Sala Stampa

www.vatican.va

Sala Stampa Back Top Print Pdf
Sala Stampa


Viaggio Apostolico di Sua Santità Francesco nella Repubblica Democratica del Congo e in Sud Sudan (Pellegrinaggio Ecumenico di Pace in Sud Sudan) (31 gennaio - 5 febbraio 2023) - Incontro di Preghiera con i Sacerdoti, i Diaconi, i Consacrati e le Consacrate e i Seminaristi presso la Cattedrale di Kinshasa, 02.02.2023


Incontro di preghiera con i Sacerdoti, i Diaconi, i Consacrati, le Consacrate e i Seminaristi presso la Cattedrale di Kinshasa

Discorso del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Traduzione in lingua araba

Questo pomeriggio, alle ore 16.30, il Santo Padre Francesco ha incontrato i Sacerdoti, i Diaconi, i Consacrati e le Consacrate e i Seminaristi nella Cattedrale di Kinshasa.

Al Suo arrivo, il Papa è stato accolto dell’Arcivescovo Metropolita di Kinshasa, Em.mo Card. Fridolin Ambongo Besungu, O.F.M. Cap., e dal parroco che gli ha porto la croce e l’acqua benedetta. Insieme hanno percorso la navata centrale fino ad arrivare alla cappella laterale dove il Santo Padre ha sostato in preghiera davanti alle tombe degli Arcivescovi defunti. Quindi si è diretto verso l’altare mentre il coro intonava un canto.

Dopo il saluto liturgico, l’indirizzo di benvenuto dell’Arcivescovo Metropolita di Kinshasa e la preghiera, le testimonianze di un sacerdote, di una suora e di un seminarista e la lettura di un brano del Vangelo, il Papa ha pronunciato il Suo discorso.

Al termine, dopo la recita del Padre Nostro e la benedizione finale, Papa Francesco ha lasciato la Cattedrale ed è rientrato in auto alla Nunziatura Apostolica dove ha incontrato in forma privata, nel salone della Rappresentanza Pontificia, i Membri della Compagnia di Gesù presenti nel Paese.

All’incontro di preghiera con il Santo Padre hanno partecipato circa 5 mila fedeli, tra coloro presenti in cattedrale e quanti lo hanno seguito dall’area allestita all’esterno.

Pubblichiamo di seguito il discorso che il Santo Padre ha pronunciato nel corso dell’incontro con i Sacerdoti, i Diaconi, i Consacrati e le Consacrate e i Seminaristi:

Discorso del Santo Padre

Cari fratelli sacerdoti, diaconi e seminaristi,
care consacrate e consacrati, buonasera e buona festa!

Sono felice di trovarmi con voi proprio oggi, Presentazione del Signore, giorno nel quale preghiamo in modo speciale per la vita consacrata. Tutti, come Simeone, attendiamo la luce del Signore perché illumini le oscurità della nostra vita e, ancor più, tutti desideriamo vivere la stessa esperienza che ha fatto lui nel Tempio di Gerusalemme: tenere tra le braccia Gesù. Tenerlo tra le braccia, in modo da averlo davanti agli occhi e sul cuore. Così, mettendo Gesù al centro, cambia lo sguardo sulla vita e, pur dentro i travagli e le fatiche, ci sentiamo avvolti dalla sua luce, consolati dal suo Spirito, incoraggiati dalla sua Parola, sostenuti dal suo amore.

Dico questo pensando alle parole di benvenuto pronunciate dal Cardinale Ambongo, che ringrazio; ha parlato di «enormi sfide» da affrontare per vivere l’impegno sacerdotale e religioso in questa terra segnata da «condizioni difficili e spesso pericolose», terra di tanta sofferenza. Eppure, come ricordava, c’è anche tanta gioia per il servizio al Vangelo e sono numerose le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. Ecco l’abbondanza della grazia di Dio, che opera proprio nella debolezza (cfr 2 Cor 12,9) e che vi rende capaci, insieme ai fedeli laici, di generare speranza nelle situazioni spesso dolorose del vostro popolo.

La certezza che ci accompagna anche nelle difficoltà è data dalla fedeltà di Dio. Egli, mediante il profeta Isaia, dice: «Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa» (43,19). Ho pensato di proporvi alcune riflessioni proprio a partire da queste parole di Isaia: Dio apre strade nei nostri deserti e noi, ministri ordinati e persone consacrate, siamo chiamati ad essere segno di questa promessa e a realizzarla nella storia del Popolo santo di Dio. Ma, concretamente, a che cosa siamo chiamati? A servire il popolo come testimoni dell’amore di Dio. Isaia ci aiuta a capire come.

Per bocca del profeta, il Signore raggiunge il suo popolo in un momento drammatico, mentre gli Israeliti sono stati deportati a Babilonia e ridotti in schiavitù. Mosso a compassione, Dio vuole consolarli. Questa parte del libro di Isaia, infatti, è conosciuta come “Libro della consolazione”, perché il Signore rivolge al suo popolo parole di speranza e promesse di salvezza. E per prima cosa ricorda il legame d’amore che lo lega al suo popolo: «Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni. Se dovrai attraversare le acque, sarò con te, i fiumi non ti sommergeranno; se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai, la fiamma non ti potrà bruciare» (43,1-2). Così il Signore si rivela come Dio della compassione e assicura di non lasciarci mai soli, di essere sempre al nostro fianco, rifugio e forza nelle difficoltà. Dio è compassionevole. I tre nomi di Dio, i tre tratti di Dio sono misericordia, compassione e tenerezza. Perché tutti questi fanno la vicinanza di Dio: un Dio vicino, compassionevole e tenero.

Cari sacerdoti e diaconi, consacrate e consacrati, seminaristi: attraverso di voi il Signore anche oggi vuole ungere il suo popolo con l’olio della consolazione e della speranza. E voi siete chiamati a farvi eco di questa promessa di Dio, a ricordare che Egli ci ha plasmati e apparteniamo a Lui, a incoraggiare il cammino della comunità e accompagnarla nella fede incontro a Colui che già cammina accanto a noi. Dio non permette alle acque di sommergerci, né al fuoco di bruciarci. Sentiamoci portatori di questo annuncio in mezzo alle sofferenze della gente. Ecco che cosa significa essere servitori del popolo: preti, suore, missionari che hanno sperimentato la gioia dell’incontro liberante con Gesù e la offrono agli altri. Ricordiamocelo: il sacerdozio e la vita consacrata diventano aridi se li viviamo per “servirci” del popolo invece che per “servirlo”. Non si tratta di un mestiere per guadagnare o avere una posizione sociale, e nemmeno per sistemare la famiglia di origine, ma è la missione di essere segni della presenza di Cristo, del suo amore incondizionato, del perdono con cui vuole riconciliarci, della compassione con cui vuole prendersi cura dei poveri. Noi siamo stati chiamati a offrire la vita per i fratelli e le sorelle, portando loro Gesù, l’unico che risana le ferite del cuore.

Per vivere così la nostra vocazione abbiamo sempre delle sfide da affrontare, delle tentazioni da vincere. Vorrei brevemente soffermarmi su queste tre: la mediocrità spirituale, la comodità mondana, la superficialità.

Anzitutto vincere la mediocrità spirituale. Come? La Presentazione del Signore, che nell’Oriente cristiano è detta “festa dell’incontro”, ci ricorda la priorità della nostra vita: l’incontro con il Signore, specialmente nella preghiera personale, perché la relazione con Lui è il fondamento del nostro operare. Non dimentichiamo che il segreto di tutto è la preghiera, perché il ministero e l’apostolato non sono prima di tutto opera nostra e non dipendono solo dai mezzi umani. E voi mi direte: sì, è vero, ma gli impegni, le urgenze pastorali, le fatiche apostoliche, la stanchezza e così via rischiano di non lasciare tempo ed energie sufficienti alla preghiera. Per questo vorrei condividere alcuni consigli: anzitutto, manteniamo fede a certi ritmi liturgici della preghiera che scandiscono la giornata, dalla Messa al breviario. La celebrazione eucaristica quotidiana è il cuore pulsante della vita sacerdotale e religiosa. La Liturgia delle Ore ci permette di pregare con la Chiesa e con regolarità: non trascuriamola mai! E non tralasciamo neanche la Confessione: abbiamo sempre bisogno di essere perdonati per poter donare misericordia. Un altro consiglio: come sappiamo, non possiamo limitarci alla recita rituale delle preghiere, ma occorre riservare ogni giorno un tempo intenso di preghiera, per stare cuore a cuore con il Signore: un momento prolungato di adorazione, di meditazione della Parola, il santo Rosario; un incontro intimo con Colui che amiamo sopra ogni cosa. Inoltre, quando siamo in piena attività, possiamo anche ricorrere alla preghiera del cuore, a brevi “giaculatorie” – sono un tesoro, le giaculatorie –, parole di lode, di ringraziamento e d’invocazione da ripetere al Signore ovunque ci troviamo. La preghiera ci decentra, ci apre a Dio, ci rimette in piedi perché ci pone nelle sue mani. Essa crea in noi lo spazio per sperimentare la vicinanza di Dio, perché la sua Parola diventi familiare a noi e, attraverso di noi, a quanti incontriamo. Senza preghiera non si va lontano. Infine, per superare la mediocrità spirituale, non stanchiamoci mai di invocare la Madonna – è nostra Madre – e di imparare da lei a contemplare e seguire Gesù.

La seconda sfida è vincere la tentazione della comodità mondana, di una vita comoda in cui sistemare più o meno tutte le cose e andare avanti per inerzia, ricercando il nostro confort e trascinandoci senza entusiasmo. Ma in questo modo si perde il cuore della missione, che è uscire dai territori dell’io per andare verso i fratelli e le sorelle esercitando, in nome di Dio, l’arte della vicinanza. C’è un grande rischio legato alla mondanità, specialmente in un contesto di povertà e sofferenze: quello di approfittare del ruolo che abbiamo per soddisfare i nostri bisogni e le nostre comodità. È triste, molto triste quando ci si ripiega su sé stessi diventando freddi burocrati dello spirito. Allora, anziché di servire il Vangelo, ci preoccupiamo di gestire le finanze e di portare avanti qualche affare vantaggioso per noi. Fratelli e sorelle, è scandaloso quando ciò avviene nella vita di un prete o di un religioso, che invece dovrebbero essere modelli di sobrietà e di libertà interiore. Che bello invece mantenersi limpidi nelle intenzioni e affrancati da compromessi col denaro, abbracciando con gioia la povertà evangelica e lavorando accanto ai poveri! E che bello essere luminosi nel vivere il celibato come segno di disponibilità completa al Regno di Dio! Non accada invece che in noi si trovino, ben piantati, quei vizi che vorremmo sradicare negli altri e nella società. Per favore, vigiliamo sulla comodità mondana.

Infine, la terza sfida è vincere la tentazione della superficialità. Se il Popolo di Dio attende di essere raggiunto e consolato dalla Parola del Signore, c’è bisogno di preti e religiosi preparati, formati, appassionati al Vangelo. Ci è stato messo un dono tra le mani e, da parte nostra, sarebbe presuntuoso pensare di poter vivere la missione a cui Dio ci ha chiamati senza lavorare ogni giorno su noi stessi e senza formarci in modo adeguato, nella vita spirituale come nella preparazione teologica. La gente non ha bisogno di funzionari del sacro o di laureati distaccati dal popolo. Siamo tenuti a entrare nel cuore del mistero cristiano, ad approfondirne la dottrina, a studiare e meditare la Parola di Dio; e al tempo stesso a restare aperti alle inquietudini del nostro tempo, alle domande sempre più complesse della nostra epoca, per poter comprendere la vita e le esigenze delle persone, per capire come prenderle per mano e accompagnarle. Perciò, la formazione del clero non è un optional. Lo dico ai seminaristi, ma vale per tutti: la formazione è un cammino da portare avanti sempre e per tutta la vita. Si chiama formazione permanente: formazione sempre, per tutta la vita.

Queste sfide di cui vi ho parlato sono da affrontare se vogliamo servire il popolo come testimoni dell’amore di Dio, perché il servizio è efficace solo se passa attraverso la testimonianza. Non dimenticare questa parola: la testimonianza. Infatti, dopo aver pronunciato parole di consolazione, il Signore dice per mezzo di Isaia: «Chi può annunciare questo tra loro per farci udire le cose passate? Voi siete i miei testimoni» (43,9.10). Testimoni. Per essere buoni sacerdoti, diaconi, consacrate e consacrati non bastano le parole e le intenzioni: a parlare, prima di tutto, è la vita stessa, la propria vita. Cari fratelli e sorelle, guardando voi rendo grazie a Dio, perché siete segni della presenza di Gesù che passa lungo le strade di questo Paese e tocca la vita della gente, le ferite della loro carne. Ma c’è ancora bisogno di giovani che dicano “sì” al Signore, di altri sacerdoti e religiosi che con la loro vita lascino trasparire la sua bellezza.

Nelle vostre testimonianze mi avete ricordato com’è difficile vivere la missione in una terra ricca di tante bellezze naturali e risorse, ma ferita dallo sfruttamento, dalla corruzione, dalla violenza e dall’ingiustizia. Però avete anche parlato della parabola del buon samaritano: è Gesù che passa lungo le nostre strade e, specialmente attraverso la sua Chiesa, si ferma e si prende cura delle ferite degli oppressi. Carissimi, il ministero a cui siete chiamati è proprio questo: offrire vicinanza e consolazione, come una luce sempre accesa in mezzo a tanta oscurità. Impariamo dal Signore, che è vicino, sempre. E per essere fratelli e sorelle di tutti, siatelo anzitutto tra di voi: testimoni di fraternità, mai in guerra; testimoni di pace, imparando a superare anche gli aspetti particolari delle culture e delle provenienze etniche, perché, come affermò Benedetto XVI rivolgendosi ai sacerdoti africani, «la vostra testimonianza di vita pacifica, al di là delle frontiere tribali e razziali, può toccare i cuori» (Esort. ap. Africae munus, 108).

Un proverbio dice: «Il vento non spezza ciò che sa piegarsi». La storia di molti popoli di questo Continente è stata purtroppo piegata e piagata da ferite e violenze, e perciò, se c’è un desiderio che sale dal cuore, è quello di non doverlo fare più, di non doversi più sottomettere alla prepotenza del più forte, di non dover più abbassare il capo sotto il giogo dell’ingiustizia. Ma possiamo accogliere le parole del proverbio principalmente in senso positivo: c’è un piegarsi che non è sinonimo di debolezza, di essere codardo, ma di fortezza; allora significa essere flessibili, superando le rigidità; significa coltivare un’umanità docile, che non si chiude nell’astio e nel rancore; significa essere disponibili a lasciarsi cambiare, senza arroccarsi sulle proprie idee e posizioni. Se ci pieghiamo davanti a Dio, con umiltà, Egli ci fa diventare come Lui, operatori di misericordia. Quando restiamo docili nelle mani di Dio, Egli ci plasma e fa di noi delle persone riconciliate, che sanno aprirsi e dialogare, accogliere e perdonare, immettere fiumi di pace nelle aride steppe della violenza. E, così, quando soffiano impetuosi i venti dei conflitti e delle divisioni, queste persone non possono essere spezzate, perché sono ricolme dell’amore di Dio. Siate anche voi così: docili al Dio della misericordia, mai spezzati dai venti delle divisioni.

