Sala Stampa

www.vatican.va

Sala Stampa Back Top Print Pdf
Sala Stampa


Santa Messa nella Solennità dell’Epifania del Signore, 06.01.2020


Omelia del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Alle ore 10 di questa mattina, Solennità dell’Epifania del Signore, il Santo Padre Francesco ha presieduto la Celebrazione Eucaristica nella Basilica Vaticana.

Pubblichiamo di seguito il testo dell’omelia che il Papa ha pronunciato dopo la proclamazione del Santo Vangelo e l’annuncio del giorno di Pasqua che quest’anno si celebra il 12 aprile:

Omelia del Santo Padre

Nel Vangelo (Mt 2,1-12) abbiamo sentito che i Magi esordiscono manifestando le loro intenzioni: «Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo» (v. 2). Adorare è il traguardo del loro percorso, la meta del loro cammino. Infatti, quando, giunti a Betlemme, «videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono» (v. 11). Se perdiamo il senso dell’adorazione, perdiamo il senso di marcia della vita cristiana, che è un cammino verso il Signore, non verso di noi. È il rischio da cui ci mette in guardia il Vangelo, presentando, accanto ai Magi, dei personaggi che non riescono ad adorare.

C’è anzitutto il re Erode, che utilizza il verbo adorare, ma in modo ingannevole. Chiede infatti ai Magi che lo informino sul luogo dove si trovava il Bambino «perché – dice – anch’io venga ad adorarlo» (v. 8). In realtà, Erode adorava solo sé stesso e perciò voleva liberarsi del Bambino con la menzogna. Che cosa ci insegna questo? Che l’uomo, quando non adora Dio, è portato ad adorare il suo io. E anche la vita cristiana, senza adorare il Signore, può diventare un modo educato per approvare sé stessi e la propria bravura: cristiani che non sanno adorare, che non sanno pregare adorando. È un rischio serio: servirci di Dio anziché servire Dio. Quante volte abbiamo scambiato gli interessi del Vangelo con i nostri, quante volte abbiamo ammantato di religiosità quel che ci faceva comodo, quante volte abbiamo confuso il potere secondo Dio, che è servire gli altri, col potere secondo il mondo, che è servire sé stessi!

Oltre a Erode, ci sono altre persone nel Vangelo che non riescono ad adorare: sono i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo. Essi indicano a Erode con estrema precisione dove sarebbe nato il Messia: a Betlemme di Giudea (cfr v. 5). Conoscono le profezie, le citano esattamente. Sanno dove andare – grandi teologi, grandi! –, ma non vanno. Anche da questo possiamo trarre un insegnamento. Nella vita cristiana non basta sapere: senza uscire da sé stessi, senza incontrare, senza adorare non si conosce Dio. La teologia e l’efficienza pastorale servono a poco o nulla se non si piegano le ginocchia; se non si fa come i Magi, che non furono solo sapienti organizzatori di un viaggio, ma camminarono e adorarono. Quando si adora ci si rende conto che la fede non si riduce a un insieme di belle dottrine, ma è il rapporto con una Persona viva da amare. È stando faccia a faccia con Gesù che ne conosciamo il volto. Adorando, scopriamo che la vita cristiana è una storia d’amore con Dio, dove non bastano le buone idee, ma bisogna mettere Lui al primo posto, come fa un innamorato con la persona che ama. Così dev’essere la Chiesa, un’adoratrice innamorata di Gesù suo sposo.

All’inizio dell’anno riscopriamo l’adorazione come esigenza della fede. Se sapremo inginocchiarci davanti a Gesù, vinceremo la tentazione di tirare dritto ognuno per la sua strada. Adorare, infatti, è compiere un esodo dalla schiavitù più grande, quella di sé stessi. Adorare è mettere il Signore al centro per non essere più centrati su noi stessi. È dare il giusto ordine alle cose, lasciando a Dio il primo posto. Adorare è mettere i piani di Dio prima del mio tempo, dei miei diritti, dei miei spazi. È accogliere l’insegnamento della Scrittura: «Il Signore, Dio tuo, adorerai» (Mt 4,10). Dio tuo: adorare è sentire di appartenersi a vicenda con Dio. È dargli del “tu” nell’intimità, è portargli la vita permettendo a Lui di entrare nelle nostre vite. È far discendere la sua consolazione sul mondo. Adorare è scoprire che per pregare basta dire: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28), e lasciarci pervadere dalla sua tenerezza.

Adorare è incontrare Gesù senza la lista delle richieste, ma con l’unica richiesta di stare con Lui. È scoprire che la gioia e la pace crescono con la lode e il rendimento di grazie. Quando adoriamo permettiamo a Gesù di guarirci e cambiarci. Adorando diamo al Signore la possibilità di trasformarci col suo amore, di illuminare le nostre oscurità, di darci forza nella debolezza e coraggio nelle prove. Adorare è andare all’essenziale: è la via per disintossicarsi da tante cose inutili, da dipendenze che anestetizzano il cuore e intontiscono la mente. Adorando, infatti, si impara a rifiutare quello che non va adorato: il dio denaro, il dio consumo, il dio piacere, il dio successo, il nostro io eretto a dio. Adorare è farsi piccoli al cospetto dell’Altissimo, per scoprire davanti a Lui che la grandezza della vita non consiste nell’avere, ma nell’amare. Adorare è riscoprirci fratelli e sorelle davanti al mistero dell’amore che supera ogni distanza: è attingere il bene alla sorgente, è trovare nel Dio vicino il coraggio di avvicinare gli altri. Adorare è saper tacere davanti al Verbo divino, per imparare a dire parole che non feriscono, ma consolano.

