Sala Stampa

www.vatican.va

Sala Stampa Back Top Print Pdf
Sala Stampa


Santa Messa con i partecipanti all’Assemblea Plenaria del Consiglio delle Conferenze Episcopali di Europa (C.C.E.E.), 23.09.2021


Omelia del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Traduzione in lingua araba

Alle ore 17.00 di questo pomeriggio, nella Basilica di San Pietro, il Santo Padre Francesco ha celebrato la Santa Messa con i partecipanti all’Assemblea Plenaria del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (C.C.E.E.), in occasione del 50° della sua istituzione.

Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa ha pronunciato nel corso della Celebrazione Eucaristica, dopo la proclamazione del Vangelo:

Omelia del Santo Padre

Ci sono tre verbi che oggi ci offre la Parola di Dio e che ci interpellano come cristiani e pastori in Europa: riflettere, ricostruire, vedere.

Riflettere è ciò che il Signore invita anzitutto a fare per mezzo del profeta Aggeo: «Riflettete bene sul vostro comportamento». Due volte lo dice al popolo (Ag 1,5.7). Su quali aspetti del proprio comportamento doveva riflettere il popolo di Dio? Ascoltiamo cosa dice il Signore: «Vi sembra questo il momento di abitare tranquilli nelle vostre case ben coperte, mentre questa casa è ancora in rovina?» (v. 4). Il popolo, tornato dall’esilio, si era preoccupato di risistemare le sue abitazioni. E ora si accontenta di starsene comodo e tranquillo a casa, mentre il tempio di Dio è in macerie e nessuno lo riedifica. Questo invito a riflettere ci interpella: infatti, anche oggi in Europa noi cristiani abbiamo la tentazione di starcene comodi nelle nostre strutture, nelle nostre case e nelle nostre chiese, nelle nostre sicurezze date dalle tradizioni, nell’appagamento di un certo consenso, mentre tutt’intorno i templi si svuotano e Gesù viene sempre più dimenticato.

Riflettiamo: quante persone non hanno più fame e sete di Dio! Non perché siano cattive, no, ma perché manca chi faccia loro venire l’appetito della fede e riaccenda quella sete che c’è nel cuore dell’uomo: quella «concreata e perpetua sete» di cui parla Dante (Paradiso, II,19) e che la dittatura del consumismo, dittatura leggera ma soffocante, prova a estinguere. Tanti sono portati ad avvertire solo bisogni materiali, non la mancanza di Dio. E noi di certo ce ne preoccupiamo, ma quanto ce ne occupiamo davvero? È facile giudicare chi non crede, è comodo elencare i motivi della secolarizzazione, del relativismo e di tanti altri ismi, ma in fondo è sterile. La Parola di Dio ci porta a riflettere su di noi: proviamo affetto e compassione per chi non ha avuto la gioia di incontrare Gesù oppure l’ha smarrita? Siamo tranquilli perché in fondo non ci manca nulla per vivere, oppure inquieti nel vedere tanti fratelli e sorelle lontani dalla gioia di Gesù?

Su un’altra cosa il Signore, tramite il profeta Aggeo, chiede al suo popolo di riflettere. Dice così: «Avete mangiato, ma non da togliervi la fame; avete bevuto, ma non fino a inebriarvi; vi siete vestiti, ma non vi siete riscaldati» (v. 6). Il popolo, insomma, aveva quanto voleva, e non era felice. Che cosa gli mancava? Ce lo suggerisce Gesù, con parole che sembrano ricalcare quelle di Aggeo: «Ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, […] ero nudo e non mi avete vestito» (Mt 25,42-43). La mancanza di carità causa l’infelicità, perché solo l’amore sazia il cuore. Solo l’amore sazia il cuore. Chiusi nell’interesse per le proprie cose, gli abitanti di Gerusalemme avevano perso il sapore della gratuità. Può essere anche il nostro problema: concentrarsi sulle varie posizioni nella Chiesa, su dibattiti, agende e strategie, e perdere di vista il vero programma, quello del Vangelo: lo slancio della carità, l’ardore della gratuità. La via di uscita dai problemi e dalle chiusure è sempre quella del dono gratuito. Non ce n’è un’altra. Riflettiamoci.

E dopo aver riflettuto, c’è il secondo passaggio: ricostruire. «Ricostruite la mia casa», chiede Dio tramite il profeta (Ag 1,8). E il popolo ricostruisce il tempio. Smette di accontentarsi di un presente tranquillo e lavora per l’avvenire. E siccome c’era gente che era contraria a questo, ci dice il Libro delle Cronache che lavoravano con una mano sulle pietre, per costruire, e l’altra mano alla spada, per difendere questo processo di ricostruzione. Non è stato facile ricostruire il tempio. Di ciò ha bisogno la costruzione della casa comune europea: di lasciare le convenienze dell’immediato per tornare alla visione lungimirante dei padri fondatori, una visione – oserei dire – profetica e d’insieme, perché essi non cercavano i consensi del momento, ma sognavano il futuro di tutti. Così sono state costruite le mura della casa europea e solo così si potranno rinsaldare. Ciò vale pure per la Chiesa, casa di Dio. Per renderla bella e ospitale, occorre guardare insieme all’avvenire, non restaurare il passato. Purtroppo è di moda quel “restaurazionismo” del passato che ci uccide, ci uccide tutti. Certo, dobbiamo ripartire dalle fondamenta, dalle radici – questo sì, è vero –, perché da lì si ricostruisce: dalla tradizione vivente della Chiesa, che ci fonda sull’essenziale, sul buon annuncio, sulla vicinanza e sulla testimonianza. Da qui si ricostruisce, dalle fondamenta della Chiesa delle origini e di sempre, dall’adorazione a Dio e dall’amore al prossimo, non dai propri gusti particolari, non dai patti e negoziati che possiamo fare adesso, diciamo, per difendere la Chiesa o difendere la cristianità.

Cari Fratelli, vorrei ringraziarvi per questo non facile lavoro di ricostruzione, che portate avanti con la grazia di Dio. Grazie per questi primi 50 anni a servizio della Chiesa e dell’Europa. Incoraggiamoci, senza mai cedere allo scoraggiamento e alla rassegnazione: siamo chiamati dal Signore a un’opera splendida, a lavorare perché la sua casa sia sempre più accogliente, perché ognuno possa entrarvi e abitarvi, perché la Chiesa abbia le porte aperte a tutti e nessuno abbia la tentazione di concentrarsi solo a guardare e cambiare le serrature. Le piccole cose squisite… E noi siamo tentati. No, il cambiamento va da un’altra parte, viene dalle radici. La ricostruzione va da un’altra parte.

Il popolo d’Israele ricostruì il tempio con le proprie mani. I grandi ricostruttori della fede del continente hanno fatto lo stesso – pensiamo ai Patroni. Hanno messo in gioco la loro piccolezza, fidandosi di Dio. Penso ai Santi, come Martino, Francesco, Domenico, Pio che ricordiamo oggi; ai patroni come Benedetto, Cirillo e Metodio, Brigida, Caterina da Siena, Teresa Benedetta della Croce. Hanno cominciato da sé stessi, dal cambiare la propria vita accogliendo la grazia di Dio. Non si sono preoccupati dei tempi bui, delle avversità e di qualche divisione, che c’è sempre stata. Non hanno perso tempo a criticare e colpevolizzare. Hanno vissuto il Vangelo, senza badare alla rilevanza e alla politica. Così, con la forza mite dell’amore di Dio, hanno incarnato il suo stile di vicinanza, di compassione e di tenerezza – lo stile di Dio: vicinanza, compassione e tenerezza –; e hanno costruito monasteri, bonificato terre, ridato anima a persone e Paesi: nessun programma “sociale” fra virgolette, solo il Vangelo. E con il Vangelo sono andati avanti.

Ricostruite la mia casa. Il verbo è coniugato al plurale. Ogni ricostruzione avviene insieme, nel segno dell’unità. Con gli altri. Ci possono essere visioni diverse, ma va sempre custodita l’unità. Perché, se custodiamo la grazia dell’insieme, il Signore costruisce anche lì dove noi non riusciamo. La grazia dell’insieme. È la nostra chiamata: essere Chiesa, un Corpo solo tra di noi. È la nostra vocazione, in quanto Pastori: radunare il gregge, non disperderlo e nemmeno preservarlo in bei recinti chiusi. Questo è ucciderlo. Ricostruire significa farsi artigiani di comunione, tessitori di unità a ogni livello: non per strategia, ma per Vangelo.

Se così ricostruiamo, daremo la possibilità ai nostri fratelli e sorelle di vedere. È il terzo verbo, con il quale si conclude il Vangelo odierno, con Erode che cercava di “vedere Gesù” (cfr Lc 9,9). Oggi come allora si parla tanto di Gesù. A quei tempi si diceva: «Giovanni è risorto dai morti […] È apparso Elia […] È risorto uno degli antichi profeti» (Lc 9,7-8). Tutti costoro apprezzavano Gesù, ma non comprendevano la sua novità e lo rinchiudevano in schemi già visti: Giovanni, Elia, i profeti... Gesù, però, non si può incasellare negli schemi del “sentito dire” o del “già visto”. Gesù sempre è novità, sempre. L’incontro con Gesù ti dà stupore, e se tu nell’incontro con Gesù non senti lo stupore, non hai incontrato Gesù.

Tanti in Europa pensano che la fede sia qualcosa di già visto, che appartiene al passato. Perché? Perché non hanno visto Gesù all’opera nelle loro vite. E spesso non lo hanno visto perché noi con le nostre vite non lo abbiamo mostrato abbastanza. Perché Dio si vede nei visi e nei gesti di uomini e donne trasformati dalla sua presenza. E se i cristiani, anziché irradiare la gioia contagiosa del Vangelo, ripropongono schemi religiosi logori, intellettualistici e moralistici, la gente non vede il Buon Pastore. Non riconosce Colui che, innamorato di ogni sua pecora, la chiama per nome e la cerca per mettersela sulle spalle. Non vede Colui di cui predichiamo l’incredibile Passione, proprio perché Egli ha una sola passione: l’uomo. Questo amore divino, misericordioso e sconvolgente, è la novità perenne del Vangelo. E domanda a noi, cari Fratelli, scelte sagge e audaci, fatte in nome della tenerezza folle con cui Cristo ci ha salvati. Non ci chiede di dimostrare, ci chiede di mostrare Dio, come hanno fatto i Santi: non a parole, ma con la vita. Chiede preghiera e povertà, chiede creatività e gratuità. Aiutiamo l’Europa di oggi, malata di stanchezza – questa è la malattia dell’Europa di oggi –, a ritrovare il volto sempre giovane di Gesù e della sua sposa. Non possiamo che dare tutto noi stessi perché si veda questa intramontabile bellezza.

