Discorso del Santo Padre
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Alle ore 9.00 di questa mattina, alla presenza del Santo Padre Francesco, ha avuto inizio nell’Aula Nuova del Sinodo, in Vaticano, un Momento di Riflessione per l’inizio del Percorso Sinodale “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”.
Erano presenti rappresentanti del Popolo di Dio, tra delegati delle Riunioni Internazionali delle Conferenze Episcopali ed Organismi simili, membri della Curia Romana, delegati fraterni, delegati della vita consacrata e dei movimenti laicali ecclesiali, e il consiglio dei giovani.
Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa ha rivolto ai presenti nel corso del Momento di Riflessione:
Discorso del Santo Padre
Cari fratelli e sorelle,
grazie per essere qui, all’apertura del Sinodo. Siete venuti da tante strade e Chiese, ciascuno portando nel cuore domande e speranze, e sono certo che lo Spirito ci guiderà e ci darà la grazia di andare avanti insieme, di ascoltarci reciprocamente e di avviare un discernimento nel nostro tempo, diventando solidali con le fatiche e i desideri dell’umanità. Ribadisco che il Sinodo non è un parlamento, che il Sinodo non è un’indagine sulle opinioni; il Sinodo è un momento ecclesiale, e il protagonista del Sinodo è lo Spirito Santo. Se non c’è lo Spirito, non ci sarà Sinodo.
Viviamo questo Sinodo nello spirito della preghiera che Gesù ha rivolto accoratamente al Padre per i suoi: «Perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21). A questo siamo chiamati: all’unità, alla comunione, alla fraternità che nasce dal sentirci abbracciati dall’unico amore di Dio. Tutti, senza distinzioni, e noi Pastori in particolare, come scriveva San Cipriano: «Dobbiamo mantenere e rivendicare con fermezza quest’unità, soprattutto noi Vescovi che presidiamo nella Chiesa, per dar prova che anche lo stesso episcopato è uno solo e indiviso» (De Ecclesiae Catholicae Unitate, 5). Nell’unico Popolo di Dio, perciò, camminiamo insieme, per fare l’esperienza di una Chiesa che riceve e vive il dono dell’unità e si apre alla voce dello Spirito.
Le parole-chiave del Sinodo sono tre: comunione, partecipazione, missione. Comunione e missione sono espressioni teologiche che designano il mistero della Chiesa e di cui è bene fare memoria. Il Concilio Vaticano II ha chiarito che la comunione esprime la natura stessa della Chiesa e, allo stesso tempo, ha affermato che la Chiesa ha ricevuto «la missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il regno di Cristo e di Dio, e di questo regno costituisce in terra il germe e l’inizio» (Lumen gentium, 5). Due parole attraverso cui la Chiesa contempla e imita la vita della Santissima Trinità, mistero di comunione ad intra e sorgente di missione ad extra. Dopo un tempo di riflessioni dottrinali, teologiche e pastorali che caratterizzarono la ricezione del Vaticano II, San Paolo VI volle condensare proprio in queste due parole – comunione e missione – «le linee maestre, enunciate dal Concilio». Commemorandone l’apertura, affermò infatti che le linee generali erano state «la comunione, cioè la coesione e la pienezza interiore, nella grazia, nella verità, nella collaborazione […] e la missione, cioè l’impegno apostolico verso il mondo contemporaneo» (Angelus, 11 ottobre 1970), che non è proselitismo.
Chiudendo il Sinodo del 1985, a vent’anni dalla conclusione dell’assise conciliare, anche San Giovanni Paolo II volle ribadire che la natura della Chiesa è la koinonia: da essa scaturisce la missione di essere segno di intima unione della famiglia umana con Dio. E aggiungeva: «Conviene sommamente che nella Chiesa si celebrino Sinodi ordinari e, all’occorrenza, anche straordinari» i quali, per portare frutto, devono essere ben preparati: «occorre cioè che nelle Chiese locali si lavori alla loro preparazione con partecipazione di tutti» (Discorso a conclusione della II Assemblea Straordinaria del Sinodo dei Vescovi, 7 dicembre 1985). Ecco dunque la terza parola, partecipazione. Comunione e missione rischiano di restare termini un po’ astratti se non si coltiva una prassi ecclesiale che esprima la concretezza della sinodalità in ogni passo del cammino e dell’operare, promuovendo il reale coinvolgimento di tutti e di ciascuno. Vorrei dire che celebrare un Sinodo è sempre bello e importante, ma è veramente proficuo se diventa espressione viva dell’essere Chiesa, di un agire caratterizzato da una partecipazione vera.
E questo non per esigenze di stile, ma di fede. La partecipazione è un’esigenza della fede battesimale. Come afferma l’Apostolo Paolo, «noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo» (1 Cor 12,13). Il punto di partenza, nel corpo ecclesiale, è questo e nessun altro: il Battesimo. Da esso, nostra sorgente di vita, deriva l’uguale dignità dei figli di Dio, pur nella differenza di ministeri e carismi. Per questo, tutti sono chiamati a partecipare alla vita della Chiesa e alla sua missione. Se manca una reale partecipazione di tutto il Popolo di Dio, i discorsi sulla comunione rischiano di restare pie intenzioni. Su questo aspetto abbiamo fatto dei passi in avanti, ma si fa ancora una certa fatica e siamo costretti a registrare il disagio e la sofferenza di tanti operatori pastorali, degli organismi di partecipazione delle diocesi e delle parrocchie, delle donne che spesso sono ancora ai margini. Partecipare tutti: è un impegno ecclesiale irrinunciabile! Tutti battezzati, questa è la carta d’identità: il Battesimo.
Il Sinodo, proprio mentre ci offre una grande opportunità per una conversione pastorale in chiave missionaria e anche ecumenica, non è esente da alcuni rischi. Ne cito tre. Il primo è quello del formalismo. Si può ridurre un Sinodo a un evento straordinario, ma di facciata, proprio come se si restasse a guardare una bella facciata di una chiesa senza mai mettervi piede dentro. Invece il Sinodo è un percorso di effettivo discernimento spirituale, che non intraprendiamo per dare una bella immagine di noi stessi, ma per meglio collaborare all’opera di Dio nella storia. Dunque, se parliamo di una Chiesa sinodale non possiamo accontentarci della forma, ma abbiamo anche bisogno di sostanza, di strumenti e strutture che favoriscano il dialogo e l’interazione nel Popolo di Dio, soprattutto tra sacerdoti e laici. Perché sottolineo questo? Perché a volte c’è qualche elitismo nell’ordine presbiterale che lo fa staccare dai laici; e il prete diventa alla fine il “padrone della baracca” e non il pastore di tutta una Chiesa che sta andando avanti. Ciò richiede di trasformare certe visioni verticiste, distorte e parziali sulla Chiesa, sul ministero presbiterale, sul ruolo dei laici, sulle responsabilità ecclesiali, sui ruoli di governo e così via.
Un secondo rischio è quello dell’intellettualismo – l’astrazione, la realtà va lì e noi con le nostre riflessioni andiamo da un’altra parte –: far diventare il Sinodo una specie di gruppo di studio, con interventi colti ma astratti sui problemi della Chiesa e sui mali del mondo; una sorta di “parlarci addosso”, dove si procede in modo superficiale e mondano, finendo per ricadere nelle solite sterili classificazioni ideologiche e partitiche e staccandosi dalla realtà del Popolo santo di Dio, dalla vita concreta delle comunità sparse per il mondo.
Infine, ci può essere la tentazione dell’immobilismo: siccome «si è sempre fatto così» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 33) – questa parola è un veleno nella vita della Chiesa, “si è sempre fatto così” –, è meglio non cambiare. Chi si muove in questo orizzonte, anche senza accorgersene, cade nell’errore di non prendere sul serio il tempo che abitiamo. Il rischio è che alla fine si adottino soluzioni vecchie per problemi nuovi: un rattoppo di stoffa grezza, che alla fine crea uno strappo peggiore (cfr Mt 9,16). Per questo è importante che il Sinodo sia veramente tale, un processo in divenire; coinvolga, in fasi diverse e a partire dal basso, le Chiese locali, in un lavoro appassionato e incarnato, che imprima uno stile di comunione e partecipazione improntato alla missione.
Viviamo dunque questa occasione di incontro, ascolto e riflessione come un tempo di grazia, fratelli e sorelle, un tempo di grazia che, nella gioia del Vangelo, ci permetta di cogliere almeno tre opportunità. La prima è quella di incamminarci non occasionalmente ma strutturalmente verso una Chiesa sinodale: un luogo aperto, dove tutti si sentano a casa e possano partecipare. Il Sinodo ci offre poi l’opportunità di diventare Chiesa dell’ascolto: di prenderci una pausa dai nostri ritmi, di arrestare le nostre ansie pastorali per fermarci ad ascoltare. Ascoltare lo Spirito nell’adorazione e nella preghiera. Quanto ci manca oggi la preghiera di adorazione! Tanti hanno perso non solo l’abitudine, anche la nozione di che cosa significa adorare. Ascoltare i fratelli e le sorelle sulle speranze e le crisi della fede nelle diverse zone del mondo, sulle urgenze di rinnovamento della vita pastorale, sui segnali che provengono dalle realtà locali. Infine, abbiamo l’opportunità di diventare una Chiesa della vicinanza. Torniamo sempre allo stile di Dio: lo stile di Dio è vicinanza, compassione e tenerezza. Dio sempre ha operato così. Se noi non arriveremo a questa Chiesa della vicinanza con atteggiamenti di compassione e tenerezza, non saremo la Chiesa del Signore. E questo non solo a parole, ma con la presenza, così che si stabiliscano maggiori legami di amicizia con la società e il mondo: una Chiesa che non si separa dalla vita, ma si fa carico delle fragilità e delle povertà del nostro tempo, curando le ferite e risanando i cuori affranti con il balsamo di Dio. Non dimentichiamo lo stile di Dio che ci deve aiutare: vicinanza, compassione e tenerezza.
