Omelia del Santo Padre
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Alle ore 17.00 di oggi, Festa della Presentazione del Signore e XXIV Giornata Mondiale della Vita Consacrata, il Santo Padre Francesco ha presieduto, nella Basilica Vaticana, la celebrazione della Santa Messa con i membri degli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica.
Hanno concelebrato con il Santo Padre Cardinali, Vescovi e Sacerdoti appartenenti a Ordini, Congregazioni e Istituti religiosi.
Nel corso del rito, che si è aperto con la benedizione delle candele e la processione ed è proseguito con la celebrazione eucaristica, il Papa ha pronunciato l’omelia che riportiamo di seguito:
Omelia del Santo Padre
«I miei occhi han visto la tua salvezza» (Lc 2,30). Sono le parole di Simeone, che il Vangelo presenta come un uomo semplice: «un uomo giusto e pio» – dice il testo (v. 25). Ma tra tutti gli uomini che stavano al tempio quel giorno, solo lui vide in Gesù il Salvatore. Che cosa vide? Un bambino: un piccolo, fragile e semplice bambino. Ma lì vide la salvezza, perché lo Spirito Santo gli fece riconoscere in quel tenero neonato «il Cristo del Signore» (v. 26). Prendendolo tra le braccia percepì, nella fede, che in Lui Dio portava a compimento le sue promesse. E allora lui, Simeone, poteva andare in pace: aveva visto la grazia che vale più della vita (cfr Sal 63,4), e non attendeva altro.
Anche voi, cari fratelli e sorelle consacrati, siete uomini e donne semplici che avete visto il tesoro che vale più di tutti gli averi del mondo. Per esso avete lasciato cose preziose, come i beni, come crearvi una famiglia vostra. Perché l’avete fatto? Perché vi siete innamorati di Gesù, avete visto tutto in Lui e, rapiti dal suo sguardo, avete lasciato il resto. La vita consacrata è questa visione. È vedere quel che conta nella vita. È accogliere il dono del Signore a braccia aperte, come fece Simeone. Ecco che cosa vedono gli occhi dei consacrati: la grazia di Dio riversata nelle loro mani. Il consacrato è colui che ogni giorno si guarda e dice: “Tutto è dono, tutto è grazia”. Cari fratelli e sorelle, non ci siamo meritati la vita religiosa, è un dono di amore che abbiamo ricevuto.
I miei occhi han visto la tua salvezza. Sono le parole che ripetiamo ogni sera a Compieta. Con esse concludiamo la giornata dicendo: “Signore, la mia salvezza viene da Te, le mie mani non sono vuote, ma piene della tua grazia”. Saper vedere la grazia è il punto di partenza. Guardare indietro, rileggere la propria storia e vedervi il dono fedele di Dio: non solo nei grandi momenti della vita, ma anche nelle fragilità, nelle debolezze, nelle miserie. Il tentatore, il diavolo insiste proprio sulle nostre miserie, sulle nostre mani vuote: “In tanti anni non sei migliorato, non hai realizzato quel che potevi, non ti han lasciato fare quello per cui eri portato, non sei stato sempre fedele, non sei capace…” e così via. Ognuno di noi conosce bene questa storia, queste parole. Noi vediamo che ciò in parte è vero e andiamo dietro a pensieri e sentimenti che ci disorientano. E rischiamo di perdere la bussola, che è la gratuità di Dio. Perché Dio sempre ci ama e si dona a noi, anche nelle nostre miserie. San Girolamo dava tante cose al Signore e il Signore chiedeva di più. Lui gli ha detto: “Ma, Signore, ti ho dato tutto, tutto, cosa manca?” – “I tuoi peccati, le tue miserie, dammi le tue miserie”. Quando teniamo lo sguardo fisso in Lui, ci apriamo al perdono che ci rinnova e veniamo confermati dalla sua fedeltà. Oggi possiamo chiederci: “Io, a chi oriento lo sguardo: al Signore o a me?”. Chi sa vedere prima di tutto la grazia di Dio scopre l’antidoto alla sfiducia e allo sguardo mondano.
Perché sulla vita religiosa incombe questa tentazione: avere uno sguardo mondano. È lo sguardo che non vede più la grazia di Dio come protagonista della vita e va in cerca di qualche surrogato: un po’ di successo, una consolazione affettiva, fare finalmente quello che voglio. Ma la vita consacrata, quando non ruota più attorno alla grazia di Dio, si ripiega sull’io. Perde slancio, si adagia, ristagna. E sappiamo che cosa succede: si reclamano i propri spazi e i propri diritti, ci si lascia trascinare da pettegolezzi e malignità, ci si sdegna per ogni piccola cosa che non va e si intonano le litanie del lamento – le lamentele, “padre lamentele”, “suor lamentele” -: sui fratelli, sulle sorelle, sulla comunità, sulla Chiesa, sulla società. Non si vede più il Signore in ogni cosa, ma solo il mondo con le sue dinamiche, e il cuore si rattrappisce. Così si diventa abitudinari e pragmatici, mentre dentro aumentano tristezza e sfiducia, che degenerano in rassegnazione. Ecco a che cosa porta lo sguardo mondano. La grande Teresa diceva alle sue suore: “Guai la suora che ripete ‘mi hanno fatto un’ingiustizia’, guai!”.
Per avere lo sguardo giusto sulla vita chiediamo di saper vedere la grazia di Dio per noi, come Simeone. Il Vangelo ripete per tre volte che egli aveva familiarità con lo Spirito Santo, il quale era su di lui, lo ispirava, lo smuoveva (cfr vv. 25-27). Aveva familiarità con lo Spirito Santo, con l’amore di Dio. La vita consacrata, se resta salda nell’amore del Signore, vede la bellezza. Vede che la povertà non è uno sforzo titanico, ma una libertà superiore, che ci regala Dio e gli altri come le vere ricchezze. Vede che la castità non è una sterilità austera, ma la via per amare senza possedere. Vede che l’obbedienza non è disciplina, ma la vittoria sulla nostra anarchia nello stile di Gesù. In una delle terre terremotate, in Italia - parlando di povertà e di vita comunitaria - c’era un monastero benedettino andato distrutto e un altro monastero ha invitato le suore a traslocarsi da loro. Ma sono rimaste lì poco tempo: non erano felici, pensavano al posto che avevano lasciato, alla gente di là. E alla fine hanno deciso di tornare e fare il monastero in due roulotte. Invece di essere in un grande monastero, comode, erano come le pulci, lì, tutti insieme, ma felici nella povertà. Questo è successo in questo ultimo anno. Una cosa bella!
I miei occhi han visto la tua salvezza. Simeone vede Gesù piccolo, umile, venuto per servire e non per essere servito, e definisce sé stesso servo. Dice infatti: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace» (v. 29). Chi tiene lo sguardo su Gesù impara a vivere per servire. Non aspetta che comincino gli altri, ma si mette in cerca del prossimo, come Simeone che cercava Gesù nel tempio. Nella vita consacrata dove si trova il prossimo? Questa è la domanda: dove si trova il prossimo? Anzitutto nella propria comunità. Va chiesta la grazia di saper cercare Gesù nei fratelli e nelle sorelle che abbiamo ricevuto. È lì che si inizia a mettere in pratica la carità: nel posto dove vivi, accogliendo i fratelli e le sorelle con le loro povertà, come Simeone accolse Gesù semplice e povero. Oggi, tanti vedono negli altri solo ostacoli e complicazioni. C’è bisogno di sguardi che cerchino il prossimo, che avvicinino chi è distante. I religiosi e le religiose, uomini e donne che vivono per imitare Gesù, sono chiamati a immettere nel mondo il suo stesso sguardo, lo sguardo della compassione, lo sguardo che va in cerca dei lontani; che non condanna, ma incoraggia, libera, consola, lo sguardo della compassione. Quel ritornello del Vangelo, tante volte parlando di Gesù dice: “ne ebbe compassione”. È l’abbassarsi di Gesù verso ognuno di noi.
I miei occhi han visto la tua salvezza. Gli occhi di Simeone han visto la salvezza perché la aspettavano (cfr v. 25). Erano occhi che attendevano, che speravano. Cercavano la luce e videro la luce delle genti (cfr v. 32). Erano occhi anziani, ma accesi di speranza. Lo sguardo dei consacrati non può che essere uno sguardo di speranza. Saper sperare. Guardandosi attorno, è facile perdere la speranza: le cose che non vanno, il calo delle vocazioni… Incombe ancora la tentazione dello sguardo mondano, che azzera la speranza. Ma guardiamo al Vangelo e vediamo Simeone e Anna: erano anziani, soli, eppure non avevano perso la speranza, perché stavano a contatto col Signore. Anna «non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere» (v. 37). Ecco il segreto: non allontanarsi dal Signore, fonte della speranza. Diventiamo ciechi se non guardiamo al Signore ogni giorno, se non lo adoriamo. Adorare il Signore!
Cari fratelli e sorelle, ringraziamo Dio per il dono della vita consacrata e chiediamo uno sguardo nuovo, che sa vedere la grazia, che sa cercare il prossimo, che sa sperare. Allora anche i nostri occhi vedranno la salvezza.
