Incontro con i Vescovi, i Sacerdoti, i Religiosi, le Religiose, i Seminaristi e i Catechisti nella Cattedrale di San Dionigi di Atene
Discorso del Santo Padre
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Traduzione in lingua polacca
Traduzione in lingua araba
Questo pomeriggio, il Santo Padre Francesco ha incontrato i Vescovi, i Sacerdoti, i Religiosi e le Religiose, i Seminaristi e i Catechisti nella Cattedrale di San Dionigi di Atene.
Al Suo arrivo il Papa è stato accolto all’ingresso principale della Cattedrale dall’Arcivescovo di Atene, Theodoros Kontidis, S.I., e dal Parroco che gli ha porto la croce e l’acqua benedetta. Quindi insieme sono entrati in Cattedrale. Dopo il canto d’ingresso, S.E. Mons. Sevastianos Rossolatos, Arcivescovo emerito di Atene e Presidente della Conferenza Episcopale di Grecia, ha rivolto al Santo Padre un indirizzo di saluto. Al termine delle testimonianze di una Suora del Verbo Incarnato e di un laico, Papa Francesco ha pronunciato il Suo discorso.
Dopo la recita del Padre Nostro introdotto da una catechista e la Benedizione finale, è stato offerto un dono al Papa. Eseguito il canto finale, il Santo Padre ha salutato individualmente i Vescovi e poi ha posato con loro per la foto di gruppo. Concluso l’incontro con la Comunità Cattolica è rientrato in auto alla Nunziatura Apostolica dove ha incontrato privatamente i Membri della Compagnia di Gesù.
Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa ha rivolto ai presenti nel corso dell’incontro:
Discorso del Santo Padre
Cari fratelli Vescovi,
cari sacerdoti, religiose e religiosi, seminaristi,
cari fratelli e sorelle, kalispera sas! [buonasera!]
Vi ringrazio di cuore per la vostra accoglienza e per le parole di saluto che Mons. Rossolatos mi ha rivolto. E grazie, sorella, per la sua testimonianza: è importante che i religiosi e le religiose vivano con questo spirito il loro servizio, con un amore appassionato che si fa dono per la comunità dove sono inviati. Grazie! Grazie anche a Rokos per la bella testimonianza di fede vissuta in famiglia, nella vita quotidiana, insieme ai figli che, come tanti giovani, a un certo punto si fanno delle domande, si interrogano, su alcune cose diventano un po’ critici. Ma va bene anche questo, perché aiuta noi come Chiesa a riflettere e a cambiare.
Sono contento di incontrarvi in una terra che è un dono, un patrimonio dell’umanità sul quale sono state costruite le fondamenta dell’Occidente. Siamo un po’ tutti figli e debitori del vostro Paese: senza la poesia, la letteratura, la filosofia e l’arte che si sono sviluppate qui, non potremmo conoscere tante sfaccettature dell’esistenza umana, né soddisfare molte domande interiori sulla vita, sull’amore, sul dolore e anche sulla morte.
Nell’alveo di questo ricco patrimonio, qui agli inizi del cristianesimo è stato inaugurato un “laboratorio” per l’inculturazione della fede, gestito dalla sapienza di tanti Padri della Chiesa, che con la loro santa condotta di vita e i loro scritti rappresentano un faro luminoso per i credenti di ogni epoca. Ma se ci chiediamo chi ha inaugurato l’incontro tra il cristianesimo delle origini e la cultura greca, il pensiero non può che andare all’Apostolo Paolo. È lui che ha aperto il “laboratorio della fede”, che ha sintetizzato quei due mondi. E l’ha fatto proprio qui, come raccontano gli Atti degli Apostoli: giunge ad Atene, inizia a predicare nelle piazze e i dotti del tempo lo conducono all’Areopago (cfr At 17,16-34), che era il consiglio degli anziani, dei sapienti che giudicavano questioni di interesse pubblico. Fermiamoci su questo episodio e lasciamoci orientare, nel nostro cammino di Chiesa, da due atteggiamenti dell’Apostolo utili alla nostra attuale elaborazione della fede.
Il primo atteggiamento è la fiducia. Mentre Paolo predicava, alcuni filosofi iniziano a chiedersi che cosa voglia insegnare questo «ciarlatano» (v. 18). Lo chiamano così, ciarlatano: uno che inventa cose approfittando della buona fede di chi lo ascolta. Perciò lo conducono all’Areopago. Dunque non dobbiamo immaginare che gli aprano il sipario di un palcoscenico. Al contrario, lo portano lì per interrogarlo: «Possiamo sapere qual è questa nuova dottrina che tu annunci?Cose strane, infatti, tu ci metti negli orecchi; desideriamo perciò sapere di che cosa si tratta» (vv. 19-20). Paolo, insomma, è messo alle corde.
Queste circostanze della sua missione in Grecia sono importanti anche per noi, oggi. L’Apostolo si trova all’angolo. Già poco prima, a Tessalonica, era stato ostacolato nella predicazione e, a causa dei tumulti suscitati nel popolo per accusarlo di procurare disordini, era dovuto scappare di notte. Ora, arrivato ad Atene, viene preso per ciarlatano e, come ospite poco gradito, condotto all’Areopago. Non sta dunque vivendo un momento trionfante; sta portando avanti la missione in una condizione difficile. Forse, in tanti momenti del nostro cammino, anche noi avvertiamo la fatica e talvolta la frustrazione di essere una piccola comunità, o una Chiesa con poche forze che si muove in un contesto non sempre favorevole. Meditate la storia di Paolo ad Atene. Era solo, in minoranza e con scarse probabilità di successo. Ma non si è lasciato vincere dallo scoraggiamento, non ha rinunciato alla missione. E non si è lasciato prendere dalla tentazione di lamentarsi. Questo è molto importante: state attenti alle lamentele. Ecco l’atteggiamento del vero apostolo: andare avanti con fiducia, preferendo l’inquietudine delle situazioni inattese all’abitudine e alla ripetizione. Paolo ha questo coraggio. Da dove nasce? Dalla fiducia in Dio. Il suo è il coraggio della fiducia: fiducia nella grandezza di Dio, che ama operare sempre nella nostra piccolezza.
Cari fratelli e sorelle, abbiamo fiducia, perché l’essere Chiesa piccola ci rende segno eloquente del Vangelo, del Dio annunciato da Gesù che sceglie i piccoli e i poveri, che cambia la storia con le gesta semplici degli umili. A noi, come Chiesa, non è richiesto lo spirito della conquista e della vittoria, la magnificenza dei grandi numeri, lo splendore mondano. Tutto ciò è pericoloso. È la tentazione del trionfalismo. A noi è chiesto di prendere spunto dal granello di senape, che è infimo, ma umilmente e lentamente cresce: «è il più piccolo di tutti i semi – dice Gesù – ma, una volta cresciuto, diventa un albero» (Mt 13,32). A noi è chiesto di essere lievito, che fermenta nel nascondimento paziente e silenzioso dentro la pasta del mondo, grazie all’opera incessante dello Spirito Santo (cfr v. 33). Il segreto del Regno di Dio è contenuto nelle cose piccole, in ciò che spesso non si vede e non fa rumore. L’Apostolo Paolo, il cui nome richiama la piccolezza, vive nella fiducia perché ha accolto nel cuore queste parole del Vangelo, tanto da farne un insegnamento per i fratelli di Corinto: «Ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini»; «quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti» (1 Cor 1,25.27).
Allora, carissimi, vorrei dirvi: benedite la piccolezza e accoglietela. Vi dispone a confidare in Dio e in Dio solo. Essere minoritari – e nel mondo intero la Chiesa è minoritaria – non vuol dire essere insignificanti, ma percorrere la via aperta dal Signore, che è quella della piccolezza: della kenosis, dell’abbassamento, della condiscendenza, della synkatábasis di Dio in Gesù Cristo. Egli è disceso fino a nascondersi nelle pieghe dell’umanità e nelle piaghe della nostra carne. Ci ha salvato servendoci. Egli infatti – afferma Paolo – «svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo» (Fil 2,7). Tante volte abbiamo l’ossessione dell’apparire, della visibilità, ma «il Regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione» (Lc 17,20). Viene di nascosto, come la pioggia, lentamente, sulla terra. Aiutiamoci a rinnovare questa fiducia nell’opera di Dio, e a non perdere l’entusiasmo del servizio. Coraggio, avanti su questa strada dell’umiltà, della piccolezza!
Vorrei sottolineare ora un secondo atteggiamento di Paolo all’Areopago di Atene: l’accoglienza. È la disposizione interiore necessaria per l’evangelizzazione: non voler occupare lo spazio e la vita dell’altro, ma seminare la buona notizia nel terreno della sua esistenza, imparando anzitutto ad accogliere e riconoscere i semi che Dio ha già posto nel suo cuore, prima del nostro arrivo. Ricordiamo: Dio ci precede sempre, Dio precede sempre la nostra semina. Evangelizzare non è riempire un contenitore vuoto, è anzitutto portare alla luce quello che Dio ha già iniziato a compiere. Ed è questa la straordinaria pedagogia dimostrata dall’Apostolo davanti agli Ateniesi. Non dice loro “state sbagliando tutto” oppure “adesso vi insegno la verità”, ma inizia con l’accogliere il loro spirito religioso: «Ateniesi, vedo che, in tutto, siete molto religiosi. Passando infatti e osservando i vostri monumenti sacri, ho trovato anche un altare con l’iscrizione “A un dio ignoto”» (At 17,22-23). Prende una ricchezza degli Ateniesi. L’Apostolo riconosce dignità ai suoi interlocutori e accoglie la loro sensibilità religiosa. Anche se le strade di Atene erano piene di idoli, che l’avevano fatto “fremere dentro di sé” (cfr v. 16), Paolo accoglie il desiderio di Dio nascosto nel cuore di quelle persone e con gentilezza vuole donare loro lo stupore della fede. Il suo stile non è impositivo, ma propositivo. Non si fonda sul proselitismo – mai! –, ma sulla mitezza di Gesù. E ciò è possibile perché Paolo ha uno sguardo spirituale sulla realtà: crede che lo Spirito Santo lavora nel cuore dell’uomo, al di là delle etichette religiose. Abbiamo ascoltato questo dalla testimonianza di Rokos. I figli a un certo punto si allontanano un po’ dalla pratica religiosa, ma lo Spirito Santo aveva lavorato e continua a lavorare, e così loro credono molto nell’unità, nella fraternità con il prossimo. Lo Spirito lavora sempre oltre ciò che si vede all’esterno, ricordiamolo! L’atteggiamento dell’apostolo di ogni tempo inizia dunque dall’accoglienza dell’altro: non dimentichiamo che «la grazia suppone la cultura, e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve» (Evangelii gaudium, 115). Non c’è una grazia astratta che gira sulle nostre teste; sempre la grazia è incarnata in una cultura, si incarna lì.
A proposito della visita di Paolo all’Areopago, Benedetto XVI disse che a noi devono stare molto a cuore le persone agnostiche o atee, ma che dobbiamo fare attenzione perché «quando parliamo di una nuova evangelizzazione, queste persone forse si spaventano. Non vogliono vedere sé stesse come oggetto di missione, né rinunciare alla loro libertà di pensiero e di volontà»(Discorso alla Curia Romana, 21 dicembre 2009). Anche a noi oggi è richiesto l’atteggiamento dell’accoglienza, lo stile dell’ospitalità, un cuore animato dal desiderio di creare comunione tra le differenze umane, culturali o religiose. La sfida è elaborare la passione per l’insieme, che ci conduca – cattolici, ortodossi, fratelli e sorelle di altri credo, anche fratelli agnostici, tutti – ad ascoltarci reciprocamente, a sognare e lavorare insieme, a coltivare la “mistica” della fraternità (cfr Evangelii gaudium, 87). La storia passata rimane ancora una ferita aperta sulla strada di questo dialogo accogliente, ma abbracciamo con coraggio la sfida di oggi!
Cari fratelli e sorelle, san Paolo, qui in terra greca, ha manifestato la sua serena fiducia in Dio e ciò lo ha reso accogliente verso gli areopagiti che sospettavano di lui. Con questi due atteggiamenti ha annunciato quel Dio che ai suoi interlocutori era ignoto. Ed è arrivato a presentare il volto di un Dio che in Gesù Cristo ha seminato nel cuore del mondo il germe della risurrezione, il diritto universale alla speranza, che è un diritto umano, il diritto alla speranza. Quando Paolo annuncia questa buona notizia, la maggior parte lo deride e se ne va. Tuttavia, «alcuni si unirono a lui e divennero credenti: fra questi anche Dionigi, membro dell’Areòpago, una donna di nome Dàmaris e altri con loro» (At 17,34). La maggioranza va via; un piccolo resto si unisce a Paolo, tra cui Dionigi, a cui è intitolata questa Cattedrale! È un piccolo resto, ma è così che Dio tesse le fila della storia, da allora fino a voi oggi. Vi auguro di cuore di proseguire l’opera nel vostro storico laboratorio della fede, e di farlo con questi due ingredienti, con la fiducia e con l’accoglienza, per gustare il Vangelo come esperienza di gioia e anche come esperienza di fraternità. Vi porto con me nell’affetto e nella preghiera. E voi, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. O Theós na sas evloghi ! [Dio vi benedica!]
