، ومديري الجمعيّات والحركات الكنسيّة، والعاملين في دوائر الكوريا وجميع الحاضرين.

أتيتم من بلدانكم للتّفكير والتّأمل في المسؤوليّة المشتركة للرّعاة والمؤمنين العلمانيّين في الكنيسة. عنوان المؤتمّر يتكلّم على ”الدعوة“ إلى ”السّير معًا“، ووضع الموضوع في السياق الأكبر للسّينوديّة. في الواقع، الطّريق الذي يبيّنه الله للكنيسة هو الطّريق الذي نعيش فيه الشّركة والوَحدة والسّير معًا بصورة مكثفة وعمليّة. الله يدعو الكنيسة إلى تجاوز أساليب العمل المستقلة أو المسارات المتوازية التي لا تلتقي أبدًا: الإكليروس منفصل عن العلمانيّين، والمكرّسون منفصلون عن الإكليروس والمؤمنين، وإيمان بعض النخب الفكرية منفصل عن الإيمان الشّعبي، والكوريا الرّومانيّة منفصلة عن الكنائس الخاصّة، والأساقفة منفصلون عن الكهنة، والشّباب منفصلون عن الكبار المتقدّمين في السّن، والأزواج والعائلات يشاركون قليلًا في حياة الجماعة، والحركات الكاريزماتيّة منفصلة عن الرعايا، وما إلى ذلك. هذه هي التّجربة الأخطر في هذه اللحظة. الطّريق لا يزال طويلًا أمام الكنيسة لتعيش مثل الجسد، ومثل شعب حقيقيّ، متَّحدٍ بالإيمان الواحد بالمسيح المخلّص، ومليءٍ بنفس الرّوح الذي يقدِّس، ويوجّه نحو الرّسالة نفسها لإعلان محبّة الله الآب الرّحيم.

هذا الجانب الأخير أمر حاسم: شعب موحّد في الرّسالة. السّينوديّة تجد ينبوعها وهدفها الأخير في الرّسالة. وهذا هو الحَدس الذي يجب أن نحافظ عليه دائمًا: الكنيسة هي شعب الله المقدّس المؤمن، بحسب ما يؤكّده الدّستور العقائدي نور الأمم في الأعداد 8 و 12: لا شعبويّة ولا نخبويّة، بل شعب الله المقدّس المؤمن. لا يمكن أن نتعلّم ذلك الأمر نظريًّا، بل يمكن أن نفهمه إن عشناه. ثمّ نشرحه، على قدر ما نستطيع، ولكن إن لم نعشه، لن نتمكّن من شرحه. شعب موحّد في الرّسالة. السّينوديّة تولَد من الرّسالة وهي موجّهة نحو الرّسالة. لنفكّر في البدايات، عندما أرسل يسوع الرّسل ورجعوا كلّهم فرحين، وكيف هربت منهم الشّياطين: كانت الرّسالة هي التي أتت بإحساس الكنسيّة هذا. في الواقع، المشاركة في الرّسالة تقرّب بين الرّعاة والعلمانيّين، وتخلق شركة ووَحدة في النوايا والأهداف، وتُظهِر تكامل المواهب المختلفة، وبالتالي تُنعش في الجميع الرّغبة في السّير معًا. نرى ذلك في يسوع نفسه، الذي أحاط نفسه، منذ البداية، بمجموعة من التّلاميذ، رجالًا ونساءً، وعاش خدمته العامّة معهم. لم يكن قط وحده. وعندما أرسل الاثني عشر ليعلنوا ملكوت الله، أرسلهم ”اثنين اثنين“. نرى الشّيء نفسه في القدّيس بولس، الذي بشّر دائمًا مع معاونين، وكانوا أيضًا علمانيّين وأزواجًا. لم يكن وحده. وهكذا كان في فترات التّجديد الكبرى وانطلاق الرّسالات في تاريخ الكنيسة: الرّعاة والمؤمنون العلمانيّون معًا. ليسوا أفرادًا منعزلين بل شعبٌ يبشّر، شعب الله المقدّس المؤمن!