Sorelle e fratelli, vi ringrazio di cuore per ciò che siete e ciò che fate, vi ringrazio per la vostra testimonianza alla Chiesa e al mondo. Non scoraggiatevi, c’è bisogno di voi! Siete preziosi, importanti: ve lo dico a nome della Chiesa intera. Vi auguro di essere sempre canali della consolazione del Signore e testimoni gioiosi del Vangelo, profezia di pace nelle spirali della violenza, discepoli dell’Amore pronti a curare le ferite dei poveri e dei sofferenti. Grazie tante, sorelle e fratelli, grazie ancora per il vostro servizio e per il vostro zelo pastorale. Vi benedico e vi porto nel cuore. E voi, per favore, non dimenticatevi di pregare per me! Grazie.

[00166-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Chers frères prêtres, diacres et séminaristes,
chers consacrés, bonsoir et bonne fête !

Je suis heureux de me trouver avec vous en ce jour précis, Présentation du Seigneur, le jour où nous prions spécialement pour la vie consacrée. Tous, comme Siméon, nous attendons la lumière du Seigneur pour qu’elle éclaire les ténèbres de notre vie. Plus encore, nous désirons tous vivre la même expérience qu’il a faite dans le Temple de Jérusalem : tenir Jésus dans ses bras. Le tenir dans les bras de manière à l’avoir devant les yeux et sur le cœur. En mettant Jésus au centre, le regard sur la vie change et, malgré les souffrances et les peines intérieures, nous nous sentons enveloppés de sa lumière, consolés par son Esprit, encouragés par sa Parole, soutenus par son amour.

Je dis cela en pensant au mot de bienvenue prononcé par le Cardinal Ambongo, que je remercie. Il a parlé « d’énormes défis » à affronter pour vivre l’engagement sacerdotal et religieux en cette terre marquée par des « conditions difficiles et parfois dangereuses », terre de tant de souffrances. Pourtant, comme il le rappelait, il y a aussi beaucoup de joie dans le service de l’Évangile et les vocations au sacerdoce et à la vie consacrée sont nombreuses. C’est l’abondance de la grâce de Dieu qui agit dans la faiblesse (cf. 2 Co 12, 9) et qui vous rend capables, avec les fidèles laïcs, de générer l’espérance dans les situations souvent douloureuses de votre peuple.

La certitude qui nous accompagne aussi dans les difficultés est donnée par la fidélité de Dieu qui dit, par le prophète Isaïe : « Je ferai passer un chemin dans le désert, des fleuves dans les lieux arides » (43, 19). J’ai pensé vous proposer quelques réflexions à partir de ces paroles d’Isaïe : Dieu ouvre des chemins dans nos déserts et nous, ministres ordonnés et personnes consacrées, nous sommes appelés à être le signe de cette promesse et à la réaliser dans l’histoire du Peuple saint de Dieu. Mais, concrètement, à quoi sommes-nous appelés ? À servir le peuple comme témoins de l’amour de Dieu. Isaïe nous aide à comprendre comment.

Par la bouche du prophète, le Seigneur rejoint son peuple à un moment dramatique, lorsque les Israélites sont déportés à Babylone et réduits en esclavage. Poussé par la compassion, Dieu veut les consoler. Cette partie du livre d’Isaïe est connue en effet comme “Livre de la Consolation”, parce que le Seigneur adresse à son peuple des paroles d’espérance et des promesses de salut. Et tout d’abord, il rappelle le lien d’amour qui le lie à son peuple : « Ne crains pas, car je t’ai racheté, je t’ai appelé par ton nom, tu es à moi. Quand tu traverseras les eaux, je serai avec toi, les fleuves ne te submergeront pas. Quand tu marcheras au milieu du feu, tu ne te brûleras pas, la flamme ne te consumera pas » (43, 1-2). Le Seigneur se révèle ainsi comme Dieu de la compassion et Il assure ne jamais nous laisser seuls, être toujours à nos côtés, refuge et force dans les difficultés. Dieu est compatissant. Les trois noms de Dieu, les trois caractéristiques de Dieu sont miséricorde, compassion et tendresse. Car tous ceux-ci font la proximité de Dieu : un Dieu proche, compatissant et tendre.

Chers prêtres et diacres, consacrés, séminaristes : à travers vous, le Seigneur veut aujourd’hui encore oindre son peuple avec l’huile de la consolation et de l’espérance. Et vous êtes appelés à vous faire l’écho de cette promesse de Dieu, à rappeler qu’Il nous a façonnés et que nous Lui appartenons, à encourager le cheminement de la communauté et à l’accompagner dans la foi à la rencontre de Celui qui marche déjà à nos côtés. Dieu ne permet pas aux eaux de nous submerger, ni au feu de nous brûler. Sentons que nous sommes porteurs de cette annonce au milieu des souffrances des gens. C’est ce que signifie être serviteurs du peuple : prêtres, sœurs, missionnaires qui ont fait l’expérience de la joie de la rencontre libératrice avec Jésus et qui l’offrent aux autres. Souvenons-nous-en : le sacerdoce et la vie consacrée deviennent arides si nous les vivons pour “nous servir” du peuple au lieu de “le servir”. Il ne s’agit pas d’un métier pour gagner ou avoir une position sociale, non plus pour s’occuper de la famille d’origine ; mais ils ont pour mission d’être des signes de la présence du Christ, de son amour inconditionnel, du pardon par lequel il veut nous réconcilier, de la compassion avec laquelle il veut prendre soin des pauvres. Nous avons été appelés à offrir notre vie pour nos frères et sœurs, en leur apportant Jésus, le seul qui guérit les blessures du cœur.

Pour vivre ainsi notre vocation, nous avons toujours des défis à affronter, des tentations à vaincre. Je voudrais m’arrêter brièvement sur les trois suivantes : la médiocrité spirituelle, le confort mondain, la superficialité.

Avant tout vaincre la médiocrité spirituelle. Comment ? La Présentation du Seigneur, qui dans l’Orient chrétien est appelée “fête de la rencontre”, nous rappelle la priorité de notre vie : rencontrer le Seigneur, en particulier dans la prière personnelle, car la relation avec Lui est le fondement de notre action. N’oublions pas que le secret de tout, c’est la prière car le ministère et l’apostolat ne sont pas d’abord notre œuvre et ne dépendent pas seulement de moyens humains. Alors vous me direz : oui, c’est vrai, mais les engagements, les urgences pastorales, les efforts apostoliques, la fatigue et autres risquent de ne pas laisser suffisamment de temps et d’énergie pour la prière. C’est pourquoi je voudrais partager quelques conseils : avant tout, tenons à certains rythmes liturgiques de la prière qui cadencent la journée, de la messe au bréviaire. La célébration eucharistique quotidienne est le cœur battant de la vie sacerdotale et religieuse. La Liturgie des Heures nous permet de prier avec l’Église, et avec régularité : ne la négligeons jamais ! Et n’oublions pas non plus la confession : nous avons toujours besoin d’être pardonnés afin de pouvoir donner la miséricorde. Un autre conseil : comme nous le savons, nous ne pouvons pas nous limiter à la récitation rituelle des prières, mais il faut réserver chaque jour un temps intense de prière, pour être cœur à cœur avec le Seigneur : un moment prolongé d’adoration, de méditation de la Parole, le saint Rosaire ; une rencontre intime avec Celui que nous aimons par-dessus tout. De plus, lorsque nous sommes en pleine activité, nous pouvons également recourir à la prière du cœur, à de brèves “oraisons jaculatoires” – elles sont un trésor, les oraisons jaculatoires –, des paroles de louange, d’action de grâce et d’invocation à répéter au Seigneur partout où nous nous trouvons. La prière nous décentre, nous ouvre à Dieu, nous remet sur pied parce qu’elle nous met entre ses mains. Elle crée en nous de l’espace pour faire l’expérience de la proximité de Dieu, afin que sa Parole nous devienne familière et, à travers nous, familière à tous ceux que nous rencontrons. Sans prière, on ne va pas loin. Enfin, pour surmonter la médiocrité spirituelle, ne nous lassons jamais d’invoquer la Vierge – elle est notre Mère – et d’apprendre d’elle à contempler et à suivre Jésus.

Le deuxième défi est celui de vaincre la tentation du confort mondain, d’une vie confortable dans laquelle on règle plus ou moins toutes les choses en avançant par inertie, recherchant notre confort et en nous traînant sans enthousiasme. Mais on perd de cette façon le cœur de la mission qui est de sortir des territoires du moi pour aller vers les frères et les sœurs, en exerçant, au nom de Dieu, l’art de la proximité. Un grand risque lié à la mondanité, spécialement dans un contexte de pauvreté et de souffrances, est celui de profiter du rôle que nous avons pour satisfaire nos besoins et notre confort. Il est triste, très triste de se replier sur soi-même en devenant de froids bureaucrates de l’esprit. Alors, au lieu de servir l’Évangile, nous nous soucions de gérer les finances et de mener à bien quelque affaire avantageuse pour nous. Frères et sœurs, c’est un scandale quand cela arrive dans la vie d’un prêtre ou d’un religieux, qui devraient au contraire être des modèles de sobriété et de liberté intérieure. Qu’il est beau en revanche de rester transparent dans les intentions et libéré des compromis avec l’argent, en embrassant avec joie la pauvreté évangélique et en travaillant aux côtés des pauvres ! Et qu’il est beau de rayonner en vivant le célibat comme signe de disponibilité complète au Royaume de Dieu ! Que ces vices, que nous voudrions éradiquer chez les autres et dans la société, ne se trouvent jamais enracinés en nous. S’il vous plaît, faisons attention au confort mondain.

Enfin, le troisième défi est celui de vaincre la tentation de la superficialité. Si le Peuple de Dieu attend d’être rejoint et consolé par la Parole du Seigneur, il y a besoin de prêtres et des religieux préparés, formés, passionnés de l’Évangile. Un don a été mis entre nos mains et il serait présomptueux de notre part de penser pouvoir vivre la mission à laquelle Dieu nous a appelés sans travailler chaque jour sur nous-mêmes, et sans nous former de manière comme il convient à la vie spirituelle à la théologie. Les gens n’ont pas besoin de fonctionnaires du sacré ni de diplômés à part du peuple. Nous sommes tenus d’entrer au cœur du mystère chrétien, d’en approfondir la doctrine, d’étudier et de méditer la Parole de Dieu ; et en même temps de rester ouverts aux inquiétudes de notre temps, aux questions toujours plus complexes de notre époque, pour comprendre la vie et les besoins des personnes, pour comprendre comment les prendre par la main et les accompagner. Par conséquent, la formation du clergé n’est pas une option. Je le dis aux séminaristes, mais cela vaut pour tous : la formation est un chemin à poursuivre toujours et toute la vie. On l’appelle formation permanente : la formation tout au long de la vie.

Ces défis dont je vous ai parlé doivent être affrontés si nous voulons servir le peuple comme témoins de l’amour de Dieu, car le service n’est efficace que s’il passe par le témoignage. Ne pas oublier ce mot : le témoignage. En effet, après avoir prononcé des paroles de consolation, le Seigneur dit par l’intermédiaire d’Isaïe : « Qui, parmi eux, peut annoncer cela et nous rappeler les événements du passé ? Vous êtes mes témoins » (43, 9.10). Témoins. Pour être de bons prêtres, diacres et personnes consacrées, les paroles et les intentions ne suffisent pas : c’est avant tout la vie qui parle, la vie personnelle. Chers frères et sœurs, en vous regardant, je rends grâce à Dieu, car vous êtes des signes de la présence de Jésus qui passe le long des routes de ce pays et touche la vie des personnes, les blessures de leur chair. Mais il faut encore de jeunes qui disent “oui” au Seigneur, d’autres prêtres et religieux qui, par leur vie, laissent transparaître sa beauté.

Dans vos témoignages, vous m’avez rappelé combien il est difficile de vivre la mission sur une terre riche de tant de beautés naturelles et de ressources, mais blessée par l’exploitation, la corruption, la violence et l’injustice. Mais vous avez aussi parlé de la parabole du bon samaritain : c’est Jésus qui passe le long de nos routes et, spécialement à travers son Église, qui s’arrête et prend soin des blessures des opprimés. Très chers amis, le ministère auquel vous êtes appelés est celui-ci : offrir proximité et consolation, comme une lumière toujours allumée au milieu de tant d’obscurité. Apprenons du Seigneur qui est proche, toujours. Et pour être frères et sœurs de tous, soyez-le d’abord entre vous : témoins de fraternité, jamais en guerre ; témoins de paix, apprenant à dépasser aussi les aspects particuliers des cultures et des origines ethniques, parce que, comme l’a affirmé Benoît XVI en s’adressant aux prêtres africains, « votre témoignage de vie pacifique, par-delà les frontières tribales et raciales, peut toucher les cœurs » (Exhort. ap. Africae munus, n. 108).

Un proverbe dit : « Le vent ne brise pas ce qui sait se plier ». L’histoire de beaucoup de peuples de ce continent a été malheureusement courbée et meurtrie par des blessures et des violences. Et donc, si un désir monte du cœur, c’est bien celui de ne plus devoir le faire, ne plus devoir se soumettre à l’autorité du plus fort, ne plus avoir à baisser la tête sous le joug de l’injustice. Mais nous pouvons accueillir les paroles du proverbe surtout dans un sens positif. Se plier n’est pas toujours synonyme de faiblesse, d’être lâche, mais de force. C’est aussi être flexible en surmontant les rigidités ; c’est cultiver une humanité docile qui ne se ferme pas dans la haine et la rancœur ; c’est être disponible à se laisser changer sans s’accrocher à ses idées et positions. Si nous nous inclinons devant Dieu, avec humilité, Il nous fait devenir comme Lui, des artisans de miséricorde. Quand nous restons dociles entre les mains de Dieu, Il nous façonne et fait de nous des personnes réconciliées, qui savent s’ouvrir et dialoguer, accueillir et pardonner, faire couler des fleuves de paix dans les steppes arides de la violence. Et, ainsi, lorsque soufflent impétueusement les vents des conflits et des divisions, ces personnes ne peuvent pas être brisées, parce qu’elles sont remplies de l’amour de Dieu. Soyez ainsi, vous aussi : dociles au Dieu de la miséricorde, jamais brisés par les vents des divisions.

Sœurs et frères, je vous remercie de tout cœur pour ce que vous êtes et ce que vous faites, je vous remercie pour votre témoignage à l’Église et au monde. Ne vous découragez pas, il y a besoin de vous ! Vous êtes précieux, importants : je vous le dis au nom de l’Église tout entière. Je vous souhaite d’être toujours des canaux de la consolation du Seigneur et des témoins joyeux de l’Évangile, prophétie de paix dans les spirales de la violence, disciples de l’Amour, prêts à soigner les blessures des pauvres et de ceux qui souffrent. Merci beaucoup, sœurs et frères, merci encore pour votre service et pour votre zèle pastoral. Je vous bénis et je vous porte dans mon cœur. Et vous, s’il vous plaît, n’oubliez pas de prier pour moi ! Merci.

