Videomessaggio del Santo Padre
Traduzione in lingua francese
Traduzione in lingua inglese
Traduzione in lingua spagnola
Pubblichiamo di seguito il testo del Videomessaggio che il Santo Padre Francesco ha inviato, a conclusione dei lavori, ai partecipanti all’Incontro internazionale “Economy of Francesco - Papa Francesco e i giovani da tutto il mondo per l’economia di domani”, in corso ad Assisi - in diretta streaming - dal 19 al 21 novembre 2020:
Videomessaggio del Santo Padre
Cari giovani, buon pomeriggio!
Grazie per essere lì, per tutto il lavoro che avete fatto, per l’impegno di questi mesi, malgrado i cambi di programma. Non vi siete scoraggiati, anzi, ho conosciuto il livello di riflessione, la qualità, la serietà e la responsabilità con cui avete lavorato: non avete tralasciato nulla di ciò che vi dà gioia, vi preoccupa, vi indigna e vi spinge a cambiare.
L’idea originaria era di incontrarci ad Assisi per ispirarci sulle orme di San Francesco. Dal Crocifisso di San Damiano e da altri volti – come quello del lebbroso – il Signore gli è andato incontro, lo ha chiamato e gli ha affidato una missione; lo ha spogliato degli idoli che lo isolavano, delle perplessità che lo paralizzavano e lo chiudevano nella solita debolezza del “si è sempre fatto così” – questa è una debolezza! – o della tristezza dolciastra e insoddisfatta di quelli che vivono solo per sé stessi e gli ha regalato la capacità di intonare un canto di lode, espressione di gioia, libertà e dono di sé. Perciò, questo incontro virtuale ad Assisi per me non è un punto di arrivo ma la spinta iniziale di un processo che siamo invitati a vivere come vocazione, come cultura e come patto.
La vocazione di Assisi
“Francesco va’, ripara la mia casa che, come vedi, è in rovina”. Queste furono le parole che smossero il giovane Francesco e che diventano un appello speciale per ognuno di noi. Quando vi sentite chiamati, coinvolti e protagonisti della “normalità” da costruire, voi sapete dire “sì”, e questo dà speranza. So che avete accettato immediatamente questa convocazione, perché siete in grado di vedere, analizzare e sperimentare che non possiamo andare avanti in questo modo: lo ha mostrato chiaramente il livello di adesione, di iscrizione e di partecipazione a questo patto, che è andato oltre le capacità. Voi manifestate una sensibilità e una preoccupazione speciali per identificare le questioni cruciali che ci interpellano. L’avete fatto da una prospettiva particolare: l’economia, che è il vostro ambito di ricerca, di studio e di lavoro. Sapete che urge una diversa narrazione economica, urge prendere atto responsabilmente del fatto che «l’attuale sistema mondiale è insostenibile da diversi punti di vista»[1] e colpisce nostra sorella terra, tanto gravemente maltrattata e spogliata, e insieme i più poveri e gli esclusi. Vanno insieme: tu spogli la terra e ci sono tanti poveri esclusi. Essi sono i primi danneggiati… e anche i primi dimenticati.
Attenzione però a non lasciarsi convincere che questo sia solo un ricorrente luogo comune. Voi siete molto più di un “rumore” superficiale e passeggero che si può addormentare e narcotizzare con il tempo. Se non vogliamo che questo succeda, siete chiamati a incidere concretamente nelle vostre città e università, nel lavoro e nel sindacato, nelle imprese e nei movimenti, negli uffici pubblici e privati con intelligenza, impegno e convinzione, per arrivare al nucleo e al cuore dove si elaborano e si decidono i temi e i paradigmi.[2] Tutto ciò mi ha spinto a invitarvi a realizzare questo patto. La gravità della situazione attuale, che la pandemia del Covid ha fatto risaltare ancora di più, esige una responsabile presa di coscienza di tutti gli attori sociali, di tutti noi, tra i quali voi avete un ruolo primario: le conseguenze delle nostre azioni e decisioni vi toccheranno in prima persona, pertanto non potete rimanere fuori dai luoghi in cui si genera, non dico il vostro futuro, ma il vostro presente. Voi non potete restare fuori da dove si genera il presente e il futuro. O siete coinvolti o la storia vi passerà sopra.
Una nuova cultura
Abbiamo bisogno di un cambiamento, vogliamo un cambiamento, cerchiamo un cambiamento.[3] Il problema nasce quando ci accorgiamo che, per molte delle difficoltà che ci assillano, non possediamo risposte adeguate e inclusive; anzi, risentiamo di una frammentazione nelle analisi e nelle diagnosi che finisce per bloccare ogni possibile soluzione. In fondo, ci manca la cultura necessaria per consentire e stimolare l’apertura di visioni diverse, improntate a un tipo di pensiero, di politica, di programmi educativi, e anche di spiritualità che non si lasci rinchiudere da un’unica logica dominante.[4] Se è urgente trovare risposte, è indispensabile far crescere e sostenere gruppi dirigenti capaci di elaborare cultura, avviare processi – non dimenticatevi questa parola: avviare processi – tracciare percorsi, allargare orizzonti, creare appartenenze… Ogni sforzo per amministrare, curare e migliorare la nostra casa comune, se vuole essere significativo, richiede di cambiare «gli stili di vita, i modelli di produzione e di consumo, le strutture consolidate di potere che oggi reggono le società».[5] Senza fare questo, non farete nulla.
Abbiamo bisogno di gruppi dirigenti comunitari e istituzionali che possano farsi carico dei problemi senza restare prigionieri di essi e delle proprie insoddisfazioni, e così sfidare la sottomissione – spesso inconsapevole – a certe logiche (ideologiche) che finiscono per giustificare e paralizzare ogni azione di fronte alle ingiustizie. Ricordiamo, ad esempio, come bene osservò Benedetto XVI, che la fame «non dipende tanto da scarsità materiale, quanto piuttosto da scarsità di risorse sociali, la più importante delle quali è di natura istituzionale».[6] Se voi sarete capaci di risolvere questo, avrete la via aperta per il futuro. Ripeto il pensiero di Papa Benedetto: la fame non dipende tanto da scarsità materiale, quanto piuttosto da scarsità di risorse sociali, la più importante delle quali è di natura istituzionale.
La crisi sociale ed economica, che molti patiscono nella propria carne e che sta ipotecando il presente e il futuro nell’abbandono e nell’esclusione di tanti bambini e adolescenti e di intere famiglie, non tollera che privilegiamo gli interessi settoriali a scapito del bene comune. Dobbiamo ritornare un po’ alla mistica [allo spirito] del bene comune. In questo senso, permettetemi di rilevare un esercizio che avete sperimentato come metodologia per una sana e rivoluzionaria risoluzione dei conflitti. Durante questi mesi avete condiviso varie riflessioni e importanti quadri teorici. Siete stati capaci di incontrarvi su 12 tematiche (i “villaggi”, voi li avete chiamati): 12 tematiche per dibattere, discutere e individuare vie praticabili. Avete vissuto la tanto necessaria cultura dell’incontro, che è l’opposto della cultura dello scarto, che è alla moda. E questa cultura dell’incontro permette a molte voci di stare intorno a uno stesso tavolo per dialogare, pensare, discutere e creare, secondo una prospettiva poliedrica, le diverse dimensioni e risposte ai problemi globali che riguardano i nostri popoli e le nostre democrazie.[7] Com’è difficile progredire verso soluzioni reali quando si è screditato, calunniato e decontestualizzato l’interlocutore che non la pensa come noi! Questo screditare, calunniare o decontestualizzare l’interlocutore che non la pensa come noi è un modo di difendersi codardamente dalle decisioni che io dovrei assumere per risolvere tanti problemi. Non dimentichiamo mai che «il tutto è più delle parti, ed è anche più della loro semplice somma»[8], e che «la mera somma degli interessi individuali non è in grado di generare un mondo migliore per tutta l’umanità».[9]
Questo esercizio di incontrarsi al di là di tutte le legittime differenze è il passo fondamentale per qualsiasi trasformazione che aiuti a dar vita a una nuova mentalità culturale e, quindi, economica, politica e sociale; perché non sarà possibile impegnarsi in grandi cose solo secondo una prospettiva teorica o individuale senza uno spirito che vi animi, senza alcune motivazioni interiori che diano senso, senza un’appartenenza e un radicamento che diano respiro all’azione personale e comunitaria.[10]
Così il futuro sarà un tempo speciale, in cui ci sentiamo chiamati a riconoscere l’urgenza e la bellezza della sfida che ci si presenta. Un tempo che ci ricorda che non siamo condannati a modelli economici che concentrino il loro interesse immediato sui profitti come unità di misura e sulla ricerca di politiche pubbliche simili che ignorano il proprio costo umano, sociale e ambientale.[11] Come se potessimo contare su una disponibilità assoluta, illimitata o neutra delle risorse. No, non siamo costretti a continuare ad ammettere e tollerare in silenzio nei nostri comportamenti «che alcuni si sentano più umani di altri, come se fossero nati con maggiori diritti»[12] o privilegi per il godimento garantito di determinati beni o servizi essenziali.[13] Non basta neppure puntare sulla ricerca di palliativi nel terzo settore o in modelli filantropici. Benché la loro opera sia cruciale, non sempre sono capaci di affrontare strutturalmente gli attuali squilibri che colpiscono i più esclusi e, senza volerlo, perpetuano le ingiustizie che intendono contrastare. Infatti, non si tratta solo o esclusivamente di sovvenire alle necessità più essenziali dei nostri fratelli. Occorre accettare strutturalmente che i poveri hanno la dignità sufficiente per sedersi ai nostri incontri, partecipare alle nostre discussioni e portare il pane alle loro case. E questo è molto più che assistenzialismo: stiamo parlando di una conversione e trasformazione delle nostre priorità e del posto dell’altro nelle nostre politiche e nell’ordine sociale.