Adorare è un gesto d’amore che cambia la vita. È fare come i Magi: è portare al Signore l’oro, per dirgli che niente è più prezioso di Lui; è offrirgli l’incenso, per dirgli che solo con Lui la nostra vita si eleva verso l’alto; è presentargli la mirra, con cui si ungevano i corpi feriti e straziati, per promettere a Gesù di soccorrere il nostro prossimo emarginato e sofferente, perché lì c’è Lui. Di solito noi sappiamo pregare – chiediamo, ringraziamo il Signore –, ma la Chiesa deve andare ancora più avanti con la preghiera di adorazione, dobbiamo crescere nell’adorazione. È una saggezza che dobbiamo imparare ogni giorno. Pregare adorando: la preghiera di adorazione.

Cari fratelli e sorelle, oggi ciascuno di noi può chiedersi: “Sono un cristiano adoratore?”. Tanti cristiani che pregano non sanno adorare. Facciamoci questa domanda. Troviamo tempi per l’adorazione nelle nostre giornate e creiamo spazi per l’adorazione nelle nostre comunità. Sta a noi, come Chiesa, mettere in pratica le parole che abbiamo pregato oggi al Salmo: “Ti adoreranno, Signore, tutti i popoli della terra”. Adorando, scopriremo anche noi, come i Magi, il senso del nostro cammino. E, come i Magi, proveremo «una gioia grandissima» (Mt 2,10).

[00010-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Dans l’Evangile (Mt 2, 1-12), nous avons entendu que les Mages commencent par manifester leurs intentions: «Nous avons vu son étoile à l’orient et nous sommes venus nous prosterner devant lui» (v. 2). Adorer est l’objectif de leur parcours, le but de leur cheminement. En effet, arrivés à Bethléem, «ils virent l’enfant avec Marie sa mère; et, ils se prosternèrent devant lui» (v. 11). Si nous perdons le sens de l’adoration, nous perdons le sens de la marche de la vie chrétienne, qui est un cheminement vers le Seigneur, non pas vers nous. C’est le risque contre lequel l’Evangile nous met en garde, en présentant, à côté des Mages, des personnages qui n’arrivent pas à adorer.

Il y a surtout le roi Hérode, qui utilise le verbe adorer, mais avec une intention fallacieuse. Il demande, en effet, aux Mages de l’informer sur le lieu où se trouve l’Enfant «pour que – dit-il – j’aille, moi aussi, me prosterner devant lui» (v. 8). En réalité, Hérode n’adorait que lui-même, et c’est pourquoi il voulait se libérer de l’Enfant par le mensonge. Qu’est-ce que cela nous enseigne? Que l’homme, quand il n’adore pas Dieu, est amené à adorer son moi. Et même la vie chrétienne, sans adorer le Seigneur, peut devenir un moyen raffiné pour s’affirmer soi-même et son talent: des chrétiens qui ne savent pas adorer, qui ne savent pas prier en adorant. C’est un risque sérieux: nous servir de Dieu plutôt que de servir Dieu. Combien de fois n’avons-nous pas échangé les intérêts de l’Evangile avec les nôtres, combien de fois n’avons-nous pas couvert de religiosité ce qui nous arrangeait, combien de fois n’avons-nous pas confondu le pouvoir selon Dieu, qui est de servir les autres, avec le pouvoir selon le monde, qui est de se servir soi-même!

En plus d’Hérode, il y a d’autres personnes dans l’Evangile qui n’arrivent pas à adorer: ce sont les chefs des prêtres et les scribes du peuple. Ils indiquent à Hérode, avec une précision extrême, où serait né le Messie: à Bethléem de Judée (cf. v. 5). Ils connaissent les prophéties et les citent avec exactitude. Ils savent où aller – des grands théologiens, des grands! –, mais n’y vont pas. De cela aussi, nous pouvons tirer un enseignement. Dans la vie chrétienne, il ne suffit pas de savoir: sans sortir de soi-même, sans rencontrer, sans adorer, on ne connaît pas Dieu. La théologie et l’efficacité pastorale servent à peu de choses ou même à rien si on ne plie pas les genoux; si on ne fait pas comme les Mages, qui ne furent pas seulement des savants organisateurs d’un voyage, mais qui marchèrent et adorèrent. Quand on adore, on se rend compte que la foi ne se réduit pas à un ensemble de belles doctrines, mais qu’elle est la relation avec une Personne vivante à aimer. C’est en étant face à face avec Jésus que nous en connaissons le visage. En adorant, nous découvrons que la vie chrétienne est une histoire d’amour avec Dieu, où les bonnes idées ne suffisent pas, mais qu’il faut lui accorder la priorité, comme le fait un amoureux avec la personne qu’il aime. C’est ainsi que l’Eglise doit être, une adoratrice amoureuse de Jésus son époux.

Au début de l’année, redécouvrons l’adoration comme une exigence de la foi. Si nous savons nous agenouiller devant Jésus, nous vaincrons la tentation de continuer à marcher chacun de son côté. Adorer, en effet, c’est accomplir un exode depuis l’esclavage le plus grand, celui de soi-même. Adorer, c’est mettre le Seigneur au centre pour ne pas être centrés sur nous-mêmes. C’est remettre les choses à leur place, en laissant à Dieu la première place. Adorer, c’est mettre les plans de Dieu avant mon temps, mes droits, mes espaces. C’est accueillir l’enseignement de l’Ecriture: «C’est le Seigneur ton Dieu que tu adoreras» (Mt 4, 10). Ton Dieu: adorer c’est se sentir de appartenir mutuellement avec Dieu. C’est lui dire “tu” dans l’intimité, c’est lui apporter notre vie en lui permettant d’entrer dans nos vies. C’est faire descendre sa consolation sur le monde. Adorer, c’est découvrir que, pour prier, il suffit de dire: «Mon Seigneur et mon Dieu!» (Jn 20, 28), et se laisser envahir par sa tendresse.