أعلَم أنّكم تكلّمتم أيضًا على تنشئة العلمانيّين، وهو أمر لا بدَّ منه لعيش المسؤوليّة المشتركة. في هذه النقطة أيضًا أودّ أن أؤكّد أنّ التّنشئة يجب أن تكون موجّهة نحو الرّسالة، وليس فقط نحو النّظريّات، وإلّا ستسقط في الأيديولوجيّات. وهذا أمر فظيع، وهو وباء: الأيديولوجيّة في الكنيسة هي وباء. ولكي نتجنّب ذلك، التّنشئة يجب أن تكون موجّهة نحو الرّسالة. في هذا الموضوع أيضًا، أودّ أن أؤكّد أنّ التّنشئة يجب أن تكون موجّهة نحو الرّسالة. يجب ألّا تكون مدرسيّة، ومحدّدة في أفكار نظريّة، بل يجب أن تكون عمليّة أيضًا. إنّها تولَد من الاصغاء إلى إعلان البشرى السّارّة (Kerygma)، وتتغذى بكلمة الله والأسرار المقدّسة، وتنمو في التّمييز الشّخصي والجماعيّ، وتوجِّه فورًا إلى الالتزام بالعمل الرّسوليّ وأشكال الشّهادة المختلفة، والتي تكون أحيانًا بسيطة، وتقودنا إلى أن نكون قريبين من الآخرين. عَمَلُ العلمانيّين الرّسوليّ هو قبل كلّ شيء شهادة! شهادة الخبرة الشّخصيّة، وشهادة التّاريخ الشّخصيّ، وشهادة الصّلاة، وشهادة خدمة المحتاجين، وشهادة القرب من الفقراء والأشخاص الوحيدين، وشهادة قبول الآخرين، وخاصّة من قِبَلِ العائلات. وهكذا تتمّ التّنشئة للرسالة: بأن نذهب نحو الآخرين. إنّها تنشئة ”في الميدان“ وفي نفس الوقت هي طريقة فعّالة للنمو الرّوحيّ.

منذ البداية قُلتُ إنّي ”أحلم بكنيسة مرسلة“ (راجع الإرشاد الرّسولي، فرح الإنجيل، 27؛ 32). ”أحلم بكنيسة مرسلة“. تتبادر إلى ذِهني صورة من سفر الرّؤيا، عندما قال يسوع: "هاءَنَذا واقِفٌ على البابِ أَقرَعُه، فإِن سَمِعَ أَحَدٌ صَوتي وفَتَحَ الباب، دَخَلتُ إِلَيه وتَعَشَّيتُ معه" (سفر الرّؤيا 3، 20) لكن، مأساة الكنيسة اليوم هي أنّ يسوع مازال يقرع الباب، لكن من الدّاخل، حتّى نتركه يخرج! غالبًا نَنتَهِي بأن نكون كنيسة ”سَجِينَة“، التي لا تسمح للرّبّ يسوع بأن يخرج، بل تحتفظ به مثل ”مُقتَنَاهَا الخاصّ“، بينما جاء الرّبّ يسوع من أجل الرّسالة ويريدنا أن نكون مُرسلين.

هذا الأفق يعطينا مفتاح القراءة الصّحيح لموضوع المسؤوليّة المشتركة للعلمانيّين في الكنيسة. في الواقع، ضرورة تقدّير العلمانيّين ليست مسألة تجديد لاهوتيّ، ولا هي مقتضيّات وظيفيّة بسبب تناقص عدد الكهنة، ولا هي استجابة لادعاءات بعض الفئات، كما لو أردنا ”التّعويض“ للذين تمَّت تنحيتهم جانبًا في الماضي. بل القضيّة هي رؤيّة صحيحة للكنيسة: الكنيسة شعب الله، والعلمانيّون فيها أعضاء كاملون مع الخدام المكرّسين. إذًا، الخدّام المكرّسون ليسوا أسيادًا، بل هُم خدام. إنّهم رُعاة، وليس أسيادًا.