[00148-IT.01] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua francese
«Mes yeux ont vu le salut» (Lc 2, 30). Ce sont les paroles de Syméon que l’Evangile présente comme un homme simple: «un homme juste et religieux» – dit le texte (v. 25). Mais, de tous les hommes qui étaient au temple, lui seul a vu en Jésus le Sauveur. Qu’a-t-il vu? Un enfant: un petit, fragile et simple enfant. Mais là, il a vu le salut, parce que l’Esprit Saint lui a fait reconnaître dans ce tendre nouveau-né «le Messie du Seigneur» (v. 26). En le prenant dans ses bras, il a perçu, dans la foi, qu’en lui Dieu accomplissait ses promesses. Et lui, Syméon, pouvait s’en aller en paix: il avait vu la grâce qui vaut plus que la vie (cf. Ps 63, 4), et il n’attendait plus rien.
Même vous, chers frères et sœurs consacrés, vous êtes des hommes et des femmes simples qui ont vu le trésor qui vaut plus que tous les avoirs du monde. Pour lui, vous avez laissé des choses précieuses, comme les biens, comme fonder votre famille. Pourquoi l’avez-vous fait? Parce que vous êtes devenus amoureux de Jésus, vous avez vu tout en lui et, captivés par son regard, vous avez laissé le reste. La vie consacrée est cette vision. C’est voir ce qui compte dans la vie. C’est accueillir le don du Seigneur les bras ouverts, comme fit Syméon. Voici ce que voient les yeux des consacrés: la grâce de Dieu reversée dans leurs mains. La consacrée est celle qui, chaque jour, se regarde et dit: “tout est don, tout est grâce”. Chers frères et sœurs, nous ne méritons pas la vie religieuse, c’est un don d’amour que nous avons reçu.
Mes yeux ont vu ton salut. Ce sont les paroles que nous répétons chaque soir pendant les Complies. Avec elles, nous concluons la journée en disant: “Seigneur, mon salut vient de Toi, mes mains ne sont pas vides, mais pleines de ta grâce”. Savoir voir la grâce est le point de départ. Regarder en arrière; relire son histoire et y voir le don fidèle de Dieu: non seulement dans les grands moments de la vie, mais aussi dans les fragilités, dans les faiblesses, dans les misères. Le tentateur, le diable insiste sur nos misères, nos mains vides: “Après toutes ces années tu ne t’es pas amélioré, tu n’as pas réalisé ce que tu pouvais, ils ne t’ont pas laissé faire ce vers quoi tu étais porté, tu n’as pas toujours été fidèle, tu n’es pas capable…” et ainsi de suite. Chacun d’entre nous connaît bien cette histoire, ces paroles. Nous voyons que cela est en partie vrai et nous suivons des pensées et des sentiments qui nous désorientent. Et nous risquons de perdre la boussole, qui est la gratuité de Dieu. Parce que Dieu nous aime toujours et il se donne à nous, même dans nos misères. Saint Jérôme donnait tant de choses au Seigneur et le Seigneur en demandait davantage. Il lui a dit: ‘‘Mais, Seigneur, je t’ai tout donné, tout, que manque-t-il?’’ – ‘‘Tes péchés, tes misères, donne-moi tes misères’’. Lorsque nous gardons le regard fixé sur lui, nous nous ouvrons au pardon qui nous renouvelle et nous sommes confirmés par sa fidélité. Aujourd’hui nous pouvons nous demander: “Moi, vers qui j’oriente mon regard: vers le Seigneur ou vers moi?”. Celui qui sait voir avant tout la grâce de Dieu, découvre l’antidote au manque de confiance et au regard mondain.
Car cette tentation menace la vie religieuse: avoir un regard mondain. C’est le regard qui ne voit plus la grâce de Dieu comme protagoniste de la vie et qui va à la recherche d’un substitut: un peu de succès, une consolation affective, faire finalement ce que je veux. Mais la vie consacrée, lorsqu’elle ne s’articule plus autour de la grâce de Dieu, se replie sur le moi. Elle perd son élan, elle s’installe, elle stagne. Et nous savons ce qui arrive: on réclame ses espaces et ses droits, on se laisse entraîner par des ragots et des méchancetés, on s’indigne pour chaque petite chose qui ne va pas et on entonne les litanies de plaintes– les jérémiades, ‘‘père jérémiades’’, ‘‘sœur jérémiades’’ : au sujet des frères, des sœurs, de la communauté, de l’Eglise, de la société. On ne voit plus le Seigneur dans toute chose, mais seulement le monde avec ses dynamiques, et le cœur se crispe. On prend ainsi de petites habitudes et ont devient pragmatique tandis qu’à l’intérieur augmentent la tristesse et le manque de confiance qui dégénèrent en résignation. Voici ce vers quoi porte le regard mondain. La grande Thérèse disait à ses sœurs: ‘‘Malheur à la sœur qui répète ‘on a commis une injustice à mon égard’, malheur!’’.
Pour avoir le regard juste sur la vie, demandons de savoir voir la grâce de Dieu pour nous, comme Syméon. L’Evangile répète par trois fois qu’il était familier avec l’Esprit Saint, qui était sur lui, qui l’inspirait, qui l’attirait (cf. vv. 25-27). Il était familier avec l’Esprit Saint, avec l’amour de Dieu. La vie consacrée, si elle reste solide dans l’amour du Seigneur, voit la beauté. Elle voit que la pauvreté n’est pas un effort titanesque, mais une liberté supérieure, qui nous donne Dieu et les autres comme les vraies richesses. Elle voit que la chasteté n’est pas une stérilité austère, mais le chemin pour aimer sans posséder. Elle voit que l’obéissance n’est pas une discipline, mais la victoire sur notre anarchie, dans le style de Jésus. Dans une région touchée par le tremblement de terre en Italie – en parlant de pauvreté et de vie communautaire – il y avait un monastère bénédictin détruit et un autre monastère a transféré des sœurs chez eux. Mais elles y sont restées peu de temps: elles n’étaient pas heureuses, elles pensaient au monastère qu’elles avaient quitté, aux gens de là-bas. Et en fin de compte, elles ont décidé de retourner et d’installer le monastère dans deux caravanes. Au lieu d’être dans un grand monastère, à l’aise, elles étaient comme des puces, là, toutes ensemble, mais heureuses dans la pauvreté. Cela s’est passé l’année dernière. C’est beau!
Mes yeux ont vu ton salut. Syméon voit Jésus petit, humble, venu pour servir et non pour être servi, et il se définit lui-même serviteur. Il dit, en effet,: «Maintenant, ô Maître souverain, tu peux laisser ton serviteur s’en aller en paix» (v. 29). Celui qui garde le regard sur Jésus apprend à vivre pour servir. Il n’attend pas que les autres commencent, mais il se met à la recherche du prochain, comme Syméon qui cherchait Jésus au temple. Dans la vie consacrée, où se trouve mon prochain? Voilà la question: où se trouve le prochain? Avant tout, dans sa propre communauté. La grâce de savoir chercher Jésus dans les frères et les sœurs que nous reçus doit être demandée. C’est là que l’on commence à mettre en pratique la charité: là où tu vis, en accueillant les frères et les sœurs avec leur pauvreté, comme Syméon accueillit Jésus simple et pauvre. Aujourd’hui, beaucoup voient dans les autres seulement des obstacles et des complications. Nous avons besoin de regards qui cherchent le prochain, qui rapprochent celui qui est loin. Les religieux et les religieuses, des hommes et des femmes qui vivent pour imiter Jésus, sont appelés à implanter dans le monde son regard, le regard de la compassion, le regard qui va à la recherche de ceux qui sont loin; qui ne condamne pas, mais qui encourage, qui libère, qui console, le regard de la compassion. C’est un leitmotiv de l’Évangile; tant de fois en parlant, Jésus dit: ‘‘il a eu de la compassion’’. C’est l’abaissement de Jésus vers chacun d’entre nous.
Mes yeux ont vu ton salut. Les yeux de Syméon ont vu le salut parce qu’ils l’attendaient (cf. v. 25). C’étaient des yeux qui attendaient, qui espéraient. Ils cherchaient la lumière et ils ont vu la lumière des nations (cf. v. 32). C’étaient des yeux fatigués, mais illuminés d’espérance. Le regard des personnes consacrées ne peut qu’être un regard d’espérance. Savoir espérer. En regardant autour de soi, il est facile de perdre l’espérance: les choses qui ne vont pas, la baisse des vocations…Pèse encore la tentation du regard mondain, qui anéantit l’espérance. Mais regardons l’Evangile et voyons Syméon et Anne: c’étaient des personnes âgées, seules, et pourtant elles n’avaient pas perdu l’espérance, parce qu’elles restaient en contact avec le Seigneur. Anne «ne s’éloignait pas du Temple, servant Dieu jour et nuit dans le jeûne et la prière» (v. 37). Voici le secret: ne pas s’éloigner du Seigneur, source d’espérance. Nous devenons aveugles si nous ne regardons pas le Seigneur tous les jours, si nous ne l’adorons pas. Adorer le Seigneur!
Chers frères et sœurs, remercions Dieu pour le don de la vie consacrée et demandons un regard nouveau, qui sache voir la grâce, qui sache chercher le prochain, qui sache espérer. Alors, nos yeux verront aussi le salut.