Adorer, c’est rencontrer Jésus sans une liste des demandes, mais avec l’unique demande de demeurer avec lui. C’est découvrir que la joie et la paix grandissent avec la louange et l’action de grâce. Quand nous adorons, nous permettons à Jésus de nous guérir et de nous changer. En adorant, nous donnons au Seigneur la possibilité de nous transformer avec son amour, d’illuminer nos obscurités, de nous donner la force dans la faiblesse et le courage dans les épreuves. Adorer, c’est aller à l’essentiel: c’est la voie pour nous désintoxiquer de nombreuses choses inutiles, des dépendances qui anesthésient le cœur et engourdissent l’esprit. En adorant, en effet, on apprend à refuser ce qu’il ne faut pas adorer: le dieu argent, le dieu consommation, le dieu plaisir, le dieu succès, notre moi érigé en dieu. Adorer, c’est se faire petit en présence du Très Haut, pour découvrir devant Lui que la grandeur de la vie ne consiste pas dans l’avoir, mais dans le fait d’aimer. Adorer, c’est nous redécouvrir frères et sœurs devant le mystère de l’amour qui surmonte toute distance: c’est puiser le bien à la source, c’est trouver dans le Dieu proche le courage d’approcher les autres. Adorer, c’est savoir se taire devant le Verbe divin, pour apprendre à dire des paroles qui ne blessent pas, mais qui consolent.

Adorer, c’est un geste d’amour qui change la vie. C’est faire comme les Mages: c’est apporter au Seigneur l’or, pour lui dire que rien n’est plus précieux que lui; c’est lui offrir l’encens, pour lui dire que c’est seulement avec lui que notre vie s’élève vers le haut; c’est lui présenter la myrrhe, avec laquelle on oignait les corps blessés et mutilés, pour promettre à Jésus de secourir notre prochain marginalisé et souffrant, parce que là il est présent. D’habitude, nous savons prier – nous demandons, nous remercions le Seigneur –, mais l’Eglise doit encore aller plus loin avec la prière d’adoration, nous devons grandir dans l’adoration. C’est une sagesse que nous devons apprendre tous les jours. Prier en adorant: la prière d’adoration.

Chers frères et sœurs, aujourd’hui chacun de nous peut se demander: “Suis-je un chrétien adorateur?”. De nombreux chrétiens qui prient ne savent pas adorer. Faisons-nous cette demande. Trouvons du temps pour l’adoration dans nos journées et créons des espaces pour l’adoration dans nos communautés. C’est à nous, comme Eglise, de mettre en pratique les paroles que nous avons priées aujourd’hui dans le Psaume: “Toutes les nations, Seigneur, se prosterneront devant toi”. En adorant, nous aussi, nous découvrirons, comme les Mages, le sens de notre cheminement. Et, comme les Mages, nous expérimenterons «une très grande joie» (Mt 2, 10).

[00010-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

In the Gospel (Mt 2:1-12), we heard the Magi begin by stating the reason why they have come: “We have seen his star in the East, and have come to worship him” (v. 2). Worship is the end and goal of their journey. Indeed, when they arrived in Bethlehem, “they saw the child with Mary his mother, and they fell down and worshiped him” (v. 11). Once we lose the sense of worship, we lose our direction in the Christian life, which is a journey towards the Lord, not towards ourselves. The Gospel warns us about this risk, for alongside the Magi it presents others who are incapable of worship.

First of all, there is King Herod, who uses the word worship, but only to deceive. He asks the Magi to tell him where the child is to be found, “so that I too may come and adore him” (v. 8). The fact is that Herod worshiped only himself; that is why he wanted to rid himself of the child through a lie. What does this teach us? That when we do not worship God, we end up worshiping ourselves. So too, the Christian life, when it fails to worship the Lord, can become a discreet way of affirming ourselves and our own abilities: Christians who do not know how to worship, who do not know how to pray by worshiping. This is a grave risk: we use God instead of serving him. How many times have we confused the interests of the Gospel with our own? How many times have we cloaked in religiosity the things we find convenient? How many times have we confused God’s power, which is for serving others, with power of this world, which is for serving ourselves!

In addition to Herod, other people in the Gospel are incapable of worship: they are the chief priests and the scribes. They tell Herod with great precision where the Messiah is to be born: in Bethlehem of Judea (cf. v. 5). They know the prophecies and can quote them exactly. They know where to go – they are great theologians, great! – but they do not go there. Here too we can draw a lesson. In the Christian life, it is not enough to be knowledgeable: unless we step out of ourselves, unless we encounter others and worship, we cannot know God. Theology and pastoral effectiveness mean little or nothing unless we bend the knee; unless we kneel down like the Magi, who were not only knowledgeable about planning a journey, but also capable of setting out and bowing down in worship. Once we worship, we come to realize that faith is not simply a set of fine doctrines, but a relationship with a living Person whom we are called to love. It is in encountering Jesus face to face that we come to see him as he is. Through worship, we discover that the Christian life is a love story with God, where what really matters is not our fine ideas but our ability to make him the centre of our lives, as lovers do with those whom they love. This is what the Church ought to be, a worshiper in love with Jesus her spouse.

As we begin the New Year, may we discover anew that faith demands worship. If we can fall on our knees before Jesus, we will overcome the temptation to set off on our own path. For worship involves making an exodus from the greatest form of bondage: slavery to oneself. Worship means putting the Lord at the centre, not ourselves. It is means giving things their rightful place, and giving the first place to God. Worship means making God’s plan more important than our personal time, our entitlements and our spaces. It is to accept the teaching of Scripture: “You shall worship the Lord your God” (Mt 4:10). Your God: worship means realizing that you and God belong together to one another. It means being able to speak to him freely and intimately. It means bringing our lives to him and letting him enter into them. It means letting his consolation come down to earth. Worship means discovering that, in order to pray, it is enough to say: “My Lord and my God!”, and to let ourselves be pervaded by his tender love.