إنّه استعادة ”لاهوت كنسيّ متكامل“، كما كان في القرون الأولى: كلّ شيء كان واحدًا في الكنيسة بالانتماء إلى المسيح وبالشّركة والوَحدة الفائقة الطّبيعة معه ومع الإخوة، متجاوزين بذلك الرّؤية الاجتماعيّة التي تميّز بين الطّبقات والمناصب الاجتماعيّة، التي تعتمد في النّهاية على ”السُّلطة“ المخصّصة لكلّ فئة. يجب أن نركّز على الوَحدة لا على الانفصال والتّمييز. فلا يقال إنّ العلمانيّ هو الذي ”ليس إكليريكيًّا“ أو ”ليس راهبًا“، بل هو المُعمّد، وهو عضو في شعب الله المقدّس، وسرّ المعموديّة هو السّرّ المقدّس الذي يفتح كلّ الأبواب. كلمة ”علمانيّ“ لا تظهر في العهد الجديد، بل يرِد الكلام على ”مؤمنين“ و ”تلاميذ“ و ”إخوة“ و ”قدّيسين“، وهي مصطلحات تنطبق على الجميع: على المؤمنين العلمانيّين والخدّام المكرّسين، وهُم شعب الله في مسيرة.

في شعب الله الواحد هذا، الذي هو الكنيسة، العُنصر الأساسيّ هو الانتماء إلى المسيح. في ”كتب السّيرة المؤثّرة“ لشهداء القرون الأولى، نجد غالبًا اعترافًا بسيطًا بالإيمان. كانوا يقولون: ”أنا مسيحيّ“، ”ولهذا لا يمكنني أن أقدّم قربانًا للأصنام“. على سبيل المثال، قال ذلك بوليكاربوس، أسقف إزمير[1]، وقال ذلك أيضًا يوستينوس وآخرون من رفقائه، العلمانيّين[2]. هؤلاء الشّهداء لم يَكونوا يقُولون ”أنا أُسقف“ أو ”أنا علمانيّ“ - ”أو أنا من الحركة الكاثوليكيّة، أو من الرّهبنة المريميّة، أو من الفوكولاري“. لا، بل كانوا يقولون: ”أنا مسيحيّ“. اليوم أيضًا، في عالمٍ تزداد فيه العَلمَنَة، ما يميّزنا حقًّا كشعب لله هو الإيمان بالمسيح، وليس نوع الحياة في حدّ ذاته. نحن مُعمّدون، ومسيحيّون، وتلاميذ ليسوع. وكل ما تبقّى أمر ثانويّ. قد يقول قائلٌ: ”يا أبتِ، والكاهن أيضًا؟“ - ”نعم، هو أمرٌ ثانويّ“ – ”والأسقف أيضًا؟“ - ”نعم، هو أمرٌ ثانويّ“ – ”والكردينال أيضًا؟“ - ”نعم، هو أمرٌ ثانويّ“.

انتماؤنا المشترك إلى المسيح يجعلنا كلّنا إخوة. أكّد المجمع الفاتيكاني الثّاني ما يلي: "فكما أنّ العَلمانيّين، أصبحوا بفضلِ الله، إخوةً للمسيحِ، [...] فهم أيضًا إخوة للذين خُصصِّوا للخدمةِ المقدّسة، [...] ليكونوا رعاة عائلةِ الله" (دستور عقائدي في الكنيسة، نور الأمم، 32). إخوة للمسيح وإخوة للكهنة، وإخوة للجميع.