[00148-FR.02] [Texte original: Italien]
Traduzione in lingua inglese
“My eyes have seen your salvation” (Lk 2:30). These are the words of Simeon, whom the Gospel presents as a simple man: “righteous and devout”, says the text (v.25). But among all at the temple that day, he alone saw Jesus as the Saviour. What did he see? A child: a small, vulnerable, simple child. But in him he saw salvation, for the Holy Spirit allowed him to recognize in that tender newborn “the Lord’s Christ” (v. 26). Taking him in his arms, he sensed by faith that in him God was bringing his promises to fulfilment. And that he, Simeon, could now go in peace: he had seen the grace that was worth more than life (cf. Ps63:4), and there was nothing further to wait for.
You too, dear consecrated brothers and sisters, you are simple men and women who caught sight of the treasure worth more than any worldly good. And so you left behind precious things, such as possessions, such as making a family for yourselves. Why did you do this? Because you fell in love with Jesus, you saw everything in him, and enraptured by his gaze, you left the rest behind. Religious life is this vision. It means seeing what really matters in life. It means welcoming the Lord’s gift with open arms, as Simeon did. This is what the eyes of consecrated men and women behold: the grace of God poured into their hands. The consecrated person is one who every day looks at himself or herself and says: “Everything is gift, all is grace”. Dear brothers and sisters, we did not deserve religious life; it is a gift of love that we have received.
My eyes have seen your salvation. These are the words we repeat each evening at Night Prayer. With them, we bring our day to an end, saying: “Lord, my salvation comes from you, my hands are not empty, but are full of your grace”. Knowing how to see grace is the starting point. Looking back, rereading one’s own history and seeing there God’s faithful gift: not only in life’s grand moments, but also in our fragility and weakness, in our insignificance. The tempter, the devil focuses on our “poverty”, our empty hands: “In all these years you haven’t got any better, you haven’t achieved what you could have, they haven’t let you do what you were meant to do, you haven’t always been faithful, you are not capable…”and so on. Each of us knows this story and these words very well. We see this is true in part, and so we go back to thoughts and feelings that disorient us. Thus we risk losing our bearings, the gratuitous love of God. For God loves us always, and gives himself to us, even in our poverty. Saint Jerome offered much to the Lord and the Lord asked for more. He said to the Lord: “But Lord, I have given you everything, everything, what else is lacking?” “Your sins, your poverty, offer me your poverty”. When we keep our gaze fixed on him, we open ourselves to his forgiveness that renews us, and we are reassured by his faithfulness. We can ask ourselves today: “To whom do I turn my gaze: to the Lord, or to myself?” Whoever experiences God’s grace above all else can discover the antidote to distrust and to looking at things in a worldly way.
There is a temptation that looms over religious life: seeing things in a worldly way. This entails no longer seeing God’s grace as the driving force in life, then going off in search of something to substitute for it: a bit of fame, a consoling affection, finally getting to do what I want. But when a consecrated life no longer revolves around God’s grace, it turns in upon itself. It loses its passion, it grows slack, becomes stagnant. And we know what happens then: we start to demand our own space, our own rights, we let ourselves get dragged into gossip and slander, we take offence at every small thing that does not go our way, and we pour forth litanies of lamentation – lamentation, “Father Lamentation”, “Sister Lamentation” – about our brothers, our sisters, our communities, the Church, society. We no longer see the Lord in everything, but only the dynamics of the world, and our hearts grow numb. Then we become creatures of habit, pragmatic, while inside us sadness and distrust grow, that turn into resignation. This is what a worldly gaze leads to. The Great Saint Teresa once said to the sisters: “woe to the sister who repeats these words, ‘they have treated me unjustly’, woe to her!”
To have the right kind of view on life, we ask to be able to perceive God’s grace for us, like Simeon. The Gospel says three times that he was intimately familiar with the Holy Spirit, who was upon him, inspired him, roused him (cf. v. 25-27). He was intimately familiar with the Holy Spirit, with the love of God. If consecrated life remains steadfast in love for the Lord, it perceives beauty. It sees that poverty is not some colossal effort, but rather a higher freedom that God gives to us and others as real wealth. It sees that chastity is not austere sterility, but the way to love without possessing. It sees that obedience is not a discipline, but is victory over our own chaos, in the way of Jesus. In one of the regions affected by earthquake in Italy – speaking of poverty and community life – there was a Benedictine monastery that was destroyed and another monastery that invited the Sisters to come and stay with them. But they were only there for a short while: they were not happy, they were thinking about their monastery, about the people there. In the end, they decided to go back to their monastery, which is now two caravans. Instead of staying in this big, comfortable monastery; they were like flies there, all of them together, but happy in their poverty. This happened just last year. It is a beautiful thing!
My eyes have seen your salvation. Simeon sees Jesus as small, humble, the one who has come to serve, not to be served, and defines himself as servant. Indeed he says: “Lord, now let your servant depart in peace” (v. 29). Those who see things as Jesus does, learn how to live in order to serve. They do not wait for others to take the initiative, but themselves go out in search of their neighbour, as did Simeon who sought out Jesus in the temple. Where is one’s neighbour to be found in the consecrated life? This is the question: Where is one’s neighbour to be found? First of all in one’s own community. The grace must be sought to know how to seek out Jesus in the brothers and sisters we have been given. And that is precisely where we can begin to put charity into practice: in the place where you live, by welcoming brothers and sisters in their poverty, as Simeon welcomed Jesus meek and poor. Today, so many see in other people only hindrances and complications. We need to have a gaze that seeks out our neighbour, that brings those who are far-off closer. Men and women religious, who live to imitate Jesus, are called to bring their own gaze into the world, a gaze of compassion, a gaze that goes in search of those far-off; a gaze that does not condemn, but encourages, frees, consoles; a gaze of compassion. That repeated phrase in the Gospel, which, speaking about Jesus, says: “He had compassion”. This is the stooping down of Jesus towards each one of us.
My eyes have seen your salvation. The eyes of Simeon saw salvation because they were expecting it (cf. v. 25). They were eyes that were waiting, full of hope. They were looking for the light and then saw the light of the nations (cf. v. 32). They were aged eyes, but burning with hope. The gaze of consecrated men and women can only be one of hope. Knowing how to hope. Looking around, it is easy to lose hope: things that don’t work, the decline in vocations… There is always the temptation to have a worldly gaze, one devoid of hope. But let us look to the Gospel and see Simeon and Anna: they were elderly, alone, yet they had not lost hope, because they remained in communion with the Lord. Anna “did not depart from the temple, worshiping with fasting and prayer night and day” (v. 37). Here is the secret: never to alienate oneself from the Lord, who is the source of hope. We become blind if we do not look to the Lord every day, if we do not adore him. To adore the Lord.
Dear brothers and sisters, let us thank God for the gift of the consecrated life and ask of him a new way of looking, that knows how to see grace, how to look for one’s neighbour, how to hope. Then our eyes too will see salvation.
[00148-EN.02] [Original text: Italian]
Traduzione in lingua tedesca
»Meine Augen haben das Heil gesehen« (Lk 2,30). Das sind die Worte des Simeon, den das Evangelium als einen einfachen Mann beschreibt. »Dieser Mann war gerecht und fromm«, sagt der Text (V. 25). Doch unter allen Menschen, die sich an jenem Tag im Tempel aufhielten, hat nur er in Jesus den Retter erkannt. Was sah er? – Ein Kind, ein kleines, zierliches und einfaches Kind. Doch darin sah er das Heil, weil der Heilige Geist ihn in diesem zarten Neugeborenen »den Christus des Herrn« (V. 26) erkennen ließ. Als er das Kind in seine Arme nahm, spürte er im Glauben, dass Gott in diesem Kind seine Verheißungen zur Erfüllung brachte. Daher konnte er, Simeon, in Frieden scheiden; denn er hatte die Gnade gesehen, die besser ist als das Leben (vgl. Ps 63,4). Mehr erwartete er nicht.
Auch ihr, liebe Brüder und Schwestern im geweihten Leben, seid einfache Männer und Frauen, die den Schatz gesehen haben, der mehr wert ist als alle Besitztümer der Welt. Für ihn habt ihr Wertvolles zurückgelassen wie materielle Güter oder die Gründung einer Familie. Warum habt ihr das gemacht? Weil ihr euch in Jesus verliebt habt; weil ihr in ihm alles gesehen habt und, von seinem Blick überwältigt, alles Übrige zurückgelassen habt. Das gottgeweihte Leben besteht in dieser Vision. Es ist das Schauen dessen, was im Leben zählt. Es bedeutet, die Gabe des Herrn mit offenen Armen zu empfangen, so wie Simeon es getan hat. Das ist es, was die Augen der Gottgeweihten sehen: die in ihre Hände ausgegossene Gnade Gottes. Die gottgeweihte Person ist jemand, der sich jeden Tag anschaut und sagt: „Alles ist Gabe, alles ist Gnade“. Liebe Brüder und Schwestern, wir haben uns das Ordensleben nicht selbst verdient. Es ist vielmehr eine Liebesgabe, die wir empfangen haben.