[01687-IT.02] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua francese
Chers frères Evêques,
chers prêtres, religieuses et religieux, séminaristes,
chers frères et sœurs, kalispera sas ! [Bonsoir !]
Je vous remercie très sincèrement pour votre accueil et pour les paroles de salutation que Mgr Rossolatos m'a adressées. Et merci, ma sœur, pour votre témoignage : il est important que les religieux et les religieuses vivent leur service dans cet esprit, avec un amour passionné qui se fait don pour la communauté à laquelle ils sont envoyés. Merci ! Merci également à Rokos pour son beau témoignage de foi vécu en famille, dans la vie quotidienne avec ses enfants qui, comme beaucoup de jeunes, à un moment donné se posent des questions, s’interrogent, deviennent un peu critiques. Mais c'est aussi une bonne chose, car cela nous aide, en tant qu'Église, à réfléchir et à évoluer.
Je suis heureux de vous rencontrer sur cette terre qui est un don, un patrimoine de l'humanité sur lequel reposent les fondations de l'Occident. Nous sommes tous un peu fils et débiteurs de votre pays: sans la poésie, la littérature, la philosophie et l'art qui se sont développés ici, nous n’aurions pas pu connaître tant de facettes de l'existence humaine, ni répondre à de nombreuses questions intérieures sur la vie, sur l'amour, sur la souffrance et aussi sur la mort.
Au cœur de ce riche patrimoine, ici, au début du christianisme, un“laboratoire” de l'inculturation de la foi a été inauguré, dirigé par la sagesse de nombreux Pères de l’Eglise dont la sainteté de vie et les écrits restent un phare lumineux pour les croyants de tous les temps. Mais si nous nous interrogeons sur celui qui a inauguré la rencontre entre le christianisme des origines et la culture grecque, notre pensée ne peut qu'aller vers l'apôtre Paul. C'est lui qui a ouvert ce “laboratoire de la foi” qui a fait la synthèse de ces deux mondes. Et il l'a fait ici même, comme le racontent les Actes des Apôtres: il arrive à Athènes, il commence à prêcher sur les places, et les savants de l'époque le conduisent à l'Aréopage (cf. Ac 17, 16-34), le conseil des anciens, les sages qui jugent les affaires d'intérêt public. Arrêtons-nous sur cet épisode et laissons-nous guider sur notre chemin d'Église par deux attitudes de l'Apôtre utiles à notre actuelle élaboration de la foi.
La première attitude est la confiance. Pendant que Paul prêche, certains philosophes commencent à se demander ce que ce «charlatan» (v. 18) veut enseigner. C'est ainsi qu'ils l'appellent, un charlatan : quelqu'un qui invente des choses en profitant de la bonne foi de ses auditeurs. C’est la raison pour laquelle ils l'emmènent à l'Aréopage. Il ne faut donc pas s'imaginer qu'ils lui donnent une tribune officielle. Au contraire, ils l'amènent là pour l'interroger : «Pouvons-nous savoir quel est cet enseignement nouveau que tu proposes ?Tu nous rebats les oreilles de choses étranges. Nous voulons donc savoir ce que cela signifie» (v. 19-20). Bref, Paul est sur la corde raide.
Ces circonstances de sa mission en Grèce sont importantes, également pour nous aujourd’hui. L'Apôtre se retrouve dans une impasse. Peu de temps auparavant, à Thessalonique, il avait déjà été empêché dans sa prédication et il avait dû fuir de nuit à cause des émeutes provoquées dans la population pour l’accuser de semer le désordre. Une fois arrivé à Athènes, il est pris pour un charlatan et, comme un invité indésirable, conduit à l'Aréopage. Ce n’est donc pas un moment de triomphe; il accomplit sa mission dans des conditions difficiles. Dans notre parcours, nous ressentons peut-être nous aussi souvent la fatigue, et parfois la frustration, d'être une petite communauté ou une Eglise avec peu de ressources, avançant dans un contexte qui n'est pas toujours favorable. Méditez sur l'histoire de Paul à Athènes. Il était seul, en minorité et avec peu de chances de succès. Mais il ne s'est pas laissé vaincre par le découragement, il n'a pas renoncé à sa mission. Et il ne s'est pas laissé aller à la tentation de se plaindre. Cela est très important: faites attention aux lamentations. Telle est l'attitude du véritable apôtre: avancer avec confiance, en préférant l’appréhension des situations inattendues à l'habitude et à la répétition. Paul a ce courage. D'où lui vient-il ? De la confiance en Dieu. Il a le courage de la confiance : une confiance dans la grandeur de Dieu, qui aime travailler toujours dans notre petitesse.
Chers frères et sœurs, ayons confiance, car être une Église petite fait de nous un signe éloquent de l'Évangile, du Dieu annoncé par Jésus qui choisit les petits et les pauvres et qui change l'histoire avec les gestes simples des humbles. À nous, en tant qu’Église, il n’est pas demandé d'avoir un esprit de conquête ou de victoire, la gloire des grands nombres ou la splendeur mondaine. Tout cela est dangereux. C'est la tentation du triomphalisme. Il nous est demandé de nous inspirer de la graine de moutarde, qui est toute petite mais qui pousse humblement et lentement : «C’est la plus petite de toutes les semences, dit Jésus, mais quand elle a poussé, elle (…) devient un arbre » (Mt 13, 32). Il nous est demandé d’être le levain qui fermente, caché patiemment et silencieusement dans la pâte du monde, grâce à l’œuvre incessante de l’Esprit (cf. v. 33). Le secret du Royaume de Dieu est contenu dans les petites choses, dans ce qui, souvent, ne se voit pas et ne fait pas de bruit. L'Apôtre Paul, dont le nom même évoque la petitesse, vit dans la confiance parce qu'il a pris à cœur ces paroles de l'Évangile, au point d'en faire un enseignement pour ses frères de Corinthe : «Ce qui est faiblesse de Dieu est plus fort que les hommes»; «ce qu’il y a de faible dans le monde, voilà ce que Dieu a choisi, pour couvrir de confusion ce qui est fort» (1 Co 1, 25.27).
Alors, chers amis, je voudrais vous dire : bénissez la petitesse et accueillez-la. Elle vous dispose à faire confiance à Dieu et à Dieu seul. Être minoritaires - et dans le monde entier l'Église est minoritaire - ne veut pas dire être insignifiants, mais parcourir la voie ouverte par le Seigneur, qui est celle de la petitesse, de la kénose, de l'abaissement, de la condescendance, de la synkatábasis de Dieu en Jésus Christ. Il s’est abaissé jusqu’à se cacher dans les replis de l'humanité et dans les blessures de notre chair. Il nous a sauvés en se mettant à notre service. De fait, Paul nous dit qu'il «s’est anéanti, prenant la condition de serviteur» (Ph 2, 7). Nous avons si souvent l’obsession des apparences, de la visibilité, alors que «la venue du règne de Dieu n’est pas observable» (Lc 17, 20). Il vient caché, comme la pluie, lentement sur la terre. Aidons-nous mutuellement à renouveler cette confiance dans l'œuvre de Dieu, à ne pas perdre l'enthousiasme du service. Courage, en avant sur cette route de l’humilité, de la petitesse!
Je voudrais maintenant souligner une deuxième attitude de Paul à l'Aréopage d'Athènes : l'accueil. C'est la disposition intérieure nécessaire à l'évangélisation : ne pas vouloir occuper l'espace et la vie de l'autre, mais semer la Bonne Nouvelle dans le terreau de son existence en apprenant à accueillir d'abord et à reconnaître les semences que Dieu a déjà mises dans son cœur, avant notre arrivée. Souvenons-nous : Dieu nous précède toujours, il précède toujours nos semailles. Évangéliser, ce n'est pas remplir un vase vide, c'est avant tout mettre en lumière ce que Dieu a déjà commencé à accomplir. Et c'est cela, l’extraordinaire pédagogie dont l'Apôtre fait preuve devant les Athéniens. Il ne leur dit pas “vous vous trompez complètement” ni “maintenant je vais vous enseigner la vérité”, mais il commence par accueillir leur esprit religieux: «Athéniens, je peux observer que vous êtes, en toutes choses, des hommes particulièrement religieux. En effet, en me promenant et en observant vos monuments sacrés, j’ai même trouvé un autel avec cette inscription : “Au dieu inconnu”» (Ac 17, 22-23). Il prend une richesse de Athéniens. L'Apôtre reconnaît la dignité de ses interlocuteurs et accueille leur sensibilité religieuse. Même si les rues d'Athènes étaient pleines d'idoles, ce qui l'avait «exaspéré» (cf. v. 16), Paul accueille le désir de Dieu caché dans le cœur de ces personnes, et il veut avec bonté leur offrir l’émerveillement de la foi. Son style n’impose pas, mais propose. Il n'est pas basé sur un prosélytisme – jamais -, mais sur la douceur de Jésus. Et cela est possible parce que Paul a un regard spirituel sur la réalité : il croit que l'Esprit Saint agit dans le cœur de l'homme, au-delà des étiquettes religieuses. Nous l'avons entendu dans le témoignage de Rokos. À un certain moment, les enfants s'éloignent un peu de la pratique religieuse, mais l'Esprit Saint avait travaillé et continue de travailler, et c’est pourquoi ils croient beaucoup à l'unité, à la fraternité avec le prochain. Souvenons-nous que l'Esprit agit toujours au-delà de ce que l'on voit de l'extérieur ! L'attitude de l'apôtre de tous les temps commence donc par l'accueil de l'autre : n’oublions pas que «la grâce suppose la culture, et le don de Dieu s’incarne dans la culture de la personne qui la reçoit», (Evangelii gaudium, n. 115). Il n’y a pas de grâce abstraite qui tournerait au-dessus de nos têtes. La grâce est toujours incarnée dans une culture, elle s’incarne là.
À propos de la visite de Paul à l'Aréopage, Benoît XVI a dit que les personnes agnostiques ou athées doivent beaucoup nous tenir à cœur, mais que nous devons faire attention car «lorsque nous parlons d'une nouvelle évangélisation, ces personnes sont peut-être effrayées. Elles ne veulent pas se voir comme faisant l'objet d'une mission, ni renoncer à leur liberté de pensée et de volonté», (Discours à la Curie romaine, 21 décembre 2009). Aujourd'hui, il nous est demandé, à nous aussi, d'adopter une attitude d'accueil, un style d'hospitalité, un cœur animé par le désir de créer une communion entre les différences humaines, culturelles ou religieuses. Le défi consiste à développer une passion pour l'ensemble, nous conduisant - catholiques, orthodoxes, frères et sœurs d'autres croyances, et aussi les frères agnostiques, tous, - à nous écouter mutuellement, à rêver et à travailler ensemble et à cultiver la “mystique” de la fraternité (cf. Evangelii gaudium, n. 87). L'histoire passée reste une blessure ouverte sur le chemin de ce dialogue accueillant, mais relevons avec courage le défi d'aujourd'hui !
Chers frères et sœurs, ici, en terre grecque, saint Paul a montré sa confiance sereine en Dieu, et c’est ce qui l'a rendu accueillant envers les aréopagites qui se méfiaient de lui. Grâce à ces deux attitudes, il a annoncé ce Dieu qui était inconnu à ses interlocuteurs. Et il est parvenu à présenter le visage d'un Dieu qui, en Jésus-Christ, a semé au cœur du monde le germe de la résurrection, le droit universel à l'espérance qui est un droit humain, le droit à l’espérance. Lorsque Paul annonce cette bonne nouvelle, la majorité se moque de lui et s'en va. Cependant, « quelques hommes s’attachèrent à lui et devinrent croyants. Parmi eux, il y avait Denys, membre de l’Aréopage, et une femme nommée Damaris, ainsi que d’autres avec eux», (Ac 17, 34). La majorité s’en va ; un petit nombre rejoint Paul, dont Denys à qui cette cathédrale est dédiée ! C’est un petit reste, mais c'est ainsi que Dieu tisse les fils de l'histoire, depuis cette époque jusqu'à vous aujourd'hui. Je vous souhaite de tout cœur de poursuivre l’œuvre de cet historique laboratoire de la foi, et de le faire avec ces deux ingrédients, la confiance et l’accueil, afin de goûter l'Évangile comme une expérience de joie et aussi comme une expérience de fraternité. Je vous porte dans mon cœur et dans la prière. Et, s'il vous plaît, n'oubliez pas de prier pour moi. O Theós na sas evloghi ! [Dieu vous bénisse !]
