Santa Messa presso la Megaron Concert Hall di Atene
Omelia del Santo Padre
Saluto del Santo Padre
Questo pomeriggio, lasciata la Nunziatura Apostolica, il Santo Padre si è trasferito in auto alla Megaron Concert Hall di Atene dove, alle ore 16.45 (15.45 ora di Roma) ha presieduto la Santa Messa nella II Domenica di Avvento.
Nel corso della Celebrazione Eucaristica, dopo la proclamazione del Vangelo, il Papa ha pronunciato l’omelia.
Al termine della Santa Messa, S.E. Mons. Theodoros Kontidis, S.I., Arcivescovo di Atene, ha indirizzato un saluto e un ringraziamento al Santo Padre.
Prima della Benedizione finale, Papa Francesco ha rivolto ai fedeli e ai pellegrini presenti alcune parole di saluto. Prima di lasciare la Megaron Concert Hall, il Papa ha ricevuto dal Sindaco della Città un’alta onorificenza.
Al rientro nella Nunziatura Apostolica il Santo Padre ha incontrato nel salone della residenza l’Arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia, Sua Beatitudine Ieronymos II, con i rispettivi seguiti. Nel corso della visita di cortesia, iniziata alle ore 18.50 e conclusosi alle ore 19.20, prima di congedarsi, il Santo Padre e Sua Beatitudine hanno firmato il libro d’onore e si sono scambiati dei doni.
Pubblichiamo di seguito l’omelia e il saluto finale che il Santo Padre pronuncia nel corso della Santa Messa:
Omelia del Santo Padre
Testo in lingua italiana
Traduzione in lingua francese
Traduzione in lingua inglese
Traduzione in lingua tedesca
Traduzione in lingua spagnola
Traduzione in lingua portoghese
Traduzione in lingua polacca
Traduzione in lingua araba
Testo in lingua italiana
In questa seconda Domenica di Avvento la Parola di Dio ci presenta la figura di San Giovanni Battista. Il Vangelo ne sottolinea due aspetti: il luogo dove si trova, il deserto, e il contenuto del suo messaggio, la conversione. Deserto e conversione: su questo insiste il Vangelo di oggi e tanta insistenza ci fa capire che queste parole ci riguardano direttamente. Accogliamole entrambe.
Il deserto. L’evangelista Luca introduce questo luogo in un modo particolare. Parla infatti di circostanze solenni e di grandi personaggi del tempo: cita il quindicesimo anno dell’imperatore Tiberio Cesare, il governatore Ponzio Pilato, il re Erode e altri “leader politici” di allora; poi menziona quelli religiosi, Anna e Caifa, che stavano presso il Tempio di Gerusalemme (cfr Lc 3,1-2). A questo punto dichiara: «La parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto» (Lc 3,2). Ma come? Ci saremmo aspettati che la Parola di Dio si rivolgesse a uno dei grandi appena elencati. E invece no. Dalle righe del Vangelo emerge una sottile ironia: dai piani alti dove dimorano i detentori del potere si passa improvvisamente al deserto, a un uomo sconosciuto e solitario. Dio sorprende, le sue scelte sorprendono: non rientrano nelle previsioni umane, non seguono la potenza e la grandezza che l’uomo abitualmente gli associa. Il Signore predilige la piccolezza e l’umiltà. La redenzione non inizia a Gerusalemme, ad Atene o a Roma, ma nel deserto. Questa strategia paradossale ci dona un messaggio molto bello: avere autorità, essere colti e famosi non è una garanzia per piacere a Dio; anzi, potrebbe indurre a insuperbirsi e a respingerlo. Serve invece essere poveri dentro, come povero è il deserto.
Restiamo sul paradosso del deserto. Il Precursore prepara la venuta di Cristo in questo luogo impervio e inospitale, pieno di pericoli. Ora, se uno vuole dare un annuncio importante, di solito va in posti belli, dove c’è tanta gente, dove c’è visibilità. Giovanni invece predica nel deserto. Proprio lì, nel luogo dell’aridità, in quello spazio vuoto che si stende a perdita d’occhio e dove quasi non c’è vita, lì si rivela la gloria del Signore, che – come profetizzano le Scritture (cfr Is 40,3-4) – cambia il deserto in un lago, la terra arida in sorgenti d’acqua (cfr Is 41,18). Ecco un altro messaggio rincuorante: Dio, adesso come allora, volge lo sguardo dove dominano tristezza e solitudine. Possiamo sperimentarlo nella vita: Egli spesso non riesce a raggiungerci mentre siamo tra gli applausi e pensiamo solo a noi stessi; ci riesce soprattutto nelle ore della prova. Ci visita nelle situazioni difficili, nei nostri vuoti che gli lasciano spazio, nei nostri deserti esistenziali. Lì ci visita il Signore.
Cari fratelli e sorelle, nella vita di una persona o di un popolo non mancano momenti in cui si ha l’impressione di trovarsi in un deserto. Ed ecco che proprio lì si fa presente il Signore, il quale spesso non viene accolto da chi si sente riuscito, ma da chi sente di non farcela. E viene con parole di vicinanza, compassione e tenerezza: «Non temere, perché io sono con te; non smarrirti, perché io sono il tuo Dio. Ti rendo forte e ti vengo in aiuto» (v. 10). Predicando nel deserto, Giovanni ci assicura che il Signore viene a liberarci e a ridarci vita proprio nelle situazioni che sembrano irredimibili, senza vie d’uscita: lì viene. Non c’è dunque luogo che Dio non voglia visitare. E oggi non possiamo che provare gioia nel vederlo scegliere il deserto, per raggiungerci nella nostra piccolezza che ama e nella nostra aridità che vuole dissetare! Allora, carissimi, non temete la piccolezza, perché la questione non è essere piccoli e pochi, ma aprirsi a Dio e agli altri. E non temete nemmeno le aridità, perché non le teme Dio, che lì viene a visitarci!
Passiamo ora al secondo aspetto, la conversione. Il Battista la predicava senza sosta e con toni veementi (cfr Lc 3,7). Anche questa è una tematica “scomoda”. Come il deserto non è il primo luogo nel quale vorremmo andare, così l’invito alla conversione non è certamente la prima proposta che vorremmo sentire. Parlare di conversione può suscitare tristezza; ci sembra difficile da conciliare con il Vangelo della gioia. Ma questo succede quando la conversione viene ridotta a uno sforzo morale, quasi fosse solo un frutto del nostro impegno. Il problema sta proprio qui, nel basare tutto sulle nostre forze. Questo non va! Qui si annidano pure la tristezza spirituale e la frustrazione: vorremmo convertirci, essere migliori, superare i nostri difetti, cambiare, ma sentiamo di non esserne pienamente in grado e, nonostante la buona volontà, ricadiamo sempre. Proviamo la stessa esperienza di San Paolo che, proprio da queste terre, scriveva: «In me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7,18-19). Se dunque, da soli, non abbiamo la capacità di fare il bene che vorremmo, che cosa significa che dobbiamo convertirci?
Ci può venire in aiuto la vostra bella lingua, il greco, con l’etimologia del verbo evangelico “convertirsi”, metanoéin. È composto dalla preposizione metá, che qui significa oltre, e dal verbo noéin, che vuol dire pensare. Convertirsi è allora pensare oltre, cioè andare oltre il modo abituale di pensare, al di là dei nostri soliti schemi mentali. Penso proprio agli schemi che riducono tutto al nostro io, alla nostra pretesa di autosufficienza. O a quelli chiusi dalla rigidità e dalla paura che paralizzano, dalla tentazione del “si è sempre fatto così, perché cambiare?”, dall’idea che i deserti della vita siano luoghi di morte e non della presenza di Dio.
Esortandoci alla conversione, Giovanni ci invita ad andare oltre e a non fermarci qui; ad andare al di là di quello che i nostri istinti ci dicono e i nostri pensieri fotografano, perché la realtà è più grande: è più grande dei nostri istinti, dei nostri pensieri. La realtà è che Dio è più grande. Convertirsi, allora, significa non dare ascolto a ciò che affossa la speranza, a chi ripete che nella vita non cambierà mai nulla – i pessimisti di sempre. È rifiutare di credere che siamo destinati ad affondare nelle sabbie mobili della mediocrità. È non arrendersi ai fantasmi interiori, che si presentano soprattutto nei momenti di prova per scoraggiarci e dirci che non ce la faremo, che tutto va male e che diventare santi non fa per noi. Non è così, perché c’è Dio. Bisogna fidarsi di Lui, perché è Lui il nostro oltre, la nostra forza. Tutto cambia se si lascia a Lui il primo posto. Ecco la conversione: al Signore basta la nostra porta aperta per entrare e fare meraviglie, come gli sono bastati un deserto e le parole di Giovanni per venire nel mondo. Non chiede di più.
