Sala Stampa

www.vatican.va

Sala Stampa Back Top Print Pdf
Sala Stampa


Viaggio Apostolico di Sua Santità Francesco nella Repubblica Democratica del Congo e in Sud Sudan (Pellegrinaggio Ecumenico di Pace in Sud Sudan) (31 gennaio - 5 febbraio 2023) - Incontro con i Vescovi, i Sacerdoti, i Diaconi, i Consacrati e le Consacrate e i Seminaristi presso la Cattedrale di S. Teresa di Giuba, 04.02.2023


Incontro con i Vescovi, i Sacerdoti, i Diaconi, i Consacrati e le Consacrate ed i Seminaristi presso la Cattedrale di S. Teresa di Giuba

Discorso del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Traduzione in lingua araba

Questa mattina, dopo aver celebrato la Santa Messa in privato, il Santo Padre Francesco si è trasferito in auto alla Cattedrale di S. Teresa di Giuba per l’incontro con i Vescovi, i Sacerdoti, i Diaconi, i Consacrati e le Consacrate ed i Seminaristi.

Al Suo arrivo alle ore 9.10 (8.10 ora di Roma), il Papa è stato accolto dall’Arcivescovo di Giuba, S.E. Mons. Stephen Ameyu Martin Mulla, e dal parroco che gli ha porto la croce e l’acqua benedetta. Insieme hanno percorso la navata centrale per raggiungere l’altare. Quindi, dopo il canto d’ingresso e il saluto del Presidente della Conferenza Episcopale del Sudan, S.E. Mons. Yunan Tombe Trille Kuku Andali, Vescovo di El Obeid, un sacerdote ed una suora hanno portato la loro testimonianza. Papa Francesco ha pronunciato poi il Suo discorso.

Al termine, dopo la benedizione e il canto finale, il Santo Padre ha posato per una foto di gruppo con i Vescovi. Secondo le autorità locali erano presenti 5000 fedeli, di cui 1000 in chiesa, per l’incontro.

Quindi è rientrato in auto alla Nunziatura Apostolica di Giuba dove - alle ore 11.00 (10.00 ora di Roma) – ha incontrato in forma privata i Membri della Compagnia di Gesù presenti nel Paese. Al termine dell’incontro, ha pranzato in privato.

Pubblichiamo di seguito il discorso che il Santo Padre ha pronunciato nel corso dell’incontro con i Vescovi, i Sacerdoti, i Diaconi, i Consacrati e le Consacrate ed i Seminaristi:

Discorso del Santo Padre

Cari fratelli Vescovi, presbiteri e diaconi,
cari consacrati e consacrate,
cari seminaristi, novizie e novizi e aspiranti, buongiorno a tutti!

Da tempo coltivavo il desiderio di incontrarvi; per questo oggi vorrei ringraziare il Signore. Sono grato a Mons. Tombe Trille per il suo saluto e a tutti voi per la presenza e per il vostro saluto! Alcuni hanno fatto giorni di strada per essere qui oggi! Porto sempre scolpiti nel cuore alcuni momenti vissuti prima di questa visita: la celebrazione a San Pietro nel 2017, durante la quale abbiamo elevato la supplica a Dio per il dono della pace; e il ritiro spirituale del 2019 con i Leader politici, invitati affinché, attraverso la preghiera, prendessero nel cuore la ferma decisione di perseguire la riconciliazione e la fraternità nel Paese. Abbiamo anzitutto bisogno di questo: di accogliere Gesù, nostra pace e nostra speranza.

Nel mio discorso di ieri mi sono ispirato al corso delle acque del Nilo, che attraversa il vostro Paese come se fosse la sua spina dorsale. Nella Bibbia, all’acqua sono spesso associate l’azione di Dio creatore, la compassione con cui ci disseta quando ci troviamo a vagare nel deserto, la misericordia con cui ci purifica quando cadiamo nelle paludi del peccato; Egli, nel Battesimo, ci ha santificati «con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo» (Tt 3,5). Proprio secondo una prospettiva biblica vorrei guardare nuovamente alle acque del Nilo. Da una parte, nel letto di questo corso d’acqua si riversano le lacrime di un popolo immerso nella sofferenza e nel dolore, martoriato dalla violenza; un popolo che può pregare come il salmista: «Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo» (Sal 137,1). Le acque del grande fiume, infatti, raccolgono i gemiti sofferenti delle vostre comunità, raccolgono il grido di dolore di tante vite spezzate, raccolgono il dramma di un popolo in fuga, l’afflizione del cuore delle donne e la paura impressa negli occhi dei bambini. Si vede, la paura, negli occhi dei bambini. Allo stesso tempo, però, le acque del grande fiume ci riportano alla storia di Mosè e, perciò, sono segno di liberazione e di salvezza: da quelle acque, infatti, Mosè è stato salvato e, conducendo i suoi in mezzo al Mar Rosso, è diventato strumento di liberazione, icona del soccorso di Dio che vede l’afflizione dei suoi figli, ascolta il loro grido e scende a liberarli (cfr Es 3,7). Guardando alla storia di Mosè, che ha guidato il Popolo di Dio attraverso il deserto, chiediamoci che cosa significa essere ministri di Dio in una storia attraversata dalla guerra, dall’odio, dalla violenza, dalla povertà. Come esercitare il ministero in questa terra, lungo le sponde di un fiume bagnato da tanto sangue innocente, mentre i volti delle persone a noi affidate sono solcati dalle lacrime del dolore? Questa è la domanda. E quando parlo di ministero, lo faccio in senso largo: ministero presbiterale, diaconale e ministero catechistico, di insegnamento, che fanno tanti consacrati, consacrate e laici.

Per provare a rispondere, vorrei soffermarmi su due atteggiamenti di Mosè: la docilità e l’intercessione. Credo che queste due cose toccano la nostra vita, qui.

La prima cosa che colpisce della storia di Mosè è la sua docilità all’iniziativa di Dio. Non dobbiamo pensare, però, che sia sempre stato così: in un primo tempo egli aveva preteso di portare avanti da solo il tentativo di combattere l’ingiustizia e l’oppressione. Salvato dalla figlia del faraone nelle acque del Nilo, quando aveva scoperto la sua identità si era lasciato toccare dalla sofferenza e dall’umiliazione dei suoi fratelli, tanto che un giorno aveva deciso di fare giustizia da solo, colpendo a morte un egiziano che maltrattava un ebreo. A seguito di questo episodio, però, era dovuto scappare e restare per lunghi anni nel deserto. Lì sperimentò una sorta di deserto interiore: aveva pensato di affrontare l’ingiustizia con le sue sole forze e adesso, come conseguenza, si ritrovava ad essere un fuggitivo, a doversi nascondere, a vivere nella solitudine, a sperimentare il senso amaro del fallimento. Mi domando: qual era stato l’errore di Mosè? Pensare di essere lui il centro, contando solo sulle sue forze. Ma così era rimasto prigioniero dei peggiori metodi umani, come quello di rispondere alla violenza con la violenza.

A volte qualcosa di simile può capitare anche nella nostra vita di sacerdoti, diaconi, religiosi, seminaristi, consacrate, consacrati, tutti: sotto sotto pensiamo di essere noi il centro, di poterci affidare, se non in teoria almeno in pratica, quasi esclusivamente alla nostra bravura; o, come Chiesa, di trovare la risposta alle sofferenze e ai bisogni del popolo attraverso strumenti umani, come il denaro, la furbizia, il potere. Invece, la nostra opera viene da Dio: Lui è il Signore e noi siamo chiamati a essere docili strumenti nelle sue mani. Mosè apprende questo quando, un giorno, Dio gli viene incontro, apparendogli «in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto» (Es 3,2). Mosè si lascia attrarre, fa spazio allo stupore, si mette nell’atteggiamento della docilità per lasciarsi illuminare dal fascino di quel fuoco, di fronte al quale pensa: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?» (v. 3).Ecco la docilità che serve al nostro ministero: avvicinarci a Dio con stupore e umiltà. Sorelle e fratelli, non perdete lo stupore dell’incontro con Dio! Non perdete lo stupore del contatto con la Parola di Dio. Mosè si è lasciato attrarre e orientare da Dio. Il primato non è a noi, il primato è a Dio: affidarci alla sua Parola prima di servirci delle nostre parole, accogliere docilmente la sua iniziativa prima di puntare sui nostri progetti personali ed ecclesiali.

È questo lasciarci plasmare docilmente che ci fa vivere in modo rinnovato il ministero. Davanti al Buon Pastore, comprendiamo che non siamo capi tribù, ma Pastori compassionevoli e misericordiosi; non padroni del popolo, ma servi che si chinano a lavare i piedi dei fratelli e delle sorelle; non siamo un’organizzazione mondana che amministra beni terreni, ma siamo la comunità dei figli di Dio. Sorelle e fratelli, facciamo allora come Mosè al cospetto di Dio: togliamoci i sandali con umile rispetto (cfr v. 5), spogliamoci della nostra presunzione umana, lasciamoci attrarre dal Signore e coltiviamo l’incontro con Lui nella preghiera; accostiamoci ogni giorno al mistero di Dio, perché ci stupisca e perché bruci le sterpaglie del nostro orgoglio e delle nostre ambizioni smodate e ci renda umili compagni di viaggio di quanti ci sono affidati.

Purificato e illuminato dal fuoco divino, Mosè diventa strumento di salvezza per i suoi che soffrono; la docilità verso Dio lo rende capace di intercedere per i fratelli. Ecco il secondo atteggiamento di cui vorrei parlarvi oggi: l’intercessione. Mosè ha fatto esperienza di un Dio compassionevole, che non resta indifferente davanti al grido del suo popolo e scende a liberarlo. È bello questo: scendere. Dio scende a liberarlo. Dio, per la sua condiscendenza nei nostri riguardi, viene in mezzo a noi fino ad assumere in Gesù la nostra carne, provare la nostra morte e i nostri inferi. Sempre scende per rialzarci e chi fa esperienza di Lui è portato a imitarlo. Così fa Mosè, che “scende” in mezzo ai suoi: lo farà più volte durante la traversata nel deserto. Egli, infatti, nei momenti più importanti e difficili, sale e scende dal monte della presenza di Dio al fine di intercedere per il popolo, cioè di mettersi dentro alla sua storia per avvicinarlo a Dio. Fratelli e sorelle, intercedere «non vuol dire semplicemente “pregare per qualcuno”, come spesso pensiamo. Etimologicamente significa “fare un passo in mezzo”, fare un passo in modo da mettersi nel mezzo di una situazione» (C.M. Martini, Un grido di intercessione, Milano, 29 gennaio 1991). A volte non si ottiene molto, ma bisogna farlo: un grido di intercessione. Intercedere è quindi scendere per mettersi in mezzo al popolo, “farsi ponti” che lo collegano a Dio.

Ai Pastori è richiesto di sviluppare proprio quest’arte di “camminare in mezzo”. Dev’essere la specialità dei pastori, camminare in messo: in mezzo alle sofferenze, in mezzo alle lacrime, in mezzo alla fame di Dio e alla sete di amore dei fratelli e delle sorelle. Il nostro primo dovere non è quello di essere una Chiesa perfettamente organizzata – questo lo può fare qualsiasi ditta –, ma una Chiesa che, in nome di Cristo, sta in mezzo alla vita sofferta del popolo e si sporca le mani per la gente. Mai dobbiamo esercitare il ministero inseguendo il prestigio religioso e sociale – quel brutto “fare carriera” –, ma camminando in mezzo e insieme, imparando ad ascoltare e a dialogare, collaborando tra noi ministri e con i laici. Ecco, vorrei ripetere questa parola importante: insieme. Non dimentichiamola: insieme. Vescovi e preti, preti e diaconi, pastori e seminaristi, ministri ordinati e religiosi, sempre nutrendo rispetto per la meravigliosa specificità della vita religiosa: cerchiamo di vincere tra di noi la tentazione dell’individualismo, degli interessi di parte. È molto triste quando i Pastori non sono capaci di comunione, non riescono a collaborare, addirittura si ignorano tra loro! Coltiviamo il rispetto reciproco, la vicinanza, la collaborazione concreta. Se ciò non accade tra di noi, come possiamo predicarlo agli altri?

Torniamo a Mosè e, per approfondire l’arte dell’intercessione, guardiamo alle sue mani. La Scrittura ci offre tre immagini al riguardo: Mosè col bastone in mano, Mosè con le mani protese, Mosè con le mani alzate al cielo.

La prima immagine, quella di Mosè col bastone in mano, ci dice che egli intercede con la profezia. Con quel bastone compirà dei prodigi, segni della presenza e della potenza di Dio, nel nome del quale parla, denunciando ad alta voce il male che il popolo soffre e chiedendo al faraone di lasciarlo partire. Fratelli e sorelle, per intercedere a favore del nostro popolo siamo chiamati anche noi ad alzare la voce contro l’ingiustizia e la prevaricazione, che schiacciano la gente e si servono della violenza per gestire gli affari all’ombra dei conflitti. Se vogliamo essere Pastori che intercedono, non possiamo restare neutrali dinanzi al dolore provocato dalle ingiustizie e dalle violenze perché, là dove una donna o un uomo vengono feriti nei loro diritti fondamentali, Cristo stesso è offeso. Sono stato contento di ascoltare nella testimonianza di Padre Luka che la Chiesa non smette di portare avanti un ministero insieme profetico e pastorale. Grazie! Grazie perché, se c’è una tentazione da cui dobbiamo guardarci, è quella di lasciare le cose come stanno e non interessarci delle situazioni per paura di perdere privilegi e convenienze.

Seconda immagine: Mosè con le mani protese. Egli, dice la Scrittura, «stese la mano sul mare» (Es 14,21). Le sue mani distese sono il segno che Dio sta per operare. In seguito, Mosè terrà tra le mani le tavole della Legge (cfr Es 34,29) per mostrarle al popolo; le sue mani protese indicano la vicinanza di Dio che è all’opera e accompagna il suo popolo. Per liberare dal male non basta infatti la profezia, occorre protendere le braccia ai fratelli e alle sorelle, sostenere il loro cammino. Accarezzare il gregge di Dio. Possiamo immaginare Mosè che indica il percorso e stringe le mani dei suoi per incoraggiarli ad andare avanti. Per quarant’anni, da anziano, rimane accanto ai suoi: ecco la vicinanza. E non è stato un compito facile: egli spesso ha dovuto rianimare un popolo scoraggiato e stanco, affamato e assetato, a volte anche capriccioso, che si lasciava andare alla mormorazione e alla pigrizia. E per esercitare tale compito ha dovuto anche lottare con sé stesso, perché a volte ha vissuto momenti di oscurità e di desolazione, come quello in cui disse al Signore: «Perché hai fatto del male al tuo servo? Perché non ho trovato grazia ai tuoi occhi, al punto di impormi il peso di tutto questo popolo? [...] Non posso io da solo portare il peso di tutto questo popolo; è troppo pesante per me» (Nm 11,11.14). Guarda la preghiera di Mosè: è stanco. Eppure, Mosè non si è ritirato: sempre vicino a Dio, non si è mai allontanato dai suoi. Anche noi abbiamo questo compito: tendere le mani, rialzare i fratelli, ricordare loro che Dio è fedele alle sue promesse, esortarli ad andare avanti. Le nostre mani sono state “unte di Spirito” non solo per i sacri riti, ma per incoraggiare, aiutare, accompagnare le persone ad uscire da ciò che le paralizza, le chiude e le rende timorose.

Infine – terza immagine –: le mani alzate al cielo. Quando il popolo cade nel peccato e si costruisce un vitello d’oro, Mosè sale di nuovo sul Monte – pensiamo a quanta pazienza! – e pronuncia una preghiera che è una vera e propria lotta con Dio perché non abbandoni Israele. Arriva a dire: «Questo popolo ha commesso un grande peccato: si sono fatti un dio d’oro.Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato… Altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto!» (Es 32,31-32). Si schiera dalla parte del popolo fino alla fine, alza la mano in suo favore. Non pensa a salvarsi da solo, non vende il popolo per i propri interessi! Intercede. Mosè intercede, Mosè lotta con Dio; tiene le braccia alzate in preghiera mentre i suoi fratelli combattono a valle (cfr Es 17,8-16). Sostenere con la preghiera davanti a Dio le lotte del popolo, attirare il perdono, amministrare la riconciliazione come canali della misericordia di Dio che rimette i peccati: questo è il nostro compito di intercessori!

Carissimi, queste mani profetiche, protese e alzate costano fatica, non è facile. Essere profeti, accompagnatori, intercessori, mostrare con la vita il mistero della vicinanza di Dio al suo Popolo può richiedere la vita stessa. Tanti sacerdoti, religiose e religiosi – come suor Regina ci ha detto delle sue sorelle – sono rimasti vittime di violenze e attentati in cui hanno perso la vita. In realtà, l’esistenza l’hanno offerta per la causa del Vangelo e la loro vicinanza ai fratelli e alle sorelle è una testimonianza meravigliosa che ci lasciano e che ci invita a portare avanti il loro cammino. Possiamo ricordare San Daniele Comboni, che con i suoi fratelli missionari ha compiuto in questa terra una grande opera di evangelizzazione: egli diceva che il missionario dev’essere disposto a tutto per Cristo e per il Vangelo, e che c’è bisogno di anime ardite e generose che sappiano patire e morire per l’Africa.