[01271-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Il y a trois verbes que la Parole de Dieu nous offre aujourd’hui et qui nous interpellent en tant que chrétiens et pasteurs en Europe: réfléchir, reconstruire, voir.

Réfléchir c’est ce que le Seigneur nous invite tout d’abord à faire par la parole du prophète Aggée: Réfléchissez bien sur votre comportement. Il le dit deux fois au peuple (cf. Ag 1, 5.7). Sur quels aspects de son comportement le peuple de Dieu devait-il réfléchir? Ecoutons ce que nous dit le Seigneur: «Et pour vous, est-ce bien le temps d’être installés dans vos maisons luxueuses, alors que ma Maison est en ruine ?» (v. 4). Le peuple, revenu d’exil, s’était préoccupé de reconstruire ses habitations. Et maintenant il se contente de rester confortable et tranquille à la maison, alors que le temple de Dieu est en ruines et que personne ne le réédifie. Cette invitation à réfléchir nous interpelle: en effet, aujourd’hui aussi en Europe, nous chrétiens avons la tentation de nous contenter de rester tranquillement dans nos structures, dans nos maisons et nos églises, dans nos sécurités données par les traditions, dans l’établissement d’un certain consensus, tandis que tout autour les églises se vident et que Jésus est de plus en plus oublié.

Réfléchissons: combien de personnes n’ont plus faim et soif de Dieu! Ce n’est pas parce que nous sommes mauvais, non, mais parce que personne ne leur donne l’appétit de la foi ni ne ravive cette soif qui est dans le cœur de l'homme: cette « soif inhérente et perpétuelle» dont parle Dante (Paradis, II, 19) et que la dictature du consumérisme, une dictature légère mais suffocante, essaye d’éteindre. Beaucoup sont portés à satisfaire uniquement les besoins matériels, mais pas le manque de Dieu. Et nous nous en soucions certainement, mais à quel point nous en soucions-nous vraiment? Il est facile de juger celui qui ne croit pas, il est commode de lister les raisons de la sécularisation, du relativisme et de tant d’autres –ismes. Mais, dans le fond, c’est stérile. La Parole de Dieu nous invite à réfléchir sur nous-mêmes: ressentons-nous de l’affection et de la compassion pour ceux qui n’ont pas eu la joie de rencontrer Jésus ou qui l’ont perdue? Sommes-nous tranquilles parce que dans le fond il ne nous manque rien pour vivre ou bien sommes-nous préoccupés de voir tant de frères et sœurs loin de la joie de Jésus?

Le Seigneur, par le prophète Aggée, demande à son peuple de réfléchir sur un autre sujet. Il dit: «vous mangez, mais sans être rassasiés; vous buvez, mais sans être désaltérés; vous vous habillez, mais sans vous réchauffer » (v. 6). En somme, le peuple avait ce qu’il voulait et n’était pas heureux. Qu’est-ce qui lui manquait? Jésus nous le suggère, avec des mots qui semblent reprendre ceux d’Aggée: «J’avais faim, et vous ne m’avez pas donné à manger; j’avais soif, et vous ne m’avez pas donné à boire […] j’étais nu, et vous ne m’avez pas habillé» (Mt 25, 42-43). Le manque de charité cause le malheur, parce que seul l’amour rassasie le cœur. Seul l’amour rassasie le cœur. Enfermés dans l’intérêt pour leurs propres affaires, les habitants de Jérusalem avaient perdu la saveur de la gratuité. C’est peut-être aussi notre problème: se concentrer sur les différentes positions dans l'Église, sur les débats, les agendas et les stratégies, et perdre de vue le véritable programme, celui de l'Évangile: l'élan de la charité, l'ardeur de la gratuité. La voie de sortie des problèmes et des fermetures est toujours celle d'un don gratuit. Il n'y en a pas d'autre. Réfléchissons-y.

Et après avoir réfléchi, il y a le second passage: reconstruire. «Reconstruisez ma maison», demande Dieu par le prophète (Ag 1, 8). Et le peuple reconstruit le temple. Il arrête de se contenter d'un présent tranquille et travaille pour l'avenir. Et puisqu’il y avait des gens qui étaient contre, le Livre des Chroniques nous dit qu’ils travaillaient avec une main sur les pierres, pour construire, et l’autre main sur l’épée, pour défendre ce processus de reconstruction. Ça n’a pas été facile de reconstruire le temple. C’est ce dont a besoin la construction de la maison commune européenne: quitter les facilités de l'immédiat pour revenir à la vision clairvoyante des pères fondateurs, une vision – je dirais – prophétique et d'ensemble, parce que eux n’ont pas cherché le consensus du moment mais rêvaient le futur de tous. C’est ainsi qu’ont été construits les murs de la maison européenne et c’est seulement ainsi que l’on pourra les renforcer. Cela vaut aussi pour l’Eglise, la maison de Dieu. Pour la rendre belle et accueillante, il faut regarder ensemble l’avenir, non pas restaurer le passé. Malheureusement le “restaurationnisme” du passé qui nous tue, nous tue tous, est à la mode. Il est certain que nous devons repartir des fondations, des racines – ça oui, c’est vrai –, car c’est de là que l’on reconstruit: de la tradition vivante de l’Eglise qui se fonde sur l’essentiel, sur la bonne nouvelle, sur la proximité et sur le témoignage. C’est de là que l’on reconstruit, à partir des fondations de l’Eglise des origines et de toujours, par l’adoration de Dieu et par l’amour du prochain, pas par ses goûts particuliers, pas par les pactes et les négociations que nous pouvons faire maintenant, disons, pour défendre l'Église ou défendre la chrétienté.

Chers frères, je voudrais vous remercier pour ce travail de reconstruction qui n’est pas facile, et que vous poursuivez avec la grâce de Dieu. Merci pour ces 50 premières années au service de l’Eglise et de l’Europe. Continuons, sans jamais céder au découragement et à la résignation: nous sommes appelés par le Seigneur à une œuvre splendide, à travailler pour que sa maison soit toujours plus accueillante, pour que chacun puisse y entrer et y habiter, pour que l'Eglise ait ses portes ouvertes à tous et que personne n'ait la tentation de se concentrer uniquement sur la surveillance et le changement des serrures. Les petites choses délicieuses… Et on se laisse tenter. Non, le changement va ailleurs, il vient des racines. La reconstruction va ailleurs.

Le peuple d’Israël a reconstruit le temple de ses propres mains. Les grands reconstructeurs de la foi du continent ont fait de même – pensons aux Patrons. Ils ont mis en jeu leur petitesse, en se fiant à Dieu. Je pense aux saints comme Martin, François, Dominique, Pio dont nous nous souvenons aujourd’hui; aux patrons comme Benoit, Cyrille et Méthode, Brigitte, Thérèse Bénédicte de la Croix. Ils ont commencé par changer leur propre vie en accueillant la grâce de Dieu. Ils ne se sont pas préoccupé des temps difficiles, de l’adversité ni des divisions, il y en a toujours eues. Ils n’ont pas perdu leur temps à critiquer ni à culpabiliser. Ils ont vécu l’Evangile, sans se préoccuper d’efficacité et de politique. Avec la force venue de l’amour de Dieu, ils ont incarné son style de proximité, de compassion et de tendresse – le style de Dieu: proximité, compassion et tendresse –; et ils ont construit des monastères, fait fructifier la terre, redonné une âme aux personnes et aux pays. Aucun programme “social” entre parenthèses, seulement l’Evangile. Et avec l’Evangile ils ont continué.

Reconstruisez ma maison. Le verbe est conjugué au pluriel. Toute reconstruction se fait ensemble, dans l’unité. Avec les autres. Il peut exister des visions différentes, mais l’unité doit toujours être gardée. Parce que si nous conservons la grâce de l’ensemble, le Seigneur construit même là où nous ne réussissons pas. La grâce de l’ensemble. C’est notre appel: être Eglise, un seul corps composé de tous. C’est notre vocation, en tant que Pasteur, de rassembler le troupeau, non pas de le disperser ou de le conserver dans de beaux enclos fermés. C’est le tuer. Reconstruire, c'est devenir artisans de communion, tisseurs d'unité à tous les niveaux: non par stratégie, mais pour l’Evangile.

Si nous reconstruisons ainsi, nous donnerons la possibilité à nos frères et sœurs de voir. C’est le troisième verbe, par lequel se conclut l’Evangile d’aujourd’hui, avec Hérode qui cherchait à «voir Jésus» (cf. Lc 9, 9). Aujourd’hui comme à l’époque on parle beaucoup de Jésus. On disait alors: «Jean le Baptiste est ressuscité d’entre les morts. […] C’est le prophète Élie qui est apparu […] C’est un prophète d’autrefois qui est ressuscité » (Lc 9, 7-8). Tous ont apprécié Jésus, mais n'ont pas compris sa nouveauté et l'ont enfermé dans des schémas déjà vus : Jean, Elie, les prophètes... Cependant Jésus ne peut être enfermés dans les schémas de l’«ouï-dire» ou du «déjà-vu». Jésus est toujours une nouveauté, toujours. La rencontre avec Jésus t’émerveille, et si tu ne ressens pas d’émerveillement dans la rencontre avec Jésus, tu n’as pas rencontré Jésus.

Beaucoup en Europe pensent que la foi est une chose déjà vue, qui appartiendrait au passé. Pourquoi? Parce qu’ils n’ont pas vu Jésus à l’œuvre dans leurs vies. Et souvent ils ne l’ont pas vu parce que nous ne l’avons pas assez manifesté dans nos vies. Parce que Dieu se voit dans les visages et dans les gestes des hommes et des femmes transformés par sa présence. Et si les chrétiens, au lieu de rayonner la joie contagieuse de l'Évangile, proposent à nouveau des schémas religieux éculés, intellectualistes et moralistes, le peuple ne voit pas le Bon Pasteur. Il ne reconnaît pas Celui qui, amoureux de chacune de ses brebis, l’appelle par son nom et la cherche pour la mettre sur les épaules. Il ne voit pas Celui dont nous prêchons l'incroyable Passion, précisément parce qu'il n'a qu'une passion: l'homme. Cet amour divin, miséricordieux et bouleversant, est la nouveauté éternelle de l’Évangile. Et il nous demande, chers frères, des choix sages et audacieux faits au nom de la folle tendresse avec laquelle le Christ nous a sauvés. Il ne nous demande pas de démontrer, il nous demande de montrer Dieu, comme l'ont fait les saints: non pas en paroles mais avec la vie. Il demande prière et pauvreté, il demande créativité et gratuité. Aidons l’Europe d’aujourd'hui, malade de fatigue – c’est la maladie de l’Europe d’aujourd’hui –, à retrouver le visage toujours jeune de Jésus et de son épouse. On ne peut que se donner tout entier pour que cette beauté intemporelle se voie.

[01271-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

Today the word of God presents us with three words that challenge us as Christians and Bishops in Europe: reflect, rebuild and see.