Chiediamo la grazia di credere che con Dio le cose cambiano, che Lui guarisce le nostre paure, risana le nostre ferite, trasforma i luoghi aridi in sorgenti d’acqua. Chiediamo la grazia della speranza. Perché è la speranza che rianima la fede e riaccende la carità. Perché è di speranza che i deserti del mondo sono assetati oggi. E mentre questo nostro incontro ci rinnova nella speranza e nella gioia di Gesù, e io gioisco stando con voi, chiediamo alla nostra Madre, la Tuttasanta, che ci aiuti a essere, come lei, testimoni di speranza, seminatori di gioia intorno a noi – la speranza, fratelli e sorelle, non delude, non delude mai –. Non solo quando siamo contenti e stiamo insieme, ma ogni giorno, nei deserti che abitiamo. Perché è lì che, con la grazia di Dio, la nostra vita è chiamata a convertirsi. Lì, nei tanti deserti nostri interni o dell’ambiente, lì la vita è chiamata a fiorire. Che il Signore ci dia la grazia e il coraggio di accogliere questa verità.
[01690-IT.02] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua francese
En ce deuxième Dimanche de l’Avent, la Parole de Dieu nous présente la figure de saint Jean-Baptiste. L’Évangile en souligne deux aspects: le lieu où il vit, le désert; et le contenu de son message: la conversion. Désert et conversion! C’est sur ces termes que l’Évangile d’aujourd’hui insiste et cette insistance veut nous faire comprendre qu’ils nous concernent directement. Accueillons-les tous les deux.
Le désert. L’évangéliste Luc évoque ce lieu d’une manière particulière. Il parle, en effet, de circonstances solennelles et de grands personnages de l’époque : la quinzième année de l’empereur Tibère César, le gouverneur Ponce Pilate, le roi Hérode et d’autres “leaders politiques”. Puis il mentionne les religieux, Anne et Caïphe qui étaient au Temple de Jérusalem (cf. Lc 3, 1-2). C’est alors qu’il déclare : « La parole de Dieu fut adressée dans le désert à Jean, le fils de Zacharie » (Lc 3, 2). Mais comment ? Nous nous attendions à ce que la Parole de Dieu s’adresse à l’un des grands que nous venons de citer. Et bien, non! Ces lignes de l’Évangileexpriment une subtile ironie: des hautes sphères où vivent les détenteurs du pouvoir, on passe tout à coup au désert, à un homme inconnu et solitaire. Dieu surprend. Ses choix surprennent: ils n’entrent pas dans les prévisions humaines, ils ne dépendent pas de la puissance ni de la grandeur que l’homme leur associe habituellement. Le Seigneur préfère la petitesse et l’humilité. La rédemption ne commence pas à Jérusalem, à Athènes ni à Rome, mais dans le désert. Cette stratégie paradoxale nous délivre un très beaumessage : avoir autorité, être cultivé et célèbre n’est pas une garantie pour plaire à Dieu, mais cela peut au contraire conduire à s’enorgueillir et à le rejeter. Mieux vaut être pauvre intérieurement, comme le désert est pauvre.
Restons sur le paradoxe du désert. Le Précurseur prépare la venue du Christ en ce lieu inaccessible et inhospitalier, rempli de dangers. De nos jours, si quelqu’un veut faire une annonce importante, il se rend habituellement dans les beaux lieux, là où il y a du monde, où il y a de la visibilité. Jean prêche au contraire dans le désert.C’est précisément, en ce lieu aride, dans cet espace vide qui s’étend à perte de vue et où l’on ne trouve pratiquement pas de vie, c’est là que se révèle la gloire du Seigneur qui - comme le prophétisent les Écritures (Is 40, 3-4) - change le désert en lac, la terre aride en fontaines (cf. Is 41, 18).Voici donc un autre message réconfortant: Dieu, aujourd’hui comme hier, porte son regard là où dominent la tristesse et la solitude.Nous en faisons l’expérience dans nos vies: rarement il nous rejoint sous les applaudissements, lorsque nous ne pensons qu’à nous-mêmes. Il nous rejoint surtout dans les moments d’épreuve.Il nous visite dans les situations difficiles, dans nos vides qui lui ouvrent de l’espace, dans nos déserts existentiels. C’est là que le Seigneur nous visite.
Chers frères et sœurs, dans la vie d’une personne ou d’un peuple, nombreux sont les moments où l’on a l’impression de se trouver dans un désert. Et c’est précisément là que se manifeste le Seigneur, qui n’est pas accueilli par ceux qui pensent avoir réussi mais par ceux qui n’en peuvent plus. Et il vient avec des paroles de proximité, de compassion et de tendresse: “Ne crains pas: je suis avec toi; ne t’inquiète pas: je suis ton Dieu. Je te rends fort ; je viens à ton aide” (v. 10).En prêchant dans le désert, Jean nous assure que le Seigneur vient nous libérer et nous redonner vie, précisément dans les situations qui semblent irrémédiables et sans issue. Il vient là.Il n’y a pas de lieu que Dieu ne veuille visiter.Et aujourd’hui nous ne pouvons que nous réjouir de le voir choisir le désert pour nous rejoindre dans notre petitesse, qu’il aime, et dans notre aridité, qu’il veut désaltérer !Alors, chers amis, ne craignez pas la petitesse, car la question n’est pas d’être petits et peu nombreux, mais de s’ouvrir à Dieu et aux autres.Et ne craignez pas les aridités, car Dieu ne les craint pas non plus, c’est là qu’il nous rejoint !
Passons au second aspect, la conversion. Le Baptiste la prêchait sans relâche et avec véhémence (Lc 3, 7). C’est également un thème “inconfortable”. De même que le désert n’est pas le premier lieu où nous voudrions aller, de même l’invitation à la conversion n’est pas la première suggestion que nous voudrions entendre.Parler de conversion peut susciter de la tristesse ;il semble difficile de la concilier avec l’Évangile de la joie.Mais c’est parce que l’on réduit la conversion à un effort moral, comme si elle n’était que le fruit de notre effort personnel. C’est justement là le problème, le fait de compter sur nos propres forces. Cela ne va pas.C’est là aussi que se nichent tristesse spirituelle et frustrations. Nous voudrions nous convertir, devenir meilleurs, surmonter nos défauts, changer, mais nous sentons que nous n’en sommes pas vraiment capables et, malgré notre bonne volonté, nous retombons toujours.Nous faisons la même expérience que saint Paul qui, précisément sur ces terres, écrivait: «Ce qui est à ma portée, c’est de vouloir le bien, mais pas de l’accomplir. Je ne fais pas le bien que je voudrais, mais je commets le mal que je ne voudrais pas» (Rm 7, 18-19). Par conséquent, si nous n’avons pas, par nous-mêmes, la capacité de faire le bien que nous voudrions, en quoi consiste alors la conversion ?
Votre belle langue, le grec, peut nous aider grâce à l’étymologie du verbe “se convertir”, métanoéin, qui se trouve dans l’Évangile.Il est composé de la préposition metà, qui signifie ici au-delà, et du verbe noéin, qui signifie penser.Se convertir, c’est penser au-delà, c’est aller au-delà de notre façon habituelle de penser, au-delà de nos schémas mentaux habituels.Je pense aux schémas qui réduisent tout à notre moi, à notre prétention d’autosuffisance.Ou encore aux schémas fermés par la rigidité et la peur qui paralysent, par la tentation du “on a toujours fait ainsi, pourquoi changer”, par l’idée que les déserts de la vie sont des lieux de mort et non de la présence de Dieu.
En nous exhortant à la conversion, Jean nous invite à aller au-delà et à ne pas nous arrêter en route; à aller au-delà de ce que nous disent nos instincts et de ce que nos pensées photographient, car la réalité est plus grande: plus grande que nos instincts, que nos pensées. La réalité, c’est que Dieu est plus grand. Se convertir, c’est ne pas écouter ce qui détruit l’espérance, ne pas écouter ceux qui répètent que rien ne changera jamais dans la vie – les pessimistes de toujours. C’est refuser de croire que nous sommes destinés à sombrer dans les sables mouvants de la médiocrité. C’est ne pas s’abandonner aux fantômes intérieurs qui se présentent surtout dans les moments d’épreuve, pour nous décourager et nous dire que nous n’y arriverons pas, que tout va mal et que devenir saints n’est pas fait pour nous.Il n’en est pas ainsi, parce que Dieu est là.Il faut lui faire confiance, parce c’est lui notre au-delà, notre force.Tout change si on lui laisse la première place.Voilà la conversion: il suffit que notre porte soit ouverte au Seigneur pour qu’il entre et fasse des merveilles, comme un désert et les paroles de Jean lui ont suffi pour venir dans le monde. Il ne demande rien de plus.
Demandons la grâce de croire qu’avec Dieu les choses changent, qu’il guérit nos peurs, guérit nos blessures, transforme les lieux arides en fontaines.Demandons la grâce de l’espérance.Car c’est l’espérance qui ranime la foi et ravive la charité. C’est d’espérance que les déserts du monde sont aujourd’hui assoiffés.Alors que notre rencontre nous renouvelle dans l’espérance et la joie de Jésus, je me réjouis d’être avec vous. Demandons à notre Mère, la Toute Sainte, de nous aider à être, comme elle, des témoins d’espérance, des semeurs de joie autour de nous. L’espérance, frères et sœurs, ne déçoit pas, elle ne déçoit jamais.Non seulement lorsque nous sommes heureux et ensemble, mais chaque jour, dans les déserts que nous vivons.Parce que c’est là que, avec la grâce de Dieu, notre vie est appelée à la conversion. Là, dans nos déserts intérieurs ou qui nous entourent, là, la vie est appelée à fleurir. Que le Seigneur nous donne la grâce et le courage d’accueillir cette vérité.