In pieno secolo XXI, «non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori».[14] State attenti a questo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. È la cultura dello scarto, che non solamente scarta, bensì obbliga a vivere nel proprio scarto, resi invisibili al di là del muro dell’indifferenza e del confort.
Io ricordo la prima volta che ho visto un quartiere chiuso: non sapevo che esistessero. È stato nel 1970. Sono dovuto andare a visitare dei noviziati della Compagnia, e sono arrivato in un Paese, e poi, andando per la città, mi hanno detto: “No, da quella parte non si può andare, perché quello è un quartiere chiuso”. Dentro c’erano dei muri, e dentro c’erano le case, le strade, ma chiuso: cioè un quartiere che viveva nell’indifferenza. A me colpì tanto vedere questo. Ma poi questo è cresciuto, cresciuto, cresciuto…, ed era dappertutto. Ma io ti domando: il tuo cuore è come un quartiere chiuso?
Il patto di Assisi
Non possiamo permetterci di continuare a rimandare alcune questioni. Questo enorme e improrogabile compito richiede un impegno generoso nell’ambito culturale, nella formazione accademica e nella ricerca scientifica, senza perdersi in mode intellettuali o pose ideologiche – che sono isole –, che ci isolino dalla vita e dalla sofferenza concreta della gente.[15] È tempo, cari giovani economisti, imprenditori, lavoratori e dirigenti d’azienda, è tempo di osare il rischio di favorire e stimolare modelli di sviluppo, di progresso e di sostenibilità in cui le persone, e specialmente gli esclusi (e tra questi anche sorella terra), cessino di essere – nel migliore dei casi – una presenza meramente nominale, tecnica o funzionale per diventare protagonisti della loro vita come dell’intero tessuto sociale.
Questo non sia una cosa nominale: esistono i poveri, gli esclusi… No, no, che quella presenza non sia nominale, non sia tecnica, non funzionale. È tempo che diventino protagonisti della loro vita come dell’intero tessuto sociale. Non pensiamo per loro, pensiamo con loro. Ricordatevi l’eredità dell’illuminismo, delle élites illuminate. Tutto per il popolo, niente con il popolo. E questo non va. Non pensiamo per loro, pensiamo con loro. E da loro impariamo a far avanzare modelli economici che andranno a vantaggio di tutti, perché l’impostazione strutturale e decisionale sarà determinata dallo sviluppo umano integrale, così ben elaborato dalla dottrina sociale della Chiesa. La politica e l’economia non devono «sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia. Oggi, pensando al bene comune, abbiamo bisogno in modo ineludibile che la politica e l’economia, in dialogo, si pongano decisamente al servizio della vita, specialmente della vita umana».[16] Senza questa centralità e questo orientamento rimarremo prigionieri di una circolarità alienante che perpetuerà soltanto dinamiche di degrado, esclusione, violenza e polarizzazione: «Ogni programma, elaborato per aumentare la produzione, non ha in definitiva altra ragion d’essere che il servizio della persona. La sua funzione è di ridurre le disuguaglianze, combattere le discriminazioni, liberare l’uomo dalle sue servitù. […] Non basta accrescere la ricchezza comune perché sia equamente ripartita – no, non basta questo –, non basta promuovere la tecnica perché la terra diventi più umana da abitare»[17]. Neppure questo basta.
La prospettiva dello sviluppo umano integrale è una buona notizia da profetizzare e da attuare – e questi non sono sogni: questa è la strada – , una buona notizia da profetizzare e da attuare, perché ci propone di ritrovarci come umanità sulla base del meglio di noi stessi: il sogno di Dio che impariamo a farci carico del fratello, e del fratello più vulnerabile (cfr Gen 4,9). «La misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente – la misura dell’umanità –. Questo vale per il singolo come per la società»;[18] misura che deve incarnarsi anche nelle nostre decisioni e nei modelli economici.
Come fa bene lasciar risuonare le parole di San Paolo VI, quando, nel desiderio che il messaggio evangelico permeasse e guidasse tutte le realtà umane, scriveva: «Lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo. […] – ogni uomo e tutto l’uomo! –. Noi non accettiamo di separare l’economico dall’umano, lo sviluppo dalla civiltà dove si inserisce. Ciò che conta per noi è l’uomo, ogni uomo, ogni gruppo d’uomini, fino a comprendere l’umanità intera».[19]
In questo senso, molti di voi avranno la possibilità di agire e di incidere su decisioni macroeconomiche, dove si gioca il destino di molte nazioni. Anche questi scenari hanno bisogno di persone preparate, «prudenti come i serpenti e semplici come le colombe» (Mt 10,16), capaci di «vigilare in ordine allo sviluppo sostenibile dei Paesi e per evitare l’asfissiante sottomissione di tali Paesi a sistemi creditizi che, ben lungi dal promuovere il progresso, sottomettono le popolazioni a meccanismi di maggiore povertà, esclusione e dipendenza».[20] I sistemi creditizi da soli sono una strada per la povertà e la dipendenza. Questa legittima protesta chiede di suscitare e accompagnare un modello di solidarietà internazionale che riconosca e rispetti l’interdipendenza tra le nazioni e favorisca i meccanismi di controllo capaci di evitare ogni tipo di sottomissione, come pure vigilare sulla promozione dei Paesi più svantaggiati e in via di sviluppo; ogni popolo è chiamato a rendersi artefice del proprio destino e di quello del mondo intero.[21]
***
Cari giovani, «oggi siamo di fronte alla grande occasione di esprimere il nostro essere fratelli, di essere altri buoni samaritani che prendono su di sé il dolore dei fallimenti, invece di fomentare odi e risentimenti».[22] Un futuro imprevedibile è già in gestazione; ciascuno di voi, a partire dal posto in cui opera e decide, può fare molto; non scegliete le scorciatoie, che seducono e vi impediscono di mescolarvi per essere lievito lì dove vi trovate (cfr Lc 13,20-21). Niente scorciatoie, lievito, sporcarsi le mani. Passata la crisi sanitaria che stiamo attraversando, la peggiore reazione sarebbe di cadere ancora di più in un febbrile consumismo e in nuove forme di autoprotezione egoistica. Non dimenticatevi, da una crisi mai si esce uguali: usciamo meglio o peggio. Facciamo crescere ciò che è buono, cogliamo l’opportunità e mettiamoci tutti al servizio del bene comune. Voglia il Cielo che alla fine non ci siano più “gli altri”, ma che impariamo a maturare uno stile di vita in cui sappiamo dire “noi”.[23] Ma un “noi” grande, non un “noi” piccolino e poi “gli altri”, no, questo non va.
La storia ci insegna che non ci sono sistemi né crisi in grado di annullare completamente la capacità, l’ingegno e la creatività che Dio non cessa di suscitare nei cuori. Con dedizione e fedeltà ai vostri popoli, al vostro presente e al vostro futuro, voi potete unirvi ad altri per tessere un nuovo modo di fare la storia. Non temete di coinvolgervi e di toccare l’anima delle città con lo sguardo di Gesù; non temete di abitare coraggiosamente i conflitti e i crocevia della storia per ungerli con l’aroma delle Beatitudini. Non temete, perché nessuno si salva da solo. Nessuno si salva da solo. A voi giovani, provenienti da 115 Paesi, rivolgo l’invito a riconoscere che abbiamo bisogno gli uni degli altri per dar vita a questa cultura economica, capace di «far germogliare sogni, suscitare profezie e visioni, far fiorire speranze, stimolare fiducia, fasciare ferite, intrecciare relazioni, risuscitare un’alba di speranza, imparare l’uno dall’altro, e creare un immaginario positivo che illumini le menti, riscaldi i cuori, ridoni forza alle mani, e ispiri ai giovani – a tutti i giovani, nessuno escluso – la visione di un futuro ricolmo della gioia del Vangelo».[24] Grazie!
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[1] Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 61. D’ora in poi LS.
[2] Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 74. D’ora in poi EG.
[3] Cfr Discorso nell’Incontro mondiale dei movimenti popolari, Santa Cruz de la Sierra, 9 luglio 2015.
[4] Cfr LS, 111.
[5] S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus (1 maggio 1991), 58.
[6] Lett. enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 27.
[7] Cfr Discorso al Seminario “Nuove forme di fraternità solidale, di inclusione, integrazione e innovazione”
organizzato dalla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali (5 febbraio 2020). Ricordiamo che «la vera sapienza, frutto della riflessione, del dialogo e dell’incontro generoso fra le persone, non si acquisisce con una mera accumulazione di dati che finisce per saturare e confondere, in una specie di inquinamento mentale» (LS, 47).
[8] EG, 235.
[9] Lett. enc. Fratelli tutti (3 ottobre 2020), 105. D’ora in poi FT.
[10] Cfr LS, 216.
[11] Favorendo, all’occorrenza, l’evasione fiscale, il mancato rispetto dei diritti dei lavoratori, come pure «la possibilità di corruzione da parte di alcune delle imprese più grandi del mondo, non di rado in sintonia con il settore politico governante» (Discorso al Seminario “Nuove forme di fraternità solidale, di inclusione, integrazione e innovazione”, cit.).
[12] LS, 90. Per esempio «incolpare l’incremento demografico e non il consumismo estremo e selettivo di alcuni, è un modo per non affrontare i problemi. Si pretende così di legittimare l’attuale modello distributivo, in cui una minoranza si crede in diritto di consumare in una proporzione che sarebbe impossibile generalizzare, perché il pianeta non potrebbe nemmeno contenere i rifiuti di un simile consumo» (LS, 50).
[13] Benché tutti siamo dotati della medesima dignità, non tutti partono dalla stessa posizione e con le stesse possibilità allorché si considera l’ordine sociale. Questo ci interroga e ci chiede di pensare delle strade affinché la libertà e l’uguaglianza non siano un dato meramente nominale che si presta a favorire l’ingiustizia (cfr FT, 21-23). Ci farà bene domandarci: «Che cosa accade senza la fraternità consapevolmente coltivata, senza una volontà politica di fraternità, tradotta in un’educazione alla fraternità, al dialogo, alla scoperta della reciprocità e del mutuo arricchimento come valori?» (FT, 103).