[00166-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

Dear brother priests, deacons and seminarians,
Dear consecrated men and women, good evening and happy feast day!

I am happy to be with you today, on the feast of the Presentation of the Lord, a day when we pray in a special way for consecrated life. Like Simeon, we all await the light of the Lord to brighten the darkness of our lives. Even more, we all desire to have the same experience that Simeon had in the Temple of Jerusalem: to hold Jesus in our arms. To hold him in our arms, so that we can contemplate him and hold him close to our hearts. When we place Jesus at the centre of our lives, our outlook changes, and despite all our efforts and difficulties, we feel enveloped by his light, comforted by his Spirit, encouraged by his word and sustained by his love.

As I say this, I think of Cardinal Ambongo’s words of welcome, for which I thank him. He pointed out the “enormous challenges” faced by those who live out their commitment to the priesthood and consecrated life in this land marked by “difficult and often dangerous conditions” and by great suffering. Yet, as he noted, there is also great joy in the service of the Gospel, and vocations to the priesthood and consecrated life are plentiful. This is due to the abundance of God’s grace, which works precisely in weakness (cf. 2 Cor 12:9), and which makes you, together with the lay faithful, capable of generating hope in the often painful situations in which your people live.

This certitude of ours, even in the midst of difficulties, is a gift born of God’s faithfulness. Through the prophet Isaiah, he says: “I will make a highway in the wilderness and rivers in the desert” (43:19). I thought I would offer you some reflections starting with those very words of Isaiah: God opens new paths in the midst of our deserts, and we, as ordained ministers and consecrated persons, are called to be a sign of this promise and to help bring it to fulfilment in the history of God’s holy People. Yet concretely, what have we been called to do, if not to serve the people as witnesses of God’s love? Isaiah helps us to understand how.

Through the words of the prophet, the Lord speaks to his people at a time of tragedy, for the Israelites had been deported to Babylon and reduced to slavery. Moved to compassion, God seeks to console them. Indeed, this section of Isaiah is called “the Book of Consolation”, because the Lord addresses words of hope and promises of salvation to his people. First, he recalls the bond of love binding him to his people: “Do not fear, for I have redeemed you; I have called you by name, you are mine. When you pass through the waters, I will be with you; and through the rivers, they shall not overwhelm you; when you walk through fire you shall not be burned, and the flame shall not consume you” (43:1-2). The Lord reveals himself as the God of compassion, and he assures us that he will never abandon us. He will always be at our side, a refuge and strength in difficulties. God is compassionate. God’s three names, his three features are mercy, compassion and tenderness, for they indicate the closeness of God: a close, compassionate and tender God.

Dear priests and deacons, consecrated men and women, seminarians: through you, the Lord also wants to anoint his people today with the balm of consolation and hope. You are called to echo this promise of God, to remind others that he made us and we belong to him, and to encourage and accompany the community’s journey in faith towards the One who always walks at our side. God does not allow the waters to overwhelm us, nor the fire to consume us. Let us realize that we have been called to proclaim this message in the midst of people’s suffering. That is what it means to be servants of the people: to be priests, sisters and missionaries who have known the joy of a liberating encounter with Jesus and now offer it to others. Let us never forget that the priesthood and consecrated life become arid if we start to think that people are there to serve us, rather than ourselves being here to serve them. Ours is not a profession, or social position, or a means of providing for our families at home. Rather, it is a mission to act as signs of Christ’s presence, his unconditional love, his reconciliation and forgiveness, and his compassionate concern for the needs of the poor. We have been called to offer our lives for our brothers and sisters, and to bring them Jesus, the one who alone heals the wounds of every heart.

If we experience our vocation in this way, we will always have challenges to face and temptations to overcome. I would like to focus briefly on three of these: spiritual mediocrity, worldly comfort, and superficiality.

First of all, we need to overcome spiritual mediocrity. How? The Presentation of the Lord, which in the Christian East is called the “feast of the encounter”, reminds us that the priority in our life must be our encounter with the Lord, especially in personal prayer, because our relationship with him is the basis of everything we do. Never forget that the secret of everything is prayer, since the ministry and the apostolate are not primarily our own work and do not depend solely on human means. You are going to tell me: yes, true enough, but commitments, pastoral priorities, apostolic labours, fatigue and so on risk leaving us with little time and energy for prayer. That is why I would like to share a few pieces of advice. First of all, let us remain faithful to certain liturgical rhythms of prayer that mark the day, from the Mass to the breviary. The daily celebration of the Eucharist is the beating heart of priestly and religious life. The Liturgy of the Hours allows us to pray with the Church and with regularity: may we never neglect it! Then too, let us not neglect Confession. We always need to be forgiven, so as then to bestow mercy upon others.

Now, a second piece of advice. As we all know, we cannot limit ourselves to the rote recitation of prayers, but must set aside a time of intense prayer each day, to remain “heart-to-heart” with the Lord. It may be a prolonged time of adoration, in meditation on the word, or with the Holy Rosary, but a time of closeness to the One whom we love above all else. In addition, even in the midst of activity, we can always resort to the prayer of the heart, to short “aspirations” – which are a real treasure – words of praise, thanksgiving and invocation, to be repeated to the Lord wherever we find ourselves. Prayer takes the focus off ourselves, it opens us up to God, and it puts us back on our feet because it puts us in his hands. It creates in us the space to be able to experience God’s closeness, so that his word becomes familiar to us and, through us, to all those whom we meet. Without prayer, we will not get very far. Finally, to overcome spiritual mediocrity, let us never tire of invoking Our Lady, our Mother, learning from her to contemplate and to follow Jesus.

The second challenge is to overcome the temptation of worldly comfort, of the easy life, in which we more or less arrange everything and stand back, seeking our own comfort, dragged along without enthusiasm. In this way, we lose the very heart of our mission, which is to put our ego behind us and to set out towards our brothers and sisters, practising, in the name of God, “the art of closeness”. Often, in situations of poverty and suffering, there is a great risk of worldliness: the desire to take advantage of our position in order to satisfy our own needs and comforts. It is very sad when we turn in on ourselves and become cold bureaucrats of the spirit. Instead of serving the Gospel, we then become concerned with managing finances and pursuing some profitable business for ourselves. Brothers and sisters, it is scandalous when this happens in the life of a priest or religious, for they should instead be models of sobriety and inner freedom. How beautiful it is, on the other hand, to be transparent in our intentions and free from compromise with money, joyfully embracing evangelical poverty and working side by side with the poor! And how beautiful it is to be radiant in living celibacy as a sign of complete availability to the kingdom of God! May it not be the case that the very vices we want to uproot in others, and in society as a whole, end up taking root in us. Please, let us beware of worldly comfort.

Finally, the third challenge is to overcome the temptation to superficiality. The People of God are waiting to hear and find consolation in the word of the Lord. Consequently, they need priests and religious who are educated, well trained and passionate about the Gospel. A gift has been placed in our hands, and it would be presumptuous for us to think we can carry out the mission to which God has called us without working on ourselves every day and without an adequate spiritual and theological formation. People do not need “sacred functionaries”, possessed of academic degrees but detached from ordinary men and women. Certainly, we are obliged to enter into the heart of the Christian mystery, to deepen our understanding of the Church’s teaching, and to study and meditate on God’s word. At the same time, though, we have to remain open to the problems of our time and the increasingly complex questions of our age, in order to understand people’s lives and needs, and to realize how best to take them by the hand and accompany them. It follows that the formation of clergy is not an optional extra. I say this to seminarians, but it applies to everyone. Formation has to be ongoing; it has to continue throughout our lives. It is called ongoing formation: a continuous formation, for life.

These challenges have to be faced if we want to serve people as witnesses of God’s love, since service is effective only if it comes through witness. Never forget this word: witness. After proclaiming words of consolation, the Lord says through Isaiah: “Who among them declared this, and foretold to us the former things? You are my witnesses” (43:9, 10). Witnesses. To be good priests, deacons and consecrated persons, words and intentions are not enough: your very lives must speak louder than your words. Dear brothers and sisters, as I look at you, I give thanks to God, because you are signs of the presence of Jesus, who walks in the streets of this country, who touches people’s lives and binds their wounds. Yet there is a need for more young people who can say “yes” to the Lord, for more priests and religious who can radiate his beauty by their lives.

In your testimonies, you reminded me how difficult it is to carry out your mission in a land rich in natural beauty and resources, but wounded by exploitation, corruption, violence and injustice. Yet you also spoke of the parable of the Good Samaritan, and how Jesus walks in our streets and, especially through his Church, stops and cares for the wounds of those who are oppressed. Brothers and sisters, the ministry to which you are called is precisely this: to offer closeness and consolation, like a light that keeps shining amid the encircling gloom. Let us learn from the Lord, who is always close. And to be brothers and sisters to all, especially to one another: witnesses of fraternity, never at war; witnesses of peace, learning how to live with differences between various cultures and ethnic backgrounds. For, as Pope Benedict XVI noted, in speaking to the priests of Africa, “your witness to living together in peace, over ethnic and racial lines, can touch hearts” (Africae Munus, 108).

As an old proverb states: “The wind does not shatter whatever is able to bend.” Sadly, the history of many peoples of this continent has had to bend before the force of suffering and violence. If there is one desire in everyone’s heart, it is that of never again having to do so, never again having to bow down before the arrogance of the powerful, or having to submit to the yoke of injustice. Yet we can understand the proverb primarily in a positive sense: there is a kind of bending that is not synonymous with weakness or cowardice but with strength. Bending can thus be a sign of the ability to be flexible, to overcome rigidity, and to cultivate a docile spirit that refuses to yield to bitterness and resentment. It is a sign of the ability to change and not remain entrenched in one’s own ideas and positions. If we bow before God in humility, he makes us become like himself, agents of mercy. If we remain docile in God’s hands, he shapes us to become a people of reconciliation, capable of openness and dialogue, acceptance and forgiveness, who make rivers of peace flow through the arid plains of violence. Hence, when the stormy winds of conflict and division blow, we are not broken, for we are filled with the love of God. May you always be docile to the God of mercy, never shattered by the winds of division.

Sisters and brothers, I thank you from my heart for who you are and what you do; I thank you for your witness to the Church and to the world. Do not be discouraged, because we need you! You are precious and important. I say this in the name of the whole Church. May you always be channels of the Lord’s consoling presence, joyous witnesses of the Gospel, prophets of peace amid the storms of violence, disciples of love, ever ready to care for the wounds of the poor and suffering. I thank you again, brothers and sisters; thank you for your service and for your pastoral zeal. I bless you and carry you in my heart. And I ask you, please, do not forget to pray for me! Thank you!

[00166-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Liebe Brüder, Priester, Diakone und Seminaristen,
liebe gottgeweihte Frauen und Männer, guten Abend und einen schönen Festtag!

Ich freue mich, gerade heute, am Fest der Darstellung des Herrn, bei euch zu sein, einem Tag, an dem wir in besonderer Weise für das gottgeweihte Leben beten. Wir alle warten wie Simeon auf das Licht des Herrn, damit es das Dunkel unseres Lebens erhellt, und mehr noch wünschen wir uns alle, die gleiche Erfahrung zu machen, die ihm im Tempel von Jerusalem zuteilwurde: Jesus in unseren Armen zu halten. Ihn in den Armen zu halten, sodass wir ihn vor unseren Augen und an unserem Herzen haben. Indem wir Jesus in den Mittelpunkt stellen, verändert sich die Sicht auf das Leben und wir fühlen uns selbst inmitten von Sorgen und Mühen von seinem Licht umhüllt, von seinem Geist getröstet, von seinem Wort ermutigt und von seiner Liebe gestützt.

Ich sage das und denke dabei an die Begrüßungsworte von Kardinal Ambongo, dem ich danke. Er hat von »enormen Herausforderungen« gesprochen, die es zu bewältigen gilt, wenn man als Priester oder Ordensangehöriger in diesem Land wirkt, das von »schwierigen und oft gefährlichen Bedingungen«, einem Land, das von so viel Leid geprägt ist. Dennoch, so erinnerte er, gibt es so viel Freude daran, dem Evangelium zu dienen, und es gibt viele Berufungen zum Priestertum und zum gottgeweihten Leben. Hier zeigt sich die Fülle der Gnade Gottes, die gerade in der Schwachheit wirkt (vgl. 2 Kor 12,9) und die euch dazu befähigt, zusammen mit den Laien in den oft schmerzhaften Situationen eures Volkes Hoffnung zu wecken.

Die Gewissheit, die uns auch in den Schwierigkeiten begleitet, ist durch Gottes Treue gegeben. Mittels des Propheten Jesaja sagt er:  »Ja, ich lege einen Weg an durch die Wüste und Flüsse durchs Ödland« (43,19). Ich habe mir überlegt, euch einige Gedanken ausgehend von diesen Worten Jesajas zu unterbreiten: Gott öffnet Wege in unseren Wüsten und wir als geweihte Amtsträger und Personen des geweihten Lebens sind dazu gerufen, ein Zeichen dieser Verheißung zu sein und sie in der Geschichte des heiligen Volkes Gottes zu verwirklichen. Aber wozu sind wir konkret berufen? Dem Volk als Zeugen der Liebe Gottes zu dienen. Jesaja hilft uns zu verstehen, wie.

Durch den Mund des Propheten erreicht der Herr sein Volk in einem dramatischen Moment, als die Israeliten nach Babylon deportiert und versklavt worden sind. Von Mitgefühl bewogen, will Gott sie trösten. Dieser Teil des Buchs Jesaja ist nämlich auch als „Buch des Trostes“ bekannt, weil der Herr Hoffnungsworte und Heilsverheißungen an sein Volk richtet. Als Erstes erinnert er an das Band der Liebe, das ihn mit seinem Volk verbindet: »Fürchte dich nicht, denn ich habe dich ausgelöst, ich habe dich beim Namen gerufen, du gehörst mir! Wenn du durchs Wasser schreitest, bin ich bei dir, wenn durch Ströme, dann reißen sie dich nicht fort. Wenn du durchs Feuer gehst, wirst du nicht versengt, keine Flamme wird dich verbrennen« (43,1-2). So offenbart sich der Herr als Gott des Erbarmens und versichert, uns nie allein zu lassen, immer an unserer Seite zu sein, Zuflucht und Kraft in allen Schwierigkeiten zu sein. Gott ist erbarmungsvoll. Die drei Namen Gottes, die drei Züge Gottes sind Barmherzigkeit, Erbarmen und Zärtlichkeit. Sie alle machen die Nähe Gottes aus: ein naher, erbarmungsvoller und liebevoller Gott. Liebe Priester und Diakone, gottgeweihte Männer und Frauen, Seminaristen: Durch euch will der Herr auch heute sein Volk mit dem Öl des Trostes und der Hoffnung salben. Und ihr seid aufgerufen, euch zum Echo dieser Verheißung Gottes zu machen, daran zu erinnern, dass er uns geformt hat und wir zu ihm gehören, den Weg der Gemeinschaft zu ermutigen und sie im Glauben zu begleiten, hin zu jenem, der bereits an unserer Seite geht. Gott lässt nicht zu, dass die Wasser uns überfluten oder das Feuer uns verbrennt. Sehen wir uns als Überbringer dieser Verkündigung inmitten des Leids der Menschen. Das ist es, was es bedeutet, Diener des Volkes zu sein: Priester, Ordensschwestern, Missionare, die die Freude der befreienden Begegnung mit Jesus erfahren haben und sie anderen weiterschenken. Erinnern wir uns daran: Das Priestertum und das gottgeweihte Leben vertrocknen, wenn wir sie leben, um uns des Volkes „zu bedienen“, statt „ihm zu dienen“. Es ist kein Beruf, um Geld zu verdienen oder eine soziale Stellung zu erhalten, auch nicht, um die eigene Familie zu versorgen, sondern es ist die Sendung, Zeichen der Gegenwart Christi zu sein, seiner bedingungslosen Liebe, der Vergebung, mit der er uns versöhnen will, des Mitgefühls, mit dem er sich um die Armen kümmern will. Wir sind dazu gerufen worden, unser Leben für unsere Brüder und Schwestern hinzugeben und ihnen Jesus zu bringen, den einzigen, der die Wunden des Herzens heilt.