[01690-FR.02] [Texte original: Italien]
Traduzione in lingua inglese
On this second Sunday of Advent, the word of God sets before us the figure of Saint John the Baptist. The Gospel highlights two important things: the place where John appears, which is the desert, and the content of his message, which is conversion. Desert and conversion. Today’s Gospel emphasizes these two words in such a way as to make us realize that they both concern us directly. Let us consider each of them closely.
The desert. The evangelist Luke introduces the scene in a particular way. He speaks of the solemn circumstances and the great men of that time, mentioning the fifteenth year of the Emperor Tiberius, the governor Pontius Pilate, King Herod and other contemporary political leaders. He then refers to the religious leaders, Annas and Caiaphas, who were serving in the Temple of Jerusalem (cf. Lk 3:1-2). At this point, Luke tells us: “The word of God came to John the son of Zechariah in the wilderness” (3:2). But how did that word come? We might have expected God’s word to be spoken to one of the distinguished personages just mentioned. Instead, a subtle irony emerges between the lines of the Gospel: from the upper echelons of the powerful, suddenly we shift to the desert, to an unknown, solitary man. God surprises us. His ways surprise us, for they differ from our human expectations; they do not reflect the power and grandeur that we associate with him. Indeed, the Lord likes best what is small and lowly. Redemption did not begin in Jerusalem, Athens or Rome, but in the desert. This paradoxical approach tells us something beautiful: that being powerful, well-educated or famous is no guarantee of pleasing God, for those things could actually lead to pride and to rejecting him. Instead, we need to be interiorly poor, even as the desert is poor.
Let us think more deeply about the paradox of the desert. John the Baptist – the Precursor – prepares the coming of Christ in this inaccessible, inhospitable and dangerous place. Usually, those who wish to make an important announcement go to impressive places, where they can be readily seen and address great crowds. John, on the other hand, preaches in the desert. Precisely there, in an arid, empty waste, stretching as far as the eye can see, the glory of the Lord was revealed. As the Scriptures prophesied (cf. Is 40:3-4), God changes the desert into a sea, parched ground into springs of water (cf. Is 41:18). Here is yet another heartening message: then as now, God turns his gaze to wherever sadness and loneliness abound. We can experience this in our own lives: as long as we bask in success or think only of ourselves, the Lord is often unable to reach us; but especially in times of trial, he does. He comes to us in difficult situations; he fills our inner emptiness that makes room for him; he visits our existential deserts. The Lord visits us there.
Dear brothers and sisters, in our lives as individuals or nations, there will always be times when we feel that we are in the midst of a desert. Yet it is precisely there that the Lord makes his presence felt. Indeed, he is often welcomed not by the self-satisfied, but by those who feel helpless or inadequate. And he comes with words of closeness, compassion and tenderness: “Do not fear, for I am with you, do not be afraid, for I am your God; I will strengthen you, I will help you” (Is 41:10). By preaching in the desert, John assures us that the Lord comes to set us free and to revive us in situations that seem irredeemable, hopeless, with no way out; he comes there. There is no place that God will not visit. Today we rejoice to see him choose the desert, to see him reach out with love to our littleness and to refresh our arid spirits. So, dear friends, do not fear littleness, since it is not about being small and few in number, but about being open to God and to others. And do not fear situations of dryness, because God is never afraid to visit us there!
Let us move on to the second word, which is conversion. The Baptist preached this insistently and forcefully (cf. Lk 3:7). This word too can be “uncomfortable”, for just as the desert is not the first place we would consider going to, so the summons to conversion is certainly not the first word we would like to hear. Talk of conversion can depress us; it can seem hard to reconcile with the Gospel of joy. Yet that is only the case if we think of conversion simply in terms of our own striving for moral perfection, as if that were something we could achieve as the result of our own effort. Therein lies the problem: we think everything is up to us. This is not good, for it leads to spiritual sadness and frustration. For we want to be converted, to become better, to overcome our faults and to change, but we realize that we are not fully capable of this, and, for all our good intentions, we constantly stumble and fall. We have the same experience as Saint Paul, who in these very lands wrote: “I can will what is right, but I cannot do it. For I do not do the good I want, but the evil I do not want is what I do” (Rom 7:18-19). If by ourselves, then, we are unable to do the good we would like, what does it mean for us to be converted?
Here your beautiful Greek language can help us by reminding us of the etymology of the verb “to convert”, metanoeίn, used in the Gospel. Composed of the preposition metá, which here means “beyond”, and the verb noéin, “to think”, it tells us that to convert is to “think beyond”, to go beyond our usual ways of thinking, beyond our habitual worldview. All those ways of thinking that reduce everything to ourselves, to our belief in our own self-sufficiency. Or those self-centred ways of thinking marked by rigidity and paralyzing fear, by the temptation to say “we have always done it this way, why change?”, by the idea that the deserts of life are places of death rather than places of God’s presence.
By calling us to conversion, John urges us to go “beyond” where we presently are; to go beyond what our instincts tell us and our thoughts register, for reality is much greater than that. It is much greater than our instincts or thoughts. The reality is that God is greater. To be converted, then, means not listening to the things that stifle hope, to those who keep telling us that nothing ever changes in life, the pessimists of all time. It means refusing to believe that we are destined to sink into the mire of mediocrity. It means not surrendering to our inner fears, which surface especially at times of trial in order to discourage us and tell us that we will not make it, that everything has gone wrong and that becoming saints is not for us. That is not the case, because God is always present. We have to trust him, for he is our beyond, our strength. Everything changes when we give first place to the Lord. That is what conversion is! As far as Christ is concerned, we need only open the door and let him enter in and work his wonders. Just as the desert and the preaching of John were all it took for Christ to come into the world. The Lord asks for nothing more.
Let us ask for the grace to believe that with God things really do change, that he will banish our fears, heal our wounds, turn our arid places into springs of water. Let us ask for the grace of hope, since hope revives our faith and rekindles our charity. It is for this hope that the deserts of today’s world are thirsting.
As our being together here renews us in the hope and joy of Jesus, and I rejoice in being in your midst, let us now ask Holy Mary our Mother to help us become, like her, witnesses of hope and sowers of joy all around us, for hope, dear brothers and sisters, never disappoints. Not only now, when we are all happy to be together, but every day, in whatever deserts we may dwell, for it is there, by God’s grace, that our life is called to be converted. There, in the multiplicity of existential or environmental deserts, there life is called to flourish. May the Lord give us the grace and courage to accept this truth.
[01689-EN.02] [Original text: Italian]
Traduzione in lingua tedesca
An diesem zweiten Adventssonntag stellt uns das Wort Gottes die Gestalt des heiligen Johannes des Täufers vor Augen. Das Evangelium hebt dabei zwei Aspekte hervor: den Ort, an dem er sich aufhält, die Wüste, und den Inhalt seiner Botschaft, die Umkehr. Wüste und Umkehr: das ist es, worauf das heutige Evangelium besteht, und dieses Beharren lässt uns erkennen, dass diese Worte uns direkt angehen. Nehmen wir sie beide in uns auf.
Die Wüste. Der Evangelist Lukas stellt diesen Ort auf eine eigentümliche Weise vor. Er spricht von besonderen Umständen und großen Persönlichkeiten der damaligen Zeit: Er erwähnt das fünfzehnte Regierungsjahr des Kaisers Tiberius, den Statthalter Pontius Pilatus, König Herodes und andere „politische Persönlichkeiten“ der damaligen Zeit; dann erwähnt er die religiösen Führer, Hannas und Kajaphas, die Hohepriester am Tempel von Jerusalem waren (vgl. Lk 3,1-2). An dieser Stelle erklärt er: »Da erging in der Wüste das Wort Gottes an Johannes, den Sohn des Zacharias« (Lk 3,2). Was hat das zu bedeuten? Wir hätten erwartet, dass das Wort Gottes an einen der eben genannten großen Männer ergeht. Aber nein. Aus den Zeilen des Evangeliums spricht eine subtile Ironie: Von den oberen Etagen, in denen die Machthaber wohnen, geht es plötzlich in die Wüste, zu einem unbekannten und einsamen Mann. Gott ist überraschend, seine Entscheidungen sind überraschend: Sie entsprechen nicht den menschlichen Vorstellungen, sie folgen nicht der Macht und Größe, die der Mensch gewöhnlich mit ihm verbindet. Der Herr mag es lieber klein und demütig. Die Erlösung nimmt nicht in Jerusalem, Athen oder Rom ihren Anfang, sondern in der Wüste. Diese paradoxe Strategie enthält eine sehr schöne Botschaft für uns: Autorität zu haben, gebildet und berühmt zu sein, ist keine Garantie dafür, Gott zu gefallen. Im Gegenteil, dies könnte zu Überheblichkeit und zur Ablehnung Gottes führen. Es ist hingegen von Vorteil, wenn man innerlich arm ist, arm wie die Wüste.