Meine Augen haben das Heil gesehen. Diese Worte wiederholen wir jeden Abend bei der Komplet. Mit ihnen beschließen wir den Tag und sagen: „Herr, mein Heil kommt von dir. Meine Hände sind nicht leer, sondern fließen über von deiner Gnade.“ Die Gnade zu sehen vermögen ist der Ausgangspunkt. Zurückschauen, die eigene Geschichte Revue passieren lassen und dort die verlässliche Gabe Gottes sehen – nicht nur in den großen Momenten des Lebens, sondern auch in seinen Brüchen, in den Schwächen und in den Nöten. Der Versucher, der Teufel packt uns an unsere Not und unseren leeren Händen: „In so vielen Jahren hast du dich noch nicht verbessert, hast du nicht verwirklicht, was du hättest tun können. Sie haben dich nicht machen lassen, wofür du begabt bist. Du bist nicht immer treu gewesen. Du bist unfähig …“ und so weiter. Jeder von uns kennt diese Geschichte, diese Worte gut. Wir sehen, dass das zum Teil wahr ist, und so hängen wir Gedanken und Empfindungen nach, die uns verunsichern. So riskieren wir, den Kompass zu verlieren, der die Freigiebigkeit Gottes ist. Denn Gott liebt uns immer und schenkt sich uns auch in unserem Elend. Der heilige Hieronymus gab dem Herrn viel und der Herr verlangte mehr. Er sagte zu ihm: „Aber, Herr, ich habe dir alles, alles gegeben, was fehlt?“ – „Deine Sünden, dein Elend, gib mir dein Elend.“ Wenn wir den Blick unverwandt auf ihn richten, öffnen wir uns der Vergebung, die uns erneuert, und werden so durch seine Treue gestärkt. Heute können wir uns fragen: „Ich, auf wen richte ich meinen Blick: auf Gott oder auf mich selbst?“ Wer zuallererst auf die Gnade Gottes zu schauen vermag, entdeckt das Heilmittel gegen den Pessimismus und den weltlichen Blick.
Denn im geweihten Leben droht diese Versuchung: einen weltlichen Blick zu haben. Es ist der Blick, der nicht mehr die Gnade Gottes als Protagonist des Lebens sieht und sich auf die Suche nach Ersatz begibt: ein bisschen Erfolg, ein gefühlsmäßiger Trost, schließlich das tun, was mir gefällt. Wenn sich das geweihte Leben nicht mehr um die Gnade Gottes dreht, dann zieht es sich auf das Ich zurück. Es verliert an Schwung, es macht es sich gemütlich, es steht still. Und wir wissen, was passiert: Man beansprucht eigene Räume und eigene Rechte, man lässt sich von Geschwätz und Bosheit mitreißen, man entrüstet sich wegen jeder Kleinigkeit, die nicht funktioniert, und stimmt die Klagelitanei an, „Pater Klage“, „Schwester Klage“ – über die Mitbrüder, die Mitschwestern, die Gemeinschaft, die Kirche, die Gesellschaft. Man sieht nicht mehr den Herrn in jeder Sache, sondern nur die Welt mit ihren Dynamiken, und das Herz verhärtet sich. So gerät man in eine Routine und einen Pragmatismus, während innerlich die Traurigkeit und der Pessimismus zunehmen, die zur Resignation ausarten. Das ist es, wozu der weltliche Blick führt. Die große Teresa sagte ihren Schwestern: „Wehe der Schwester, die mir wiederholt, ,man hat mir Unrecht getan’, wehe!“.
Um den rechten Blick auf das Leben zu haben, bitten wir, dass wir wie Simeon die Gnade Gottes für uns zu sehen vermögen. Das Evangelium wiederholt dreimal Simeons Vertrautheit mit dem Heiligen Geist, der auf ihm ruhte, ihm Dinge offenbarte und ihn in Bewegung setzte (vgl. VV. 25-27). Er war mit dem Heiligen Geist vertraut, mit der Liebe Gottes. Wenn das geweihte Leben unerschütterlich in der Liebe des Herrn verbleibt, sieht es die Schönheit. Es sieht, dass die Armut nicht riesige Anstrengung bedeutet, sondern eine höhere Freiheit, die uns Gott und die anderen als wahre Reichtümer schenkt. Es sieht, dass die Keuschheit keine karge Unfruchtbarkeit ist, sondern der Weg zu lieben, ohne zu besitzen. Es sieht, dass der Gehorsam keine Zucht ist, sondern der Sieg über unsere Anarchie nach dem Stile Jesu. Da wir über Armut und Gemeinschaftsleben sprechen: In einer der Erdbebenregionen in Italien gab es ein Benediktinerinnenkloster, das zerstört wurde, und ein anderes Kloster hat die Schwestern eingeladen, zu ihnen zu ziehen. Aber sie sind dort nur kurze Zeit geblieben: Sie waren nicht glücklich, sie dachten an den Ort, von dem sie weggegangen waren, an die Leute dort. Und schließlich haben sie entschieden, zurückzukehren und das Kloster in zwei Wohnwagen zu verlegen. Anstatt komfortabel in einem großen Kloster zu leben, waren sie wie die Flöhe alle dort zusammen, aber glücklich in der Armut. Dies ist im vergangenen Jahr geschehen. Etwas Schönes!
Meine Augen haben das Heil gesehen. Simeon sieht den kleinen und bescheidenen Jesus, der gekommen ist, um zu dienen, und nicht, um sich bedienen zu lassen, und nennt sich selbst Knecht. Er sagt in der Tat: »Nun lässt du, Herr, deinen Knecht, wie du gesagt hast, in Frieden scheiden« (V. 29). Wer den Blick auf Jesus richtet, lernt zu leben, um zu dienen. Er wartet nicht darauf, dass die anderen anfangen, sondern macht sich selbst auf die Suche nach dem Nächsten, so wie Simeon, der Jesus im Tempel suchte. Wo finden wir im geweihten Leben den Nächsten? Das ist die Frage: Wo finden wir den Nächsten? Zuallererst in der eigenen Gemeinschaft. Wir müssen um die Gnade bitten, Jesus in den Brüdern und Schwestern zu suchen zu verstehen, die uns zur Seite gestellt sind. Dort beginnen wir, die Nächstenliebe in die Tat umzusetzen: an dem Platz, wo du lebst, indem du die Brüder und Schwestern mit ihrer Armut annimmst, so wie Simeon den einfachen und bedürftigen Jesus empfing. Heute sehen viele in den anderen nur Hindernisse und Komplikationen. Es bedarf des Blickes, der den Nächsten sucht und sich dem nähert, der fernsteht. Die gottgeweihten Männer und Frauen sind in ihrem Auftrag, Jesus nachzuahmen, dazu berufen, dessen Blick in die Welt zu bringen: den Blick des Mitgefühls; den Blick, der sich auf die Suche nach den Fernen begibt; den Blick, der nicht verdammt, sondern ermutigt, befreit, tröstet, den Blick des Mitgefühls. Jener Refrain aus dem Evangelium, wenn es über Jesus spricht, sagt oftmals: „Er hatte Mitleid mit ihnen“. Es ist das Herabsteigen Jesu zu jedem von uns.
Meine Augen haben das Heil gesehen. Die Augen des Simeon haben das Heil gesehen, weil er es erwartete (vgl. V. 25). Es waren Augen, die in Erwartung waren und Hoffnung hatten. Sie suchten das Licht und sahen das Licht für die Völker (vgl. V. 32). Es waren betagte Augen, die aber vor Hoffnung leuchteten. Der Blick der Gottgeweihten kann nur ein Blick der Hoffnung sein. Hoffen können. Wenn wir um uns schauen, können wir leicht die Hoffnung verlieren: die Dinge, die nicht gehen, der Rückgang der Berufungen … Es droht immer noch die Versuchung des weltlichen Blicks, der die Hoffnung auslöscht. Doch schauen wir auf das Evangelium und sehen wir Simeon und Hanna: sie waren betagt und allein; aber sie hatten die Hoffnung nicht verloren, weil sie mit dem Herrn im Kontakt standen. Hanna »hielt sich ständig im Tempel auf und diente Gott Tag und Nacht mit Fasten und Beten« (V. 37). Hierin liegt das Geheimnis: sich niemals vom Herrn entfernen, der Quelle der Hoffnung. Wir werden blind, wenn wir nicht jeden Tag den Herrn anschauen, wenn wir ihn nicht anbeten. Den Herrn anbeten!
Liebe Brüder und Schwestern, danken wir Gott für die Gabe des geweihten Lebens und bitten wir um einen erneuerten Blick, der die Gnade zu sehen vermag, der den Nächsten zu suchen weiß und der hoffen kann. So werden auch unsere Augen das Heil sehen.
[00148-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]
Traduzione in lingua spagnola
«Mis ojos han visto a tu Salvador» (Lc 2,30). Son las palabras de Simeón, que el Evangelio presenta como un hombre sencillo: un «hombre justo y piadoso», dice el texto (v. 25). Pero entre todos los hombres que aquel día estaban en el templo, sólo él vio en Jesús al Salvador. ¿Qué es lo que vio? Un niño, simplemente un niño pequeño y frágil. Pero allí vio la salvación, porque el Espíritu Santo le hizo reconocer en aquel tierno recién nacido «al Mesías del Señor» (v. 26). Tomándolo entre sus brazos percibió, en la fe, que en Él Dios llevaba a cumplimiento sus promesas. Y entonces, Simeón podía irse en paz: había visto la gracia que vale más que la vida (cf. Sal 63,4), y no esperaba nada más.
También vosotros, queridos hermanos y hermanas consagrados, sois hombres y mujeres sencillos que habéis visto el tesoro que vale más que todas las riquezas del mundo. Por eso habéis dejado cosas preciosas, como los bienes, como formar una familia. ¿Por qué lo habéis hecho? Porque os habéis enamorado de Jesús, habéis visto todo en Él y, cautivados por su mirada, habéis dejado lo demás. La vida consagrada es esta visión. Es ver lo que es importante en la vida. Es acoger el don del Señor con los brazos abiertos, como hizo Simeón. Eso es lo que ven los ojos de los consagrados: la gracia de Dios que se derrama en sus manos. El consagrado es aquel que cada día se mira y dice: “Todo es don, todo es gracia”. Queridos hermanos y hermanas: No hemos merecido la vida religiosa, es un don de amor que hemos recibido.