Allora io vorrei ringraziarvi per quello che fate in mezzo a tante prove e fatiche. Grazie, a nome della Chiesa intera, per la vostra dedizione, il vostro coraggio, i vostri sacrifici, la vostra pazienza. Grazie! Vi auguro, cari fratelli e sorelle, di essere sempre Pastori e testimoni generosi, armati solo di preghiera e di carità; pastori testimoni, che docilmente si lasciano sorprendere dalla grazia di Dio e diventano strumenti di salvezza per gli altri; pastori e profeti di vicinanza che accompagnano il popolo, intercessori con le braccia alzate. La Vergine Santa vi custodisca. In questo momento, pensiamo in silenzio a questi nostri fratelli e sorelle che hanno dato la vita in questo ministero pastorale qui, e ringraziamo il Signore perché è stato vicino. Ringraziamo il Signore per la loro vicinanza martiriale. Preghiamo in silenzio.

Grazie per la vostra testimonianza. E se avete un pochettino di tempo, pregate per me. Grazie.

[00169-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Chers frères Évêques, prêtres et diacres,
chers consacrés,
chers séminaristes, chers novices et aspirants, bonjour à tous !

Depuis longtemps, je nourri le désir de vous rencontrer ; c’est pourquoi je voudrais remercier le Seigneur aujourd’hui. J’exprime ma gratitude à Mgr Tombe Trille pour ses salutations et à vous tous pour vos salutations et votre présence ; certains d’entre vous ont fait des jours de voyage pour être ici aujourd’hui ! Je porte toujours gravés dans mon cœur des moments vécus avant cette visite : la célébration à Saint-Pierre en 2017, au cours de laquelle nous avons élevé une supplique à Dieu pour le don de la paix ; et la retraite spirituelle en 2019 avec les Leaders politiques, invités pour que, par la prière, ils prennent à cœur la ferme décision de poursuivre la réconciliation et la fraternité dans le pays. Nous avons besoin avant tout de cela: accueillir Jésus, notre paix et notre espérance.

Dans mon discours d’hier, je me suis inspiré du cours des eaux du Nil qui traverse votre pays comme s’il était sa colonne vertébrale. Dans la Bible, à l’eau sont souvent associées l’action du Dieu créateur, la compassion avec laquelle il étanche notre soif lorsque nous errons dans le désert, la miséricorde avec laquelle il nous purifie lorsque nous tombons dans les marécages du péché. Dans le baptême, Il nous a sanctifiés avec une eau qui nous « a fait renaître et nous a renouvelés dans l’Esprit Saint » (Tt 3, 5). C’est précisément dans une perspective biblique que je voudrais regarder à nouveau les eaux du Nil. D’une part, dans le lit de ce cours d’eau, les larmes d’un peuple plongé dans la souffrance et la douleur, martyrisé par la violence se déversent ; un peuple qui peut prier comme le psalmiste : « Au bord des fleuves de Babylone nous étions assis et nous pleurions » (Ps 137, 1). Les eaux du grand fleuve, en effet, recueillent les gémissements de souffrance de vos communautés, recueillent le cri de douleur de tant de vies brisées, recueillent le drame d’un peuple en fuite, l’affliction du cœur des femmes et la peur gravée dans les yeux des enfants. On peut voir la peur dans les yeux des enfants. Mais en même temps, les eaux du grand fleuve nous ramènent à l’histoire de Moïse et, par conséquent, elles sont un signe de délivrance et de salut : des eaux, en effet, Moïse a été sauvé et, en conduisant les siens à travers la Mer Rouge, il est devenu un instrument de libération, une icône du secours de Dieu qui voit l’affliction de ses enfants, entend leur cri et descend pour les libérer (cf. Ex 3, 7). En regardant l’histoire de Moïse qui a conduit le peuple de Dieu à travers le désert, demandons-nous que signifie être ministres de Dieu dans une histoire traversée par la guerre, la haine, la violence, la pauvreté. Comment exercer le ministère sur cette terre, sur les rives d’un fleuve baigné de tant de sang innocent, alors que les visages des personnes qui nous sont confiées sont striés par les larmes de la souffrance ? Voilà la question. Et quand je parle de ministère, je le fais dans un sens large : ministère presbytéral, ministère diaconal et ministère catéchétique, d'enseignement, qu’accomplissent tant de consacrés et de laïcs.

Pour tenter de répondre, je voudrais m’arrêter sur deux attitudes de Moïse : la docilité et l’intercession. Je pense que ces deux choses touchent notre vie ici.

La première chose qui nous frappe dans l’histoire de Moïse est sa docilité à l’initiative de Dieu. Nous ne devons cependant pas penser qu’il en a toujours été ainsi : au début, il avait la prétention de mener seul la tentative de lutter contre l’injustice et l’oppression. Sauvé par la fille du Pharaon des eaux du Nil, il se laisse toucher par la souffrance et l’humiliation de ses frères lorsqu’il découvre son identité, si bien qu’un jour il décide de se faire justice tout seul, en frappant à mort un égyptien qui maltraite un juif. Suite à cet épisode il doit fuir et rester dans le désert de nombreuses années. Il y fait l’expérience d’une sorte de désert intérieur : il avait pensé affronter l’injustice par ses seules forces, et maintenant, en conséquence, il se retrouve comme un fugitif devant se cacher, vivant dans la solitude, éprouvant le sentiment amer de l’échec. Je me demande : quelle a été l’erreur de Moïse ? Penser qu’il était le centre, ne comptant que sur ses propres forces. Mais il était ainsi devenu prisonnier des pires méthodes humaines, comme celle de répondre à la violence par la violence.

Quelque chose de semblable se produit parfois dans notre vie de prêtres, de diacres, de religieux, de séminaristes, de consacrés, dans notre vie à tous : au plus profond, nous pensons que nous sommes le centre, que nous pouvons compter, sinon en théorie du moins en pratique, presque exclusivement sur notre talent ; ou, en tant qu’Église, que nous trouvons la réponse aux souffrances et aux besoins du peuple dans des moyens humains, comme l’argent, la ruse, le pouvoir. Au contraire, notre œuvre vient de Dieu : Il est le Seigneur et nous sommes appelés à être des instruments dociles entre ses mains. Moïse l’apprend lorsqu’un jour, Dieu vient à sa rencontre, en lui apparaissant dans « la flamme d’un buisson en feu » (Ex 3, 2). Moïse se laisse attirer, il fait place à l’émerveillement, il se met dans une attitude de docilité pour se laisser éclairer par le charme de ce feu devant lequel il pense : « Je vais faire un détour pour voir cette chose extraordinaire : pourquoi le buisson ne se consume-t-il pas ? » (v. 3). Voilà la docilité nécessaire à notre ministère : s’approcher de Dieu avec émerveillement et humilité. Frères et sœurs, ne perdez pas l'émerveillement de la rencontre avec Dieu ! Ne perdez pas l'émerveillement du contact avec la Parole de Dieu. Moïse s'est laissé attirer et diriger par Dieu. La primauté n'est pas à nous, la primauté est à Dieu : nous confier à sa Parole avant d'utiliser nos propres mots, accueillir docilement son initiative avant de nous concentrer sur nos projets personnels et ecclésiaux.

Le fait de nous laisser docilement modeler nous fait vivre le ministère d’une manière renouvelée. Devant le Bon Pasteur, nous comprenons que nous ne sommes pas des chefs tribaux, mais des pasteurs compatissants et miséricordieux ; non pas les maîtres du peuple, mais des serviteurs s’abaissant pour laver les pieds des frères et sœurs ; nous ne sommes pas une organisation mondaine qui administre des biens terrestres, mais nous sommes la communauté des enfants de Dieu. Frères et sœurs, faisons donc comme Moïse sous le regard de Dieu : enlevons nos sandales avec un humble respect (cf. v. 5), dépouillons-nous de notre présomption humaine, laissons-nous attirer par le Seigneur et cultivons la rencontre avec Lui dans la prière ; approchons-nous chaque jour du mystère de Dieu, pour qu'il nous émerveille, pour qu’Il brûle les broussailles de notre orgueil et de nos ambitions démesurées et fasse de nous d’humbles compagnons de route de ceux qui nous sont confiés.

Purifié et illuminé par le feu divin, Moïse devient un instrument de salut pour les siens qui souffrent ; la docilité envers Dieu le rend capable d’intercéder pour ses frères. Voilà la deuxième attitude dont je voudrais vous parler aujourd’hui : l’intercession. Moïse a fait l’expérience d’un Dieu compatissant, qui ne reste pas indifférent au cri de son peuple et descend pour le délivrer. C'est magnifique : descendre. Dieu descend pour le libérer. Dieu, par condescendance envers nous, descend parmi nous au point de prendre notre chair en Jésus, de faire l’expérience de notre mort et de nos enfers. Il descend toujours pour nous relever et ceux qui le vivent sont amenés à l'imiter. C’est ainsi que fait Moïse, qui “descend” au milieu des siens : il le fera plusieurs fois au cours de la traversée du désert. En effet, dans les moments les plus importants et les plus difficiles, il monte et descend de la montagne de la présence de Dieu afin d’intercéder pour le peuple, c’est-à-dire de se mettre à l’intérieur de son histoire pour le rapprocher de Dieu. Frères et sœurs, intercéder, « ne signifie pas simplement “prier pour quelqu’un”, comme nous le pensons souvent. Étymologiquement, cela signifie “faire un pas au milieu”, faire un pas pour se mettre au milieu d’une situation » (C.M. Martini, Un grido di intercessione, Milan, 29 janvier 1991). Parfois, on n'obtient pas beaucoup, mais il faut le faire : un cri d'intercession. Intercéder, c’est donc descendre pour se mettre au milieu du peuple, pour “devenir des ponts” qui le relient à Dieu.

Il est demandé aux pasteurs de développer justement cet art de “marcher au milieu”. Ce doit être la spécialité des pasteurs, de marcher au milieu : au milieu de la souffrance, au milieu des larmes, au milieu de la faim de Dieu et de la soif d’amour des frères et sœurs. Notre premier devoir n’est pas d’être une Église parfaitement organisée - n'importe quelle entreprise peut le faire -, mais une Église qui, au nom du Christ, se tient au milieu de la vie souffrante du peuple et se salit les mains pour les gens. Nous ne devons jamais exercer le ministère en recherchant le prestige religieux et social, - que c'est laid de " faire carrière " -mais en marchant au milieu et ensemble, en apprenant à écouter et à dialoguer, en collaborant entre nous ministres et laïcs. Je voudrais ici répéter ce mot important : ensemble. Ne l’oublions pas : ensemble. Évêques et prêtres, prêtres et diacres, pasteurs et séminaristes, ministres ordonnés et religieux – toujours dans le respect de la merveilleuse spécificité de la vie religieuse : essayons de surmonter entre nous la tentation de l’individualisme, des intérêts partisans. Il est bien triste que des pasteurs ne soient pas capables de communion, ne réussissent pas à coopérer, voire s’ignorent mutuellement ! Cultivons le respect mutuel, la proximité, la coopération concrète. Si cela ne se produit pas entre nous, comment pouvons-nous le prêcher aux autres ?

Revenons à Moïse et, afin d’approfondir l’art de l’intercession, regardons ses mains. L’Écriture nous offre trois images à cet égard : Moïse avec le bâton à la main, Moïse avec les mains tendues, et Moïse avec les mains levées vers le ciel. 

La première image, celle de Moïse avec le bâton à la main, nous montre qu’il intercède par la prophétie. Avec ce bâton, il accomplit des prodiges, des signes de la présence et de la puissance de Dieu au nom duquel il parle, dénonçant avec force le mal dont souffre le peuple et demandant au Pharaon de le laisser partir. Frères et sœurs, pour intercéder en faveur de notre peuple, nous sommes également appelés à élever la voix contre l’injustice et la prévarication, qui écrasent les gens et utilisent la violence pour gérer les affaires à l’ombre des conflits. Si nous voulons être des pasteurs qui intercèdent, nous ne pouvons pas rester neutres face à la douleur causée par les injustices et les violences, car là où une femme ou un homme est lésé dans ses droits fondamentaux, le Christ lui-même est offensé. J’ai été heureux d’entendre dans le témoignage du Père Luka que l’Église ne cesse d’exercer un ministère à la fois prophétique et pastoral. Merci ! Merci car, s’il y a une tentation dont nous devons nous prémunir, c’est bien celle de laisser les choses telles qu’elles sont et de ne pas nous intéresser aux situations par peur de perdre des privilèges et des commodités.

Deuxième image : Moïse avec les mains tendues. L’Écriture nous dit qu’il, « étendit les bras sur la mer » (Ex 14, 21). Ses mains tendues sont le signe que Dieu est sur le point d’agir. Ensuite, Moïse tiendra les tables de la Loi dans ses mains (cf. Ex 34, 29) pour les montrer au peuple Ses mains tendues indiquent la proximité de Dieu qui est à l’œuvre et qui accompagne son peuple. En effet, pour libérer du mal, la prophétie ne suffit pas, il faut tendre les bras à ses frères et sœurs, soutenir leur marche. Caresser le troupeau de Dieu. Nous pouvons imaginer Moïse montrant le chemin et saisissant les mains des siens pour les encourager à avancer. Après quarante ans, devenu vieux, il reste proche des siens : voilà la proximité. Et cela n’a pas été une tâche facile : il a souvent dû relancer un peuple découragé et fatigué, affamé et assoiffé, parfois même capricieux, qui s’abandonnait aux murmures et à la paresse. Et pour accomplir cette tâche, il a dû aussi lutter contre lui-même, car il a parfois connu des moments d’obscurité et de désolation, comme celui où il a dit au Seigneur : « Pourquoi traiter si mal ton serviteur ? Pourquoi n’ai-je pas trouvé grâce à tes yeux que tu m’aies imposé le fardeau de tout ce peuple ? […] Je ne puis, à moi seul, porter tout ce peuple : c’est trop lourd pour moi » (Nb 11, 11.14). Regardez la prière de Moïse : il est épuisé. Pourtant, Moïse n’a pas reculé : toujours proche de Dieu, il ne s’est jamais éloigné des siens. Nous aussi, nous avons ce devoir : tendre la main, relever nos frères, leur rappeler que Dieu est fidèle à ses promesses, les exhorter à avancer. Nos mains ont été “ointes de l’Esprit” non seulement pour les rites sacrés, mais pour encourager, aider, accompagner les personnes à sortir de ce qui les paralyse, les enferme, les rend craintives.

Enfin – troisième image – les mains levées vers le ciel. Lorsque le peuple tombe dans le péché et se fabrique un veau d’or, Moïse remonte sur la montagne – pensons à toute cette patience ! – et prononce une prière qui est une véritable lutte avec Dieu pour qu’il n’abandonne pas Israël. Il va jusqu’à dire : « Ce peuple a commis un grand péché : ils se sont fait des dieux en or. Ah, si tu voulais enlever leur péché ! Ou alors, efface-moi de ton livre, celui que tu as écrit. » (Ex 32, 31-32). Il se range du côté du peuple jusqu’au bout, élève la main en sa faveur. Il ne pense pas à se sauver seul, il ne vend pas le peuple pour ses propres intérêts ! Il intercède. Moïse intercède, Moïse lutte avec Dieu ; il garde les bras levés en prière pendant que ses frères se battent dans la vallée (cf. Ex 17, 8-16). Soutenir les luttes du peuple par la prière devant Dieu, implorer le pardon, administrer la réconciliation en tant que canaux de la miséricorde de Dieu qui pardonne les péchés : tel est notre devoir d’intercesseurs !

Bien-aimés, ces mains prophétiques tendues et levées requièrent un effort, cela n’est pas facile. Être prophète, accompagnateur, intercesseur, montrer par sa vie le mystère de la proximité de Dieu avec son peuple peut même coûter la vie. Beaucoup de prêtres, de religieuses et de religieux – comme Sœur Regina nous l'a dit à propos de ses sœurs – ont été victimes de violences et d’attaques dans lesquelles ils ont perdu la vie. En réalité, ils ont offert leur existence pour la cause de l’Évangile, et leur proximité avec leurs frères et sœurs est un merveilleux témoignage qu’ils nous laissent et qui nous invite à poursuivre leur chemin. Nous pouvons rappeler Saint Daniel Comboni qui, avec ses frères missionnaires, a réalisé une grande œuvre d’évangélisation sur ces terres : il disait que le missionnaire doit être prêt à tout pour le Christ et l’Évangile, et qu’il faut des âmes audacieuses et généreuses qui sachent souffrir et mourir pour l’Afrique.