Bleiben wir bei dem Paradoxon der Wüste. Der Vorläufer bereitet das Kommen Christi an diesem unzugänglichen und unwirtlichen Ort voller Gefahren vor. Wenn man eine wichtige Ankündigung machen will, geht man normalerweise an schöne Orte, wo viele Menschen sind, wo man gesehen wird. Johannes hingegen predigt in der Wüste. Genau dort, an diesem unwirtlichen Ort, in diesem leeren Raum, so weit das Auge reicht, wo es fast kein Leben gibt, offenbart sich die Herrlichkeit des Herrn, der – wie die Heilige Schrift prophezeit (vgl. Jes 40,3-4) – die Wüste in einen Wasserteich und das karge Land in sprudelnde Quellen verwandelt (vgl. Jes 41,18). Auch das ist eine ermutigende Botschaft: Gott wendet seinen Blick damals wie heute dorthin, wo Traurigkeit und Einsamkeit herrschen. Das können wir im Leben erfahren: Oft erreicht er uns nicht, wenn wir von überall Beifall bekommen und nur an uns selbst denken; es gelingt ihm besonders in den Stunden der Prüfung. Er besucht uns in schwierigen Situationen, in unserer inneren Leere, die ihm Platz lässt, in unseren existenziellen Wüsten. Dort besucht uns der Herr.
Liebe Brüder und Schwestern, im Leben eines Menschen oder eines Volkes gibt es immer wieder Momente, in denen man den Eindruck hat, in einer Wüste zu sein. Und gerade dort schenkt der Herr seine Gegenwart. Oft findet er keine Aufnahme bei denen, die sich für erfolgreich halten, sondern bei denen, die meinen, sie seien unfähig. Und er kommt mit Worten der Nähe, des Mitgefühls und der Zärtlichkeit: »Fürchte dich nicht, denn ich bin mit dir; hab keine Angst, denn ich bin dein Gott! Ich habe dich stark gemacht, ja ich habe dir geholfen« (V. 10). Durch seine Predigt in der Wüste versichert uns Johannes, dass der Herr kommt, um uns zu befreien und uns gerade in Situationen, die ausweglos erscheinen, wieder Leben zu schenken: Dorthin kommt er. Es gibt also keinen Ort, den Gott nicht besuchen möchte. Und heute können wir nur Freude darüber empfinden, dass er die Wüste gewählt hat, um uns in unserer Schwachheit zu erreichen, die er liebt, und in unserer Trockenheit, um unseren Durst zu stillen! Also, liebe Freunde, habt keine Angst vor der Kleinheit. Es ist nicht von Bedeutung, ob wir klein und gering an der Zahl sind, es geht vielmehr darum, sich Gott und den anderen gegenüber zu öffnen. Und fürchtet euch auch nicht vor der Trockenheit, denn Gott hat keine Angst davor und er kommt uns gerade dort besuchen!
Kommen wir zum zweiten Aspekt, zur Umkehr. Der Täufer predigte unablässig und mit Nachdruck darüber (vgl. Lk 3,7). Auch dies ist ein „unbequemes“ Thema. So wie die Wüste nicht der erste Ort ist, an den wir gehen möchten, so ist auch die Einladung zur Umkehr nicht der erste Vorschlag, den wir hören möchten. Über Umkehr zu sprechen, kann Traurigkeit hervorrufen; es scheint schwierig, sie mit dem Evangelium der Freude in Einklang zu bringen. Das ist der Fall, wenn die Bekehrung auf eine sittliche Anstrengung reduziert wird, so als ob sie nur eine Frucht unserer eigenen Bemühungen wäre. Das Problem liegt genau darin, dass wir nur auf unsere eigenen Kräfte bauen. Das geht nicht! Hier nisten sich auch geistige Traurigkeit und Frustration ein: Wir würden gerne umkehren, besser sein, unsere Unzulänglichkeiten überwinden, uns verändern, aber wir spüren, dass wir dazu nicht ganz in der Lage sind, und trotz unseres guten Willens fallen wir immer wieder. Wir machen dieselbe Erfahrung wie der heilige Paulus, der aus diesem Land hier schrieb: »Das Wollen ist bei mir vorhanden, aber ich vermag das Gute nicht zu verwirklichen. Denn ich tue nicht das Gute, das ich will, sondern das Böse, das ich nicht will, das vollbringe ich« (Röm 7,18-19). Wenn wir also aus eigener Kraft nicht in der Lage sind, das Gute zu tun, das wir wünschen, was bedeutet es dann, dass wir umkehren müssen?
Eure schöne Sprache, das Griechische, kann uns mit der Etymologie des biblischen Verbs „sich bekehren“, metanoéin, helfen. Es setzt sich zusammen aus der Präposition metá, die hier jenseits bedeutet, und dem Verb noéin, das denken bedeutet. Sich bekehren heißt also, darüber hinaus zu denken, das heißt, über die gewohnte Denkweise, über unsere üblichen Denkschemata hinauszugehen. Ich denke dabei genau an die Schemata, die alles auf unser Ego, auf unseren Anspruch der Selbstgenügsamkeit reduzieren. Oder an jene, die von lähmender Starrheit und Angst eingeschlossen sind, von der die Versuchung des „Das war schon immer so, warum also etwas ändern?“, von der Vorstellung, dass die Wüsten des Lebens Orte des Todes und nicht der Gegenwart Gottes sind.
Indem er uns zur Umkehr aufruft, lädt Johannes uns ein, weiter zu gehen und nicht hier stehen zu bleiben; über das hinauszugehen, was unsere Instinkte uns sagen und unsere Gedanken abbilden, denn die Wirklichkeit ist größer. Sie ist größer als unsere Instinkte, als unsere Gedanken. Die Realität ist, dass Gott größer ist. Umkehr bedeutet also, nicht auf das zu hören, was die Hoffnung zerstört, auf die Stimmen, die sagen, dass sich nichts im Leben jemals ändern wird – die ewigen Pessimisten. Es geht darum, sich nicht einreden zu lassen, dass wir dazu bestimmt sind, im Treibsand der Mittelmäßigkeit zu versinken. Es bedeutet, jenen inneren Gespinsten nicht nachzugeben, die besonders in Zeiten der Prüfung auftauchen, um uns zu entmutigen und uns zu sagen, dass wir es nicht schaffen werden, dass alles schiefläuft und dass es nichts für uns ist, ein Heiliger zu werden. Das ist nicht so, denn es gibt Gott. Es ist notwendig, ihm zu vertrauen, denn er ist unser Darüber hinaus, unsere Stärke. Alles ändert sich, wenn wir ihm den ersten Platz einräumen. Das ist Umkehr: Dem Herrn genügt unsere offene Tür, um einzutreten und Wunder zu wirken, so wie ihm eine Wüste und die Worte des Johannes genügten, um in die Welt zu kommen. Mehr verlangt er nicht.
Bitten wir um die Gnade zu glauben, dass sich mit Gott die Dinge ändern, dass er uns von unseren Ängsten befreit, unsere Wunden heilt und trockene Orte in Wasserquellen verwandelt. Bitten wir um die Gnade der Hoffnung. Denn es ist die Hoffnung, die den Glauben wiederbelebt und die Liebe neu entfacht. Denn es ist die Hoffnung, nach der die Wüsten der Welt heute dürsten. Und jetzt, wo diese unsere Begegnung uns in der Hoffnung und der Freude Jesu erneuert und ich mich freue, mit euch zusammen zu sein, wollen wir unsere Mutter, die Allselige, bitten, dass sie uns hilft, so wie sie, Zeugen der Hoffnung zu sein, Menschen, die Freude in ihrer Umgebung aussäen. Die Hoffnung, liebe Brüder und Schwestern, enttäuscht nicht, sie enttäuscht nie. Nicht nur, wenn wir zufrieden und mit anderen zusammen sind, sondern jeden Tag, in den Wüsten, die wir bewohnen. Denn gerade dort soll unser Leben mit der Gnade Gottes Umkehr erfahren. Dort, in den vielen Wüsten in uns und in unserer Umfeld, dort soll das Leben erblühen. Der Herr gebe uns die Gnade und den Mut diese Wahrheit anzunehmen.
[01689-DE.02] [Originalsprache: Italien]
Traduzione in lingua spagnola
En este segundo domingo de adviento la Palabra de Dios nos presenta la figura de san Juan Bautista. El Evangelio subraya dos aspectos: el lugar donde se encuentra —el desierto— y el contenido de su mensaje —la conversión—. Desierto y conversión: en esto insiste el Evangelio de hoy; y tanta insistencia nos hace pensar que estas palabras nos afectan directamente. Contemplemos ambas.