Reflect. So the Lord tells us, through the prophet Haggai. Twice he says to the people: “Reflect on your ways!” (Hag 1:5.7). Which “ways” should God’s people reflect on? Let us hear what the Lord has to say: “Is it time for you yourselves to live in your panelled houses, while this house lies in ruins?” (v. 4). The people, upon returning from exile, had been concerned about rebuilding their homes; now, they are comfortably ensconced at home, while the house of God lies in ruins, with no one to rebuild it. Those words – “Reflect on your ways!” – are challenging because today, in Europe, we Christians can be tempted to remain comfortably ensconced in our structures, our homes and our churches, in the security provided by our traditions, content with a certain degree of consensus, while all around us churches are emptying and Jesus is increasingly forgotten.

Consider how many people no longer hunger and thirst for God! Not because they are evil, but because there is no one to awaken in them a hunger for faith and to satisfy that thirst in the human heart, that “innate and perpetual thirst” of which Dante speaks (Par., II, 19) and which the dictatorship of consumerism gently but insistently tries to suppress. So many people are induced to feel only material needs, and not a need for God. Certainly, we are “preoccupied” by this, but are we really “occupied” with responding to it? It is easy, but ultimately pointless, to judge those who do not believe or to list the reasons for secularization. The word of God challenges us to look to ourselves. Do we feel concern and compassion for those who have not had the joy of encountering Jesus or who have lost that joy? Are we comfortable because deep down our lives go on as usual, or are we troubled by seeing so many of our brothers and sisters far from the joy of Jesus?

Through the prophet Haggai, the Lord asks his people to reflect on another thing: “You eat, but you never have enough; you drink, but you never have your fill; you clothe yourselves but no one is warm” (v. 6). The people, in a word, had everything they wanted, but they were not happy. What did they lack? Jesus suggests the answer in words that seem to echo those of Haggai: “I was hungry and you gave me no food; I was thirsty and you gave me no drink, naked and you did not give me clothing” (Mt 25:42-43). Lack of charity causes unhappiness, because love alone satisfies the human heart. Concerned only with their own affairs, the inhabitants of Jerusalem had lost the savour of gratuity. This can also be our own problem: concentrating on various positions in the Church, on discussions, agendas and strategies, and losing sight of the real programme, that of the Gospel: the impulse of charity, the fervour of gratuity. The solution to problems and self-absorption is always that of gratuitous gift. There is no other. This is something to reflect on.

After reflection, there is another step: rebuilding. “Build my house”, God says through the prophet (Hag 1:8), and the people rebuild the Temple. They stop being content with a peaceful present and start working for the future. Yet since some were opposed to this, the Book of Chronicles tells us that the people worked with one hand on stones, in order to build, and the other hand on the sword, in order to defend this rebuilding process. It was no easy thing to rebuild the temple. This is what is required to build the European common house: to leave behind short-term expedience and to return to that farsighted vision of the founding fathers, what I would dare to call a prophetic vision of the whole. They did not seek a fleeting consensus, but dreamt of a future for all. This is how the walls of the European house were erected, and only in this way can they be consolidated. The same is true for the Church, the house of God. To make her beautiful and welcoming, we need, together, to look to the future, not to restore the past. Sadly, a certain “restorationism” of the past is currently in fashion, one that kills us all. Certainly, we must begin from the foundations, yes truly from our roots, because that is where rebuilding starts: from the Church’s living tradition, which is based on what is essential, the Good News, closeness and witness. We need to rebuild from her foundations the Church of every time and place, from worship of God and love of neighbour, and not from our own tastes, not from any alliances or negotiations that we might make for defending the Church or Christianity

Dear brothers, I would like to thank you for this work of rebuilding that you are pursuing by God’s grace; it is not easy. Thank you for these first fifty years in the service of the Church and of Europe. Let us encourage one another, without ever becoming discouraged or yielding to resignation. The Lord is calling us to a splendid work, the work of making his house ever more welcoming, so that everyone can enter and dwell there, so that the Church can have doors open to all and that no one will be tempted to think only of guarding the doors and changing the locks, those simple temptations. No, change takes place elsewhere: it comes from the roots. It is from there that rebuilding comes.

The people of Israel rebuilt the Temple with their own hands. So did the great rebuilders of the faith on this continent. Let us look to its patrons. They did their small part, trusting in God. I think of saints like Martin, Francis, Dominic, Pio of Pietrelcina, whose feast we celebrate today; patrons like Benedict, Cyril and Methodius, Bridget, Catherine of Siena and Teresa Benedicta of the Cross. They began with themselves, with changing their own lives by accepting God’s grace. They were not concerned about dark times, hardships and those divisions that are always present. They did not waste time criticizing or laying blame. They lived the Gospel, without worrying about relevance or politics. Thus, with the gentle strength of God’s love, they embodied his style of closeness, compassion and tenderness – for that is God’s style. They built monasteries, reclaimed land, enlivened the spirit of individuals and countries. They did not have a “social” programme, but the Gospel alone. And they carried on with the Gospel.

Rebuild my house. Here the verb “rebuild” is in the plural. All rebuilding takes place together, in unity, with others. Visions may differ, but unity must always be preserved. For if we keep the grace of the whole, the Lord keeps building, even when we ourselves fall short. The grace of the whole. This is our call: to be Church, together, as one Body. This is our vocation as pastors: to gather the flock; not to scatter it or to keep it enclosed by fine fences, which would in fact kill it. Rebuilding means becoming artisans of communion, weavers of unity at every level: not by stratagems but by the Gospel.

If we rebuild in this way, we will enable our brothers and sisters to see. This is the third word, which comes at the end of today’s Gospel. Herod tried to “see” Jesus (cf. Lk 9:9). Now as then, many people talk about Jesus. In those days, they said: “John is risen from the dead… Elijah has appeared… one of the ancient prophets has arisen” (Lk 9:7-8). All those people respected Jesus, but they didn’t grasp his newness; they fit him into preconceived notions: John, Elijah, the prophets. Jesus, however, cannot be squeezed into the boxes of hearsay or déja vu. Jesus is always new, always. The encounter with him always astonishes, and if you do not feel that astonishment in the encounter, you have not encountered Jesus.

So many people in Europe see the faith as déja vu, a relic of the past. Why? Because they have not seen Jesus at work in their own lives. Often this is because we, by our lives, have not sufficiently shown him to them. God makes himself seen in the faces and actions of men and women transformed by his presence. If Christians, instead of radiating the contagious joy of the Gospel, keep speaking in an outworn intellectualistic and moralistic religious language, people will not be able to see the Good Shepherd. They will not recognize the One who loves each of his sheep, calls them by name, and bears them on his shoulders. They will not see the One whose incredible passion we preach: for it is a consuming passion, a passion for mankind. This divine, merciful and overpowering love is itself the perennial newness of the Gospel. It demands of us, dear brothers, wise and bold decisions, made in the name of the mad love with which Christ has saved us. Jesus does not ask us to make arguments for God, he asks us to show him, in the same way the saints did, not by words but by our lives. He calls us to prayer and poverty, creativity and gratuity. Let us help today’s Europe – faint with a weariness that is Europe’s current malady – to rediscover the ever youthful face of Jesus and his Bride. How can we fail to devote ourselves completely to making all people see this unfading beauty?

[01271-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Es gibt drei Verben, die das Wort Gottes uns heute bietet und die uns als Christen und Hirten in Europa herausfordern: nachdenken, wiederaufbauen, sehen.

Vor allem zum Nachdenken lädt uns der Herr durch den Propheten Haggai ein: »Überlegt […], wie es euch geht!«. Zweimal sagt er dies zum Volk (Hag 1,5.7). Über welche Aspekte des eigenen Verhaltens aber sollte das Volk Gottes nachdenken? Hören wir auf das, was der Herr sagt: »Ist etwa die Zeit gekommen, dass ihr in euren getäfelten Häusern wohnt, während dieses Haus in Trümmern liegt?« (v. 4). Die aus dem Exil zurückgekehrten Menschen waren damit beschäftigt, sich wieder in ihren Behausungen einzurichten. Und jetzt sitzen sie bequem und ruhig zu Hause, während der Tempel Gottes in Trümmern liegt und niemand ihn wiederaufbaut. Diese Aufforderung zum Nachdenken fordert uns heraus: In der Tat sind wir Christen in Europa auch heute versucht, es uns in unseren Strukturen, in unseren Häusern und in unseren Kirchen bequem zu machen, in unseren Sicherheiten, welche die Traditionen geben, in der Befriedigung eines gewissen Konsenses, während sich um uns herum die Gotteshäuser leeren und Jesus immer mehr vergessen wird.

Denken wir darüber nach: Wie viele Menschen hungern und dürsten nicht mehr nach Gott! Nicht, weil sie schlecht sind, nein, sondern weil es an Menschen fehlt, die ihnen Appetit auf den Glauben machen und in ihnen wieder jenen Durst hervorrufen, den es im Herzen des Menschen gibt: jenen »uns mitgegebene[n] unstillbare[n] Durst«, von dem Dante spricht (Paradies, II, 19) und den die leichte, aber erstickende Diktatur des Konsumismus zu stillen versucht. Viele sind soweit, dass sie nur noch materielle Bedürfnisse verspüren, nicht aber das Fehlen Gottes. Das beschäftigt uns natürlich, aber wie sehr beschäftigen wir uns wirklich damit? Es ist leicht, über diejenigen zu urteilen, die nicht glauben, es ist bequem, die Gründe für Säkularisierung, Relativismus und viele andere Ismen aufzuzählen, aber letztlich ist das unfruchtbar. Das Wort Gottes veranlasst uns, über uns selbst nachzudenken: empfinden wir Zuneigung und Mitgefühl für diejenigen, die nicht die Freude hatten, Jesus zu begegnen, oder die diese Freude verloren haben? Sind wir beruhigt, weil uns ja im Grunde genommen nichts Lebensnotwendiges fehlt, oder sind wir beunruhigt, wenn wir sehen, dass so viele Brüder und Schwestern weit weg sind von der Freude Jesu?