Mis ojos han visto a tu Salvador. Son las palabras que repetimos cada noche en Completas. Con ellas concluimos la jornada diciendo: “Señor, mi Salvador eres Tú, mis manos no están vacías, sino llenas de tu gracia”. El punto de partida es saber ver la gracia. Mirar hacia atrás, releer la propia historia y ver el don fiel de Dios: no sólo en los grandes momentos de la vida, sino también en las fragilidades, en las debilidades, en las miserias. El tentador, el diablo insiste precisamente en nuestras miserias, en nuestras manos vacías: “En tantos años no mejoraste, no hiciste lo que podías, no te dejaron hacer aquello para lo que valías, no fuiste siempre fiel, no fuiste capaz…” y así sucesivamente. Cada uno de nosotros conoce bien esta historia, estas palabras. Nosotros vemos que eso, en parte, es verdad, y vamos detrás de pensamientos y sentimientos que nos desorientan. Y corremos el riesgo de perder la brújula, que es la gratuidad de Dios. Porque Dios siempre nos ama y se nos da, incluso en nuestras miserias. San Jerónimo daba tantas cosas al Señor y el Señor le pedía cada vez más. Él le ha dicho: “Pero, Señor, ya te he dado todo, todo, ¿qué me falta?” —“tus pecados, tus miserias, dame tus miserias”. Cuando tenemos la mirada fija en Él, nos abrimos al perdón que nos renueva y somos confirmados por su fidelidad. Hoy podemos preguntarnos: “Yo, ¿hacia quién oriento mi mirada: hacia el Señor o hacia mí mismo?”. Quien sabe ver ante todo la gracia de Dios descubre el antídoto contra la desconfianza y la mirada mundana.
Porque sobre la vida religiosa se cierne esta tentación: tener una mirada mundana. Es la mirada que no ve más la gracia de Dios como protagonista de la vida y va en busca de cualquier sucedáneo: un poco de éxito, un consuelo afectivo, hacer finalmente lo que quiero. Pero la vida consagrada, cuando no gira más en torno a la gracia de Dios, se repliega en el yo. Pierde impulso, se acomoda, se estanca. Y sabemos qué sucede: se reclaman los propios espacios y los propios derechos, uno se deja arrastrar por habladurías y malicias, se irrita por cada pequeña cosa que no funciona y se entonan las letanías del lamento —las quejas, “el padre quejas”, “la hermana quejas”—: sobre los hermanos, las hermanas, la comunidad, la Iglesia, la sociedad. No se ve más al Señor en cada cosa, sino sólo al mundo con sus dinámicas, y el corazón se entumece. Así uno se vuelve rutinario y pragmático, mientras dentro aumentan la tristeza y la desconfianza, que acaban en resignación. Esto es a lo que lleva la mirada mundana. La gran Teresa decía a sus monjas: “ay de la monja que repite ‘me han hecho una injusticia’, ay”.
Para tener la mirada justa sobre la vida, pidamos saber ver la gracia que Dios nos da a nosotros, como Simeón. El Evangelio repite tres veces que él tenía familiaridad con el Espíritu Santo, que estaba con él, lo inspiraba, lo movía (cf. vv. 25-27). Tenía familiaridad con el Espíritu Santo, con el amor de Dios. La vida consagrada, si se conserva en el amor del Señor, ve la belleza. Ve que la pobreza no es un esfuerzo titánico, sino una libertad superior, que nos regala a Dios y a los demás como las verdaderas riquezas. Ve que la castidad no es una esterilidad austera, sino el camino para amar sin poseer. Ve que la obediencia no es disciplina, sino la victoria sobre nuestra anarquía, al estilo de Jesús. En una de las zonas que sufrieron el terremoto en Italia —hablando de pobreza y de vida comunitaria— un monasterio benedictino había quedado completamente destruido y otro monasterio invitó a las monjas a trasladarse al suyo. Pero se quedaron poco tiempo allí: no eran felices, pensaban en el lugar que habían dejado, en la gente de allí. Y al final decidieron volverse y hacer el monasterio en dos caravanas. En vez de estar en un gran monasterio, cómodas, estaban como las pulgas, allí, todas juntas, pero felices en la pobreza. Esto sucedió este último año. Una cosa hermosa.
Mis ojos han visto a tu Salvador. Simeón ve a Jesús pequeño, humilde, que ha venido para servir y no para ser servido, y se define a sí mismo como siervo. Dice, en efecto: «Ahora, Señor, puedes dejar a tu siervo irse en paz» (v. 29). Quien tiene la mirada en Jesús aprende a vivir para servir. No espera que comiencen los demás, sino que sale a buscar al prójimo, como Simeón que buscaba a Jesús en el templo. En la vida consagrada, ¿dónde se encuentra al prójimo? Esta es la pregunta: ¿Dónde se encuentra el prójimo? En primer lugar, en la propia comunidad. Hay que pedir la gracia de saber buscar a Jesús en los hermanos y en las hermanas que hemos recibido. Es allí donde se comienza a poner en práctica la caridad: en el lugar donde vives, acogiendo a los hermanos y hermanas con sus propias pobrezas, como Simeón acogió a Jesús sencillo y pobre. Hoy, muchos ven en los demás sólo obstáculos y complicaciones. Se necesitan miradas que busquen al prójimo, que acerquen al que está lejos. Los religiosos y las religiosas, hombres y mujeres que viven para imitar a Jesús, están llamados a introducir en el mundo su misma mirada, la mirada de la compasión, la mirada que va en busca de los alejados; que no condena, sino que anima, libera, consuela, la mirada de la compasión. Es ese estribillo del Evangelio, que hablando de Jesús repite frecuentemente: “se compadeció”. Es Jesús que se inclina hacia cada uno de nosotros.
Mis ojos han visto a tu Salvador. Los ojos de Simeón han visto la salvación porque la aguardaban (cf. v. 25). Eran ojos que aguardaban, que esperaban. Buscaban la luz y vieron la luz de las naciones (cf. v. 32). Eran ojos envejecidos, pero encendidos de esperanza. La mirada de los consagrados no puede ser más que una mirada de esperanza. Saber esperar. Mirando alrededor, es fácil perder la esperanza: las cosas que no van, la disminución de las vocaciones… Otra vez se cierne la tentación de la mirada mundana, que anula la esperanza. Pero miremos al Evangelio y veamos a Simeón y Ana: eran ancianos, estaban solos y, sin embargo, no habían perdido la esperanza, porque estaban en contacto con el Señor. Ana «no se apartaba del templo, sirviendo a Dios con ayunos y oraciones noche y día» (v. 37). Este es el secreto: no apartarse del Señor, fuente de la esperanza. Si no miramos cada día al Señor, si no lo adoramos, nos volvemos ciegos. Adorar al Señor.
Queridos hermanos y hermanas: Demos gracias a Dios por el don de la vida consagrada y pidamos una mirada nueva, que sabe ver la gracia, que sabe buscar al prójimo, que sabe esperar. Entonces, también nuestros ojos verán al Salvador.
[00148-ES.02] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua portoghese
«Meus olhos viram a Salvação» (Lc 2, 30): são as palavras de Simeão, que o Evangelho apresenta como um homem simples, um homem «justo e piedoso» (2, 25). Mas, dentre todos os homens que estavam no templo naquele dia, só ele viu, em Jesus, o Salvador. Que viu ele? Um menino; um pequenino, frágil e simples menino. Mas n’Ele viu a Salvação, porque o Espírito Santo lhe fez reconhecer, naquele terno recém-nascido, «o Messias do Senhor» (2, 26). Ao tomá-Lo nos braços, percebeu, pela fé, que n’Ele Deus cumpria as suas promessas. E assim ele, Simeão, já podia partir em paz: vira a graça que vale mais do que a vida (cf. Sal 63/62, 4), e nada mais esperava.
Também vós, queridos irmãos e irmãs consagrados, sois homens e mulheres simples que vistes o tesouro que vale mais do que todas as riquezas do mundo. Por ele, deixastes coisas preciosas, tais como bens, criar uma família própria. Por que o fizestes? Porque vos apaixonastes por Jesus, n’Ele vistes tudo e, fascinados pelo seu olhar, deixastes o resto. A vida consagrada é esta visão. É ver aquilo que conta na vida. É acolher de braços abertos o dom do Senhor, como fez Simeão. Isto é o que veem os olhos dos consagrados: a graça de Deus derramada nas suas mãos. A pessoa consagrada é alguém que, ao olhar-se cada dia, diz: «Tudo é dom, tudo é graça». Queridos irmãos e irmãs, não é mérito nosso a vida religiosa, é um dom de amor que recebemos.