Cari fratelli e sorelle, sia questo Sinodo un tempo abitato dallo Spirito! Perché dello Spirito abbiamo bisogno, del respiro sempre nuovo di Dio, che libera da ogni chiusura, rianima ciò che è morto, scioglie le catene, diffonde la gioia. Lo Spirito Santo è Colui che ci guida dove Dio vuole e non dove ci porterebbero le nostre idee e i nostri gusti personali. Il padre Congar, di santa memoria, ricordava: «Non bisogna fare un’altra Chiesa, bisogna fare una Chiesa diversa» (Vera e falsa riforma nella Chiesa, Milano 1994, 193). E questa è la sfida. Per una “Chiesa diversa”, aperta alla novità che Dio le vuole suggerire, invochiamo con più forza e frequenza lo Spirito e mettiamoci con umiltà in suo ascolto, camminando insieme, come Lui, creatore della comunione e della missione, desidera, cioè con docilità e coraggio.
Vieni, Spirito Santo. Tu che susciti lingue nuove e metti sulle labbra parole di vita, preservaci dal diventare una Chiesa da museo, bella ma muta, con tanto passato e poco avvenire. Vieni tra noi, perché nell’esperienza sinodale non ci lasciamo sopraffare dal disincanto, non annacquiamo la profezia, non finiamo per ridurre tutto a discussioni sterili. Vieni, Spirito Santo d’amore, apri i nostri cuori all’ascolto. Vieni, Spirito di santità, rinnova il santo Popolo fedele di Dio. Vieni, Spirito creatore, fai nuova la faccia della terra. Amen.
[01384-IT.02] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua francese
Chers frères et sœurs,
Merci d’être présent à l’ouverture du Synode. Vous êtes venus par divers chemins et appartenez à de nombreuses Eglises. Chacun porte dans son cœur des questions et des espérances. Je suis sûr que l’Esprit nous guidera et nous donnera la grâce d’avancer ensemble, de s’écouter mutuellement et d’initier un discernement sur notre époque, en devenant solidaires des efforts et des désirs de l’humanité. Je répète que le Synode n'est pas un parlement, que le Synode n'est pas une enquête d'opinions ; le Synode est un moment ecclésial, et le protagoniste du Synode est l’Esprit-Saint. S'il n'y a pas d'Esprit, il n'y aura pas de Synode.
Nous vivons ce Synode dans l’esprit de la prière que Jésus a adressée de tout son cœur au Père pour ses disciples: «Que tous soient un» (Jn 17, 21). C’est à cela que nous sommes appelés: à l’unité, à la communion, à la fraternité qui naît du sentiment d’être environné de l’amour unique de Dieu. Tous, sans distinction, et en particulier nous les Pasteurs, comme l’écrivait saint Cyprien: «Nous devons retenir cette unité et la revendiquer fermement, surtout nous, les évêques, qui présidons dans l’Eglise, afin de montrer que l’épiscopat est également un et indivisible» (De Ecclesiae Catholicae Unitate, n. 5). Dans l’unique Peuple de Dieu, nous cheminons donc ensemble, pour faire l’expérience d’une Eglise qui reçoit et qui vit le don de l’unité et s’ouvre à la voix de l’Esprit.
Les mots clés du Synode sont au nombre de trois: communion, participation, mission. Communion et mission sont des expressions théologiques qui désignent le mystère de l’Eglise et dont il est bon de faire mémoire. Le Concile Vatican II a précisé que la communion exprime la nature même de l’Eglise et a affirmé en même temps que l’Eglise a reçu «la mission d’annoncer le Royaume du Christ et de Dieu et de l’instaurer dans toutes les nations, formant de ce Royaume le germe et le commencement sur la terre» (Lumen gentium, n. 5). A travers ces deux mots l’Eglise contemple et imite la vie de la Sainte Trinité, mystère de communion ad intra et source de mission ad extra. Après le temps des réflexions doctrinales, théologiques et pastorales qui ont caractérisé la réception de Vatican II, saint Paul VI a voulu condenser précisément dans ces deux mots – communion et mission – «les grandes lignes, énoncées par le Concile». Commémorant son ouverture, il affirma en effet que les lignes générales avaient été «la communion, c’est-à-dire la cohésion et la plénitude intérieure, dans la grâce, dans la vérité, dans la collaboration [...] et la mission, c’est-à-dire l’engagement apostolique dans le monde contemporain» (Angélus, 11 octobre 1970), qui n’est pas prosélytisme.
En clôturant le Synode de 1985, vingt ans après la fin de l’assemblée conciliaire, saint Jean-Paul II a aussi souhaité redire que la koinonia est la nature de l’Eglise: c’est d’elle que jaillit sa mission d’être le signe de l’union intime de la famille humaine avec Dieu. Il ajoutait: «Il convient, par-dessus tout, que l’on célèbre dans l’Eglise des Synodes ordinaires et, si nécessaire, extraordinaires». Pour porter du fruit, ceux-ci doivent être bien préparés: «Il faut donc que les Eglises locales travaillent à leur préparation, avec la participation de tous» (Discours de conclusion de la 2ème assemblée extraordinaire du Synode des Evêques, 7 décembre 1985). Voici donc la troisième parole: participation. Communion et mission risquent de rester des termes un peu abstraits si l’on ne cultive pas une pratique ecclésiale qui exprime la réalité concrète de la synodalité, à chaque étape du chemin et du travail, favorisant l'implication effective de tous et de chacun. Je souhaite affirmer que célébrer un Synode est toujours une chose belle et importante, mais celui-ci ne porte réellement de fruits que s’il devient l’expression vivante de l’être de l’Eglise, dans un agir caractérisé par une vraie participation.
Ce n’est pas là une exigence de style, mais de foi: la participation est une exigence de la foi baptismale. Comme l’affirme l’apôtre Paul: «C’est dans un unique Esprit, en effet, que (…) nous avons été baptisés pour former un seul corps» (1Co 12, 13). Voilà bien la seule origine dans le corps ecclésial: le Baptême. C’est de lui, notre source de vie, que découle l’égale dignité des enfants de Dieu, dans la diversité des ministères et des charismes. C’est pourquoi, tous sont appelés à participer à la vie de l’Eglise et à sa mission. S’il manque une réelle participation de tout le Peuple de Dieu, les discours sur la communion risquent de n’être que de pieuses intentions. Sur cet aspect, nous avons fait des progrès, mais il y a encore des difficultés, et il faut bien constater les désagréments et la souffrance de beaucoup de travailleurs pastoraux, d’organismes de participation des diocèses et des paroisses, de femmes qui sont encore souvent à la marge. Tous doivent participer: c’est un engagement ecclésial indispensable! Tous les baptisés, la carte d’identité, c’est le Baptême.
Le Synode, alors qu’il nous offre une grande opportunité de conversion pastorale missionnaire et œcuménique, n’est pas exempt de certains risques. J’en cite trois. Le premier est celui du formalisme. Il est possible de réduire le Synode à un évènement extraordinaire, mais de façade, un peu comme si l’on restait à regarder la belle façade d’une église sans jamais y mettre les pieds. Le Synode est au contraire le parcours d’un effectif discernement spirituel, que nous n’entreprenons pas pour donner une belle image de nous-mêmes mais pour mieux collaborer à l’œuvre de Dieu dans l’histoire. Ainsi, lorsque l’on parle d’une Eglise synodale, nous ne pouvons pas nous contenter de la forme, mais nous avons aussi besoin de substance, d’instruments et de structures qui favorisent le dialogue et les interactions dans le Peuple de Dieu, particulièrement entre prêtres et laïcs. Pourquoi j'insiste là-dessus ? Car il y a parfois un certain élitisme dans l'ordre presbytéral qui le fait se détacher des laïcs ; et le prêtre devient finalement le "patron de la baraque" et non le pasteur de toute une Église qui va de l’avant.
Cela exige de transformer certaines visions verticales, déformées et partielles de l’Eglise, du ministère presbytéral, du rôle des laïcs, des responsabilités ecclésiales, des rôles de gouvernement, et ainsi de suite.
Un second risque est celui de l'intellectualisme – l’abstraction, la réalité va par-là et nous avec nos réflexion nous allons d’un autre côté : faire du Synode une sorte de groupe d'étude, avec des interventions cultivées mais abstraites sur les problèmes de l'Église et sur les maux du monde ; une sorte de "parler de soi", où l'on procède de manière superficielle et mondaine, pour finir par retomber dans les classifications stériles idéologiques et partisanes habituelles, et se détacher de la réalité du Peuple saint de Dieu, de la vie concrète des communautés dispersées à travers le monde.
Enfin, il peut y avoir la tentation de l'immobilisme : puisqu’ « on a toujours fait ainsi » (Exhortation apostolique Evangelii gaudium, n. 33), – cette parole est un venin dans la vie de l’Eglise, «on a toujours fait comme ça» –, il vaut mieux ne pas changer. Quiconque se meut dans cet horizon, sans même s'en rendre compte, tombe dans l'erreur de ne pas prendre au sérieux le temps dans lequel nous vivons. Le risque est de finir par adopter d'anciennes solutions pour de nouveaux problèmes: un morceau de tissu rugueux qui finit par créer une déchirure pire encore (cf. Mt 9, 16). C’est pourquoi il est important que le Chemin synodal soit vraiment ainsi: un processus en mouvement ; qu’il implique, en différentes phases et en partant du bas, les Églises locales dans un travail passionné et incarné; qu’il imprime un style de communion et de participation marqué par la mission.