Worship means going to Jesus without a list of petitions, but with one request alone: to abide with him. It is about discovering that joy and peace increase with praise and thanksgiving. In worship, we allow Jesus to heal and change us. In worship, we make it possible for the Lord to transform us by his love, to kindle light amid our darkness, to grant us strength in weakness and courage amid trials. Worship means concentrating on what is essential: ridding ourselves of useless things and addictions that anaesthetize the heart and confound the mind. In worship, we learn to reject what should not be worshiped: the god of money, the god of consumerism, the god of pleasure, the god of success, the god of self. Worship means bending low before the Most High and to discover in his presence that life’s greatness does not consist in having, but in loving. Worship means recognizing that we are all brothers and sisters before the mystery of a love that bridges every distance: it is to encounter goodness at the source; it is to find in the God of closeness the courage to draw near to others. Worship means knowing how to be silent in the presence of the divine Word, and learning to use words that do not wound but console.

Worship is an act of love that changes our lives. It is to do what the Magi did. To bring gold to the Lord and to tell him that nothing is more precious than he is. To offer him incense and to tell him that only in union with him can our lives rise up to heaven. To present him with myrrh, balm for the bruised and wounded, and to promise him that we will aid our marginalized and suffering neighbours, in whom he himself is present. We usually know how to pray – we ask the Lord, we thank him – but the Church must move forward in her prayer of worship; we must grow in worshiping. This is wisdom that we must learn each day. Praying by worshiping: the prayer of worship.

Dear brothers and sisters, today each one of us can ask: “Am I a Christian who worships?” Many Christians pray but they do not worship. Let us ask ourselves this question: Do we find time for worship in our daily schedules and do we make room for worship in our communities? It is up to us, as a Church, to put into practice the words we prayed in today’s Psalm: “All the peoples on earth will worship you, O Lord”. In worshiping, we too will discover, like the Magi, the meaning of our journey. And like the Magi, we too will experience “a great joy” (Mt2:10).

[00010-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Im Evangelium (Mt 2,1-12) haben wir gehört, wie die Sterndeuter gleich zu Beginn ihre Absichten bekunden: »Wir haben seinen Stern aufgehen sehen und sind gekommen, um ihm zu huldigen« (V. 2). Die Anbetung ist der Zweck ihrer Reise, das Ziel ihres Weges. Denn in Betlehem angekommen, »sahen [sie] das Kind und Maria, seine Mutter; da fielen sie nieder und huldigten ihm« (V. 11). Wenn wir den Sinn der Anbetung verlieren, verlieren wir die Richtung des christlichen Lebens, das ein Weg auf den Herrn hin ist, nicht zu uns selbst. Vor dieser Gefahr warnt uns das Evangelium, wenn es uns neben den Sterndeutern einige Figuren vorstellt, die nicht anbeten können.

Da ist vor allem König Herodes, der das Wort „anbeten“ verwendet, aber in trügerischer Weise. Er bittet nämlich die Sterndeuter, ihn über den Ort, wo sich das Kind befindet, zu unterrichten, »damit« – so sagt er – »auch ich hingehe und ihm huldige« (V. 8). In Wirklichkeit aber betete Herodes nur sich selbst an und wollte sich deshalb mithilfe einer Lüge von dem Kind befreien. Was lehrt uns das? Dass der Mensch, wenn er nicht Gott anbetet, dazu neigt, sich selbst anzubeten. Und selbst das christliche Leben kann ohne die Anbetung des Herrn zu einer kultivierten Art der Selbstbestätigung und des Eigenlobes werden: Christen, die nicht anbeten können, die nicht in der Haltung der Anbetung beten können. Das ist eine ernste Gefahr: uns Gottes zu bedienen statt Gott zu dienen. Wie oft haben wir die Absichten des Evangeliums mit unseren eigenen Interessen vertauscht; wie oft haben wir unsere Bequemlichkeiten mit Religiosität bemäntelt; wie oft haben wir die Macht im Sinne Gottes – den Dienst am Nächsten – mit der Macht im Sinne der Welt – den Dienst an sich selbst – verwechselt!

Neben Herodes gibt es im Evangelium weitere Personen, die nicht anbeten können: die Hohepriester und Schriftgelehrten des Volkes. Sie zeigen Herodes ganz präzise auf, wo der Messias geboren werden sollte: in Betlehem in Judäa (vgl. V. 5). Sie kennen die Verheißungen, sie zitieren sie genau. Sie wissen, wo hinzugehen wäre – große Theologen, wirklich groß! –, aber gehen nicht. Auch daraus können wir lernen. Im christlichen Leben genügt das Wissen nicht: ohne aus sich herauszugehen, ohne die Begegnung, ohne die Anbetung kann man Gott nicht erkennen. Theologie und pastorale Effizienz nützen wenig oder nichts, wenn man nicht die Knie beugt; wenn man es nicht wie die Sterndeuter macht, die nicht nur weise Organisatoren einer Reise waren, sondern sich auf den Weg gemacht und angebetet haben. Durch die Anbetung wird uns bewusst, dass der Glaube sich nicht bloß auf eine Fülle an schönen Glaubenslehren beschränkt, sondern die Beziehung zu einer lebendigen Person, die geliebt werden will, ist. Nur wenn wir Jesus von Angesicht zu Angesicht gegenüberstehen, lernen wir sein Antlitz kennen. Wenn wir anbeten, entdecken wir, dass das christliche Leben eine Liebesgeschichte mit Gott ist: Hier reichen einige gute Ideen nicht aus, sondern ihm muss man den ersten Platz einräumen, so wie es ein Verliebter gegenüber der Person macht, die er liebt. Genau so muss die Kirche sein, eine Anbeterin, die in ihren Bräutigam Jesus verliebt ist.