وفي هذه الرّؤية الموحّدة للكنيسة، حيث نحن أوّلًا مسيحيّون معمّدون، يعيش العلمانيّون في العالم وهم في الوقت نفسه جُزءٌ من شعب الله المؤمن. استخدمَت وثيقة بويبلا عبارة موفَّقة للتّعبير عن هذه الحقيقة: العلمانيّون هُم رجالُ ونساءُ "الكنيسة في قلب العالم" ورجالُ ونساءُ "العالم في قلب الكنيسة"[3]. صحيح أنّ العلمانيّين مدعوّون أساسًا إلى أن يعيشوا رسالتهم في الواقع العلمانيّ الذي هُم مُنغمسون فيه كلّ يوم، لكن ذلك لا يستبعد أن يكون لديهم أيضًا القُدُرات والمواهب والمهارات لكي يساهموا في حياة الكنيسة: في التّنشيط الليتورجيّ، وفي الكرازة، وفي التّنشئة، وفي مراكز القيادة، وفي إدارة الممتلكات، وفي تخطيط وتنفيذ البرامج الرّعويّة، وما إلى ذلك. لهذا السّبب، يجب تنشئة الرّعاة، منذ وقت وجودهم في الإكليريكيّة، على تعاون يوميّ وعاديّ مع العلمانيّين، حتّى يُصبح عيش الشّركة والوَحدة بالنّسبة لهم طريقة طبيعيّة للعمل، وليس أمرًا غير عاديّ أو عَرَضيًّا. واحدة من الأمور الأكثر سوءًا يمكن أن تحدث للرّاعي هي أن ينسى الشّعب الذي منه أتى، أن ينسى ذاكرة تاريخه. يمكننا أن نوجّه إليه الكلمة التي في الكتاب المقدّس، والتي تردّدت كثيرًا: ”اذكُرْ“، ”اذكُرْ من أين أُخِذت، والقطيع الذي مِنهُ أُخِذت لكي ترجع وتخدمه، واذكُرْ جُذورَك“ (راجع 2 طيموتاوس 1).

هذه المسؤوليّة المشتركة التي يعيشها العلمانيّون والرّعاة ستسمح لهم بأن يتجاوزوا الانقسامات والمخاوف وانعدام الثّقة المتبادل. حان الوقت لأن يسير الرّعاة والعلمانيّون معًا، في كلّ مجالٍ من مجالات حياة الكنيسة، وفي كلّ ناحية من العالم! المؤمنون العلمانيّون ليسوا ”ضيوفًا“ في الكنيسة، بل هم في بَيتِهم، لذلك هُم مدعوّون إلى أن يعتنوا ببيتهم. العلمانيّون، وخصوصًا النّساء، يجب أن يُقدَّروا بشكلٍ أكبر في مهاراتهم وفي مواهبهم الإنسانيّة والرّوحيّة من أجل حياة الرّعايا والأبرشيّات. يمكنهم أن يحملوا بشارة الإنجيل بلغتهم ”اليوميّة“، ويلتزموا في أشكال مختلفة من الوعظ. يمكنهم أن يتعاونوا مع الكهنة لتنشئة الأطفال والشّباب، ولمساعدة المخطوبين للاستعداد للزّواج، ولمرافقة الأزواج في الحياة الزوجيّة والعائليّة. يجب استشارتهم دائمًا عندما يتمّ إعداد مبادرات رعويّة جديدة على كلّ المستويّات، المحلّيّة والوطنيّة والعالميّة. يجب أن يكون لهم صوت في المجالس الرّعويّة في الكنائس الخاصّة. يجب أن يكونوا حاضرين في مكاتب الأبرشيّات. يمكنهم أن يساعدوا في المرافقة الرّوحيّة لعلمانيّين آخرين ويقدّموا أيضًا مساهمتهم في تنشئة الإكليريكيّين والرّهبان. سَمِعتُ مرّة السّؤال التّالي: ”أبتِ، هل يمكن للعلمانيّ أن يكون مرشدًا روحيًّا؟“. إنّها موهبة علمانيّة! يمكن أن يكون كاهنًا، لكن الموهبة ليست كهنوتيّة. والمرافقة الروحيّة، إن أعطاك الرّبّ يسوع القدرة الروحيّة لتقوم بها، فهي موهبة علمانيّة. وعليهم أن يحملوا مع الرّعاة الشّهادة المسيحيّة في كلّ مجالات الحياة العلمانيّة: في عالم العمل، والثّقافة، والسّياسة، والفَن، والتّواصل الاجتماعيّ.