Durch den Propheten Haggai fordert der Herr sein Volk auf, über eine weitere Sache nachzudenken. Er sagt: »Ihr esst und werdet nicht satt; ihr trinkt, aber zum Betrinken reicht es euch nicht; ihr zieht Kleider an, aber sie halten nicht warm« (V. 6). Kurz gesagt, das Volk hatte, was es wollte, und es war nicht glücklich. Was fehlte ihnen? Jesus gibt uns die Antwort, sie erinnert an die Worte Haggais: »Ich war hungrig und ihr habt mir nichts zu essen gegeben; ich war durstig und ihr habt mir nichts zu trinken gegeben […]; ich war nackt und ihr habt mir keine Kleidung gegeben« (Mt 25,42-43). Der Mangel an Nächstenliebe macht unglücklich, denn nur die Liebe sättigt das Herz. Nur die Liebe sättigt das Herz. Die Einwohner Jerusalems, die auf ihre eigenen Interessen fixiert waren, hatten den Geschmack der Unentgeltlichkeit verloren. Das kann auch unser Problem sein, dass wir uns auf die verschiedenen Positionen in der Kirche konzentrieren, auf Debatten, Agenden und Strategien und dabei das eigentliche Programm, das des Evangeliums, aus den Augen verlieren: den Elan der Nächstenliebe, den Eifer der Unentgeltlichkeit. Der Ausweg aus den Problemen und aus aller Verschlossenheit ist immer die unentgeltliche Gabe. Es gibt keinen anderen Ausweg. Denken wir darüber nach.

Nach der Reflexion folgt der zweite Schritt: das Wiederaufbauen. »Baut den Tempel wieder auf«, fordert Gott durch den Propheten (Hag 1,8). Und das Volk baute den Tempel wieder auf. Sie geben sich nicht mehr mit einer ruhigen Gegenwart zufrieden, sondern arbeiten für die Zukunft. Und da es Leute gab, die dagegen waren, sagt uns das Buch der Chronik, dass sie mit einer Hand an den Steinen arbeiteten, um aufzubauen, und mit der anderen Hand mit dem Schwert, um diesen Prozess des Wiederaufbaus zu verteidigen. Es war nicht einfach, den Tempel wiederaufzubauen. Das ist es, was der Bau des gemeinsamen europäischen Hauses braucht: das unmittelbar Nützliche hinter sich zu lassen und zu der weitsichtigen Vision der Gründerväter zurückzukehren, einer – so würde ich wagen zu sagen – prophetischen und gemeinschaftlichen Vision, denn sie suchten nicht momentane Übereinkünfte, sondern träumten von der Zukunft aller. Auf diese Weise wurden die Mauern des europäischen Hauses errichtet, und nur auf diese Weise können sie wieder gefestigt werden. Das gilt auch für die Kirche, das Haus Gottes. Um sie schön und gastlich zu gestalten, müssen wir gemeinsam in die Zukunft blicken und nicht die Vergangenheit wiederherstellen. Leider ist dieser „Restaurationismus“ der Vergangenheit in Mode, der uns tötet, der uns alle tötet. Natürlich müssen wir bei den Fundamenten beginnen, von den Wurzeln – das ja, es ist wahr –, denn von dort aus baut man wieder auf: wir müssen bei der lebendigen Tradition der Kirche beginnen, die uns auf das Wesentliche, auf die Frohe Botschaft, auf die Nähe und auf das Zeugnis gründet. Von dort aus beginnt man mit dem Wiederaufbau, von den Fundamenten der Urkirche und der Kirche aller Zeiten her, von der Anbetung Gottes und der Nächstenliebe her, nicht von unseren eigenen Vorlieben aus, nicht von den Vereinbarungen und Verhandlungen aus, die wir jetzt betreiben können, um, sagen wir, die Kirche zu verteidigen oder die Christenheit zu verteidigen.

Liebe Brüder, ich möchte euch für diese nicht einfache Arbeit des Wiederaufbaus danken, die ihr mit der Gnade Gottes leistet. Ich danke euch für diese ersten 50 Jahre im Dienste der Kirche und Europas. Ermutigen wir einander, ohne jemals in Entmutigung oder Resignation zu verfallen: Wir sind vom Herrn zu einem großartigen Werk berufen, nämlich daran zu arbeiten, dass sein Haus immer einladender wird, dass alle eintreten und darin leben können, dass die Türen der Kirche für alle offenstehen und niemand in Versuchung gerät, nur auf die Schlösser zu schauen und sie auszutauschen. Die kleinen Vorzüglichkeiten … und wir geraten in Versuchung. Nein, die Veränderung geht in eine andere Richtung, sie kommt von den Wurzeln. Der Wiederaufbau geht in eine andere Richtung.

Das Volk Israel baute den Tempel mit seinen eigenen Händen wieder auf. Die großen Erneuerer des Glaubens auf dem Kontinent taten dasselbe – denken wir an die Patrone. Sie setzten sich mit ihren bescheidenen Möglichkeiten ein und vertrauten auf Gott. Ich denke an Heilige wie Martin, Franziskus, Dominikus oder auch Pater Pio, dessen wir heute gedenken; und an die Patrone wie Benedikt, Kyrill und Methodius, Brigitta, Katherina von Siena und Teresia Benedicta vom Kreuz. Sie begannen bei sich selbst, sie änderten ihr Leben indem sie das Geschenk der Gnade Gottes annahmen. Sie kümmerten sich nicht um dunkle Zeiten, um Widrigkeiten und den ein oder anderen Zwist. Das gab es immer. Sie verloren keine Zeit mit Kritik und Schuldzuweisungen. Sie lebten das Evangelium ohne dabei auf ihren Einfluss und politische Dinge zu achten. So verkörperten sie mit der sanften Kraft der Liebe Gottes seinen Stil der Nähe, des Mitgefühls und der Zärtlichkeit – den Stil Gottes: Nähe, Mitgefühl und Zärtlichkeit; und sie bauten Klöster, machten Land urbar, gaben Menschen und Ländern ihre Seele zurück: kein „Sozial-Programm“ in Anführungszeichen, nur das Evangelium. Und mit dem Evangelium sind sie weitergekommen.

Baut den Tempel wieder auf. Das Verb steht im Plural. Jeder Wiederaufbau erfolgt gemeinsam, im Zeichen der Einheit. Mit den Anderen. Es mag unterschiedliche Visionen geben, aber die Einheit muss immer gewahrt bleiben. Denn wenn wir die Gnade der Einheit bewahren, bewirkt der Herr auch dort etwas, wo wir nichts vermögen. Die Gnade des Miteinanders. Das ist unsere Berufung: Kirche zu sein, ein einziger Leib. Das ist unsere Berufung als Hirten: die Herde zu sammeln, sie nicht zu zerstreuen und schon gar nicht, sie in schönen, geschlossenen Gehegen zu halten. Das bedeutet, sie zu töten. Wiederaufbauen bedeutet, das Handwerk der Gemeinschaft auszuüben, und auf allen Ebenen an der Einheit zu weben: nicht mittels einer Strategie, sondern durch das Evangelium.

Wenn wir auf diese Weise wiederaufbauen, geben wir unseren Brüdern und Schwestern die Chance zu sehen. Dies ist das dritte Verb, mit dem das heutige Evangelium endet: Herodes versucht, „Jesus zu sehen“ (vgl. Lk 9,9). Heute wie damals wird viel über Jesus gesprochen. In jenen Tagen hieß es: »Johannes ist von den Toten auferstanden […] Elija ist erschienen. […] Einer der alten Propheten ist auferstanden« (Lk 9,7-8). All diese Menschen schätzten Jesus, aber sie verstanden seine Neuheit nicht und zwängten ihn in Schemata, die sie schon kannten: Johannes, Elias, die Propheten .... Jesus lässt sich jedoch nicht in die Schublade des „Hörensagens“ oder des „schon Bekannten“ stecken. Jesus ist immer Neuheit, immer. Die Begegnung mit Jesus versetzt dich ins Staunen und, wenn du in der Begegnung mit Jesus das Staunen nicht verspürst, bist du Jesus nicht begegnet.

Viele Menschen in Europa denken, dass der Glaube etwas ist, das man schon gesehen hat und das der Vergangenheit angehört. Warum? Weil sie nicht gesehen haben, wie Jesus in ihrem Leben wirkt. Und oft haben sie ihn nicht gesehen, weil wir ihn nicht genug durch unser Leben gezeigt haben. Denn Gott zeigt sich in den Gesichtern und Gesten von Männern und Frauen, die durch seine Gegenwart verwandelt wurden. Und wenn Christen, anstatt die ansteckende Freude des Evangeliums auszustrahlen, abgenutzte, intellektualistische und moralistische religiöse Schemata vorbringen, sehen die Menschen den Guten Hirten nicht. Sie erkennen denjenigen nicht, der jedes einzelne seiner Schafe liebt, beim Namen ruft und es sucht, um es auf seine Schultern zu nehmen. Sie können den nicht sehen, dessen unglaubliche Passionsgeschichte wir verkünden, weil er nur eine einzige Passion hat, nämlich den Menschen. Diese göttliche Liebe, barmherzig und überwältigend, ist die immerwährende Neuheit des Evangeliums. Und sie verlangt von uns, liebe Brüder, weise und mutige Entscheidungen, die im Namen der verrückten Liebe getroffen werden, mit der Christus uns gerettet hat. Sie fordert uns nicht auf, Gott zu beweisen, sie fordert uns auf, Gott zu zeigen, so wie es die Heiligen taten: nicht mit Worten, sondern mit dem Leben. Sie verlangt von uns Gebet und Armut, sie verlangt Kreativität und Unentgeltlichkeit. Helfen wir dem an Müdigkeit erkrankten Europa von heute – dies ist die Krankheit des heutigen Europa –, das immer junge Gesicht Jesu und seiner Braut wiederzuentdecken. Wir können nicht anders, als uns selbst ganz dafür hinzugeben, damit diese zeitlose Schönheit gesehen werden kann.

[01271-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

 

Hay tres verbos que hoy nos ofrece la Palabra de Dios, que nos interpelan como cristianos y pastores en Europa, nos interpelan: reflexionar, reconstruir y ver.

Por medio del profeta Ageo, el Señor nos invita a reflexionar. «Reflexionen bien sobre su conducta», dos veces lo dice al pueblo (Ag 1,5.7). ¿En qué aspectos del propio comportamiento debía reflexionar el pueblo de Dios? Escuchemos lo que dice el Señor: «¿Les parece bien que ustedes habiten en casas revestidas de madera mientras mi casa permanece en ruinas?» (v. 4). El pueblo, al regresar del exilio, se había preocupado de adecentar sus hogares. Y ahora se contenta con quedarse cómoda y tranquilamente en su casa, mientras el templo de Dios está en ruinas y ninguno lo reconstruye. Esta invitación a reflexionar nos interpela también hoy a nosotros cristianos en Europa, que tenemos la tentación de permanecer cómodamente en nuestras estructuras, en nuestras casas, en nuestras iglesias, en nuestras seguridades que nos dan las tradiciones, en la satisfacción de un cierto consenso, mientras los templos a nuestro alrededor se vacían y Jesús es cada vez más olvidado.