Je tiens donc à vous remercier pour ce que vous faites au milieu de tant d’épreuves et d’efforts. Merci, au nom de toute l’Église, pour votre dévouement, votre courage, vos sacrifices, votre patience. Merci ! Je vous souhaite, chers frères et sœurs, d’être toujours des pasteurs et des témoins généreux, armés seulement de la prière et de la charité ; pasteurs témoins, qui se laissent docilement surprendre par la grâce de Dieu et deviennent des instruments de salut pour les autres ; pasteurs et prophètes de proximité qui accompagnent le peuple, des intercesseurs aux bras levés. Que la Sainte Vierge vous protège. En ce moment, pensons en silence à nos frères et sœurs qui ont donné leur vie dans ce ministère pastoral ici, et remercions le Seigneur de nous avoir été proches. Nous remercions le Seigneur pour leur proximité martyriale. Prions en silence.

Merci pour votre témoignage. Et si vous avez un peu de temps, priez pour moi. Merci.

[00169-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

Dear brother Bishops, priests and deacons,
Dear consecrated brothers and sisters,
Dear seminarians, novices and aspirants, good morning to all of you!

I have been looking forward to meeting you, and I want to thank the Lord for this occasion. I am grateful to Bishop Tombe Trille for his words of greeting and to all of you for your presence today and also for your greeting; some of you travelled for days to be here today! Several of our previous experiences have a special place in my heart: the celebration in Saint Peter’s in 2017, when we prayed together for the gift of peace, and the spiritual retreat in 2019 with the political leaders, who were asked to embrace, through prayer, the firm resolve to pursue reconciliation and fraternity in this country. Indeed, all of us need to embrace Jesus, our peace and our hope.

In my address yesterday, I drew upon the image of the waters of the Nile, which flows through your country, as if it were its backbone. In the Bible, water is often associated with God’s activity in creation, his compassion in quenching our thirst when we wander through the desert, and his mercy in cleansing us when we are mired in sin. In baptism, he sanctified us “through the water of rebirth and renewal by the Holy Spirit” (Titus 3:5). From the same biblical perspective, I would like to take another look at the waters of the Nile. Merged with those waters are the tears of a people immersed in suffering and pain, and tormented by violence, who can pray like the psalmist, “By the rivers of Babylon—there we sat down and there we wept” (Ps 137:1). Indeed, the waters of that great river collect the sighs and sufferings of your communities, they collect the pain of so many shattered lives, they collect the tragedy of a people in flight, the sorrow and fear in the hearts and eyes of so many women and children. We can see this fear in the eyes of children. At the same time, though, the waters of the Nile remind us of the story of Moses and thus they also speak of liberation and salvation. From those waters, Moses was saved and, by leading his own people through the Red Sea, he became for them a means of liberation, an icon of the saving help of God who sees the affliction of his children, hears their cry and comes down to set them free (cf. Ex 3:7). Remembering the story of Moses, who led God’s people through the desert, let us ask ourselves what it means for us to be ministers of God in a land scarred by war, hatred, violence, and poverty. How can we exercise our ministry in this land, along the banks of a river bathed in so much innocent blood, among the tear-stained faces of the people entrusted to us? This is the question. And when I speak of ministry, I do so in the broad sense: priestly and diaconal ministry and also catechetical ministry, the ministry of teaching, which so many consecrated men and women, as well as the lay faithful, carry out.

To try to answer this, I would like to reflect on two aspects of Moses’ character: his meekness and his intercession. I think these two aspects concern our lives here.

The first thing that strikes us about the story of Moses is his meekness, his docile response to God’s initiative. We must not think, though, that it was always this way: at first, he attempted to fight injustice and oppression on his own. Saved by Pharaoh’s daughter in the waters of the Nile, he then discovered his identity and was moved by the suffering and humiliation of his brothers, so much so that one day he decided to take justice into his own hands: he killed an Egyptian who was beating a Hebrew. As a result, he had to flee to the desert, where he remained for many years. There he experienced a kind of interior desert. He had thought he could confront injustice on his own and now he found himself a fugitive, alone and in hiding, experiencing a bitter sense of failure. I wonder: What was Moses’ mistake? He had put himself at the centre, and relied on his strength alone. Yet in this way, he remained trapped in the worst of our human ways of doing things: he had responded to violence with violence.

At times, something similar can happen in our own lives as priests, deacons, religious, seminarians, consecrated men and women, all of us: deep down, we can think that we are at the centre of everything, that we can rely, if not in theory at least in practice, almost exclusively on our own talents and abilities. Or, as a Church, we think we can find an answer to people’s suffering and needs through human resources, like money, cleverness or power. Instead, everything we accomplish comes from God: he is the Lord, and we are called to be docile instruments in his hands. Moses learned this when, one day, God appeared to him “in a flame of fire out of a bush” (Ex 3:2). Moses found himself drawn to this sight; he was open to being amazed and so, in meekness, he approached that strange blazing fire. He thought: “I must turn aside and look at this great sight, and see why the bush is not burned up” (v. 3). This is the kind of meekness that we need in our ministry: a readiness to approach God in wonder and humility. Sisters and brothers, do not lose the wonder of the encounter with God! Do not lose the wonder of contact with the word of God. Moses let himself be drawn to God and guided by him. The primacy is not ours, the primacy is God’s: entrusting ourselves to his word before we start using our own words, meekly accepting his initiative before we get caught up in our personal and ecclesial projects.

By allowing ourselves, in meekness, to be shaped by the Lord, we experience renewal in our ministry. In the presence of the Good Shepherd, we realize that we are not tribal chieftains, but compassionate and merciful shepherds; not overlords, but servants who stoop to wash the feet of our brothers and sisters; we are not a worldly agency that administers earthly goods, but the community of God’s children. Dear sisters and brothers, let us do, then, what Moses did in God’s presence. Let us remove our sandals with humble awe (cf. v. 5) and divest ourselves of our human presumption. Let us allow ourselves to be drawn to the Lord and spend time with him in prayer. Let us daily approach the mystery of God, so that he can astonish us and burn away the dead wood of our pride and our immoderate ambitions, and make us humble travelling companions of all those entrusted to our care.

Purified and enlightened by the divine fire, Moses became a means of salvation for his suffering brothers and sisters. His meekness before God made him capable of interceding for them. This is the second aspect of his character that I would like to discuss today: Moses was an intercessor. He experienced a God of compassion, who hears the cry of his people and comes down to deliver them. This phrase is beautiful: he comes down. God comes down to deliver them. In his “condescension”, God comes down among us, even taking on our flesh in Jesus, experiencing our death and our most hellish moments. He constantly comes down in order to raise us up. Those who experience him are led to imitate him. Like Moses, who “came down” to be in the midst of his people a number of times during the sojourn in the desert. Indeed, at the most important and trying moments, he would ascend the mountain of God’s presence to intercede for the people, that is, to stand in their place in order to bring them closer to God, and then come down. Brothers and sisters, interceding “does not mean simply ‘praying for someone’, as we so often think. Etymologically it means ‘to step into the middle’, to be willing to walk into the middle of a situation” (C.M. MARTINI, Un grido di intercessione, Milan, 29 January 1991). Sometimes we do not obtain much, but we need to offer a cry of intercession. To intercede is thus to come down and place ourselves in the midst of our people, to act as a bridge that connects them to God.

It is precisely this art of “stepping into the middle” of our brothers and sisters that the Church’s pastors need to cultivate; this must be their specialty: the ability to step into the middle of their sufferings and tears, into the middle of their hunger for God and their thirst for love. Our first duty is not to be a Church that is perfectly organized – any company can do this – but a Church that, in the name of Christ, stands in the midst of people’s troubled lives, a Church that is willing to dirty its hands for people. We must never exercise our ministry by chasing after religious or social prestige – the ugliness of careerism – but rather by walking in the midst of and alongside our people, learning to listen and to dialogue, cooperating as ministers with one another and with the laity. Let me repeat this important word: together. Let us never forget it: together. Bishops and priests, priests and deacons, pastors and seminarians, ordained ministers and religious – always showing respect for the marvelous specificity of religious life. Let us make every effort to banish the temptation to individualism, to partisan interests. How sad it is when the Church’s pastors are incapable of communion, when they fail to cooperate, and even ignore one another! Let us cultivate mutual respect, closeness and practical cooperation. If we fail to do this ourselves, how can we preach it to others?

Let us now go back to Moses, and reflect on the art of intercession, let us look at his hands. Scripture offers us three images in this regard: Moses with staff in hand, Moses with outstretched hands, Moses with his hands raised to heaven.

The first image, Moses with staff in hand, tells us that he intercedes with prophecy. With that staff, he works wonders, signs of God’s presence and power; he speaks in God’s name, forcefully denouncing the oppression that the people are suffering, and demanding Pharaoh to let them depart. Brothers and sisters, we too are called to intercede for our people, to raise our voices against the injustice and the abuses of power that oppress and use violence to suit their own ends amid the cloud of conflicts. If we want to be pastors who intercede, we cannot remain neutral before the pain caused by acts of injustice and violence. To violate the fundamental rights of any woman or man is an offence against Christ himself. I was happy to hear in Father Luka’s testimony that the Church tirelessly carries out a ministry that is both prophetic and pastoral. Thank you! Thank you because, if there is one temptation against which we must guard, it is that of leaving things as they are and not getting involved in situations for fear of losing privileges and benefits.

The second image is that of Moses with outstretched hands. Scripture tells us that he “stretched out his hand over the sea” (Ex 14:21). His extended hands are the sign that God is about to show his power. Later, Moses will hold the tablets of the Law in his hands (cf. Ex 34:29) and show them to the people; his upraised hands demonstrate the closeness of God who is ever active in accompanying his people. Of itself, prophecy does not suffice for deliverance from evil: it is necessary to extend our arms to our brothers and sisters, to support them on their journey; to caress God’s flock. We can imagine Moses pointing the way and taking people by the hand to encourage them to persevere. For forty years, in his old age, he remained at their side: that is what closeness means. It was no easy task: often he had to lift the spirits of a people who were discouraged and weary, hungry and thirsty, and sometimes even wayward and prone to grumbling and lethargy. In doing so, Moses also had to struggle with himself, for at times, he too experienced moments of darkness and desolation, as when he said to the Lord: “Why have you treated your servant so badly? Why have I not found favour in your sight, that you lay the burden of all this people on me? … I am not able to carry all this people alone, for they are too heavy for me” (Num 11:11, 14). Look at how Moses prayed: he was tired. Yet, he did not step back: ever close to God, he did not turn his back on his people. This is also our job: to stretch out our hands, to rouse our brothers and sisters, to remind them that God is faithful to his promises, to urge them on. Our hands were “anointed with Spirit” not only for the sacred rites, but also to encourage, help and accompany people to leave behind whatever paralyzes them, keeps them closed in on themselves, and makes them fearful.

Finally – the third image – Moses with his hands raised to heaven. When the people fell into sin and made a golden calf for themselves, Moses went up the mountain once again – think of what great patience he must have had! – and said a prayer, which shows him wrestling with God, begging him not to abandon Israel. He went so far as to say: “This people has sinned a great sin; they have made for themselves gods of gold. But now, if you will only forgive their sin – but if not, blot me out of the book that you have written” (Ex 32:31-32). Moses stood with the people to the very end, raising his hands on their behalf. He did not think of saving himself alone; he did not sell out the people for his own interests! He interceded, he wrestled with God; he kept his arms raised in prayer while his brethren battled in the valley below (cf. Ex 17:8-16). Bringing the struggles of the people before God in prayer, obtaining forgiveness for them, administering reconciliation as channels of God’s mercy: this is our task as intercessors.

Beloved, these prophetic hands, outstretched and raised, demand great effort, which is not easy. To be prophets, companions and intercessors, to show with our life the mystery of God’s closeness to his people, can cost us our lives. Many priests and religious – as Sister Regina told us of her own sisters – have been victims of violence and attacks in which they lost their lives. In a very real way, they offered their lives for the sake of the Gospel. Their closeness to their brothers and sisters is a marvellous testimony that they bequeath to us, a legacy that invites us to carry forward their mission. Let us think of Saint Daniele Comboni, who with his missionary brothers carried out a great work of evangelization in this land. He used to say that a missionary must be ready to do anything for the sake of Christ and the Gospel. We need courageous and generous souls ready to suffer and die for Africa.

I would like to thank you, then, for everything that you do amid so many trials and tribulations. Thank you, on behalf of the entire Church, for your dedication, your courage, your sacrifices and your patience. Thank you! Dear brothers and sisters, I pray that you will always be generous pastors and witnesses, armed only with prayer and love; pastors and witnesses allowing yourselves, in meekness, to be constantly surprised by God’s grace; and that you may become a means of salvation for others, pastors and prophets of closeness who accompany the people, intercessors with uplifted arms. May the Blessed Virgin Mary protect you. At this moment, let us recall in silence those brothers and sisters of ours who have given their lives in pastoral ministry here, and let us thank the Lord because he has been close. Let us thank the Lord for the closeness of their “martyrdom”. Let us pray in silence.

Thank you for your witness. And, if you have a little time, please pray for me. Thank you.

[00169-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Liebe Brüder, Bischöfe, Priester, Diakone,
liebe gottgeweihte Männer und Frauen,
liebe Seminaristen, liebe Novizinnen und Novizen und Aspiranten, guten Tag euch allen!

Seit langem habe ich den Wunsch gehegt, euch zu treffen; dafür möchte ich dem Herrn heute danken. Ich bin Bischof Tombe Trille für sein Grußwort dankbar und euch allen, für eure Anwesenheit und für euren Gruß; einige von euch sind viele Stunden gereist, um heute hier zu sein! Ich trage immer einige Begegnungen im Herzen, die wir vor diesem Besuch erlebt haben: Die Feier auf dem Petersplatz im Jahr 2017, bei der wir die Bitte um das Geschenk des Friedens vor Gott gebracht haben, und die geistliche Einkehr im Jahr 2019 mit den politischen Verantwortungsträgern, die eingeladen waren, im Gebet den festen Entschluss zu fassen, Versöhnung und Geschwisterlichkeit im Lande zu verwirklichen. Das ist das, was wir am nötigsten haben: Jesus aufzunehmen, der unser Friede und unsere Hoffnung ist.

In meiner gestrigen Rede habe ich mich vom Lauf des Nils inspirieren lassen, der durch euer Land fließt, so als ob er dessen Rückgrat wäre. In der Bibel wird Wasser oft mit dem Handeln des Schöpfergottes in Verbindung gebracht, mit dem Mitgefühl, mit dem er unseren Durst löscht, wenn wir in der Wüste umherirren, mit der Barmherzigkeit, mit der er uns reinigt, wenn wir in den Sumpf der Sünde fallen; er hat uns in der Taufe geheiligt »durch das Bad der Wiedergeburt und die Erneuerung im Heiligen Geist« (Tit 3,5). Aus einer biblischen Perspektive heraus möchte ich noch einmal auf die Wasser des Nils schauen. Einerseits ergießen sich in das Bett dieses Wasserlaufs die Tränen eines von Leid und Schmerz getränkten und von Gewalt geplagten Volkes; eines Volkes, das beten kann wie der Psalmist: »An den Strömen von Babel, da saßen wir und wir weinten« (Ps 137,1). Die Wasser des großen Flusses sammeln in der Tat das leidvolle Stöhnen eurer Gemeinschaften, sie sammeln den Schmerzensschrei so vieler zerstörter Leben, das Drama eines Volkes auf der Flucht, den Kummer in den Herzen der Frauen und die Angst in den Augen der Kinder. Man sieht sie, die Angst, in den Augen der Kinder. Andererseits führen uns die Wasser des großen Flusses aber auch wieder zur Geschichte von Mose zurück und sind somit Zeichen der Befreiung und der Erlösung: Aus jenen Wassern wurde Mose nämlich gerettet und indem er die Seinen durch das Rote Meer führte, wurde er zu einem Werkzeug der Befreiung, zu einer Ikone der Hilfe Gottes, der die Not seiner Kinder sieht, ihr Schreien hört und hinabsteigt, um sie zu befreien (vgl. Ex 3,7). Wenn wir die Geschichte von Mose betrachten, der das Volk Gottes durch die Wüste führte, sollten wir uns fragen, was es bedeutet, Diener Gottes in einer Geschichte zu sein, die von Krieg, Hass, Gewalt und Armut durchzogen ist. Wie können wir den Dienst in diesem Land ausüben, entlang der Ufer eines Flusses, der von so viel unschuldigem Blut getränkt ist, während die Gesichter der uns anvertrauten Menschen von Tränen des Schmerzes zerfurcht sind? Das ist die Frage. Und wenn ich über den Dienst spreche, tue ich dies im weiteren Sinn: der priesterliche Dienst, der diakonale Dienst und der katechetische Dienst der Unterweisung, den viele Gottgeweihte und Laien tun.

Um eine Antwort zu versuchen, möchte ich mich auf zwei Haltungen von Mose konzentrieren: die Fügsamkeit und die Fürsprache. Ich glaube, dass diese zwei Dinge unser Leben hier berühren.