Um unsere Berufung auf diese Weise zu leben, müssen wir uns immer wieder Herausforderungen stellen und Versuchungen überwinden. Ich möchte kurz bei diesen drei verweilen: die geistliche Mittelmäßigkeit, die weltliche Bequemlichkeit und die Oberflächlichkeit.

Zunächst ist die geistige Mittelmäßigkeit zu überwinden. Wie? Die Darstellung des Herrn, die im christlichen Osten das „Fest der Begegnung“ genannt wird, erinnert uns an die Priorität unseres Lebens: die Begegnung mit dem Herrn, vor allem im persönlichen Gebet, denn die Beziehung zu ihm ist die Grundlage unseres Wirkens. Lasst uns nicht vergessen, dass das Geheimnis von allem das Gebet ist, denn der Dienst und das Apostolat sind nicht in erster Linie unser eigenes Werk und hängen nicht allein von menschlichen Mitteln ab. Und ihr werdet mir sagen: Ja, das stimmt, aber die Verpflichtungen, die pastoralen Dringlichkeiten, die apostolische Mühen, die Müdigkeit und so weiter bergen das Risiko, dass nicht genügend Zeit und Energie für das Gebet bleibt. Deshalb möchte ich einige Ratschläge mit euch teilen: An erster Stelle sollten wir uns an bestimmte liturgische Gebetsrhythmen halten, die den Tag prägen, von der Messe bis zum Brevier. Die tägliche Eucharistiefeier ist das schlagende Herz des Priester- und Ordenslebens. Das Stundengebet ermöglicht es uns, mit der Kirche und mit Regelmäßigkeit zu beten: Vernachlässigen wir es nie! Ein weiterer Ratschlag: Wie wir wissen, können wir uns nicht auf das rituelle Gebet beschränken, es ist vielmehr nötig, jeden Tag eine intensive Gebetszeit vorzusehen, um mit dem Herrn von Herz zu Herz zu verweilen: ein längerer Moment der Anbetung, der Betrachtung des Wortes Gottes, das Rosenkranzgebet; eine innige Begegnung mit demjenigen, den wir über alles lieben. Wir dürfen außerdem die Beichte nicht vernachlässigen: Wir haben es immer nötig, dass uns vergeben wird, damit wir Barmherzigkeit schenken können. Außerdem können wir, wenn wir mitten in der Aktivität sind, auf das Herzensgebet zurückgreifen, auf kurze „Stoßgebete“ – sie sind ein Schatz, die Stoßgebete – Worte des Lobes, des Dankes und der Anrufung, die wir dem Herrn gegenüber wiederholen, wo immer wir sind. Das Gebet dezentriert uns, es öffnet uns für Gott und stellt uns wieder auf die Füße, weil es uns in seine Hände gibt. Es schafft in uns den Raum, um Gottes Nähe zu erfahren, damit sein Wort uns selbst und durch uns den Menschen, denen wir begegnen, vertraut wird. Ohne Gebet kommt man nicht weit. Um die geistliche Mittelmäßigkeit zu überwinden, dürfen wir schließlich nie müde werden, die Gottesmutter anzurufen – sie ist unsere Mutter –und von ihr zu lernen, Jesus zu betrachten und ihm zu folgen.

Die zweite Herausforderung besteht darin, die Versuchung der weltlichen Bequemlichkeit zu überwinden, eines bequemen Lebens, in dem wir uns mehr oder weniger mit allem arrangieren und durch Trägheit weitermachen, indem wir unseren eigenen Komfort suchen und uns ohne Begeisterung weiterschleppen. Aber auf diese Weise verlieren wir den Kern der Mission, der darin besteht, aus dem Bereich des Ichs herauszugehen, um auf die Brüder und Schwestern zuzugehen und im Namen Gottes die Kunst der Nähe zu üben. Die Weltlichkeit birgt ein großes Risiko, vor allem in einem Kontext von Armut und Leid: dasjenige, die Rolle auszunutzen, die wir haben, um unsere Bedürfnisse und unsere Bequemlichkeiten zu befriedigen. Es ist traurig, sehr traurig, wenn wir uns in uns selbst verkrümmen und zu kalten Bürokraten des Geistes werden. Statt dem Evangelium zu dienen, sind wir dann damit beschäftigt, unsere Finanzen zu verwalten und ein für uns vorteilhaftes Geschäft zu betreiben. Brüder und Schwestern, es ist skandalös, wenn dies im Leben eines Priesters oder Ordensmannes geschieht, die stattdessen Vorbilder für Nüchternheit und innere Freiheit sein sollten. Wie schön ist es hingegen, reine Absichten zu behalten und frei von Kompromissen mit dem Geld zu bleiben, indem wir die Armut des Evangeliums freudig annehmen und an der Seite der Armen arbeiten! Und wie schön ist es, durch das zölibatäre Leben als Zeichen der vollständigen Verfügbarkeit für das Reich Gottes zu leuchten! Stattdessen soll es nicht so sein, dass in uns jene Laster fest verwurzelt sind, die wir gerne bei anderen und in der Gesellschaft ausreißen würden. Bitte geben wir auf die weltliche Bequemlichkeit acht.

Die dritte Herausforderung besteht schließlich darin, die Versuchung der Oberflächlichkeit zu überwinden. Wenn das Volk Gottes darauf wartet, durch das Wort des Herrn erreicht und getröstet zu werden, werden Priester und Ordensleute gebraucht, die vorbereitet, ausgebildet und vom Evangelium begeistert sind. Uns wurde ein Geschenk in die Hände gelegt und es wäre unsererseits anmaßend zu denken, dass wir die Mission, zu der Gott uns berufen hat, leben können, ohne jeden Tag an uns selbst zu arbeiten und ohne uns angemessen zu schulen, sowohl im geistlichen Leben als auch in der theologischen Bildung. Die Menschen brauchen keine Sakralfunktionäre oder vom Volk losgelöste Akademiker. Wir sind angehalten, in das Herz des christlichen Geheimnisses einzudringen, die Lehre darüber eingehend zu studieren, das Wort Gottes zu bedenken und zu meditieren; und zugleich für die Sorgen unserer Zeit, für die immer komplexer werdenden Fragen unserer Epoche offen zu bleiben, um das Leben und die Bedürfnisse der Menschen zu begreifen, um zu verstehen, wie wir ihre Hand ergreifen und sie begleiten können. Deshalb ist die Ausbildung des Klerus kein optionales Extra. Ich sage das zu den Seminaristen, aber es gilt für alle: Die Ausbildung ist ein Weg, der immer weiterzugehen ist, das ganze Leben lang. Man nennt dies ständige Weiterbildung: Formung immer, das ganze Leben lang.

Diese Herausforderungen, über die ich zu euch gesprochen habe, müssen wir angehen, wenn wir dem Volk als Zeugen der Liebe Gottes dienen wollen, denn der Dienst ist nur wirksam, wenn er durch das Zeugnis erfolgt. Vergessen wir dieses Wort nicht: das Zeugnis. Nachdem der Herr nämlich Worte des Trostes gesprochen hat, sagt er durch Jesaja: »Wer von ihnen kündigt dies an und wer kann uns sagen, was früher war? Sie sollen ihre Zeugen stellen« (43.9.10). Zeugen. Um gute Priester, Diakone und Gottgeweihte zu sein, genügen Worte und Absichten nicht: Es ist vor allem das Leben selbst, das spricht, das eigene Leben. Liebe Brüder und Schwestern, wenn ich auf euch blicke, danke ich Gott, denn ihr seid Zeichen der Gegenwart Jesu, die durch die Straßen dieses Landes zieht und das Leben der Menschen berührt, die Wunden ihres Fleisches. Aber es bedarf noch junger Menschen, die „Ja“ zum Herrn sagen, weiterer Priester und Ordensleute, die seine Schönheit mit ihrem Leben aufscheinen lassen.

In euren Zeugnissen habt ihr mich daran erinnert, wie schwierig es ist, die Mission in einem Land zu leben, das reich an so vielen Naturschönheiten und Ressourcen ist, aber durch Ausbeutung, Korruption, Gewalt und Ungerechtigkeit verwundet ist. Ihr habt aber auch vom Gleichnis des barmherzigen Samariters gesprochen: Es ist Jesus, der auf unseren Straßen entlanggeht und vor allem durch seine Kirche stehen bleibt und sich um die Wunden der Unterdrückten kümmert. Liebe Freunde, der Dienst, zu dem ihr berufen seid, besteht eben darin: Nähe und Trost zu schenken, wie ein Licht, das inmitten von so viel Dunkelheit stets brennt. Lernen wir vom Herrn, der nahe ist, immer. Und um Brüder und Schwestern aller sein zu können, seid dies zuerst untereinander: Zeugen der Geschwisterlichkeit, die niemals im Krieg sind; Zeugen des Friedens, die lernen, auch die Besonderheiten der Kulturen und der ethnischen Herkunft zu überwinden, weil, wie Benedikt XVI. in seiner Ansprache an die afrikanischen Priester sagte, »euer Zeugnis eines friedvollen Lebens über alle Stammes- und Volksgrenzen hinaus die Herzen berühren kann« (Nachsynodales Apostolisches Schreiben Africae Munus, 108).

Ein Sprichwort sagt: »Der Wind bricht nicht, was sich zu beugen weiß«. Die Geschichte vieler Völker dieses Kontinents wurde leider gebeugt und durch Verletzungen und Gewalt verwundet. Wenn es daher einen Wunsch gibt, der aus dem Herzen aufsteigt, dann ist es der, sich nicht mehr zu beugen, sich nicht mehr der Überheblichkeit des Stärkeren unterwerfen zu müssen, nicht mehr den Kopf unter das Joch der Ungerechtigkeit senken zu müssen. Aber wir können die Worte des Sprichworts vor allem in einem positiven Sinne aufnehmen: Es gibt ein Sichbeugen, das nicht gleichbedeutend mit Schwäche ist oder damit, feige zu sein, sondern mit Stärke; sich beugen bedeutet dann, flexibel zu sein und die Starrheit zu überwinden; es bedeutet, eine gelehrige Menschlichkeit zu pflegen, die sich nicht in Groll und Ressentiments verschließt; es bedeutet, bereit zu sein, sich verändern zu lassen, ohne sich in den eigenen Ideen und Positionen zu verschanzen. Wenn wir uns vor Gott in Demut beugen, lässt er uns wie er werden, Stifter der Barmherzigkeit. Wenn wir in den Händen Gottes fügsam bleiben, formt er uns und macht uns zu versöhnten Menschen, die es verstehen, sich zu öffnen und Dialog zu führen, andere anzunehmen und zu vergeben, Flüsse des Friedens in die trockenen Steppen der Gewalt hineinfließen zu lassen. Und wenn dann die Winde der Konflikte und der Spaltungen stürmisch wehen, können diese Menschen nicht gebrochen werden, weil sie von Gottes Liebe erfüllt sind. Seid auch ihr so: fügsam dem Gott der Barmherzigkeit, niemals gebrochen durch die Winde der Spaltung.

Schwestern und Brüder, ich danke euch von Herzen für das, was ihr seid und was ihr tut, ich danke euch für euer Zeugnis gegenüber der Kirche und der Welt. Lasst euch nicht entmutigen, ihr werdet gebraucht! Ihr seid wertvoll, wichtig: Das sage ich euch im Namen der ganzen Kirche. Ich wünsche euch, dass ihr immer Kanäle des Trostes des Herrn und freudige Zeugen des Evangeliums seid, eine Prophetie des Friedens in den Spiralen der Gewalt, Jünger der Liebe, die bereit sind, die Wunden der Armen und Leidenden zu heilen. Vielen Dank, Schwestern und Brüder, danke nochmals für euren Dienst und für euren pastoralen Eifer. Ich segne euch und trage euch im Herzen. Und ihr, bitte vergesst nicht, für mich zu beten! Danke.

[00166-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

Queridos hermanos sacerdotes, diáconos y seminaristas,
queridas consagradas, queridos consagrados: buenas tardes y feliz fiesta.

Me alegra encontrarme con ustedes precisamente hoy, en la fiesta de la Presentación del Señor, día en el cual rezamos de modo especial por la vida consagrada. Todos, como Simeón, esperamos la luz del Señor para que ilumine las oscuridades de nuestra vida y, más aún, todos desearíamos vivir la misma experiencia que él hizo en el Templo de Jerusalén: tomar en brazos a Jesús. Tomarlo en brazos, para poder tenerlo ante los ojos y cerca del corazón. De ese modo, poniendo a Jesús en el centro nos cambia la perspectiva sobre la vida y, aun en medio de trabajos y fatigas, nos sentimos envueltos por su luz, consolados por su Espíritu, animados por su Palabra, sostenidos por su amor.

Digo esto pensando en las palabras de bienvenida pronunciadas por el cardenal Ambongo, las cuales agradezco. Ha hablado de los «enormes desafíos» que se deben afrontar para vivir el compromiso sacerdotal y religioso en esta tierra marcada por «condiciones difíciles y frecuentemente peligrosas», tierra de tanto sufrimiento. Y, sin embargo, como señalaba, también hay mucha alegría en el servicio del Evangelio y son numerosas las vocaciones al sacerdocio y a la vida consagrada. Ahí está la abundancia de la gracia de Dios, que actúa precisamente en la debilidad (cf. 2 Co 12,9) y que los hace capaces, junto a los fieles laicos, de generar esperanza en las circunstancias muchas veces dolorosas, de vuestro pueblo.

Es la fidelidad de Dios la que nos da certeza de que nos acompaña incluso en las dificultades. Él, por medio del profeta Isaías, dice: «Pondré un camino en el desierto y ríos en la estepa» (43,19). He pensado proponerles algunas reflexiones que nacen, precisamente, de estas palabras de Isaías. Dios abre sus caminos en nuestros desiertos y nosotros, ministros ordenados y personas consagradas, estamos llamados a ser signo de esta promesa y a realizarla en la historia del Pueblo santo de Dios. Pero, concretamente, ¿a qué se nos llama? A servir al pueblo como testigos del amor de Dios. Isaías nos ayuda a comprender de qué manera.