[01687-FR.02] [Texte original: Italien]
Traduzione in lingua inglese
Dear Brother Bishops,
Dear Priests, Religious and Seminarians
Dear Sisters and Brothers, kalispera sas! (Good evening!)
I thank you from the heart for your warm welcome and for the kind words of greeting addressed to me by Archbishop Rossolatos. Thank you, Sister, for your own witness: it is important that men and women religious carry out their service in this spirit, with an impassioned love that becomes a gift for the communities to which they are sent. Thanks! Thank you too, Rokos, for your fine testimony of faith lived in the family, in daily life, together with children who, like so many young people, at a certain point begin to ask, to wonder, and become a bit critical about certain things. But that too is not bad, for it helps us as a Chruch to reflect and to change.
I am happy to meet you in a land that is a gift, a patrimony of mankind, on which the foundations of the West have been built. All of us are sons and daughters of your country, and in her debt: without the poetry, literature, philosophy and art that developed here, we would not be familiar with many aspects of human existence, or be able to respond to many profound questions regarding life, love, suffering and also death.
At the dawn of Christianity, this rich heritage gave rise to an inculturation of the faith, carried out, as if in a “laboratory”, thanks to the wisdom of many of our Fathers in the faith, who by their holiness of life and their writings remain a beacon of light for believers in every age. But if we ask ourselves who inaugurated this encounter between early Christianity and Greek culture, we think immediately of the Apostle Paul. He began this work of synthesizing those two worlds. He did it in this very place, as we read in the Acts of the Apostles. He came to Athens, began to preach in the city squares and was brought by some philosophers to the Areopagus (cf. Acts 17:16-34), the assembly of elders and learned men whose task was to pass judgement on matters of public interest. Let us stop and reflect on this episode. We can be guided in our journey as Church by two attitudes demonstrated by the Apostle Paul that can prove helpful for our contemporary efforts to inculturate the faith.
The first attitude is confident trust. As Paul preached, some philosophers began to wonder what this “charlatan” was trying to say (v. 18). They called him a charlatan: one who makes things up, taking advantage of the good faith of his listeners. So they brought him to the Areopagus. We should not imagine that they were simply offering him a platform. On the contrary, they brought him there to interrogate him: “May we know what this new teaching is that you are presenting? For you bring some strange things to our ears; we wish to know therefore what these things mean” (vv. 19-20). In a word, Paul was being put to the test.
This part of Paul’s mission in Greece can teach us an important lesson today. The Apostle was hard pressed. Shortly before, in Thessalonica he had been prevented from preaching; due to the turmoil stirred up by his opponents, he had to flee the city at night. Now, upon arriving in Athens, he had been taken for a charlatan and brought to the Areopagus as an unwelcome guest. This was not a moment of triumph for Paul. He was carrying out his mission in a difficult situation. Perhaps, many times along the way, we too feel weary and even frustrated at being a small community, a Church with few resources operating in a climate that is not always favourable. Think about Paul in Athens. He was alone, in the minority, unwelcome and with little chance of success. But he did not allow himself to be overcome by discouragement. He did not give up on his mission. Nor did he yield to the temptation to complain. This is very important: beware of complaining. That is the attitude of a true apostle: to go forward with confidence, preferring the uncertainty of unexpected situations to the force of habit and repitition. Paul had that courage. Where does it come from? From confident trust in God. His was the courage born of trust in God, who always loves to accomplish great things through our lowliness.
Dear brothers and sisters, let us have that same confident trust, for being a small Church makes us an eloquent sign of the Gospel, of the God proclaimed by Jesus who chooses the poor and the lowly, who changes history by the simple acts of ordinary people. As Church, we are not called to have the spirit of conquest and victory, impressive numbers or worldly grandeur. All this is dangerous. It can tempt us to triumphalism. We are asked to take our inspiration from the mustard seed, which appears insignificant, but grows slowly and quietly. “It is the smallest of all seeds” – Jesus tells us – “but when it has grown it is the greatest of shrubs and becomes a tree” (Mt 13:32). We are asked to be yeast, which rises patiently and silently, hidden within the dough of the world, thanks to the constant work of the Holy Spirit (cf. Mt 13:33). The secret of the Kingdom of God is in the little things, often quiet and unseen. The Apostle Paul, whose very name means “little”, lived in confident trust, because he welcomed those words of the Gospel into his heart and made them a lesson for the faithful of Corinth: “the weakness of God is stronger than men”; “God chose what is weak in the world to shame the strong” (1 Cor 1:25, 27).
So, dear friends, I would tell you this: consider your smallness a blessing and accept it willingly. It disposes you to trust in God and in God alone. Being a minority – and do not forget that the Church throughout the world is a minority – does not mean being insignificant, but closer to the path loved by the Lord, which is that of littleness: of kenosis, of abasement, of meekness, of the synkatábasis of God in Jesus Christ. Jesus came down even to becoming hidden in the weakness of our humanity and the wounds of our flesh. He saved us by serving us. As Paul tells us, “He emptied himself, taking the form of a servant” (Phil 2:7). How often we can be obsessed with external appearances and visibility, yet “the Kingdom of God does not come with signs that can be observed” (Lk 17:20). It comes in a hidden, slow way like the rain does on the ground. Let us help one another to renew our trust in God’s work, and not to lose the enthusiasm of service. Take heart, persevere on this way of humility and of smallness!
I would now like to highlight a second attitude shown by Paul before the Areopagus, and that is acceptance, the interior disposition essential for evangelization. An attitude of acceptance does not try to occupy the space and life of others, but to sow the good news in the soil of their lives; it learns to recognize and appreciate the seeds that God already planted in their hearts before we came on the scene. Let us remember that God always precedes us, God always sows before we do. Evangelizing is not about filling an empty container; it is ultimately about bringing to light what God has already begun to accomplish. And this was the remarkable pedagogy that the Apostle adopted with the Athenians. He did not tell them: “You have it all wrong”, or “Now I will teach you the truth”. Instead, he began by accepting their religious spirit: “Men of Athens, I perceive that in every way you are very religious. For as I passed along and observed the objects of your worship, I found an altar with this inscription, ‘To an unknown god’” (Acts 17:22-23). He draws from the rich patrimony of the Athenians. The Apostle dignified his hearers and welcomed their religiosity. Even though the streets of Athens were full of idols, which had made him “deeply distressed” (v. 16), Paul acknowledged the desire for God hidden in the hearts of those people, and wanted gently to share with them the amazing gift of faith. He did not impose; he proposed. His “style” was never based on proselytizing, but on the meekness of Jesus. This was possible because Paul had a spiritual outlook on reality. He believed that the Holy Spirit works in the human heart above and beyond religious labels. We heard this in the witness given by Rokos. At a certain point, children fall away from religious practice, yet the Holy Spirit continues to do his work, and so they believe in unity, in fraternity with others. The Holy Spirit always does more than what we can see from the outside. Let us not forget this. In every age, the attitude of the apostle begins with accepting others. For “grace presupposes culture, and the gift of God is embodied in the culture of those who receive it” (Evangelii Gaudium, 115). There is no abstract grace flying above our heads; grace is always incarnated in a culture.
Reflecting on Paul’s visit to the Areopagus, Pope Benedict XVI noted that we must have at heart those who are agnostics or atheists, but take care that, when we speak of a new evangelization, they not be put off. “They do not want to see themselves as a target of the mission, nor do they want to give up their freedom of thought and will” (Address to the Roman Curia, 21 December 2009). Today we too are asked to cultivate an attitude of welcome, a style of hospitality, a heart desirous of creating communion amid human, cultural or religious differences. The challenge is to develop a passion for the whole, which can lead us – Catholics, Orthodox, brothers and sisters of other creeds, and also our agnostic brothers and sisters, everyone – to listen to one another, to dream and work together, to cultivate the “mystique” of fraternity (cf. Evangelii Gaudium, 87). Past hurts remain on the path towards such a welcoming dialogue, but let us courageously embrace today’s challenge!
Dear brothers and sisters, here on Greek soil, Saint Paul showed his serene trust in God and this made him open and accepting towards the Areopagites who were suspicious of him. In this spirit, Paul proclaimed the God unknown to his hearers. He thus was able to present the face of a God, who in Jesus Christ sowed in the heart of the world the seed of resurrection, the universal right to hope, which is a human right – the right to hope. When Paul proclaimed this good news, most of them laughed at him and went their way. However, “some joined him and became believers: among these also Dionysius, a member of the Areopagus, a woman named Damaris and others” (Acts 17:34). The majority left; a small remnant joined Paul, including Dionysius, after whom this Cathedral is named. A small remnant, yet that is how God weaves the threads of history, from those days until our own. It is my fervent desire that you continue the work in your historic “laboratory” of faith, and do it with the help of these two ingredients, confident trust and acceptance, in order to savour the Gospel as an experience of joy and also as an experience of fraternity. I am close to you in affection and prayer. And I ask you, please, not to forget to pray for me. [In Greek: God bless you!].
[01687-EN.02] [Original text: Italian]
Traduzione in lingua tedesca
Liebe Brüder im Bischofsamt,
liebe Priester, Ordensleute und Seminaristen,
liebe Brüder und Schwestern, kalispera sas! [Guten Abend!]
Ich danke euch sehr herzlich dafür, wie ihr mich empfangen habt, und für die Grußworte, die Erzbischof Rossolatos an mich gerichtet hat. Und ich danke Ihnen, Schwester, für Ihr Zeugnis: Es ist wichtig, dass Ordensmänner und -frauen ihren Dienst in diesem Geist tun, mit einer leidenschaftlichen Liebe, die zu einem Geschenk für die Gemeinschaft wird, in die sie gesandt sind. Danke! Danke auch an Rokos für das schöne Zeugnis des Glaubens, den er in seiner Familie, im täglichen Leben, zusammen mit den Kindern lebt, die sich, wie viele junge Menschen, ab einem gewissen Punkt Fragen stellen, sich selbst in Frage stellen und ein wenig kritisch gegenüber einigen Dingen werden. Aber das ist auch gut so, denn es hilft uns als Kirche nachzudenken und etwas zu ändern.
Ich freue mich, euch in einem Land zu begegnen, das ein Geschenk ist, ein Erbe der Menschheit, das Fundament auf dem der Westen errichtet wurde. Wir alle sind ein bisschen Kinder und Schuldner eures Landes: Ohne die Poesie, die Literatur, die Philosophie und die Kunst, die sich hier entwickelt haben, könnten wir viele Facetten der menschlichen Existenz nicht verstehen und auch viele innere Fragen über Leben, Liebe, Schmerz und auch den Tod nicht zufriedenstellend beantworten.
Inmitten dieses reichen Erbes wurde hier am Anfang des Christentums eine „Werkstatt“ für die Inkulturation des Glaubens eingerichtet, die von der Weisheit so vieler Kirchenväter geprägt wurde, die mit ihrer heiligen Lebensführung und ihren Schriften ein leuchtendes Vorbild für die Gläubigen aller Zeiten sind. Wenn wir uns aber fragen, wer die Begegnung zwischen dem frühen Christentum und der griechischen Kultur eingeleitet hat, so kommen wir am Apostel Paulus nicht vorbei. Er war es, der die „Werkstatt des Glaubens“ eröffnete und diese beiden Welten in Einklang brachte. Und er tat es genau hier, wie die Apostelgeschichte berichtet: Er gelangte nach Athen, er begann auf den öffentlichen Plätzen zu predigen und die Gelehrten der damaligen Zeit bringen ihn zum Areopag (vgl. Apg 17,16-34), dem Rat der Ältesten, der Weisen, die über Angelegenheiten von öffentlichem Interesse zu befinden hatten. Verweilen wir bei dieser Begebenheit und lassen wir uns auf unserem Weg als Kirche von zwei Haltungen des Apostels leiten, die für unsere gegenwärtige Glaubensvertiefung nützlich sind.
Die erste Haltung ist das Vertrauen. Als Paulus predigte, begannen sich einige Philosophen zu fragen, was dieser „Schwätzer“ (V. 18) sie zu lehren versuchte. So nennen sie ihn, einen Schwätzer: jemand, der Dinge erfindet und dabei die Gutgläubigkeit seiner Zuhörer ausnutzt. Also bringen sie ihn zum Areopag. Wir sollten uns also nicht vorstellen, dass sie ihm hier eine offene Bühne bieten. Im Gegenteil, sie bringen ihn dorthin, um ihn zu befragen: »Können wir erfahren, was das für eine neue Lehre ist, die du vorträgst? Du bringst uns recht befremdliche Dinge zu Gehör. Wir wüssten gern, worum es sich handelt« (VV. 19-20). Paulus ist also in die Enge getrieben.