Meus olhos viram a Salvação: são as palavras que repetimos cada noite na hora de Completas. Com elas, concluímos a jornada, dizendo: «Senhor, a minha salvação vem de Vós; as minhas mãos não estão vazias, mas cheias da vossa graça». Saber ver a graça é o ponto de partida. Olhar para trás, reler a própria história e ver nela o dom fiel de Deus, não apenas nos grandes momentos da vida mas também nas fragilidades, fraquezas, misérias. O tentador, o diabo insiste precisamente nas nossas misérias, nas nossas mãos vazias: «Passados tantos anos, não melhoraste, não realizaste aquilo que podias, não te deixaram fazer aquilo para que estavas talhado, não foste sempre fiel, não és capaz» e assim por diante. Cada um de nós conhece bem esta história, estas palavras. Vemos que, em parte, isto é verdade e deixamo-nos levar por pensamentos e sentimentos que nos confundem. E corremos o risco de perder a bússola, que é a gratuidade de Deus. Com efeito, Deus ama-nos e sempre Se oferece a nós, mesmo nas nossas misérias. São Jerónimo dera muitas coisas ao Senhor, mas o Senhor pedia-lhe mais... Ele retorquiu: «Senhor, dei-Vos tudo, tudo. Que falta ainda?» – «Os teus pecados, as tuas misérias. Dá-me as tuas misérias». Quando mantemos o olhar fixo n’Ele, abrimo-nos ao perdão que nos renova e somos confirmados pela sua fidelidade. Hoje podemos interrogar-nos: «Para quem volto o olhar, para o Senhor ou para mim?» Quem sabe ver, antes de tudo, a graça de Deus, descobre o antídoto para o desânimo e o olhar mundano.
Com efeito, sobre a vida religiosa, paira esta tentação: ter um olhar mundano. É o olhar que já não vê a graça de Deus como protagonista da vida e vai à procura de qualquer substituto: um pouco de sucesso, uma consolação afetiva, fazer finalmente aquilo que quero. A vida consagrada, quando deixa de girar em torno da graça de Deus, retrai-se no próprio eu: perde impulso, acomoda-se, paralisa. E sabemos o que acontece depois! Reivindicam-se os espaços próprios e os direitos próprios, deixamo-nos cair em críticas e murmurações, indignamo-nos pela mais pequena coisa que não funcione e entoamos a ladainha da lamentação – as lamúrias; tornamo-nos o «padre lamúrias», a «irmã lamúrias» – acerca dos irmãos, das irmãs, da comunidade, da Igreja, da sociedade. Já não se vê o Senhor em tudo, mas só o mundo com as suas dinâmicas; e o coração restringe-se. Assim, a pessoa torna-se rotineira e pragmática, enquanto no seu íntimo aumentam a tristeza e o desânimo, que degeneram em resignação. A isto, conduz o olhar mundano. A grande Teresa dizia às suas irmãs: «Ai da irmã que vai repetindo “fizeram-me uma injustiça”!»
A fim de ter um olhar justo sobre a vida, peçamos para saber ver, como Simeão, a graça de Deus que veio para nós. O Evangelho repete três vezes que Simeão tinha familiaridade com o Espírito Santo, que estava nele, o inspirava e impelia (cf. 2, 25-27). Tinha familiaridade com o Espírito Santo, com o amor de Deus. A vida consagrada, se permanecer firme no amor do Senhor, vê a beleza. Vê que a pobreza não é um esforço titânico, mas uma liberdade superior, que nos presenteia como verdadeiras riquezas Deus e os outros. Vê que a castidade não é uma esterilidade austera, mas o caminho para amar sem se apoderar. Vê que a obediência não é disciplina, mas a vitória, no estilo de Jesus, sobre a nossa anarquia. A propósito de pobreza e vida comunitária, numa das terras atingidas pelo terremoto na Itália, havia um mosteiro beneditino que foi destruído e outro mosteiro convidou as irmãs a mudarem-se para lá. Mas ficaram lá pouco tempo: não eram felizes, pensavam no lugar que deixaram, no povo da terra. E por fim decidiram voltar e fazer o mosteiro em duas rulotes. Em vez de estar num grande mosteiro, confortáveis, viviam ali como os pintainhos, todas juntas, mas felizes na pobreza. Isto aconteceu no ano passado. Uma coisa linda!
Meus olhos viram a Salvação. Ao ver Jesus pequenino, humilde, que veio para servir e não para ser servido, Simeão define-se a si próprio servo. Na realidade afirma: «Agora, Senhor, segundo a tua palavras, deixarás ir em paz o teu servo» (2, 29). Quem mantém o olhar fixo em Jesus, aprende a viver para servir. Não espera que os outros comecem, mas vai à procura do próximo, como Simeão que procurava Jesus no templo. E onde se encontra o próximo, na vida consagrada? Esta é a questão: Onde se encontra o próximo? Antes de mais nada, na própria comunidade. Devemos pedir a graça de saber procurar Jesus nos irmãos e irmãs que recebemos. É aqui que se começa a praticar a caridade: no lugar onde vives, acolhendo os irmãos e irmãs com as suas pobrezas, como Simeão acolheu Jesus simples e pobre. Há muitos, hoje, que só veem nos outros obstáculos e complicações. Há necessidade de olhares que procurem o próximo, que aproximem quem está distante. Como homens e mulheres que vivem para imitar Jesus, os religiosos e as religiosas são chamados a tornar presente no mundo o olhar d’Ele, o olhar da compaixão, o olhar que vai à procura dos distantes, que não condena, mas encoraja, liberta, consola. O olhar de compaixão: aquele refrão do Evangelho que muitas vezes, referindo-se a Jesus, diz “teve compaixão”. É o abaixar-Se de Jesus para cada um de nós.
Meus olhos viram a Salvação. Os olhos de Simeão viram a Salvação, porque A esperavam (cf. 2, 25). Eram olhos que aguardavam, que esperavam. Procuravam a luz, e viram a luz das nações (cf. 2, 32). Eram olhos idosos, mas brilhantes de esperança. O olhar dos consagrados só pode ser um olhar de esperança. Saber esperar. Olhando em redor, é fácil perder a esperança: as coisas que estão mal, a diminuição das vocações, etc. Paira ainda a tentação do olhar mundano, que aniquila a esperança. Mas olhemos o Evangelho e vejamos Simeão e Ana: eram idosos, viviam sozinhos e contudo não tinham perdido a esperança, porque estavam em contacto com o Senhor. Ana «não se afastava do templo, participando no culto noite e dia, com jejuns e orações» (2, 37). Aqui está o segredo: não se afastar do Senhor, fonte da esperança. Tornamo-nos cegos, se não fixarmos o olhar no Senhor todos os dias, se não O adorarmos. Adorar o Senhor!
Amados irmãos e irmãs, agradeçamos a Deus pelo dom da vida consagrada e peçamos um olhar novo, que saiba ver a graça, que saiba procurar o próximo, que saiba esperar. Então os nossos olhos também verão a Salvação.
[00148-PO.02] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua polacca
„Moje oczy ujrzały Twoje zbawienie” (Łk 2,30). Są to słowa Symeona, którego Ewangelia przedstawia jako zwykłego człowieka: „człowiek prawy i pobożny” - mówi tekst (w. 25). Ale ze wszystkich ludzi, którzy przebywali tego dnia w świątyni, tylko on widział w Jezusie Zbawiciela. Co widział? Dziecko: małe, kruche i zwyczajne dziecko. Ale widział tam zbawienie, ponieważ Duch Święty sprawił, że rozpoznał w tym kruchym niemowlęciu „Mesjasza Pańskiego” (w. 26). Biorąc Go w objęcia, z wiarą dostrzegł, że w Nim Bóg wypełnił swoje obietnice. Zatem on, Symeon, mógł odejść w pokoju: zobaczył łaskę, która jest warta więcej niż życie (por. Ps 63, 4), i nie oczekiwał niczego innego.
Również wy, drodzy konsekrowani bracia i siostry, jesteście zwyczajnymi mężczyznami i kobietami, którzy widzieli skarb wart więcej niż cała majętność świata. Dla niego porzuciliście rzeczy cenne, takie jak dobra materialne, jak utworzenie własnej rodziny. Dlaczego to uczyniliście? Ponieważ zakochaliście się w Jezusie, widzieliście w Nim wszystko i porwani Jego spojrzeniem, pozostawiliście resztę. Życie konsekrowane jest tą wizją. To widzenie tego, co liczy się w życiu. To przyjęcie daru Pana z otwartymi ramionami, jak to uczynił Symeon. Oto, co widzą oczy osób konsekrowanych: łaska Boża wlana w ich ręce. Osoba konsekrowana to ta, która patrzy na siebie każdego dnia i mówi: „Wszystko jest darem, wszystko jest łaską”. Drodzy bracia i siostry, nie zasłużyliśmy sobie na życie zakonne, jest to dar miłości, który otrzymaliśmy.