Reflexionemos, ¡cuántas personas ya no tienen hambre y sed de Dios! No es que sean malas, no, sino que les falta alguien que les abra el apetito de la fe y despierte esa sed que hay en el corazón del hombre, esa «sed connatural, inagotable» de la que habla Dante (Paraíso, II,19) y que la dictadura del consumismo, dictadura blanda pero sofocante, intenta extinguir. Muchas personas son conducidas a sentir sólo necesidades materiales, y no la falta de Dios. Y es cierto que esto nos preocupa, pero, ¿hasta qué punto nos hacemos cargo realmente? Es fácil juzgar al que no cree, es cómodo enumerar los motivos de la secularización, del relativismo y de tantos otros ismos, pero en realidad es estéril. La Palabra de Dios nos lleva a reflexionar sobre nosotros mismos: ¿sentimos afecto y compasión por quienes no han tenido o quizá han perdido la alegría de encontrar a Jesús? ¿Estamos tranquilos porque, después de todo, no nos falta de nada para vivir, o inquietos al ver a tantos hermanos y hermanas lejos de la alegría de Jesús?  

El Señor, por medio del profeta Ageo, le pide a su pueblo que reflexione sobre otro aspecto. Les dice: «Comen, pero no quedan saciados; beben, pero no se ponen alegres; se abrigan, pero siguen sintiendo frío» (v. 6). El pueblo, en definitiva, tenía lo que quería, pero no era feliz. ¿Qué le faltaba? Jesús nos lo sugiere, con palabras que parecen recalcar las de Ageo: «Tuve hambre y ustedes no me dieron de comer, tuve sed y no me dieron de beber, estuve desnudo y no me vistieron» (Mt 25,42-43). La falta de caridad causa la infelicidad, porque sólo el amor sacia el corazón, sólo el amor sacia el corazón. Los habitantes de Jerusalén, encerrados en el interés por sus propios asuntos, habían perdido el sabor de la gratuidad. También puede ser nuestro problema: focalizarnos en las diversas posiciones que hay en la Iglesia, en los debates, agendas y estrategias, y perder de vista el verdadero programa, el del Evangelio: el impulso de la caridad y el ardor de la gratuidad. El camino para salir de los problemas y de las cerrazones es siempre el camino del don gratuito. No hay otro. Reflexionemos sobre esto.

Y después de la reflexión está el segundo paso: reconstruir. «Reconstruyan mi casa», pide Dios por medio del profeta (Ag 1,8). Y el pueblo reconstruye el templo. Deja de contentarse con un presente tranquilo y trabaja por el futuro. Y como había gente que estaba en contra de esto, el libro de las Crónicas nos dice que trabajaron con una mano en las piedras, para construir, y con la otra mano en la espada, para defender el proceso de reconstrucción. No fue fácil reconstruir el templo. La construcción de la casa común europea necesita dejar las conveniencias de lo inmediato para volver a la amplitud de miras de los padres fundadores, a una visión me atrevería a decir profética y de conjunto, porque ellos no buscaban los acuerdos del momento, sino que soñaban el futuro de todos. Así fueron construidos los muros de la casa europea y sólo así se podrán consolidar. Esto vale también para la Iglesia, casa de Dios. Para hacerla hermosa y acogedora es necesario mirar juntos al futuro, no restaurar el pasado. Lamentablemente, está de moda el "restauracionismo" del pasado que nos mata, nos mata a todos. Ciertamente, debemos comenzar desde los cimientos, desde las raíces, -esto es verdad-, porque es a partir de allí que se reconstruye: de la tradición viva de la Iglesia, que nos fundamenta en lo esencial, en el buen anuncio, la cercanía y el testimonio. Se reconstruye a partir de los cimientos de la Iglesia —la de los orígenes y la de siempre—, de la adoración a Dios y del amor al prójimo, no de los propios gustos particulares, no de los pactos y negociaciones que podemos hacer ahora, para defender la Iglesia o defender la cristiandad.

Queridos hermanos, quisiera agradecerles este arduo trabajo de reconstrucción, que llevan adelante con la gracia de Dios. Gracias por estos primeros 50 años al servicio de la Iglesia y de Europa. Alentémonos, sin ceder nunca por el desaliento y la resignación. Estamos llamados a una obra maravillosa, a trabajar para que su casa sea cada vez más acogedora, para que cada uno pueda entrar y quedarse, para que la Iglesia tenga las puertas abiertas a todos y ninguno tenga la tentación de dedicarse solamente a mirar y cambiar las cerraduras. Las pequeñas cosas delicadas, y miren que estamos tentados. No, el cambio pasa por otro lado, viene desde las raíces. La reconstrucción pasa por otro lado.

El pueblo de Israel reconstruyó el templo con sus propias manos. Los grandes renovadores de la fe en el continente hicieron lo mismo, pensemos en los Patronos. Pusieron en juego su pequeñez, confiando en Dios. Pienso en santos como Martín, Francisco, Domingo, Pío —que recordamos hoy—; y en los patronos como Benito, Cirilo y Metodio, Brígida, Catalina de Siena y Teresa Benedicta de la Cruz. Comenzaron por ellos mismos, por cambiar su propia vida acogiendo la gracia de Dios. No se preocuparon de los tiempos oscuros, de las adversidades y de cualquier tipo de división, que siempre ha habido. No perdieron el tiempo en criticar y culpabilizar. Vivieron el Evangelio, sin reparar en la relevancia y en la política. De este modo, con la fuerza humilde del amor de Dios, encarnaron su estilo de cercanía, de compasión y de ternura. El estilo de Dios: cercanía, compasión y ternura; y construyeron monasterios, sanearon tierras, devolvieron el espíritu a las personas y a los pueblos. Ningún programa, entre comillas, social, solamente el Evangelio. Y con el Evangelio ellos siguieron adelante.

Reconstruyan mi casa. El verbo está conjugado en plural. Toda reconstrucción se lleva a cabo con los demás, en el signo de la unidad. Juntos. Puede haber visiones diferentes, pero siempre hay que salvaguardar la unidad. Porque, si conservamos la gracia del conjunto, el Señor construye también allí donde nosotros no llegamos. La gracia del conjunto. Es nuestra llamada: ser Iglesia, un solo cuerpo entre nosotros. Es nuestra vocación como pastores: congregar al rebaño, no hacer que se disperse, y mucho menos preservarlo en hermosos recintos cerrados. Esto es matarlo. Reconstruir significa ser artesanos de comunión, tejedores de unidad en todos los ámbitos; no por una estrategia, sino por el Evangelio.

Si reconstruimos de este modo, le daremos a nuestros hermanos y hermanas la posibilidad de ver. Es el tercer verbo, con el que termina el Evangelio de hoy, con Herodes que trataba de «ver a Jesús» (Lc 9,9). Hoy, como entonces, se habla mucho de Jesús. En esos tiempos se decía «que Juan Bautista había resucitado de entre los muertos […], que se había aparecido a Elías, […] que había resucitado alguno de los antiguos profetas» (Lc 9,7-8). Todos ellos apreciaban a Jesús, pero no comprendían su novedad y lo encerraban en esquemas ya conocidos: Juan, Elías, los profetas. Pero Jesús no se puede encasillar en los esquemas de “lo que se rumorea” o “lo que ya se ha visto”. Jesús es siempre novedad, siempre. El encuentro con Jesús te llena de asombro, y si no sientes el asombro en el encuentro con Jesús, no has hallado a Jesús.

Muchos en Europa piensan que la fe es algo ya visto, que pertenece al pasado. ¿Por qué? Porque no han visto a Jesús obrar en sus vidas. Y a menudo no lo han visto porque nosotros, con nuestras vidas, no se los hemos mostrado lo suficiente. Porque Dios se ve en los rostros y en los gestos de hombres y mujeres transformados por su presencia. Y si los cristianos, más que irradiar la alegría contagiosa del Evangelio, vuelven a proponer esquemas religiosos desgastados, intelectualistas y moralistas, la gente no ve al Buen Pastor. No reconoce a Aquel que, enamorado de cada una de sus ovejas, las llama por su nombre y las busca para cargarlas sobre sus hombros. No ve a Aquel de quien predicamos la asombrosa Pasión, precisamente porque Él tiene una sola pasión: el hombre. Este amor divino, misericordioso y sorprendente es la novedad permanente del Evangelio. Y exige de nosotros, queridos hermanos, decisiones sabias y audaces, hechas en nombre de la ternura loca con la que Cristo nos ha salvado. No nos pide demostrar nos pide mostrar a Dios, como lo hicieron los santos; no con palabras, sino con la vida. Requiere oración y pobreza, creatividad y gratuidad. Ayudemos a la Europa de hoy, enferma de cansancio, esta es la enfermedad de Europa hoy, a volver a encontrar el rostro siempre joven de Jesús y de su esposa. Para que esta belleza imperecedera se vea, no podemos más que darlo todo y darnos totalmente.

 

[01271-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

Temos três verbos que, hoje, nos oferece a Palavra de Deus e que nos interpelam como cristãos e pastores na Europa: refletir, reconstruir, ver.

Refletir é a primeira coisa que o Senhor convida a fazer por meio do profeta Ageu: «Refleti, no vosso coração, sobre o caminho que tomastes». Di-lo duas vezes ao povo (Ag 1, 5.7). E sobre que aspetos do seu caminho devia refletir o povo de Deus? Ouçamos o que diz o Senhor: «É então tempo para vós habitardes em casas confortáveis, enquanto esta casa está em ruínas?» (1, 4). Regressado do exílio, o povo preocupara-se por arranjar as suas casas; agora contenta-se com viver cómodo e tranquilo em casa, enquanto o templo de Deus está em ruínas e ninguém o reconstrói. Este convite a refletir interpela-nos: de facto, também hoje na Europa nós, cristãos, somos tentados a acomodar-nos nas nossas estruturas, nas nossas casas e nas nossas igrejas, nas nossas seguranças proporcionadas pelas tradições, na satisfação por um certo consenso, enquanto em redor os templos se esvaziam e Jesus fica cada vez mais esquecido.

Reflitamos! Quantas pessoas deixaram de ter fome e sede de Deus! Não porque sejam más, mas porque falta quem lhes abra o apetite da fé e reacenda a sede que há no coração do homem: aquela «concriada e já perpétua sede» de que fala Dante (Paraíso, II, 19) e que a ditadura do consumismo – ditadura leve, mas sufocante – tenta extinguir. Muitos são levados a sentir apenas necessidades materiais, não a falta de Deus. E com certeza preocupamo-nos com isso, mas verdadeiramente quanto nos importamos? É fácil julgar quem não crê, é cómodo elencar os motivos da secularização, do relativismo e de tantos outros ismos, mas no fundo é estéril. A Palavra de Deus leva-nos a refletir sobre nós mesmos: sentimos amizade e compaixão por quem não teve a alegria de encontrar Jesus ou a perdeu? Estamos tranquilos porque no fundo não nos falta nada para viver, ou inquietos ao ver tantos irmãos e irmãs longe da alegria de Jesus?