[14] EG, 53. In un mondo di virtualità, cambiamenti e frammentazione, i diritti sociali non possono essere solamente esortazioni o appelli nominalistici, ma devono essere faro e bussola del cammino, perché «lo stato di salute delle istituzioni di una società comporta conseguenze per l’ambiente e per la qualità della vita umana» (LS, 142).
[15] Cfr Cost. ap. Veritatis gaudium (8 dicembre 2017), 3.
[16] LS, 189.
[17] S. Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio (26 marzo 1967), 34. D’ora in poi PP.
[18] Benedetto XVI, Lett. enc. Spe salvi (30 novembre 2007), 38.
[19] PP, 14.
[20] Discorso all’Assemblea Generale dell’ONU (25 settembre 2015).
[21] Cfr PP, 65.
[22] FT, 77.
[23] Cfr ibid., 35.
[24] Discorso all’inizio del Sinodo dedicato ai giovani (3 ottobre 2018).
[01412-IT.01] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua francese
Chers jeunes, bon après-midi!
Merci d’être là, pour tout le travail que vous avez fait, pour l’engagement de ces mois, malgré les changements de programme. Vous ne vous êtes pas découragés, au contraire, j’ai su le niveau de réflexion, la qualité, le sérieux et la responsabilité avec lesquels vous avez travaillé: vous n’avez rien négligé de ce qui vous donne la joie, de ce qui vous préoccupe, de ce qui vous indigne et de ce qui vous pousse à changer.
L’idée initiale était de nous rencontrer à Assise pour nous inspirer sur les pas de saint François. Depuis le Crucifix de saint Damien et d’autres visages – comme celui du lépreux – le Seigneur est allé à sa rencontre, l’a appelé et lui a confié une mission; il l’a dépouillé des idoles qui l’isolaient, des perplexités qui le paralysaient et le renfermaient dans la faiblesse habituelle du “on a toujours fait comme ça” – c’est une faiblesse! – ou de la tristesse douceâtre et insatisfaite de ceux qui vivent seulement pour eux-mêmes, et il lui a donné la capacité d’entonner un chant de louange, expression de joie, de liberté et de don de soi. C’est pourquoi cette rencontre virtuelle à Assise n’est pas pour moi un point d’arrivée mais l’impulsion initiale d’un processus que nous sommes invités à vivre comme vocation, comme culture et comme pacte.
La vocation d’Assise
“François, va, répare ma maison qui, comme tu vois, est en ruine”. Ce furent les paroles qui firent agir le jeune François et qui deviennent un appel spécial pour chacun de nous. Lorsque vous vous sentez appelés, impliqués et protagonistes de la “normalité” à construire, vous savez dire “oui”, et cela donne de l’espérance. Je sais que vous avez accepté immédiatement cette invitation, parce que vous êtes capables de voir, d’analyser et d’expérimenter que nous ne pouvons pas aller de l’avant de cette façon: le niveau d’adhésion, d’inscription et de participation à ce pacte, qui est allé au-delà des capacités, l’a clairement montré. Vous manifestez une sensibilité et une préoccupation spéciales pour identifier les questions cruciales qui nous interpellent. Vous l’avez fait dans une perspective particulière: l’économie, qui est votre domaine de recherche, d’étude et de travail. Vous savez qu’un récit économique différent est urgent, qu’il est urgent de prendre acte de manière responsable du fait que «l’actuel système mondial est insoutenable de divers points de vue»[1] et frappe notre sœur terre, si gravement maltraitée et dépouillée, ainsi que les pauvres et les exclus. Ils vont ensemble: tu dépouilles la terre et il y a de nombreux pauvres exclus. Ils sont les premiers à subir les dommages… et aussi les premiers oubliés.
Attention cependant à ne pas se laisser convaincre que ce serait seulement un lieu commun récurent. Vous êtes beaucoup plus qu’un “bruit” superficiel et passager qu’on peut endormir et anesthésier avec le temps. Si nous ne voulons pas que cela arrive, vous êtes appelés à avoir concrètement de l’influence dans vos villes et universités, dans le travail et dans le syndicat, dans les entreprises et dans les mouvements, dans les services publics et privés, avec intelligence, engagement et conviction, pour arriver au centre et au cœur où s’élaborent et se décident les thèmes et les paradigmes.[2] Tout cela m’a poussé à vous inviter à réaliser ce pacte. La gravité de la situation actuelle, que la pandémie de la Covid a encore plus mise en évidence, exige une prise de conscience responsable de tous les acteurs sociaux, de nous tous, parmi lesquels vous avez un rôle fondamental: les conséquences de nos actions et décisions vous toucheront personnellement, vous ne pouvez donc pas rester hors des endroits où on produit, je ne dis pas votre avenir, mais votre présent. Vous ne pouvez pas rester en dehors de là où on produit le présent et le futur. Soit vous êtes impliqués, soit l’histoire vous passera par-dessus.
Une nouvelle culture
Nous avons besoin d’un changement, nous voulons un changement, nous cherchons un changement.[3] Le problème naît quand nous nous apercevons que, pour la plupart des difficultés qui nous assaillent, nous ne possédons pas de réponses adéquates et inclusives; pire, nous souffrons d’une fragmentation d’analyses et de diagnostics qui finit par bloquer toute solution possible. Au fond, il nous manque la culture nécessaire pour permettre et stimuler l’ouverture de visions différentes, empreintes d’un type de pensée, de politique, de programmes éducatifs, et même de spiritualité qui ne se laisse pas renfermer dans une seule logique dominante.[4] S’il est urgent de trouver des réponses, il est indispensable de faire grandir et de soutenir des groupes dirigeants capables d’élaborer une culture, de lancer des processus – n’oubliez pas cette parole: lancer des processus – tracer des parcours, élargir des horizons, créer des appartenances… Tout effort pour administrer, soigner et améliorer notre maison commune, s’il veut être significatif, demande de changer «les styles de vie, les modèles de production et de consommation, les structures de pouvoir établies qui régissent aujourd'hui les sociétés».[5] Sans faire cela, vous ne ferez rien.
Nous avons besoin de groupes dirigeants communautaires et institutionnels qui puissent assumer des problèmes sans rester prisonniers d’eux-mêmes et de leurs insatisfactions, et ainsi défier la soumission – souvent inconsciente – à certaines logiques (idéologiques) qui finissent par justifier et paralyser toute action devant les injustices. Rappelons-nous, par exemple, comme l’a bien observé Benoît XVI, que la faim «ne dépend pas tant d’une carence de ressources matérielles, que d’une carence de ressources sociales, la plus importante d’entre elles étant de nature institutionnelle».[6] Si vous êtes capables de résoudre cela, vous aurez la voie ouverte pour l’avenir. Je répète la pensée du Pape Benoît: la faim ne dépend pas tant d’une carence de ressources matérielles, que d’une carence de ressources sociales, la plus importante d’entre elles étant de nature institutionnelle.
La crise sociale et économique, dont beaucoup souffrent dans leur chair et qui hypothèque le présent et l’avenir dans l’abandon et dans l’exclusion de nombreux enfants et adolescents et de familles entières, ne tolère pas que nous privilégions les intérêts sectoriels aux dépens du bien commun. Nous devons retourner un peu à la mystique [à l’esprit] du bien commun. Dans ce sens, permettez-moi de relever un exercice que vous avez expérimenté comme méthodologie pour une résolution des conflits saine et révolutionnaire. Durant ces mois vous avez partagé diverses réflexions et d’importants cadres théoriques. Vous avez été capables de vous rencontrer sur 12 thématiques (vous les avez appelées les “villages”): 12 thématiques pour débattre, discuter et identifier des voies praticables. Vous avez vécu la culture de la rencontre si nécessaire qui est le contraire de la culture du rejet qui est à la mode. Et cette culture de la rencontre permet à beaucoup de voix d’être autour d’une même table pour dialoguer, penser, discuter et créer, selon une perspective polyédrique, les différentes dimensions et réponses aux problèmes globaux qui regardent nos peuples et nos démocraties.[7] Comme c’est difficile de progresser vers des solutions réelles quand on discrédite, calomnie et décontextualise l’interlocuteur qui ne pense pas comme nous! Cette façon de discréditer, calomnier ou décontextualiser l’interlocuteur qui ne pense pas comme nous est une façon de se défendre lâchement contre les décisions que je devrais assumer pour résoudre beaucoup de problèmes. N’oublions jamais que «le tout est plus que la partie, et plus aussi que la simple somme de celles-ci»[8], et que «la simple somme des intérêts individuels n’est pas capable de créer un monde meilleur pour toute l’humanité».[9]
Cet exercice de se rencontrer au-delà de toutes les différences légitimes est l’étape fondamentale pour n’importe quelle transformation qui aide à donner vie à une nouvelle mentalité culturelle et, donc, économique, politique et sociale; parce qu’il ne sera pas possible de s’engager dans de grandes choses seulement selon une perspective théorique ou individuelle sans un esprit qui vous anime, sans quelques motivations intérieures qui donnent sens, sans une appartenance et un enracinement qui donnent du souffle à l’action personnelle et communautaire.[10]
Ainsi l’avenir sera un temps spécial, où nous nous sentons appelés à reconnaître l’urgence et la beauté du défi qui se présente à nous. Un temps qui nous rappelle que nous ne sommes pas condamnés à des modèles économiques qui concentrent leur intérêt immédiat sur les profits comme unité de mesure, et sur la recherche de politiques publiques semblables qui ignorent leur coût humain, social et environnemental.[11] Comme si nous pouvions compter sur une disponibilité absolue, illimitée ou neutre des ressources. Non, nous ne sommes pas contraints à continuer d’admettre et de tolérer en silence, dans nos comportements «que les uns se sentent plus humains que les autres, comme s’ils étaient nés avec de plus grands droits»[12] ou privilèges pour la jouissance garantie de biens déterminés ou de services essentiels.[13] Il ne suffit pas non plus de se concentrer sur la recherche des palliatifs dans le secteur tertiaire ou dans des modèles philanthropiques. Bien que leur œuvre soit cruciale, ils ne sont pas toujours capables d’affronter structurellement les déséquilibres actuels qui frappent les plus exclus et, sans le vouloir, perpétuent les injustices qu’ils souhaitent combattre. En effet, il ne s’agit pas seulement ou exclusivement de subvenir aux nécessités les plus essentielles de nos frères. Il faut accepter structurellement que les pauvres ont la dignité suffisante pour s’asseoir à nos rencontres, participer à nos discussions et ramener le pain dans leurs maisons. Et cela c’est beaucoup plus que de l’assistance: nous parlons d’une conversion et d’une transformation de nos priorités et de la place de l’autre dans nos politiques et dans l’ordre social.