Vivons donc cette occasion de rencontre, d'écoute et de réflexion comme un temps de grâce qui, frères et sœurs, un temps de grâce qui, dans la joie de l'Evangile, nous permet de saisir au moins trois opportunités. La première est de s’orienter non pas occasionnellement mais structurellement vers une Église synodale : un lieu ouvert où chacun se sent chez lui et peut participer. Le Synode nous offre aussi l'opportunité de devenir Église de l'écoute : faire une pause dans nos rythmes, réfréner nos angoisses pastorales pour s'arrêter et écouter. Écouter l'Esprit dans l'adoration et la prière. Comme la prière d'adoration nous manque aujourd'hui ! Beaucoup ont perdu non seulement l'habitude, mais aussi la notion de ce que signifie adorer. Ecouter les frères et sœurs sur les espérances et les crises de la foi dans les différentes régions du monde, sur les besoins urgents de renouveler la vie pastorale, sur les signaux qui émergent des réalités locales. Enfin, nous avons la possibilité de devenir une Église de proximité. Revenons toujours au style de Dieu : le style de Dieu est proximité, compassion et tendresse. Dieu a toujours travaillé ainsi. Si nous n'arrivons pas à cette Église de proximité avec des attitudes de compassion et de tendresse, nous ne serons pas l'Église du Seigneur.
Et cela, non seulement en paroles, mais grâce à la présence, afin que s’établissent des liens plus étroits d'amitié avec la société et le monde : une Église qui ne se sépare pas de la vie mais qui prend en charge les fragilités et les pauvretés de notre temps, soignant les blessures et guérissant les cœurs brisés avec le baume de Dieu. N’oublions pas que le style de Dieu doit nous aider: proximité, compassion et tendresse.
Chers frères et sœurs, que ce Synode soit habité par l'Esprit ! Car nous avons besoin de l'Esprit, le souffle toujours nouveau de Dieu qui nous libère de toute fermeture, qui fait revivre ce qui est mort, qui brise les chaînes et répand la joie. Le Saint-Esprit est Celui qui nous guide là où Dieu veut, et non pas là où nos idées et nos goûts personnels nous conduiraient. Le Père Congar, de sainte mémoire, rappelait : « Il ne faut pas construire une autre Eglise, il faut construire une Eglise différente » (Vraie et fausse réforme dans l'Eglise, Milan, 1994, 1939). Et c’est là le défi. Pour une “Église différente”, ouverte à la nouveauté que Dieu veut lui suggérer, invoquons l'Esprit plus souvent et avec plus de force et écoutons-le humblement, en marchant ensemble, comme il le désire, lui le créateur de la communion et de la mission c’est-à-dire avec docilité et courage.
Viens, Esprit-Saint. Toi qui suscites de nouvelles langues et mets des paroles de vie sur nos lèvres, préserve-nous de devenir une Église-musée, belle mais silencieuse, avec un grand passé mais peu d'avenir. Viens parmi nous, pour que dans l'expérience synodale, nous ne nous laissions pas envahir par le désenchantement, que nous n'édulcorions pas la prophétie, que nous ne réduisions pas tout à des discussions stériles. Viens, Esprit Saint d’amour, ouvre nos cœurs à l’écoute. Viens, Esprit de sainteté, renouvelle le Peuple fidèle de Dieu. Viens, Esprit créateur, renouvelle la face de la terre. Amen.
[01384-FR.02] [Texte original: Italien]
Traduzione in lingua inglese
Dear brothers and sisters,
Thank you for being here for the opening of the Synod. You have come by many different roads and from different Churches, each bearing your own questions and hopes. I am certain the Spirit will guide us and give us the grace to move forward together, to listen to one another and to embark on a discernment of the times in which we are living, in solidarity with the struggles and aspirations of all humanity. I want to say again that the Synod is not a parliament or an opinion poll; the Synod is an ecclesial event and its protagonist is the Holy Spirit. If the Spirit is not present, there will be no Synod.
May we experience this Synod in the spirit of Jesus’ fervent prayer to the Father on behalf of his disciples: “that they may all be one” (Jn 17:21). This is what we are called to: unity, communion, the fraternity born of the realization that all of us are embraced by the one love of God. All of us, without distinction, and in particular those of us who are bishops. As Saint Cyprian wrote: “We must maintain and firmly uphold this unity, above all ourselves, the bishops who preside in the Church, in order to demonstrate that the episcopate is itself one and undivided” (De Ecclesiae Catholicae Unitate, 5). In the one People of God, therefore, let us journey together, in order to experience a Church that receives and lives this gift of unity, and is open to the voice of the Spirit.
The Synod has three key words: communion, participation and mission. Communion and mission are theological terms describing the mystery of the Church, which we do well to keep in mind. The Second Vatican Council clearly taught that communion expresses the very nature of the Church, while pointing out that the Church has received “the mission of proclaiming and establishing among all peoples the kingdom of Christ and of God, and is, on earth, the seed and beginning of that kingdom” (Lumen Gentium, 5). With those two words, the Church contemplates and imitates the life of the Blessed Trinity, a mystery of communion ad intra and the source of mission ad extra. In the wake of the doctrinal, theological and pastoral reflections that were part of the reception of Vatican II, Saint Paul VI sought to distil in those two words – communion and mission – “the main lines enunciated by the Council”. Commemorating the opening of the Council, he stated that its main lines were in fact “communion, that is, cohesion and interior fullness, in grace, truth and collaboration… and mission, that is, apostolic commitment to the world of today” (Angelus of 11 October 1970), which is not the same as proselytism.
In 1985, at the conclusion of the Synod marking the twentieth anniversary of the close of the Council, Saint John Paul II also reiterated that the Church’s nature is koinonia, which gives rise to her mission of serving as a sign of the human family’s intimate union with God. He went on to say: “It is most useful that the Church celebrate ordinary, and on occasion, also extraordinary synods”. These, if they are to be fruitful, must be well prepared: “it is necessary that the local Churches work at their preparation with the participation of all” (Address at the Conclusion of the II Extraordinary Assembly of the Synod of Bishops, 7 December 1985). And this brings us to our third word: participation. The words “communion” and “mission” can risk remaining somewhat abstract, unless we cultivate an ecclesial praxis that expresses the concreteness of synodality at every step of our journey and activity, encouraging real involvement on the part of each and all. I would say that celebrating a Synod is always a good and important thing, but it proves truly beneficial if it becomes a living expression of “being Church”, of a way of acting marked by true participation.
This is not a matter of form, but of faith. Participation is a requirement of the faith received in baptism. As the Apostle Paul says, “in the one Spiritwe were all baptized into one body” (1 Cor 12:13). In the Church, everything starts with baptism. Baptism, the source of our life, gives rise to the equal dignity of the children of God, albeit in the diversity of ministries and charisms. Consequently, all the baptized are called to take part in the Church’s life and mission. Without real participation by the People of God, talk about communion risks remaining a devout wish. In this regard, we have taken some steps forward, but a certain difficulty remains and we must acknowledge the frustration and impatience felt by many pastoral workers, members of diocesan and parish consultative bodies and women, who frequently remain on the fringes. Enabling everyone to participate is an essential ecclesial duty! All the baptized, for baptism is our identity card.
The Synod, while offering a great opportunity for a pastoral conversion in terms of mission and ecumenism, is not exempt from certain risks. I will mention three of these. The first is formalism. The Synod could be reduced to an extraordinary event, but only externally; that would be like admiring the magnificent facade of a church without ever actually stepping inside. The Synod, on the other hand, is a process of authentic spiritual discernment that we undertake, not to project a good image of ourselves, but to cooperate more effectively with the work of God in history. If we want to speak of a synodal Church, we cannot remain satisfied with appearances alone; we need content, means and structures that can facilitate dialogue and interaction within the People of God, especially between priests and laity. Why do I insist on this? Because sometimes there can be a certain elitism in the presbyteral order that detaches it from the laity; the priest ultimately becomes more a “landlord” than a pastor of a whole community as it moves forward. This will require changing certain overly vertical, distorted and partial visions of the Church, the priestly ministry, the role of the laity, ecclesial responsibilities, roles of governance and so forth.
A second risk is intellectualism. Reality turns into abstraction and we, with our reflections, end up going in the opposite direction. This would turn the Synod into a kind of study group, offering learned but abstract approaches to the problems of the Church and the evils in our world. The usual people saying the usual things, without great depth or spiritual insight, and ending up along familiar and unfruitful ideological and partisan divides, far removed from the reality of the holy People of God and the concrete life of communities around the world.
Finally, the temptation of complacency, the attitude that says: “We have always done it this way” (Evangelii Gaudium, 33) and it is better not to change. That expression – “We have always done it that way” – is poison for the life of the Church. Those who think this way, perhaps without even realizing it, make the mistake of not taking seriously the times in which we are living. The danger, in the end, is to apply old solutions to new problems. A patch of rough cloth that ends up creating a worse tear (cf. Mt 9:16). It is important that the synodal process be exactly this: a process of becoming, a process that involves the local Churches, in different phases and from the bottom up, in an exciting and engaging effort that can forge a style of communion and participation directed to mission.
And so, brothers and sisters, let us experience this moment of encounter, listening and reflection as a season of grace that, in the joy of the Gospel, allows us to recognize at least three opportunities. First, that of moving not occasionally but structurally towards a synodal Church, an open square where all can feel at home and participate. The Synod then offers us the opportunity to become a listening Church, to break out of our routine and pause from our pastoral concerns in order to stop and listen. To listen to the Spirit in adoration and prayer. Today how much we miss the prayer of adoration; so many people have lost not only the habit but also the very notion of what it means to worship God! To listen to our brothers and sisters speak of their hopes and of the crises of faith present in different parts of the world, of the need for a renewed pastoral life and of the signals we are receiving from those on the ground. Finally, it offers us the opportunity to become a Church of closeness. Let us keep going back to God’s own “style”, which is closeness, compassion and tender love. God has always operated that way. If we do not become this Church of closeness with attitudes of compassion and tender love, we will not be the Lord’s Church. Not only with words, but by a presence that can weave greater bonds of friendship with society and the world. A Church that does not stand aloof from life, but immerses herself in today’s problems and needs, bandaging wounds and healing broken hearts with the balm of God. Let us not forget God’s style, which must help us: closeness, compassion and tender love.