Diese Umstände seiner Mission in Griechenland sind auch für uns heute von Bedeutung. Der Apostel steht mit dem Rücken zur Wand. Bereits kurz zuvor war er in Thessaloniki an seiner Verkündigung gehindert worden und musste nachts fliehen, weil man ihn beschuldigte, im Volk Unruhe gestiftet zu haben. In Athen angekommen, hält man ihn für einen Scharlatan und führte ihn als unwillkommenen Gast auf den Areopag. Er erlebt hier also keinen Triumph, sondern erfüllt seinen Auftrag unter schwierigen Bedingungen. Vielleicht spüren auch wir in vielen Momenten unseres Weges die Müdigkeit und manchmal auch die Frustration, eine kleine Gemeinschaft oder eine Kirche mit wenigen Kräften zu sein, die sich in einem Umfeld bewegt, der nicht immer günstig ist. Denkt über die Geschichte von Paulus in Athen nach. Er war allein, in der Minderheit, und es gab kaum Aussicht auf Erfolg. Aber er hat sich nicht entmutigen lassen, er hat die Mission nicht aufgegeben. Und er widerstand der Versuchung sich zu beklagen. Das ist sehr wichtig: hütet euch vor dem Jammern. Die Haltung des wahren Apostels ist diese: mit Zuversicht voranzugehen und die Unruhe unerwarteter Situationen der Gewohnheit und Wiederholung vorzuziehen. Paulus hat diesen Mut. Woher stammt er? Aus seinem Vertrauen in Gott. Er hat den Mut des Vertrauens: Vertrauen in die Größe Gottes, der es liebt, immer in unserer Schwachheit zu wirken.
Liebe Brüder und Schwestern, wir sind zuversichtlich, denn eine kleine Kirche zu sein, macht uns zu einem beredten Zeichen des Evangeliums, des von Jesus verkündigten Gottes, der die Kleinen und Armen erwählt, der die Geschichte durch die einfachen Taten der Demütigen verändert. Wir als Kirche brauchen keine Gesinnung der Eroberung und des Sieges, nicht die Pracht großer Zahlen und weltlichen Glanz. All das ist gefährlich. Es ist die Versuchung des Triumphalismus. Wir sind aufgerufen, uns an dem Senfkorn zu orientieren, das winzig ist, aber bescheiden und langsam wächst: »Es ist das kleinste von allen Samenkörnern«, sagt Jesus, »sobald es aber hochgewachsen ist«, wird es »zu einem Baum« (Mt 13,32). Wir sollen ein Sauerteig sein, der in geduldiger und stiller Verborgenheit im Teig der Welt aufgeht, dank des unablässigen Wirkens des Heiligen Geistes (vgl. V. 33). Das Geheimnis des Reiches Gottes liegt im Kleinen, in dem, was man oft nicht sieht und das keinen Lärm macht. Der Apostel Paulus, dessen Name auf das Kleine verweist, ist voll Zuversicht, weil er sich diese Worte des Evangeliums zu Herzen genommen hat, so sehr, dass er seine Brüder und Schwestern in Korinth entsprechend lehrt: »Das Schwache an Gott ist stärker als die Menschen […] das Schwache in der Welt hat Gott erwählt, um das Starke zuschanden zu machen« (1 Kor 1,25.27).
Deshalb, liebe Brüder und Schwestern, möchte ich euch sagen: Schätzt das Geringsein hoch und nehmt es an. Es bewirkt in euch, dass ihr Gott vertraut, Gott allein. Eine Minderheit zu sein – und die Kirche ist in der ganzen Welt eine Minderheit – heißt nicht unbedeutend zu sein, sondern den vom Herrn eröffneten Weg zu gehen, den Weg der Kleinheit, der Kenosis, der Erniedrigung, des Entgegenkommens, der Synkatábasis Gottes in Jesus Christus. Er erniedrigte sich so sehr, dass er sich in den Falten der Menschheit und in den Wunden unseres Fleisches verbarg. Er rettete uns, indem er uns diente. In der Tat, sagt Paulus, »er entäußerte sich und wurde wie ein Sklave« (Phil 2,7). Oft sind wir versessen auf die äußere Erscheinung, auf die Sichtbarkeit, aber »das Reich Gottes kommt nicht so, dass man es beobachten könnte« (Lk 17,20). Es kommt im Verborgenen, wie der Regen, langsam, auf die Erde. Helfen wir uns gegenseitig, dieses Vertrauen in Gottes Werk zu erneuern und die Begeisterung für den Dienst nicht zu verlieren. Nur Mut, gehen wir weiter auf diesem Weg der Demut, der Kleinheit!
Ich möchte nun eine zweite Haltung hervorheben, die Paulus auf dem Areopag in Athen zeigte: das Annehmen. Dies ist eine innere Haltung, die für die Evangelisierung notwendig ist. Sie will nicht den Raum und das Leben des Anderen in Beschlag nehmen, sondern die frohe Botschaft in den Boden seiner Existenz säen. Dazu muss man vor allem lernen, die Saat, die Gott bereits vor unserer Ankunft in sein Herz gelegt hat, anzunehmen und zu erkennen. Denken wir daran: Gott ist uns immer voraus, Gott ist unserer Aussaat immer voraus. Evangelisieren heißt nicht, ein leeres Gefäß zu füllen, sondern vor allem, das ans Licht zu bringen, was Gott bereits zu wirken begonnen hat. Und das ist die außergewöhnliche Pädagogik, die der Apostel vor den Athenern an den Tag legt. Er sagt ihnen nicht: „Ihr macht alles falsch“ oder „Ich werde euch jetzt die Wahrheit lehren“, sondern er beginnt damit, dass er ihre religiöse Gesinnung aufgreift: »Ihr Männer von Athen, nach allem, was ich sehe, seid ihr sehr fromm. Denn als ich umherging und mir eure Heiligtümer ansah, fand ich auch einen Altar mit der Aufschrift: Einem unbekannten Gott“« (Apg 17,22-23). Er greift einen Reichtum der Athener auf. Der Apostel respektiert die Würde seiner Gesprächspartner und greift ihre religiöse Sensibilität auf. Obwohl die Straßen von Athen voller Götzen waren, die ihn „heftig erzürnten“ (vgl. V. 16), nimmt Paulus die in den Herzen dieser Menschen verborgene Sehnsucht nach Gott auf und auf freundliche Weise möchte er ihnen das Wunder des Glaubens zum Geschenk machen. Sein Stil ist nicht aufdringlich, sondern konstruktiv. Er beruht nicht auf Proselytenmacherei, niemals, sondern auf der Sanftmut Jesu. Und das ist möglich, weil Paulus eine geistliche Sicht der Wirklichkeit hat: Er glaubt, dass der Heilige Geist im Herzen des Menschen wirkt, jenseits religiöser Etiketten. Dies haben wir von Rokos eben gehört. An einem bestimmten Punkt entfernen sich die Kinder ein wenig von der religiösen Praxis, aber der Heilige Geist hat gewirkt und wirkt weiter, und so glauben sie sehr stark an die Einheit, an die geschwisterliche Verbundenheit mit ihrem Nächsten. Der Geist wirkt immer über das hinaus, was man äußerlich sieht, daran sollten wir denken! Die Haltung der Apostel aller Zeiten beginnt also mit der Annahme des Anderen. Vergessen wir nicht: »Die Gnade setzt die Kultur voraus, und die Gabe Gottes nimmt Gestalt an in der Kultur dessen, der sie empfängt« (Evangelii gaudium, 115). Es gibt keine abstrakte Gnade, die über unseren Köpfen kreist; die Gnade nimmt immer Gestalt an in einer Kultur, dort nimmt sie Gestalt an.
In Bezug auf den Besuch von Paulus auf dem Areopag sagte Benedikt XVI., dass uns agnostische oder atheistische Menschen sehr am Herzen liegen müssen, dass wir aber achtgeben müssen, da diese Menschen vielleicht erschrecken, wenn wir von Neuevangelisierung sprechen. »Sie wollen sich nicht als Objekt von Mission sehen und ihre Freiheit des Denkens und des Wollens nicht preisgeben« (Ansprache an die Römische Kurie, 21. Dezember 2009). Auch von uns wird heute die Haltung des Annehmens, der Stil der Gastfreundschaft, ein Herz, das von dem Wunsch beseelt ist, die menschlichen, kulturellen oder religiösen Unterschiede miteinander zu vereinen, verlangt. Die Herausforderung besteht darin, eine Leidenschaft für das Zusammensein zu entwickeln, die uns – Katholiken, Orthodoxe und die Brüder und Schwestern anderer Glaubensrichtungen, auch die agnostischen Brüder und Schwestern, alle – dazu bringt, einander zuzuhören, gemeinsam zu träumen und zusammenzuarbeiten und eine „Mystik“ der Geschwisterlichkeit zu kultivieren (vgl. Evangelii gaudium, 87). Die Vergangenheit bleibt weiter eine offene Wunde auf dem Weg dieses Dialogs, der annimmt, aber stellen wir uns mutig dieser Herausforderung unserer Tage!
Liebe Brüder und Schwestern, hier auf griechischem Boden hat der heilige Paulus ein gelassenes Gottvertrauen an den Tag gelegt. Dadurch konnte er den ihm gegenüber misstrauisch gestimmten Areopagiten dennoch freundlich begegnen. Mit diesen beiden Haltungen verkündete er jenen Gott, der den Menschen, zu denen er sprach, unbekannt war. Und es gelang ihm, das Antlitz eines Gottes zu zeigen, der in Jesus Christus den Samen der Auferstehung, das universale Recht auf Hoffnung – das Recht auf Hoffnung ist ein Menschenrecht – in das Herz der Welt gesät hat. Als Paulus diese gute Nachricht verkündet, verlacht ihn die Mehrheit und geht weg. »Einige Männer aber schlossen sich ihm an und wurden gläubig, unter ihnen auch Dionysius, der Areopagit, außerdem eine Frau namens Damaris und noch andere mit ihnen« (Apg 17,34). Die Mehrheit geht weg; ein kleiner Rest schließt sich Paulus an, darunter Dionysius, nach dem diese Kathedrale benannt ist! Es ist ein kleiner Rest, aber so webt Gott die Fäden der Geschichte, von damals bis zu euch heute. Ich wünsche euch von Herzen, dass ihr die Arbeit in eurer historischen Werkstatt des Glaubens fortsetzt, und zwar mit diesen beiden Zutaten, mit Vertrauen und mit der Bereitschaft zur Annahme, um das Evangelium als eine Erfahrung der Freude und auch als Erfahrung der Geschwisterlichkeit zu kosten. Mit Zuneigung schließe ich euch in mein Beten ein und bitte euch: Vergesst nicht, für mich zu beten. O Theós na sas evloghi! [Gott segne euch!]
[01687-DE.02] [Originalsprache: Italien]
Traduzione in lingua spagnola
Queridos hermanos obispos,
queridos sacerdotes, religiosas y religiosos, seminaristas,
queridos hermanos y hermanas: Kalispera sas! [¡Buenas tardes!]
Les agradezco de corazón la acogida y las palabras de saludo que me ha dirigido Mons. Rossolatos. Y gracias, hermana, por su testimonio. Es importante que los religiosos y las religiosas vivan su servicio con este espíritu, con un amor apasionado que se hace don para la comunidad donde son enviados. ¡Gracias! Gracias también a Rokos por el hermoso testimonio de fe vivido en la familia, en la vida cotidiana, junto a los hijos que, como tantos jóvenes, en un cierto momento se hacen preguntas, se interrogan, se vuelven un poco críticos sobre algunas cosas. Pero también eso está bien, porque nos ayuda como Iglesia a reflexionar y a cambiar.
Estoy contento de encontrarlos en una tierra que es un don, un patrimonio de la humanidad sobre el que se han construido los fundamentos de Occidente. Todos somos un poco hijos y deudores de su país: sin la poesía, la literatura, la filosofía y el arte que se desarrollaron aquí no podríamos conocer tantas facetas de la existencia humana, ni satisfacer tantas preguntas interiores sobre la vida, el amor, el dolor y también la muerte.