Zu Beginn des Jahres entdecken wir wieder neu, dass der Glaube die Anbetung erfordert. Wenn wir uns vor Jesus niederknien können, werden wir der Versuchung widerstehen, dass jeder auf seinem eigenen Weg weitergeht. Anbeten bedeutet nämlich, aus der größten Sklaverei, aus der Knechtschaft des eigenen Ichs auszuziehen. Anbeten heißt, den Herrn ins Zentrum zu stellen, um nicht auf sich selbst fixiert zu bleiben. Es bedeutet, die Dinge recht zu ordnen und dabei Gott den ersten Platz einzuräumen. Anbeten heißt, die Pläne Gottes vor meine Zeit, meine Rechte, meine Räume zu stellen. Es bedeutet die Umsetzung des Schriftworts: »Den Herrn, deinen Gott, sollst du anbeten« (Mt 4,10). Deinen Gott: anbeten heißt zu spüren, dass wir Gott gehören und umgekehrt. Es bedeutet, im Inneren zu ihm „Du“ zu sagen, das Leben zu ihm zu bringen und zuzulassen, dass er in unser Leben tritt. Es bedeutet, seinen Trost auf die Welt herabzurufen. Anbeten heißt zu entdecken, dass es beim Beten genügt, »Mein Herr und mein Gott!« (Joh 20,28) zu sagen, und ebenso sich von seiner zärtlichen Liebe erfüllen zu lassen.

Anbeten bedeutet, Jesus ohne eine Wunschliste in der Hand zu begegnen, sondern allein mit dem Wunsch, bei ihm zu bleiben. Es heißt zu entdecken, dass die Freude und der Friede mit dem Lobpreis und der Danksagung wachsen. Wenn wir anbeten, erlauben wir Jesus, uns zu heilen und zu verändern. Durch die Anbetung geben wir dem Herrn die Gelegenheit, uns mit seiner Liebe zu verwandeln, unser Dunkel zu erhellen, uns in der Schwachheit Kraft und in der Prüfung Mut zu verleihen. Anbeten heißt, sich auf das Wesentliche zu konzentrieren: das ist der Weg, um von vielen unnützen Dingen loszukommen, von Abhängigkeiten, die das Herz betäuben und den Geist benommen machen. Denn durch die Anbetung lernen wir zurückzuweisen, was nicht angebetet werden darf: den Götzen des Geldes, des Konsums, des Vergnügens, des Erfolges, unser Ich, das an die Stelle Gottes getreten ist. Anbeten bedeutet, sich im Angesicht Gottes des Allerhöchsten klein zu machen, um vor ihm zu erkennen, dass die Größe des Lebens nicht im Haben, sondern im Lieben besteht. Anbeten heißt, wieder neu zu entdecken, dass wir vor dem Geheimnis der Liebe, die jede Distanz überwindet, Brüder und Schwestern sind: es bedeutet, das Gute an der Quelle zu schöpfen, und in Gott, der nahe ist, den Mut zu finden, sich den anderen Menschen zu nähern. Anbeten heißt, vor dem göttlichen Wort schweigen zu können, um zu lernen, Worte zu sprechen, die nicht verletzen, sondern trösten.

Anbetung ist eine Geste der Liebe, die das Leben verändert. Anbeten heißt, es wie die Sterndeuter zu machen: dem Herrn Gold zu bringen, um ihm zu sagen, dass nichts wertvoller ist als er; ihm Weihrauch zu opfern, um ihm zu sagen, dass nur mit ihm unser Leben aufsteigt; ihm Myrrhe darzubringen, mit der verwundete und geschundene Körper gesalbt wurden, um Jesus zu versprechen, unserem ausgegrenzten und leidenden Nächsten beizustehen, weil er in ihm gegenwärtig ist. Meist verstehen wir zu beten – wir bitten, wir danken dem Herrn –, aber die Kirche muss im anbetenden Gebet noch weitergehen, wir müssen in der Anbetung wachsen. Es ist eine Weisheit, die wir jeden Tag lernen müssen. Beten in der Haltung der Anbetung: anbetendes Gebet.

Liebe Brüder und Schwestern, heute mag sich jeder von uns fragen: „Bin ich ein Christ, der anbetet?“ Viele Christen, die beten, wissen nicht, wie man anbetet. Stellen wir uns diese Frage. Finden wir in unserem Tagesablauf Zeit für die Anbetung und geben wir der Anbetung in unseren Gemeinden Raum. Es liegt an uns als Kirche, das Wort in die Praxis umzusetzen, das wir heute als Kehrvers zum Antwortpsalm gebetet haben: „Herr, alle Völker der Erde beten dich an.“ Durch die Anbetung werden auch wir wie die Sterndeuter den Sinn unseres Lebensweges entdecken. Und wie die Sterndeuter werden wir dann »von sehr großer Freude erfüllt« (Mt 2,10).

[00010-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

En el Evangelio (Mt 2,1-12) hemos escuchado que los Magos comienzan manifestando sus intenciones: «Hemos visto salir su estrella y venimos a adorarlo» (v. 2). La adoración es la finalidad de su viaje, el objetivo de su camino. De hecho, cuando llegaron a Belén, «vieron al niño con María, su madre, y cayendo de rodillas lo adoraron» (v. 11). Si perdemos el sentido de la adoración, perdemos el sentido de movimiento de la vida cristiana, que es un camino hacia el Señor, no hacia nosotros. Es el riesgo del que nos advierte el Evangelio, presentando, junto a los Reyes Magos, unos personajes que no logran adorar.

En primer lugar, está el rey Herodes, que usa el verbo adorar, pero de manera engañosa. De hecho, le pide a los Reyes Magos que le informen sobre el lugar donde estaba el Niño «para ir —dice— yo también a adorarlo» (v. 8). En realidad, Herodes sólo se adoraba a sí mismo y, por lo tanto, quería deshacerse del Niño con mentiras. ¿Qué nos enseña esto? Que el hombre, cuando no adora a Dios, está orientado a adorar su yo. E incluso la vida cristiana, sin adorar al Señor, puede convertirse en una forma educada de alabarse a uno mismo y el talento que se tiene: cristianos que no saben adorar, que no saben rezar adorando. Es un riesgo grave: servirnos de Dios en lugar de servir a Dios. Cuántas veces hemos cambiado los intereses del Evangelio por los nuestros, cuántas veces hemos cubierto de religiosidad lo que era cómodo para nosotros, cuántas veces hemos confundido el poder según Dios, que es servir a los demás, con el poder según el mundo, que es servirse a sí mismo.