Das erste, was uns an der Geschichte von Mose auffällt, ist seine Fügsamkeit gegenüber Gottes Initiative. Wir dürfen aber nicht denken, dass das immer so gewesen ist: Anfangs war er so vermessen gewesen, zu versuchen, die Ungerechtigkeit und Unterdrückung alleine zu bekämpfen. Er war von der Tochter des Pharaos aus den Wassern des Nils gerettet worden und ließ sich, als er seine Identität herausgefunden hatte, von dem Leid und der Demütigung seiner Geschwister so sehr berühren, dass er eines Tages beschloss, die Gerechtigkeit selbst in die Hand zu nehmen und einen Ägypter zu erschlagen, der einen Juden misshandelte. Nach diesem Vorfall musste er jedoch fliehen und für viele Jahre in der Wüste bleiben. Dort erlebte er eine Art innere Wüste: Er hatte gedacht, sich dem Unrecht mit seinen eigenen Kräften zu stellen und fand sich in Konsequenz als Flüchtling wieder, der sich verstecken und in der Einsamkeit leben musste und das bittere Gefühl des Versagens erlitt. Ich frage mich: Was war der Fehler von Mose gewesen? Zu denken, dass er der Mittelpunkt sei, und nur auf die eigene Stärke zu zählen. Aber so blieb er in den schlimmsten menschlichen Vorgehensweisen gefangen, wie derjenigen, auf Gewalt mit Gewalt zu antworten.

Manchmal kann etwas Ähnliches auch in unserem Leben als Priester, Diakone, Ordensleute, Seminaristen, Gottgeweihte, allen, passieren: Unterschwellig denken wir, dass wir der Mittelpunkt sind, dass wir uns, wenn nicht in der Theorie, so doch zumindest in der Praxis, fast ausschließlich auf unser eigenes Können verlassen können; oder dass wir als Kirche die Antwort auf die Leiden und Nöte der Menschen durch menschliche Mittel wie Geld, List und Macht finden. Unser Wirken nimmt seinen Ausgang jedoch bei Gott: Er ist der Herr und wir sind dazu aufgerufen, fügsame Werkzeuge in seinen Händen zu sein. Mose lernt dies, als Gott ihm eines Tages entgegenkommt, indem er ihm »in einer Feuerflamme mitten aus dem Dornbusch« erscheint (Ex 3,2). Mose lässt sich davon anziehen, er gibt dem Staunen Raum, er nimmt die Haltung der Fügsamkeit ein, um sich von der Faszination dieses Feuers erleuchten zu lassen, angesichts dessen er denkt: »Ich will dorthin gehen und mir die außergewöhnliche Erscheinung ansehen. Warum verbrennt denn der Dornbusch nicht?« (V. 3). Dies ist die Fügsamkeit, die wir für unseren Dienst brauchen: Uns Gott mit Staunen und Demut zu nähern. Schwestern und Brüder, verliert nicht das Staunen über die Begegnung mit Gott! Verliert nicht das Staunen über den Umgang mit dem Wort Gottes. Mose hat sich von Gott anziehen und neu ausrichten zu lassen. Der Vorrang steht nicht uns zu, der Vorrang steht Gott zu: uns seinem Wort anvertrauen, bevor wir uns unserer eigenen Worte bedienen, seine Initiative fügsam annehmen, bevor wir unsere persönlichen und kirchlichen Projekte angehen.

Es ist dieses fügsame Sich-formen-lassen, das uns den Dienst auf eine erneuerte Weise leben lässt. Vor dem Guten Hirten verstehen wir, dass wir keine Stammesführer sind, sondern mitfühlende und barmherzige Hirten; keine Herren des Volkes, sondern Diener, die sich bücken, um unseren Brüdern und Schwestern die Füße zu waschen; wir sind keine weltliche Organisation, die irdische Güter verwaltet, sondern wir sind die Gemeinschaft der Kinder Gottes. Schwestern und Brüder, machen wir es also wie Mose im Angesicht Gottes: Ziehen wir unsere Sandalen in demütiger Ehrfurcht aus (vgl. V. 5), entledigen wir uns unserer menschlichen Anmaßung, lassen wir uns vom Herrn anziehen und pflegen wir die Begegnung mit ihm im Gebet; nähern wir uns jeden Tag dem Geheimnis Gottes, damit er uns in Staunen versetzt und damit er das Gestrüpp unseres Stolzes und unserer maßlosen Ansprüche wegbrennt und uns zu demütigen Wegbegleitern der uns Anvertrauten macht.

Durch das göttliche Feuer geläutert und erleuchtet, wird Mose zu einem Werkzeug der Rettung für die Seinen, die leiden; die Fügsamkeit gegenüber Gott macht ihn fähig, Fürsprecher für seine Geschwister zu sein. Hier ist die zweite Haltung, über die ich heute zu euch sprechen möchte: die Fürsprache. Mose hat einen mitfühlenden Gott erfahren, der dem Schrei seines Volkes nicht gleichgültig gegenübersteht und hinabsteigt, um es zu befreien. Dies ist schön: hinabsteigen. Gott steigt hinab, um es zu befreien. Gott begibt sich durch sein Entgegenkommen in unsere Mitte, soweit, dass er in Jesus unser Fleisch annimmt, unseren Tod und unsere Höllen erleidet. Er steigt immer hinab, um uns wiederaufzurichten. Wer ihn erfährt, wird dazu bewegt, ihn nachzuahmen. Das tut Mose, der inmitten seines eigenen Volkes „hinabsteigt“: Das wird er während der Wüstendurchquerung mehrmals tun. Er steigt nämlich in den wichtigsten und schwierigsten Momenten den Berg der Gegenwart Gottes hinauf und hinab, um für das Volk Fürsprache einzulegen, das heißt, sich in seine Geschichte hineinzubegeben, um es näher zu Gott zu führen. Brüder und Schwestern, Fürsprache bedeutet »nicht einfach „für jemanden zu beten“, wie wir oft denken. Etymologisch bedeutet es „in die Mitte treten“, einen Schritt tun, um sich in die Mitte einer Situation zu stellen“« (C.M. Martini, Un grido di intercessione, Mailand, 29. Januar 1991); manchmal erreicht man nicht viel, aber man muss es tun: ein Schrei der Fürsprache. Fürsprechen bedeutet also, sich in die Mitte des Volkes zu stellen, „zu Brücken zu werden“, die es mit Gott verbinden.

Die Hirten sind aufgefordert, genau diese Kunst des „Mittendringehens“ zu entwickeln. Das muss die Spezialität der Hirten sein, mittendringehen: inmitten von Leid, inmitten von Tränen, inmitten des Hungers nach Gott und des Durstes nach Liebe der Brüder und Schwestern. Unsere erste Verpflichtung besteht nicht darin, eine perfekt organisierte Kirche zu sein – das kann jede beliebige Firma tun –, sondern eine Kirche, die im Namen Christi inmitten des vom Volk durchlittenen Lebens steht und sich die Hände für die Menschen schmutzig macht. Wir dürfen unseren Dienst nie ausüben, indem wir religiösem und sozialem Ansehen hinterherjagen – dieses hässliche „Karrieremachen“ –, sondern indem wir mittendrin und gemeinsam unterwegs sind, indem wir lernen, zuzuhören und in den Dialog zu treten, indem wir untereinander als Amtsträger und mit den Laien zusammenarbeiten. Also, ich möchte dieses wichtige Wort wiederholen: gemeinsam. Vergessen wir es nicht: gemeinsam. Bischöfe und Priester, Priester und Diakone, Hirten und Seminaristen, geweihte Amtsträger und Ordensleute – und dabei immer den Respekt für die wunderbare Besonderheit des Ordenslebens zu hegen. Bemühen wir uns darum, unter uns die Versuchung des Individualismus und der Partikularinteressen zu überwinden. Es ist sehr traurig, wenn die Hirten nicht zur Gemeinschaft fähig sind, nicht zusammenarbeiten können, sich sogar gegenseitig ignorieren! Lasst uns gegenseitigen Respekt, Nähe und konkrete Zusammenarbeit pflegen. Wenn das nicht unter uns geschieht, wie können wir es dann anderen predigen?

Kehren wir zu Mose zurück und um die Kunst der Fürsprache zu vertiefen, lasst uns auf seine Hände schauen. Die Heilige Schrift bietet uns in dieser Hinsicht drei Bilder: Mose mit dem Stab in der Hand, Mose mit ausgestreckten Händen und Mose mit zum Himmel erhobenen Händen.

Das erste Bild, das von Mose mit dem Stab in der Hand, sagt uns, dass er mit Prophetie für sein Volk eintritt. Mit diesem Stab wird er Wunder vollbringen, Zeichen der Gegenwart und der Macht Gottes, in dessen Namen er spricht; er wird das Übel laut anprangern, unter dem das Volk leidet, und den Pharao auffordern, es ziehen zu lassen. Brüder und Schwestern, um Fürsprecher unseres Volkes zu sein, sind wir auch dazu aufgerufen, unsere Stimme gegen Ungerechtigkeit und Machtmissbrauch zu erheben, die die Menschen unterdrücken und sich der Gewalt bedienen, um im Schatten der Konflikte Geschäfte zu machen. Wenn wir Hirten sein wollen, die für die Menschen eintreten, können wir angesichts des Schmerzes, der durch Ungerechtigkeit und Gewalt verursacht wird, nicht neutral bleiben, denn wo eine Frau oder ein Mann in ihren Grundrechten verletzt werden, wird Christus selbst verletzt. Es hat mich gefreut, in Pater Lukas‘ Zeugnis zu hören, dass die Kirche nicht aufhört, einen prophetischen und pastoralen Dienst auszuüben. Dankeschön! Danke, denn wenn es eine Versuchung gibt, vor der wir uns hüten müssen, dann ist es die, die Dinge so zu lassen, wie sie sind und sich nicht für die Situationen zu interessieren, aus Angst, Privilegien und Begünstigungen zu verlieren.

Das zweite Bild: Mose mit ausgestreckten Händen.  So heißt es in der Bibel: er »streckte seine Hand über das Meer aus« (Ex 14,21). Seine ausgestreckten Hände sind das Zeichen dafür, dass Gott am Wirken ist. Später wird Mose die Gesetzestafeln in den Händen halten (vgl. Ex 34,29), um sie dem Volk zu zeigen; seine ausgestreckten Hände zeigen die Nähe Gottes, der am Werk ist und sein Volk begleitet. Um vom Bösen zu befreien, reicht die Prophetie nicht, sondern es ist nötig, die Arme zu den Brüdern und Schwestern auszustrecken und ihren Weg unterstützend zu begleiten. Die Herde Gottes streicheln. Wir können uns Mose vorstellen, wie er den Weg weist und die Seinen bei der Hand hält, um sie zu ermutigen, weiterzugehen. Vierzig Jahre lang bleibt er als alter Mann an der Seite der Seinen: Dies ist Nähe. Und es ist keine leichte Aufgabe gewesen: Er hat oft ein Volk anspornen müssen, das entmutigt und müde, hungrig und durstig, zuweilen auch widerspenstig, war, das sich zu Murren und Faulheit hinreißen ließ. Und um diese Aufgabe zu erfüllen, musste er auch mit sich selbst ringen, denn manchmal erlebte er Momente der Dunkelheit und Verzweiflung, wie den, als er zum Herrn sagte: »Warum warst du so böse zu deinem Knecht und warum habe ich keine Gnade in deinen Augen gefunden, dass du mir die Last dieses ganzen Volkes auflädst? [...] Ich kann dieses ganze Volk nicht allein tragen, es ist mir zu schwer« (Num 11,11.14). Blicke auf das Gebet des Mose: Er ist müde. Doch Mose hat sich nicht zurückgezogen: Stets in Gottes Nähe, hat er sich nie von den Seinen entfernt. Auch wir haben diese Aufgabe: Unsere Hände auszustrecken, unsere Geschwister wiederaufzurichten, sie daran zu erinnern, dass Gott seinen Verheißungen treu ist, sie dazu anzuspornen weiterzugehen. Unsere Hände sind nicht nur für die heiligen Riten „mit Geist gesalbt“, sondern um Menschen zu ermutigen, um ihnen zu helfen und sie dabei zu begleiten, aus dem herauszukommen, was sie lähmt, was sie verschlossen und ängstlich macht.

Schließlich – drittes Bild – die zum Himmel erhobenen Hände. Als das Volk in Sünde fällt und ein goldenes Kalb anfertigt, steigt Mose erneut auf den Berg – was für eine Geduld! – und spricht ein Gebet, das ein echter Kampf mit Gott ist, damit dieser Israel nicht verlässt. Er geht sogar so weit zu sagen: »Ach, dieses Volk hat eine große Sünde begangen. Götter aus Gold haben sie sich gemacht. Jetzt nimm ihre Sünde von ihnen! Wenn nicht, dann streich mich aus dem Buch, das du geschrieben hast.« (Ex 32,31-32). Er stellt sich bis zuletzt auf die Seite des Volkes und erhebt die Hand zu dessen Gunsten. Er denkt nicht daran, sich alleine zu retten, er verkauft das Volk nicht für seine eigenen Interessen! Er legt Fürsprache ein. Mose legt Fürsprache ein, Mose ringt mit Gott; er hält seine Arme im Gebet erhoben, während seine Brüder im Tal kämpfen (vgl. Ex 17,8-16). Die Kämpfe des Volkes durch das Gebet vor Gott zu unterstützen, Vergebung zu erwirken, Versöhnung zu vermitteln als Kanäle der Barmherzigkeit Gottes, der die Sünden vergibt: Das ist unsere Aufgabe als Fürsprecher!

Liebe Freunde, diese prophetischen, ausgestreckten und erhobenen Hände kosten Mühe, es ist nicht einfach. Propheten, Wegbegleiter, Fürsprecher zu sein, mit dem Leben das Geheimnis der Nähe Gottes seinem Volk zu vermitteln, kann selbst das Leben erfordern. Viele Priester, Ordensfrauen und Ordensmänner – wie uns Schwester Regina über ihre Schwestern gesagt hat – sind Opfer von Gewalt geworden und von Anschlägen, bei denen sie ihr Leben verloren haben. In Wirklichkeit haben sie ihr Leben für die Sache des Evangeliums hingegeben und ihre Nähe zu den Brüdern und Schwestern ist ein wunderbares Zeugnis, das sie uns hinterlassen und das uns einlädt, ihren Weg weiterzugehen. Wir können an den heiligen Daniel Comboni erinnern, der mit seinen Brüdern Missionaren ein großes Werk der Evangelisierung in diesem Land vollbrachte: Er sagte, dass der Missionar für Christus und für das Evangelium zu allem bereit sein muss und dass es mutiger und großherziger Seelen bedarf, die für Afrika leiden und sterben können.

Ich möchte euch also für das danken, was ihr inmitten von so vielen Prüfungen und Mühen tut. Danke, im Namen der ganzen Kirche, für euren Einsatz, euren Mut, eure Opfer, eure Geduld. Danke! Ich wünsche euch, liebe Brüder und Schwestern, dass ihr immer großherzige Hirten und Zeugen seid, bewaffnet allein mit Gebet und Nächstenliebe; Hirten und Zeugen, die sich fügsam von Gottes Gnade überraschen lassen und zu Werkzeugen des Heils für andere werden; Hirten und Propheten der Nähe, die das Volk begleiten, Fürsprecher mit erhobenen Armen. Möge die Heilige Jungfrau euch behüten. In diesem Augenblick denken wir in Stille an diese unserer Brüder und Schwestern, die ihr Leben in diesem pastoralen Dienst hier hingegeben haben, und wir danken dem Herrn, weil er nahe war. Danken wir dem Herrn für ihre Nähe im Martyrium. Beten wir in Stille.

Danke für eurer Zeugnis. Und wenn ihr etwas Zeit habt, betet für mich. Danke.

[00169-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

Queridos hermanos obispos, presbíteros y diáconos,
queridos consagrados y consagradas,
queridos seminaristas, novicias, novicios y aspirantes: ¡buenos días a todos!

Desde hace tiempo tenía el deseo de encontrarme con ustedes; por eso hoy quisiera agradecer al Señor. Agradezco a Mons. Tombe Trille su saludo y a todos ustedes su presencia y su saludo. Algunos hicieron días de camino para estar hoy aquí. Llevo siempre grabados en el corazón algunos momentos que hemos vivido antes de esta visita, como la celebración en San Pedro en el 2017, durante la cual elevamos una súplica a Dios pidiendo el don de la paz; y el retiro espiritual del 2019 con los líderes políticos, que fueron invitados para que, por medio de la oración, acogieran en sus corazones la firme resolución de trabajar por la reconciliación y la fraternidad en el país. Nuestra necesidad primordial es acoger a Jesús, nuestra paz y nuestra esperanza.