Moje oczy ujrzały Twoje zbawienie. Są to słowa, które powtarzamy każdego wieczora w modlitwie komplety. Nimi kończymy dzień, mówiąc: „Panie, moje zbawienie pochodzi od Ciebie, moje ręce nie są puste, ale pełne Twojej łaski”. Punktem wyjścia jest umiejętność dostrzeżenia łaski. Patrząc wstecz, trzeba odczytać na nowo swoją historię i widzieć tam wierny dar Boga: nie tylko we wspaniałych chwilach życia, ale także w kruchościach, słabościach, niedoli. Kusiciel, diabeł, kładzie nacisk właśnie na nasze nędze, na nasze puste ręce: „Przez wiele lat nie poprawiłeś się, nie osiągnąłeś tego, co mogłeś, nie pozwolili ci dokonać tego, do czego miałeś talent, nie zawsze byłeś wierny, nie jesteś zdolny ...” i tak w kółko. Każdy z nas dobrze zna tą historię, te słowa. Widzimy, że jest to częściowo prawdą i podążamy za myślami i uczuciami, które nas dezorientują. I grozi nam utrata kompasu, którym jest bezinteresowność Boga: Bóg nas bowiem zawsze miłuje i daje się nam, nawet w naszych biedach. Święty Hieronim wiele dawał Panu, a Pan chciał więcej. Powiedział „Panie, przecież dałem Tobie wszystko, czego jeszcze brakuje?” – „Twoich grzechów, twoich bied, daj mi swoje grzechy”. Kiedy wpatrujemy się w Niego, otwieramy się na przebaczenie, które nas odnawia i zostajemy umocnieni Jego wiernością. Dziś możemy zadać sobie pytanie: „Ku komu kieruję spojrzenie: ku Panu czy też ku sobie?”. Ten, kto potrafi widzieć przede wszystkim łaskę Boga, odkrywa antidotum na nieufność i spojrzenie światowe.
Życiu zakonnemu zagraża bowiem pokusa postrzegania światowego. Jest to spojrzenie, które nie widzi już łaski Boga jako protagonisty życia i wyrusza na poszukiwanie jakiejś namiastki: małego sukcesu, pocieszenia uczuciowego, czynienia w końcu tego, co chcę. Ale życie konsekrowane, gdy już nie obraca się wokół łaski Bożej, zmyka się na „ja”. Traci energię, spoczywa na laurach, trwa w bezruchu. I wiemy, co się dzieje: domagamy się naszych przestrzeni i naszych praw, pozwalamy się wciągnąć w plotki i złośliwości, oburzamy się z powodu każdego drobiazgu, który nie gra, i zaczynają się litanie narzekań – narzekania „ojciec narzekający”, „siostra narzekająca”: na braci, siostry, na wspólnotę, na Kościół, na społeczeństwo. Nie widzimy już we wszystkim Pana, ale tylko świat z jego dynamikami, a serce się zamyka. W ten sposób stajemy się rutyniarzami i ludźmi pragmatycznymi, a jednocześnie rośnie w nas smutek i nieufność, przeradzające się w rezygnację. Oto do czego prowadzi spojrzenie światowe. Wielka Teresa mówiła do swoich sióstr „Biada siostrze, która powtarza «doznałam niesprawiedliwości», biada”.
Abyśmy mieli właściwe spojrzenie na życie, prośmy, byśmy, jak Symeon, potrafili dostrzec łaskę Bożą. Ewangelia trzykrotnie powtarza, że był on w bardzo bliskich relacjach z Duchem Świętym, który spoczywał nad nim, natchnął go, poruszył go (por. ww. 25-27). Dobrze znał Ducha Świętego, poprzez miłość Boga. Życie konsekrowane, jeśli mocno trwa w miłości Pana, widzi piękno. Widzi, że ubóstwo nie jest tytanicznym wysiłkiem, ale doskonalszą wolnością, która daje nam w darze Boga oraz innych ludzi jako prawdziwe bogactwo. Widzi, że czystość nie jest surową bezpłodnością, ale drogą ku miłości bez posiadania. Widzi, że posłuszeństwo nie jest dyscypliną, lecz zwycięstwem nad naszą anarchią w stylu Jezusa. Na jednym z obszarów dotkniętych trzęsieniem ziemi we Włoszech - mówiąc o ubóstwie i życiu wspólnotowym – był klasztor benedyktyński, który został zniszczony, a inny klasztor zaprosił siostry, by przeniosły się do nich. Ale zostały tam przez krótki czas: nie były szczęśliwe, pomyślały o miejscu, które opuściły, o tamtejszych ludziach. I w końcu postanowiły powrócić i zrobić klasztor w dwóch przyczepach kempingowych. Zamiast przebywać w dużym klasztorze, wygodnie, byli jak pchły, wszystkie razem, ale szczęśliwe w ubóstwie. Stało się to w ubiegłym roku. Piękna rzecz!
Moje oczy ujrzały Twoje zbawienie. Symeon widzi Jezusa jako małego, pokornego, który przychodzi, aby służyć, a nie, aby mu służono, i określa sam siebie jako sługa. Istotnie mówi: „Teraz, o Panie, pozwól odejść swemu słudze w pokoju” (w. 29). Ci, którzy patrzą na Jezusa, uczą się, jak żyć, aby służyć. Nie czeka, aż inni rozpoczną, ale zaczyna szukać bliźniego, jak Symeon, który szukał Jezusa w świątyni. Gdzie w życiu konsekrowanym znajduje się bliźni? To jest pytanie: gdzie znajduje się bliźni? Przede wszystkim we własnej wspólnocie. Trzeba poprosić o łaskę, by umieć szukać Jezusa w braciach i siostrach, których otrzymaliśmy. Od tego zaczynamy realizować miłosierdzie: w miejscu, w którym mieszkasz, akceptując braci i siostry z ich ubóstwem, tak jak Symeon przywitał Jezusa zwyczajnego i ubogiego. Dzisiaj wielu widzi w innych jedynie przeszkody i komplikacje. Potrzebne są spojrzenia, które szukałyby bliźniego, które przybliżałyby tych, którzy są daleko. Zakonnicy i zakonnice, mężczyźni i kobiety żyjący po to, aby naśladować Jezusa, są powołani, by wprowadzić w świat Jego spojrzenie, spojrzenie współczucia, spojrzenie szukające tych, którzy są daleko, które nie potępia, ale dodaje otuchy, wyzwala, pociesza, spojrzenie współczucia. Ów refren Ewangelii, wiele razy mówiąc o Jezusie stwierdza: „Ulitował się nad nim”. To uniżenie się Jezusa ku każdemu z nas.
Moje oczy ujrzały Twoje zbawienie. Oczy Symeona ujrzały zbawienie, ponieważ na nie czekały (por. w. 25). Były to oczy oczekujące, żywiące nadzieję. Szukały światła i widziały światło narodów (por. w. 32). Były to stare oczy, ale płonące nadzieją. Spojrzenie osób konsekrowanych może być jedynie spojrzeniem nadziei. Umieć żywić nadzieję. Rozglądając się wokół, łatwo utracić nadzieję: rzeczy, które nie działają, spadek powołań ... Zagraża ponownie pokusa spojrzenia światowego, które niweczy nadzieję. Ale spójrzmy na Ewangelię i zobaczmy Symeona i Annę: byli starcami, samotnymi, ale nie utracili nadziei, ponieważ trwali w kontakcie z Panem. Anna „nie rozstawała się ze świątynią, służąc Bogu w postach i modlitwach dniem i nocą” (w. 37). Oto tajemnica: nie rozstawać się z Panem, który jest źródłem nadziei. Stajemy się ślepi, jeśli nie patrzymy na Pana każdego dnia, jeśli Go nie adorujemy. Adorujmy Pana!
Drodzy bracia i siostry, dziękujmy Bogu za dar życia konsekrowanego i prośmy o nowe spojrzenie, które potrafi ujrzeć łaskę, które umie szukać bliźniego, które potrafi żywić nadzieję. Wówczas również nasze oczy ujrzą zbawienie.
[00148-PL.02] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua araba
عظة قداسة البابا فرنسيس
خلال القدّاس الإلهيّ
بمناسبة اليوم العالمي الرابع والعشرين للحياة المكرّسة
السبت 1 فبراير/شباط 2020
بازليك القدّيس بطرس
"فقَد رَأَت عَينايَ خلاصَكَ" (لو 2، 30). هذه كلمات سِمعان، الذي يقول فيه الإنجيل إنه رجل بسيط، "رَجُلٌ بارٌّ تَقيٌّ" (آية 25). لكن من بين جميع الرجال الذين كانوا في الهيكل في ذلك اليوم، هو وحده رأى أن يسوع هو المخلّص. ماذا رأى؟ رأى طفلًا صغيرًا، ضعيفًا وبسيطًا. لكنه رأى فيه الخلاص، لأن الروح القدس جعله يرى في ذلك الطفل الضعيف "مَسيح الرَّبّ" (آية 26). حَمَلَه على ذراعيه وأدرك بالإيمان أن الله حقّق فيه وعوده. بعد ذلك، كان يستطيع سمعان أن ينطلق بسلام: لقد رأى نعمةً أثمن من الحياة (را. مز 63، 4)، ولم يعد ينتظر شيئًا آخر.
وأنتم أيضًا، أيها الإخوة والأخوات المكرّسون، أنتم رجال ونساء بسطاء قد رأيتم الكنز الذي يفوق ثمنه كلّ أموال العالم. ومن أجله تركتم أشياء ثمينة، مثل الممتلكات والمكوث مع عائلتكم الخاصة. لماذا فعلتم ذلك؟ لأنكم وقعتم في حبّ يسوع ورأيتم كلّ شيء فيه. جذبتكم نظرتُه، فتركتم كلّ شيء. الحياة المكرّسة هي هذه الرؤية، رؤية ما له قيمة في الحياة. هي قبول هبة الربّ يسوع بأذرع مفتوحة، مثل سمعان الشيخ. هذا ما تراه عيون المكرّسين: ترى نعمة الله تفيض في أيديهم. الشخص المكرّس هو الذي ينظر إلى نفسه كلّ يوم ويقول: "كلّ شيء هبة منه تعالى، كلّ شيء نعمة". أيها الإخوة والأخوات الأعزّاء، لم نستحقّ نحن الحياة الرهبانية، بل هي هبة حبّ أعطيت لنا.