Por boca del profeta, el Señor llega a su pueblo en un momento dramático, mientras los israelitas habían sido deportados a Babilonia y reducidos a la esclavitud. Movido por la compasión, Dios quiere consolarlos. Esta parte del libro de Isaías, efectivamente, es conocida como el “Libro de la consolación”, porque el Señor dirige a su pueblo palabras de esperanza y promesas de salvación. Y lo primero que hace es recordar el vínculo de amor que lo une a su pueblo: «No temas, porque yo te he redimido, te he llamado por tu nombre, tú me perteneces. Si cruzas por las aguas, yo estaré contigo, y los ríos no te anegarán; si caminas por el fuego, no te quemarás, y las llamas no te abrasarán» (43,1-2). De ese modo, el Señor se revela como Dios de la compasión y nos asegura que nunca nos dejará solos, siempre estará a nuestro lado, siendo refugio y fortaleza en las dificultades. Dios es compasivo. Los tres nombres de Dios, los tres rasgos de Dios son misericordia, compasión y ternura. Porque todos estos nos acercan a Dios: un Dios cercano, compasivo y tierno.

Queridos sacerdotes y diáconos, consagradas y consagrados, seminaristas: a través de ustedes el Señor también hoy quiere ungir a su pueblo con el aceite de la consolación y de la esperanza. Y ustedes están llamados a ser eco de esta promesa de Dios; a recordar que Él nos ha formado y a Él le pertenecemos, a animar la senda de la comunidad; y a acompañarla en la fe al encuentro de Aquel que ya camina junto a nosotros. Dios no permite que las aguas nos sumerjan, ni que el fuego nos abrase. Sintámonos portadores de este anuncio en medio de los sufrimientos de la gente. Esto es lo que significa ser servidores del pueblo: sacerdotes, religiosas, misioneros que han experimentado la alegría del encuentro liberador con Jesús y la ofrecen a los demás. Recordemos que, si vivimos para “servirnos” del pueblo en vez de “servir” al pueblo, el sacerdocio y la vida consagrada se vuelven estériles. No se trata de un trabajo para ganar dinero o tener una posición social, ni tampoco para resolver la situación de la familia de origen, sino que se trata de ser signos de la presencia de Cristo, de su amor incondicional; del perdón con el que quiere reconciliarnos; de la compasión con la que quiere hacerse cargo de los pobres. Nosotros fuimos llamados para ofrecer la vida por los hermanos y las hermanas, llevándoles a Jesús, el único que cura las heridas del corazón.

Para vivir de ese modo nuestra vocación siempre tendremos desafíos que afrontar, tentaciones que vencer. Quisiera brevemente detenerme sobre estos tres: la mediocridad espiritual, la comodidad mundana, la superficialidad.

Ante todo, vencer la mediocridad espiritual. ¿Cómo? La Presentación del Señor, que en el Oriente cristiano se llama la “fiesta del encuentro”, nos recuerda cuál es la prioridad de nuestra vida: el encuentro con el Señor, especialmente en la oración personal, porque la relación con Él es el fundamento de nuestra acción. No olvidemos que el secreto de todo está en la oración, porque el ministerio y el apostolado no son, en primer término, obra nuestra y no dependen sólo de los medios humanos. Y ustedes me dirán: sí, es verdad, pero los compromisos, las urgencias pastorales, los esfuerzos apostólicos, el cansancio amenazan con no dejarnos ni tiempo ni energías suficientes para la oración. Por eso quisiera compartir algunos consejos: en primer lugar, seamos fieles a ciertos ritmos litúrgicos de oración que acompasan la jornada, desde la Misa al breviario. La celebración eucarística cotidiana es el corazón palpitante de la vida sacerdotal y religiosa. La Liturgia de las Horas nos permite rezar con la Iglesia y de forma regular; no la descuidemos nunca. Y tampoco olvidemos la Confesión; siempre necesitamos ser perdonados para poder ofrecer misericordia. Otro consejo: como sabemos, no podemos limitarnos a la mera recitación protocolaria de las oraciones, sino que es necesario reservar cada día un tiempo intenso de oración, para estar con el Señor, corazón con corazón. Un momento prolongado de adoración, de meditación de la Palabra, el santo Rosario; un encuentro íntimo con Aquel que amamos sobre todas las cosas. Además, cuando estamos en plena actividad, recurramos también a la oración del corazón, a breves “jaculatorias” —son un tesoro, las jaculatorias—, palabras de alabanza, de agradecimiento y de invocación que podemos repetir al Señor en cualquier lugar donde nos encontremos. La oración nos hace salir del yo, nos abre a Dios, nos vuelve a poner en pie porque nos pone en sus manos; crea en nosotros el espacio para experimentar la cercanía de Dios, para que su Palabra nos sea familiar y, a través de nosotros, lo sea a todos los que encontramos. Sin la oración no se va lejos. Finalmente, para superar la mediocridad espiritual, no nos cansemos nunca de invocar a la Virgen María, —es nuestra Madre— y de aprender de ella a contemplar y seguir a Jesús.

El segundo desafío es vencer la tentación de la comodidad mundana, de una vida cómoda, en la que se tienen las cosas más o menos resueltas y se sigue adelante por inercia, buscando nuestro confort y dejándonos llevar sin entusiasmo. Pero de este modo se pierde el corazón de la misión, que es salir de los territorios del yo para ir hacia los hermanos y las hermanas ejercitando, en nombre de Dios, el arte de la cercanía. Hay un gran riesgo ligado a la mundanidad, especialmente en un contexto de pobreza y sufrimiento: el de aprovecharse del papel que tenemos para satisfacer nuestras necesidades y nuestras comodidades. Es triste, muy triste cuando nos replegamos en nosotros mismos, convirtiéndonos en fríos burócratas del espíritu. Entonces, en vez de servir al Evangelio, nos preocupamos de gestionar las finanzas y de llevar adelante algún negocio que nos resulte ventajoso. Hermanos y hermanas, escandaloso cuando esto sucede en la vida de un sacerdote o de un religioso, que, por el contrario, deberían ser modelos de sobriedad y de libertad interior. En cambio, qué hermoso es mantenerse rectos en las intenciones y libres de componendas con el dinero, abrazando con alegría la pobreza evangélica y trabajando junto a los pobres. Y qué hermoso es ser signos luminosos de disponibilidad total al Reino de Dios, viviendo el celibato. No permitamos que esos vicios, los cuales quisiéramos arrancar de los demás y de la sociedad, se encuentren bien arraigados en nosotros. Por favor, estemos alerta a la comodidad mundana.

Por último, el tercer desafío es vencer la tentación de la superficialidad. Dado que el Pueblo de Dios espera ser alcanzado y consolado por la Palabra del Señor, se necesitan sacerdotes y religiosos preparados, formados, apasionados por el Evangelio. Se ha puesto un don en nuestras manos y, de nuestra parte, sería presuntuoso pensar que podemos vivir la misión a la que Dios nos ha llamado sin trabajar cada día en nosotros mismos y sin formarnos de forma adecuada, tanto en la vida espiritual como en la preparación teológica. La gente no necesita funcionarios de lo sagrado o profesionales distantes del pueblo. Estamos obligados a entrar en el corazón del misterio cristiano, a profundizar la doctrina, a estudiar y meditar la Palabra de Dios; y al mismo tiempo a permanecer abiertos a las inquietudes de nuestro tiempo, a las preguntas cada vez más complejas de nuestra época, para poder comprender la vida y las exigencias de las personas; para entender de qué manera tomarlas de la mano y acompañarlas. Por eso, la formación del clero no es opcional. Lo digo a los seminaristas, pero vale para todos: la formación es un camino que debe continuar siempre y para toda la vida. Se llama formación permanente: formación siempre, para toda la vida.

Si queremos servir al pueblo como testigos del amor de Dios, hay que afrontar estos desafíos de los que les he hablado, porque el servicio es eficaz sólo si pasa a través del testimonio. No olviden esta palabra: el testimonio. De hecho, después de haber pronunciado las palabras de consolación, el Señor dice por medio de Isaías: «¿Quién de entre ellos había anunciado estas cosas? ¿Quién nos predijo lo que sucedió en el pasado? Ustedes son mis testigos» (43,9.10). Testigos, porque para ser buenos sacerdotes, diáconos, consagradas y consagrados no son suficientes las palabras y las intenciones; lo que realmente cuenta es la vida misma, la propia vida. Queridos hermanos y hermanas, mirándolos a ustedes doy gracias a Dios, porque son signos de la presencia de Jesús que pasa por los caminos de este país y toca la vida de la gente, las heridas de su carne. Pero todavía se necesitan jóvenes que le digan “sí” al Señor, más sacerdotes y religiosos que dejen trasparentar su belleza con la propia vida.

En sus testimonios me recordaron cuán difícil es vivir la misión en una tierra tan rica de bellezas naturales y recursos, pero herida por la explotación, la corrupción, la violencia y la injusticia. Hablaron también de la parábola del buen samaritano; es Jesús que pasa por nuestros caminos y, especialmente a través de su Iglesia, se detiene y se hace cargo de las heridas de los oprimidos. Queridos hermanos y hermanas, el ministerio al que están llamados es precisamente este: ofrecer cercanía y consolación, como una luz siempre encendida en medio de la oscuridad. Aprendamos del Señor, que siempre está cerca. Y para ser hermanos y hermanas de todos, séanlo en primer lugar entre ustedes. Testigos de fraternidad, jamás en guerra; testigos de paz, aprendiendo a superar también las particularidades de cada cultura y origen étnico, para que, como afirmó Benedicto XVI al dirigirse a los sacerdotes africanos: «vuestro testimonio de vida pacífica, por encima de los confines tribales y raciales, puede tocar los corazones» (Exhort. ap. Africae munus, 108).

Un proverbio dice: «El viento no quiebra lo que sabe plegarse». La historia de muchos pueblos de este continente ha sido, por desgracia, plegada y plagada de heridas y de violencia, y por eso, si hay un deseo que nace del corazón, es el de no tener que hacerlo más; el de no tener que someterse más a la prepotencia de los más fuertes; el de no tener que abajar más la cabeza bajo el yugo de la injusticia. Pero podemos acoger las palabras del proverbio principalmente en sentido positivo: existe un plegarse que no es sinónimo de debilidad, de ser cobarde, sino de fortaleza; que significa ser flexibles, superando los rigorismos; significa cultivar una humanidad dócil, que no se cierre en el odio y en el rencor; significa estar disponibles a dejarnos cambiar, sin obstinarnos en nuestras propias ideas y posiciones. Si nos inclinamos ante Dios, con humildad, Él nos hará como Él, obreros de la misericordia. Cuando permanecemos dóciles en las manos de Dios, Él nos modela y hace de nosotros personas reconciliadas, que saben abrirse y dialogar, acoger y perdonar, poner ríos de paz en las áridas estepas de la violencia. Y, así, cuando soplan, impetuosos, los vientos de los conflictos y de las divisiones, estas personas no pueden ser quebrantadas, porque están llenas del amor de Dios. Sean ustedes también así, dóciles al Dios de la misericordia, sin jamás dejarse quebrantar por los vientos de las divisiones.

Hermanas y hermanos, gracias de corazón, por lo que son y lo que hacen; gracias por el testimonio que dan a la Iglesia y al mundo. No se desanimen, los necesitamos. Ustedes son valiosos, importantes, se lo digo en nombre de toda la Iglesia. Deseo que sean siempre canales del consuelo del Señor y testigos gozosos del Evangelio; profecía de paz en las espirales de la violencia; discípulos del Amor dispuestos a curar las heridas de los pobres y de los que sufren. Muchas gracias, hermanas y hermanos, gracias una vez más por su servicio y por su celo pastoral. Los bendigo y los llevo en el corazón. Y ustedes, por favor, no se olviden de rezar por mí. Gracias.

[00166-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

Queridos irmãos sacerdotes, diáconos e seminaristas,
Amados consagrados e consagradas, boa tarde e uma santa festa!

Estou feliz por me encontrar convosco precisamente hoje, na festa da Apresentação do Senhor, dia em que rezamos de modo especial pela vida consagrada. Todos nós, como Simeão, esperamos a luz do Senhor para iluminar as trevas da nossa vida; e, mais ainda, todos desejamos viver a mesma experiência que ele teve no Templo de Jerusalém: tomar Jesus nos braços. Tomá-Lo nos braços para O podermos ter diante dos olhos e sobre o coração. Assim, colocando Jesus no centro, muda a perspetiva da nossa vida e, mesmo no meio das dificuldades e canseiras, sentimo-nos envolvidos pela sua luz, consolados pelo seu Espírito, encorajados pela sua Palavra, sustentados pelo seu amor.

Digo isto pensando nas palavras de boas-vindas pronunciadas pelo Cardeal Ambongo, que agradeço; falou de «enormes desafios» a enfrentar para viver o compromisso sacerdotal e religioso nesta terra, marcada por «condições difíceis e muitas vezes perigosas», terra de tanto sofrimento. E contudo, como recordava, há também tanta alegria com o serviço ao Evangelho e são numerosas as vocações ao sacerdócio e à vida consagrada. Aqui vemos a abundância da graça de Deus, que opera precisamente na fraqueza (cf. 2 Cor 12, 9) e vos torna capazes, juntamente com os fiéis leigos, de gerar esperança nas situações frequentemente dolorosas do vosso povo.

A certeza que nos acompanha, mesmo nas dificuldades, é-nos dada pela fidelidade de Deus. Diz Ele mediante o profeta Isaías: «Vou abrir um caminho no deserto e fazer correr rios na estepe» (43, 19). Pensei propor-vos algumas reflexões justamente a partir destas palavras de Isaías: Deus abre caminhos nos nossos desertos e nós, ministros ordenados e pessoas consagradas, somos chamados a ser sinal desta promessa e realizá-la na história do Povo santo de Deus. Mas, em concreto, a que é que somos chamados? A servir o povo como testemunhas do amor de Deus. Isaías ajuda-nos a compreender como fazê-lo.

Pela boca do profeta, o Senhor vem ter com o seu povo num momento dramático, quando os israelitas foram deportados para Babilónia e reduzidos à escravidão. Movido pela compaixão, Deus quer consolá-los. De facto, esta parte da obra de Isaías é conhecida como o «Livro da Consolação», porque o Senhor dirige ao seu povo palavras de esperança e promessas de salvação. Começa por recordar o vínculo de amor que O une ao seu povo: «Nada temas, porque Eu te resgatei, e te chamei pelo teu nome; tu és Meu. Se tiveres de atravessar as águas, estarei contigo, e os rios não te submergirão. Se caminhares pelo fogo, não te queimarás, e as chamas não te consumirão» (43, 1-2). Assim o Senhor revela-Se como Deus da compaixão e garante que nunca nos deixará sozinhos, que estará sempre ao nosso lado como refúgio e força nas dificuldades. Deus é compassivo. Os três nomes de Deus, os três traços típicos de Deus são misericórdia, compaixão e ternura. Pois tudo isto faz a proximidade de Deus: um Deus próximo, compassivo e terno.