En mi discurso de ayer me inspiré en el curso de las aguas del Nilo, que atraviesa vuestro país como si fuera su espina dorsal. En la Biblia, a menudo se asocia el agua a la acción de Dios creador; a la compasión que sacia nuestra sed cuando atravesamos el desierto; a la misericordia que nos purifica cuando caemos en el pantano del pecado. Él, en el Bautismo, nos ha santificado «por el baño del nuevo nacimiento y la renovación del Espíritu Santo» (Tt 3,5). Precisamente desde una perspectiva bíblica, quisiera mirar nuevamente las aguas del Nilo. Por una parte, en el lecho de este curso de agua se derraman las lágrimas de un pueblo inmerso en el sufrimiento y en el dolor, martirizado por la violencia; un pueblo que puede rezar como el salmista: «Junto a los ríos de Babilonia, nos sentábamos a llorar» (Sal 137,1). Las aguas del gran río, en efecto, recogen el llanto desgarrado de vuestra comunidad, recogen el grito de dolor por tantas vidas destrozadas, recogen el drama de un pueblo que huye, la aflicción del corazón de las mujeres y el miedo impreso en los ojos de los niños. Se ve el miedo en los ojos de los niños. Pero, al mismo tiempo, las aguas del gran río nos evocan la historia de Moisés y, por eso, son signo de liberación y de salvación. Moisés, de hecho, fue salvado de las aguas y, al haber conducido a los suyos por el Mar Rojo, se convirtió en instrumento de liberación, icono del auxilio de Dios que ve la opresión de sus hijos, escucha sus gritos y baja a liberarlos (cf. Ex 3,7). Contemplando la historia de Moisés, que guio al Pueblo de Dios por el desierto, preguntémonos qué significa ser ministros de Dios en una historia marcada por la guerra, el odio, la violencia y la pobreza. ¿Cómo ejercitar el ministerio en esta tierra, a lo largo de la orilla de un río bañado por tanta sangre inocente, mientras que los rostros de las personas que se nos confían están surcados por lágrimas de dolor? Esta es la pregunta. Y cuando hablo de ministerio, lo hago en sentido amplio: ministerio presbiteral, diaconal y ministerio catequístico, de enseñanza, que hacen tantos consagrados, consagradas y laicos.

Para intentar responder, quisiera concentrarme en dos actitudes de Moisés: la docilidad y la intercesión. Creo que estas dos cosas tocan nuestra vida, aquí.

Lo primero que nos impacta de la historia de Moisés es su docilidad a la iniciativa de Dios. Pero no debemos pensar que siempre haya sido así; en un primer momento pretendió llevar adelante por su cuenta el esfuerzo por combatir la injusticia y la opresión. Habiendo sido salvado por la hija del faraón en las aguas del Nilo, cuando ya había descubierto su identidad se conmovió por el sufrimiento y la humillación de sus hermanos, tanto que un día decidió hacer justicia por sí mismo, hiriendo de muerte a un egipcio que maltrataba a un hebreo. Sin embargo, después de este episodio tuvo que escapar y permanecer muchos años en el desierto. Allí experimentó una especie de desierto interior: había pensado afrontar la injusticia sólo con sus fuerzas y ahora, como consecuencia, se había convertido en un fugitivo; tenía que esconderse, vivir en soledad y experimentar el amargo significado del fracaso. Me pregunto: ¿cuál había sido el error de Moisés? Pensar que él era el centro, contando solamente con sus propias fuerzas. Pero, de ese modo, se había quedado prisionero de los peores métodos humanos, como el de responder a la violencia con más violencia.

Algo parecido nos puede pasar también en nuestra vida como sacerdotes, diáconos, religiosos y seminaristas, consagradas, consagrados, todos; en el fondo, pensamos que nosotros somos el centro, que podemos confiar —si no en teoría, al menos en la práctica— casi exclusivamente en nuestras propias habilidades; o, como Iglesia, pensamos dar respuestas a los sufrimientos y a las necesidades del pueblo con instrumentos humanos, como el dinero, la astucia, el poder. En cambio, nuestra obra viene de Dios. Él es el Señor y nosotros estamos llamados a ser dóciles instrumentos en sus manos. Moisés aprendió esto cuando, un día, Dios fue a su encuentro, apareciendo «en una llama de fuego, que salía de en medio de la zarza» (Ex 3,2). Moisés se dejó atraer, dio espacio al asombro, adoptó una actitud dócil para dejarse iluminar por la fascinación de ese fuego, ante el cual pensó: «Voy a observar este grandioso espectáculo. ¿Por qué será que la zarza no se consume?» (v. 3). Esta es la docilidad que se necesita en nuestro ministerio: acercarnos a Dios con asombro y humildad. Hermanas y hermanos, no pierdan el asombro del encuentro con Dios. No pierdan el asombro del contacto con la Palabra de Dios. Moisés se dejó atraer y orientar por Dios. Confiemos en su Palabra antes de usar nuestras palabras, acojamos con mansedumbre su iniciativaantes de centrarnos en nuestros proyectos personales y eclesiales; pues la primacía no es nuestra, la primacía es de Dios.

Este dejarnos modelar dócilmente es lo que nos hace vivir el ministerio de manera renovada. Ante el Buen Pastor, comprendemos que no somos los jefes de una tribu, sino pastores compasivos y misericordiosos; que no somos los dueños del pueblo, sino siervos que se inclinan a lavar los pies de los hermanos y las hermanas; que no somos una organización mundana que administra bienes terrenos, sino la comunidad de los hijos de Dios. Hermanas y hermanos, entonces, hagamos como Moisés en la presencia de Dios: quitémonos las sandalias con humilde respeto (cf. v. 5), despojémonos de nuestra presunción humana, dejémonos atraer por el Señor y cultivemos el encuentro con Él en la oración; acerquémonos cada día al misterio de Dios, para que nos sorprenda, para que queme la maleza de nuestro orgullo y de nuestras ambiciones desmedidas y nos haga humildes compañeros de viaje de las personas que se nos encomiendan.

Purificado e iluminado por el fuego divino, Moisés se convierte en instrumento de salvación para sus hermanos que sufren; la docilidad a Dios lo hace capaz de interceder por ellos. Esta es la segunda actitud de la que quisiera hablarles hoy: la intercesión. Moisés hizo experiencia de un Dios compasivo, que no permanece indiferente frente al clamor de su pueblo y desciende a liberarlo. Es hermoso este descender. Dios desciende a liberarlo. Dios, por su condescendencia hacia nosotros, vino entre nosotros hasta asumir en Jesús nuestra carne, experimentar nuestra muerte y nuestros infiernos. No deja de descender para levantarnos. Quien es un experimentado de Él, está llamado a imitarlo. Eso hace Moisés, que “desciende” entre los suyos. Lo hará más veces durante el paso por el desierto. Él, en efecto, en los momentos más importantes y difíciles, sube y baja del monte de la presencia de Dios para interceder por el pueblo, es decir, para entrar en su historia y acercarlo a Dios. Hermanos y hermanas, interceder «no quiere decir simplemente “rezar por alguien”, como casi siempre pensamos. Etimológicamente significa “dar un paso al medio”, o sea, dar un paso para ponernos en medio de una situación» (C.M. Martini, Diccionario Espiritual, Madrid, 1997). A veces no se obtiene mucho, pero es necesario hacerlo; un grito de intercesión. Interceder es, por tanto, descender para ponerse en medio del pueblo, “hacerse puentes” que lo unen con Dios.

A los pastores se les pide que desarrollen precisamente este arte de “caminar en medio”. La especialidad de los pastores debe ser caminar en medio: en medio de los sufrimientos, en medio de las lágrimas, en medio del hambre de Dios y de la sed de amor de los hermanos y hermanas. Nuestro primer deber no es el de ser una Iglesia perfectamente organizada —esto lo puede hacer cualquier empresa—, sino una Iglesia que, en nombre de Cristo, está en medio de la vida dolorosa del pueblo y se ensucia las manos por la gente. Nunca debemos ejercitar el ministerio persiguiendo el prestigio religioso y social —ese feo “hacer carrera”—, sino caminando en medio y juntos, aprendiendo a escuchar y a dialogar, colaborando entre nosotros ministros y con los laicos. Quisiera repetir esta palabra importante: juntos. No lo olvidemos: juntos. Obispos y sacerdotes, sacerdotes y diáconos, pastores y seminaristas, ministros ordenados y religiosos, siempre en el respeto de la maravillosa especificidad de la vida religiosa. Tratemos de vencer entre nosotros la tentación del individualismo, de los intereses de parte. Es muy triste cuando los pastores no son capaces de comunión, ni logran colaborar entre ellos, ¡incluso se ignoran! Cultivemos el respeto recíproco, la cercanía, la colaboración concreta. Si eso no sucede entre nosotros, ¿cómo podemos predicarlo a los demás?

Volvamos a Moisés y, para profundizar en el arte de la intercesión, miremos sus manos. A este respecto, la Escritura nos ofrece tres imágenes: Moisés con el bastón en sus manos, Moisés con las manos extendidas y Moisés con las manos alzadas al cielo.

La primera imagen, la de Moisés con el bastón en sus manos, nos dice que él intercede con la profecía. Con ese bastón realizará prodigios, signos de la presencia y del poder de Dios, en cuyo nombre está hablando, denunciando a voz en grito el mal que sufre el pueblo y pidiendo al faraón que lo deje partir. Hermanos y hermanas, para interceder en favor de nuestro pueblo, también nosotros estamos llamados a alzar la voz contra la injusticia y la prevaricación, que aplastan a la gente y utilizan la violencia para sacar adelante sus negocios a la sombra de los conflictos. Si queremos ser pastores que interceden, no podemos permanecer neutrales frente al dolor provocado por las injusticias y las agresiones porque, allí donde una mujer o un hombre son heridos en sus derechos fundamentales, se ofende al mismo Cristo. Me alegró escuchar en el testimonio del Padre Luka que la Iglesia no deja de llevar adelante un ministerio que es al mismo tiempo profético y pastoral. ¡Gracias! Gracias porque, si hay una tentación de la que tenemos que cuidarnos, es la de dejar las cosas como están y no interesarnos por las situaciones a causa del miedo a perder privilegios y conveniencias.

Segunda imagen: Moisés con las manos extendidas. Él, dice la Escritura, «extendió su mano sobre el mar» (Ex 14,21). Sus manos extendidas son el signo de que Dios está a punto de obrar. Más tarde, Moisés sostendrá entre sus manos las tablas de la Ley (cf. Ex 34,29) para mostrarlas al pueblo; sus manos extendidas indican la cercanía de Dios que está obrando y que acompaña a su pueblo. Para liberar del mal no es suficiente la profecía; es necesario extender los brazos hacia los hermanos y hermanas, apoyar su camino. Acariciar el rebaño de Dios. Podemos imaginar a Moisés que indica el recorrido y estrecha las manos de los suyos para animarlos a seguir adelante. Durante cuarenta años, como anciano, permanece junto a los suyos; esta es la cercanía. Y no fue una tarea fácil; a menudo tuvo que alentar a un pueblo abatido y cansado, hambriento y sediento, a veces también caprichoso, que se dejaba arrastrar por la murmuración y la pereza. Y para ejercitar esa tarea también tuvo que luchar consigo mismo, porque, en algunas ocasiones, vivió momentos de oscuridad y desolación, como aquella vez que le dijo al Señor: «¿Por qué tratas tan duramente a tu servidor? ¿Por qué no has tenido compasión de mí, y me has cargado con el peso de todo este pueblo? [...] Yo solo no puedo soportar el peso de todo este pueblo: mis fuerzas no dan para tanto» (Nm 11,11.14). Mira la oración de Moisés: está cansado. Sin embargo, Moisés no se retiró; siempre cerca de Dios, nunca se alejó de los suyos. También nosotros tenemos esta tarea: extender las manos, levantar a los hermanos, recordarles que Dios es fiel a sus promesas, exhortarlos a seguir adelante. Nuestras manos han sido “ungidas por el Espíritu” no sólo para los ritos sagrados, sino para alentar, ayudar, acompañar a las personas a salir de aquello que las paraliza, las encierra y las vuelve temerosas.

Por último —tercera imagen— las manos alzadas al cielo. Cuando el pueblo cayó en el pecado y se construyó un becerro de oro, Moisés subió de nuevo al monte —¡pensemos cuánta paciencia!— y pronunció una oración que es una auténtica lucha con Dios para que no abandone a Israel. Llegó a decir: «Este pueblo ha cometido un gran pecado, ya que se han fabricado un dios de oro. ¡Si tú quisieras perdonarlo, a pesar de esto…! Y si no, bórrame por favor del Libro que tú has escrito» (Ex 32,31-32). Se pone del lado del pueblo hasta el final, alza la mano en su favor. No piensa en salvarse solo, no vende al pueblo por sus propios intereses. Intercede. Moisés intercede, Moisés lucha con Dios; mantiene los brazos alzados en oración, mientras que sus hermanos combaten en el valle (cf. Ex 17,8-16). Sostener con la oración ante Dios las luchas del pueblo, atraer el perdón, administrar la reconciliación como canales de la misericordia de Dios que perdona los pecados; esa es nuestra tarea como intercesores.

Queridos hermanos y hermanas, estas manos proféticas, extendidas y alzadas cuestan trabajo, no es fácil. Ser profetas, acompañantes, intercesores, mostrar con la vida el misterio de la cercanía de Dios a su Pueblo puede requerir dar la propia vida. Muchos sacerdotes, religiosas y religiosos — como nos ha dicho sor Regina de sus hermanas— fueron víctimas de agresiones y atentados donde perdieron la vida. En realidad, su existencia la ofrecieron por la causa del Evangelio y su cercanía a los hermanos y hermanas nos dejan un testimonio maravilloso que nos invita a proseguir su camino. Podemos recordar a san Daniel Comboni, que con sus hermanos misioneros realizó en esta tierra una gran labor evangelizadora. Él decía que el misionero debía estar dispuesto a todo por Cristo y por el Evangelio, y que se necesitaban almas audaces y generosas que supieran sufrir y morir por África.

Pues bien, yo quisiera agradecerles por lo que hacen en medio de tantas pruebas y fatigas. Gracias, en nombre de toda la Iglesia, por su entrega, su valentía, sus sacrificios y su paciencia. ¡Gracias! Les deseo, queridos hermanos y hermanas, que sean siempre pastores y testigos generosos, cuyas armas son sólo la oración y la caridad; pastores testigos, que se dejan sorprender dócilmente por la gracia de Dios y son instrumentos de salvación para los demás; pastores y profetas de cercanía que acompañan al pueblo, intercesores con los brazos alzados. Que la Virgen Santa los cuide. En este momento, pensemos en silencio en estos hermanos y hermanas nuestros que han dado la vida aquí, en el ministerio pastoral, y demos gracias al Señor porque ha estado cerca. Demos gracias al Señor por su cercanía martirial. Recemos en silencio.

Gracias por sus testimonios. Y si tienen un poquito de tiempo, recen por mí. Gracias.

[00169-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

Amados irmãos bispos, presbíteros e diáconos,
Prezados consagrados e consagradas,
Queridos seminaristas, noviças, noviços e aspirantes, bom dia a todos!

Há já bastante tempo que cultivava o desejo de vos encontrar; por isso quero agradecer ao Senhor o dia de hoje. Estou grato a D. Tombe Trille pela sua saudação e, a todos vós, pela presença e palavras de boas-vindas. Alguns tiveram de fazer dias de estrada para estar hoje aqui! Conservo gravados no coração alguns momentos vividos antes desta visita: a celebração em São Pedro em 2017, durante a qual elevamos súplicas a Deus pelo dom da paz; e o retiro espiritual de 2019 com os líderes políticos, convidados para que, através da oração, cimentassem no coração a firme decisão de buscar a reconciliação e a fraternidade no país. A primeira coisa de que temos necessidade é acolher Jesus, nossa paz e nossa esperança.

Para o meu discurso de ontem, fui buscar inspiração ao curso das águas do Nilo, que atravessa o vosso país como se fosse a sua espinha dorsal. Na Bíblia, associa-se muitas vezes com a água a ação de Deus criador, a compaixão com que sacia a nossa sede quando se anda errante no deserto, a misericórdia com que nos purifica quando caímos nas paludes do pecado; no Batismo, Ele santificou-nos «com uma água que regenera e renova no Espírito Santo» (Tt 3, 5). Agora quero olhar de novo para as águas do Nilo mas numa perspetiva bíblica. Por um lado, no leito deste curso de água, vertem-se as lágrimas dum povo imerso no sofrimento e na dor, torturado pela violência; um povo que pode rezar como o salmista: «Junto aos rios de Babilónia nos sentamos a chorar» (Sal 137, 1). De facto, as águas do grande rio recolhem os dolorosos gemidos das vossas comunidades, recolhem o grito de dor de tantas vidas destroçadas, recolhem o drama dum povo em fuga, a aflição do coração das mulheres e o medo gravado nos olhos das crianças. Vê-se o medo nos olhos das crianças. Mas, por outro lado, as águas do grande rio fazem-nos lembrar a história de Moisés e, por isso, são sinal de libertação e salvação: na verdade, Moisés foi salvo daquelas águas e, conduzindo o seu povo pelo meio do Mar Vermelho, tornou-se instrumento de libertação, ícone do socorro de Deus que vê a aflição dos seus filhos, ouve o seu clamor e desce para os libertar (cf. Ex 3, 7). Tendo, pois, diante dos olhos a história de Moisés, que guiou o Povo de Deus através do deserto, perguntemo-nos que significa ser ministros de Deus numa história permeada pela guerra, o ódio, a violência e a pobreza. Como exercer o ministério nesta terra, ao longo das margens dum rio banhado por tanto sangue inocente, enquanto nos aparecem sulcados por lágrimas de amargura os rostos das pessoas a nós confiadas? Eis a questão. E quando falo de ministério, penso nele em sentido amplo: ministério presbiteral, diaconal e ministério catequético, de ensino, que fazem tantos consagrados, consagradas e leigos.