En el seno de este rico patrimonio, en los inicios del cristianismo se inauguró aquí un “taller” para la inculturación de la fe, dirigido por la sabiduría de muchos Padres de la Iglesia, que con su santa conducta de vida y sus escritos representan un faro luminoso para los creyentes de todas las épocas. Pero si nos preguntamos quién ha inaugurado el encuentro entre el cristianismo de los orígenes y la cultura griega, el pensamiento no puede ir más que al apóstol Pablo. Es él quien abrió el “taller de la fe” que sintetizó esos dos mundos; y lo hizo precisamente aquí, como relatan los Hechos de los Apóstoles. Llegó a Atenas, comenzó a predicar en la plaza y los eruditos de ese tiempo lo llevaron al Areópago (cf. Hch 17,16-34), que era el consejo de los ancianos, de los sabios que juzgaban cuestiones de interés público. Detengámonos en este episodio y dejémonos orientar, en nuestro camino como Iglesia, por dos actitudes del Apóstol que son útiles a nuestra actual elaboración de la fe.
La primera actitud es la confianza. Mientras Pablo predicaba, algunos filósofos comenzaron a preguntarse qué quería enseñar ese «charlatán» (v. 18). Lo llamaron así, charlatán, uno que inventa cosas aprovechándose de la buena fe de quien lo escucha, por eso lo condujeron al Areópago. Por tanto, no tenemos que imaginar que le abrieron el telón de un escenario. Al contrario, lo llevaron allí para interrogarlo: «¿Se puede saber qué doctrina nueva es esta que tú enseñas? Queremos saber qué significan estas cosas extrañas que te oímos decir» (vv. 19-20). Pablo, en definitiva, fue acorralado.
Estas circunstancias de su misión en Grecia también son importantes para nosotros hoy: el Apóstol fue arrinconado. Un poco antes, en Tesalónica, había sido obstaculizado en su predicación y, a causa de los tumultos suscitados en el pueblo, que lo acusaba de procurar desórdenes, tuvo que escapar durante la noche. Ahora, en Atenas, fue tomado por un charlatán y, como un huésped no deseado, lo condujeron al Areópago. Por lo tanto, no estaba viviendo un momento triunfante, sino que estaba llevando adelante la misión en condiciones difíciles. Quizá en muchos momentos de nuestro camino, también nosotros percibimos el cansancio y a veces la frustración de ser una comunidad pequeña o una Iglesia con poca fuerza que se mueve en un contexto no siempre favorable. Mediten la historia de Pablo en Atenas: estaba solo, superado en número y tenía escasas posibilidades de éxito, pero no se dejó vencer por el desánimo, no renunció a la misión ni se dejó atrapar por la tentación de lamentarse. Esto es muy importante, tengan cuidado con no estarse lamentando. Esta es la actitud del verdadero apóstol: seguir adelante con confianza, prefiriendo la inquietud de las situaciones inesperadas a la costumbre y a la repetición. Pablo tuvo esa valentía, ¿de dónde le nacía? De la confianza en Dios. Su valentía era la de la confianza, confianza en la grandeza de Dios, que ama obrar siempre en nuestra debilidad.
Queridos hermanos y hermanas, tenemos confianza, porque el ser Iglesia pequeña nos hace signo elocuente del Evangelio, del Dios anunciado por Jesús que elige a los pequeños y a los pobres, que cambia la historia con las proezas sencillas de los humildes. A nosotros, como Iglesia, no se nos pide el espíritu de la conquista y de la victoria, la magnificencia de los grandes números, el esplendor mundano. Todo eso es peligroso, es la tentación del triunfalismo. A nosotros se nos pide que sigamos el ejemplo del granito de mostaza, que es ínfimo, pero crece humilde y lentamente; es la más pequeña de todas las semillas —dice Jesús— pero cuando crece se convierte en un árbol (cf. Mt 13,32). A nosotros se nos pide que seamos levadura que fermenta en lo escondido, paciente y silenciosamente, dentro de la masa del mundo, gracias a la obra incesante del Espíritu Santo (cf. v. 33). El secreto del Reino de Dios está contenido en las pequeñas cosas, en lo que a menudo no se ve ni hace ruido. El apóstol Pablo, cuyo nombre remite a la pequeñez, vivió en la confianza porque acogió en el corazón estas palabras del Evangelio, hasta el punto de enseñarlas a los hermanos de Corinto: «lo que parece debilidad en Dios es más fuerte que todo lo humano», «escogió a los que el mundo tiene por débiles, para avergonzar a los fuertes» (1 Co 1,25.27).
Entonces, queridos amigos, quisiera decirles: bendigan la pequeñez y acójanla, los dispone a confiar en Dios y sólo en Él. Ser minoría —y en el mundo entero la Iglesia es minoritaria— no quiere decir ser insignificantes, sino recorrer el camino que abrió el Señor, que es el de la pequeñez, el de la kénosis, el abajamiento, de la condescendencia, de la synkatábasis de Dios en Jesucristo. Él descendió hasta llegar a esconderse en los pliegues de la humanidad y en las llagas de nuestra carne. Nos ha salvado, sirviéndonos. Él, en efecto —afirma Pablo—, «se despojó de sí mismo asumiendo la condición de esclavo» (Flp 2,7). Muchas veces tenemos la obsesión de querer aparecer, de llamar la atención, pero «el Reino de Dios no viene de manera que lo puedan detectar visiblemente» (Lc 17,20). Viene secretamente como la lluvia, lentamente, sobre la tierra. Ayudémonos a renovar esta confianza en la obra de Dios, a no perder el entusiasmo del servicio. ¡Ánimo y adelante por este camino de la humildad y la pequeñez!
Ahora quisiera destacar una segunda actitud de Pablo en el Areópago de Atenas: la acogida. Es la disposición interior necesaria para la evangelización, se trata de no querer ocupar el espacio y la vida de los demás, sino de sembrar la buena noticia en el terreno de su existencia, aprendiendo sobre todo a acoger y reconocer las semillas que Dios ya ha puesto en sus corazones, antes de nuestra llegada. Recordemos que Dios siempre nos precede, Dios siempre precede nuestra siembra. Evangelizar no es llenar un recipiente vacío, es ante todo dar a luz aquello que Dios ya ha empezado a realizar. Y esta extraordinaria pedagogía es la que el Apóstol demostró ante los atenienses. No les dijo “se están equivocando en todo” o “ahora les enseño la verdad”, sino que comenzó acogiendo su espíritu religioso: «Atenienses, veo que ustedes son, desde todo punto de vista, personas muy religiosas. Porque mientras paseaba y contemplaba sus monumentos sagrados encontré un altar en el que estaba escrito: “Al dios desconocido”» (Hch 17,22-23). Toma un elemento valioso de los atenienses. El Apóstol reconoció la dignidad de sus interlocutores y acogió su sensibilidad religiosa. Aun cuando las calles de Atenas estaban llenas de ídolos, que lo habían hecho “estremecerse dentro de sí” (cf. v. 16), Pablo acogió el deseo de Dios escondido en el corazón de esas personas y amablemente quiso transmitirles el asombro de la fe. Su estilo no fue impositivo, sino propositivo; no estaba fundado en el proselitismo, nunca, sino en la mansedumbre de Jesús. Y eso fue posible porque Pablo tenía una mirada espiritual sobre la realidad, creía que el Espíritu Santo trabaja en el corazón del hombre, más allá de las etiquetas religiosas. Hemos escuchado esto en el testimonio de Rokos. En un cierto momento, los hijos se alejan un poco de la práctica religiosa, pero el Espíritu Santo había obrado y continúa obrando, y de ese modo ellos creen mucho en la unidad y en la fraternidad con el prójimo. El Espíritu trabaja siempre, más allá de lo que se ve exteriormente, ¡acordémonos de esto! La actitud del apóstol en todo tiempo comienza, pues, por acoger al otro, no olvidemos que «la gracia supone la cultura, y el don de Dios se encarna en la cultura de quien lo recibe» (Exhort ap. Evangelii gaudium, 115). No hay una gracia abstracta girando sobre nuestras cabezas, siempre la gracia esta encarnada en una cultura, ahí se encarna.
A propósito de la visita de Pablo al Areópago, Benedicto XVI dijo que debemos interesarnos mucho por las personas agnósticas o ateas, pero que tenemos que estar atentos porque «cuando hablamos de una nueva evangelización, estas personas tal vez se asustan. No quieren verse a sí mismas como objeto de misión, ni renunciar a su libertad de pensamiento y de voluntad»(Discurso a la Curia Romana, 21 diciembre 2009). También hoy a nosotros se nos pide la actitud de la acogida, el estilo de la hospitalidad, un corazón animado por el deseo de crear comunión en medio de las diferencias humanas, culturales o religiosas. El desafío es elaborar la pasión por el conjunto, que nos conduzca —católicos, ortodoxos, hermanos y hermanas de otros credos, así como hermanos agnósticos, todos— a escucharnos recíprocamente, a soñar y trabajar juntos, a cultivar la “mística” de la fraternidad (cf. Exhort ap. Evangelii gaudium, 87). La historia pasada permanece todavía como una herida abierta en el camino de este diálogo afable, pero abrazamos con valentía el desafío que hoy se nos presenta.
Queridos hermanos y hermanas, aquí en tierra griega, san Pablo manifestó su serena confianza en Dios y eso hizo que acogiera a los areopagitas que sospechaban de él. Con estas dos actitudes anunció a ese Dios que era desconocido para sus interlocutores, y llegó a presentarles el rostro de un Dios que en Cristo Jesús sembró el germen de la resurrección, el derecho universal a la esperanza, que es un derecho humano, el derecho a la esperanza. Cuando Pablo anunció esta buena noticia, la mayor parte lo ridiculizó y se fue. Sin embargo, «algunos hombres se unieron a él y abrazaron la fe, entre ellos Dionisio, el areopagita, una mujer llamada Dámaris y algunos más» (Hch 17,34). La mayoría se fue, un pequeño resto se unió a Pablo, entre ellos Dionisio, titular de esta Catedral. Era una pequeña porción, pero es así como Dios teje los hilos de la historia, desde entonces hasta hoy. Les deseo de corazón que prosigan la obra en su histórico taller de la fe, y que lo hagan con estos dos ingredientes: la confianza y la acogida, para saborear el Evangelio como experiencia de alegría y también como experiencia de fraternidad. Los llevo conmigo en el afecto y en la oración. Y ustedes, por favor, no se olviden de rezar por mí. O Theós na sas evloghi! [¡Que Dios los bendiga!]
[01687-ES.02] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua portoghese
Amados irmãos Bispos,
Queridos sacerdotes, religiosas e religiosos, seminaristas,
Caros irmãos e irmãs, kalispera sas [boa tarde]!
De todo o coração agradeço o vosso acolhimento e as palavras de saudação que D. Rossolatos me dirigiu. E obrigado, Irmã, pelo seu testemunho: é importante que os religiosos e as religiosas vivam o seu serviço com este espírito, ou seja, com um amor apaixonado que se faz dom à comunidade para onde são enviados. Obrigado! Obrigado também a Rokos pelo belo testemunho de fé vivido em família, na vida quotidiana, juntamente com os filhos, que a dada altura, como muitos jovens, têm dúvidas, interrogam-se e, nalgumas coisas, tornam-se um pouco críticos. Mas também isto pode ser útil, porque nos ajuda, como Igreja, a refletir e a mudar.
Estou feliz por vos encontrar numa terra que é uma dádiva, um património da humanidade, sobre o qual foram construídos os alicerces do Ocidente. Em certa medida, todos somos filhos e devedores do vosso país: sem a poesia, a literatura, a filosofia e a arte que aqui se desenvolveram, não seríamos capazes de conhecer muitas das facetas da existência humana, nem responder a muitas questões interiores sobre a vida, o amor, a dor e também a morte.
No sulco deste rico património, aqui nos primórdios do cristianismo inaugurou-se um «laboratório» para a inculturação da fé, gerido pela sabedoria de tantos Padres da Igreja, que constituem, com a sua santa conduta de vida e os seus escritos, um farol luminoso para os crentes de todas as épocas. Mas, se nos perguntarmos quem inaugurou o encontro entre o cristianismo das origens e a cultura grega, o pensamento não pode deixar de ir para o apóstolo Paulo. Foi ele que abriu o «laboratório da fé», que sintetizou aqueles dois mundos; e fê-lo aqui mesmo, como contam os Atos dos Apóstolos: chega a Atenas, começa a pregar nas praças, e os eruditos de então levam-no ao Areópago (cf. At 17, 16-34), que era o conselho dos anciãos, dos sábios que julgavam questões de interesse público. Detenhamo-nos neste episódio e, no nosso caminho de Igreja, deixemo-nos guiar por duas atitudes do Apóstolo úteis para a nossa atual elaboração da fé.