Queridos sacerdotes e diáconos, consagradas e consagrados, seminaristas: por vosso intermédio, também hoje o Senhor quer ungir o seu povo com o óleo da consolação e da esperança. Sois chamados a fazer-vos eco desta promessa de Deus, a recordar que Ele nos plasmou e a Ele pertencemos, a animar o caminho da comunidade e a acompanhá-la na fé ao encontro d’Aquele que já caminha ao nosso lado. Deus não permite que as águas nos submerjam, nem que o fogo nos queime. Sintamo-nos portadores deste anúncio no meio das tribulações do povo. Isto é ser servidores do povo: padres, irmãs, missionários que experimentaram a alegria do encontro libertador com Jesus e oferecem-na aos outros. Lembremo-nos disto: o sacerdócio e a vida consagrada tornam-se áridos, se os vivemos para «nos servirmos» do povo em vez de «servi-lo». Não se trata de uma profissão para ganhar ou ter uma posição social, nem para colocar em situação confortável a família de origem, mas é a missão de ser sinais da presença de Cristo, do seu amor incondicional, do perdão com que nos quer reconciliar, da compaixão com que deseja cuidar dos pobres. Fomos chamados para oferecer a vida pelos irmãos e irmãs, levando-lhes Jesus, o único que sara as feridas do coração.

Para vivermos assim a nossa vocação, nunca faltarão desafios a enfrentar, nem tentações a vencer. Quero deter-me brevemente nestas três: a mediocridade espiritual, a comodidade mundana, a superficialidade.

Antes de mais nada, vencer a mediocridade espiritual. E como? A Apresentação do Senhor, designada no Oriente cristão como «festa do encontro», recorda-nos a prioridade da nossa vida: o encontro com o Senhor, especialmente na oração pessoal, porque a relação com Ele é o fundamento do nosso agir. Não esqueçamos que o segredo de tudo é a oração, porque o ministério e o apostolado não são, primariamente, obra nossa nem dependem apenas dos meios humanos. Dir-me-eis: É verdade! Mas os compromissos, as urgências pastorais, as canseiras apostólicas, o cansaço, etc. fazem-nos correr o risco de ficar sem tempo e sem energias suficientes para a oração. Quero, por isso, compartilhar alguns conselhos: em primeiro lugar, mantenhamo-nos fiéis a certos ritmos litúrgicos da oração que cadenciam o dia, desde a Missa até à Liturgia das Horas. A Celebração Eucarística diária é o coração pulsante da vida sacerdotal e religiosa. A Liturgia das Horas permite-nos rezar com a Igreja e de o fazermos de forma regular: nunca a descuidemos! E não descuremos também a Confissão: sempre precisamos de ser perdoados, para poder dar misericórdia. Outro conselho: como se sabe, não podemos limitar-nos à recitação ritual das orações, mas é preciso reservar diariamente um tempo intenso de oração, para comunicar de coração a coração com o Senhor: um momento prolongado de adoração, de meditação da Palavra, a reza do Santo Terço; um encontro íntimo com Aquele que amamos acima de todas as coisas. Além disso, quando estamos em plena atividade, podemos também recorrer à oração do coração, a breves «jaculatórias» – estas são um tesouro –, palavras de louvor, de agradecimento e de invocação que se hão de repetir ao Senhor onde quer que nos encontremos. A oração tira-nos a nós do centro, abre-nos a Deus, levanta-nos porque nos coloca nas mãos d’Ele. Cria em nós o espaço para experimentarmos a proximidade de Deus, para que a sua Palavra se torne familiar a nós e, por nosso intermédio, a todos quantos encontramos. Sem oração, não se vai longe… Por fim, para superar a mediocridade espiritual, nunca nos cansemos de invocar Nossa Senhora – é nossa Mãe – e d’Ela aprender a contemplar e seguir Jesus.

O segundo desafio é vencer a tentação da comodidade mundana, duma vida cómoda na qual seja possível organizar mais ou menos todas as coisas e continuar em frente por inércia, procurando o nosso conforto e arrastando-nos sem entusiasmo. Mas, assim, perde-se o coração da missão, que é sair do espaço do eu e encaminhar-se para os irmãos e irmãs exercendo, em nome de Deus, a arte da proximidade. Há um grande risco associado à mundanidade, especialmente num contexto de pobreza e sofrimento: aproveitar-se da função que temos para satisfazer as nossas carências e comodidades. É triste, muito triste, quando nos fechamos em nós mesmos, tornando-nos frios burocratas do espírito. Então, em vez de servir o Evangelho, preocupamo-nos em administrar as finanças e realizar qualquer negócio que nos traga vantagem. Irmãos e irmãs, isto é escandaloso, quando acontece na vida dum padre ou dum religioso, que deveria ser modelo de sobriedade e liberdade interior. Ao contrário, como é belo manter-se transparente nas intenções e livre de compromissos com o dinheiro, abraçando alegremente a pobreza evangélica e trabalhando junto dos pobres! E como é belo ser luminoso vivendo o celibato como sinal de total disponibilidade para o Reino de Deus! Não suceda que em nós se encontrem, bem enraizados, aqueles vícios que queremos extirpar nos outros e na sociedade. Por favor, vigiemos sobre a comodidade mundana.

Finalmente, o terceiro desafio é vencer a tentação da superficialidade. Se o Povo de Deus espera ser alcançado e consolado pela Palavra do Senhor, tem necessidade de padres e religiosos preparados, formados, apaixonados pelo Evangelho. Foi-nos colocado um dom nas mãos e, da nossa parte, seria presunçoso pensar que podemos viver a missão para a qual Deus nos chamou sem trabalharmos diariamente sobre nós mesmos e sem nos formarmos de forma adequada tanto na vida espiritual como na preparação teológica. As pessoas não precisam de funcionários do sagrado nem de doutores afastados do povo. Somos chamados a entrar no coração do mistério cristão, aprofundar a sua doutrina, estudar e meditar a Palavra de Deus; e, ao mesmo tempo, permanecer abertos às inquietações do nosso tempo, às questões cada vez mais complexas da nossa época, para poder compreender a vida e as exigências das pessoas, para compreender como tomá-las pela mão e acompanhá-las. Por isso, a formação do clero não é facultativa. Digo isto aos seminaristas, mas vale para todos: a formação é um caminho a percorrer sempre ao longo de toda a vida. Chama-se formação permanente: formação sempre, por toda a vida.

Os desafios de que vos falei, temos de os enfrentar se quisermos servir o povo como testemunhas do amor de Deus, porque só é eficaz o serviço se passar através do testemunho. Não esqueçais esta palavra: o testemunho. De facto, depois de pronunciar palavras de consolação, o Senhor acrescenta: «Quem dentre eles anunciou isto, trazendo aos nossos ouvidos acontecimentos antigos? (…) As minhas testemunhas sois vós» (Is 43, 9.10). Testemunhas. Para ser bons sacerdotes, diáconos, consagradas e consagrados, não bastam as palavras e as intenções: antes de tudo, é a própria vida que fala, a vida própria. Queridos irmãos e irmãs, vendo-vos, dou graças a Deus, porque sois sinais da presença de Jesus que passa pelas estradas deste país e toca a vida do povo, as feridas da sua carne. Mas continua a haver necessidade de jovens que digam «sim» ao Senhor, de outros sacerdotes e religiosos que deixem, com a própria vida, transparecer a sua beleza.

Nos vossos testemunhos, lembrastes-me como é difícil viver a missão numa terra tão rica de belezas naturais e recursos, mas ferida pela exploração, a corrupção, a violência e a injustiça. Mas falastes também da parábola do bom samaritano: é Jesus que passa ao longo das nossas estradas, especialmente através da sua Igreja, detém-Se e cuida das feridas dos oprimidos. Caríssimos, este é precisamente o ministério a que sois chamados: mostrar proximidade e consolação, como uma luz sempre acesa no meio de tanta escuridão. Aprendamos do Senhor, que está próximo, sempre. E, para ser irmãos e irmãs de todos, começai por sê-lo entre vós: testemunhas de fraternidade, nunca em guerra; testemunhas de paz, aprendendo a superar até as particularidades das culturas e das proveniências étnicas, porque, como afirmou Bento XVI aos sacerdotes africanos, «o vosso testemunho de vida pacífica, ultrapassando fronteiras tribais e raciais, pode tocar os corações» (Exort. ap. pós-sinodal Africæ munus, 108).

Como diz um provérbio, «o vento não quebra o que sabe curvar-se». A história de muitos povos deste continente foi, infelizmente, vergada e chagada por feridas e violências e, por isso, se há um desejo que sobe do coração, é não ter de o fazer mais, não mais ter de submeter-se à prepotência do mais forte, não mais dever curvar a cabeça sob o jugo da injustiça. Mas podemos acolher as palavras do provérbio principalmente em sentido positivo: há um curvar-se que não é sinónimo de fraqueza, de ser cobarde, mas de fortaleza; então significa ser flexível, superando a rigidez; significa cultivar uma humanidade dócil, que não se feche no ódio e no rancor; significa estar disponível para se deixar mudar, sem se fechar nas próprias ideias e posições. Se nos curvarmos humildemente diante de Deus, Ele faz-nos semelhantes a Si, obreiros de misericórdia. Quando permanecemos dóceis nas mãos de Deus, Ele molda-nos e faz de nós pessoas reconciliadas, que sabem abrir-se e dialogar, acolher e perdoar, lançar rios de paz nas estepes áridas da violência. Deste modo, quando soprarem impetuosos os ventos dos conflitos e das divisões, tais pessoas não podem ser quebradas, porque estão repletas do amor de Deus. Sede vós também assim: dóceis ao Deus da misericórdia, nunca quebrados pelos ventos das divisões.

Irmãos e irmãs, de coração vos agradeço pelo que sois e fazeis, agradeço pelo testemunho que dais à Igreja e ao mundo. Não desanimeis; há necessidade de vós! Sois preciosos, importantes: vo-lo digo em nome da Igreja inteira. Espero que sejais sempre canais da consolação do Senhor e testemunhas jubilosas do Evangelho, profecia de paz nas espirais da violência, discípulos do Amor prontos a cuidar das feridas dos pobres e atribulados. Muito obrigado, irmãs e irmãos! Obrigado mais uma vez pelo vosso serviço e zelo pastoral. Abençoo-vos e levo-vos no coração. E vós, por favor, não vos esqueçais de rezar por mim. Obrigado!

[00166-PO.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

Drodzy bracia kapłani, diakoni i seminarzyści,
drogie osoby konsekrowane, dobry wieczór i dobrego świętowania!

Cieszę się, że mogę być z wami dzisiaj, w święto Ofiarowania Pańskiego, w dniu, w którym modlimy się szczególnie za życie konsekrowane. Wszyscy, podobnie jak Symeon, czekamy na światło Pana, aby rozświetliło ciemności naszego życia, a jeszcze bardziej wszyscy pragniemy przeżyć to samo doświadczenie, jakie stało się jego udziałem w świątyni jerozolimskiej: trzymać w ramionach Jezusa. Trzymać Go w ramionach tak, aby mieć Go przed oczami i przy sercu. W ten sposób, kiedy stawiamy Jezusa w centrum, zmienia się nasze spojrzenie na życie i nawet w trudach i mozole czujemy się otuleni Jego światłem, pocieszeni Jego Duchem, wparci Jego słowem, podtrzymywani Jego miłością.

Mówię to myśląc o słowach powitania wypowiedzianych przez kardynała Ambongo, któremu dziękuję. Mówił on o „ogromnych wyzwaniach”, którym trzeba stawiać czoła, chcąc żyć z zaangażowaniem kapłańskim i zakonnym na tej ziemi, naznaczonej „warunkami trudnymi i często niebezpiecznymi”, a także ziemi wielkiego cierpienia. A przecież – jak przypomniał – w służbie Ewangelii jest także wiele radości, i liczne są powołania do kapłaństwa oraz życia konsekrowanego. Oto obfitość Bożej łaski, która działa właśnie w słabości (por. 2 Kor 12, 9) i która czyni was zdolnymi, wspólnie z wiernymi świeckimi, do rodzenia nadziei w często bolesnych sytuacjach, w jakich znajduje się wasz lud.

Pewność, która nam towarzyszy nawet w trudnościach, wynika z wierności Boga. On przez proroka Izajasza mówi: „Otworzę też drogę na pustyni, ścieżyny na pustkowiu” (43, 19). Pomyślałem, aby zaproponować wam kilka refleksji wypływających z tych właśnie słów Izajasza: Bóg otwiera drogi na naszych pustyniach, a my, wyświęceni szafarze i osoby konsekrowane jesteśmy powołani, aby być znakiem tej obietnicy i by realizować ją w historii świętego Ludu Bożego. Ale konkretnie, do czego jesteśmy powołani? Do służenia ludowi jako świadkowie Bożej miłości. Izajasz pomaga nam zrozumieć, w jaki sposób.

Przez usta proroka Pan dociera do swojego ludu w dramatycznym momencie, gdy Izraelici zostali zesłani do Babilonu i zniewoleni. Współczujący im Bóg chce ich pocieszyć. Zresztą, ta właśnie część Księgi Izajasza jest znana jako „Księga Pocieszenia”, ponieważ Pan kieruje do swojego ludu słowa nadziei i obietnice zbawienia. Najpierw przypomina o więzi miłości, łączącej Go z Jego ludem: „Nie lękaj się, bo cię wykupiłem, wezwałem cię po imieniu; tyś mój! Gdy pójdziesz przez wody, Ja będę z tobą, i gdy przez rzeki, nie zatopią ciebie. Gdy pójdziesz przez ogień, nie spalisz się, i nie strawi cię płomień” (43, 1-2). W ten sposób Pan objawia się jako Bóg współczucia i zapewnia, że nigdy nie pozostawia nas samymi, że zawsze jest u naszego boku, jako ostoja i siła w trudnościach. Bóg jest współczujący. Trzy imiona Boga, trzy cechy Boga to miłosierdzie, współczucie i czułość. Wszystko to bowiem składa się na bliskość Boga: Boga, który jest bliski, współczujący i czuły.

Drodzy kapłani i diakoni, osoby konsekrowane, seminarzyści: także przez was Pan pragnie dzisiaj namaścić swój lud olejem pocieszenia i nadziei. Wy również jesteście powołani, by powtórzyć tę obietnicę Boga, by pamiętać, że to On nas ukształtował i do Niego należymy. Jesteście powołani, by wspierać pielgrzymowanie wspólnoty i towarzyszyć jej w wierze na spotkanie Tego, który już idzie obok nas. Bóg nie pozwala wodom, by nas pogrążyły, ani ogniowi żeby nas spalił. Poczujmy się posłańcami tej nowiny pośród ludzkich cierpień. Bowiem to właśnie oznacza bycie sługami ludu: kapłanami, zakonnicami, misjonarzami, którzy doświadczyli radości wyzwalającego spotkania z Jezusem i ofiarują tę radość innym. Pamiętajmy o tym: kapłaństwo i życie konsekrowane stają się jałowe, jeśli przeżywamy je po to, żeby „posługiwać się” ludem, zamiast jemu „służyć”. Nie chodzi o pracę dla zarobku czy zyskania pozycji społecznej, ani nawet zapewnienia bytu rodzinie, z której pochodzimy. Jest to misja bycia znakiem obecności Chrystusa, Jego bezwarunkowej miłości, przebaczenia, poprzez które chce nas pojednać między sobą, współczucia, w którym pragnie zatroszczyć się o ubogich. Zostaliśmy powołani, aby ofiarować nasze życie dla naszych braci i sióstr, niosąc im Jezusa, jedynego, który leczy rany serca.