En plein XXIe siècle, «il ne s’agit plus simplement du phénomène de l’exploitation et de l’oppression, mais de quelque chose de nouveau : avec l’exclusion est touchée, dans sa racine même, l’appartenance à la société dans laquelle on vit, du moment qu’en elle on ne se situe plus dans les bas-fonds, dans la périphérie, ou sans pouvoir, mais on est dehors».[14] Soyez attentifs à cela: avec l’exclusion est frappée, dans sa propre racine, l’appartenance à la société dans laquelle on vit, du moment qu’en elle on n’est pas dans les bas-fonds, dans les périphéries, ou sans pouvoir, mais on est dehors. C’est la culture du rejet, qui non seulement rejette, mais oblige à vivre dans son propre rejet, rendus invisibles au-delà du mur de l’indifférence et du confort.
Je me souviens de la première fois que j’ai vu un quartier fermé: je ne savais pas qu’ils existaient. C’était en 1970. J’ai dû aller visiter des novices de la Compagnie, et je suis arrivé dans un pays, et ensuite, en me promenant dans la ville, on m’a dit: “Non, on ne peut pas aller dans cette direction, parce que c’est un quartier fermé”. A l’intérieur il y avait des murs, et à l’intérieur il y avait les maisons, les routes, mais fermé: c’est-à-dire un quartier qui vivait dans l’indifférence. J’ai été très frappé de voir cela. Mais ensuite cela a grandi, grandi, grandi…, et c’était partout. Mais je te demande: ton cœur est-il comme un quartier fermé?
Le Pacte d’Assise
Nous ne pouvons pas nous permettre de continuer à remettre à plus tard certaines questions. Ce devoir énorme et urgent exige un engagement généreux dans le domaine culturel, dans la formation académique et dans la recherche scientifique, sans se perdre dans des modes intellectuels ou dans des attitudes idéologiques - qui sont des îles -, qui nous isolent de la vie et de la souffrance concrète des gens.[15] Il est temps, chers jeunes économistes, entrepreneurs, travailleurs et chefs d’entreprise, il est temps d’oser le risque de favoriser et de stimuler des modèles de développement, de progrès et de durabilité dans lesquels les personnes, et spécialement les exclus (et parmi ceux-ci aussi la sœur terre), cessent d’être – dans le meilleur des cas – une présence purement nominale, technique ou fonctionnelle pour devenir des protagonistes de leur vie ainsi que du tissu social tout entier.
Que ceci ne soit pas quelque chose de nominal; les pauvres, les exclus…existent. Non, non, que cette présence ne soit pas nominale, qu’elle ne soit pas technique, non plus fonctionnelle. Il est temps qu’ils deviennent des protagonistes de leur vie ainsi que du tissu social tout entier. Ne pensons pas pour eux, pensons avec eux. Rappelez-vous l’héritage des Lumières, des élites éclairées. Tout pour le peuple, rien avec le peuple. Et ceci n’est pas bien. Ne pensons pas pour eux, pensons avec eux. Et apprenons d’eux à faire progresser des modèles économiques qui profiterons à tous, parce que l’organisation structurelle et décisionnelle sera déterminée par le développement humain intégral, si bien élaboré par la doctrine sociale de l’Eglise. La politique et l’économie ne doivent pas « se soumettre aux diktats ni au paradigme d’efficacité de la technocratie. Aujourd’hui, en pensant au bien commun, nous avons impérieusement besoin que la politique et l’économie, en dialogue, se mettent résolument au service de la vie, spécialement de la vie humaine».[16] Sans cette centralité et cette orientation, nous resterons prisonniers d’une circularité aliénante qui perpétue seulement des dynamiques de dégradation, d’exclusion, de violence et de polarisation: «Tout programme, fait pour augmenter la production, n'a en définitive de raison d'être qu'au service de la personne. Il est là pour réduire les inégalités, combattre les discriminations, libérer l'homme de ses servitudes. […] Il ne suffit pas d'accroître la richesse commune pour qu'elle se répartisse équitablement – non, cela ne suffit pas –. Il ne suffit pas de promouvoir la technique pour que la terre soit plus humaine à habiter».[17] Même cela ne suffit pas.
La perspective du développement humain intégral est une bonne nouvelle qu’il faut prophétiser et réaliser – et ce ne sont pas des rêves: c’est le chemin –, une bonne nouvelle qu’il faut prophétiser et réaliser, parce qu’elle nous propose de nous retrouver comme humanité sur la base du meilleur de nous-mêmes: le rêve de Dieu que nous apprenions à être responsables du frère, et du frère le plus vulnérable (cf. Gen 4, 9). « La mesure de l'humanité se détermine essentiellement dans son rapport à la souffrance et à celui qui souffre – la mesure de l’humanité –. Cela vaut pour chacun comme pour la société »;[18] une mesure qui doit aussi s’incarner dans nos décisions et dans nos modèles économiques.
Comme cela fait du bien de laisser résonner les paroles de saint Paul VI, quand, en désirant que le message évangélique imprègne et guide toutes les réalités humaines, il écrivait: «Le développement ne se réduit pas à la simple croissance économique. Pour être authentique, il doit être intégral, c'est-à-dire promouvoir tout homme et tout l'homme. […] – tout homme et tout l'homme - Nous n'acceptons pas de séparer l'économique de l'humain, le développement des civilisations où il s'inscrit. Ce qui compte pour nous, c'est l'homme, chaque homme, chaque groupement d'hommes, jusqu'à l'humanité tout entière».[19]
En ce sens, beaucoup d’entre vous auront la possibilité d’agir et de peser sur des décisions macroéconomiques, où se joue le destin de plusieurs nations. Ces scénarios ont aussi besoin de personnes préparées, «prudentes comme les serpents, et candides comme les colombes» (Mt 10, 16), capables de « veiller au développement durable des pays, et à ce qu’ils ne soient pas soumis, de façon asphyxiante, à des systèmes de crédits qui, loin de promouvoir le progrès, assujettissent les populations à des mécanismes de plus grande pauvreté, d’exclusion et de dépendance».[20] Les systèmes de crédits à eux seuls sont une voie pour la pauvreté et la dépendance. Cette protestation légitime demande de susciter et d’accompagner un modèle de solidarité internationale qui reconnaisse et respecte l’interdépendance entre les nations et favorise les mécanismes de contrôle capables d’éviter toute forme de soumission, ainsi que de veiller à la promotion des pays plus désavantagés et en voie de développement; chaque peuple est appelé à être artisan de son propre destin et de celui du monde entier.[21]
***
Chers jeunes, «aujourd’hui, nous nous trouvons face à la grande opportunité de montrer que, par essence, nous sommes frères, l’opportunité d’être d’autres bons samaritains qui prennent sur eux-mêmes la douleur des échecs, au lieu d’accentuer les haines et les ressentiments».[22] Un avenir imprévisible est déjà en gestation; chacun d’entre vous, à partir de la place où il opère et décide, peut faire beaucoup; ne choisissez pas les raccourcis qui séduisent et vous empêchent de vous mélanger pour être du levain là où vous vous trouvez (cf. Lc 13, 20-21). Pas de raccourcis, du levain, se salir les mains. Lorsque la crise sanitaire que nous sommes en train de traverser sera passée, la pire réaction serait de tomber encore plus dans un consumérisme fébrile et dans de nouvelles formes d’autoprotection égoïste. Ne l’oubliez pas, on ne sort jamais indemnes d’une crise: on en sort meilleurs ou pires. Faisons croître ce qui est bon, cueillons l’opportunité et mettons-nous tous au service du bien commun. Plaise au Ciel qu’en fin de compte il n’y ait plus "les autres", mais que nous apprenions à mûrir un style de vie dans lequel nous savons dire "nous".[23] Mais un grand "nous", non pas un petit "nous" et puis "les autres", non, cela ne va pas.
L’histoire nous enseigne qu’il n’y a pas de systèmes ni de crises qui soient en mesure d’annuler complètement la capacité, l’ingéniosité et la créativité que Dieu ne cesse de susciter dans les cœurs. Avec dévouement et fidélité à vos peuples, à votre présent et à votre avenir, vous pouvez vous unir à d’autres pour tisser une nouvelle manière de faire l’histoire. N’ayez pas peur de vous impliquer et de toucher l’âme des cités avec le regard de Jésus; n’ayez pas peur d’habiter courageusement les conflits et les carrefours de l’histoire pour les oindre avec l’arôme des Béatitudes. N’ayez pas peur, parce que personne ne se sauve tout seul. Personne ne se sauve tout seul. A vous, jeunes, provenant de 115 Pays, j’adresse l’invitation à reconnaître que nous avons besoin les uns des autres pour donner vie à cette culture économique, capable de «faire germer des rêves, susciter des prophéties et des visions, faire fleurir des espérances, stimuler la confiance, bander les blessures, tisser des relations, ressusciter une aube d’espérance, apprendre l’un de l’autre, et créer un imaginaire positifqui éclaire les esprits, réchauffe les cœurs, redonne des forces aux mains, et inspire aux jeunes – à tous les jeunes, personne n’est exclu – la vision d’un avenir rempli de la joie de l’Evangile».[24] Merci.