El desierto. El evangelista Lucas introduce este lugar de un modo particular. Habla, en efecto, de circunstancias solemnes y de grandes personajes del tiempo: cita el año quince del emperador Tiberio, señala al gobernador Poncio Pilato, al rey Herodes y a otros “líderes políticos” de entonces. Después menciona a los religiosos, Anás y Caifás, que estaban en el Templo de Jerusalén (cf. Lc 3,1-2). A este respecto declara: «La palabra de Dios fue dirigida a Juan, el hijo de Zacarías, que estaba en el desierto» (Lc 3,2). Pero, ¿cómo? Hubiéramos esperado que la Palabra de Dios se dirigiera a uno de los grandes mencionados anteriormente. Y, en cambio, no. De las líneas del Evangelio emerge una sutil ironía: de los pisos superiores donde residen los que detentan el poder se pasa repentinamente al desierto, a un hombre desconocido y solitario. Dios sorprende, sus decisiones sorprenden; estas no entran en las previsiones humanas, no persiguen el poder y la grandeza con los que el hombre habitualmente lo asocia. El Señor prefiere la pequeñez y la humildad. La redención no comienza en Jerusalén, en Atenas o en Roma, sino en el desierto. Esta estrategia paradójica nos da un mensaje muy hermoso: tener autoridad, ser cultos y famosos no es una garantía para agradar a Dios; al contrario, podría conducir a ensoberbecerse y a rechazarlo. Es necesario en cambio ser pobres por dentro, como pobre es el desierto.
Quedémonos en la paradoja del desierto. El Precursor prepara la venida de Cristo en este lugar inaccesible e inhóspito, lleno de peligros. Ahora bien, si uno quiere dar un anuncio importante, normalmente va a lugares bonitos, donde hay mucha gente, donde hay visibilidad. Juan, en cambio, predicaba en el desierto. Precisamente allí, en el lugar de la aridez, en ese espacio vacío que se extiende hasta el horizonte y donde casi no hay vida, allí se revela la gloria del Señor, que —como profetizan las Escrituras (cf. Is 40,3-4)— cambia el desierto en lagunas, la tierra estéril en fuentes de agua (cf. Is 41,18). Este es otro mensaje reconfortante: Dios, hoy como entonces, dirige la mirada hacia donde dominan la tristeza y la soledad. Podemos experimentarlo en la vida, Él a menudo no logra llegar hasta nosotros mientras estamos en medio de los aplausos y sólo pensamos en nosotros mismos; llega hasta nosotros sobre todo en la hora de la prueba; nos visita en las situaciones difíciles, en nuestros vacíos que le dejan espacio, en nuestros desiertos existenciales. Allí nos visita el Señor.
Queridos hermanos y hermanas, en la vida de una persona o de un pueblo no faltan momentos en los que se tiene la impresión de hallarse en un desierto. Y es precisamente allí donde se hace presente el Señor, que a menudo no es acogido por quien se siente exitoso, sino por quien siente que ya no puede seguir. Y llega con palabras de cercanía, compasión y ternura: «No temas, porque yo estoy contigo. No te angusties, porque yo soy tu Dios. Yo te fortalezco y te auxilio» (v. 10). Predicando en el desierto, Juan nos asegura que el Señor viene a liberarnos y a devolvernos la vida justo en las situaciones que parecen irremediables, sin vía de escape: allí viene. No hay por tanto lugar que Dios no quiera visitar. Y hoy no podemos más que experimentar alegría al verlo en el desierto para alcanzarnos en nuestra pequeñez que ama y en nuestra sequedad que quiere saciar. Entonces, queridos amigos, no teman a la pequeñez, porque la cuestión no es ser pequeños o pocos, sino abrirse a Dios y a los demás. Y tampoco tengan miedo de la aridez, porque Dios no la teme, y es allí donde viene a visitarnos.
Pasemos ahora al segundo aspecto, la conversión. El Bautista la predicaba sin descanso y con vehemencia (cf. Lc 3,7). También este es un tema “incómodo”. Así como el desierto no es el primer lugar al que quisiéramos ir, la invitación a la conversión no es ciertamente la primera propuesta que quisiéramos oír. Hablar de conversión puede suscitar tristeza; nos parece difícil de conciliar con el Evangelio de la alegría. Pero esto sucede cuando la conversión se reduce a un esfuerzo moral, como si fuera sólo un fruto de nuestro esfuerzo. El problema está justamente ahí: en basar todo en nuestras propias fuerzas; eso no funciona. Ahí también anidan la tristeza espiritual y la frustración. Quisiéramos convertirnos, ser mejores, superar nuestros defectos, cambiar, pero sentimos que no somos plenamente capaces y, a pesar de nuestra buena voluntad, siempre volvemos a caer. Tenemos la misma experiencia de san Pablo que, precisamente desde estas tierras, escribía: «Está a mi alcance querer el bien, pero no el realizarlo, ya que no hago el bien que quiero y, en cambio, practico el mal que no quiero» (Rm 7,18-19). Por tanto, si solos no tenemos la capacidad de hacer el bien que queremos, ¿qué quiere decir que nos debemos convertir?
Nos puede ayudar su hermosa lengua, el griego, con la etimología del verbo evangélico “convertirse”, metanoéin. Está compuesto por la preposición metá, que aquí significa más allá, y del verbo noéin, que quiere decir pensar. Convertirse, entonces, es pensar más allá, es decir, ir más allá del modo habitual de pensar, más allá de los esquemas mentales a los que estamos acostumbrados. Pienso en los esquemas que reducen todo a nuestro yo, a nuestra pretensión de autosuficiencia. O en esos esquemas cerrados por la rigidez y el miedo que paralizan, por la tentación del “siempre se ha hecho así, ¿para qué cambiar?”, por la idea de que los desiertos de la vida son lugares de muerte y no de la presencia de Dios.
Juan, exhortándonos a la conversión, nos invita a ir más allá y a no detenernos aquí, a ir más allá de lo que nos dicen nuestros instintos y nos representan nuestros pensamientos, porque la realidad es más grande, más grande que nuestros instintos y que nuestros pensamientos. La realidad es que Dios es más grande. Convertirse, entonces, significa no prestar oído a aquello que corroe la esperanza, a quien repite que en la vida nunca cambiará nada —los pesimistas de siempre—; es rechazar el creer que estamos destinados a hundirnos en las arenas movedizas de la mediocridad; es no rendirse a los fantasmas interiores, que se presentan sobre todo en los momentos de prueba para desalentarnos y decirnos que no podemos, que todo está mal y que ser santos no es para nosotros. No es así, porqué está Dios. Es necesario fiarse de Él, porque Él es nuestro más allá, nuestra fuerza. Todo cambia si se le deja el primer lugar a Él. Eso es la conversión: al Señor le basta que dejemos nuestra puerta abierta para entrar y hacer maravillas, como le bastaron un desierto y las palabras de Juan para venir al mundo. No pide más.
Pidamos la gracia de creer que con Dios las cosas cambian, que Él cura nuestros miedos, sana nuestras heridas, transforma los lugares áridos en manantiales de agua. Pidamos la gracia de la esperanza. Porque la esperanza reanima la fe y reaviva la caridad. Porque los desiertos del mundo hoy están sedientos de esperanza. Y mientras este encuentro nos renueva en la esperanza y en la alegría de Jesús, y yo gozo estando con ustedes, pidamos a nuestra Madre Santísima que nos ayude a ser, como ella, testigos de esperanza, sembradores de alegría a nuestro alrededor —la esperanza, hermanos y hermanas, no defrauda, nunca defrauda—, no sólo cuando estamos contentos y estamos juntos, sino cada día, en los desiertos donde vivimos. Porque es allí que, con la gracia de Dios, nuestra vida está llamada a convertirse. Allí, en los numerosos desiertos que tenemos dentro o que nos rodean, allí la vida está llamada a florecer. Que el Señor nos conceda la gracia y la valentía de acoger esta verdad.
[01690-ES.02] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua portoghese
Neste II domingo do Advento, a Palavra de Deus apresenta-nos a figura de São João Baptista. O Evangelho sublinha dois aspetos: o lugar onde se encontra – o deserto – e o conteúdo da sua mensagem – a conversão. Deserto e conversão: o Evangelho de hoje insiste nisto, e com uma insistência tal que nos faz compreender que estas palavras nos dizem respeito diretamente. Acolhamo-las ambas.
O deserto. O evangelista Lucas apresenta este lugar duma maneira particular. Com efeito fala de circunstâncias solenes e de grandes personagens da época: refere o décimo quinto ano do imperador Tibério César, o governador Pôncio Pilatos, o rei Herodes e outros «líderes políticos» de então; depois menciona os chefes religiosos, Anás e Caifás, que estavam no Templo de Jerusalém (cf. Lc 3, 1-2). Neste ponto, declara: «a palavra de Deus foi dirigida a João, filho de Zacarias, no deserto» (Lc 3, 2). Como é possível? Esperávamos que a Palavra de Deus se dirigisse a um dos grandes, acabados de citar. Mas não. Das linhas do Evangelho emerge uma subtil ironia: dos nobres palácios onde moram os detentores do poder, passa-se inesperadamente para o deserto, para um homem desconhecido e solitário. Deus surpreende-nos, as suas opções surpreendem: não entram nas previsões humanas, não seguem o poder e a grandeza que o homem habitualmente Lhe associa. O Senhor prefere a pequenez e a humildade. A redenção não começa em Jerusalém, Atenas ou Roma, mas no deserto. Esta estratégia paradoxal oferece-nos uma mensagem muito bela: ter autoridade, ser cultos e famosos não constituem garantias para agradar a Deus; antes pelo contrário, poderia induzir-nos ao orgulho e a rejeitá-Lo. Em vez disso, ajuda ser pobres intimamente, como pobre é o deserto.