Chcąc tak przeżywać nasze powołanie, nieustannie stajemy wobec wyzwań do podjęcia i pokusy do pokonania. Chciałbym krótko zastanowić się nad trzema z nich: duchowa przeciętność, światowa wygoda, powierzchowność.

Przede wszystkim trzeba pokonać duchową przeciętność. W jaki sposób? Ofiarowanie Pańskie, które na chrześcijańskim Wschodzie nazywane jest „świętem spotkania”, przypomina nam o priorytecie naszego życia: spotkaniu z Panem, zwłaszcza w modlitwie osobistej, ponieważ relacja z Nim jest fundamentem naszej pracy. Nie zapominajmy, że sekretem wszystkiego jest modlitwa, bowiem posługa i apostolstwo nie są przede wszystkim naszym dziełem i nie zależą wyłącznie od ludzkich możliwości. Być może powiecie mi: tak, to prawda, ale zobowiązania, pilne sprawy duszpasterskie, trudy apostolskie i zmęczenie i tak dalej grożą tym, że brakuje czasu i energii na modlitwę. Chciałbym, nawiązując do tego, podzielić się kilkoma radami: przede wszystkim zachowajmy wiarę w pewne liturgiczne rytmy modlitwy, które wyznaczają dzień, od Mszy św. po brewiarz. Codzienna celebracja eucharystyczna jest pulsującym sercem życia kapłańskiego i zakonnego. Liturgia Godzin pozwala nam modlić się regularnie razem z Kościołem. Nigdy jej nie zaniedbujmy! Nie zaniedbujmy też spowiedzi: zawsze potrzebujemy przebaczenia, abyśmy sami mogli obdarzać miłosierdziem. Jeszcze jedna rada: jak wiemy, nie możemy ograniczać się do rytualnego odmawiania modlitw, ale musimy każdego dnia wygospodarować czas na głęboką modlitwę, aby trwać całym sercem przy sercu Pana: na dłuższą chwilę adoracji, na rozważanie słowa Bożego, na różaniec święty; na pełne bliskości spotkanie z Tym, którego kochamy ponad wszystko. Ponadto, zanurzeni w działaniu, możemy uciekać się do modlitwy serca, do krótkich „aktów strzelistych” – są one skarbem – akty strzeliste, słów uwielbienia, dziękczynienia i wezwania, które należy powtarzać Panu, gdziekolwiek jesteśmy. Modlitwa usuwa nas z centrum, otwiera nas na Boga, stawia na nogi, bowiem powierza nas w Jego ręce. Tworzy w nas przestrzeń do doświadczenia bliskości Boga, aby Jego Słowo stało się nam bliskie, a za naszym pośrednictwem także tym, których spotykamy. Bez modlitwy nie zajdziemy daleko. Wreszcie, aby przezwyciężyć duchową przeciętność nie ustawajmy nigdy w przyzywaniu Matki Bożej, jest naszą Matką, i w uczeniu się od Niej kontemplacji i naśladowania Jezusa.

Drugim wyzwaniem jest przezwyciężenie pokusy światowej wygody, wygodnego życia, w którym wszystko mamy mniej lub bardziej zorganizowane, a sami biernie podążamy naprzód, szukając swojego komfortu i postępując bez entuzjazmu. W ten sposób tracimy jednak istotę misji, która polega na przekroczeniu własnego „ja”, aby udać się ku naszym braciom i siostrom, pełniąc w imię Boga posługę bliskości. Ze światowością, zwłaszcza w kontekście ubóstwa i cierpienia, wiąże się wielkie zagrożenie: ryzyko wykorzystywania posiadanej roli do zaspokojenia naszych potrzeb i wygód. To smutne, bardzo smutne, gdy koncentrujemy się na samych sobie i stając się zimnymi biurokratami ducha. Wtedy, zamiast służyć Ewangelii, troszczymy się o zarządzanie finansami i prowadzenie jakiegoś dla nas opłacalnego interesu. Bracia i siostry, czymś skandalicznym jest, gdy dzieje się tak w życiu kapłana lub zakonnika, którzy, wprost przeciwnie, powinni być wzorcami wstrzemięźliwości i wewnętrznej wolności. Jakże wspaniałe jest natomiast utrzymywanie czystości intencji i bycie wolnym od układów finansowych, radośnie przyjmując ewangeliczne ubóstwo i pracując u boku ubogich! A jakże pięknie być wyrazistym w przeżywaniu celibatu jako znaku całkowitej dyspozycyjności wobec Królestwa Bożego! Oby się tak nie stało, że te wady, które chcielibyśmy wykorzenić u innych i w społeczeństwie, okażą się głęboko osadzone w nas samych. Proszę was, wystrzegajmy się światowych wygód.

Wreszcie trzecim wyzwaniem jest przezwyciężenie pokusy powierzchowności. Jeśli Lud Boży czeka, by dotarło do niego i pocieszyło go Słowo Pana, to potrzeba kapłanów i zakonników przygotowanych, uformowanych i pasjonujących się Ewangelią. W nasze ręce został złożony dar. Byłoby z naszej strony zarozumiałością sądzenie, iż możemy żyć misją, do której Bóg nas powołał, bez codziennej pracy nad sobą i bez odpowiedniej formacji, zarówno w życiu duchowym, jak i w przygotowaniu teologicznym. Ludzie nie potrzebują funkcjonariuszy do spraw kultu, czy ludzi wykształconych, oderwanych od ludu. Jesteśmy zobowiązani do wejścia w centrum tajemnicy chrześcijaństwa, do pogłębienia doktryny chrześcijańskiej, do studiowania i rozważania słowa Bożego; a jednocześnie do pozostania otwartymi na niepokoje naszych czasów, na coraz bardziej złożone pytania naszej epoki, abyśmy mogli zrozumieć życie i potrzeby osób, aby zrozumieć, jak wziąć je za rękę i im towarzyszyć. Dlatego formacja duchownych nie jest czymś opcjonalnym. Mówię to do seminarzystów, ale dotyczy to wszystkich: formacja jest drogą, którą należy podążać zawsze, przez całe życie. Nazywa się formacją ustawiczną: formacja trwa zawsze, przez całe życie.

Tym wyzwaniom, o których wam powiedziałem, musimy stawić czoła, jeśli mamy służyć ludowi jako świadkowie miłości Boga. Nie wolno zapominać tego słowa: świadectwo. Bowiem służba jest skuteczna tylko wtedy, gdy łączy się ze świadectwem. Rzeczywiście, po wypowiedzeniu słów pocieszenia, Pan mówi przez Izajasza: „Który z nich może to ogłosić i oznajmić nam minione rzeczy? Wy jesteście moimi świadkami” (43, 9.10). Świadkowie. Aby być dobrymi kapłanami, diakonami i osobami konsekrowanymi nie wystarczą słowa i intencje: ale „mówić” przede wszystkim własnym życiem, swoim życiem. Drodzy bracia i siostry, patrząc na was, dziękuję Bogu, bo jesteście znakami obecności Jezusa, który przemierza ulice tego kraju i dotyka życia ludzi oraz ran ich ciała. Ale nadal potrzeba ludzi młodych, którzy powiedzą Panu „tak”, nowych kapłanów i zakonników, którzy pozwolą, aby Jego piękno zajaśniało w ich życiu.

 

W swoich świadectwach przypomnieliście mi, jak trudno jest przeżywać tę misję na ziemi bogatej w tak wiele naturalnego piękna i zasobów, ale zranionej przez wyzysk, korupcję, przemoc i niesprawiedliwość. Jednak mówiliście też o przypowieści o dobrym Samarytaninie: to Jezus przechodzi naszymi drogami i, zwłaszcza poprzez swój Kościół, zatrzymuje się i troszczy o rany uciśnionych. Najmilsi, posługa, do której zostaliście powołani, jest właśnie taka: ofiarować bliskość i pocieszenie, które są niczym światło nieustannie płonące pośród tak wielkiej ciemności. Uczmy się od Pana, który zawsze jest blisko. Ażeby być braćmi i siostrami wszystkich, bądźcie nimi przede wszystkim między sobą: świadkami braterstwa, a nigdy wojny; świadkami pokoju, uczącymi się przezwyciężać także trudności wynikające z poszczególnych aspektów kultur i środowisk etnicznych, ponieważ – jak powiedział Benedykt XVI zwracając się do kapłanów afrykańskich – „przykład waszego życia w pokoju, ponad barierami plemiennymi i rasowymi, może poruszyć serca” (Adhort. apost. Africae munus, 108).

Przysłowie mówi: „Wiatr nie łamie tego, co potrafi się ugiąć”. Historia wielu ludów tego kontynentu została niestety nagięta i pochylona od ran i przemocy. Dlatego, jeśli istnieje jakieś pragnienie, które wypływa z serca, to jest nim pragnienie, żeby już się było więcej potrzeby poddawania się arogancji silniejszych, pochylania głowy pod jarzmem niesprawiedliwości. Możemy też przyjąć słowa tego przysłowia zasadniczo w sensie pozytywnym: jest pewien sposób uginania się, który nie jest synonimem słabości, tchórzostwa, ale siły; a więc oznacza bycie elastycznym, przezwyciężając sztywność; oznacza to pielęgnowanie człowieczeństwa gotowego do uczenia się, które nie zamyka się w gniewie i niechęci; oznacza bycie gotowym, dając się zmienić, nie trzymając się kurczowo swoich idei i stanowisk. Jeśli pokornie kłaniamy się przed Bogiem, to On czyni nas podobnymi do siebie, czyniącymi miłosierdzie. Kiedy trwamy potulnie w rękach Boga, On nas kształtuje i czyni nas ludźmi pojednanymi, którzy umieją się otworzyć i prowadzić dialog, przyjąć i przebaczyć, wlać rzeki pokoju na jałowe stepy przemocy. I dlatego, gdy z impetem wieją wiatry konfliktów i podziałów, ludzie ci nie dadzą się złamać, bo są napełnieni Bożą miłością. Bądźcie tacy także i wy: gotowi uczyć się od Boga miłosierdzia, nigdy nie dający się złamać wiatrom podziałów.

Siostry i bracia, serdecznie wam dziękuję za to, kim jesteście i co robicie, dziękuję za wasze świadectwo dla Kościoła i świata. Nie zniechęcajcie się, jesteście potrzebni! Jesteście cenni, ważni: mówię to wam w imieniu całego Kościoła. Życzę wam, abyście zawsze byli kanałami Bożego pocieszenia i radosnymi świadkami Ewangelii, prorokami pokoju w spiralach przemocy, uczniami Miłości, gotowymi leczyć rany ubogich i cierpiących. Bardzo dziękuję, siostry i bracia, jeszcze raz dziękuję za waszą posługę i za gorliwość duszpasterską. Błogosławię was i noszę w swoim sercu. I proszę, abyście nie zapominali  o modlitwie za mnie! Dziękuję.

[00166-PL.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua araba

الزيارة الرسوليّة إلى جمهوريّة الكونغو الديمقراطيّة

كلمة قداسة البابا فرنسيس

في اللقاء مع الكهنة والشّمامسة والمكرّسين والإكليركيّين

في كاتدرائيّة سيّدتنا مريم العذراء سيّدة الكونغو في كينشاسا

الخميس 2 شباط/فبراير 2023

 

أيّها الإخوة الأعزّاء، الكهنة والشّمامسة والإكليريكيّون،

أيّها الأعزّاء المكرّسون والمكرّسات، مساء الخير وعيد سعيد!

يسعدني أن أكون معكم اليوم، في عيد تقدّمة الرّبّ يسوع إلى الهيكل، اليوم الذي نصلّي فيه بصورة خاصّة من أجل الحياة المكرّسة. نحن جميعًا، مثل سمعان، ننتظر نور الرّبّ يسوع لينير ظلام حياتنا، وأكثر من ذلك، نحن جميعًا نرغب في أن نعيش نفس الخبرة التي عاشها هو في هيكل أورشليم: حمل يسوع بين ذراعيه. حَمَلَه بين ذراعيه، حتّى يكون أمام عينيه وفي قلبه. وهكذا، حين نضع نحن يسوع أمامنا في المكان الرئيسيّ، تتغيّر نظرتنا إلى الحياة. وحتّى في معاناتنا ومصاعبنا، نشعر بأنّ نوره يحيط بنا، وروحه يعزّينا، وكلمته تشجعنا، ومحبّته تسندنا.

أقول هذا وأنا أفكّر في كلمات التّرحيب التي قالها الكاردينال أمبونغو، والذي أشكره على ما قاله. تكلّم على "تحديّات هائلة" يجب مواجهتها من أجل عيش الالتزام الكهنوتي والرّهباني في هذه الأرض التي تتميّز "بظروف صعبة وأحيانًا خطيرة"، وآلام كثيرة. ومع ذلك، كما ذَكَرَ، هناك أيضًا الفرح الكثير في خدمة الإنجيل وهناك الدعوات الكثيرة للحياة الكهنوتيّة والحياة المكرّسة. هذه هي وفرة نعمة الله، التي تعمل في الضّعف (راجع 2 قورنتس 12، 9)، والتي تجعلنا قادرين، مع المؤمنين العلمانيّين، على أن نَلِدَ الرّجاء في أوضاع شعبكم المؤلمة غالبًا.

اليقين الذي يرافقنا حتّى في الصّعوبات يأتي من أمانة الله. فهو يقول لنا على لسان النبيّ أشعيا: "أَجعَلُ في البَرِّيَّةِ طَريقًا، وفي القَفرِ أَنْهارًا" (43، 19). فكّرت أن أقدّم لكم بعض التأمّلات بدءًا من كلمات أشعيا هذه: الله يفتح طرقًا في صحارينا، ونحن، الكهنة والشّمامسة والمكرّسين، مدعوّون إلى أن نكون علامة على هذا الوعد، وأن نجعله حقيقة في تاريخ شعب الله المقدّس. ولكن، عمليًّا، إلى ماذا نحن مدعوّون؟ نحن مدعوّون إلى أن نخدم الشّعب بصفة شهود على محبّة الله. أشعيا يساعدنا لنفهم كيف نفعل ذلك.