فقَد رَأَت عَينايَ خلاصَكَ. هذه هي الكلمات التي نكرّرها كلّ مساء في الصلاة قبل النوم. بها نختتم نهارنا ونقول: "يا ربّ، منك خلاصي، ليست يديّ فارغتين، بل ممتلئتين بنعمتك". نقطة الاطلاق هي أن نعرف كيف نرى النعمة، فننظر إلى الوراء، ونعيد قراءة مسيرة حياتنا لنرى عطيّة الله الأمينة فيها، وليس فقط في لحظات النجاح، بل في لحظات الهشاشة والضعف والبؤس أيضًا. إن الشيطان المجرّب يركّز على بؤسنا، وعلى أيدينا الفارغة، وكأنه يقول لنا: "سنوات عديدة مضت ولم تتحسّن، لم تحقّق ما كنت قادرًا أن تعمله، ولم يسمحوا لك بالقيام بما كنت مهيّأً له، ولم تكن دائمًا أمينًا. أنت لا تقدر..." وهلم جرا. كلّ واحد منّا يعرف هذه القصّة جيّدًا، يعرف هذه الكلمات. ونرى أن هذا صحيح جزئيًّا، فنسير وراء أفكار ومشاعر تُربكنا. ونوشك أن نفقد البوصلة: وهي مجّانية الله. لأن الله يحبّنا دائمًا ويعطينا نفسه، حتى في لحظات بؤسنا. كان القدّيس جيروم يعطي أشياء كثيرة للربّ وكان الربّ يطلب المزيد. قال له: "لكن يا ربّ، لقد أعطيتك كلّ شيء، كلّ شيء، ما الذي ينقص؟" - "خطاياك، وبؤسك، أعطني بؤسك". عندما نُبقي نظرنا مُثبَتًا فيه، نصبح قادرين على قبول المغفرة التي تُجدّدنا وتؤكّد لنا أمانة الله معنا. يمكننا اليوم أن نسأل أنفسنا: "إلى من أُوجّه نظري: إلى الرّب يسوع أم إلى ذاتي؟". من يعرف أن يرى، قبل كلّ شيء، نعمة الله، يكتشف العلاج الشافي لعدم الثقة وللنظر بحسب روح العالم.
لأن الحياة الرهبانيّة معرّضة لهذه التجربة: النظر بحسب روح العالم. إنها نظرة لم تعد ترى أن نعمة الله هي سند حياتنا فتبحث عن شيء بديل، عن بعض النجاح، أو عزاء عاطفي، أو أخيرًا الوصول إلى عمل ما أريد. لكن الحياة المكرّسة، عندما تكفّ عن الدوران حول نعمة الله، فإنها تنطوي على الأنا، فتفقد الاندفاع ويصيبها البطء ثم الركود. ونحن نعلم ما يحدث بعد ذلك: نبدأ بالمطالبة بأمور خاصّة بنا، أماكن خاصّة، وحقوق خاصّة، ونسمح لأنفسنا بأن ننجرّ وراء الثرثرة والخبث. فنثور لأصغر الأمور التي لا تناسبنا، وتبدأ سلسلة التذمّر: التذمّر، "الأب تَذَمُّر"، "الأخت تَذَمُّر": من الإخوة والأخوات والجماعة والكنيسة والمجتمع. لم نعد نرى الربّ يسوع في كلّ شيء، بل أصبحنا نرى العالم بديناميكيّاته فقط، فينقبض قلبنا ويضيق. ويصبح هذا فينا عادة ونهج حياة، بينما يزداد الحزن وعدم الثقة في داخلنا، وينتهي بنا الأمر إلى الاستسلام. هذا هو ما يؤدّي إليه النظر بروح العالم. كانت تقول القدّيسة تيريزا الكبيرة: "الويل للأخت التي تُرَدِّد لقد ظلموني، الويل لها!"
حتى تكون لنا نظرة صحيحة إلى الحياة، علينا أن نطلب المقدرة لرؤية نعمة الله المعطاة لنا، مثل سمعان. كرّر الإنجيل ثلاث مرّات أن سمعان كان في ألفة مع الروح القدس، الذي نزل عليه وألهمه وحرَّكه (را. آيات 25-27). كان في ألفة مع الروح القدس ومع حبّ الله. الحياة المكرّسة، إذا بقيت ثابتة في حبّ الربّ يسوع، فإنها ترى ما هو جميل، ترى أن الفقر ليس مجهودًا هائلًا، بل هو حرّية سامية تمنحنا الله والآخرين، أي الغنى الحقيقي. وترى أن العفة ليست عقمًا بائسًا في الحياة، بل هي وسيلة للحبّ دون امتلاك الآخر. وترى أن الطاعة ليست قضيّة انضباط، بل هي انتصار، بحسب طريقة يسوع، على الفوضى التي فينا. في إحدى الأراضي التي ضربها الزلزال في إيطاليا – إذ أتحدّث عن الفقر وعن الحياة الجماعيّة - تدمّر دير لراهبات القدّيس بندكتس، فدعا ديرٌ آخرٌ الراهبات للانتقال إلى ديرهنّ. لكن الراهبات بقوا هناك لفترة قصيرة: لم يكنَّ سعيدات، فكّرن في المكان الذي غادرنه، وفي الناس هناك. وفي النهاية قررنَّ العودة وإقامة الدير في كرفانات. فبدلًا من أن تكنّ في دير كبير ومريح، كنّ مثل "البراغيث" هناك، كلّهن معًا، أنما سعيدات بالفقر. لقد حدث هذا في العام الماضي. شيء جميل!
فقَد رَأَت عَينايَ خلاصَكَ. رأى سمعان يسوع، صغيرًا ومتواضعًا، أتى ليَخدُم ولا ليُخدَم، وعرَّف سمعان عن نفسه بأنه "عبد" خادم. قال: "الآنَ تُطلِقُ، يا سَيِّد، عَبدَكَ بِسَلام، وَفْقًا لِقَوْلِكَ" (آية 29). من يُثبِّتْ نظره في يسوع يتعلّمْ أن يعيش ليخدم. لا ينتظر أن يبدأ الآخرون، بل يبدأ هو بالبحث عن القريب، مثل سمعان الذي بحث عن يسوع في الهيكل. أين نجد القريب في الحياة المكرّسة؟ هذا هو السؤال: أين نجد القريب؟ أوّلًا في الجماعة المكرّسة نفسها التي نعيش فيها. يجب أن نطلب النعمة لنعرف كيف نبحث عن يسوع في الإخوة والأخوات الذين أُعطوا لنا. هناك تبدأ المحبّة، في المكان الذي تعيش فيه، فترحّب بإخوانك وأخواتك بفقرهم، كما رحّب سمعان بيسوع البسيط والفقير. يرى كثيرون اليوم في الآخرين أنهم فقط عقبة أو عقدة أمامهم. نحن بحاجة إلى نظرة تبحث عن القريب، وتقرّب البعيد. إن الرهبان والراهبات، الذين هم رجال ونساء يعيشون كي يقتدوا بيسوع، مدعوّون لإدخال نظرة يسوع نفسه في العالم، نظرة الشفقة، النظرة التي تبحث عن البعيدين، والتي لا تدين، بل تشجّع وتحرّر وتعزّي، نظرة الشفقة. تلك اللازمة التي تعود تكرارًا في الإنجيل فتقول عن يسوع: "فأشفق عليه". هكذا ينحي يسوع على كلّ واحد منّا.
فقَد رَأَت عَينايَ خلاصَكَ. رأى سمعان الخلاص لأنه كان ينتظره (را. آية 25). عيناه تنتظران وترجوان. بحثت عن النور ورأت نور الأمم (را. آية 32). شاخ نظر سمعان لكنه ما زال متّقدًا بالرجاء. إن نظرة المكرّسين لا يمكن أن تكون إلّا نظرة رجاء. نظرات تعرف أن ترجو. عندما ننظر حولنا، من السهل أن نفقد الرجاء: لأن هناك أمورٌ لا تسير، والدعوات الرهبانية في تناقص... لا تزال تجربة النظرة بحسب روح العالم تراودنا، وتمنع فينا الرجاء. فلننظر إلى الإنجيل ولنرى سمعان وحنّة: كانا مُسِنَّين، متوحدين، ولكنهما لم يفقدا الرجاء، لأنهما كانا على صِلة بالله. كانت حنة "لا تُفارِقُ الـهَيكَل، مُتَعَبِّدَةً بِالصَّومِ والصَّلاةِ لَيلَ نَهار" (آية 37). هذا هو السرّ: ألّا نبتعد عن الربّ يسوع، مصدر الرجاء. نصاب بالعمى إن لم ننظر كلَّ يوم إلى الربّ يسوع، وإن لم نسجد له هو. نسجد للربّ!
أيها الإخوة والأخوات الأعزّاء، لنشكر الله على نعمة الحياة المكرّسة ولنسأله أن يهبنا نظرة جديدة، بها نعرف أن نرى النعمة، ونعرف أن نبحث عن القريب، ونعرف أن نرجو. وحينها سوف ترى عيوننا أيضًا الخلاص.
[00148-AR.01] [Testo originale: Italiano]
[B0068-XX.02]