A primeira atitude é a confiança. Enquanto Paulo pregava, alguns filósofos começam a questionar-se sobre o que realmente queria ensinar aquele «charlatão» (17, 18). Assim o designam: um charlatão, um tal que inventa coisas aproveitando-se da boa fé de quem o escuta. Por isso o levam ao Areópago; e não pensemos que lhe estão a oferecer o palco. Pelo contrário, levam-no lá para o interrogar: «Poderemos saber que nova doutrina é essa que ensinas? O que nos dizes é muito estranho e gostaríamos de saber o que isso quer dizer» (17, 19-20). Em resumo, encostaram Paulo às cordas do ringue.
Estas circunstâncias da sua missão na Grécia são importantes também para nós, hoje. O Apóstolo é obrigado a defender-se. Pouco antes, em Tessalónica, teve dificuldades na pregação e, por causa dos tumultos ardilosamente suscitados no povo para depois o acusarem de provocar desordens, teve que fugir de noite. Agora, tendo chegado a Atenas, é tomado por charlatão e, como um hóspede indesejado, levado ao Areópago. Vemos assim que ele não está a viver um momento triunfal; está cumprindo a missão em condições difíceis. Também nós, em muitos momentos do caminho, talvez sintamos o peso e às vezes a frustração de ser uma pequena comunidade ou uma Igreja com poucas forças, que se move num contexto nem sempre favorável. Meditai a história de Paulo em Atenas. Estava só, em minoria e com escassa probabilidade de sucesso. Mas não se deixou vencer pelo desânimo, não renunciou à missão, nem se deixou cair na tentação de se lamentar. Isto é muito importante! Estai atentos às lamúrias. Eis a atitude do verdadeiro apóstolo: prosseguir com confiança, preferindo mais o incómodo das situações inesperadas que a rotina e a repetição. Paulo tem esta coragem: donde lhe vem? Da confiança em Deus. A sua é a coragem da confiança: confiança na grandeza de Deus, que gosta de atuar sempre na nossa pequenez.
Queridos irmãos e irmãs, tenhamos confiança, porque ser uma pequena Igreja torna-nos sinal eloquente do Evangelho, do Deus anunciado por Jesus que escolhe os pequeninos e os pobres, muda a história com os feitos simples dos humildes. A nós, como Igreja, não é pedido o espírito da conquista e da vitória, a magnificência dos grandes números, o esplendor mundano. Tudo isto é perigoso. É a tentação do triunfalismo. A nós, é-nos pedido para aprender com o grão de mostarda, que, apesar de ínfimo, humilde e lentamente cresce: «é a mais pequena de todas as sementes – diz Jesus –; mas, depois de crescer, (…) transforma-se numa árvore» (Mt 13, 32). A nós, é-nos pedido para sermos fermento que, escondido, paciente e silenciosamente leveda a massa do mundo, graças à obra incessante do Espírito Santo (cf. Mt 13, 33). O segredo do Reino de Deus está contido nas pequenas coisas, naquilo que frequentemente não se vê nem faz rumor. O apóstolo Paulo, cujo nome lembra a pequenez, vive na confiança, porque acolheu de tal modo no coração estas palavras do Evangelho que fez delas um ensinamento para os irmãos de Corinto: «O que é tido como fraqueza de Deus, é mais forte que os homens (…); e o que há de fraco no mundo é que Deus escolheu para confundir o que é forte» (1 Cor 1, 25.27).
Por isso, queridos amigos, gostaria de vos dizer: bendizei a pequenez e acolhei-a. Predispõe-vos a confiar em Deus, e só em Deus. Ser minoria – e, no mundo inteiro, a Igreja é minoria – não quer dizer ser insignificante, mas percorrer o caminho aberto pelo Senhor, que é o da pequenez, da kenosis, da humilhação, da condescendência, da synkatábasis de Deus em Jesus Cristo. Desceu até Se esconder nos sulcos da humanidade e nas chagas da nossa carne. Salvou-nos servindo-nos. De facto, como afirma Paulo, «esvaziou-Se a Si mesmo, tomando a condição de servo» (Flp 2, 7). Muitas vezes temos a obsessão de aparecer, dar nas vistas, mas «o Reino de Deus não vem de maneira ostensiva» (Lc 17, 20). Vem escondido, lentamente como a chuva sobre a terra. Ajudemo-nos reciprocamente a renovar esta confiança na ação de Deus e a não perder o entusiasmo do serviço. Coragem, avante por esta senda da humildade, da pequenez!
Quero agora destacar uma segunda atitude de Paulo no Areópago de Atenas: o acolhimento. É uma disposição interior necessária para a evangelização: não querer ocupar o espaço e a vida do outro, mas semear a boa nova no terreno da sua existência, aprendendo antes de mais nada a acolher e reconhecer as sementes que Deus já colocou no seu coração, antes da nossa chegada. Lembremo-nos de que Deus sempre nos precede; Deus precede sempre a nossa sementeira. Evangelizar não é encher um recipiente vazio, mas primariamente trazer à luz aquilo que Deus já começou a realizar. E esta é a pedagogia extraordinária que o Apóstolo demonstra perante os atenienses. Não lhes diz «estais a fazer tudo errado», nem «agora ensino-vos a verdade», mas começa por saudar o seu espírito religioso: «Atenienses, vejo que sois, em tudo, os mais religiosos dos homens. Percorrendo a vossa cidade e examinando os vossos monumentos sagrados, até encontrei um altar com esta inscrição: “Ao Deus desconhecido”» (At 17, 22-23). Toma uma riqueza dos atenienses. O Apóstolo vê dignidade nos seus interlocutores e acolhe a sua sensibilidade religiosa. Embora as estradas de Atenas estivessem cheias de ídolos, à vista dos quais «o espírito fremia-lhe de indignação» (17, 16), Paulo acolhe o desejo de Deus escondido no coração daquelas pessoas e, com gentileza, quer comunicar-lhes o assombro da fé. O seu estilo não é impositivo, mas propositivo. Não se baseia no proselitismo – nunca! –, mas na mansidão de Jesus. E isto é possível, porque Paulo cultiva um olhar espiritual sobre a realidade: crê que o Espírito Santo trabalha no coração do homem, independentemente dos rótulos religiosos. Ouvimo-lo no testemunho de Rokos. A certa altura, os filhos afastam-se um pouco da prática religiosa, mas o Espírito Santo trabalhara e continua a fazê-lo pelo que eles acreditam fortemente na unidade, na fraternidade com os outros. Lembremo-nos de que o Espírito trabalha sempre mais além do que se vê externamente. Assim, em todo o tempo, a atitude do apóstolo começa pelo acolhimento do outro: não nos esqueçamos de que «a graça supõe a cultura, e o dom de Deus encarna-se na cultura de quem o recebe» (Francisco, Carta enc. Evangelii gaudium, 115). Não existe uma graça abstrata que paira sobre as nossas cabeças; a graça sempre está encarnada numa cultura, encarna-se nela.
A propósito da visita de Paulo ao Areópago, Bento XVI disse que havemos de ter muito a peito as pessoas agnósticas ou ateias, mas que devemos ter cuidado porque, «quando falamos de uma nova evangelização, talvez estas pessoas se assustem. Não se querem ver objeto de missão, nem renunciar à sua liberdade de pensamento e de vontade» (Discurso à Cúria Romana, 21/XII/2009). Também hoje nos é pedida a atitude de acolhimento, o estilo da hospitalidade, um coração animado pelo desejo de criar comunhão entre as diferenças humanas, culturais ou religiosas. O desafio é cultivar a paixão pelo todo, que nos leve – católicos, ortodoxos, irmãos e irmãs de outros credos, mesmo irmãos agnósticos, todos – a escutar-nos reciprocamente, sonhar e trabalhar juntos, cultivar a «mística» da fraternidade (cf. Evangelii gaudium, 87). Embora a história passada continue a ser uma ferida aberta no caminho deste diálogo acolhedor, abracemos com coragem o desafio de hoje.
Queridos irmãos e irmãs, aqui em solo grego, São Paulo manifestou serena confiança em Deus e isso tornou-o acolhedor para com os areopagitas que suspeitavam dele. Com estas duas atitudes, anunciou aquele Deus que era desconhecido aos seus interlocutores. E chegou a apresentar o rosto dum Deus que, em Jesus Cristo, semeou no coração do mundo o gérmen da ressurreição, o direito universal à esperança, que é um direito humano, o direito à esperança. Quando Paulo anunciou esta boa nova, a maioria troça dele e vai-se embora; «alguns dos homens, no entanto, concordaram com ele e abraçaram a fé, entre os quais Dionísio, o areopagita, e também uma mulher de nome Dâmaris e outros com eles» (At 17, 34). A maioria vai embora; um pequeno resto une-se a Paulo, nomeadamente Dionísio a quem é dedicada esta Catedral. Trata-se de um pequeno resto, mas é assim que Deus tece os fios da história, desde então até aos vossos dias. De coração vos desejo que possais continuar o trabalho no vosso histórico laboratório da fé e que o façais com estes dois ingredientes, a confiança e o acolhimento, para saboreardes o Evangelho como experiência de alegria e também como experiência de fraternidade. Levo-vos comigo no amor e na oração. E vós, por favor, não vos esqueçais de rezar por mim. O Theós na sas evloghi [Deus vos abençoe]!
[01687-PO.02] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua polacca
Drodzy bracia biskupi
drodzy kapłani, siostry i bracia zakonni, seminarzyści,
drodzy bracia i siostry, kalispera sas! [dobry wieczór!]
Dziękuję wam serdecznie za przyjęcie i za słowa pozdrowienia, które skierował do mnie arcybiskup Rossolatos. I dziękuję tobie, siostro, za świadectwo: ważne, aby zakonnicy i zakonnice przeżywali swoją posługę w tym duchu, z żarliwą miłością, która staje się darem dla wspólnoty, do której są posłani. Dziękuję! Dziękuję również Rokosowi za piękne świadectwo wiary przeżywanej w rodzinie, w codziennym życiu, wraz z jego dziećmi, które, jak wielu ludzi młodych, w pewnym momencie stawiają sobie pytania, rozważają, stają się nieco krytyczni odnośnie do niektórych spraw. Ale to też jest dobre, bo pomaga nam jako Kościołowi zastanawiać się i zmieniać.
Cieszę się, że mogę spotkać się z wami na ziemi, która jest darem, dziedzictwem ludzkości, na którym zbudowano fundamenty cywilizacji zachodniej. Wszyscy jesteśmy po trosze dziećmi i dłużnikami waszego kraju. Bez poezji, literatury, filozofii i sztuki, które się tutaj rozwinęły, nie moglibyśmy poznać jakże wielu aspektów ludzkiej egzystencji, ani odpowiedzieć na wiele pytań wewnętrznych dotyczących życia, miłości, cierpienia a także i śmierci.
Pośród tego bogatego dziedzictwa, w początkach chrześcijaństwa powstało tutaj „laboratorium” inkulturacji wiary, prowadzone mądrością jakże wielu Ojców Kościoła, którzy przez swoje święte życie i pisma, stali się jaśniejącym światłem dla wierzących każdej epoki. Jeśli jednak zadamy sobie pytanie, kto dał początek spotkaniu wczesnego chrześcijaństwa z kulturą grecką, to nasza myśl skieruje się ku apostołowi Pawłowi. To on otworzył „laboratorium wiary”, dokonał syntezy tych dwóch światów. I uczynił to właśnie tutaj, jak wspominają Dzieje Apostolskie: przybył do Aten, zaczął głosić Ewangelię na placach publicznych, a ówcześni uczeni zaprowadzili go na Areopag (por. Dz 17, 16-34), czyli do rady starszych, mędrców, którzy rozsądzali sprawy interesu publicznego. Zatrzymajmy się nad tym epizodem i pozwólmy się ukierunkować w naszej drodze Kościoła przez dwie postawy Apostoła, które są przydatne dla naszego obecnego wypracowywania wiary.
Pierwszą postawą jest ufność. Kiedy Paweł głosił Dobrą Nowinę, niektórzy filozofowie zaczęli się zastanawiać czego chce nauczyć ten „nowinkarz” (w. 18). Nazywają go właśnie nowinkarzem: kimś, kto wymyśla rzeczy, wykorzystując naiwność swoich słuchaczy. Prowadzą go zatem na Areopag. Nie powinniśmy więc sobie wyobrażać, że odsłaniają dla niego kurtynę sceny. Przeciwnie, zabierają go tam, aby go przesłuchać: „Czy moglibyśmy się dowiedzieć, jaką to nową naukę głosisz? Bo jakieś nowe rzeczy wkładasz nam do głowy. Chcielibyśmy więc dowiedzieć się, o co właściwie chodzi” (w. 19-20). Innymi słowy: Paweł znajduje się w tarapatach.