Dear brothers and sisters, may this Synod be a true season of the Spirit! For we need the Spirit, the ever new breath of God, who sets us free from every form of self-absorption, revives what is moribund, loosens shackles and spreads joy. The Holy Spirit guides us where God wants us to be, not to where our own ideas and personal tastes would lead us. Father Congar, of blessed memory, once said: “There is no need to create another Church, but to create a different Church” (True and False Reform in the Church). That is the challenge. For a “different Church”, a Church open to the newness that God wants to suggest, let us with greater fervour and frequency invoke the Holy Spirit and humbly listen to him, journeying together as he, the source of communion and mission, desires: with docility and courage.
Come, Holy Spirit! You inspire new tongues and place words of life on our lips: keep us from becoming a “museum Church”, beautiful but mute, with much past and little future. Come among us, so that in this synodal experience we will not lose our enthusiasm, dilute the power of prophecy, or descend into useless and unproductive discussions. Come, Spirit of love, open our hearts to hear your voice! Come, Holy Spirit of holiness, renew the holy and faithful People of God! Come, Creator Spirit, renew the face of the earth! Amen.
[01384-EN.02] [Original text: Italian]
Traduzione in lingua tedesca
Liebe Brüder und Schwestern,
danke, dass ihr hier seid zur Eröffnung der Synode. Von so vielen Wegen und Kirchen seid ihr gekommen; jeder von euch trägt in seinem Herzen Fragen und Hoffnungen, und ich bin sicher, dass der Geist uns führen und uns die Gnade geben wird, gemeinsam voranzuschreiten, einander zuzuhören und eine Unterscheidung in unserer Zeit zu beginnen, und mit den Problemen und Wünschen der Menschheit solidarisch zu werden. Ich betone, dass die Synode kein Parlament ist, dass die Synode keine Meinungsumfrage ist; die Synode ist ein kirchliches Ereignis und der Protagonist der Synode ist der Heilige Geist. Ohne den Heiligen Geist gibt es keine Synode.
Begehen wir diese Synode im Geiste jenes Gebetes, das Jesus für die Seinen an den Vater richtete: »Alle sollen eins sein« (Joh 17,21). Dazu sind wir gerufen: zur Einheit, zur Gemeinschaft, zur Geschwisterlichkeit, die entsteht, wenn wir uns von der einen Liebe Gottes umarmt fühlen. Das gilt unterschiedslos für alle, besonders für uns Hirten, wie der heilige Cyprian schrieb: »Diese Einheit müssen wir unerschütterlich festhalten und verteidigen, vor allem wir Bischöfe, die wir in der Kirche den Vorsitz haben, damit wir auch das Bischofsamt selbst als ein einziges und ungeteiltes erweisen« (De Ecclesiae Catholicae Unitate, 5). Lasst uns also als das eine Volk Gottes gemeinsam unterwegs sein, um die Erfahrung einer Kirche zu machen, die die Gabe der Einheit empfängt und lebt und sich der Stimme des Geistes öffnet.
Die Schlüsselworte der Synode sind drei: Gemeinschaft, Partizipation und Mission. Gemeinschaft und Mission sind theologische Ausdrücke, die das Geheimnis der Kirche bezeichnen und die es wert sind, dass sie sich immer wieder ins Gedächtnis ruft. Das Zweite Vatikanische Konzil hat deutlich gemacht, dass die Gemeinschaft das Wesen der Kirche selbst zum Ausdruck bringt, und gleichzeitig bekräftigt, dass die Kirche die Sendung erhalten hat, »das Reich Christi und Gottes anzukündigen und in allen Völkern zu begründen. So stellt sie Keim und Anfang dieses Reiches auf Erden dar« (Lumen gentium, 5). Mit diesen beiden Worten betrachtet und imitiert die Kirche das Leben der Allerheiligsten Dreifaltigkeit, die ad intra Geheimnis der Gemeinschaft und ad extra Ursprung der Mission ist. Nach einer Zeit lehrmäßigen, theologischen und pastoralen Nachdenkens, die die Rezeption des Zweiten Vatikanischen Konzils kennzeichneten, wollte Paul VI. »die vom Konzil verkündeten Hauptlinien« in eben diesen beiden Worten – Gemeinschaft und Mission – zusammenfassen. Im Gedenken an die Eröffnung des Konzils sagte er, die Grundlinien seien »die Gemeinschaft, das heißt der Zusammenhalt und die innere Fülle in Gnade, Wahrheit und Zusammenarbeit [...] und die Sendung, das heißt der apostolische Einsatz in der Welt von heute« (Angelus, 11. Oktober 1970), was etwas anderes ist als Proselytismus.
Zum Abschluss der Synode von 1985, zwanzig Jahre nach Abschluss des Konzils, wollte Johannes Paul II. noch einmal darauf hinweisen, dass das Wesen der Kirche die koinonia ist: Aus ihr ergibt sich die Sendung, Zeichen der innigen Vereinigung der Menschheitsfamilie mit Gott zu sein. Und er fügte hinzu: »Deshalb ist es angebracht, dass in der Kirche ordentliche und – falls erforderlich – auch außerordentliche Synoden abgehalten werden«, die, um Früchte zu bringen, gut vorbereitet sein müssen: »d.h. es wäre sinnvoll, wenn in den Ortskirchen die Vorbereitungsarbeiten unter Beteiligung aller erfolgten (Ansprache bei der Schlussversammlung der Zweiten Außerordentlichen Bischofssynode, 7. Dezember 1985). Hier erscheint also das dritte Wort: Partizipation. Die Begriffe Gemeinschaft und Mission laufen Gefahr, ein wenig abstrakt zu bleiben, wenn man nicht eine kirchliche Praxis pflegt, die die Konkretheit der Synodalität in jedem Schritt des Weges und des Vorgehens zum Ausdruck bringt und die wirkliche Beteiligung eines jeden Einzelnen fördert. Ich möchte sagen, dass die Feier einer Synode immer schön und wichtig ist, aber sie ist erst dann wirklich fruchtbar, wenn sie zu einem lebendigen Ausdruck des Kircheseins wird, zu einem Handeln, das von echter Beteiligung geprägt ist.
Und das ist so, nicht aus Gründen des Stils, sondern des Glaubens. Die Teilnahme ergibt sich notwendig aus dem Glauben an die Taufe. Wie der Apostel Paulus sagt: »Durch den einen Geist wurden wir in der Taufe alle in einen einzigen Leib aufgenommen« (1 Kor 12,13). Im Leib der Kirche nimmt alles hier seinen Ausgang – in der Taufe. Aus der Taufe, unserer Lebensquelle, leitet sich die gleiche Würde der Kinder Gottes ab, wenn auch in der Verschiedenheit der Ämter und Charismen. Deshalb sind alle aufgerufen, am Leben der Kirche und ihrer Sendung teilzunehmen. Wenn nicht das ganze Volk Gottes wirklich daran teilnimmt, besteht die Gefahr, dass die Rede von der Gemeinschaft nur eine fromme Absicht ist. Wir haben in diesem Bereich Fortschritte gemacht, aber es ist noch etwas mühsam, und wir können nicht umhin, das Unbehagen und das Leid vieler pastoraler Mitarbeiter, der partizipativen Organe in den Diözesen und Pfarreien, der Frauen, die oft noch am Rande stehen, zu registrieren. Die Teilnahme aller ist eine wesentliche kirchliche Verpflichtung! Aller Getauften. Das ist der Personalausweis: die Taufe.
Die Synode bietet uns zwar eine große Chance für eine pastorale Umkehr in einem missionarischen und auch ökumenischen Sinne, ist aber nicht frei von gewissen Risiken. Ich möchte drei von ihnen nennen. Die erste ist die des Formalismus. Man kann eine Synode auf ein außergewöhnliches, aber doch äußerliches Ereignis reduzieren, so als würde man eine schöne Kirchenfassade betrachten, ohne jemals einen Fuß in die Kirche hineinzusetzen. Die Synode hingegen ist ein Weg echter geistlicher Unterscheidung, den wir nicht beschreiten, um ein gutes Bild von uns selbst abzugeben, sondern um besser am Werk Gottes in der Geschichte mitzuwirken. Wenn wir also von einer synodalen Kirche sprechen, dürfen wir uns nicht mit der Form zufriedengeben, sondern brauchen auch Substanz, Instrumente und Strukturen, die den Dialog und die Interaktion innerhalb des Gottesvolkes fördern, insbesondere zwischen Priestern und Laien. Warum betone ich das? Weil es im Priesterstand manchmal ein gewisses elitäres Gehabe gibt, das ihn von den Laien trennt; und der Priester ist am Ende der „Herr im Haus“ und nicht der Hirte einer Kirche, die als Ganze voranschreitet. Dies erfordert eine Veränderung bestimmter „von oben herab“ gerichteter, verzerrter und einseitiger Vorstellungen von der Kirche, dem priesterlichen Dienst, der Rolle der Laien, der kirchlichen Verantwortung, der Leitungsfunktion usw.
Ein zweites Risiko ist das des Intellektualismus – der Abstraktion, d.h. die Wirklichkeit geht in eine Richtung und unsere Gedanken gehen ganz woanders hin: das macht die Synode zu einer Art Studiengruppe mit gelehrten, aber abstrakten Vorträgen über die Probleme der Kirche und die Übel der Welt; eine Form von Redeüberfluss, wo man auf oberflächliche und weltliche Weise vorgeht, um schließlich den üblichen sterilen ideologischen und parteilichen Einteilungen zu verfallen und sich dabei von der Wirklichkeit des heiligen Volkes Gottes zu lösen, vom konkreten Leben der über die Welt verteilten Gemeinschaften.