Además de Herodes, hay otras personas en el Evangelio que no logran adorar: son los jefes de los sacerdotes y los escribas del pueblo. Ellos indican a Herodes con extrema precisión dónde nacería el Mesías: en Belén de Judea (cf. v. 5). Conocen las profecías y las citan exactamente. Saben a dónde ir —grandes teólogos, grandes—, pero no van. También de esto podemos aprender una lección. En la vida cristiana no es suficiente saber: sin salir de uno mismo, sin encontrar, sin adorar, no se conoce a Dios. La teología y la eficiencia pastoral valen poco o nada si no se doblan las rodillas; si no se hace como los Magos, que no sólo fueron sabios organizadores de un viaje, sino que caminaron y adoraron. Cuando uno adora, se da cuenta de que la fe no se reduce a un conjunto de hermosas doctrinas, sino que es la relación con una Persona viva a quien amar. Conocemos el rostro de Jesús estando cara a cara con Él. Al adorar, descubrimos que la vida cristiana es una historia de amor con Dios, donde las buenas ideas no son suficientes, sino que se necesita ponerlo en primer lugar, como lo hace un enamorado con la persona que ama. Así debe ser la Iglesia, una adoradora enamorada de Jesús, su esposo.

Al inicio del año redescubrimos la adoración como una exigencia de fe. Si sabemos arrodillarnos ante Jesús, venceremos la tentación de ir cada uno por su camino. De hecho, adorar es hacer un éxodo de la esclavitud más grande, la de uno mismo. Adorar es poner al Señor en el centro para no estar más centrados en nosotros mismos. Es poner cada cosa en su lugar, dejando el primer puesto a Dios. Adorar es poner los planes de Dios antes que mi tiempo, que mis derechos, que mis espacios. Es aceptar la enseñanza de la Escritura: «Al Señor, tu Dios, adorarás» (Mt 4,10). Tu Dios: adorar es experimentar que, con Dios, nos pertenecemos recíprocamente. Es darle del “tú” en la intimidad, es presentarle la vida y permitirle entrar en nuestras vidas. Es hacer descender su consuelo al mundo. Adorar es descubrir que para rezar basta con decir: «¡Señor mío y Dios mío!» (Jn 20,28), y dejarnos llenar de su ternura.

Adorar es encontrarse con Jesús sin la lista de peticiones, pero con la única solicitud de estar con Él. Es descubrir que la alegría y la paz crecen con la alabanza y la acción de gracias. Cuando adoramos, permitimos que Jesús nos sane y nos cambie. Al adorar, le damos al Señor la oportunidad de transformarnos con su amor, de iluminar nuestra oscuridad, de darnos fuerza en la debilidad y valentía en las pruebas. Adorar es ir a lo esencial: es la forma de desintoxicarse de muchas cosas inútiles, de adicciones que adormecen el corazón y aturden la mente. De hecho, al adorar uno aprende a rechazar lo que no debe ser adorado: el dios del dinero, el dios del consumo, el dios del placer, el dios del éxito, nuestro yo erigido en dios. Adorar es hacerse pequeño en presencia del Altísimo, descubrir ante Él que la grandeza de la vida no consiste en tener, sino en amar. Adorar es redescubrirnos hermanos y hermanas frente al misterio del amor que supera toda distancia: es obtener el bien de la fuente, es encontrar en el Dios cercano la valentía para aproximarnos a los demás. Adorar es saber guardar silencio ante la Palabra divina, para aprender a decir palabras que no duelen, sino que consuelan.

La adoración es un gesto de amor que cambia la vida. Es actuar como los Magos: es traer oro al Señor, para decirle que nada es más precioso que Él; es ofrecerle incienso, para decirle que sólo con Él puede elevarse nuestra vida; es presentarle mirra, con la que se ungían los cuerpos heridos y destrozados, para pedirle a Jesús que socorra a nuestro prójimo que está marginado y sufriendo, porque allí está Él. Por lo general, sabemos cómo orar —le pedimos, le agradecemos al Señor—, pero la Iglesia debe ir aún más allá con la oración de adoración, debemos crecer en la adoración. Es una sabiduría que debemos aprender todos los días. Rezar adorando: la oración de adoración.

Queridos hermanos y hermanas, hoy cada uno de nosotros puede preguntarse: “¿Soy un adorador cristiano?”. Muchos cristianos que oran no saben adorar. Hagámonos esta pregunta. ¿Encontramos momentos para la adoración en nuestros días y creamos espacios para la adoración en nuestras comunidades? Depende de nosotros, como Iglesia, poner en práctica las palabras que rezamos hoy en el Salmo: «Señor, que todos los pueblos te adoren». Al adorar, nosotros también descubriremos, como los Magos, el significado de nuestro camino. Y, como los Magos, experimentaremos una «inmensa alegría» (Mt 2,10).

[00010-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

Ouvimos, no Evangelho (Mt 2, 1-12), que os Magos começam por manifestar a intenção que os move: «Vimos a sua estrela no Oriente e viemos adorá-Lo» (2, 2). Adorar é o objetivo do seu percurso, a meta do seu caminho. De facto, chegados a Belém, quando «viram o Menino com Maria, sua mãe, prostrando-se, adoraram-No» (2, 11). Se perdermos o sentido da adoração, falta-nos o sentido de marcha da vida cristã, que é um caminho rumo ao Senhor, e não a nós. O risco existe, como nos adverte o Evangelho, quando, a par dos Magos, mostra personagens incapazes de adorar.