Te okoliczności jego misji w Grecji są ważne również dla nas, dzisiaj. Apostoł jest zepchnięty do narożnika. Nieco wcześniej, w Salonikach, przeszkodzono mu już w głoszeniu Ewangelii i musiał uciekać nocą, z powodu zamieszek wywołanych przez ludzi oskarżających go o sianie zgorszenia. Teraz, przybywszy do Aten, został wzięty za szarlatana i, jako gość niemile widziany, zaprowadzony na Areopag. Tak więc nie przeżywa chwili triumfu, lecz wypełnia swoją misję w trudnych warunkach. Być może, w wielu momentach naszego pielgrzymowania, także i my odczuwamy znużenie, a czasem frustrację bycia małą wspólnotą, lub Kościołem o niewielkiej sile, żyjącym w warunkach nie zawsze sprzyjających. Rozważajcie historię Pawła w Atenach. Był sam, w mniejszości, niemile widziany i z niewielkimi szansami odniesienia sukcesu. Ale nie dał się pokonać zniechęceniu, nie zrezygnował z misji. I nie pozwolił, by ogarnęła go pokusa narzekania. To bardzo ważne: uważajcie na narzekania! Oto postawa prawdziwego apostoła: ufnie iść naprzód, stawiając wyżej niepokój sytuacji nieoczekiwanych, niż nawyk i powtarzalność. Paweł ma tę odwagę. Skąd się ona bierze? Z zaufania Bogu. Jego odwaga jest odwagą ufności: zaufania wielkości Boga, który lubi działać zawsze w naszej małości.
Drodzy bracia i siostry, mamy ufność, ponieważ bycie małym Kościołem czyni z nas wymowny znak Ewangelii, Boga głoszonego przez Jezusa, który wybiera maluczkich i ubogich, który zmienia bieg dziejów poprzez proste czyny pokornych. Od nas, jako Kościoła, nie wymaga się ducha podboju i zwycięstwa, wspaniałości wielkich liczb, światowego splendoru. To wszystko jest niebezpieczne. Jest to pokusa triumfalizmu. Wymaga się od nas, abyśmy wzięli przykład z ziarnka gorczycy, które jest małe, ale pokornie i powoli rośnie, jak mówi Jezus: „jest ono najmniejsze ze wszystkich nasion, lecz gdy wyrośnie, jest większe od innych jarzyn i staje się drzewem” (Mt 13, 32). Jesteśmy wezwani, by być zaczynem, który fermentuje w cierpliwym i cichym ukryciu w cieście świata, dzięki nieustannemu działaniu Ducha Świętego (por. Mt 13, 33). Tajemnica królestwa Bożego zawiera się w małych rzeczach, w tym, co często jest niedostrzegane i nie czyni zgiełku. Apostoł Paweł, którego imię przywołuje na myśl małość, żyje w ufności, ponieważ wziął sobie do serca te słowa Ewangelii, do tego stopnia, że uczynił z nich naukę dla swoich braci w Koryncie: „To, co jest słabe u Boga, przewyższa mocą ludzi”; „Bóg wybrał właśnie to, co niemocne, aby mocnych poniżyć” (1 Kor 1, 25. 27).
Tak więc, najmilsi, chciałbym wam powiedzieć: błogosławcie małość i przyjmijcie ją. Skłania was ona do zaufania Bogu i jedynie Bogu. Bycie mniejszością – a Kościół na całym świecie jest mniejszością – nie oznacza bycia nieznaczącym, ale przemierzanie drogi otwartej przez Pana, która jest drogą małości: kenozy, uniżenia, zstępowania, tej synkatábasis Boga w Jezusie Chrystusie. Zstąpił On, aby ukryć się w zakamarkach człowieczeństwa i w ranach naszego ciała. Zbawił nas, służąc nam. Istotnie, jak mówi Paweł, „ogołocił samego siebie, przyjąwszy postać sługi” (Flp 2, 7). Tak często mamy obsesję, żeby się pokazać, być dostrzeżonym, ale „Królestwo Boże nie przyjdzie dostrzegalnie” (Łk 17, 20). Przychodzi w sposób ukryty, jak deszcz, spadający powoli na ziemię. Pomagajmy sobie, aby odnawiać tę ufność w dzieło Boże, aby nie tracić entuzjazmu służby. Odwagi, naprzód na tej drodze pokory, małości!
Chciałbym teraz zwrócić uwagę na drugą postawę Pawła na Areopagu w Atenach: akceptacja. Jest to wewnętrzna dyspozycja niezbędna do ewangelizacji: nie chcieć zajmować przestrzeni i życia drugiego człowieka, ale zasiać dobrą nowinę w glebie jego życia, ucząc się przede wszystkim akceptowania i rozpoznawania ziarna, które Bóg zasiał w jego sercu jeszcze przed naszym przybyciem. Pamiętajmy: Bóg nas zawsze uprzedza, Bóg zawsze poprzedza nasz zasiew. Ewangelizować, nie znaczy napełniać pusty zbiornik, lecz przede wszystkim wydobywać na światło dzienne to, co Bóg już zaczął realizować. I to jest właśnie ta niezwykła pedagogia, jaką Apostoł wykazał się przed Ateńczykami. Nie mówi im: „wszystko robicie źle” lub „teraz nauczę was prawdy”, lecz zaczyna od akceptacji ich ducha religijnego: „Mężowie ateńscy… widzę, że jesteście pod każdym względem bardzo religijni. Przechodząc bowiem i oglądając wasze świętości jedną po drugiej, znalazłem też ołtarz z napisem: «Nieznanemu Bogu»” (Dz 17, 22-23). Czerpie z pewnego bogactwa Ateńczyków. Apostoł uznaje godność swoich rozmówców i akceptuje ich wrażliwość religijną. Chociaż ulice Aten były pełne bożków, które sprawiały, że „burzył się wewnętrznie” (por. w. 16), Paweł z radością akceptuje pragnienie Boga ukryte w sercach tych ludzi i z życzliwością pragnie obdarzyć ich zadziwieniem wiary. Nie narzuca, lecz proponuje. Jego styl nigdy nie opiera się na prozelityzmie, lecz na łagodności Jezusa. A jest to możliwe, ponieważ Paweł ma duchowe spojrzenie na rzeczywistość: wierzy, że Duch Święty działa w sercu człowieka, niezależnie od etykietek religijnych. Dowiedzieliśmy się tego ze świadectwa Rokosa. W pewnym momencie dzieci odchodzą trochę od praktyk religijnych, ale Duch Święty działał i nadal działa, dlatego bardzo wierzą w jedność, w braterstwo z bliźnimi. Duch Święty zawsze działa poza tym, co widać na zewnątrz, pamiętajmy o tym! Postawa apostoła wszechczasów zaczyna się zatem od akceptacji drugiego: pamiętajmy, że „łaska zakłada kulturę, a Boży dar wciela się w kulturę tego, który go przyjmuje” (Adhort. apost. Evangelii gaudium, 115). Nie ma łaski abstrakcyjnej, krążącej w naszych głowach. Zawsze wciela się w jakąś kulturę.
Odnosząc się do wizyty Pawła na Areopagu, Benedykt XVI powiedział, że agnostycy i ateiści muszą być bardzo bliscy naszym sercom, ale musimy być ostrożni, ponieważ „Gdy mówimy o nowej ewangelizacji, te osoby być może ogarnia lęk. Nie chcą być przedmiotami misji ani wyrzec się swojej wolności myśli i woli” (Przemówienie do Kurii Rzymskiej, 21 grudnia 2009 r., w: „L’Osservatore Romano, wyd. polskie n. 2(320)/2010, s. 40). Dzisiaj także od nas wymaga się przyjęcia postawy akceptacji, stylu goszczenia, serca ożywionego pragnieniem tworzenia komunii pomiędzy różnicami ludzkimi, kulturowymi i religijnymi. Wyzwaniem jest rozwijanie umiłowania całości, które prowadzi nas – katolików, prawosławnych, braci i siostry innych wyznań, także braci agnostyków – do słuchania siebie nawzajem, do wspólnego marzenia i pracy, do pielęgnowania „mistyki” braterstwa (por. Evangelii gaudium, 87). Minione dzieje nadal pozostają otwartą raną na drodze tego przyjaznego dialogu, ale odważnie podejmijmy wyzwanie dnia dzisiejszego!
Drodzy bracia i siostry, tutaj, na greckiej ziemi, święty Paweł okazał swoją pogodną ufność Bogu i to sprawiło, że był przyjazny dla Areopagitów, którzy byli podejrzliwi wobec niego. Z tymi dwiema postawami głosił tego Boga, który był nieznany tym, do których Paweł przemawiał. I przyszedł, aby ukazać oblicze Boga, który w Jezusie Chrystusie zasiał w sercu świata ziarno zmartwychwstania, powszechne prawo do nadziei, które jest prawem człowieka - prawem do nadziei. Kiedy Paweł głosi tę dobrą nowinę, większość wyśmiewa go i odchodzi. „Niektórzy jednak przyłączyli się do niego i uwierzyli. Wśród nich Dionizy Areopagita i kobieta imieniem Damaris, a z nimi inni” (Dz 17, 34). Większość odeszła; mała resztka dołączyła do Pawła, w tym Dionizy, pod którego wezwaniem jest ta katedra! Jest to niewielka resztka, ale tak właśnie Bóg splata wątki historii, od tamtego czasu aż do dzisiaj. Serdecznie wam życzę, abyście kontynuowali dzieło w waszym historycznym laboratorium wiary, i abyście czynili to z tymi dwiema postawami, z ufnością i akceptacją, abyście zasmakowali Ewangelii jako doświadczenia radości a także jako doświadczenia braterstwa. Będę zawsze o was z miłością pamiętał na modlitwie. I proszę was, nie zapominajcie modlić się za mnie. O Theós na sas evloghi! [Niech Bóg cię błogosławi!]
[01687-PL.02] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua araba
الزيارة الرسوليّة إلى قبرص واليونان
كلمة قداسة البابا فرنسيس
في اللقاء مع الأساقفة والكهنة والرهبان والراهبات والإكليريكيين
في كاتدرائيّة القديس ديونيسيوس في أثينا - اليونان
السبت 4 كانون الأوّل/ديسمبر 2021
الإخوة الأساقفة الأعزاء،
الكهنة والرهبان والراهبات والإكليركيين الأعزاء،
الإخوة والأخوات الأعزّاء، kalispera sas! ـ مساء الخير!
أشكركم من كلّ قلبي لترحيبكم ولكلمات التحيّة التي وجهها إليَّ المونسنيور روسولاتوس. وشكرًا أختي الراهبة، لشهادتك: من المهم أن يعيش الرهبان والراهبات خدمتهم بروح الخدمة هذه، بحبّ شديد فيقدِّمون نفسهم هبةً للجماعة التي يُرسَلون إليها. شكرًا! شكرًا أيضًا لروكوس لشهادة الإيمان الجميلة التي تعيشها في العائلة، وفي الحياة اليومية، مع أبنائك الذين يطرحون الأسئلة أحيانًا في فترة معينة، مِثلُهم مثلُ شباب كثيرين، ويتساءلون، عن بعض الأشياء، ويصبحون منتقدين لبعض الأمور. وهذا أمر جيد أيضًا، لأنّه يساعدنا ككنيسة على التفكير والتغيير.
يسعدني أن ألتقي بكم في هذه الأرض التي هي هبة وتراث للإنسانية، عليها بُنِيَت أسس الغرب. نحن جميعًا نوعًا ما أبناء لبلدكم ومدينون له: بدون الشعر والأدب والفلسفة والفن التي نشأت وتطورت هنا، لما استطعنا أن نعرف جوانب كثيرة من الوجود البشري، ولا استطعنا أن نجيب على أسئلة كثيرة في داخلنا عن الحياة والحبّ، والألم وعن الموت أيضًا.
في تربة هذا التراث الغني، هنا في بداية المسيحيّة بدأ ”مختبر“ الانثقاف الإيماني، أدارته حكمة العديد من آباء الكنيسة، وهم بسيرتهم المقدسة وبكتاباتهم منارة مضيئة للمؤمنين في كلّ العصور. وإذا سألنا من افتتح اللقاء بين المسيحيّة المبكرة والثقافة اليونانية، لن تذهب أفكارنا إلّا إلى الرسول بولس. هو الذي فتح ”مختبر الإيمان“، الذي جمع بين هذين العالمين. وقد فعل ذلك هنا، كما يروي سفر أعمال الرسل: وصل إلى أثينا، وبدأ يكرز في الساحات وقادَهُ علماء ذلك الزمن إلى الأريوباغوس (راجع أعمال الرسل 17، 16-34)، وهو مجلس الشيوخ والحكماء الذي كان يقضي في مسائل المصلحة العامة. لنتوقف عند هذه الحادثة، لترشدنا في مسيرتنا الكنسية. ونسترشد بموقفين للرسول يساعداننا في فهمنا وتنمية إيماننا اليوم.