Schließlich kann es die Versuchung der Immobilität geben: Da »es immer so gemacht wurde« (Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium, 33) – dieses Wort ist ein Gift im Leben der Kirche, „so hat man das immer schon gemacht“ –, ändert man besser nichts. Wer sich in diesem Horizont bewegt, gerät, auch ohne es zu bemerken, in den Irrtum, die Zeit nicht ernst zu nehmen, in der wir leben. Das Risiko besteht, dass am Ende alte Lösungen für neue Probleme angewendet werden: ein Zusammenflicken mit neuem Stoff, woraus am Ende ein noch schlimmerer Riss entsteht (vgl. Mt 9,16). Daher ist es wichtig, dass der Synodale Weg wirklich ein solcher ist, dass er ein Prozess im Entstehen ist; er möge von unten ausgehen und in verschiedenen Phasen die Ortskirchen in eine leidenschaftliche und konkrete Arbeit einbeziehen, die einen Stil der Gemeinschaft und der Partizipation prägt, der auf die Mission ausgerichtet ist.
Leben wir also diese Gelegenheit der Begegnung, des Zuhörens und der Reflexion als eine Zeit der Gnade, Brüder und Schwestern, eine Zeit der Gnade, die uns in der Freude des Evangeliums ermöglichen möge, wenigstens drei Chancen zu nutzen. Die erste besteht darin, uns nicht nur gelegentlich, sondern strukturell auf den Weg hin zu einer synodalen Kirche zu machen: ein offener Ort, wo sich alle zu Hause fühlen und teilhaben können. Die Synode bietet uns sodann die Chance, eine hörende Kirche zu werden: eine Pause von unseren Abläufen einzulegen, unsere pastoralen Ängste abzustellen, um beim Zuhören zu verweilen: in der Anbetung und im Gebet auf den Geist zu hören. Wie sehr fehlt uns heute die Anbetung! Viele haben sie sich nicht nur abgewöhnt, sondern wissen gar nicht mehr, was „anbeten“ bedeutet. Auch die Brüder und Schwestern in den Hoffnungen und in den Glaubenskrisen der verschiedenen Regionen der Welt anhören, was die dringlichen Fragen der Erneuerung des pastoralen Lebens betrifft und die Zeichen, die von der Wirklichkeit vor Ort ausgehen. Schließlich haben wir die Chance, eine Kirche der Nähe zu werden. Kehren wir immer zum Stil Gottes zurück: Der Stil Gottes ist Nähe, Mitleid und Zärtlichkeit. Gott hat immer auf diese Weise gewirkt. Wenn wir nicht mit einer Haltung von Mitgefühl und Zärtlichkeit dahinkommen, eine solche Kirche der Nähe zu werden, sind wir nicht die Kirche des Herrn. Und dies darf nicht nur mit Worten geschehen, sondern durch Präsenz, so dass sich stärkere Bande der Freundschaft mit der Gesellschaft und der Welt bilden: eine Kirche, die sich nicht vom Leben trennt, sondern sich der Zerbrechlichkeit und Armut unserer Zeit annimmt, um die Wunden zu behandeln und die niedergeschlagenen Herzen mit dem Balsam Gottes wiederherzustellen. Vergessen wir nicht den Stil Gottes, der uns dabei helfen muss: Nähe, Mitleid und Zärtlichkeit.
Liebe Brüder und Schwestern, diese Synode möge eine Zeit sein, die vom Geist erfüllt ist! Denn wir bedürfen des Geistes, des immer neuen Atems Gottes, der von jeder Verschließung befreit, das Tote wiederbelebt, die Ketten löst, die Freude verbreitet. Der Heilige Geist ist derjenige, der uns dorthin führt, wohin Gott will und nicht wohin uns unsere Ideen und unsere persönlichen Vorlieben bringen würden. Pater Congar – Gott habe ihn selig – erinnerte daran: »Man muss nicht eine andere Kirche machen, man muss eine Kirche machen, die verschieden ist« (Vraie et fausse réforme dans l'Église, Paris 1950). Darin besteht die Herausforderung. Rufen wir inständiger und häufiger den Geist um eine Kirche an, »die verschieden ist«, die für die Neuheit offen ist, die Gott ihr eingeben will, und hören wir ihm demütig zu, gehen wir zusammen folgsam und mutig, wie er, der Schöpfer der Gemeinschaft und der Mission, es wünscht.
Komm, Heiliger Geist, der du neue Sprachen erweckst und Worte des Lebens auf die Lippen legst, bewahre uns davor, eine museale Kirche zu werden, die schön, aber stumm ist, die viel Vergangenheit, aber wenig Zukunft besitzt. Komm unter uns, auf dass wir uns in der synodalen Erfahrung nicht von Ernüchterung überwältigen lassen, die Prophetie nicht verwässern, nicht darin enden, alles auf unfruchtbare Diskussionen zu reduzieren. Komm, Heiliger Geist der Liebe, öffne unsere Herzen für das Hören. Komm, Geist der Heiligkeit, erneuere das heilige und gläubige Volk Gottes. Komm, Schöpfer Geist, erneure das Angesicht der Erde. Amen.
[01381-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]
Traduzione in lingua spagnola
Queridos hermanos y hermanas:
Gracias por estar aquí, en la apertura del Sínodo. Han venido por muchos caminos y de muchas Iglesias, llevando cada uno en el corazón preguntas y esperanzas, y estoy seguro de que el Espíritu nos guiará y nos dará la gracia para seguir adelante juntos, para escucharnos recíprocamente y para comenzar un discernimiento en nuestro tiempo, siendo solidarios con las fatigas y los deseos de la humanidad. Reitero que el Sínodo no es un parlamento, que el Sínodo no es un sondeo de las opiniones; el Sínodo es un momento eclesial, y el protagonista del Sínodo es el Espíritu Santo. Si no está el Espíritu, no habrá Sínodo.
Vivamos este Sínodo en el espíritu de la oración que Jesús elevó al Padre con vehemencia por los suyos: «Que todos sean uno» (Jn 17,21). Estamos llamados a la unidad, a la comunión, a la fraternidad que nace de sentirnos abrazados por el amor divino, que es único. Todos, sin distinciones, y en particular nosotros Pastores, como escribía san Cipriano: «Debemos mantener y defender firmemente esta unidad, sobre todo los obispos, que somos los que presidimos en la Iglesia, a fin de probar que el mismo episcopado es también uno e indiviso» (De Ecclesiae catholicae unitate, 5). Por eso, caminamos juntos en el único Pueblo de Dios, para hacer experiencia de una Iglesia que recibe y vive el don de la unidad, y que se abre a la voz del Espíritu.
Las palabras clave del Sínodo son tres: comunión, participación y misión. Comunión y misión son expresiones teológicas que designan el misterio de la Iglesia, y es bueno que hagamos memoria de ellas. El Concilio Vaticano II precisó que la comunión expresa la naturaleza misma de la Iglesia y, al mismo tiempo, afirmó que la Iglesia ha recibido «la misión de anunciar el reino de Cristo y de Dios e instaurarlo en todos los pueblos, y constituye en la tierra el germen y el principio de ese reino» (Lumen gentium, 5). La Iglesia, por medio de esas dos palabras, contempla e imita la vida de la Santísima Trinidad, misterio de comunión ad intra y fuente de misión ad extra. Después de un tiempo de reflexiones doctrinales, teológicas y pastorales que caracterizaron la recepción del Vaticano II, san Pablo VI quiso condensar precisamente en estas dos palabras —comunión y misión— «las líneas maestras, enunciadas por el Concilio». Conmemorando la apertura, afirmó en efecto que las líneas generales habían sido «la comunión, es decir, la cohesión y la plenitud interior, en la gracia, la verdad y la colaboración […], y la misión, que es el compromiso apostólico hacia el mundo contemporáneo» (Ángelus, 11 octubre 1970), que no es proselitismo.
Clausurando el Sínodo de 1985 —veinte años después de la conclusión de la asamblea conciliar—, también san Juan Pablo II quiso reafirmar que la naturaleza de la Iglesia es la koinonia; de ella surge la misión de ser signo de la íntima unión de la familia humana con Dios. Y añadía: «Es sumamente conveniente que en la Iglesia se celebren Sínodos ordinarios y, llegado el caso, también extraordinarios». Estos, para que sean fructíferos, tienen que estar bien preparados; «es preciso que en las Iglesias locales se trabaje en su preparación con la participación de todos» (Discurso en la clausura de la II Asamblea extraordinaria del Sínodo de los Obispos, 7 diciembre 1985). Esta es la tercera palabra, participación. Si no se cultiva una praxis eclesial que exprese la sinodalidad de manera concreta a cada paso del camino y del obrar, promoviendo la implicación real de todos y cada uno, la comunión y la misión corren el peligro de quedarse como términos un poco abstractos. Quisiera decir que celebrar un Sínodo siempre es hermoso e importante, pero es realmente provechoso si se convierte en expresión viva del ser Iglesia, de un actuar caracterizado por una participación auténtica.
Y esto no por exigencias de estilo, sino de fe. La participación es una exigencia de la fe bautismal. Como afirma el apóstol Pablo, «todos nosotros fuimos bautizados en un mismo Espíritu para formar un solo cuerpo» (1 Co 12,13). En el cuerpo eclesial, el único punto de partida, y no puede ser otro, es el Bautismo, nuestro manantial de vida, del que deriva una idéntica dignidad de hijos de Dios, aun en la diferencia de ministerios y carismas. Por eso, todos estamos llamados a participar en la vida y misión de la Iglesia. Si falta una participación real de todo el Pueblo de Dios, los discursos sobre la comunión corren el riesgo de permanecer como intenciones piadosas. Hemos avanzado en este aspecto, pero todavía nos cuesta, y nos vemos obligados a constatar el malestar y el sufrimiento de numerosos agentes pastorales, de los organismos de participación de las diócesis y las parroquias, y de las mujeres, que a menudo siguen quedando al margen. ¡La participación de todos es un compromiso eclesial irrenunciable! Todos los bautizados, este es el carné de identidad: el Bautismo.