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[1] Lett. enc. Laudato si’ (24 mai 2015), n. 61. Dorénavant LS.
[2] Cf. Exhort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), n. 74. Dorénavant EG.
[3] Cf. Discours durant la Rencontre mondiale des mouvements populaires, Santa Cruz de la Sierra, 9 juillet 2015.
[4] Cf. LS, n. 111.
[5] S. Jean-Paul II, Lett. enc. Centesimus annus (1er mai 1991), n. 58.
[6] Lett. enc. Caritas in veritate (29 juin 2009), n. 27.
[7] Cf. Discours aux participants à un Séminaire sur les “nouvelles formes de fraternité solidaire” organisé par l’Académie Pontificale des Sciences Sociales (5 février 2020). Rappelons-nous que «la vraie sagesse, fruit de la réflexion, du dialogue et de la rencontre généreuse entre les personnes, ne s’obtient pas par une pure accumulation de données qui finissent par saturer et obnubiler, comme une espèce de pollution mentale» (LS, n. 47).
[8] EG, n. 235.
[9] Lett. enc. Fratelli tutti (3 octobre 2020), n. 105. Dorénavant FT.
[10] Cf. LS, n. 216.
[11] En favorisant, au besoin, l’évasion fiscale, le non-respect des droits des travailleurs, comme aussi «la possibilité de corruption de la part de certaines des entreprises les plus grandes du monde, souvent en accord avec le secteur politique gouvernant» (Discours aux participants à un Séminaire sur les “nouvelles formes de fraternité solidaire”, cit.).
[12] LS, n. 90. Par exemple «accuser l’augmentation de la population et non le consumérisme extrême et sélectif de certains est une façon de ne pas affronter les problèmes. On prétend légitimer ainsi le modèle de distribution actuel où une minorité se croit le droit de consommer dans une proportion qu’il serait impossible de généraliser, parce que la planète ne pourrait même pas contenir les déchets d’une telle consommation» (LS, n. 50).
[13] Bien que nous soyons tous dotés de la même dignité, tout le monde ne part pas de la même position et avec les mêmes possibilités lorsqu’on considère l’ordre social. Cela nous interroge et nous demande de penser des chemins afin que la liberté et l’égalité ne soient pas un donné simplement nominal de nature à développer l’injustice (cf. FT, nn. 21-23). On devrait se demander: «Que se passe-t-il sans une fraternité cultivée consciemment, sans une volonté politique de fraternité, traduite en éducation à la fraternité, au dialogue, à la découverte de la réciprocité et de l’enrichissement mutuel comme valeurs?» (FT, n. 103).
[14] EG, n. 53. Dans un monde de virtualité, de changements et de fragmentation, les droits sociaux ne peuvent pas être seulement des exhortations ou des appels nominalistes, mais ils doivent être le phare du chemin, parce que «l’état des institutions d’une société a aussi des conséquences sur l’environnement et sur la qualité de vie humaine» (LS, n. 142).
[15] Cf. Const. ap. Veritatis gaudium (8 décembre 2017), n. 3.
[16] LS, n. 189.
[17] S. Paul VI, Lett. enc. Populorum progressio (26 mars 1967), n. 34.
[18] Benoît VI, Lett. enc. Spe salvi (30 novembre 2007), n. 38.
[19] PP, n. 14.
[20] Discours à l’Assemblée Générale de l’ONU (25 septembre 2015).
[21] Cf. PP, n. 65.
[22] FT, n. 77.
[23] Cf. ibid., n. 35.
[24] Discours à l’ouverture du Synode dédié aux jeunes (3 octobre 2018).
[01412-FR.01] [Texte original: Italien]
Traduzione in lingua inglese
Dear young people, good afternoon!
Thank you for being there, for all the work you have done, and for the efforts you have made over the past months, despite changes in our programme. You did not lose heart, and in fact I have appreciated the level of reflection, precision and seriousness with which you have worked. You brought to it all of your passion for the things that excite you, cause you concern, make you indignant and urge you to work for change.
Our original idea was to meet in Assisi, to find inspiration in the footsteps of Saint Francis. In the crucifix at San Damiano, and in many other faces – like that of the leper – the Lord came to Francis, called him and gave him a mission. He empowered Francis to cast off the idols that had isolated him from others, the questions and doubts that had paralyzed him and kept him trapped in thinking “this is the way things have always been done” (for that is a trap!), or in the bittersweet melancholy of those caught up only in themselves. The Lord made it possible for Francis to intone a hymn of praise, an expression of his joy, freedom and self-giving. I consider this virtual meeting in Assisi not as an endpoint, but rather the beginning of a process that we are asked to undertake together as a vocation, a culture and a covenant.
The vocation of Assisi
“Francis, go and repair my house, which you can see is in ruins”. These were the words that so stirred the young Francis, and have become a special summons addressed to each one of us. When you feel called to share actively in the building of a new “normal”, you respond by saying “yes” and this is a source of great hope. I know that you immediately accepted this invitation because you yourselves are in a position to realize that things cannot go on the way they are. This was evident from your interest and your active participation in this covenant, which has surpassed all expectations. You showed a personal interest in identifying the crucial issues we are facing, and you did this from a particular perspective: that of the economy, which is your area of research, study and work. You recognize the urgent need for a different economic narrative, for a responsible realization that “the present world system is certainly unsustainable from a number of points of view”[1] and is harming our sister earth, so gravely maltreated and despoiled, together with the poor and the excluded in our midst. Those two things go together: if you harm the earth, the number of poor and excluded increases. They are the first to be hurt… and the first to be forgotten.
Be careful, though, not to be talked into believing that this is just another banal problem. Your voice is much more than an empty, passing outcry that can be quelled with the passage of time. Rather, you are called to have a concrete impact on cities and universities, workplaces and unions, businesses and movements, public and private offices, and to work with intelligence, commitment and conviction in order to reach the centres where ideas and paradigms[2] are developed and decided. That is why I have invited you to make this covenant. The gravity of the present situation, made all the more evident by the Covid pandemic, demands that a responsible stand be taken by all social actors, all of us, with yourselves in the forefront. The effects of our actions and decisions will affect you personally. Consequently, you cannot remain outside the centres that are shaping not only your future, but also, I am convinced, your present. You cannot absent yourselves from those places where the present and future are generated. You are either part of them or history will pass you by.
A new culture
We need change; we want change and we seek change.[3] But the problem arises when we realize that we lack adequate and inclusive answers to many of our current problems. Indeed, we experience a certain fragmentation in our analyses and diagnoses that ends up blocking every possible solution. Deep down, we lack the culture required to inspire and encourage different visions marked by theoretical approaches, politics, educational programmes and indeed spirituality, that cannot be fit into a single dominant mindset.[4] Given the urgent need to come up with answers, it is indispensable to promote and support leadership groups capable of shaping culture, sparking processes – remember that word: processes – blazing trails, broadening horizons and building common bonds… Every effort to organize, care for and improve our common home, if it is to be meaningful, will also demand a change in “life-style, models of production and consumption, and established structures of power which today govern societies”.[5] Without this, you will accomplish nothing.
We need, on the local and institutional levels, leadership groups that can take up problems without becoming trapped or frustrated by them, and in this way challenge the tendency – often unconscious – to submit to certain ideological ways of thinking that end up justifying injustices and paralyzing all efforts to combat them. As a example, we can think of hunger, which, as Benedict XVI rightly pointed out, “is not so much dependent on a lack of material resources as on a shortage of social resources, the most important of which are institutional”.[6] If you are able to resolve this problem, you will open up a path to the future. Let me repeat those words of Pope Benedict: hunger depends less on lack of material resources than on the lack of social resources, the most important of which are institutional.
The social and economic crisis that many people are experiencing at first hand, and that is mortgaging the present and the future by the abandonment and exclusion of many children, adolescents and entire families, makes it intolerable for us to privilege sectorial interests to the detriment of the common good. We need to recover a sense of the common good. Here I would bring up an exercise that you have experimented with as a method for a sound and revolutionary resolution of conflicts. In these months, you have shared a number of reflections and significant theoretical models. You have considered twelve problems (the “villages” as you call them) in order to debate, discuss and identify practical approaches to resolving them. You have experienced the urgently needed culture of encounter, which is the opposite of the throwaway culture now in vogue. This culture of encounter makes it possible for many voices to be heard around the same table, in order to dialogue, consider, discuss and formulate, in a polyhedral perspective, different aspects and possible responses to global problems involving our peoples and our democracies.[7] It is not easy to move towards real solutions when those who do not think like ourselves are discredited, slandered and misquoted! Discrediting, slandering and misquoting are cowardly ways of refusing to make the decisions needed to solve many problems. Let us never forget that “the whole is greater than the part, but it is also greater than the sum of its parts”,[8] and that “the mere sum of individual interests is not capable of generating a better world for the whole human family”.[9]
This exercise – encountering one another aside from all legitimate differences – is the first step towards any change that can help generate a new cultural and consequently economic, political and social mentality. For you will never be able to undertake great things solely from a theoretical or individual perspective, without a spirit that drives you, without meaningful interior motivations, without a sense of belonging and rootedness that can enhance personal and communal activities.[10]
The future will thus prove an exciting time that summons us to acknowledge the urgency and the beauty of the challenges lying before us. A time that reminds us that we are not condemned to economic models whose immediate interest is limited to profit and promoting favourable public policies, unconcerned with their human, social and environmental cost.[11] Policies that assume we can count on an absolute, unlimited and indifferent availability of resources. We are not forced to continue to think, or quietly accept by our way of acting, that “some feel more human than others, as if they were born with greater rights”[12] or privileges for the guaranteed enjoyment of determined essential goods or services.[13] Nor is it sufficient to trust in the search for palliatives in the third sector or in philanthropic models. Although their efforts are crucial, they are not always capable of confronting structurally the current imbalances, which affect those most excluded, and they unintentionally perpetuate the very injustices they seek to combat. Nor is it simply or exclusively a matter of meeting the most essential needs of our brothers and sisters. We need to accept structurally that the poor have sufficient dignity to sit at our meetings, participate in our discussions and bring bread to their own tables. It is about much more than “social assistance” or “welfare”: we are speaking of a conversion and transformation of our priorities and of the place of others in our policies and in the social order.