Tentando responder à questão, quero deter-me sobre duas atitudes de Moisés: a docilidade e a intercessão. Considero que estas duas coisas tocam a nossa vida, aqui.

A primeira coisa que impressiona na história de Moisés é a sua docilidade à iniciativa de Deus. Não pensemos, porém, que foi sempre assim. Num primeiro tempo, tentara combater, sozinho, a injustiça e a opressão. Salvo das águas do Nilo pela filha do faraó, mais tarde descobriu a própria identidade deixando-se tocar pelo sofrimento e a humilhação dos seus irmãos: um dia chegou ao ponto de decidir fazer justiça sozinho, matando um egípcio que estava a maltratar um judeu. E, por causa deste episódio, teve que fugir permanecendo muitos anos no deserto. Lá experimentou uma espécie de deserto interior: pensara em enfrentar a injustiça unicamente com as suas forças e a consequência foi encontrar-se agora fugitivo, tendo que se esconder, vivendo na solidão, experimentando a amarga sensação do fracasso. Pergunto-me: qual foi o erro de Moisés? Pensar que era ele o centro, contando apenas com as suas forças. Deste modo, porém, ficou prisioneiro dos piores métodos humanos, como aquele de responder à violência com a violência.

Algo semelhante pode acontecer às vezes também na nossa vida de sacerdotes, diáconos, religiosos, seminaristas, consagradas, consagrados, na vida de todos: no fundo, pensamos que somos nós o centro, que podemos confiar-nos – se não na teoria, pelo menos na prática – quase exclusivamente à nossa perícia; ou, como Igreja, encontrar a resposta aos sofrimentos e necessidades do povo através de instrumentos humanos, como o dinheiro, a astúcia, o poder. Pelo contrário, a nossa obra vem de Deus: Ele é o Senhor e nós somos chamados a ser instrumentos dóceis nas suas mãos. Moisés aprende isto quando, um dia, Deus vem ao seu encontro, aparecendo-lhe «numa chama de fogo, no meio da sarça» (Ex 3, 2). Moisés deixa-se atrair, abre-se à estupefação, coloca-se numa atitude de docilidade deixando-se orientar pelo fascínio daquele fogo. «Vou adentrar-me para ver esta grande visão: por que razão não se consome a sarça?» (3, 3). Vemos aqui a docilidade que serve para o nosso ministério: aproximar-se de Deus cheios de maravilha e humildade. Irmãs e irmãos, não percais e estupefação do encontro com Deus! Não percais a estupefação do contacto com a Palavra de Deus. Moisés deixou-se atrair e guiar por Deus. A primazia não deve ser dada a nós, mas a Deus: devemos confiar-nos à sua Palavra em vez de nos servir das nossas palavras, acolher docilmente a sua iniciativa em vez de apostar nos nossos projetos pessoais e eclesiais.

Este deixar-nos plasmar docilmente é que nos faz viver de maneira renovada o ministério. Na presença do Bom Pastor, compreendemos que não somos chefes duma tribo, mas Pastores compassivos e misericordiosos; não somos patrões do povo, mas servos que se inclinam a lavar os pés dos irmãos e irmãs; não somos uma organização mundana que administra bens terrenos, mas somos a comunidade dos filhos de Deus. Irmãs e irmãos, então façamos como Moisés na presença de Deus: descalcemos as sandálias, com humilde respeito (cf. 3, 5), despojemo-nos da nossa presunção humana, deixemo-nos atrair pelo Senhor e cultivemos o encontro com Ele na oração; aproximemo-nos cada dia do mistério de Deus, para que nos encante e queime o restolho do nosso orgulho e das nossas ambições desmedidas, tornando-nos humildes companheiros de viagem daqueles que nos estão confiados.

Purificado e iluminado pelo fogo divino, Moisés torna-se instrumento de salvação para o seu povo que sofre; a docilidade para com Deus torna-o capaz de interceder pelos irmãos. Aqui está a segunda atitude sobre a qual vos quero falar hoje: a intercessão. Moisés fez experiência de um Deus compassivo, que não fica indiferente ao clamor do seu povo, mas desce para o libertar. É importante este descer: Deus desce para o libertar. Pela sua condescendência para connosco, Deus vem para o meio de nós chegando ao ponto de assumir, em Jesus, a nossa carne, experimentar a nossa morte e descida à mansão dos mortos. Sempre desce para nos levantar e quem faz experiência d’Ele é levado a imitá-Lo. Assim faz Moisés, que «desce» para o meio dos seus: fá-lo-á várias vezes durante a travessia no deserto. Com efeito, nos momentos mais importantes e difíceis, sobe e desce do monte da presença de Deus a fim de interceder pelo povo, isto é, colocar-se dentro da sua história para o aproximar de Deus. Irmãos e irmãs, interceder «não significa simplesmente “rezar por alguém”, como muitas vezes pensamos. Etimologicamente significa “dar um passo para o meio”, dar um passo de modo a colocar-se no meio duma situação» (C. M. Martini, Un grido di intercessione, Milão, 29/I/1991). Às vezes pouco se consegue, mas é preciso fazê-lo: um grito de intercessão. Concluindo, interceder é descer para se colocar no meio do povo, “fazer-se ponte” que o liga a Deus.

Os pastores são chamados a desenvolver precisamente esta arte de «caminhar no meio». Esta deve ser a especialidade dos pastores: caminhar no meio… no meio das tribulações e no meio das lágrimas, no meio da fome de Deus e da sede de amor aos irmãos e irmãs. O nosso primeiro dever não é ser uma Igreja perfeitamente organizada – isso pode fazê-lo qualquer empresa –, mas uma Igreja que, em nome de Cristo, permanece no meio da vida dolorosa do povo sem medo de sujar as mãos por amor. Nunca devemos exercer o nosso ministério visando o prestígio religioso e social – o sonho mau de «fazer carreira» –, mas caminhando juntos no meio do povo; é colaborando entre nós, ministros, e com os leigos que se aprende a ouvir e dialogar. Quero repetir aquela importante palavra: juntos. Não a esqueçamos: juntos. Bispos e padres, padres e diáconos, pastores e seminaristas, ministros ordenados e religiosos (nutrindo sempre respeito pela maravilhosa especificidade da vida religiosa): procuremos entre nós vencer a tentação do individualismo, dos interesses parciais. É muito triste quando os Pastores não são capazes de fazer comunhão: não conseguem colaborar, ou até se ignoram mutuamente! Cultivemos o respeito mútuo, a proximidade, a colaboração concreta. Se isto não acontece entre nós, como poderemos pregá-lo aos outros?

Voltemos a Moisés! E, para aprofundar a arte da intercessão, ponhamos atenção nas suas mãos. A respeito delas, a Escritura oferece-nos três imagens: Moisés com a vara na mão, Moisés com as mãos estendidas, Moisés com as mãos erguidas para o céu.

A primeira imagem, Moisés com o bastão na mão, diz-nos que ele intercede com a profecia. Com aquele bastão, realizará prodígios, sinais da presença e do poder de Deus, em nome de Quem fala, denunciando em voz alta o mal que o povo sofre e pedindo ao Faraó que o deixe partir. Irmãos e irmãs, para interceder a favor do nosso povo, também nós somos chamados a erguer a voz contra a injustiça e a prevaricação, que esmagam as pessoas e valem-se da violência para, à sombra dos conflitos, melhor gerir os próprios negócios. Se queremos ser Pastores que intercedem, não podemos permanecer neutrais face ao sofrimento provocado pela injustiça e as violências, porque, onde quer que uma mulher ou um homem seja ferido nos seus direitos fundamentais, é ofendido o próprio Cristo. Gostei de ouvir, no testemunho do padre Luka, que a Igreja não cessa de cumprir um ministério profético e pastoral. Obrigado! Obrigado porque, se há uma tentação da qual nos devemos defender, é a de deixar as coisas como estão, não nos interessando pelas situações com medo de perder privilégios e conveniências.

A segunda imagem: Moisés com as mãos estendidas. Como diz a Escritura, ele «estendeu a sua mão sobre o mar» (Ex 14, 21). As suas mãos estendidas são o sinal de que Deus está prestes a intervir. Mais tarde, Moisés terá nas mãos as tábuas da Lei (cf. Ex 34, 29) para as mostrar ao povo; as suas mãos estendidas indicam a proximidade de Deus que está em ação e acompanha o seu povo. De facto, para libertar do mal, não basta a profecia, é preciso estender os braços para os irmãos e irmãs, apoiar o seu caminho. Acarinhar o rebanho de Deus. Podemos imaginar Moisés que indica o percurso e agarra as mãos do seu povo encorajando-o a prosseguir. Depois de quarenta anos e já velho, mantem-se junto do povo: isto é a proximidade. Não foi uma tarefa fácil: muitas vezes teve de encorajar um povo desanimado e cansado, faminto e sedento, e por vezes também caprichoso que se dava à murmuração e à preguiça. E, para exercer esta tarefa, precisou de lutar também consigo mesmo, porque às vezes viveu momentos de trevas e desolação, como aquele em que disse ao Senhor: «Porque atormentas o teu servo? Porque é que não encontrei graça diante de Ti, a ponto de pores todo este povo como um peso sobre mim? (...) Eu sozinho não consigo suportar todo este povo, porque é demasiado pesado para mim!» (Nm 11, 11.14). Observa a oração de Moisés: está cansado. Mas não se retirou: sempre próximo de Deus, nunca se afastou do seu povo. Também nós temos esta tarefa: estender as mãos, incitar os irmãos, recordar-lhes que Deus é fiel às suas promessas, exortá-los a prosseguir. As nossas mãos foram «ungidas com o Espírito» não só para os ritos sagrados, mas também para encorajar, ajudar, acompanhar as pessoas a sair daquilo que as paralisa, isola, assusta.

Por fim, a terceira imagem: as mãos levantadas para o céu. Quando o povo cai no pecado e constrói um bezerro de ouro, Moisés volta a subir ao Monte – pensemos nesta grande paciência! – e pronuncia uma oração que é uma verdadeira luta com Deus para que não abandone Israel. Chega a dizer: «Ah, este povo cometeu um grande pecado. Fizeram para si um deus de ouro. Apesar disso, perdoa-lhes este pecado, ou então apaga-me do livro que escreveste» (Ex 31, 31-32). Coloca-se da parte do povo até ao fim, levanta a mão em seu favor. Não pensa em salvar-se sozinho, não vende o povo em troca dos seus interesses! Moisés intercede, Moisés luta com Deus; mantém os braços erguidos em oração enquanto os seus irmãos combatem no vale (cf. Ex 17, 8-16). Sustentar as lutas do povo com a oração diante de Deus, atrair o perdão, ministrar a reconciliação como canais da misericórdia de Deus que perdoa os pecados: esta é a nossa tarefa de intercessores!

Caríssimos amigos, estas mãos proféticas, estendidas e levantadas cansam, não é fácil. Ser profeta, acompanhador, intercessor, mostrar com a vida o mistério da proximidade de Deus ao seu Povo pode exigir a própria vida. Muitos padres, religiosas e religiosos (como a Irmã Regina nos disse de suas irmãs) caíram vítimas de violências e atentados em que perderam a vida. Na realidade, ofereceram a sua existência pela causa do Evangelho, e a sua proximidade aos irmãos e irmãs é um maravilhoso testemunho que nos deixaram, convidando-nos a continuar o seu caminho. Podemos recordar as palavras de São Daniel Comboni que realizou nesta terra, com os seus irmãos missionários, uma grande obra de evangelização: o missionário deve estar disposto a tudo por Cristo e pelo Evangelho, e há necessidade de almas ousadas e generosas que saibam sofrer e morrer pela África.

Por isso, quero agradecer-vos o que fazeis no meio de tantas provas e canseiras. Em nome de toda a Igreja, obrigado pela vossa dedicação, a vossa coragem, os vossos sacrifícios, a vossa paciência. Obrigado! Faço votos, queridos irmãos e irmãs, de que sejais sempre generosos Pastores e testemunhas, armados apenas de oração e caridade; pastores testemunhas, que docilmente se deixam surpreender pela graça de Deus e se tornam instrumentos de salvação para os outros; pastores e profetas de proximidade que acompanham o povo, intercessores com os braços erguidos. Que a Virgem Santa vos guarde. Por momentos, pensemos em silêncio nestes nossos irmãos e irmãs que deram a vida aqui neste ministério pastoral, e demos graças ao Senhor porque esteve perto deles. Agradeçamos ao Senhor pela sua proximidade aos mártires. Rezemos em silêncio.

Obrigado pelo vosso testemunho. E se tiverdes um bocadinho de tempo, rezai por mim. Obrigado!

[00169-PO.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

Drodzy bracia Biskupi, Kapłani i Diakoni,
drogie Osoby konsekrowane, drodzy Seminarzyści,
Nowicjuszki i Nowicjusze oraz Postulanci, dzień dobry wszystkim!

Od dawna pragnąłem się z wami spotkać. Dlatego dziś chciałbym podziękować Panu. Jestem wdzięczny biskupowi Tombe Trillemu za jego powitanie i wam wszystkim za obecność oraz pozdrowienie. Niektórzy, żeby tu dzisiaj przybyć, podróżowali przez szereg dni! Noszę zawsze, wyryte w sercu, niektóre chwile, które przeżywałem przed tą wizytą: nabożeństwo w Bazylice św. Piotra w 2017 r., podczas którego zanosiliśmy do Boga błaganie o dar pokoju, oraz rekolekcje w 2019 r. wraz z przywódcami politycznymi, zaproszonymi, aby poprzez modlitwę podjęli w sercu stanowczą decyzję dążenia do pojednania i braterstwa w kraju. Potrzebujemy przede wszystkim tego – przyjęcia Jezusa, naszego pokoju i naszej nadziei.

W moim wczorajszym przemówieniu zainspirowałem się biegiem wód Nilu, który przepływa przez wasz kraj, jakby był jego kręgosłupem. W Biblii woda często kojarzona jest z działaniem Boga Stwórcy, ze współczuciem, z jakim gasi nasze pragnienie, gdy błądzimy po pustyni, z miłosierdziem, dzięki któremu nas oczyszcza, gdy wpadamy w bagna grzechu. W chrzcie uświęcił nas On „przez obmycie odradzające i odnawiające w Duchu Świętym” (Tt 3, 5). Właśnie z perspektywy biblijnej chciałbym jeszcze raz spojrzeć na wody Nilu. Z jednej strony do koryta tej rzeki wpadają łzy ludu pogrążonego w cierpieniu i bólu, dręczonego przez przemoc; ludu, który może się modlić jak psalmista: „Nad rzekami Babilonu – tam myśmy siedzieli i płakali” (Ps 137, 1). Wody tej wielkiej rzeki rzeczywiście niosą bolesne jęki waszych wspólnot, niosą krzyk bólu wielu unicestwionych istnień, niosą dramat uciekającego ludu, smutek serc kobiet i strach odbijający się w oczach dzieci. W oczach dzieci widać przerażenie. Jednocześnie jednak wody wielkiej rzeki przenoszą nas do historii Mojżesza i dlatego są znakiem wyzwolenia i zbawienia. Z tych wód bowiem Mojżesz został ocalony, a przeprowadzając swój lud przez Morze Czerwone, stał się narzędziem wyzwolenia, symbolem pomocy Boga, który widzi utrapienie swoich dzieci, wysłuchuje ich wołania i zstępuje, aby je wyzwolić (por. Wj 3, 7). Patrząc na historię Mojżesza, który prowadził lud Boży przez pustynię, zadajmy sobie pytanie, co to znaczy być Bożymi sługami w historii naznaczonej wojną, nienawiścią, przemocą, ubóstwem. Jak pełnić posługę na tej ziemi, nad brzegiem rzeki przesiąkniętej tak wielką ilością niewinnej krwi, gdy twarze powierzonych nam osób są zalane łzami cierpienia? Oto jest pytanie. A kiedy mówię o posłudze, czynię to w szerokim znaczeniu: o posłudze prezbiterów, posłudze diakonów i posłudze katechetycznej, nauczycielskiej, którą wykonuje tak wielu konsekrowanych mężczyzn i kobiet oraz osób świeckich.

Aby spróbować odpowiedzieć, chciałbym skupić się na dwóch postawach Mojżesza: posłuszeństwie i wstawiennictwie. Myślę, że te dwie rzeczy tutaj dotykają naszego życia.