El Sínodo, al mismo tiempo que nos ofrece una gran oportunidad para una conversión pastoral en clave misionera y también ecuménica, no está exento de algunos riesgos. Cito tres de ellos. El primero es el formalismo. Un Sínodo se puede reducir a un evento extraordinario, pero de fachada, como si nos quedáramos mirando la hermosa fachada de una iglesia, pero sin entrar nunca. En cambio, el Sínodo es un itinerario de discernimiento espiritual efectivo, que no emprendemos para dar una imagen bonita de nosotros mismos, sino para colaborar mejor con la obra de Dios en la historia. Por tanto, si hablamos de una Iglesia sinodal no podemos contentarnos con la forma, sino que necesitamos la sustancia, los instrumentos y las estructuras que favorezcan el diálogo y la interacción en el Pueblo de Dios, sobre todo entre los sacerdotes y los laicos. ¿Por qué subrayo esto? Porque a veces hay cierto elitismo en el orden presbiteral que lo hace separarse de los laicos; y el sacerdote al final se vuelve el “dueño del cotarro” y no el pastor de toda una Iglesia que sigue hacia adelante. Esto requiere que transformemos ciertas visiones verticalistas, distorsionadas y parciales de la Iglesia, del ministerio presbiteral, del papel de los laicos, de las responsabilidades eclesiales, de los roles de gobierno, entre otras.
Un segundo riesgo es el intelectualismo —es decir, la abstracción; la realidad va por un lado y nosotros con nuestras reflexiones vamos por otro—, convertir el Sínodo en una especie de grupo de estudio, con intervenciones cultas pero abstractas sobre los problemas de la Iglesia y los males del mundo; una suerte de “hablar por hablar”, donde se actúa de manera superficial y mundana, terminando por caer otra vez en las habituales y estériles clasificaciones ideológicas y partidistas, y alejándose de la realidad del Pueblo santo de Dios y de la vida concreta de las comunidades dispersas por el mundo.
Por último, puede surgir la tentación del inmovilismo. Es mejor no cambiar, puesto que «siempre se ha hecho así» (Exhort. apost. Evangelii gaudium, 33) —esta palabra es un veneno en la vida de la Iglesia, “siempre se ha hecho así”—. Quienes se mueven en este horizonte, aun sin darse cuenta, caen en el error de no tomar en serio el tiempo en que vivimos. El riesgo es que al final se adopten soluciones viejas para problemas nuevos; un pedazo de tela nueva, que como resultado provoca una rotura más grande (cf. Mt 9,16). Por eso, es importante que el camino sinodal lo sea realmente, que sea un proceso continuo; que involucre —en fases diversas y partiendo desde abajo— a las Iglesias locales, en un trabajo apasionado y encarnado, que imprima un estilo de comunión y participación marcado por la misión.
Por tanto, vivamos esta ocasión de encuentro, escucha y reflexión como un tiempo de gracia, hermanos y hermanas, un tiempo de gracia que, en la alegría del Evangelio, nos permita captar al menos tres oportunidades. La primera es la de encaminarnos no ocasionalmente sino estructuralmente hacia una Iglesia sinodal; un lugar abierto, donde todos se sientan en casa y puedan participar. El Sínodo también nos ofrece una oportunidad para ser Iglesia de la escucha, para tomarnos una pausa de nuestros ajetreos, para frenar nuestras ansias pastorales y detenernos a escuchar. Escuchar el Espíritu en la adoración y la oración. ¡Cuánto nos hace falta hoy la oración de adoración! Muchos han perdido no sólo la costumbre, sino también la noción de lo que significa adorar. Escuchar a los hermanos y hermanas acerca de las esperanzas y las crisis de la fe en las diversas partes del mundo, las urgencias de renovación de la vida pastoral y las señales que provienen de las realidades locales. Por último, tenemos la oportunidad de ser una Iglesia de la cercanía. Volvamos siempre al estilo de Dios, el estilo de Dios es cercanía, compasión y ternura. Dios siempre ha actuado así. Si nosotros no llegamos a ser esta Iglesia de la cercanía con actitudes de compasión y ternura, no seremos la Iglesia del Señor. Y esto no sólo con las palabras, sino con la presencia, para que se establezcan mayores lazos de amistad con la sociedad y con el mundo. Una Iglesia que no se separa de la vida, sino que se hace cargo de las fragilidades y las pobrezas de nuestro tiempo, curando las heridas y sanando los corazones quebrantados con el bálsamo de Dios. No olvidemos el estilo de Dios que nos ha de ayudar: la cercanía, la compasión y la ternura.
Queridos hermanos y hermanas, que este Sínodo sea un tiempo habitado por el Espíritu. Porque tenemos necesidad del Espíritu, del aliento siempre nuevo de Dios, que libera de toda cerrazón, revive lo que está muerto, desata las cadenas y difunde la alegría. El Espíritu Santo es Aquel que nos guía hacia donde Dios quiere, y no hacia donde nos llevarían nuestras ideas y nuestros gustos personales. El padre Congar, de santa memoria, recordaba: «No hay que hacer otra Iglesia, pero, en cierto sentido, hay que hacer una Iglesia otra, distinta» (Verdadera y falsa reforma en la Iglesia, Madrid 2014, 213). Y esto es un desafío. Por una “Iglesia distinta”, abierta a la novedad que Dios le quiere indicar, invoquemos al Espíritu con más fuerza y frecuencia, y dispongámonos a escucharlo con humildad, caminando juntos, tal como Él —creador de la comunión y de la misión— desea, es decir, con docilidad y valentía.
Ven, Espíritu Santo. Tú que suscitas lenguas nuevas y pones en los labios palabras de vida, líbranos de convertirnos en una Iglesia de museo, hermosa pero muda, con mucho pasado y poco futuro. Ven en medio nuestro, para que en la experiencia sinodal no nos dejemos abrumar por el desencanto, no diluyamos la profecía, no terminemos por reducirlo todo a discusiones estériles. Ven, Espíritu Santo de amor, dispón nuestros corazones a la escucha. Ven, Espíritu de santidad, renueva al santo Pueblo fiel de Dios. Ven, Espíritu creador, renueva la faz de la tierra. Amén.
[01384-ES.02] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua portoghese
Amados irmãos e irmãs!
Obrigado por estardes aqui na abertura do Sínodo. Percorrendo diversos caminhos, viestes de tantas Igrejas trazendo cada um no coração questões e esperanças; e tenho a certeza de que o Espírito nos guiará e concederá a graça de avançarmos em conjunto, de nos ouvirmos mutuamente e iniciarmos um discernimento no nosso tempo, tornando-nos solidários com as fadigas e os anseios da humanidade. Reitero que o Sínodo não é um parlamento, o Sínodo não é uma investigação sobre as opiniões; o Sínodo é um momento eclesial, e o protagonista do Sínodo é o Espírito Santo. Se não estiver o Espírito, não haverá Sínodo.
Vivamos este Sínodo no espírito da ardente oração que Jesus dirigiu ao Pai pelos seus: «Para que todos sejam um só» (Jo 17, 21). É a isto que somos chamados: à unidade, à comunhão, à fraternidade que nasce de nos sentirmos abraçados pelo único amor de Deus. Todos indistintamente, mas em particular nós, Pastores – assim escreve São Cipriano –, «devemos manter e reivindicar com firmeza esta unidade, sobretudo nós Bispos que temos a presidência na Igreja, para dar provas de que o próprio episcopado também é uno e indiviso» (De Ecclesiae Catholicae Unitate, 5). Por isso, no único Povo de Deus, caminhemos em conjunto para fazer a experiência duma Igreja que recebe e vive o dom da unidade e se abre à voz do Espírito.
As palavras-chave do Sínodo são três: comunhão, participação, missão. Comunhão e missão são expressões teológicas que designam – e é bom recordá-lo – o mistério da Igreja. O Concílio Vaticano II esclareceu que a comunhão exprime a própria natureza da Igreja e, ao mesmo tempo, afirmou que a Igreja recebeu «a missão de anunciar e instaurar o reino de Cristo e de Deus em todos os povos e constitui o germe e o princípio deste mesmo Reino na terra» (Lumen gentium, 5). Através destas duas palavras, a Igreja contempla e imita a vida da Santíssima Trindade, mistério de comunhão ad intra e fonte de missão ad extra. Depois dum tempo de reflexões doutrinais, teológicas e pastorais que caraterizaram a receção do Vaticano II, São Paulo VI quis condensar precisamente nestas duas palavras – comunhão e missão – «as linhas mestras, enunciadas pelo Concílio». Com efeito, ao comemorar a abertura do mesmo, afirmou que as linhas gerais foram «a comunhão, ou seja, a coesão e a plenitude interior, na graça, na verdade e na colaboração (…); e a missão, ou seja, o compromisso apostólico para com o mundo contemporâneo» (Angelus, 11/X/1970), que não é proselitismo.
Ao encerrar o Sínodo de 1985, vinte anos depois da conclusão da assembleia conciliar, também São João Paulo II quis reafirmar que a natureza da Igreja é a koinonia: dela brota a missão de ser sinal de união íntima da família humana com Deus. E acrescentou: «Convém sumamente que na Igreja se celebrem Sínodos ordinários e, se for necessário, também extraordinários», os quais, para dar fruto, devem ser bem preparados, «a saber, é preciso que nas Igrejas locais se trabalhe pela sua preparação com participação de todos» (Discurso de encerramento da II Assembleia Extraordinária do Sínodo dos Bispos, 07/XII/1985). E aqui temos a terceira palavra: participação. Comunhão e missão correm o risco de permanecer termos meio abstratos, se não se cultiva uma práxis eclesial que se exprima em ações concretas de sinodalidade em cada etapa do caminho e da atividade, promovendo o efetivo envolvimento de todos e cada um. Naturalmente celebrar um Sínodo é sempre bom e importante, mas só é verdadeiramente fecundo se se tornar expressão viva do ser Igreja, dum agir caraterizado por verdadeira participação.