Today, well into the twenty-first century, “it is no longer simply about exploitation and oppression, but something new. Exclusion ultimately has to do with what it means to be part of the society in which we live; those excluded are no longer society’s underside, or its fringes or its disenfranchised – they are no longer even a part of it”.[14] Think about this: exclusion strikes at the root of what it means to be a part of the society in which we live, since those who are excluded are no longer society’s underside, or its fringes or its disenfranchised – they are no longer even a part of it. This is the culture of waste, which not only discards, but makes others feel discarded, rendered invisible on the other side of the wall of indifference and comfort.
I remember the first time I saw a closed neighbourhood: I didn’t know they existed. I had to visit the Jesuit novitiates, and in one country, as I passed through the city, they told me: “You can’t go to that part, because it is a closed neighbourhood”. Inside, there were walls, houses and streets, but closed off: a neighbourhood living in indifference. I was quite struck by this. But afterwards those neighbourhoods grew and kept growing, everywhere. Let me ask you: is your heart like a closed neighbourhood?
The Assisi covenant
Certain questions can no longer be deferred. The enormous and urgent task of facing them demands generous commitment in the areas of culture, academic training and scientific research, and a refusal to indulge in intellectual fashions or ideological positions, little islands that isolate us from life and from the real suffering of people.[15] Dear young economists, entrepreneurs, workers and business leaders, the time has come to take up the challenge of promoting and encouraging models of development, progress and sustainability in which people, especially the excluded (including our sister earth), will no longer be – at most – a merely nominal, technical or functional presence. Instead, they will become protagonists in their own lives and in the entire fabric of society.
This calls for more than empty words: “the poor” and “the excluded” are real people. Instead of viewing them from a merely technical or functional standpoint, it is time to let them become protagonists in their own lives and in the fabric of society as a whole. Let us not think for them, but with them. Not acting, according to the model of the Enlightenment, as enlightened élites, where everything is done for the people, but nothing with the people. This is not acceptable. Let us, then, not think for them, but with them. Let us learn from them how to propose economic models that will benefit everyone, since their structural and decisional approaches will be determined by the integral human development clearly set forth by the Church’s social doctrine. Politics and economics must not “be subject to the dictates of an efficiency-driven paradigm of technocracy. Today, in view of the common good, there is an urgent need for politics and economics to enter into a frank dialogue in the service of life, especially human life”.[16] Lacking such focus and direction, we would remain prisoners of an alienating circularity that would perpetuate only dynamics of degradation, exclusion, violence and polarization. “Every program organized to increase productivity should have but one aim: to serve persons. They should reduce forms of inequality, eliminate discrimination, free people from the bonds of servitude… It is not enough to increase the general fund of wealth and then distribute it more fairly. This is not enough. Nor is it enough to develop technology so that the earth may become a more fitting dwelling place for human beings”.[17] This too is not enough.
The approach of integral human development is good news to be proclaimed and put into practice. Not a dream, but a concrete path: good news to be proclaimed and put into practice, for it proposes that we rediscover our common humanity on the basis of the best of ourselves, namely, God’s dream that we learn to be keepers of our brothers and sisters and those most vulnerable (cf. Gen 4:9). “The true measure of humanity is essentially determined in relationship to suffering and to the sufferer. This holds true for both individuals and for society”.[18] The measure of humanity: a measure that must be embodied in our decisions and our economic models.
How reassuring it is to hear once more the words of Saint Paul VI, who in his desire that the Gospel message permeate and guide all human realities, wrote that “development cannot be restricted to economic growth alone. To be authentic, it must be well-rounded; it must foster the development of each person and of the whole person… We cannot allow economics to be separated from human realities, nor development from the civilization in which it takes place. What counts for us is man, each individual man and woman, each human group, and humanity as a whole”.[19]
Many of you will have the ability to affect and shape macro-economic decisions involving the destiny of many nations. Here too, there is great need for individuals who are well-prepared, “wise as serpents and innocent as doves” (Mt 10:16). Individuals capable of caring for “the sustainable development of countries and [ensuring] that they are not subjected to oppressive lending systems which, far from promoting progress, subject people to mechanisms which generate greater poverty, exclusion and dependence”.[20] Lending systems, by themselves, lead to poverty and dependence. It is legitimate to call for the development of a model of international solidarity capable of acknowledging and respecting interdependence between nations and favouring mechanisms of control that prevent any kind of subjection. And working for the promotion of the most disadvantaged and developing countries, for every people is called to become the artisan of its own destiny and that of the entire world.[21]
***
Dear young people, “today we have a great opportunity to express our innate sense of fraternity, to be Good Samaritans who bear the pain of other people’s troubles rather than fomenting greater hatred and resentment”.[22] An unpredictable future is already dawning. Each of you, starting from the places in which you work and make decisions, can accomplish much. Do not seek shortcuts, however attractive, that prevent you from getting involved and being a leaven wherever you find yourselves (cf. Lk 13:20-21). No shortcuts! Be a leaven! Roll up your sleeves! Once the present health crisis has passed, the worst reaction would be to fall even more deeply into feverish consumerism and forms of selfish self-protection. Remember: we never emerge from a crisis unaffected: either we end up better or worse. Let us foster what is good, make the most of this moment and place ourselves at the service of the common good. God grant that in the end there will no longer be “others”, but that we adopt a style of life where we can speak only of “us”.[23] Of a great “us”. Not of a petty “us” and then of “others”. That will not do.
History teaches us that no system or crisis can completely suppress the abilities, ingenuity and creativity that God constantly awakens within us. With dedication and fidelity to your peoples, and to your present and future, you can join others in forging new ways to make history. Do not be afraid to get involved and touch the soul of your cities with the gaze of Jesus. Do not fear to enter courageously the conflicts and crossroads of history in order to anoint them with the fragrance of the Beatitudes. Do not fear, for no one is saved alone. You are young people from 115 countries. I ask you to recognize our need for one another in giving birth to an economic culture able “to plant dreams, draw forth prophecies and visions, allow hope to flourish, inspire trust, bind up wounds, weave together relationships, awaken a dawn of hope, learn from one another and create a bright resourcefulness that will enlighten minds, warm hearts, give strength to our hands, and inspire in young people – all young people, with no one excluded – a vision of the future filled with the joy of the Gospel”.[24]
Thank you!
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[1] Encyclical Letter Laudato Si’ (24 May 2015), 61. Hereafter, LS.
[2] Cf. Apostolic Exhortation Evangelii Gaudium (24 November 201), 74. Hereafter, GE.
[3] Cf. Address for the World Meeting of Popular Movements, Santa Cruz de Sierra, 9 July 2015.
[4] Cf. LS, 111
[5] SAINT JOHN PAUL II, Encyclical Letter Centesimus Annus (1 May 1991), 58.
[6] Encyclical Letter Caritas in Veritate (29 June 2009), 27.
[7] Cf. Address to the Seminar “New Forms of Solidarity towards Fraternal Inclusion, Integration and Innovation”, organized by the Pontifical Academy of Social Sciences (5 February 2020). Let us recall that “true wisdom, as the fruit of self-examination, dialogue and generous encounter between persons, is not acquired by a mere accumulation of data, which eventually leads to overload and confusion, a sort of mental pollution” (LS, 47).
[8] EG, 235
[9] Encyclical Letter Fratelli Tutti (3 October 2020), 105. Hereafter, FT.
[10] Cf. LS, 216.
[11] Favouring, when necessary, fiscal evasion, lack of respect for the rights of workers, and “the possibility of corruption by some of the largest world businesses, not infrequently in collusion with the governing political sector” (Address to the Seminar “New Forms of Solidarity towards Fraternal Inclusion, Integration and Innovation”, cited above).
[12] LS, 90. For example, “to blame population growth instead of extreme and selective consumerism on the part of some, is one way of refusing to face the issues. It is an attempt to legitimize the present model of distribution, where a minority believes it has the right to consume in a way that can never be universalized, since the planet could not even contain the waste products of such consumption” (LS, 50).
[13] Although all of us are endowed with the same dignity, not all of us start from the same place and with the same possibilities when we consider the social order. This challenges us to consider ways to make freedom and equality not a merely nominal datum that lends itself to favouring injustice (cf. FT, 21-23). We would do well to ask ourselves: “What happens when fraternity is not consciously cultivated, when there is a lack of political will to promote it through education in fraternity, through dialogue and through the recognition of the values of reciprocity and mutual enrichment?” (FT, 103).
[14] EG, 53. In a world of virtual possibilities, changes and fragmentation, social rights cannot only be exhortations or empty appeals but must be a beacon and compass for the way, for “the health of a society’s institutions has consequences for the environment and the quality of human life” (LS, 142).
[15] Cf. Apostolic Constitution Veritatis Gaudium (8 December 2017), 3.
[16] LS, 189.
[17] SAINT PAUL VI, Encyclical Letter Populorum Progressio (26 March 1967), 34. Hereafter, PP.
[18] BENEDICT XVI, Encyclical Letter Spe Salvi (30 November 2007), 38.
[19] PP, 14.
[20] Address to the United Nations General Assembly (25 September 2015).
[21] Cf. PP, 65.
[22] FT, 77.
[23] Cf. ibid., 35.
[24] Opening Address at the Synod for Young People (3 October 2018).
[01412-EN.01] [Original text: Italian]
Traduzione in lingua spagnola
Queridos jóvenes, buenas tardes.
Gracias por estar allí, por todo lo que trabajaron y se comprometieron estos meses a pesar de los cambios en el programa; lejos de desanimarse supe del nivel de reflexión, calidad, seriedad y responsabilidad con que trabajaron: no dejaron afuera nada de lo que les alegra, preocupa, indigna y moviliza a cambiar.