Detenhamo-nos no paradoxo do deserto. O Precursor prepara a vinda de Cristo neste lugar impérvio e inospitaleiro, cheio de perigos. Ora, se alguém quer fazer um anúncio importante, habitualmente vai a lugares belos, onde há muita gente, onde goza de visibilidade. Ao contrário, João prega no deserto. E precisamente naquele lugar da aridez, naquele espaço vazio que se estende a perder de vista e onde quase não há vida, precisamente lá se revela a glória do Senhor, que – como profetizam as Escrituras (cf. Is 40, 3-4) – transforma o deserto em lago, a terra árida em nascentes de água (cf. Is 41, 18). Aqui está outra mensagem encorajadora: agora como então, Deus volta o seu olhar para onde dominam tristeza e solidão. Podemos experimentá-lo na vida: com frequência Ele não consegue tocar-nos enquanto estamos no meio dos aplausos e só pensamos em nós mesmos; alcança-nos sobretudo nas horas da provação. Visita-nos nas situações difíceis; é nos nossos vazios, nos nossos desertos existenciais, que Lhe deixamos espaço. É aí que nos visita o Senhor.
Queridos irmãos e irmãs, na vida duma pessoa ou dum povo, não faltam momentos em que se tem a impressão de encontrar-se no deserto. E é precisamente aí que Se faz presente o Senhor, que muitas vezes não é acolhido por quem se sente bem-sucedido, mas pela pessoa que se sente incapaz de vencer. E vem com palavras de proximidade, compaixão e ternura: «Não temas, porque Eu estou contigo; não te angusties, porque Eu sou o teu Deus. Eu fortaleço-te e auxilio-te» (41, 10). Ao pregar no deserto, João assegura-nos que o Senhor vem para nos libertar e de novo nos dar vida precisamente nas situações que parecem irresgatáveis, sem vias de saída: é aqui que Ele vem. Assim, não há lugar que Deus não queira visitar. E hoje só podemos sentir alegria em vê-Lo escolher o deserto, para nos alcançar na nossa pequenez que ama e na nossa aridez que quer dessedentar. Portanto, caríssimos, não temais a pequenez, porque a questão não é ser pequenos e poucos, mas abrir-se a Deus e aos outros. E não temais sequer a aridez, pois não a teme Deus que nela nos vem visitar.
Passemos ao segundo aspeto: a conversão. João Baptista pregava-a sem parar e de forma veemente (cf. Lc 3, 7). Também esta é uma temática «incómoda». Tal como o deserto não é o primeiro lugar onde gostaríamos de ir, assim também o convite à conversão certamente não é a primeira proposta que gostaríamos de ouvir. Falar de conversão pode gerar tristeza; parece-nos difícil conciliar com o Evangelho da alegria. Mas isto verifica-se quando a conversão se reduz a um esforço moral, como se fosse fruto apenas do nosso empenho. O problema está precisamente aqui: em basear tudo sobre as nossas forças. Isto é errado! Aqui se escondem também a tristeza espiritual e a frustração: queremos converter-nos, ser melhores, superar os nossos defeitos, mudar, mas sentimos que não somos plenamente capazes e, apesar da boa vontade, sempre voltamos a cair. Provamos a mesma experiência de São Paulo que, precisamente a partir destas terras, escrevia: «O querer está ao meu alcance, mas realizar o bem, isso não. É que não é o bem que eu quero que faço, mas o mal que eu não quero, isso é que pratico» (Rm 7, 18-19). Então se, sozinhos, não temos a capacidade de fazer o bem que queremos, que significa que devemos converter-nos?
Nisto pode ajudar-nos a vossa bela língua, o grego, com a etimologia do verbo evangélico «converter – metanoéin». Compõe-se da preposição meta, que aqui significa além, e do verbo noéin, que quer dizer pensar. Assim converter-se é pensar além, isto é, ir além da maneira habitual de pensar, além dos nossos habituais esquemas mentais. Concretamente penso nos esquemas que reduzem tudo ao nosso eu, à nossa pretensão de autossuficiência; ou nos esquemas fechados pela rigidez e o medo que paralisam, pela tentação «sempre se fez assim, para quê mudar?», pela ideia de que os desertos da vida são lugares de morte e não da presença de Deus.
Ao exortar-nos à conversão, João Batista convida-nos a ir além, não nos detendo aqui; ir além daquilo que os nossos instintos nos sugerem e os nossos pensamentos fotografam, porque a realidade é maior: é maior do que os nossos instintos, os nossos pensamentos. Na verdade Deus é maior. Então converter-se significa não dar ouvidos ao que enterra a esperança, a quem repete que nada mudará jamais na vida… os pessimistas de sempre! É recusar-se a acreditar que estamos destinados a afundar nas areias movediças da mediocridade; é não ceder aos fantasmas interiores, que surgem sobretudo nos momentos de provação para nos desanimar, dizendo que não vamos conseguir, que tudo está errado e que tornar-se santo não é para nós. Não é assim, porque há Deus. É preciso confiar n’Ele, porque é Deus o nosso além, a nossa força. Tudo muda, se se deixar a Ele o primeiro lugar. Eis a conversão: ao Senhor, basta a nossa porta aberta para entrar e fazer maravilhas, assim como Lhe bastaram um deserto e as palavras de João para vir ao mundo. Não pede mais mada!
Peçamos a graça de acreditar que, com Deus, as coisas mudam, que Ele cura os nossos medos, sara as nossas feridas, transforma lugares áridos em nascentes de água. Peçamos a graça da esperança, porque é a esperança que reanima a fé e reacende a caridade; porque é de esperança que hoje estão sequiosos os desertos do mundo. E enquanto este nosso encontro nos renova na esperança e na alegria de Jesus, e eu rejubilo por estar convosco, peçamos à nossa Mãe, a Toda Santa, que nos ajude a ser, como Ela, testemunhas de esperança – a esperança, irmãos e irmãs, não dececiona, nunca dececiona –, semeadores de alegria ao nosso redor; e não só quando estamos felizes e juntos, mas todos os dias, nos desertos que habitamos. Porque é aqui, com a graça de Deus, que a nossa vida é chamada a converter-se. É aqui, nos muitos desertos do nosso interior ou do ambiente circundante, que a vida é chamada a florescer. Que o Senhor nos dê graça e coragem de acolher esta verdade!
[01690-PO.02] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua polacca
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[01690-PL.02] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua araba
الزيارة الرسوليّة إلى قبرص واليونان
عظة قداسة البابا فرنسيس
في القدّاس الإلهيّ
في قاعة ميغارون في أثينا - اليونان
الأحد 5 كانون الأوّل / ديسمبر 2021
في هذا الأحد الثّاني من زمن المجيء، تقدّم لنا كلمة الله صورة القدّيس يوحنّا المعمدان. ويركّز الإنجيل على جانبين في شخصيته: المكان الذي كان فيه، وهو البرّيّة، ومحتوى رسالته، وهو التّوبة. البرّيّة والتّوبة: إنجيل اليوم يركّز على هذا، وهذا الإلحاح في التركيز يجعلنا نفهم أنّ هاتين الكلمتين موجهتان إلينا بشكل مباشر. لنستقبلهما معًا.
البرّيّة. قدّم لوقا الإنجيليّ هذا المكان بطريقة خاصّة. فتكلّم على ظروف وشخصيّات كبيرة في ذلك الوقت: بدأ بذكر السّنة الخامسة عشرة للقيصر طيباريوس، ثم الوالي الروماني بنطيوس بيلاطس، فالملك هيرودس وغيرهم من ”القادة السياسيّين“ في ذلك الوقت، ثمّ ذَكَرَ رجال الدّين، حنّان وقيافا، اللذين كانا قرب هيكل أورشليم (راجع لوقا 3، 1-2). عند هذا الحد أعلن: "كانت كَلِمَةُ اللهِ إِلى يوحَنَّا بْنِ زَكَرِيَّا في البَرِّيَّة" (لوقا 3، 2). ولكن كيف؟ كنّا نتوقّع أن تتوجّه كلمة الله إلى أحد الكبار الذين ذُكروا قبل قليل. ولكن لا. إنّنا نقرأ بين سطور الإنجيل سخرية رقيقة: من المراكز العليا حيث يقيم أصحاب السّلطة يتمّ الانتقال فجأة إلى البرّيّة، إلى رجل مجهول متوحّد. لله مفاجآته. وخياراته مفاجئة: لا تندرج في إطار التوقعات البشريّة، ولا تتبع القوّة والعَظمة بحسب ما يرى الإنسان عادةً. يفضّل الله ما هو صغير ومتواضع. لم يبدأ عمل الفداء في أورشليم أو أثينا أو روما، بل بدأ في البرّيّة. هذه الاستراتيجيّة المناقضة لنا هي لنا رسالة جميلة جدًّا وهي: أن نكون أصحاب سلطة، وثقافة وشهرة ليس هذا ضمانًا لنا أنّنا نرضي الله، بل بالعكس، هذا يمكن أن يؤدّي بنا إلى أن نتكبّر وإلى أن نرفض الله. فمن المفيد لنا أن نكون فقراء في الدّاخل، مثل فقر البرّيّة.