E isto, não por exigências de estilo, mas de fé. A participação é uma exigência da fé batismal. De facto – como afirma o apóstolo Paulo – «num só Espírito, fomos todos batizados para formar um só corpo» (1 Cor 12, 13). O ponto de partida, no corpo eclesial, é este e mais nenhum: o Batismo. Dele, nossa fonte de vida, deriva a igual dignidade dos filhos de Deus, embora na diferença de ministérios e carismas. Por isso, todos somos chamados a participar na vida da Igreja e na sua missão. Se falta uma participação real de todo o Povo de Deus, os discursos sobre a comunhão arriscam-se a não passar de pias intenções. Neste aspeto, deram-se alguns passos em frente, mas sente-se ainda uma certa dificuldade e somos obrigados a registar o mal-estar e a tribulação de muitos agentes pastorais, dos organismos de participação das dioceses e paróquias, das mulheres que muitas vezes ainda são deixadas à margem. Participarem todos: é um compromisso eclesial irrenunciável! Para todos os batizados, este é o cartão de identidade: o Batismo.
Entretanto o Sínodo, ao mesmo tempo que nos proporciona uma grande oportunidade para a conversão pastoral em chave missionária e também ecuménica, não está isento de alguns riscos. Menciono três. O primeiro é o risco do formalismo. Pode-se reduzir um Sínodo a um evento extraordinário, mas de fachada, precisamente como se alguém ficasse a olhar a bela fachada duma igreja sem nunca entrar nela. Pelo contrário, o Sínodo é um percurso de efetivo discernimento espiritual, que não empreendemos para dar uma bela imagem de nós mesmos, mas a fim de colaborar melhor para a obra de Deus na história. Assim, quando falamos duma Igreja sinodal, não podemos contentar-nos com a forma, mas temos necessidade também de substância, instrumentos e estruturas que favoreçam o diálogo e a interação no Povo de Deus, sobretudo entre sacerdotes e leigos. Por que destaco isto? Porque às vezes há algum elitismo na ordem presbiteral, que a separa dos leigos; e, no fim, o padre torna-se o «patrão da barraca» e não o pastor de toda uma Igreja que está avançando. Isto requer a transformação de certas visões verticalizadas, distorcidas e parciais sobre a Igreja, o ministério presbiteral, o papel dos leigos, as responsabilidades eclesiais, as funções de governo, etc.
Um segundo risco é o do intelectualismo (da abstração, a realidade vai para um lado e nós, com as nossas reflexões, vamos para outro): transformar o Sínodo numa espécie de grupo de estudo, com intervenções cultas mas alheias aos problemas da Igreja e aos males do mundo; uma espécie de «falar por falar», onde se pensa de maneira superficial e mundana, acabando por cair nas habituais e estéreis classificações ideológicas e partidárias, e alheando-se da realidade do santo Povo de Deus, da vida concreta das comunidades espalhadas pelo mundo.
Por fim, pode haver a tentação do imobilismo: dado que «se fez sempre assim» (Francisco, Exort. ap. Evangelii gaudium, 33) – esta afirmação “fez-se sempre assim” é um veneno na vida da Igreja –, é melhor não mudar. Quem se move neste horizonte, mesmo sem se dar conta, cai no erro de não levar a sério o tempo que vivemos. O risco é que, no fim, se adotem soluções velhas para problemas novos: um remendo de pano cru, que acaba por criar um rasgão ainda maior (cf. Mt 9, 16). Por isso, é importante que o caminho sinodal seja verdadeiramente tal, que seja um processo em desenvolvimento; envolva, em diferentes fases e a partir da base, as Igrejas locais, num trabalho apaixonado e encarnado, que imprima um estilo de comunhão e participação orientado para a missão.
Vivamos, pois, esta ocasião de encontro, escuta e reflexão como um tempo de graça – sim, irmãos e irmãs, um tempo de graça – que nos ofereça, na alegria do Evangelho, pelo menos três oportunidades. A primeira é encaminhar-nos, não ocasionalmente, mas estruturalmente para uma Igreja sinodal: um lugar aberto, onde todos se sintam em casa e possam participar. Depois o Sínodo oferece-nos a oportunidade de nos tornarmos Igreja da escuta: fazer uma pausa dos nossos ritmos, controlar as nossas ânsias pastorais para pararmos a escutar. Escutar o Espírito na adoração e na oração. Como sentimos falta da oração de adoração hoje! Muitos perderam não só o hábito, mas também a noção do que significa adorar. Escutar os irmãos e as irmãs sobre as esperanças e as crises da fé nas diversas áreas do mundo, sobre as urgências de renovação da vida pastoral, sobre os sinais que provêm das realidades locais. Por fim, temos a oportunidade de nos tornarmos uma Igreja da proximidade. Sempre voltamos ao estilo de Deus: o estilo de Deus é proximidade, compaixão e ternura. Deus sempre agiu assim. Se não chegarmos a esta Igreja da proximidade com atitudes de compaixão e ternura, não seremos Igreja do Senhor. E isto não só em palavras, mas com a presença, de tal modo que se estabeleçam maiores laços de amizade com a sociedade e o mundo: uma Igreja que não se alheie da vida, mas cuide das fragilidades e pobrezas do nosso tempo, curando as feridas e sarando os corações dilacerados com o bálsamo de Deus. Não esqueçamos o estilo de Deus que nos deve ajudar: proximidade, compaixão e ternura.
Amados irmãos e irmãs, que este Sínodo seja um tempo habitado pelo Espírito! Pois é do Espírito que precisamos, da respiração sempre nova de Deus, que liberta de todo o fechamento, reanima o que está morto, solta as cadeias, espalha a alegria. O Espírito Santo é Aquele que nos guia para onde Deus quer, e não para onde nos levariam as nossas ideias e gostos pessoais. O Padre Congar, de santa memória, recordou: «Não é preciso fazer outra Igreja; é preciso fazer uma Igreja diferente» (Verdadeira e falsa reforma na Igreja, Milão 1994, 193). Este é o desafio. Por uma «Igreja diferente», aberta à novidade que Deus lhe quer sugerir, invoquemos com mais força e frequência o Espírito e coloquemo-nos humildemente à sua escuta, caminhando em conjunto, como Ele, criador da comunhão e da missão, deseja, isto é, com docilidade e coragem.
Vinde, Espírito Santo! Vós que suscitais línguas novas e colocais nos lábios palavras de vida, livrai-nos de nos tornarmos uma Igreja de museu, bela mas muda, com tanto passado e pouco futuro. Vinde estar connosco, para que na experiência sinodal não nos deixemos dominar pelo desencanto, não debilitemos a profecia, não acabemos por reduzir tudo a discussões estéreis. Vinde, Espírito Santo de amor, e abri os nossos corações para a escuta. Vinde, Espírito de santidade, e renovai o santo Povo fiel de Deus. Vinde, Espírito Criador, e renovai a face da terra. Amen.
[01384-PO.02] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua polacca
Drodzy bracia i siostry,
Dziękuję, że tu jesteście, na otwarciu Synodu. Przybyliście z tak wielu dróg i Kościołów, a każdy z was nosi w sercu pytania i nadzieje, i jestem pewien, że Duch Święty poprowadzi nas i da nam łaskę, abyśmy razem szli naprzód, abyśmy słuchali siebie nawzajem i rozpoczęli rozeznawanie w naszych czasach, jednocząc się z wysiłkami i pragnieniami ludzkości. Powtarzam, że Synod nie jest parlamentem, że Synod nie jest badaniem opinii; Synod jest momentem eklezjalnym, a protagonistą Synodu jest Duch Święty. Jeśli nie ma Ducha, nie będzie Synodu.
Przeżyjmy ten Synod w duchu modlitwy, którą Jezus zanosił do Ojca za swoich uczniów: „Aby wszyscy stanowili jedno” (J 17, 21). Do tego jesteśmy powołani: do jedności, do komunii, do braterstwa, które rodzi się z poczucia, że jesteśmy ogarnięci jedyną miłością Boga. Wszyscy, bez różnicy, a w szczególności my, pasterze, jak pisał św. Cyprian: „Powinniśmy mocno się trzymać tej jedności i jej bronić, a zwłaszcza będąc biskupami, którzy przewodzą w Kościele, abyśmy dowiedli, że także urząd biskupi jest jeden i ten sam oraz niepodzielony” (O jedności Kościoła, 5). W jednym ludzie Bożym idziemy więc razem, aby doświadczyć Kościoła, który otrzymuje i żyje darem jedności i otwiera się na głos Ducha.
Są trzy kluczowe słowa Synodu: komunia, uczestnictwo i misja. Komunia i misja są wyrażeniami teologicznymi, które określają tajemnicę Kościoła i które warto zapamiętać. Sobór Watykański II jasno stwierdził, że komunia wyraża samą naturę Kościoła, a jednocześnie potwierdził, że Kościół otrzymał „posłannictwo głoszenia i krzewienia królestwa Chrystusa i Boga wśród wszystkich narodów, i stanowi zalążek oraz zaczątek tego królestwa na ziemi” (Lumen gentium, 5). Są to dwa słowa, poprzez które Kościół kontempluje i naśladuje życie Trójcy Przenajświętszej, tajemnicę komunii ad intra i źródło misji ad extra. Po okresie refleksji doktrynalnej, teologicznej i duszpasterskiej, która charakteryzowała recepcję Vaticanum II, św. Paweł VI pragnął w tych dwóch słowach - komunia i misja - zawrzeć „główne kierunki sformułowane przez Sobór”. Wspominając otwarcie Soboru, powiedział, że główne linie przewodnie to „komunia, to znaczy spójność i wewnętrzna pełnia, w łasce, prawdzie i współpracy [...] oraz misja, to znaczy zaangażowanie apostolskie we współczesnym świecie” (Anioł Pański, 11 października 1970), które nie jest prozelityzmem.