E o Senhor, por meio do profeta Ageu, pede ao povo para refletir sobre outra coisa. Diz assim: «Comestes mas não vos saciastes; bebestes, mas não apagastes a vossa sede; vestistes-vos, mas não vos aquecestes» (1, 6). Enfim, o povo tinha tudo o que queria, e não era feliz. Que lhe faltava? No-lo sugere Jesus com palavras que parecem recalcar as de Ageu: «Tive fome e não me destes de comer, tive sede e não me destes de beber, (…) estava nu e não me vestistes» (Mt 25, 42-43). A falta de caridade causa infelicidade, porque só o amor sacia o coração. Só o amor sacia o coração. Fechados no interesse pelas próprias coisas, os habitantes de Jerusalém perderam o sabor da gratuidade. Também este pode ser o nosso problema: concentrar-se sobre as várias posições da Igreja, os debates, as agendas e estratégias, e perder de vista o verdadeiro programa que é o do Evangelho: o zelo da caridade, o ardor da gratuidade. O caminho de saída dos problemas e fechamentos é sempre o do dom gratuito; não há outro. Reflitamos nisto.

E depois de ter refletido, temos o segundo passo: reconstruir. «Reedificai a [minha] casa»: pede Deus através do profeta (Ag 1, 8). E o povo reconstrói o templo. Cessa de contentar-se com um presente tranquilo, e trabalha para o futuro. E como havia gente que era contrária, diz-nos o Livro das Crónicas que trabalhavam com uma mão nas pedras, para construir, e a outra na espada, para defender este processo de reconstrução. Não foi fácil reconstruir o templo. Disto precisa a construção da casa comum europeia: deixar as conveniências do imediato para voltar à visão clarividente dos pais fundadores, uma visão – atrever-me-ia a dizer – profética e de conjunto, porque não procuravam os consensos do momento, mas sonhavam o futuro de todos. Assim foram construídas as paredes da casa europeia e só as, é verdade sim se poderão robustecer. O mesmo vale também para a Igreja, casa de Deus. Para torná-la bela e acolhedora, é necessário olhar juntos para o futuro, não restaurar o passado. Infelizmente está na moda aquele “restauracionismo” do passado que nos mata, que nos mata a todos. Sem dúvida, devemos partir dos alicerces, das raízes – isto sim, é verdade –, porque dali se reconstrói: a partir da tradição viva da Igreja, que nos alicerça sobre o essencial, ou seja, o anúncio feliz, a proximidade e o testemunho. Daqui se reconstrói: a partir dos alicerces da Igreja dos primórdios e de sempre, da adoração de Deus e do amor ao próximo, não a partir dos próprios gostos de cada um, nem dos pactos e negociações que se possam fazer agora – digamos – para defender a Igreja e defender a cristandade.

Amados Irmãos, quero agradecer-vos por este trabalho não fácil de reconstrução, que realizais com a graça de Deus. Obrigado por estes primeiros 50 anos ao serviço da Igreja e da Europa. Encorajemo-nos, sem nunca ceder ao desânimo e à resignação: somos chamados pelo Senhor a uma obra esplêndida, a trabalhar para que a sua casa seja cada vez mais acolhedora, para que cada um possa entrar e viver nela, para que a Igreja tenha as portas abertas a todos e ninguém se sinta tentado a concentrar-se apenas em olhar e trocar as fechaduras. As pequenas coisas que nos deliciam… E somos tentados. Mas não! A mudança tem de vir doutra parte, vem das raízes. A reconstrução vem doutra parte.

O povo de Israel reconstruiu o templo com as suas próprias mãos. Os grandes reconstrutores da fé do continente fizeram o mesmo – pensemos nos Padroeiros. Puseram em jogo a sua pequenez, confiando em Deus. Penso nos Santos, como Martinho, Francisco, Domingos, Pio que hoje comemoramos; penso nos Patronos como Bento, Cirilo e Metódio, Brígida, Catarina de Sena, Teresa Benedita da Cruz. Começaram por si mesmos, por mudar a própria vida, acolhendo a graça de Deus. Não se preocuparam com os tempos sombrios, as adversidades e qualquer divisão, que sempre existiu. Não perderam tempo a criticar e culpabilizar. Viveram o Evangelho, sem se importar com a relevância e a política. Assim, com a força suave do amor de Deus, encarnaram o seu estilo de proximidade, de compaixão e de ternura – o estilo de Deus: proximidade, compaixão e ternura – e construíram mosteiros, bonificaram terras, deram alma a pessoas e países: nenhum programa “social” (entre aspas), só o Evangelho. E com o Evangelho progrediram.

Reedificai a minha casa. O verbo está conjugado no plural. Toda a reconstrução se realiza em conjunto, sob o signo da unidade, ou seja, com os outros. Pode haver diferentes visões, mas deve-se sempre guardar a unidade. Porque, se guardarmos a graça do todo, o Senhor edifica mesmo lá onde nós não conseguimos. A graça do conjunto. Esta é a nossa chamada: ser Igreja, formar um só Corpo entre nós. É a nossa vocação, como Pastores: reunir o rebanho, não o dispersar nem mesmo preservar em belos recintos fechados. Isto é matá-lo. Reconstruir significa fazer-se artesãos de comunhão, tecedores de unidade a todos os níveis: não por estratégia, mas pelo Evangelho.

Se edificarmos desta forma, daremos aos nossos irmãos e irmãs a chance de ver: é o terceiro verbo. Aparece na conclusão do Evangelho de hoje, onde se diz que Herodes procurava «ver Jesus» (cf. Lc 9, 9). Hoje, como então, fala-se muito de Jesus. Então dizia-se que «João ressuscitara dos mortos, (...) Elias aparecera, (...) um dos profetas antigos ressuscitara» (Lc 9, 7-8). Todos eles mostravam apreço por Jesus, mas não compreendiam a sua novidade e encerravam-No em esquemas já vistos: João, Elias, os profetas... Jesus, porém, não pode ser classificado nos esquemas do «ouvi dizer» ou do «já visto?… Jesus sempre é novidade, sempre. O encontro com Jesus gera em ti maravilha, e se, no encontro com Jesus, não sentes esta maravilha, não encontraste Jesus

Muitos na Europa pensam que a fé seja algo já visto, que pertence ao passado. Porquê? Porque não viram Jesus em ação nas suas vidas. E muitas vezes não O viram, porque nós não O mostramos suficientemente com as nossas vidas. Pois Deus vê-Se nos rostos e nos gestos de homens e mulheres transformados pela sua presença. E se os cristãos, em vez de irradiarem a alegria contagiante do Evangelho, repropuseram esquemas religiosos gastos, intelectualistas e moralistas, as pessoas não veem o Bom Pastor. Não reconhecem Aquele que, apaixonado por cada uma das suas ovelhas, a chama pelo nome, procura-a e trá-la de volta colocando-a aos ombros. Não veem Aquele de Quem pregamos a incrível Paixão, precisamente porque Ele tem uma única paixão: o homem. Este amor divino, misericordioso e impressionante é a novidade perene do Evangelho. E pede-nos a nós, amados Irmãos, opções sábias e ousadas, feitas em nome daquela ternura louca com que Cristo nos salvou. Não nos pede para demonstrar, pede-nos para mostrar Deus, como fizeram os Santos: não por palavras, mas com a vida. Pede oração e pobreza, pede criatividade e gratuidade. Ajudemos a Europa de hoje, doente de cansaço (esta é a doença da Europa atual) a reencontrar o rosto sempre jovem de Jesus e da sua esposa. Não podemos fazer outra coisa senão dar-nos completamente a nós mesmos para que se veja esta beleza sem ocaso.

[01271-PO.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

Są trzy czasowniki, które Słowo Boże proponuje nam dzisiaj i które stanowią wyzwanie dla nas jako chrześcijan i duszpasterzy w Europie: zastanowić się, odbudowywać, widzieć.

Do zastanowienia się przede wszystkim zachęca nas Pan przez proroka Aggenusza: „Zastanówcie się dobrze nad swoim postępowaniem!”. Mówi to dwukrotnie ludowi (Ag 1, 5. 7). Nad jakimi aspektami swego zachowania powinien się zastanowić lud Boży? Posłuchajmy, co mówi Pan: „Czy to jest czas stosowny dla was, byście spoczywali w domach wyłożonych płytami, podczas gdy ten dom leży w gruzach?” (w. 4). Lud, powróciwszy z wygnania, zajęty był porządkowaniem swoich mieszkań. A teraz jest zadowolony, siedząc wygodnie i spokojnie w domu, podczas gdy świątynia Boga jest w ruinie i nikt jej nie odbudowuje. To zaproszenie do refleksji stanowi dla nas wyzwanie: istotnie, także dzisiaj w Europie my, chrześcijanie, odczuwamy pokusę, by czuć się komfortowo w naszych strukturach, w naszych domach i w naszych kościołach, w naszym bezpieczeństwie, jakie dają tradycje, w zadowoleniu z pewnego konsensusu, podczas gdy wokół nas świątynie pustoszeją, a Jezus staje się coraz bardziej zapominany.

Zastanówmy się: jak wielu osób nie odczuwa już głodu i pragnienia Boga! Nie dlatego, że są źli, nie, ale dlatego, że nie ma nikogo, kto obudziłby w nich łaknienie wiary i rozpalił to pragnienie, które istnieje w ludzkim sercu: owo „wrodzone i wieczne pragnienie", o którym mówi Dante Alighieri (Raj, II, 19) i które próbuje ugasić dyktatura konsumpcjonizmu, dyktatura lekka, lecz dławiąca. Wielu prowadzi się do odczuwania jedynie potrzeb materialnych, a nie braku Boga. A my z pewnością martwimy się tym, ale jak bardzo się tym zajmujemy? Łatwo jest osądzać tych, którzy nie wierzą, wygodnie wymieniać przyczyny sekularyzacji, relatywizmu i wielu innych izmów, ale w istocie jest to bezowocne. Słowo Boże prowadzi nas do refleksji nad nami samymi: czy odczuwamy sympatię i współczucie dla tych, którzy nie odczuli radości spotkania z Jezusem lub ją utracili? Czy jesteśmy spokojni, bo przecież nie brakuje nam niczego do życia, czy też jesteśmy zmartwieni widząc tak wielu braci i sióstr dalekich od radości Jezusa?