La idea original era encontrarnos en Asís para inspirarnos en las huellas de san Francisco. Desde el Crucifijo de San Damián y desde otros rostros —como el del leproso— el Señor le salió al encuentro, lo convocó y lo envió con una misión; lo despojó de los ídolos que lo aislaban, de las perplejidades que lo paralizaban y encerraban en la habitual flojera del “siempre se hizo así” —esta es una debilidad— o de la tristeza dulzona e insatisfecha de los que viven sólo para sí, para regalarle la capacidad de entonar un canto de alabanza, signo de alegría, libertad y entrega. Por eso para mí este encuentro virtual en Asís no es un punto de llegada sino el puntapié inicial de un proceso que estamos invitados a vivir como vocación, como cultura y como pacto. Como vocación, cultura y pacto.
La vocación de Asís
«Ve, Francisco, repara mi casa que, como ves está en ruinas». Estas fueron las palabras que movilizaron al joven Francisco y que se vuelven un llamado especial para cada uno de nosotros. Cuando se sienten convocados, involucrados y protagonistas de la “normalidad” a construir, ustedes saben decir “sí”, y eso da esperanza. Sé que aceptaron esta convocatoria de forma inmediata porque son capaces de ver, analizar y experimentar que, así como vamos, no podemos seguir, lo mostró claramente el nivel de adhesión, inscripción y participación a este pacto, que ha ido más allá de las capacidades. Ustedes manifiestan una sensibilidad e inquietud especial para identificar los aspectos cruciales que nos reclaman. Lo hicieron desde una perspectiva particular: la economía, que es su ámbito de investigación, estudio y trabajo. Saben que apremia otra narración económica, se necesita asumir responsablemente que «el actual sistema mundial es insostenible desde diversos puntos de vista»[1] y golpea principalmente a nuestra hermana tierra, tan gravemente maltratada y expoliada, y a los más pobres y excluidos. Van unidos: tú espolias la tierra y habrá muchos pobres excluidos. Ellos son los primeros afectados… e incluso, los primeros olvidados.
Pero cuidado con dejarse convencer de que esto sea sólo un recurrente lugar común. Ustedes son mucho más que un “rumor” superficial y pasajero que se adormece y narcotiza con el tiempo. Si no queremos que esto pase, están llamados a incidir concretamente en vuestras ciudades y universidades, trabajos y sindicatos, emprendimientos y movimientos, cargos públicos y privados con inteligencia, empeño y convicción para llegar al núcleo y al corazón donde se gestan y deciden los relatos y paradigmas.[2] Esto me movilizó a invitarlos a realizar este pacto. La gravedad de la situación actual, que la pandemia de Covid puso aún más en evidencia, exige una responsable toma de conciencia de todos los actores sociales, de todos nosotros, entre los que ustedes tienen un papel primordial: las consecuencias de nuestras acciones y decisiones los afectarán en primera persona, por tanto, no pueden quedarse afuera de la gestación no ya de vuestro futuro sino de vuestro presente. No pueden permanecer fuera de donde se gesta el presente y el futuro. O están involucrados o la historia los aventajará.
Una nueva cultura
Necesitamos un cambio, queremos un cambio, buscamos un cambio.[3] El problema surge cuando nos damos cuenta de que para muchas de las dificultades que nos acucian no contamos con respuestas suficientes e inclusivas; es más, padecemos de una fragmentación en los diagnósticos y análisis que terminan por paralizar toda posible solución. Básicamente nos falta la cultura necesaria que posibilite y estimule la puesta en marcha de miradas distintas plasmadas en un tipo de pensamiento, de política, de programas educativos e, incluso, de una espiritualidad que no se deje encerrar por una única lógica dominante.[4] Si bien urge encontrar respuestas, es imperioso fomentar y alentar liderazgos capaces de gestar cultura, iniciar procesos —no se olviden de esta palabra: iniciar procesos—, marcar caminos, ampliar horizontes, crear pertenencias… toda búsqueda de administrar, cuidar y mejorar nuestra casa común —si quiere ser significativa— reclama cambios en «los estilos de vida, los modelos de producción y de consumo, en las estructuras consolidadas de poder que rigen hoy la sociedad».[5] Sin realizar esto, no harán nada.
Necesitamos liderazgos comunitarios e institucionales que puedan asumir los problemas sin quedar prisioneros de estos y de las propias insatisfacciones y así desafiar el sometimiento —tantas veces inconsciente— a ciertas lógicas (ideológicas) que terminan por justificar y paralizar toda acción ante las injusticias. Recordemos, por ejemplo, como bien señaló Benedicto XVI, que el hambre «no depende tanto de la escasez material, cuanto de la insuficiencia de recursos sociales, el más importante de los cuales es de tipo institucional».[6] Si son capaces capaz de resolver esto, tendrán el camino abierto para el futuro. Repito el pensamiento del papa Benedicto: el hambre no depende tanto de la escasez material, cuanto de la insuficiencia de recursos sociales, el más importante de los cuales es de tipo institucional.
La crisis social y económica que muchos padecen en carne propia y que está hipotecando el presente y el futuro en el abandono y la exclusión de tantos niños, adolescentes y familias enteras no tolera que privilegiemos los intereses sectoriales por encima del bien común. Debemos volver en cierta media a la mística del bien común. En ese sentido, permítanme resaltar un ejercicio que experimentaron como metodología para una sana y revolucionaria resolución de conflictos. Durante estos meses compartieron diversas reflexiones y marcos teóricos valiosos. Tuvieron la capacidad de encontrarse en doce ejes —las “aldeas”, así los llaman ustedes—: doce temáticas para debatir, discutir y encontrar caminos posibles. Vivieron la tan necesaria cultura del encuentro, que es lo opuesto a la cultura del descarte, que está de moda. Y esta cultura de encuentro propicia que muchas voces puedan sentarse en una misma mesa para dialogar, pensar, discutir y crear desde una perspectiva poliédrica, las diversas dimensiones y respuestas a los problemas globales que afectan a nuestros pueblos y democracias.[7] ¡Qué difícil es avanzar hacia soluciones reales cuando se desprestigió, calumnió y descontextualizó al interlocutor que no piensa como nosotros! Este descreditar, calumniar o descontextualizar al interlocutor que no piensa como nosotros es una forma de defenderse cobardemente de las decisiones que tendría que tomar para resolver tantos problemas. Nunca nos olvidemos de que «el todo es superior a la parte, y también es más que la mera suma de ellas»,[8] y de que «la mera suma de los intereses individuales no es capaz de generar un mundo mejor para toda la humanidad».[9]
Este ejercicio de encontrarse más allá de todas las legítimas diferencias es el paso fundamental para cualquier transformación que ayude a la gestación de una nueva mentalidad cultural y, por tanto, económica, política y social; porque no será posible comprometerse con grandes cosas sólo desde una perspectiva teórica o individual sin una mística que los anime, sin unos móviles interiores que den sentido, sin una pertenencia y un arraigo que dé aliento a la acción personal y comunitaria.[10]
Así el futuro será un tiempo especial donde nos sintamos convocados a reconocer la urgencia y la hermosura del desafío que se presenta. Un tiempo que nos recuerda que no estamos condenados a modelos económicos que centren su interés inmediato en las ganancias como patrón de medida y en la búsqueda de políticas públicas afines que ignoran el costo humano, social y ambiental de las mismas.[11] Como si contáramos con una disponibilidad absoluta, infinita o neutra de los recursos. No, no estamos forzados a seguir admitiendo y tolerando silenciosamente con nuestras prácticas «que unos se sientan más humanos que otros, como si hubieran nacido con mayores derechos»[12] o privilegios para el goce garantido de determinados recursos y servicios fundamentales.[13] Tampoco alcanza concentrarse y buscar paliativos en el tercer sector o en modelos filantrópicos. Si bien su labor es crucial, no siempre son capaces de asumir estructuralmente los actuales desajustes que afectan a los más excluidos y perpetúan, sin querer, las injusticias que pretenden revertir. Porque no se trata solo o exclusivamente de socorrer las necesidades más básicas de nuestros hermanos. Es necesario asumir estructuralmente que los pobres tienen la dignidad suficiente para sentarse en nuestros encuentros, participar de nuestras discusiones y llevar el pan a sus mesas. Y esto es mucho más que asistencialismo. Estamos hablando de una conversión y transformación de nuestras prioridades y del lugar del otro en nuestras políticas y en el orden social.
En pleno siglo XXI «ya no se trata simplemente del fenómeno de la explotación y de la opresión, sino de algo nuevo: con la exclusión queda afectada en su misma raíz la pertenencia a la sociedad en la que se vive, pues ya no se está en ella abajo, en la periferia o sin poder, sino que se está fuera».[14] Pongan cuidado a esto: con la exclusión queda dañada, en su misma raíz, la pertenencia a la sociedad en la que se vive, desde el momento en que ya no se está en los suburbios, en la periferia, o sin poder, sino que se está fuera de ella. Es la cultura del descarte, que no sólo descarta, sino que obliga a vivir en el propio descarte, que deja invisibles tras el muro de la indiferencia y del confort.
Recuerdo la primera vez que vi un barrio cerrado. No sabía que existían. Fue en 1970. Tuve que ir a visitar algunos noviciados de la Compañía, y llegué a un país y, luego, pasando por la ciudad, me dijeron: “No, por ahí no se puede ir, porque es un barrio cerrado”. En el interior había muros, y dentro estaban las casas, las calles, pero cerrado: es decir, un barrio que vivía en la indiferencia. Me impresionó mucho ver esto. Pero después esto ha aumentado, aumentado..., y estaba en todas partes. Pero te pregunto: ¿Tu corazón es como un barrio cerrado?