لنتوقف عند هذا التناقض في البرّيّة. هيّأ يوحنّا السّابق مجيء المسيح في هذا المكان الوعر والمُوحِش، والمليء بالمخاطر. الآن، إن أراد أحدهم أن يعلن إعلانًا مهمًّا، يذهب عادةً إلى أماكن جميلة، حيث يوجد أناس كثيرون، وحيث يمكن للناس أن يروه. أما يوحنّا فقد وعظ في البرّيّة. هناك بالتّحديد، في المكان القاحل، وفي تلك المساحة الفارغة المتسعة على مدّ البصر، وحيث لا توجد حياة تقريبًا، هناك انكشف مجد الرّبّ يسوع، الذي حوّل البرّيّة إلى بحيرة كما تنبأ الكتاب المقدس (راجع أشعيا 40، 3-4)، والأرض القاحلة إلى ينابيع مياه (أشعيا 41، 18). هذه رسالة أخرى مشجّعة: الله، الآن كما في ذلك الوقت، يوجّه نظره إلى حيث يسيطر الحزن والوَحدة. يمكننا أن نختبر ذلك في حياتنا: الله لا ينجح غالبًا في الوصول إلينا عندما نكون وسط التّصفيق ونفكّر في أنفسنا فقط، إنّه يأتينا، ويصل إلينا خصوصًا في ساعات المحنة. ويزورنا في الأوضاع الصّعبة، وفي فراغاتنا التي تترك له مكانًا، وفي صحاري حياتنا. هناك يزورنا الرّبّ يسوع.
أيّها الإخوة والأخوات الأعزّاء، في حياة الإنسان أو الشعب لا تنقص اللحظات التي تعطي الانطباع بأنّنا موجودون في بريّة. وهنا بالضبط يجعل الله نفسه حاضرًا، وهو غالبًا لا يُرحَّب به من الذين يشعرون بالنجاح، بل من الذين يشعرون أنّهم لا يستطيعون النجاح. ويأتي بكلمات القرب والرحمة والحنان فيقول: "لا تَخَفْ فإِنِّي معَكَ ولا تَتَلَفَّتْ فَأَنا إِلهُكَ. قد قَوَّيتُك ونَصَرتُكَ" (أشعيا 41، 10). عندما كان يوحنا يعظ في البريّة، طمأننا أنّ الرّبّ يسوع سيأتي ليحرّرنا ويعطينا الحياة مرة أخرى، وبالتحديد في حالات تبدو غير قابلة للإصلاح، وبدون مخرج: هناك سيأتي. لذلك لا يوجد مكانٌ، لا يريد الله أن يزوره. واليوم لا يسعنا إلّا أن نفرح إذ نراه يختار البريّة، ليصل إلينا لأنّنا صغار، فهو يحبّنا كذلك، وفي حالة الجفاف التي نحن فيها، لأنّه يريد أن يرويها! لذلك، أيّها الأعزّاء، لا تخافوا أن تكونوا صغارًا، لأنّ المسألة ليست أن تكونوا صغارًا وقليلين في العدد، بل أن تكونوا منفتحين على الله وعلى الآخرين. ولا تخافوا كذلك حالات الجفاف، لأنّ الله لا يخافها، فهو يأتي لزيارتنا هناك!
لننتقل إلى الجانب الثاني وهو التوبة. وعظ بها المعمدان بلا هوادة وبنبرة شديدة (لوقا 3، 7). وهذا أيضًا موضوع "غير مريح". كما أنّ الصحراء ليست أوّل مكان نريد الذهاب إليه، كذلك فإنّ الدعوة إلى التوبة ليست بالتأكيد أوّل شيء نريد أن نسمعه. الكلام على التوبة يمكن أن يثير الحزن. ويبدو لنا من الصعب أن يتِّفق مع إنجيل الفرح. لكن هذا يحدث عندما ينحصر مفهوم التوبة في جهودنا في المجال الأخلاقي، كما لو كانت التوبة فقط ثمرة لجهودنا. المشكلة هنا بالتحديد، عندما نعتمد في كلّ شيء على قوانا. هذا خطأ! هنا يُعشّش الحزن الروحي والإحباط أيضًا: نريد أن نتوب، ونكون أفضل، ونتغلّب على عيوبنا، ونتغيّر، لكنّنا نشعر أنّنا لسنا قادرين بما يكفي، وعلى الرّغم من حسن النية، فإنّنا نعود دائمًا إلى السقوط. خِبرتنا هذه هي خِبرة القديس بولس نفسها، الذي كتب بالتحديد من هذه الأراضي: "الرَّغبَةُ في الخَيرِ هي بِاستِطاعَتي، وأَمَّا فِعلُه فلا. لأَنَّ الخَيرَ الَّذي أُريدُه لا أَفعَلُه، والشَّرَّ الَّذي لا أُريدُه إِيَّاه أَفعَل" (رومة 7، 18-19). إذن، إن كنّا لا نقدر وحدنا أن نعمل الخير الذي نريده، فما معنى أنّه يجب علينا أن نتوب؟
لغتكم الجميلة، اليونانية، يمكن أن تساعدنا في فهم أصل الفعل الإنجيلي ”تاب“ (metanoéin). وهو يتألف من حرف الجر metá الذي يعني هنا ”ما وراء، وما بعد“، والفعل noéin الذي يعني ”فكَّر“. فالفعل ”تاب“ يعني إذن التفكير في ”ما بعد“ جهودنا، أي نتجاوز طريقتنا المعتادة في التفكير، نذهب إلى ما وراء القوالب العقلية المعتادة. أفكّر بالتحديد في المخططات التي تحصر كلّ شيء في الأنا الموجود فينا، وفي ادعائنا بالاكتفاء الذاتي. أو أفكّر في أولئك المنغلقين بسبب التزمت والخوف اللذين يشلّان، أو بسبب الانصياع للتجربة التي تقول ”هكذا عملنا دائمًا، فلماذا نغيّر“، أو بسبب الفكرة أنّ صحاري الحياة هي أماكن موت وليست أماكن حضور الله.
يحثنا يوحنا على التوبة، ويدعونا إلى أن نذهب إلى ما بعد، وعدم التوقف هنا. إلى أن نذهب إلى أبعد مما تقوله لنا غرائزنا، أو ما تُصوِّره لنا أفكارنا، لأنّ الواقع أكبر: إنّه أكبر من غرائزنا وأفكارنا. الحقيقة هي أنّ الله أكبر. التوبة إذن تعني ألّا نستمع إلى ما يدمّر الرجاء، وإلى أولئك الذين يكرّرون أنّه لن يتغيّر أبدًا شيء في الحياة – هم المتشائمون دائمًا. التوبة هي أن نرفض الاعتقاد بأنّ مصيرنا هو الغرق في الرمال المتحركة للأوضاع الهزيلة. هي ألّا ننقاد للتخيلات الداخلية، التي تظهر خاصة في لحظات المحن فتحبطنا وتقول لنا إنّنا لن نقدر أن ننجح، وإنّ كلّ شيء سيء، وإنّ القداسة ليست لنا. كلا، ليس الأمر هكذا. لأنّ الله موجود. يجب أن نثق به، لأنّه هو الموجود ما وراء قدرتنا، وهو قوّتنا. كلّ شيء يتغيّر إذا تركنا له المكان الأوّل. هذه هي التوبة: بابنا المفتوح يكفي للرّبّ ليدخل وليصنع العجائب، تمامًا كما كانت البريّة وكلمات يوحنا كافية ليأتي إلى العالم. لا يطلب منا أكثر من ذلك.
لنسأل نعمة الإيمان بأنّ الأحوال تتغيّر مع الله، وأنّه يُبرِئ مخاوفنا، ويشفي جراحنا، ويحوّل المناطق القاحلة إلى ينابيع مياه. ولنسأل نعمة الرجاء. لأنّ الرجاء هو الذي يحيي الايمان ويوقد المحبّة. لأنّ صحاري العالم اليوم عطشة إلى الرجاء. فيما يجدّدنا لقاؤنا هذا في الرجاء وفي فرح يسوع، وأنا أيضًا يسرّني وجودي معكم، لنطلب من أمنا مريم العذراء، كليّة القداسة، أن تساعدنا لنكون، مثلها، شهود الرّجاء، وزارعي الفرح حولنا - الرجاء، أيّها الإخوة والأخوات، لا يخذلنا، لا يخذلنا أبدًا -. ليس فقط عندما نكون سعداء ومعًا، بل كلّ يوم، وفي الصحاري التي نسكنها. لأنّه هناك، بنعمة الله، حياتنا مَدعُوَّة إلى التوبة. هناك، في الصحاري الكثيرة في داخلنا أو في بيئتنا، هناك، حياتنا مدعُوَّة إلى الازدهار. ليمنحنا الرّبّ يسوع النعمة والشجاعة لاستقبال هذه الحقيقة.