Pan, przez proroka Aggeusza, prosi swój lud, aby zastanowił się nad inną rzeczą. Mówi tak: „przyjmujecie pokarm, lecz nie macie go do syta; pijecie, lecz nie gasicie pragnienia; okrywacie się, lecz się nie rozgrzewacie” (w. 6). Ludzie mieli to, czego chcieli, i nie byli szczęśliwi. Czego im brakowało? Jezus sugeruje to w słowach, które zdają się przypominać słowa Aggeusza: „byłem głodny, a nie daliście Mi jeść; byłem spragniony, a nie daliście Mi pić; byłem przybyszem, a nie przyjęliście Mnie; byłem nagi, a nie przyodzialiście Mnie” (Mt 25, 42-43). Brak miłości powoduje brak szczęścia, bo tylko miłość zaspokaja serce. Tylko miłość zaspokaja serce. Zamknięci w zainteresowaniu własnymi sprawami, mieszkańcy Jerozolimy zatracili posmak bezinteresowności. Może to być także nasz problem: skoncentrowanie się na różnych stanowiskach w Kościele, na debatach, programach i strategiach, a stracenie z oczu prawdziwego programu, programu Ewangelii: energii miłości, żaru bezinteresowności. Drogą wyjścia z problemów i zamknięć jest zawsze dar darmo dany. Nie ma innego. Zastanówmy się.

Po zastanowieniu się jest drugi krok: odbudowa. „Budujcie ten dom” - prosi Bóg przez proroka (Ag 1,8). A lud odbudowuje świątynię. Przestaje zadowalać się spokojną teraźniejszością i pracuje dla przyszłości. A ponieważ byli ludzie przeciwni temu, Księga Kronik mówi, że lud pracował jedną ręką nad kamieniami, dla budowy, a drugą ręką trzymał miecz, aby bronić procesu odbudowy. Nie było łatwo odbudować świątynię. Tego właśnie wymaga budowa wspólnego europejskiego domu: pozostawienia za sobą wygód teraźniejszości i powrotu do dalekowzrocznej wizji ojców założycieli, wizji – odważę się powiedzieć – proroczej i całościowej, ponieważ nie szukali oni zgody danej chwili, lecz marzyli o przyszłości dla wszystkich. Tak właśnie zbudowano mury europejskiego domu i tylko w ten sposób można je umocnić. Odnosi się to również do Kościoła, domu Bożego. Aby uczynić go pięknym i gościnnym, musimy wspólnie patrzeć w przyszłość, a nie przywracać przeszłość. Niestety modne jest to „przywracanie” przeszłości, które nas zabija, zabija nas wszystkich. Oczywiście, musimy zacząć od fundamentów, od korzeni – tak, to prawda – ponieważ to właśnie tam możemy odbudować: od żywej tradycji Kościoła, która opiera się na tym, co najważniejsze, na dobrej nowinie, na bliskości i na świadectwie. Stąd się odbudowuje, od fundamentów Kościoła pierwszych wieków i wszystkich czasów, od adorowania Boga i miłości bliźniego, a nie od własnych, partykularnych upodobań, nie od paktów i negocjacji, które możemy prowadzić teraz, powiedzmy, dla obrony Kościoła lub obrony chrześcijaństwa.

Drodzy bracia, pragnę wam podziękować za to niełatwe dzieło odbudowy, które prowadzicie z łaską Bożą. Dziękuję za te pierwsze 50 lat w służbie Kościoła i Europy. Wspierajmy się nawzajem, nie poddając się nigdy zniechęceniu czy rezygnacji: jesteśmy powołani przez Pana do wspaniałego dzieła, do pracy, aby Jego dom był coraz bardziej gościnny, aby wszyscy mogli do niego wejść i w nim żyć, aby Kościół miał drzwi otwarte dla wszystkich i aby nikt nie ulegał pokusie koncentrowania się tylko na strzeżeniu i zmienianiu zamków. Małe, wykwintne rzeczy… A my jesteśmy kuszeni. Nie, przemiany dokonują się gdzie indziej, wychodzą od korzenia. Odbudowa dokonuje się gdzie indziej.

Lud Izraela odbudował świątynię własnymi rękami. To samo czynili wielcy odbudowujący wiarę na kontynencie – myślimy o Patronach. Położyli na szali swoją małość, ufając Bogu. Myślę o świętych, takich jak Marcin, Franciszek, Dominik, o wspominanym dziś Pio; o patronach, takich jak Benedykt, Cyryl i Metody, Brygida, Katarzyna ze Sieny, Teresa Benedykta od Krzyża. Zaczęli od samych siebie, od przemiany swojego życia przez przyjęcie łaski Bożej. Nie przejmowali się mrocznymi czasami, przeciwnościami i jakimiś podziałami, które zawsze istniały. Nie tracili czasu na krytykowanie i obwinianie. Żyli Ewangelią, nie zważając na swe znaczenie i politykę. W ten sposób, z łagodną siłą miłości Boga, wcielili w życie Jego styl bliskości, współczucia i czułości – w stylu Boga: bliskość, współczucie i czułość -, i budowali klasztory, uprawiali pola, oddawali dusze ludziom i krajom: bez żadnego programu „społecznego” w cudzysłowie, jedynie Ewangelia. I z Ewangelią szli do przodu.

Odbudujcie mój dom. Czasownik jest odmieniany w liczbie mnogiej. Każda rekonstrukcja odbywa się wspólnie, pod znakiem jedności. Wraz z innymi. Mogą istnieć różne wizje, ale zawsze należy strzec jedności. Bo jeśli zachowujemy łaskę jedności, Pan buduje nawet tam, gdzie my zawodzimy. Łaska jedności. To jest nasze powołanie: być Kościołem, jednym Ciałem pośród nas. To jest nasze powołanie jako pasterzy: gromadzić owczarnię, a nie rozpraszać jej, ani też zachowywać w pięknych, zamkniętych zagrodach. To oznacza zabijać ją. Odbudowywać, znaczy stawać się budowniczymi komunii, nawiązującymi więzy jedności na każdym poziomie: nie ze względu na strategię, lecz ze względu na Ewangelię.

Jeśli będziemy w ten sposób odbudowywali, to damy naszym braciom i siostrom możliwość zobaczenia. Jest to trzeci czasownik, którym kończy się dzisiejsza Ewangelia, gdy Herod starał się „zobaczyć Jezusa” (por. Łk 9, 9). Dziś, podobnie jak wówczas, wiele mówi się o Jezusie. W owych dniach mówiono: „Jan powstał z martwych [...] zjawił się Eliasz [...] któryś z dawnych proroków zmartwychwstał” (Łk 9, 7-8). Wszyscy ci ludzie cenili Jezusa, ale nie rozumieli Jego nowości i zamykali Go w schematach, które już widzieli: Jan, Eliasz, prorocy... Nie można jednak Jezusa zaszufladkować do schematów „słyszeliśmy” czy „już widzieliśmy”. Jezus zawsze jest nowością. Spotkanie z Jezusem budzi w tobie zdumienie, a jeśli w spotkaniu z Jezusem nie odczuwasz zdumienia, nie spotkałeś Jezusa.

Wielu ludzi w Europie uważa, że wiara jest czymś już widzianym, że należy do przeszłości. Dlaczego? Ponieważ nie widzieli Jezusa działającego w ich życiu. I często nie widzieli Go, ponieważ nie ukazaliśmy Go wystarczająco poprzez nasze życie. Ponieważ Boga widzi się w twarzach i gestach mężczyzn i kobiet przemienionych Jego obecnością. I jeśli chrześcijanie, zamiast promieniować zarażającą radością Ewangelii, proponują na nowo zużyte, intelektualistyczne i moralistyczne schematy religijne, to ludzie nie widzą Dobrego Pasterza. Nie rozpoznają Tego, który, rozmiłowany w każdej ze swoich owiec, woła je po imieniu i szuka ich, aby wziąć je na swe ramiona. Nie widzą Tego, którego niewyobrażalną Mękę głosimy, właśnie dlatego, że On ma tylko jedną pasję: człowieka. Ta Boża miłość, miłosierna i wszechogarniająca, jest odwieczną nowością Ewangelii. I wymaga od nas, drodzy bracia, mądrych i odważnych wyborów, dokonywanych w imię szalonej czułości, z jaką Chrystus nas zbawił. Nie żąda od nas udowodnienia, żąda ukazywania Boga, tak jak czynili to święci: nie słowami, lecz życiem. Żąda modlitwy i ubóstwa, żąda kreatywności i bezinteresowności. Pomóżmy dzisiejszej Europie chorej na znużenie – to jest choroba dzisiejszej Europy – w odkryciu na nowo wiecznie młodego oblicza Jezusa i Jego Oblubienicy. Możemy jedynie dać z siebie wszystko, aby to nieprzemijające piękno mogło zostać dostrzeżone.

[01271-PL.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua araba

عظة قداسة البابا فرنسيس

في القدّاس الإلهيّ

مع مجلس الأساقفة الكاثوليك في أوروبا

يوم الخميس 23 سبتمبر / أيلول 2021

بازيليكا القدّيس بطرس

يوجد ثلاثة أفعال تقدّمها لنا كلمة الله اليوم وتخاطبنا وتتحدَّانا بكوننا مسيحيّين ورعاة في أوروبا وهي: فكّر، وأعاد البناء، ورأى.

الفعل "فكّر" هو ما يدعو الله أولًا إلى القيام به على فمِ النبي حجاي: "فَكِّروا في مَصيرِكم"، وقال ذلك مرتين للشّعب (حجاي 1، 5. 7). في أي وجه من أوجه تصرفه كان على الشعب أن يفكّر؟ لنصغِ إلى ما قاله الله: "أفحَانَ لَكم أَن تَسكُنوا في بيوتِكُمُ المُسَقَّفَة، وهذا البَيتُ خَرِب؟" (الآية 4). بعد أن عاد الشعب من المنفى، حرص على إعادة ترتيب مساكنه. ثم اكتفى كلّ واحد بالراحة والطمأنينة في بيته، بينما كان هيكل الله في حالة خراب ولم يُعِدْ أحد بناءه. هذه الدعوة إلى التفكير موجهة إلينا أيضًا: في الواقع، حتى اليوم في أوروبا، نحن المسيحيّين، نميل إلى البقاء مطمئنين في مؤسساتنا، وفي بيوتنا وفي كنائسنا، وفي أَمننا الذي توفره التقاليد، وفي الاكتفاء ببعض الإجماع، بينما كلّ شيء حول الهياكل فارغ، والناس يزدادون نسيانًا ليسوع.