Pierwszą rzeczą, jaka uderza nas w historii Mojżesza, jest jego posłuszeństwo wobec inicjatywy Boga. Nie powinniśmy jednak myśleć, że taki był zawsze. Początkowo twierdził on, że sam przeprowadzi próbę zwalczenia niesprawiedliwości i ucisku. Gdy odkrył swoją tożsamość – po tym, jak został ocalony przez córkę faraona z wód Nilu – do tego stopnia poruszyły go cierpienie i upokorzenie jego braci, że pewnego dnia postanowił sam wymierzyć sprawiedliwość i zabił Egipcjanina, który znęcał się nad Żydem. Po tym wydarzeniu musiał jednak uciekać i przez wiele lat przebywać na pustyni. Tam doświadczył pewnego rodzaju pustyni wewnętrznej. Myślał, że o własnych siłach stawi czoła niesprawiedliwości, tymczasem jednak, w konsekwencji, stał się uciekinierem, musiał się ukrywać, żyć w samotności, doświadczając gorzkiego poczucia porażki. Zastanawiam się: na czym polegał błąd Mojżesza? Na myśleniu, że to on stanowi centrum, i liczeniu jedynie na własne siły. A przez to stał się więźniem najgorszych ludzkich praktyk, takich jak odpowiadanie przemocą na przemoc.

Czasami coś podobnego może się zdarzyć także w naszym życiu kapłanów, diakonów, zakonników, seminarzystów, osób konsekrowanych, wszystkich: w głębi duszy myślimy, że to my jesteśmy centrum, że możemy polegać, jeśli nie w teorii, to przynajmniej w praktyce, niemal wyłącznie na naszych umiejętnościach; albo że jako Kościół znajdziemy odpowiedź na cierpienia i potrzeby ludzi, posługując się ludzkimi narzędziami, takimi jak pieniądze, spryt, władza. Tymczasem nasze dzieło pochodzi od Boga: On jest Panem, a my jesteśmy powołani do tego, by być posłusznymi narzędziami w Jego rękach. Mojżesz przekonuje się o tym, gdy pewnego dnia Bóg przychodzi do niego, ukazując się mu „w płomieniu ognia, ze środka krzewu” (Wj 3, 2). Mojżesz daje się przyciągnąć, dopuszcza do siebie zdumienie, przyjmuje postawę uległości, dając się oświecić czarem tego ognia. Widząc go, myśli: „Podejdę, żeby się przyjrzeć temu niezwykłemu zjawisku. Dlaczego krzew się nie spala?” (w. 3). Oto posłuszeństwo, które potrzebne jest w naszej posłudze: zbliżanie się do Boga z zadziwieniem i pokorą. Siostry i bracia, nie zatraćcie zadziwienia spotkania z Bogiem! Nie zatraćcie zadziwienia kontaktu ze Słowem Bożym. Mojżesz dał się przyciągnąć i pokierować Bogu. Na pierwszym miejscu nie jesteśmy my sami, prymat należy się Bogu, trzeba dać się powierzyć się Jego Słowu, zanim użyjemy własnych słów, aby pokornie przyjąć Jego inicjatywę, zanim skupimy się na naszych osobistych i kościelnych planach.

To właśnie owo posłuszne poddanie się kształtowaniu sprawia, że przeżywamy posługę w sposób odnowiony. W obliczu Dobrego Pasterza zdajemy sobie sprawę, że nie jesteśmy wodzami plemiennymi, lecz współczującymi i miłosiernymi pasterzami; nie panami ludu, lecz sługami, którzy pochylają się, aby obmywać nogi braciom i siostrom; nie jesteśmy organizacją doczesną, która zarządza ziemskimi dobrami, lecz jesteśmy wspólnotą dzieci Bożych. Bracia i siostry, zróbmy zatem to, co zrobił Mojżesz w obecności Boga: z pokornym szacunkiem zdejmijmy sandały (por. w. 5), pozbądźmy się naszej ludzkiej pychy, pozwólmy się przyciągnąć Panu i pielęgnujmy spotkanie z Nim na modlitwie; zbliżajmy się codziennie do tajemnicy Boga, aby nas zadziwił i żeby wypalił wyschnięte korzenie naszej pychy i naszych wygórowanych ambicji oraz uczynił nas pokornymi towarzyszami drogi tych, którzy są nam powierzeni.

Mojżesz, oczyszczony i oświecony Bożym ogniem, staje się narzędziem zbawienia dla swojego cierpiącego ludu. Uległość wobec Boga czyni go zdolnym do wstawiania się za braćmi. Oto druga postawa, o której chciałbym wam dzisiaj powiedzieć: wstawiennictwo. Mojżesz doświadczył Boga litościwego, który nie pozostaje obojętny na wołanie swojego ludu i zstępuje, aby go wyzwolić. Piękne jest to: zstąpić. Bóg zstępuje aby go wyzwolić. Bóg, ze względu na swą łaskawość wobec nas, przychodzi między nas i przyjmuje w Jezusie nasze ciało, doświadczając naszej śmierci i naszego piekła. Zawsze zstępuje, aby nas podnieść, a ten, kto Jego doświadcza, pragnie Go naśladować.  Tak też czyni Mojżesz, który „zstępuje” między swoich rodaków: czyni to kilkakrotnie podczas przeprawy przez pustynię. W najważniejszych i najtrudniejszych momentach wchodzi on bowiem na górę Bożej obecności i zstępuje z niej, aby wstawiać się za ludem, czyli wejść w jego historię, aby przybliżyć go do Boga. Bracia i siostry, wstawiennictwo „nie oznacza jedynie «modlenia się za kogoś», jak często myślimy. Etymologicznie oznacza «wejść w środek», uczynić krok, aby stanąć w środku sytuacji” (C.M. Martini, Un grido di intercessione, Mediolan, 29 stycznia 1991 r.); Niekiedy nie zyskuje się wiele, ale trzeba to czynić: wołanie orędownictwa. Wstawianie się jest więc zstąpieniem, aby stanąć pośród ludu, aby „uczynić siebie mostem”, który łączy go z Bogiem.

Od pasterzy wymaga się rozwijania właśnie tej sztuki „podążania pośród”. Powinna to być specjalność pasterzy - podążanie pośród: pośród cierpienia i łez, pośród głodu Boga i pośród pragnienia miłości braci i sióstr. Naszym pierwszym obowiązkiem nie jest bycie Kościołem doskonale zorganizowanym – to może czynić każda firma, lecz Kościołem, który w imię Chrystusa staje pośród trudnego życia ludzi i dla ludzi brudzi sobie ręce. Nigdy nie powinniśmy pełnić naszej posługi, goniąc za prestiżem religijnym i społecznym - to okropne „zrobić karierę” - ale idąc pośród i razem, ucząc się słuchać i prowadzić dialog, współpracując między sobą jako szafarze i współpracując ze świeckimi. Tutaj chciałbym powtórzyć to ważne słowo: razem. Nie zapominajmy go: razem.

Biskupi i kapłani, kapłani i diakoni, pasterze i seminarzyści, duchowni i zakonnicy - zawsze żywiąc szacunek dla wspaniałej specyfiki życia zakonnego; starajmy się przezwyciężać wśród nas pokusę indywidualizmu, interesów partykularnych. To bardzo smutne, gdy pasterze nie są zdolni do jedności, nie potrafią współpracować, wręcz ignorują się nawzajem! Pielęgnujmy wzajemny szacunek, bliskość, konkretną współpracę. Jeśli nie jest tak pośród nas, jak możemy głosić to innym?

Wróćmy do Mojżesza i, aby pogłębić sztukę wstawiennictwa, spójrzmy na jego ręce. Pismo święte daje nam w tym kontekście trzy obrazy: Mojżesza z laską w ręku, Mojżesza z wyciągniętymi rękami, Mojżesza z rękami wzniesionymi do nieba.

Pierwszy obraz, Mojżesza z laską w ręku, mówi nam, że wstawia się on przez proroctwo. Za pomocą tej laski czyni cuda, znaki obecności i mocy Boga, w którego imieniu przemawia, głośno piętnując zło, z powodu którego cierpi lud, i prosząc faraona, żeby pozwolił mu odejść. Bracia i siostry, aby wstawiać się za naszym ludem, również my jesteśmy wezwani do podniesienia głosu przeciwko niesprawiedliwości i nadużyciom, które uciskają ludzi i posługują się przemocą, aby prowadzić interesy w cieniu konfliktów. Jeśli chcemy być pasterzami wstawiającymi się, nie możemy pozostawać neutralni wobec cierpienia, spowodowanego przez niesprawiedliwość i przemoc, ponieważ tam, gdzie kobieta lub mężczyzna są ranieni w swoich podstawowych prawach, obrażany jest sam Chrystus. Ucieszyło mnie to, co usłyszałem w świadectwie księdza Luki – że Kościół nie przestaje pełnić posługi zarówno prorockiej, jak i duszpasterskiej. Dziękuję! Dziękuję, bo jeśli istnieje jakaś pokusa, której musimy się wystrzegać, to jest to pokusa pozostawienia rzeczy takimi, jakimi są i nie interesowania się sytuacjami, w obawie przed utratą przywilejów i korzyści.

Drugi obraz: Mojżesz z wyciągniętymi rękami. Pismo Święte mówi, że „wyciągnął rękę nad morze” (Wj 14, 21). Jego wyciągnięte ręce są znakiem tego, że Bóg będzie działał. Później Mojżesz będzie trzymał w rękach tablice Prawa (por. Wj 34, 29), aby pokazać je ludowi; jego wyciągnięte ręce wskazują na bliskość Boga, który działa i towarzyszy swojemu ludowi. Aby wyzwolić od zła, nie wystarczy bowiem proroctwo, trzeba wyciągnąć ręce do braci i sióstr, wesprzeć ich w drodze. Obdarzyć czułością Bożą owczarnię. Możemy sobie wyobrazić Mojżesza wskazującego drogę i podającego ręce swojemu ludowi, aby dodać mu otuchy do dalszej wędrówki. Przez czterdzieści lat, jako starzec, pozostawał u boku swojego ludu – na tym polega bliskość. A nie było to łatwe zadanie – często musiał podnosić na duchu lud zniechęcony i znużony, głodny i spragniony, czasami także kapryszący, skłonny do szemrania i lenistwa. A żeby wypełniać to zadanie, musiał też zmagać się z samym sobą, ponieważ przeżywał niekiedy chwile ciemności i przygnębienia, takie jak ta, kiedy powiedział do Pana: „Czemu tak źle się obchodzisz ze sługą swoim, czemu nie darzysz mnie życzliwością i złożyłeś na mnie cały ciężar tego ludu? [...] Nie mogę już sam dłużej udźwignąć troski o ten lud, już mi nazbyt ciąży” (Lb 11, 11.14). Spójrz na modlitwę Mojżesze: jest znużony. Jednak Mojżesz się nie wycofał: pozostając zawsze blisko Boga, nigdy nie oddalił się od swojego ludu. To jest również nasze zadanie: wyciągać ręce, podnosić braci, przypominać im, że Bóg jest wierny swoim obietnicom, zachęcać ich do pójścia naprzód. Nasze ręce zostały „namaszczone Duchem” nie tylko do sprawowania świętych obrzędów, ale by dodawać otuchy, pomagać, towarzyszyć ludziom w wychodzeniu z tego, co ich paraliżuje, zamyka, czyni zalęknionymi.

Wreszcie – trzeci obraz – ręce wzniesione do nieba. Kiedy lud popada w grzech i robi sobie złotego cielca, Mojżesz ponownie wchodzi na górę – pomyślmy, jak wiele wymagało to cierpliwości! – i wypowiada modlitwę, która jest prawdziwą walką z Bogiem o to, żeby nie opuścił Izraela. Posuwa się do powiedzenia: „lud ten dopuścił się wielkiego grzechu, gdyż uczynił sobie boga ze złota. Przebacz jednak im ten grzech!... A jeśli nie, to wymaż mię natychmiast z Twej księgi, którą napisałeś!” (Wj 32, 31-32). Do samego końca staje po stronie ludu, wznosi rękę w jego sprawie. Nie myśli o ocaleniu jedynie siebie, nie zaprzedaje ludu dla własnych korzyści! Wstawia się. Mojżesz oręduje, Mojżesz zmaga się z Bogiem; trzyma ręce wzniesione do góry w modlitwie, podczas gdy jego bracia walczą w dolinie (por. Wj 17, 8-16). Wspieranie zmagań ludu modlitwą do Boga, zjednywanie przebaczenia, bycie szafarzem pojednania jako drogi miłosierdzia Boga, który odpuszcza grzechy: to jest nasze zadanie jako orędowników!

Umiłowani, te prorocze, wyciągnięte i podniesione ręce wiążą się z wysiłkiem, to nie łatwe. Bycie prorokami, towarzyszami, orędownikami, pokazywanie swoim życiem tajemnicy bliskości Boga wobec swojego ludu, może wymagać poświęcenia życia. Tak wielu księży, zakonnic i zakonników – jak nam powiedziała siostra Regina o swoich siostrach – padło ofiarą przemocy i ataków, w których stracili życie. W rzeczywistości ofiarowali swoje życie dla sprawy Ewangelii, a ich bliskość z braćmi i siostrami jest wspaniałym świadectwem, które nam pozostawiają i przez które zachęcają nas do kontynuowania ich drogi. Możemy wspomnieć św. Daniela Comboniego, który wraz ze swoimi braćmi misjonarzami prowadził wielkie dzieło ewangelizacji na tej ziemi. Mówił, że misjonarz musi być gotów na wszystko dla Chrystusa i Ewangelii, oraz że potrzeba dusz odważnych i szlachetnych, gotowych cierpieć i umierać za Afrykę.

Chciałbym więc podziękować wam za to, co robicie pośród tak wielu prób i trudów. Dziękuję w imieniu całego Kościoła za wasze poświęcenie, waszą odwagę, wasze ofiary, waszą cierpliwość. Dziękuję! Życzę wam, drodzy bracia i siostry, abyście zawsze byli wielkodusznymi pasterzami i świadkami, uzbrojonymi jedynie w modlitwę i miłość, pasterzami i świadkami którzy dają się pokornie zaskakiwać łasce Bożej i stają się narzędziami zbawienia dla innych; pasterzami i prorokami bliskości, którzy towarzyszą ludziom, orędownikami z podniesionymi rękami. Niech Najświętsza Panna was strzeże. Teraz pomyślmy w milczeniu o tych naszych braciach i siostrach, którzy oddali swoje życie w tej posłudze duszpasterskiej tutaj, i podziękujmy Panu za to, że był blisko. Dziękujemy Panu za ich męczeńską bliskość. Pomódlmy się w milczeniu.

Dziękuję za wasze świadectwo. I jeśli będzie mieli trochę czasu, proszę pomódlcie si

[00169-PL.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua araba

الزيارة الرسوليّة إلى جنوب السّودان

كلمة قداسة البابا فرنسيس

في اللقاء مع الأساقفة والكهنة والشّمامسة والمكرّسين والمكرّسات والإكليركيّين

في كاتدرائيّة القدّيسة تريزا في جوبا

السبت 4 شباط/فبراير 2023

أيّها الإخوة الأعزّاء، الأساقفة والكهنة والشّمامسة،

أيّها الأعزّاء المكرّسون والمكرّسات،

أيّها الإكليركيّون والمبتدئون والمبتدئات في الحياة الرهبانيّة، صباح الخير للجميع.

منذ مدّة طويلة أردت أن ألتقي بكم. لهذا أريد أن أشكر الله اليوم. أشكر سيادة المطران تومب تريل (Tombe Trille) على تحيته، وأشكركم جميعًا لحضوركم. لقد سافر البعض منكم لأيام ليكونوا هنا اليوم! إنّي أحمل منقوشة في قلبي اللحظات التي عشتها قبل هذه الزيارة: الاحتفال في بازيليكا القدّيس بطرس في عام 2017، حيث رفعنا دعاءنا إلى الله من أجل هبة السّلام، والرّياضة الرّوحية لعام 2019 مع القادة السّياسيين المدعوّين حتّى يُصَلُّوا ويتخذوا القرار الحازم في قلوبهم لتحقيق المصالحة والأخُوّة في البلاد. قبل كلّ شيء، نحن بحاجة إلى هذا: أن نرحِّب بيسوع، سلامنا ورجائنا.