الموقف الأول هو الثقة. بينما كان بولس يعظ، بدأ بعض الفلاسفة يتساءلون عمَّا يريد أن يعلِّم هذا "الثّرثار" (الآية ١٨). يسمونه هكذا، الثّرثار، وهو الشخص الذي يخترع الأشياء مستفيدًا من حسن نية مستمعيه. لذلك قادوه إلى الأريوباغوس. لذلك يجب ألّا نتخيل أنّهم فتحوا أمامه ستارة المسرح ليتكلّم. بالعكس، أتوا به ليستنطقوه: "هل لَنا أَن نَعرِفَ ما هوَ هذا التَّعليمُ الجَديدُ الَّذي تَعرِضُه؟ فأَنتَ تَنقُلُ إِلى مَسامِعِنا أُمورًا غَريبة، ونَحنُ نَرغَبُ في مَعرِفَةِ ما يَعْني ذلك" (الآيات ١٩-٢٠). باختصار، وُضِع بولس أمام محكمة.
هذه الظروف لرسالة بولس في اليونان مهمة أيضًا بالنسبة لنا اليوم. وضعوا الرسول في الزاوية. قبل ذلك بقليل، في تسالونيكي، كانوا أيضًا قد قاطعوا وعظه، وبسبب أعمال الشغب وقد اتهمه الشعب أنّه يسبِّب الاضطرابات في المدينة، اضطر إلى الفرار ليلًا. والآن، بعد وصوله إلى أثينا، اعتبروه ثرثارًا وضيفًا غيرَ مرحَّبٍ به، فقادوه إلى الأريوباغوس. لذلك فهو لا يمر بلحظة انتصار. إنّه يحمل رسالته في ظروف صعبة. ربما، في لحظات عديدة في مسيرتنا، نشعر نحن أيضًا بالتعب وأحيانًا بالإحباط لأنّنا جماعة صغيرة، أو كنيسة ضعيفة، تتحرك في بيئة غير مؤاتيةٍ دائمًا. تأمّلوا في قصة بولس في أثينا. كان وحيدًا، في أقليّة، وفرصة النجاح أمامه ضئيلة. لكنّه لم يسمح لنفسه بالاستسلام للإحباط، ولم يتخلَّ عن رسالته. ولم يترك نفسه تذهب إلى الشكوى والتذمر. هذا مهم جدًا: احذروا من الشكوى والتذمر. هذا هو موقف الرسول الحقيقي: المضيّ قدمًا بثقة، مفضِّلًا صعوبة المواقف غيرِ المتوقعة على العادة والتكرار. تمتع بولس بهذه الشجاعة. من أين أتته؟ من الثقة بالله. شجاعته هي شجاعة الثقة: الثقة بعظمة الله الذي يحِبُّ أن يعمل معنا دائمًا لأنّنا صغار.
أيّها الإخوة والأخوات الأعزّاء، لنثق بالله وبأنفسنا، لأن كوننا كنيسة صغيرة يجعلنا علامة بليغة للإنجيل، ولله الذي أعلن يسوع أنّه يختار الصغار والفقراء، والذي يغيِّر التاريخ بأعمال الصغار البسيطة. نحن، الكنيسة، غيرُ مطالَبين بروح الفتوحات والنصر، ولا بعظمة الأعداد الكبيرة، ولا بكبرياء الدنيا. هذا كلّه خطر علينا. هذه تجربة التباهي بالانتصار. المطلوب منّا هو أن نأخذ عبرة من حبّة الخردل، فهي صغيرة جدًّا، لكنَّها تنمو بتواضع وببطء. قال يسوع: "هيَ أَصغَرُ البُزورِ كُلِّها، فإِذا نَمَت كانَت أَكبَرَ البُقول، بل صارَت شَجَرَة" (متى 13، 32). المطلوب منّا أن نكون خميرة، تخمِّر في الخفاء، في الصبر والصمت، داخل عجينة العالم، بقوّة عمل الرّوح القدس المتواصل (راجع الآية 33). سرّ ملكوت الله يكمن في الأشياء الصغيرة، في ما لا يُرى غالبًا ولا يُحدث ضوضاء. الرسول بولس، الذي يذكِّر اسمه بالصِّغَر، عاش واثقًا لأنّه رحبّ في قلبه بكلمات الإنجيل هذه، لدرجة أنّه جعلها تعليمًا للإخوة في قورنتس، قال: "الضُّعْف مِنَ اللّه أَوفَرُ قُوَّةً مِنَ النَّاس. [...]وما كانَ في العالَمِ مِن ضُعْف فذاكَ ما اختارَه اللهُ ليُخزِيَ ما كانَ قَوِيًّا" (1 قورنتس 1، 25. 27).
لهذا، أيّها الأعزّاء، أودّ أن أقول لكم: باركوا الصِّغَر ورحِّبوا به. فإنّه يهيؤُكم للثقة بالله وبالله وحده. أن تكونوا أقلية - والكنيسة أقلية في العالم كلّه - لا يعني أن تكونوا غير مهمين، بل يعني أن تسيروا في الطريق الذي فتحه الله، وهو طريق الصِّغَر: ”الكينوزس“، التجرُّد من الذات، والاتضاع، والتنازل، تنازل الله (الذي سكن بيننا) في يسوع المسيح. هو في الواقع تنازَلَ حتى اختفى في ثنايا بشريتنا وفي جراح جسدنا. وخلَّصنا بأن صار خادمًا لنا. يؤكِّد بولس أنّه "تَجرَّدَ مِن ذاتِه مُتَّخِذًا صُورةَ العَبْد" (فيلبي 2، 7). في كثير من الأحيان نكون مهووسين بالمظاهر، ونريد أن نكون مرئيين، ولنا حضور أمام الناس، لكن"ملكوت الله لا يأتي على وَجهٍ يُراقَب" (لوقا 17، 20). يأتي سرًّا، مثل المطر، ببطء، على الأرض. لنساعد بعضنا بعضًا لتجديد هذه الثقة بعمل الله، وحتى لا نفقد حماس الخدمة. تشجعوا وتقدموا في طريق التواضع والصّغر هذا!
أودّ الآن أن أؤكد الموقف الثاني لبولس في الأريوباغس في أثينا: وهو الترحيب والقبول. إنّه الاستعداد الداخلي الضروري للبشارة بالإنجيل: عدم الرغبة في اتخاذ محل الآخر وفرض النفس على حياته، بل هو زَرعُ البشارة السارة في تربة وجوده. وقبل ذلك، نتعلَّم أن نقبل ونعترف بالبذور التي وضعها الله من قبل في قلبه، قبل مجيئنا. لنتذكر: الله يسبقنا دائمًا، الله يسبق دائمًا عملنا. ليست البشارة تعبئة وعاءٍ فارغ، بل هي تسليط الضوء على ما بدأ الله وحققه. وهذه هي الطريقة الخارقة التي أظهرها الرسول أمام أَهل أثينا. إنّه لا يقول لهم ”إنّكم مخطئون في كلّ شيء“ أو ”الآن أنا أعلِّمكم الحقيقة“، لكنّه بدأ بالترحيب بروحهم الدينية وقال: "يا أَهلَ أثينا، أَراكُم شَديدي التَّدَيُّنِ مِن كُلِّ وَجْه. فإِنِّي وأَنا سائِرٌ أَنظُرُ إِلى أَنصابِكُم وَجَدتُ هَيكَلاً كُتِبَ علَيه: إِلى الإِلهِ المَجْهول" (أعمال الرسل 17، 22-23). أخذ شيئًا مهمًا من أَهل أثينا. يعترف الرسول بالكرامة لمن يخاطبهم، ويرحب ويحترم حساسيتهم الدينية. حتى لو كانت شوارع أثينا مليئة بالأصنام، الأمر الذي من أجله ”ثار ثائره“ (راجع الآية 16). رأى بولس طلب الله الخفيّ في قلوب هؤلاء الأشخاص، وأراد أن يقدّم لهم بوداعة ولطف دهشة الإيمان. أسلوبه لا يفرض، بل يعرض. وليس مراده البحث عن أتباع –أبدًا-، لكنّه يتكلّم بوداعة يسوع. وهذا ممكن لأنّ بولس لديه نظرة روحية إلى الواقع. إنّه يؤمن بأنّ الرّوح القدس يعمل في قلب الإنسان، ما وراء التسميات الدينية. سمعنا هذا من شهادة روكوس. في مرحلة معينة، يبتعد الأبناء قليلاً عن الممارسة الدينية، لكن الرّوح القدس الذي كان يعمل يستمر في العمل، ولذا فهم يؤمنون بقوّة الوَحدة والأخُوّة مع القريب. يعمل الرّوح دائمًا بشكل يتجاوز ما يُرى من الخارج. لنتذكر ذلك! لذلك يبدأ موقف الرسول، رسول جميع الأزمنة، بالترحيب بالآخر: لا ننسى أنّ "النعمة تفترض الثقافة، وهبة الله تتجسّد في ثقافة الذين يقبلونها" (الإرشاد الرسولي، فرح الإنجيل، 115). لا توجد نعمة مجردة تدور في رؤوسنا. النعمة تتجسّد دائمًا في الثقافة، تتجسّد هناك.
قال البابا بنديكتس السادس عشر عن زيارة بولس إلى الأريوباغوس، إنّنا يجب أن نتقبَّل بمودة خاصة الأشخاص الملحدين أو اللاأدريين، ويجب أن ننتبه لأنّه "عندما نتكلّم على بشارة جديدة قد يخاف هؤلاء الأشخاص. إنّهم لا يريدون أن يروا أنفسهم هدفًا للرسالة، ولا يريدون التخلي عن حريتهم في فكرهم وفي إرادتهم" (خطاب إلى الكوريا الرومانية، 21 كانون الأوّل/ديسمبر 2009). نحن أيضًا مطالبون اليوم بأن يكون لدينا موقف ترحيب، وأسلوب ضيافة، وقلب تحركه الرغبة في خلق شركة بين الاختلافات الإنسانية والثقافية أو الدينية. التحدي هو إيجاد ”ولع بأن نكون جماعة“، الذي يقودنا - الكاثوليك والأرثوذكس والإخوة والأخوات من المعتقدات الأخرى، وحتى الإخوة اللاأدريين، جميعنا - إلى الاستماع بعضنا لبعض، وإلى أن نحلم ونعمل معًا، وأن نُنَمِّيَ ”روحانية“ الأخُوّة (راجع الإرشاد الرسولي، فرح الإنجيل، 87). ما زال التاريخ الماضي جُرحًا مفتوحًا على طريق هذا الحوار المرحِّب، لكن لنقبل تحدِّيَ اليوم بشجاعة!
أيّها الإخوة والأخوات الأعزّاء، أظهر القديس بولس، هنا على الأراضي اليونانية، ثقته الهادئة بالله، وهذا جعله يرحب بجماعة الأريوباغوس الذين اشتبهوا به. بهذَين الموقفَين بشَّر مخاطبيه بالإله المجهول. وقد قدَّم وجه إلَهٍ زرع في قلب العالم، بيسوع المسيح، بذور القيامة، وحقَّ الجميع في الرجاء، الذي هو حقّ من حقوق الإنسان، الحقّ في الرجاء. عندما أعلن بولس هذه الأخبار السارة، استخف به معظمهم وتركوه. "غَيرَ أَنَّ بَعضَ الرّجالِ انضَمُّوا إِلَيه وآمنوا، ومِنهم دِيونيسيوسُ الأَرْيُوباغيّ، وامرَأَةٌ اسمُها دامَرِيس وآخَرونَ معَهُما" (أعمال الرسل 17، 34). الأكثرية انسحبت. بقية صغيرة انضمت إلى بولس، منهم دِيونيسيوس، الذي سميت هذه الكاتدرائية باسمه! إنّهم بقية صغيرة، لكن هكذا ينسج الله خيوط التاريخ، منذ ذلك الزمن وحتى اليوم. أتمنى لكم من كلّ قلبي أن تتابعوا عملكم في مختبركم التاريخي للإيمان، واعملوا بهذَين المكوِّنَيْن، الثقة والترحيب، لتتذوقوا الإنجيل فيكون لكم اختبارَ فرحٍ واختبارَ أخُوّة أيضًا. أحمِلُكم في قلبي في المودّة والصّلاة. وأنتم من فضلكم لا تنسَوا أن تصلُّوا من أجلي.
O Theós na sas evloghi! [بارككم الله!]
[01687-AR.02] [Testo originale: Italiano]
[B0819-XX.02]