El pacto de Asís
No podemos permitirnos seguir postergando algunas cuestiones. Esta enorme e inaplazable tarea exige un compromiso generoso en el ámbito cultural, en la formación académica y en la investigación científica, sin perdernos en modas intelectuales o poses ideológicas —que son islas—, que nos aíslen de la vida y del sufrimiento concreto de la gente.[15] Es tiempo, queridos jóvenes economistas, emprendedores, trabajadores y empresarios, de arriesgarse a propiciar y estimular modelos de desarrollo, progreso y sustentabilidad donde las personas, pero especialmente los excluidos —en los que incluyo la hermana tierra— dejen de ser, en el mejor de los casos, una presencia meramente nominal, técnica o funcional para transformarse en protagonistas de sus vidas como del entero entramado social.
Esto no es algo nominal: están los pobres, los excluidos... No, no: que esa presencia no sea nominal, ni técnica, ni funcional, no. Es hora de que se conviertan en protagonistas de su vida y de todo el tejido social. No pensemos por ellos, pensemos con ellos. Recuerden el legado de la Ilustración, de las elites iluminadas. Todo por el pueblo, nada con el pueblo. Y eso no es bueno. No pensamos por ellos, pensamos con ellos. Y desde ellos aprendamos a dar el paso a modelos económicos que nos beneficiarán a todos porque el eje estructurante y decisional será determinado por el desarrollo humano integral, tan bien desarrollado por la doctrina social de la Iglesia. La política y la economía no deben «someterse a los dictámenes y al paradigma eficientista de la tecnocracia. Hoy, pensando en el bien común, necesitamos imperiosamente que la política y la economía, en diálogo, se coloquen decididamente al servicio de la vida humana»[16]. Sin esta centralidad y direccionalidad quedaremos presos de una circularidad alienante que lo único que perpetuará será dinámicas de degrado, exclusión, violencia y polarización: «La producción, al fin y al cabo, no tiene otra razón de ser que el servicio a la persona. Si existe, es para reducir las desigualdades, combatir las discriminaciones, librar de la esclavitud. […] No basta aumentar la riqueza común para que sea repartida equitativamente —no, no es suficiente esto—, no basta promover la técnica para que la tierra sea más habitable».[17] Tampoco esto es suficiente.
La perspectiva del desarrollo humano integral es una buena noticia a profetizar y efectivizar —y estos no son sueños: este es el camino— una buena noticia de profetizar y de efectivizar, porque nos propone reencontrarnos como humanidad en lo mejor de nosotros mismos: el sueño de Dios de aprender a hacernos cargo del hermano y del hermano más vulnerable (cf. Gn 4,9). «La grandeza de la humanidad está determinada esencialmente por su relación con el sufrimiento y con el que sufre —la medida de la humanidad—. Esto es válido tanto para el individuo como para la sociedad»;[18] grandeza que debe encarnarse también en nuestras decisiones y modelos económicos.
Cuánto bien hace dejar resonar las palabras de san Pablo VI, cuando buscando que el mensaje evangélico permeara y guiara todas las realidades humanas escribía: «El desarrollo no se reduce al simple crecimiento económico. Para ser auténtico debe ser integral, es decir, promover a todos los hombres y a todo el hombre —a todos los hombres y a todo el hombre—. […] Nosotros no aceptamos la separación de la economía de lo humano, el desarrollo de las civilizaciones en que está inscrito. Lo que cuenta para nosotros es el hombre, cada hombre, cada agrupación de hombres, hasta la humanidad entera».[19]
En este sentido, muchos de ustedes tendrán la posibilidad de actuar e incidir en decisiones macroeconómicas donde se juega el destino de muchas naciones. Estos escenarios también necesitan de personas preparadas, «mansas como palomas y astutas como serpientes» (Mt 10,16), capaces de «velar por el desarrollo sustentable de los países y la no sumisión asfixiante de éstos a sistemas crediticios que, lejos de promover el progreso, someten a las poblaciones a mecanismos de mayor pobreza, exclusión y dependencia».[20] Los sistemas de crédito son por sí solos un camino hacia la pobreza y la dependencia. Este legítimo clamor requiere suscitar y acompañar un modelo de solidaridad internacional que reconozca y respete la interdependencia entre las naciones y favorezca los mecanismos de control capaces de evitar todo tipo de sometimiento, así como velar por la promoción especialmente de los países sumergidos y emergentes; cada pueblo está llamado a volverse artífice de su destino y del mundo entero.[21]
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Queridos jóvenes: «Hoy estamos ante la gran oportunidad de manifestar nuestra esencia fraterna, de ser otros buenos samaritanos que carguen sobre sí el dolor de los fracasos, en vez de acentuar odios y resentimientos».[22] Un futuro imprevisible ya está en gestación; cada uno de ustedes, desde su lugar de acción y decisión puede aportar mucho; no elijan los atajos que seducen y les impiden mezclarse para ser levadura allí donde se encuentran (cf. Lc 13,20-21). Nada de atajos, levadura, ensuciarse las manos. Pasada la crisis sanitaria en la que nos encontramos, la peor reacción sería de caer aún más en una fiebre consumista y en nuevas formas de autopreservación egoísta. No se olviden que de una crisis no se sale igual: salimos mejor o peor. Alimentemos lo bueno, aprovechemos la oportunidad y pongámonos todos al servicio del bien común. Ojalá que al final ya no estén “los otros”, sino aprendamos a desarrollar un estilo de vida capaz de decir “nosotros”.[23] Pero un “nosotros” grande, no un “nosotros” pequeño y después “los demás”, no; esto no va.
La historia nos enseña que no hay sistemas ni crisis que hayan podido anular por completo la capacidad, el ingenio y la creatividad que Dios sigue alentando en los corazones. Con dedicación y fidelidad a vuestros pueblos, a vuestro presente y a vuestro futuro, ustedes pueden unirse a otros para tejer una nueva manera de forjar la historia. No teman involucrarse y tocar el alma de las ciudades con la mirada de Jesús; no teman habitar sin miedo los conflictos y encrucijadas de la historia para ungirlos con el aroma de las bienaventuranzas. No teman, porque nadie se salva solo. Nadie se salva solo. A ustedes jóvenes provenientes de 115 países, los invito a reconocer que nos necesitamos para gestar esta cultura económica capaz de «hacer que germinen sueños, suscitar profecías y visiones, hacer florecer esperanzas, estimular la confianza, vendar heridas, entretejer relaciones, resucitar una aurora de esperanza, aprender unos de otros, a crear un imaginario positivoque ilumine las mentes, enardezca los corazones, dé fuerza a las manos, e inspire a los jóvenes —a todos los jóvenes, sin excepción— la visión de un futuro lleno de la alegría del Evangelio».[24] Gracias.
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[1] Carta enc. Laudato si’ (24 mayo 2015), 61. En adelante LS.
[2] Cf. Exhort. ap. Evangelii gaudium (24 noviembre 2013), 74. En adelante EG.
[3] Cf. Discurso en el Encuentro mundial de los movimientos populares, Santa Cruz de la Sierra (9 julio 2015).
[4] Cf. LS, 111.
[5] S. Juan Pablo II, Carta enc. Centesimus annus (1 mayo 1991), 58.
[6] Carta enc. Caritas in veritatis (29 junio 2009), 27.
[7] Cf. Discurso al Seminario “Nuevas formas de solidaridad” organizado por la Pontificia Academia de las Ciencias Sociales (5 febrero 2020). Recordemos que «la verdadera sabiduría, producto de la reflexión, del diálogo y del encuentro generoso entre las personas, no se consigue con una mera acumulación de datos que termina saturando y obnubilando, en una especie de contaminación mental» (LS, 47).
[8] EG, 235.
[9] Carta. enc. Fratelli tutti (3 octubre 2020), 105. En adelante FT.
[10] Cf. LS, 216.
[11] Propiciando, si es necesario, la evasión fiscal, el no cumplimiento de los derechos de los trabajadores, así como «la posibilidad de corrupción por parte de algunas de las empresas más grandes del mundo, no pocas veces en sintonía con el sector político gobernante» (Discurso al Seminario “Nuevas formas de solidaridad”, cit.).
[12] LS, 90. Por ejemplo «culpar al aumento de la población y no al consumismo extremo y selectivo de algunos es un modo de no enfrentar los problemas. Se pretende legitimar así el modelo distributivo actual, donde una minoría se cree con el derecho de consumir en una proporción que sería imposible generalizar, porque el planeta no podría ni siquiera contener los residuos de semejante consumo» (LS, 50).
[13] Si bien todos contamos con la misma dignidad, no todos parten del mismo lugar y con las mismas posibilidades a la hora de pensar el orden social. Esto nos cuestiona y nos exige pensar en caminos para que la libertad y la igualdad no sea un dato meramente nominal propenso a promover injusticias (cf. FT, 21-23). Nos hará bien preguntarnos: «¿Qué ocurre sin la fraternidad cultivada conscientemente, sin una voluntad política de fraternidad, traducida en una educación para la fraternidad, para el diálogo, para el descubrimiento de la reciprocidad y el enriquecimiento mutuo como valores?» (FT, 103).
[14] EG, 53. En un mundo de virtualidades, cambios y fragmentación, los derechos sociales no pueden ser solamente exhortativos o apelativos nominales, sino que han de ser faro y brújula para el camino porque «la salud institucional de una sociedad tiene consecuencias en el ambiente y en la calidad de vida humana» (LS, 142).
[15] Cf. Const. ap. Veritatis gaudium (8 diciembre 2017), 3.
[16] LS, 189.
[17] S. Pablo VI, Carta enc. Populorum progressio (26 marzo 1967), 34. En adelante PP.
[18] Benedicto XVI, Canta enc. Spe Salvi (30 noviembre 2007), 38.
[19] PP, 14.
[20] Discurso a la Asamblea General de la ONU (25 septiembre 2015).
[21] Cf. PP, 65.
[22] FT, 77.
[23] Cf. ibíd., 35.
[24] Discurso al inicio del Sínodo dedicado a los jóvenes (3 octubre 2018).
[01412-ES.01] [Texto original: Italiano]
[B0602-XX.02]