في حديثي، في يوم أمس، استلهمت مجرى مياه النيل التي تمر ببلادكم، وكأنّها العمود الفقري لها. في الكتاب المقدّس، ذِكرُ الماء يرتبط غالبًا مع عمل الله الخالق، والشّفقة التي يروي بها عطشنا عندما نجد أنفسنا تائهين في الصّحراء، والرّحمة التي يطهرنا بها عندما نسقط في مستنقعات الخطيئة. إنه قدَّسَنا في المعمودية، "بِغُسْلِ الميلادِ الثَّاني والتَّجديدِ مِنَ الرُّوحِ القُدُسِ" (طيطس 3، 5). أودّ أن أنظر مرّة أخرى إلى مياه النيل، من وجهة نظر كتابيّة. من جهة، دموعُ شعبٍ غارقٍ في المعاناة والألم، عذَّبه العنف، تنسكب في مجرى هذا الماء، وصلاة شعب يصلّي مثل صاحب المزامير: "على أَنهارِ بابِلَ هُناكَ جَلَسْنا فبَكَينا" (مزمور 137، 1). في الواقع، تجمع مياه النهر الكبير أنات الألم في جماعاتكم، وصراخ ألم العديد من الأرواح المحطمة، ومأساة شعب هارب، وآلام قلوب النساء، والخوف الظاهر في عيون الأطفال. يمكننا أن نرى الخوف في عيون الأطفال. ومع ذلك، في الوقت نفسه، فإنّ مياه النهر الكبير تعيدنا إلى قصة موسى، فهي علامة تحرير وخلاص: من هذه المياه، نجا موسى، وقاد شعبه في وسط البحر الأحمر، فأصبح أداة تحرير، وأيقونة لعون الله الذي يرى معاناة أبنائه، ويسمع صراخهم، وينزل لتحريرهم (راجع خروج 3، 7). حين ننظر إلى قصة موسى، الذي قاد شعب الله عبر الصّحراء، لنسأل أنفسنا ما معنى أن نكون خدَّام الله في تاريخ يتّسم بالحرب والكراهية والعنف والفقر. كيف نمارس خدمتنا في هذه الأرض، على طول ضفاف نهر غسلته دماء الأبرياء، بينما وجوه الناس الموكولين إلينا انطبعت فيهم دموع الألم؟ هذا هو السّؤال. وعندما أتحدّث عن الخدمة، فإنّي أتحدّث عنها بالمعنى الواسع، أي: الخدمة الكهنوتيّة والشّماسيّة والتّعليم المسيحيّ، التي يقوم بها العديد من المكرّسين والمكرّسات والعلمانيّين.

لمحاولة الإجابة، أودّ أن أذكر موقفَين لموسى: الطّاعة لله والشّفاعة. أعتقد أنّ هذين الموقفَين يمسّان حياتنا هنا.

أوّل ما يذهلنا في قصة موسى هو طاعته لمبادرة الله، ولكن يجب ألّا نفكر أنّه كان دائمًا هكذا: في البداية ادعى موسى أن يحارب الظّلم والقمع وحده. أنقذته ابنة الفرعون في مياه النيل، ولما اكتشف هويته أثّرت فيه معاناة ومذلة إخوته، لدرجة أنّه في يوم من الأيام قرّر أن يقيم العدل بنفسه، فقتل رجلًا مصريًّا أساء معاملة رجل عبراني. لكن، بعد هذه الحادثة، اضطر إلى الفرار والبقاء في الصّحراء سنوات عديدة. هناك اختبر نوعًا من الصّحراء الداخليّة: فكَّر أن يواجه الظلم بقواه، ونتيجة لذلك، وجد نفسه هاربًا، مضطرًا للاختباء، يعيش في عزلة، يعاني من شعور الفشل المرير. أتساءل: ما هو خطأ موسى؟ هو أنّه اعتقد أنّه هو المركز، واعتمد فقط على قوّته. لكنّه بذلك أصبح أسيرًا لأسوأ الأساليب البشريّة، الرّد على العنف بالعنف.

في بعض الأحيان، يمكن أن يحدث شيء مشابه أيضًا في حياتنا، كهنة وشمامسة ورهبانًا وإكليركيّين ومكرّسين ومكرّسات: نعتقد في أعماقنا أنّنا المركز، ويمكننا أن نثق بأنفسنا، إن لم يكن من الناحيّة النّظريّة على الأقل في الممارسة العمليّة، فنتكل بصورة حصريّة تقريبًا على مهاراتنا، أو، ككنيسة، نظن العثور على الجواب لمعاناة الناس واحتياجاتهم من خلال الأدوات البشريّة، مثل المال والمواربة والسّلطة. إلّا أنّ عملنا نحن يأتي من الله: إنّه الرّبّ ونحن مدعوّون إلى أن نكون أدواتٍ طيِّعةً بين يديه. تعلَّم موسى هذا عندما جاء الله يومًا ما لمقابلته، وظهر له "في لَهيبِ نارٍ مِن وَسَطِ عُلَّيقَة" (خروج 3، 2). ترك موسى نفسه ينجذب، وأفسح مجالًا للدهشة، واتخذ موقف الطّاعة، حتّى يستنير بسحر تلك النار، التي قال أمامها: "أَدورُ وأَنظُرُ هٰذا المَنظَرَ العَظيم ولِماذا لا تَحتَرِقُ العُلَّيقَة؟" (الآية 3). هذه هي الطّاعة التي تفيدنا في خدمتنا: الاقتراب من الله بذهول وتواضع، والسّماح له بأن يجذبنا ويوجِّهنا. الأولويّة ليست لنا، بل لله، فنتكل على كلمته قبل استخدام كلماتنا، ونرحِّب مطيعين بمبادرته قبل التّركيز على مشاريعنا الشّخصيّة والكنسيّة.

أن نترك أنفسنا لله ليصوغنا، ونحن مطيعون، هذا ما يجعلنا نقوم بخدمتنا بطريقة جديدة. أمام الرّاعي الصّالح، نفهم أنّنا لسنا زعماء قبائل، لكنّنا رعاة تملأنا الرّحمة والشّفقة. لسنا أسياد الشّعب، بل نحن خدام ننحني لنغسل أرجل إخوتنا وأخواتنا. لسنا منظمة في العالم، ندير خيرات أرضيّة، بل نحن جماعة أبناء الله. لنعمل إذًا مثل موسى أمام الله: لنخلع أحذيتنا باحترام وتواضع (راجع الآية 5). لنجرِّدْ أنفسنا من غرورنا البشريّ، ولنسمَحْ لله أن يجذبنا إليه، ولنعمل على تنمية هذا اللقاء معه في الصّلاة. لنقترب كلّ يوم من سرّ الله، ليحرق شجر كبريائنا وطموحاتنا المفرطة، ويجعلنا رفقاء سفر متواضعين مع الموكولين إلينا.

طهّرت النّار الإلهيّة موسى وأنارته، فصار أداة خلاص لإخوته المتألّمين. طاعته لله جعلته قادرًا على الشّفاعة لإخوته. هذا هو الموقف الثّاني الذي أودّ التحدث معكم عنه اليوم: الشّفاعة. اختبر موسى وعرف إلهًا حنونًا لا يظَلُّ غير مبالٍ بصرخة شعبه، بل ينزل ليحرّره. هذا جميل: أن ينزل. الله ينزل ليحرّره. الله، بتنازله إلينا، يأتي بيننا لدرجة أنّه يتخذ، في يسوع، جسدنا، ويختبر موتنا وجحيمنا. إنّه ينزل دائمًا ليقيمنا من عثرتنا. من يختبره يميل إلى الاقتداء به. وهكذا فعل موسى، ”نزل“ بين إخوته: وسيفعل ذلك مرارًا في أثناء عبور الصّحراء. في أكثر اللحظات أهمية وصعوبة، صعد موسى ونزل من جبل حضور الله لكي يشفع للشعب، أي ليضع نفسه في تاريخه ليقرّبه من الله. الشّفاعة "لا تعني فقط الصّلاة من أجل شخص ما، كما نعتقد كثيرًا. اللفظة تعني، لغوِيًّا (بحسب اللغة اللاتينية: intercessio)، ”خطا خطوة في الوسط“، خطا خطوة ووضع نفسه في وسط الموقف" (مارتيني، صرخة شفاعة، ميلانو، 29 كانون الثّاني/يناير 1991). الشّفاعة هي إذن النزول للوقوف في وسط الشّعب، ”وأن نكون جسرًا“ يربطهم بالله.

يُطلب من الرّعاة أن يطوِّروا هذا الفن، ”السّير في الوسط“: وسط الآلام والدموع، وسط الجوع إلى الله والعطش إلى محبّة الإخوة والأخوات. واجبنا الأوّل ليس أن نكون كنيسة منظمة غاية التّنظيم، بل كنيسة تقف، باسم المسيح، في وسط حياة الشّعب المتألّم، وتَتَّسِخ يداها في خدمة الناس. يجب ألّا نمارس خدمتنا أبدًا سعيًا وراء الشّهرة الدينيّة والاجتماعيّة، ولكن يجب أن نسير في وسط الناس ومع الناس، ونتعلّم أن نصغي وأن نحاور ونتعاون فيما بيننا، رعاةً وعلمانيّين. وهنا أودّ أن أكرّر هذه الكلمة المهمّة: ”معًا“. الأساقفة والكهنة، الكهنة والشّمامسة، الرّعاة والإكليريكيّون، المرسومون والرّهبان – ونغذي دائمًا الاحترام لخصوصيّة الحياة الرّهبانيّة الرّائعة: لنُحاوِلْ أن نتغلّب على إغراء الفرديّة والمصالح الحزبيّة فيما بيننا. إنّه لأمر محزن للغاية عندما لا يكون الرّعاة قادرين على الشّركة، ولا يقدرون على التّعاون، بل يتجاهلون بعضهم بعضًا! لنعمل على تنمية الاحترام المتبادل والتّقارب والتّعاون العمليّ. إذا لم يحدث هذا بيننا، فكيف نكرز به للآخرين؟

لنعُدْ إلى موسى، للتعمُّق في فن الشّفاعة، ولننظر إلى يديه. يقدّم لنا الكتاب المقدّس ثلاث صور له: موسى والعصا في يده، وموسى ويداه ممدودتان، وموسى ويداه مرفوعتان إلى السّماء.

الصّورة الأولى، موسى والعصا في يده، تعني الشّفاعة بالنبوّة. بهذه العصا سيصنع المعجزات، علامات حضور وقدرة الله، الذي يتكلّم هو باسمه، ويندِّد بصوت عالٍ بالشّرّ الذي يعاني منه الشّعب ويطلب من فرعون أن يطلقه. أيّها الإخوة والأخوات، نحن أيضًا مدعوّون إلى الشّفاعة بشعبنا، وإلى رفع أصواتنا ضد الظلم والفساد، الذي يسحق الناس ويستخدم العنف لإدارة أعمال في ظل الصّراع. إذا أردنا أن نكون رعاة يشفعون، لا يمكن أن نبقى حياديين أمام الألم الناجم عن أعمال الظلم والعنف، لأنّه، حيث يُعتَدَى على امرأة أو رجل في حقوقهم الأساسيّة، فإنّه يعتدى على المسيح نفسه. سُرِرتُ لسماع شهادة الأب لوقا بأنّ الكنيسة لا تتوقّف أبدًا عن أداء خدمة نبويّة ورعويّة. شكرًا لك! شكرًا لأنّه إذا كان هناك إغراء يجب علينا الحذر منه، فهو ترك الأشياء كما هي وعدم الاهتمام بما يجري، خوفًا من فقدان امتيازات لنا أو راحتنا.

الصّورة الثانية: موسى ويداه ممدودتان. يقول الكتاب المقدّس "مَدَّ يَدَه على البَحر" (خروج 14، 21). يداه الممدودتان علامة على أنّ الله يعمل. وسيحمل موسى بين يديه لوحي الشّريعة (راجع خروج 34، 29) ليريها للشّعب. يداه الممدودتان تشيران إلى قرب الله الذي يعمل ويرافق شعبه. في الواقع، للتّحرير من الشّرّ، النبوّة لا تكفي، يجب أن نمدّ أيدينا إلى إخوتنا وأخواتنا، لدعمهم في مسيرتهم. يمكننا أن نتخيّل موسى يشير إلى الطّريق ويصافح أيدي الناس لتشجيعهم على المضيّ قدمًا. مدّة أربعين عامًا، ومع كونه رجلًا متقدِّمًا في السّن، ظلّ قريبًا من شعبه: هكذا يكون القرب. ولم تكن مهمّته سهلة: فقد اضطر مرارًا إلى تشجيع شعب محبط ومتعب، وجائع وعطِش، اعتاد التّشكي والكسل. ولكي يقوم بمهمّته، كان عليه أيضًا أن يصارع نفسه، لأنّه عاش هو أيضًا أحيانًا لحظات من الظلام والإحباط، مثلًا لـمَّا قال لله: "لِمَ أَسأتَ إِلى عَبدِكَ، ولِمَ لَم أَنَلْ حُظوَةً في عَينَيكَ، حتَّى أَلقَيتَ عَلَيَّ عِبْءَ هٰذا الشَّعبِ كُلِّه؟ [...] لا أُطيقُ أَن أَحمِلَ هٰذا الشَّعبَ كُلَّه وَحْدي، لأَنَّه ثَقيلٌ عَلَيَّ" (عدد 11، 11. 14)، ومع ذلك، لم ينسحب موسى: بقي دائمًا قريبًا من الله، ولم يبتعد قط عن شعبه. نحن أيضًا لنا هذه المهمّة: أن نمدّ يدينا ونُنهِض إخوتنا ونذكِّرهم أنّ الله أمين لوعوده، ونحثَّهم على المضيِّ قدمًا. أيدينا ”ممسوحة بالرّوح“ ليس فقط للطقوس المقدّسة، لكن أيضًا لتشجيع الناس ومساعدتهم ومرافقتهم للخروج مما يشلُّهم ويعزلهم ويجعلهم خائفين.

أخيرًا - الصّورة الثالثة - اليدان مرفوعتان إلى السّماء. عندما يقع الناس في الخطيئة ويصنعون لأنفسهم عجلًا ذهبيًا، يصعد موسى إلى الجبل مرّة أخرى - لنفكِّرْ في مقدار صبره! - ويصلّي صلاة هي صراع حقيقي مع الله، حتّى لا يترك الله شعبه. بلغ به الأمر حتّى قال: "قد خَطِئَ هٰذا الشَّعبُ خَطيئَةً عَظيمة، وصَنَعَ لِنَفْسِه آلِهَةً مِن ذَهَب. والآنَ إِن غَفَرتَ خَطيئَتَه... وإِلاَّ فٱمحُني مِن كِتابِكَ الَّذي كتَبتَه" (خروج 32، 31-32). وقف موسى إلى جانب الشّعب حتّى النهاية، ورفع يده للشّفاعة بهم. لم يفكّر في إنقاذ نفسه، ولا في بيع الشّعب لمصلحته! تشفع، تشفع موسى وصارع مع الله. أبقى موسى يديه مرفوعتَين في الصّلاة بينما كان إخوته يقاتلون في الميدان (راجع خروج 17، 8 - 16). لنساعد الشّعب بصلاتنا في نضاله، لنستغفر له، ولنوجِّه المصالحة لتكون مثل قنوات رحمة الله التي تغفر الخطايا: هذه مهمّتنا كشفعاء!

أيّها الأعزّاء، هذه الأيدي النّبويّة، الممدودة والمرتفعة، تقتضي جهدًا. أن نكون أنبياء ورفقاء وشفعاء نُظهِر بحياتنا سِرَّ قُربِ الله من شعبه، يمكن أن يتطلّب الحياة نفسها. سمعنا في شهادة الأخت ريجينا، أنّ العديد من الكهنة والرّهبان والرّاهبات كانوا ضحايا للعنف والاعتداءات التي فقدوا فيها حياتهم. في الحقيقة، إنّهم قدّموا حياتهم من أجل الإنجيل، وقربهم من إخوتهم وأخواتهم هو شهادة رائعة تركوها لنا، وتدعونا إلى مواصلة مسيرتهم. يمكننا أن نتذكّر القدّيس دانيال كومبوني، الذي قام مع إخوته المرسلِين بعمل بشارة كبير في هذه الأرض. كان يقول: إنّ المرسل يجب أن يكون على استعداد لكلّ شيء من أجل المسيح ومن أجل الإنجيل، وأنّ هناك حاجة إلى نفوس جريئة وسخية تعرف كيف تتألّم وتموت من أجل إفريقيا.

والآن أريد أن أشكركم على ما تعملونه في وسط المحن والمتاعب الكثيرة. أشكركم باسم الكنيسة كلّها على تفانيكم وشجاعتكم وتضحياتكم وصبركم. شكرًا. أتمنّى لكم، أيّها الإخوة والأخوات الأعزّاء، أن تكونوا دائمًا رعاة وشهودًا أسخياء، سلاحكم الصّلاة والمحبّة فقط، وتسمحون لأنفسكم بطاعة بأن تغمركم نعمة الله لتصيروا أدوات خلاص للآخرين، ورعاة وأنبياء قريبين من الشّعب ترافقونه، وتتشفعون به بأيدٍ مرفوعة. لتحفظكم العذراء القدّيسة. في هذه اللحظة، لنفكّر في صمت في هؤلاء الإخوة والأخوات الذين ضحوا بحياتهم في هذه الخدمة الرّعويّة هنا، ولنشكر الرّبّ يسوع لأنّه كان قريبًا منهم. لنصلِّ في صمت.

شكرًا على شهادتكم. وإذا كان لديكم القليل من الوقت، فصلّوا من أجلي. شكرًا.

[00169-AR.02] [Testo originale: Italiano]

[B0104-XX.02]