لنفكّر: كم من الناس لم يعودوا جياعًا وعِطاشًا إلى الله! ليس لأنّهم سيئون، لا، بل لأنّه لا يوجد من يجعلهم يتوقون إلى الإيمان ويعيد إحياء ذلك العطش فيهم والموجود في قلب الإنسان: ذلك "العطش الفعلي والدائم" الذي تحدث عنه دانتي (Paradiso, II,19)، والتي تحاول ديكتاتورية النزعة الاستهلاكية، ديكتاتورية خفيفة ولكنّها خانقة، أن تخمده. يشعر الكثيرون باحتياجات مادية فقط، ولا يشعرون بأيّة حاجة إلى الله. ونحن بالتأكيد قلقون بشأن ذلك، ولكن إلى أي مدى نهتم به حقًا؟ من السهل أن نحكم على الذين لا يؤمنون، ومن السهل أن نعِدّ اللوائح بأسباب العلمنة والنسبيّة والعديد من المذاهب الأخرى، لكن هذا في النهاية عقيم. تدفعنا كلمة الله على التفكير في أنفسنا: هل نشعر بالمودة والرّحمة تجاه الذين لم يحظوا بفرح لقاء يسوع أو لأنّهم فقدوه؟ هل نحن مطمئنون لأنّه لا ينقصنا شيء في الأساس لنعيش، أم نحن قلقون لرؤية إخوة وأخوات لنا كثيرين بعيدين عن فرح يسوع؟

طلب الله من شعبه، بواسطة النبي حجاي، أن يفكّروا في شيء آخر. قال هكذا: "أكَلتُم ولَم تَشبَعوا. شَرِبتُم ولَم تَرتَوُوا. اكتَسَيتُم ولَم تَدفأوا" (الآية 6). باختصار، كان لدى الشعب ما يريد، ولم يكن سعيدًا. ما الذي كان ينقصه؟ أشار يسوع إلى ذلك، بكلمات يبدو أنّها تردد صدى كلمات النبي حجاي: "لأِنِّي جُعتُ فَما أَطعَمتُموني، وعَطِشتُ فما سَقَيتُموني، [...]، وعُرياناً فما كَسوتُموني" (متى 25، 42 - 43). غياب المحبّة يُسبِّب عدم السعادة، لأنّ المحبّة وَحدها تشبع القلب. المحبّة وَحدها تشبع القلب. انغلق سكان أورشليم على مصالحهم الخاصة، ففقدوا طعم المجانيّة. قد تكون هذه مشكلتنا نحن أيضًا: أن نركّز على أنفسنا في مواقف مختلفة في الكنيسة، وفي المناقشات والأجندات والاستراتيجيات، وأن نجهل البرنامج الحقيقي، برنامج الإنجيل: اندفاع المحبة، وحرارة المجانيّة. المَخرَج من المشاكل والانغلاقات على أنفسنا هو دائمًا العطاء المجاني. لا توجد طريق أخرى. لنفكر في ذلك.

وبعد التفكير، الخطوة الثانية هي إعادة البناء. طلب الله على فمِ النبي قال: "أَعيدوا بِناءَ البَيت" (حجاي 1، 8). وأعاد الشعب بناء الهيكل. توقّف عن الاكتفاء بحاضر سلمي وعَمِلَ من أجل المستقبل. وبما أنّه كان يوجد أشخاص معارضين لهذا، يقول لنا سفر الأخبار إنّهم عملوا بيد على الحجارة للبناء، وباليد الأخرى بالسّيف، للدّفاع عن عمليّة إعادة البناء هذه. لم يكن سهل إعادة بناء الهيكل. هذا ما يحتاج إليه بناء البيت الأوروبي المشترك: أن نترك المصالح الحاليّة وأن نعود إلى رؤية بعيدة النظر للآباء المؤسسين، رؤيّة – أسمح لنفسي أن أقول - نبويّة وشاملة، لأنّهم لم يسعوا للحصول على إجماع اللحظة (في زمنهم)، ولكن حلموا بمستقبل الجميع. هكذا تم بناء جدران البيت الأوروبي وبهذه الطريقة فقط يمكن تقويتها. وهذا ينطبق أيضًا على الكنيسة، بيت الله. لنجعلها جميلة ومضيافة، من الضروري أن ننظر إلى المستقبل معًا، لا لاستعادة الماضي. للأسف، أصبحت استعادة الماضي التي تقتلنا، تقتلنا كلّنا، صرعة عصريّة. بالتأكيد، يجب أن نبدأ من الأسس، من الجذور – هذا نعم، وهو صحيح -، لأنّه من هناك يُعاد البناء: من التقليد الحيّ للكنيسة، الذي يقيمنا على الأساس، وعلى الخبر السار، وعلى القرب والشهادة. من هناك يُعاد البناء، من أسس الكنيسة الأصليّة والدائمة، ومن السجود لله ومن محبّة القريب، وليس من الأذواق الخاصة، وليس من خلال الاتفاقيّات والمفاوضات التي يمكننا القيام بها الآن، لنَقُل، للدّفاع عن الكنيسة أو للدّفاع عن المسيحيّة.

أيّها الإخوة الأعزاء، أودّ أن أشكركم على هذا العمل غير السّهل لإعادة البناء، الذي تقومون به بنعمة الله. وأشكركم على هذه السنوات الخمسين الأولى في خدمة الكنيسة وأوروبا. لنشجع أنفسنا، دون أن نرضخ أبدًا للإحباط والاستسلام: نحن مدعوون، الله يدعونا إلى عمل رائع، للعمل حتى يكون بيته دائمًا أكثر ترحيبًا، وحتى يتمكن كلّ واحد من الدخول والعيش فيه، وحتى تكون أبواب الكنيسة مفتوحة للجميع، ولا أحد يقع في تجربة التركيز على نفسه، فيغيّر الأقفال. الأمور الصّغيرة تشدّنا… ونحن نقع في التجربة. لا، التّغيير يحدث من مكان آخر، إنّه يأتي من الجذور. إعادة البناء تحدث من مكان آخر.

أعاد شعب إسرائيل بناء الهيكل من جديد بأيديهم. وقد فعل كبار بناة إيمان القارة الجدد الشيء نفسه – لنفكّر في الرّعاة. لقد وضعوا ضعفهم وصغرهم في المسيرة، واتكلوا على الله. أفكر في القدّيسين، مثل مارتينس، وفرنسيس، ودومينيك، وبيوس الذي نذكره اليوم، وأفكر في الشفعاء مثل بنديكتس، وكيريلس وميثوديوس، وبريجيدا، وكاترينا السيانية، وتريزا بنديكتا للصليب. بدأوا بأنفسهم بتغيير حياتهم واستقبلوا نعمة الله. لم يهتموا للأوقات المظلمة والشدائد وبعض الانقسامات التي كانت موجودة دائمًا. لم يضيعوا الوقت في الانتقاد واللوم. عاشوا الإنجيل، بغض النظر عن ما هو الأهم والأنسب وعن السياسة. وهكذا، بقوة محبّة الله الوادعة، جسّدوا أسلوبه في القرب والرّحمة والحنان – وهو أسلوب الله: القرب والرّحمة والحنان -، وبنوا الأديرة، واستصلحوا الأراضي، وأعادوا الرّوح إلى الناس والبلاد: لم يكن لديهم أي برنامج اجتماعي ”بين قوسين“، كان لديهم فقط الإنجيل. ومع الإنجيل هُم ساروا قُدمًا.

أَعيدوا بِناءَ البَيت. الفعل في صيغة الجمع. كلّ عملية إعادة بناء تتم معًا، للدلالة على الوَحدة. مع الآخرين. قد تكون هناك رؤى مختلفة، لكن يجب الحفاظ على الوَحدة دائمًا. لأنّنا إذا حافظنا على نعمة ”أن نكون معًا“، فإنّ الله يبني أيضًا حيث لا نستطيع. إنّها نعمة أن نكون معًا. إنّها دعوتنا: أن نكون كنيسة، جسدًا واحدًا فيما بيننا. إنّها دعوتنا لأنّنا رعاة: أن نجمع القطيع، لا أن نشتته، ولا حتى أن نحفظه داخل سياج جميل ومغلق. هذا يعني قتله. إعادة البناء تعني أن نصبح صانعي شركة، ونسّاج وَحدة على كلّ المستويات: ليس عن طريق الاستراتيجية، بل بالإنجيل.

إذا أعدنا البناء بهذه الطريقة، سنمنح إخوتنا وأخواتنا الفرصة ”لأن يروا“. وهذا هو الفعل الثالث، الذي ينتهي به إنجيل اليوم مع هيرودس الذي كان يحاول "أَن يَرى يسوع" (راجع لوقا 9، 9). اليوم كما في ذلك الحين، الحديث عن يسوع كثير. في تلك الأيام كان يُقال: "إِنَّ يوحنَّا قامَ مِن بَينِ الأَموات [...]، إِنَّ إِيلِيَّا ظَهَر [...] إِنَّ نَبِيّاً مِنَ الأَنبِياءِ الأَوَّلينَ قام" (لوقا 9، ​​7-8). كلّهم كانوا يقدّرون يسوع، لكنّهم لم يفهموا الجديد الذي أراد أن يعطيه ووضعوه في مخططات عرفوها من قبل في: يوحنا، وإيليا، والأنبياء... لكن يسوع لا يمكن تصنيفه وحصره في مخططات مبنية على ”سمعت أنّه قيل“ أو ”رأيته من قبل“. يسوع دائمًا يعطي ما هو جديد، دائمًا. يمنحك اللقاء مع يسوع الدّهشة، وإذا لم تشعر بالدّهشة في لقائك مع يسوع، فأنت لم تلتق يسوع.

يعتقد الكثيرون في أوروبا أنّ الإيمان شيء ”رأيناه“ من قبل، وأنّه يعود إلى الماضي. لماذا؟ لأنّهم لم يروا يسوع يعمل في حياتهم. وغالبًا لم يروا ذلك لأنّنا لم نظهره لهم بشكل كافٍ في حياتنا. ولأنّ الله يُرى في وجوه وأعمال الرجال والنساء الذين يعكسون حضوره. فإذا كان المسيحيون، بدلًا من أن يشعوا الفرح المعدي للإنجيل، ما زالوا يعيدون اقتراح خطط دينيّة بالية في محاولات عقلانية أو أخلاقيّة، فإنّ الناس لن يروا الراعي الصالح. ولن يتعرّفوا على الذي يحبّ كلّ خروف ويدعوه باسمه ويبحث عنه ليضعه على كتفه. ولن يروا ذلك الذي نعظ عن آلامه المذهلة، لأنّه هو له حبّ واحد هو الإنسان. هذا الحبّ الإلهي، والرحيم، والمثير هو الجديد الدائم للإنجيل. وهو يسألنا، أيّها الإخوة الأعزاء، أن نتخذ خيارات حكيمة وجريئة، نصنعها باسم الحنان الجنوني الذي خلصنا به المسيح. إنّه لا يطلب منّا أن نقدم البراهين، بل يطلب منّا أن نقدم الله، كما فعل القدّيسون: ليس بالكلمات، بل بالحياة. هذا يطلب منا الصّلاة والفقر، ويطلب إبداعًا ومجانيّة. لنساعد أوروبا اليوم، المريضة المتعبة – هذا هو مرض أوروبا اليوم -، حتى تكتشف من جديد وجه يسوع الشاب وعروسه (الكنيسة). لا يسعنا إلّا أن نعطي كلّ شيء نحن أنفسُنا حتى يرى العالم هذا الجمال الخالد.

[01271-AR.02] [Testo originale: Italiano]

[B0594-XX.02]