بحسب ما قاله النبيّ، جاء الله إلى شعبه في لحظة مأساويّة، عندما تمّ جلاء بني إسرائيل إلى بابل وصاروا في العبوديّة. أشفق الله عليهم وأراد تعزيتهم. في الواقع، يُعرف هذا الجزء من سفر أشعيا باسم ”سفر التّعزية“، لأنّ الله وجّه إلى شعبه كلمات رجاء ووعود خلاص. وأوّلًا ذَكَرَ رباط المحبّة الذي يربطه بشعبه: "لا تَخَفْ فإِنِّي قَدِ ٱفتَدَيتُكَ، ودَعَوتُكَ بِٱسمِكَ، إِنَّكَ لي. إِذا عَبَرتَ المِياهَ فإِنِّي مَعَكَ، أَوِ الأَنْهارَ فلا تَغمُرُكَ، وإِذا سِرتَ في النَّارِ فلا تَكتَوي، ولا يَلفَحُكَ اللَّهيب" (43، 1-2). هكذا كشف الله عن نفسه أنّه إله الرّحمة وأكّد أنّه لن يتركنا وَحدنا أبدًا، وأنّه سيكون دائمًا إلى جانبنا، ملجًأ وقوّةً لنا في أوقات الشّدّة. الله رحيم. أسماء الله الثلاثة، صفات الله الثلاث هي الرّحمة والشّفقة والحنان. لأنّ كلّ هذه الصفات تجعل الله قريب: إنّه إلهٌ قريب ورَؤوف وحنون.

أيّها الأعزّاء، الكهنة والشّمامسة، والمكرّسون والمكرّسات، والإكليريكيّون: من خلالكم اليوم مجدّدًا، يريد الله أن يمسح شعبه بزيت العزّاء والرّجاء. وأنتم مدعوّون إلى أن تكونوا صدى لوعد الله هذا، وتتذكّروا أنّه هو كوّننا ونحن له. وأنتم شجّعوا مسيرة الجماعة ورافقوها في الإيمان لكي نلتقي مع ذلك الذي يسير دائمًا إلى جانبنا. الله لا يسمح للمياه أن تغمرنا ولا للنار أن تُحرِقنا. لنشعر أنّنا حاملو هذه البشرى في وسط آلام الناس. هذا ما يعنيه أن نكون خدَّامًا للشعب: أن نكون كهنة وراهبات ومرسَلِين اختبروا فرح اللقاء المحرّر مع يسوع وقدّموه للآخرين. لنتذكّر هذا: الحياة الكهنوتيّة والحياة المكرّسة تصبح جافّة إذا عشناها من أجل ”خدمة أنفسنا“  بدلًا من ”خدمة“ الشّعب. الأمر ليس مسألة وظيفة لكسب المال أو للحصول على مركز اجتماعيّ، ولا حتّى لترتيب شؤون العائلة الأصليّة، بل هي رسالة لنكون علامات على حضور المسيح، ومحبّته غير المحدودة، ومغفرته التي يريد بها أن يصالحنا، ورحمته التي يريد بها أن نرعى ونهتمّ بالفقراء. لقد دُعينا إلى أن نقدّم حياتنا من أجل الإخوة والأخوات، وأن نحمل لهم يسوع، الوحيد الذي يشفي جراحات القلب.

لكي نعيش دعوتنا بهذه الطّريقة، أمامنا دائمًا تحديّات يجب مواجهتها وتجارب يجب التغلّب عليها. أودّ أن أتطرق بإيجاز إلى هذه التّجارب الثّلاث: الفتور الرّوحيّ، والرّاحة بحسب روح العالم، والسّطحيّة.

أوّلًا، التّغلّب على الفتور الرّوحيّ. كيف؟ عيد تقدّمة الرّبّ يسوع إلى الهيكل، الذي يُطلَق عليه في الشّرق المسيحي ”عيد اللقاء“، يذكّرنا بأولويّة حياتنا: اللقاء مع الرّبّ يسوع، خاصّة في الصّلاة الشّخصيّة، لأنّ العلاقة معه هي أساس عملنا وخدمتنا. لا ننسَ أنّ سرّ كلّ شيء هو الصّلاة، لأنّ الخدمة والرّسالة ليستا من عملنا في المقام الأوّل ولا تعتمدان فقط على الوسائل البشريّة. وستقولون لي: نَعَم، هذا صحيح، لكن الالتزامات والأمور المستعجلة الرّعويّة والصّعاب الرّسوليّة والتّعب توشك بألّا تترك لنا الوقت والطّاقة الكافيَين للصّلاة. لهذا أودّ أن أشارككم بعض النصائح: أوّلًا، لنحافظ على إيماننا بأوقات محددة للصّلاة الليتورجيّة في ساعات يومنا، القداس وصلوات السّاعات. والاحتفال الإفخارستيّ اليومي هو قلب الحياة الكهنوتيّة والرّهبانيّة النّابض. وليتورجيا السّاعات تسمح لنا بالصّلاة مع الكنيسة وبانتظام: لا نهمِلْها أبدًا! ولا نهمِلْ أيضًا سرّ الاعتراف بخطايانا: نحتاج دائمًا إلى أن يُغفر لنا لكي نكون قادرين على أن نغفر ونرحم. نصيحة أخرى: كما نعلَم، لا يمكننا أن نكتفي بتلاوة الصّلوات الطّقسيّة، لكن من الضّروريّ أن نخصّص وقتًا مكثفًا للصّلاة كلّ يوم، لنصلّي من القلب إلى القلب مع الله: في فترة سجود طويلة، والتّأمل في الكلمة، وصلاة المسبحة الورديّة، ولقاء حميم مع الذي نحبّه فوق كلّ شيء. وأيضًا عندما نكون في قلب النّشاط، يمكنّنا أن نلجأ إلى صلاة القلب، إلى ”الابتهالات القصيرة“ – إنّها كنز -، كلمات تسبيح وشكر ودعاء، وتكرارها أمام الرّبّ يسوع، أينما كنا. الصّلاة تبعدنا عن مركزيّة أنفسنا، وتفتح أنفسنا إلى الله، وتنهضنا، لأنّها تضعنا بين يديه. إنّها تخلق في داخلنا مساحة لنختبر قرب الله منّا، حتّى تصير كلمته مألوفة لنا، ومن خلالنا، لكلّ الذين نلتقي بهم. بدون الصّلاة لن نذهب بعيدًا. أخيرًا، من أجل التّغلّب على الفتور الرّوحيّ، لا نتعب أبدًا من الابتهال إلى سيّدتنا مريم العذراء، أمّنا، والتّعلّم منها بأن نتأمّل في يسوع ونتبعه.

التّحدّي الثّاني هو أن نتغلّب على تجربة الرّاحة بحسب روح العالم، الحياة المريحة التي فيها نرتّب كلّ أمورنا تقريبًا ونتقدّم ونحن بلا حراك، ونبحث عن راحتنا ونجرّ خُطانا من دون حماسة. ولكن، بهذه الطّريقة يضيع قلب الرّسالة النّابض، الذي هو أن نخرج من أراضي أنفسنا ونذهب نحو الإخوة والأخوات، لكي نمارس، باسم الله، فنّ التقرُّب. هناك خطر كبير مرتبط بالرّوح الدنيويّة، وخاصّة في سياق فقر ومعاناة: وهو الاستفادة من منصبنا لكي نلبّي احتياجاتنا ووسائل راحتنا. إنّه لأمر محزن أن ننطوي على أنفسنا ونصير باردين، لنمارس بيروقراطيّة الرّوح. حينئذٍ، بدل أن نخدم الإنجيل، نهتمّ بإدارة الأمور الماليّة ونقوم ببعض الأعمال المفيدة لنا. أيّها الإخوة والأخوات، هذه الأمور هي شكّ وحجر عثرة إن حدثت في حياة الكاهن أو الرّاهب، الذي يجب أن يكون، بدل ذلك، مثالًا للقناعة والحريّة الداخليّة. كم هو جميلٌ أن نبقى في صفاء الشّفافية في نوايانا ومتحرّرين من المساومات المالية، ونعانق بفرح الفقر الإنجيليّ ونعمل إلى جانب الفقراء! وكم هو جميلٌ أن نكون منيرين في عيش البتوليّة، علامةً على استعدادنا الكامل لخدمة ملكوت الله! ولكن، لا يحدث أن نجد مزروعة فينا وراسخة، تلك الرّذائل التي نودّ أن نستأصلها لدى الآخرين وفي المجتمع. من فضلكم، لنحذر من الرّاحة بحسب روح العالم.

أخيرًا، التّحدّي الثّالث هو التغلّب على تجربة السّطحيّة. إن كان شعب الله ينتظر أن تصل إليه كلمة الرّبّ يسوع ويجد فيها تعزيته، فنحن بحاجة إلى كهنة ورهبان مستعدّين، ومؤهلين، ومشغوفين بالإنجيل. وضع الله عطيّة بين أيدينا، ومن جانبنا، سيكون من الغرور أن نعتقد أنّه يمكننا أن نحمل الرّسالة التي دعانا الله إليها دون أن نطوِّر أنفسنا كلّ يوم، ودون أن نؤهِّل أنفسنا بشكل مناسب، في الحياة الروحيّة، وفي اللاهوت. لا يحتاج النّاس إلى ”موظّفين“ للمقدّسات أو إلى حاملي شهادات منفصلين عن الشّعب. مطلوب منّا أن ندخل في قلب السّرّ المسيحيّ، وأن نتعمّق في التّعاليم المسيحيّة، وأن ندرس كلمة الله ونتأمّل فيها، وفي الوقت نفسه، أن نبقى منفتحين على مخاوف زمننا، وعلى أكثر الأسئلة تعقيدًا في عصرنا، حتّى نستطيع أن نفهم حياة الأشخاص ومتطلباتهم، ولكي نفهم كيف نأخذهم بيدهم ونرافقهم. لذلك، تنشئة الإكليروس ليست أمرًا يمكن أو لا يمكن أن نهتمّ به. أقول هذا الكلام للإكليريكيّين، لكنّه ينطبق على الجميع: التّنشئة هي مسيرة يجب متابعتها دائمًا، وطوال الحياة. تدعى التّنشئة الدائمة: تنشئة دائمة وطوال الحياة.

هذه التحدّيات التي كلّمتكم عليها، علينا أن نواجهها إن أردنا أن نخدم الشّعب ونكون شهودًا لحبّ الله، لأنّ الخدمة لا تكون فعّالة إلّا مع الشّهادة. لا تنسوا هذه الكلمة: الشّهادة. في الواقع، بعد أن نطق الله بكلمات تعزية، قال على لسان أشعيا: "مَنِ الَّذي فيهم أَنبَأَ بِذلك وأَسمَعَنا بِالأَوائِل؟ أَنتُم شُهودي" (43، 9. 10). شهود. لكي تكونوا كهنة وشمامسة ومكرّسين ومكرّسات صالحين، لا تكفي الكلمات والنوايا: أوّل الكلام هو الحياة نفسها. أيّها الإخوة والأخوات الأعزّاء، أنظر إليكم وأشكر الله، لأنّكم علامات حضور يسوع الذي يمرّ على طرقات هذا البلد ويلمس حياة الناس، وجراح أجسادهم. ولكنّنا ما زلنا بحاجة إلى شباب يقولون له ”نَعَم“، ولكهنة ورهبان آخرين، يسمحون بأن يتألّق جماله في حياتهم.

في شهاداتكم، ذكَّرتموني كم هو صعبٌ عيش الرّسالة في أرض غنيّة بجمال طبيعيّ كثير وبالموارد، لكنْ يجرحها الاستغلال والفساد والعنف والظّلم. لكنّكم تكلّمتم أيضًا على مثل السّامري الرّحيم: يسوع هو الذي يمرّ على طرقاتنا، من خلال كنيسته خصوصًا، ويتوقّف ويهتمّ بجراح المظلومين. أيّها الأعزّاء، الخدمة التي إليها دُعيتم هي هذه: أن تكونوا قريبين وأن تقدّموا العزاء، مثل نورٍ مضيء دائمًا في وسط ظلام كثير. لنتعلّم ذلك من الرّبّ يسوع الذي هو قريب دائمًا. ولكي نكون إخوة وأخوات للجميع، كونوا كذلك أوّلًا في ما بينكم: شهودًا للأخوّة، لا للحرب إطلاقًا، وشهودًا للسّلام، وتعلّموا أن تتغلّبوا أيضًا على الجوانب الخاصّة للثّقافات والأصول العرقيّة، لأنّه، كما أكّد بنديكتس السّادس عشر مخاطبًا الكهنة الأفارقة، "شهادة حياتكم السّلميّة، التي تتجاوز الحدود القبليّة والعرقيّة، يمكن أن تمَسّ القلوب" (الإرشاد الرّسوليّ، Africae munus، 108).

يقول المثل: "لا تكسر الرّيح ما يعرف أن ينحني". ومع ذلك، فإنّ تاريخ شعوب كثيرة في هذه القارّة، للأسف، انحنت وابتُلِيَت كثيرًا بالجراح والعنف، ولذلك، إن كانت في النّفس رغبة بعد، فهي ألّا تنحني بعد، وألّا تكون مضطرة بعد لأن تخضع لغطرسة الأقوى، وألّا يجب عليها بعد أن تحني رؤوسها تحت نير الظّلم. لكن، يمكننا أن نستقبل كلمات المثل، بشكل أساسيّ، بمعنى إيجابيّ: هناك انحناء ليس مرادفًا للضعف بل للثبات، وهذا يعني أن نكون مَرِنِين، ونتغلّب على الجمود، ويعني أن ننمّي إنسانيّة طيِّعة، لا تنغلق في الكراهية والحقد. ويعني أن نكون مستعدّين لأن نتغيّر، دون أن نتشبّث بأفكارنا ومواقفنا الخاصّة. إن انحنينا أمام الله، بتواضع، هو سيجعلنا نصير مثله، صانعي رحمة. عندما نبقى طيِّعِين بين يدي الله، هو يصوغنا ويجعلنا أشخاصًا متصالحين، يعرفون أن ينفتحوا ويُحاوِروا، ويستقبلوا ويغفروا، ويوجِّهوا أنهار سلام إلى سهوب العنف القاحلة. وهكذا، عندما تهبّ رياح الصّراعات والانقسامات العنيفة، لا يمكنها أن تكسر هؤلاء الأشخاص، لأنّهم ممتلئون بمحبّة الله. كونوا أنتم أيضًا كذلك: طيِّعون لإله الرّحمة، ولا تكسركم أبدًا رياح الانقسامات.

أيّها الإخوة والأخوات، أشكركم من قلبي على ما أنتم وعلى ما تفعلون، وأشكركم على شهادتكم للكنيسة والعالم. لا تيأسوا، فنحن بحاجة إليكم! أنتم عزيزون ومهمّون: أقول هذا لكم باسم الكنيسة كلّها. أتمنّى لكم أن تكونوا دائمًا قنوات لتعزية الرّبّ يسوع وشهودًا فرحين للإنجيل، ونبوءة السّلام في دوّامات العنف، وتلاميذ المحبّة المستعدّين لمداواة جراح الفقراء والمتألّمين. أشكركم مجدّدًا على خدمتكم وعلى غَيرتكم الرّعويّة. أبارككم وأحملكم في قلبي. وأنتم، من فضلكم، لا تنسَوْا أن تصلّوا من أجلي! شكرًا.

[00166-AR.02] [Testo originale: Italiano]

[B0098-XX.02]