[01690-AR.02] [Testo originale: Italiano]
Saluto del Santo Padre
Testo in lingua italiana
Traduzione in lingua francese
Traduzione in lingua inglese
Traduzione in lingua tedesca
Traduzione in lingua spagnola
Traduzione in lingua portoghese
Traduzione in lingua polacca
Traduzione in lingua araba
Testo in lingua italiana
Cari fratelli e sorelle,
al termine di questa celebrazione, desidero esprimere la mia gratitudine per l’accoglienza che ho ricevuto in mezzo a voi. Grazie di cuore! Efcharistó! [Grazie!].
Dalla lingua greca è venuta per tutta la Chiesa questa parola che riassume il dono di Cristo: Eucaristia. E così per noi cristiani il ringraziamento è inscritto nel cuore della fede e della vita. Che lo Spirito Santo possa fare di tutto il nostro essere e agire un’Eucaristia, un rendimento di grazie a Dio e un dono d’amore ai fratelli.
In questo contesto, rinnovo la mia sentita riconoscenza alle Autorità civili, alla Signora Presidente della Repubblica, qui presente, e ai fratelli Vescovi, come pure a tutti coloro che in diversi modi hanno collaborato a preparare e organizzare questa visita. Grazie a tutti! E grazie al coro che ci ha aiutato a pregare tanto bene.
Domani lascerò la Grecia, ma non lascerò voi! Vi porterò con me, nella memoria e nella preghiera. E anche voi, per favore, continuate a pregare per me. Grazie!
[01691-IT.02] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua francese
Chers frères et sœurs,
au terme de cette célébration, je souhaite exprimer ma gratitude pour l'accueil que j'ai reçu parmi vous. Merci de tout cœur! Efcharistó! [Merci!].
De la langue grecque est venu pour toute l'Eglise ce mot qui résume le don du Christ : Eucaristia. Ainsi, pour nous chrétiens, l'action de grâce est inscrite au cœur de notre foi et de notre vie. Que l'Esprit Saint fasse de tout notre être et de tout notre agir, une Eucharistie, une action de grâce à Dieu et un don d'amour à nos frères.
Dans ce contexte, je renouvelle ma sincère gratitude aux Autorités civiles, à Madame la Présidente de la République ici présente, et à mes frères évêques, ainsi qu'à tous ceux qui, de diverses manières, ont contribué à la préparation et à l'organisation de cette visite. Merci à tous ! Et merci à ceux qui nous ont aidés à si bien prier.
Demain, je quitterai la Grèce, mais je ne vous quitterai pas ! Je vous emmènerai avec moi dans ma mémoire et dans ma prière. Et vous aussi, s'il vous plaît, continuez à prier pour moi. Merci!
[01691-FR.02] [Texte original: Italien]
Traduzione in lingua inglese
Dear brothers and sisters,
At the conclusion of this celebration, I would like to express my gratitude for the warm welcome I received in your midst. I thank you most heartily! Efcharistó [Thank you!].
The Greek language gave to the entire Church the word that sums up the gift of Christ: Eucaristia, thanksgiving. For us Christians, thanksgiving is at the heart of our faith and life. May the Holy Spirit make of everything we are and everything we do a “Eucharist”, a thanksgiving to God and a gift of love to our brothers and sisters.
In this spirit, I renew my heartfelt gratitude to the civil authorities, to the President of the Republic here with us, to my brother bishops, and to all those who, in a variety of ways, helped to prepare and organize this visit. My thanks to every one of you! And thank you to the choir that has helped us to pray so well.
Tomorrow I will be leaving Greece, but I will not leave you! I will carry you with me in my memory and in my prayers. And I ask you too, please, to keep praying for me. Thank you!
[01691-EN.02] [Original text: Italian]
Traduzione in lingua tedesca
Liebe Brüder und Schwestern,
am Ende dieser Feier möchte ich meine Dankbarkeit für die Aufnahme in eurer Mitte zum Ausdruck bringen. Ich danke euch von ganzem Herzen! Efcharistó! [Danke!].
Aus dem Griechischen kam für die ganze Kirche dieses Wort, das die Gabe Christi zusammenfasst: Eucharistie. Und so ist für uns Christen die Danksagung in das Zentrum unseres Glaubens und Lebens eingeschrieben. Möge der Heilige Geist unser ganzes Sein und Tun zu einer Eucharistie machen, zu einer Danksagung an Gott und zu einem Geschenk der Liebe an unsere Brüder und Schwestern.
In diesem Zusammenhang möchte ich den zivilen Behörden, der hier anwesenden Frau Präsidentin und meinen Mitbrüdern im Bischofsamt sowie all jenen, die auf unterschiedliche Weise an der Vorbereitung und Durchführung dieses Besuchs mitgewirkt haben, meinen aufrichtigen Dank aussprechen. Ich danke euch allen! Und ich danke dem Chor, der uns geholfen hat so gut zu beten.
Morgen werde ich Griechenland verlassen, aber ich werde euch nicht verlassen! Ich werde euch im Gedenken und im Gebet mitnehmen. Und bitte betet auch ihr weiter für mich. Danke!
[01691-DE.02] [Originalsprache: Italien]
Traduzione in lingua spagnola
Queridos hermanos y hermanas:
Al concluir esta celebración, deseo expresar mi gratitud por la acogida que he recibido entre ustedes. ¡Gracias de corazón! Efcharistó! [¡Gracias!]
La palabra Eucaristía, que proviene de la lengua griega, sintetiza el don de Cristo para toda la Iglesia. Y, de este modo, el agradecimiento está inscrito para nosotros cristianos en el corazón de la fe y de la vida. Que el Espíritu Santo pueda hacer de todo nuestro ser y nuestro obrar una Eucaristía, una acción de gracias a Dios y un don de amor a los hermanos.
En este contexto, renuevo mi profundo agradecimiento a las autoridades civiles, a la señora Presidenta de la República, aquí presente, y a mis hermanos obispos, como también a todos aquellos que han colaborado de distintas maneras para preparar y organizar esta visita. ¡Gracias a todos! Y gracias al coro que nos ha ayudado a rezar tan bien.
Mañana dejaré Grecia, pero no los dejaré a ustedes. Los llevaré conmigo, en la memoria y en la oración. Y también ustedes, por favor, sigan rezando por mí. ¡Gracias!
[01691-ES.02] [Texto original: Italiano]
Traduzione in língua portoghese
Queridos irmãos e irmãs!
No final desta celebração, desejo expressar a minha gratidão pelo acolhimento que recebi entre vós. Obrigado de todo o coração! Efcharistó [obrigado]!
Da língua grega, veio para toda a Igreja esta palavra que resume o dom de Cristo: Eucaristia. Deste modo, para nós cristãos, o agradecimento está inscrito no coração da fé e da vida. Possa o Espírito Santo fazer de todo o nosso ser e agir uma Eucaristia, uma ação de graças a Deus e um dom de amor aos irmãos.
Neste contexto, renovo o meu sentido agradecimento às Autoridades civis, à Senhora Presidente da República, aqui presente, e aos irmãos Bispos, bem como a todos aqueles que colaboraram de várias maneiras para preparar e organizar esta visita. Obrigado a todos! E obrigado ao coro que nos ajudou tanto a rezar bem.
Amanhã deixarei a Grécia, mas não vos deixarei a vós. Levar-vos-ei comigo na memória e na oração. E vós também, por favor, continuai a rezar por mim. Obrigado!
[01691-PO.02] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua polacca
[01691-PL.02] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua araba
الزيارة الرسوليّة إلى قبرص واليونان
تحيّة قداسة البابا فرنسيس
في ختام القدّاس الإلهيّ
في قاعة ميغارون في أثينا - اليونان
الأحد 5 كانون الأوّل / ديسمبر 2021
أيّها الإخوة والأخوات الأعزّاء،
في نهاية هذا الاحتفال، أودّ أن أعرب عن شكري على الاستقبال الذي حظيت به بينكم. شكرًا من كلّ قلبي! Efcharistó! [شكرًا!].
من اللغة اليونانية جاءت هذه الكلمة ”إفخارستيا“ (الشكر) وهي تلّخص عطية المسيح للكنيسة كلّها. فلنا نحن المسيحيين، الشكر منطبع في قلب الإيمان والحياة. ليجعلْ الرّوح القدس كلَّ كياننا وأعمالنا إفخارستيا، شكرًا لله وعطية محبّة للإخوة.
في هذا السياق، أجدّد شكري الخالص للسُّلُطات المدنيّة، وللسيدة رئيسة الجمهورية، الحاضرة هنا، وللإخوة الأساقفة، وكذلك لجميع الذين تعاونوا بطرق مختلفة في إعداد وتنظيم هذه الزيارة. شكرًا لكم جميعًا! وشكرًا للجوقة التي ساعدتنا على الصّلاة بشكل جيد.
سأترك اليونان غدًا، لكنّني لن أترككم! سأحملكم معي في ذاكرتي وفي صلاتي. وأنتم أيضًا، من فضلكم، استمروا في الصّلاة من أجلي. شكرًا!
[01691-AR.02] [Testo originale: Italiano]
[B0821-XX.02]