Jan Paweł II, zamykając Synod w 1985 roku, dwadzieścia lat po zakończeniu zgromadzenia soborowego, pragnął również powtórzyć, że naturą Kościoła jest koinonia: z niej wypływa misja bycia znakiem wewnętrznego zjednoczenia rodziny ludzkiej z Bogiem. I dodaje: „Jest rzeczą jak najbardziej wskazaną, aby w Kościele odbywały się synody zwyczajne, a w razie potrzeby także nadzwyczajne”, które, aby przyniosły owoce, muszą być dobrze przygotowane: „trzeba, aby w Kościołach lokalnych pracowano nad ich przygotowaniem z udziałem wszystkich” (Przemówienie na zakończenie II Nadzwyczajnego Zgromadzenia Synodu Biskupów, 7 grudnia 1985 r.). Oto więc trzecie słowo: uczestnictwo. Komunia i misja mogą pozostać pojęciami nieco abstrakcyjnymi, jeśli nie będziemy pielęgnowali praktyki kościelnej, która wyraża konkretność synodalności na każdym etapie drogi i pracy, krzewiąc rzeczywiste zaangażowanie wszystkich i każdego. Chciałbym powiedzieć, że celebrowanie Synodu jest zawsze piękne i ważne, ale jest ono naprawdę owocne, jeśli staje się żywym wyrazem bycia Kościołem, działania nacechowanego prawdziwym uczestnictwem.
I to nie ze względu na wymogi stylu, lecz wiary. Uczestnictwo jest wymogiem wiary chrzcielnej. Jak mówi apostoł Paweł: „Wszyscyśmy bowiem w jednym Duchu zostali ochrzczeni, [aby stanowić] jedno Ciało” (1 Kor 12, 13). Punkt wyjścia, w ciele kościelnym, jest ten i żaden inny: chrzest. Z chrztu, który jest źródłem naszego życia, wypływa równa godność dzieci Bożych, chociaż w różnicy posług i charyzmatów. Z tego powodu wszyscy są wezwani do uczestnictwa w życiu Kościoła i jego misji. Jeśli brakuje prawdziwego uczestnictwa całego ludu Bożego, mówienie o komunii może pozostać tylko pobożnym życzeniem. Poczyniliśmy postępy w tej dziedzinie, ale nadal istnieją pewne trudności i jesteśmy zmuszeni odnotowywać kłopoty i cierpienie wielu pracowników duszpasterskich, organów partycypacyjnych diecezji i parafii, kobiet, które często nadal pozostają na marginesie. Wszyscy muszą uczestniczyć: jest to nieodzowne zaangażowanie kościelne! Wszyscy ochrzczeni, to jest dowód tożsamości: chrzest.
Choć Synod stwarza nam wielką szansę nawrócenia duszpasterskiego w kluczu misyjnym a także ekumenicznym, nie jest wolny od pewnych zagrożeń. Wspomnę o trzech z nich. Pierwszym z nich jest formalizm. Można sprowadzić Synod do wydarzenia nadzwyczajnego, ale fasadowego, tak jak byśmy patrzyli na piękną fasadę kościoła, nigdy nie wchodząc do jego wnętrza. Synod jest natomiast drogą prawdziwego rozeznania duchowego, którego nie podejmujemy po to, by dać dobry obraz samych siebie, ale po to, by lepiej współpracować w dziele Boga w dziejach. Dlatego, jeśli mówimy o Kościele synodalnym, nie możemy zadowalać się formą, ale potrzebujemy także treści, narzędzi i struktur, które sprzyjają dialogowi i interakcji wewnątrz ludu Bożego, zwłaszcza między kapłanami a świeckimi. Dlaczego to podkreślam? Ponieważ czasami w urzędzie kapłańskim jest pewna elitarność, która sprawia, że odrywa się on od świeckich; i kapłan ostatecznie staje się „panem szopy”, a nie pasterzem całego Kościoła, który idzie naprzód. Wymaga to przekształcenia pewnych centralistycznych, wypaczonych i fragmentarycznych wizji Kościoła, posługi kapłańskiej, roli świeckich, odpowiedzialności eklezjalnej, roli zarządzania i tak dalej...
Drugim zagrożeniem jest intelektualizm – abstrakcja, rzeczywistość idzie w tym kierunku, a my z naszymi refleksjami idziemy gdzie indziej – przekształcenie Synodu w rodzaj grupy studyjnej, z uczonymi, lecz abstrakcyjnymi wypowiedziami na temat problemów Kościoła i zła świata; w rodzaj „rozmowy o sobie”, gdzie postępujemy w sposób powierzchowny i światowy, popadając w końcu w jałowe klasyfikacje ideologiczne i partyjne, odrywając się od rzeczywistości Świętego Ludu Bożego, od konkretnego życia wspólnot rozproszonych po całym świecie.
Wreszcie, może pojawić się pokusa bezczynności: ponieważ „zawsze się tak robiło” (Adhort. apost. Evangelii gaudium, 33) – to słowo jest trucizną w życiu Kościoła, „zawsze się tak robiło”, lepiej nie zmieniać. Ci, którzy zmierzają w tym kierunku, nawet nie zdając sobie z tego sprawy, popełniają błąd polegający na niepoważnym traktowaniu czasu, w którym żyjemy. Ryzyko polega na tym, że w końcu dla nowych problemów przyjmuje się stare rozwiązania: łatę z surowego sukna, która w końcu tworzy jeszcze gorsze rozdarcie (por. Mt 9, 16). Z tego powodu ważne jest, aby Droga Synodalna była rzeczywiście taka, aby była procesem w trakcie tworzenia; aby angażowała, na różnych etapach i oddolnie Kościoły lokalne, w dzieło pełne fascynacji i ukonkretnione, które wyznacza styl komunii i uczestnictwa naznaczony misją.
Przeżyjmy zatem tę sposobność spotkania, słuchania i refleksji jako czas łaski, bracia i siostry, czas łaski, który w radości Ewangelii pozwoli nam wykorzystać co najmniej trzy szanse. Pierwszą z nich jest dążenie, nie sporadycznie, lecz strukturalnie, do Kościoła synodalnego: miejsca otwartego, gdzie wszyscy czują się jak w domu i mogą uczestniczyć. Synod daje nam zatem szansę stania się Kościołem słuchania: uczynienia pauzy w naszych rytmach, zatrzymania naszych duszpasterskich niepokojów, aby stanąć i słuchać. Słuchać Ducha na adoracji i w modlitwie. Jak bardzo brakuje nam dziś modlitwy adoracji! Wielu straciło nie tylko zwyczaj, ale nawet pojęcie tego, co oznacza adorować. Słuchać naszych braci i sióstr mówiących o nadziejach i kryzysach wiary w różnych częściach świata, o pilnej potrzebie odnowy życia duszpasterskiego, o sygnałach płynących z rzeczywistości lokalnych. Wreszcie, mamy szansę stać się Kościołem bliskości. Zawsze wracamy do stylu Bożego: Bożym stylem jest bliskość, współczucie i czułość. Bóg zawsze tak działał. Jeśli nie dojdziemy do tego Kościoła bliskości z postawą współczucia i czułości, nie będziemy Kościołem Pana. A to nie tylko słowem, ale i obecnością, tak aby tworzyć mocniejsze więzi przyjaźni ze społeczeństwem i światem: Kościołem, który nie odgradza się od życia, ale bierze na siebie kruchość i ubóstwo naszych czasów, lecząc rany i uzdrawiając zranione serca balsamem Boga. Nie zapominajmy o stylu Boga, który ma nam pomóc: bliskość, współczucie i czułość.
Drodzy bracia i siostry, niech ten Synod będzie czasem pełnym Ducha Świętego! Bo to Ducha potrzebujemy, nieustannie nowego tchnienia Boga, który uwalnia nas od wszelkiego zamknięcia, ożywia to, co martwe, rozluźnia kajdany i rozsiewa radość. Duch Święty jest tym, który prowadzi nas tam, gdzie Bóg chce, abyśmy poszli, a nie tam, gdzie zaprowadziłyby nas nasze osobiste idee i upodobania. Ojciec Congar, świętej pamięci, przypomniał nam: „Nie trzeba zmieniać Kościoła, natomiast trzeba zmienić coś w Kościele” (Prawdziwa i fałszywa reforma w Kościele, Kraków 2001, 260). To jest wyzwanie. Aby Kościół był „inny”, otwarty na nowość, którą chce mu zaproponować Bóg, przyzywajmy z większą mocą i częściej Ducha Świętego i pokornie Go słuchajmy, idąc razem, tak jak pragnie On, stwórca komunii i misji, to znaczy pojętni i odważni.
Przyjdź, Duchu Święty. Ty, który wzbudzasz nowe języki i wkładasz na nasze usta słowa życia, zachowaj nas, abyśmy nie stawali się Kościołem-muzeum, pięknym, lecz niemym, z tak wielką przeszłością i tak małą przyszłością. Przyjdź między nas, abyśmy w doświadczeniu synodalnym nie dali się ogarnąć rozczarowaniu, nie osłabili proroctwa, nie sprowadzili wszystkiego do jałowych dyskusji. Przyjdź, Święty Duchu miłości, otwórz nasze serca na słuchanie. Przyjdź, Duchu świętości, odnów święty wierny lud Boży. Przyjdź, Duchu Stworzycielu, i odnów oblicze ziemi. Amen
[01384-PL.02] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua araba
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[01384-AR.02] [Testo originale: Italiano]
[B0648-XX.02]