يمكننا أن نقول: العلمانيّون والرُّعاة معًا في الكنيسة، والعلمانيّون والرُّعاة معًا في العالم.

تتبادر إلى ذِهني الصّفحات الأخيرة من كتاب الكاردينال دي لوباك، تأمّلات في الكنيسة، الذي لكي يقول ما هو أسوأ أمر يمكن أن يحدث للكنيسة، قال إن روح الدنيا، التي نراها في روح التّسلّط الإكليريكيّ، "ستكون كارثيّة بصورة غير محدودة أكثر من أيّ روح دنيا أخلاقيّة". إن كان عندكم وقت، اقرأوا هذه الصّفحات الثّلاثة أو الأربعة الأخيرة من كتاب تأمّلات في الكنيسة للكاردينال دي لوباك. يجعلنا نفهم، ويذكر أيضًا بعض المؤلّفين، أنّ روح التّسلّط الإكليريكيّ هي أسوأ أمرٍ يمكن أن يحدث للكنيسة، وهي أسوأ أيضًا من حقبة الباباوات السّريّة. يجب ”نَطرد“ روح التّسلّط الإكليريكيّ. الكاهن أو الأسقف الذي يقع في هذا التّصرّف يُسيء كثيرًا إلى الكنيسة. وهي مرضٌ مُعدٍ: فالعلمانيّون الذين عندهم روح التّسلّط الإكليريكيّ هُم أسوأ بكثير من الكاهن أو الأسقف الذين وقعوا في نفس الرّوح: من فضلكم، إنّهم علّةٌ في الكنيسة. ليكن العلمانيّ علمانيًّا.

أيّها الأعزّاء، بهذه التّوجيهات القليلة، أردتُ أن أقدّم نموذجًا، وإلهامًا يمكن أن يساعدنا في مسيرتنا. أودّ أن يكون لدينا جميعًا، في قلوبنا وعقولنا، هذه الرّؤية الجميلة للكنيسة: كنيسة مندفعة إلى الرّسالة وحيث تتّحد القِوَى ونَسير معًا لنبشّر، وكنيسة ما يجمع بيننا فيها هو كوننا مسيحيّين مُعمَّدين، وننتمي إلى يسوع، وكنيسة حيث تُعاش أخوّة حقيقيّة بين العلمانيّين والرّعاة، فيعملون جنبًا إلى جنب، وكلّ يوم، وفي كلّ مجالات الحياة الرّعوية، لأنّهم كلّهم مُعمَّدون.

أدعوكم إلى أن تكونوا في كنائسكم مشجّعين لما تلقّيتموه في هذه الأيّام، حتّى نُكمل معًا تَجديد الكنيسة وعودتها إلى الرّسالة. أبارككم جميعًا من كلّ قلبي وأبارك أحبّاءكم، وأطلب منكم من فضلكم أن تصلّوا من أجلي. شكرًا.

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[1] راجع يوسابيوس القيصريّ، التّاريخ الكنسيّ، المجلّد الرّابع، 15، 1-43.

[2] راجع أعمال استشهاد القدّيسين يوستينوس ورفقائه، الفصل 1-5؛ المؤلفات اليونانيّة لأباء الكنيسة 6، 1366-1371.

[3] لقاء المجلس العامّ الثّالث لأساقفة أمريكا اللاتينيّة، الوثيقة النّهائيّة، بويبلا 1979، رقم 786.

[00311-AR.01] [Testo originale: Italiano]

[B0143-XX.03]