O primeiro deles é o rei Herodes, que usa o verbo «adorar», mas de maneira falaciosa. Com efeito, pede aos Magos que o informem do local onde encontrarem o Menino, «para – diz ele – ir também eu adorá-Lo» (2, 8). Na realidade, Herodes adorava apenas a si mesmo e por isso, com uma mentira, o que ele queria era livrar-se do Menino. Que nos ensina isto? Que o homem, quando não adora a Deus, é levado a adorar-se a si mesmo; e a própria vida cristã, sem adorar o Senhor, pode tornar-se uma forma educada de se louvar a si mesmo e a sua habilidade: cristãos que não sabem adorar, não sabem rezar adorando. É um risco sério: servir-se de Deus, em vez de servir a Deus. Quantas vezes trocamos os interesses do Evangelho pelos nossos; quantas vezes revestimos de religiosidade aquilo que a nós nos convém; quantas vezes confundimos o poder segundo Deus, que é servir os outros, com o poder segundo o mundo, que é servir-se a si mesmo!

Além de Herodes, há outras pessoas no Evangelho que não conseguem adorar: são os sumos sacerdotes e os escribas do povo. Com extrema precisão, indicam a Herodes o local onde havia de nascer o Messias: em Belém da Judeia (cf. 2, 5). Conhecem as profecias, citam-nas de forma exata. Sabem aonde ir – são grandes teólogos, mesmo grandes! –, mas não vão. Disto, também podemos tirar uma lição: na vida cristã, não basta saber. Sem sair de si mesmo, sem ir ao encontro de Deus, sem O adorar, não O conhecemos. De pouco ou nada servem a teologia e a ação pastoral, senão se dobram os joelhos; senão se faz como os Magos, que não se limitaram a ser sábios organizadores duma viagem, mas caminharam e adoraram. Quando se adora, apercebemo-nos de que a fé não se reduz a um belo conjunto de doutrinas, mas é a relação com uma Pessoa viva, que devemos amar. É permanecendo face a face com Jesus que conhecemos o seu rosto. Quando O adoramos, descobrimos que a vida cristã é uma história de amor com Deus, onde não basta ter boas ideias sobre Ele, mas é preciso colocá-Lo em primeiro lugar, como faz um namorado com a pessoa amada. Assim deve ser a Igreja: uma adoradora enamorada de Jesus, seu esposo.

Ao principiar este ano, descubramos de novo a adoração como exigência da fé. Se soubermos ajoelhar diante de Jesus, venceremos a tentação de olhar apenas aos nossos interesses. De facto, adorar é fazer o êxodo da maior escravidão: a escravidão de si mesmo. Adorar é colocar o Senhor no centro, para deixarmos de estar centrados em nós mesmos. É predispor as coisas na sua justa ordem, reservando o primeiro lugar para Deus. Adorar é antepor os planos de Deus ao meu tempo, aos meus direitos, aos meus espaços. É aceitar o ensinamento da Escritura: «Ao Senhor, teu Deus, adorarás» (Mt 4, 10). «Teu Deus»: adorar é sentir que nos pertencemos mutuamente, eu e Deus. É tratá-Lo por «Tu» na intimidade, é depor a seus pés a nossa vida, permitindo-Lhe entrar nela. É fazer descer sobre o mundo a sua consolação. Adorar é descobrir que, para rezar, basta dizer «Meu Senhor e meu Deus!» (Jo 20, 28) e deixar-me invadir pela sua ternura.

Adorar é ir ter com Jesus, não com uma lista de pedidos, mas com o único pedido de estar com Ele. É descobrir que a alegria e a paz crescem com o louvor e a ação de graças. Quando adoramos, permitimos a Jesus que nos cure e transforme; adorando, damos ao Senhor a possibilidade de nos transformar com o seu amor, iluminar as nossas trevas, dar-nos força na fraqueza e coragem nas provações. Adorar é ir ao essencial: é o caminho para se desintoxicar de tantas coisas inúteis, de dependências que anestesiam o coração e estonteiam a mente. De facto, adorando, aprende-se a rejeitar o que não deve ser adorado: o deus dinheiro, o deus consumo, o deus prazer, o deus sucesso, o nosso eu arvorado em deus. Adorar é fazer-se pequenino na presença do Altíssimo, descobrir diante d’Ele que a grandeza da vida não consiste em ter, mas em amar. Adorar é descobrir-nos como irmãos e irmãs face ao mistério do amor que ultrapassa todas as distâncias: é beber o bem na fonte, é encontrar no Deus próximo a coragem de nos aproximarmos dos outros. Adorar é saber calar diante do Verbo divino, para aprender a dizer palavras que não magoem, mas consolem.

Adorar é um gesto de amor que muda a vida. É fazer como os Magos: levar ao Senhor o ouro, para Lhe dizer que nada é mais precioso do que Ele; oferecer-Lhe o incenso, para Lhe dizer que só com Ele se eleva para o alto a nossa vida; apresentar-Lhe a mirra – com ela se ungiam os corpos feridos e dilacerados – como promessa a Jesus de que socorreremos o próximo marginalizado e sofredor, porque nele está o Senhor. Habitualmente, ao rezar, sabemos pedir, agradecer ao Senhor; mas a Igreja deve progredir ainda mais na oração de adoração. Devemos crescer na adoração; a oração de adoração é uma ciência que temos de aprender todos os dias: rezar adorando.

Amados irmãos e irmãs, hoje cada um de nós pode interrogar-se: «Sou um cristão adorador?» A pergunta impõe-se-nos, pois muitos cristãos que rezam, não sabem adorar. Encontremos momentos para a adoração ao longo do nosso dia e criemos espaço para a adoração nas nossas comunidades. Cabe a nós, como Igreja, colocar em prática as palavras que acabamos de rezar no Salmo: «Adorar-Vos-ão, Senhor, todos os povos da terra». Adorando, descobriremos também nós, como os Magos, a direção certa do nosso caminho. E sentiremos, como os Magos, uma «imensa alegria» (Mt 2, 10).

[00010-PO.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

Słyszeliśmy w Ewangelii (Mt 2,1-12), że Mędrcy zaczynają przemawiać ujawniając swoje intencje: „Ujrzeliśmy Jego gwiazdę na Wschodzie i przybyliśmy oddać Mu pokłon” (w. 2). Oddanie czci Bogu jest celem ich drogi, celem ich wędrówki. Istotnie, gdy przybyli do Betlejem, „zobaczyli Dziecię z Matką Jego, Maryją; padli na twarz i oddali Mu pokłon” (w. 11). Jeśli tracimy poczucie adoracji, to tracimy sens drogi życia chrześcijańskiego, które jest pielgrzymowaniem do Pana, a nie ku nam samym. Przed tym zagrożeniem przestrzega nas Ewangelia, przedstawiając obok Mędrców postacie, które nie potrafią adorować.

Jest to przede wszystkim król Herod, który używa wyrażenia „adorować”, ale w sposób podstępny. Istotnie prosi Mędrców, aby poinformowali go o miejscu, w którym znajdowało się Dziecko, „abym i ja mógł pójść i oddać Mu pokłon” (w. 8) - jak mówi. Jednakże Herod czcił samego siebie i dlatego chciał się uwolnić od Dzieciątka, posługując się kłamstwami. Czego nas to uczy? Że człowiek, kiedy nie adoruje Boga, ma skłonność do adoracji swojego ego. Także życie chrześcijańskie bez oddawania czci Panu, może stać się uprzejmym sposobem na aprobowanie siebie i swoich umiejętności: chrześcijanie, którzy nie potrafią adorować, nie potrafią modlić się adorując. Jest to poważne zagrożenie: posługiwać się Bogiem, a nie służyć Bogu. Ile razy myliliśmy interesy Ewangelii z naszymi, ile razy pokrywaliśmy religijnością to, co zapewniało nam wygodę, ile razy myliliśmy władzę według Boga, która oznacza służenie innym, z władzą według świata, która jest służeniem sobie samym!

Oprócz Heroda w Ewangelii są inni ludzie, którzy nie potrafią adorować: są to arcykapłani i uczeni ludu. Wskazują Herodowi z najwyższą precyzją, gdzie miał narodzić się Mesjasz: w Betlejem w Judei (por. w. 5). Znają proroctwa, dokładnie je przytaczają. Wiedzą, gdzie iść – wielcy teolodzy, wielcy! – ale nie idą. Również z tego możemy wyciągnąć lekcję. W życiu chrześcijańskim nie wystarczy wiedzieć: nie wychodząc ze swoich ograniczeń, nie spotykając się, nie adorując, nie znamy Boga. Na niewiele lub na nic się zdadzą teologia i skuteczność duszpasterska, jeśli nie zegniemy kolan; jeśli nie czynimy tak, jak Mędrcy, którzy byli nie tylko mądrymi organizatorami podróży, ale pielgrzymowali i adorowali. Kiedy adorujemy, zdajemy sobie sprawę, że wiara nie sprowadza się do zestawu pięknych doktryn, lecz jest relacją z żywą Osobą, którą się kocha. Stając twarzą w twarz z Jezusem, poznajemy Jego oblicze. Adorując, odkrywamy, że życie chrześcijańskie to dzieje miłości z Bogiem, w których nie wystarczają dobre idee, ale trzeba postawić Go na pierwszym miejscu, tak jak czyni ktoś zakochany z osobą, którą miłuje. Takim właśnie musi być Kościół, oddający cześć, zakochany w Jezusie, swoim Oblubieńcu.

Na początku roku odkrywamy adorację jako wymóg wiary. Jeśli będziemy umieli uklęknąć przed Jezusem, to pokonamy pokusę, by każdy parł do przodu swoją drogą. Adorowanie jest w istocie dokonywaniem wyjścia z największej niewoli, z niewoli samego siebie. Adorowanie to stawianie Pana w centrum, abyśmy nie byli już skoncentrowani na sobie. Chodzi o nadanie właściwego ładu rzeczom, dając Bogu pierwsze miejsce. Adorowanie to stawianie Bożych planów nad moim czasem, moimi prawami, moimi przestrzeniami. To przyjęcie nauki Pisma Świętego: „Panu, Bogu swemu, będziesz oddawał pokłon” (Mt 4, 10). Bogu twemu: adorować to odczuć wzajemną przynależność do Boga. To powiedzenie do Niego „Ty” w głębi swej duszy, to zaniesienie Jemu życia, pozwalając Mu wejść w nasze życie. To sprawienie, by zstąpiła na świat Jego pociecha. Adorowanie to odkrycie, że, aby się modlić, wystarczy powiedzieć: „Pan mój i Bóg mój!” (J 20, 28) i dać się przeniknąć Jego czułości.

Adorować, to znaczy spotykać Jezusa bez listy próśb, ale z jedyną prośbą – aby z Nim przebywać. To odkrycie, że radość i pokój rosną wraz z uwielbieniem i dziękczynieniem. Kiedy adorujemy, pozwalamy Jezusowi nas uleczyć i zmieniać. Adorując dajemy Panu możliwość przemienienia nas Jego miłością, rozjaśnienia naszych ciemności, dania nam sił w słabości i odwagi w trudnych doświadczeniach. Adorować, to znaczy docierać do tego, co najistotniejsze: to sposób na odzwyczajenie się od wielu rzeczy bezużytecznych, od uzależnień, które znieczulają serce i zamraczają umysł. Adorując uczymy się bowiem odrzucania tego, czego nie należy czcić: bożka pieniędzy, bożka konsumpcji, bożka przyjemności, bożka sukcesu, naszego ego ustanowionego bożkiem. Adorować, to czynić siebie małym w obliczu Najwyższego, aby przed Nim odkrywać, że wspaniałość życia nie polega na posiadaniu, ale na miłowaniu. Adorować, to odkrywać, że jesteśmy braćmi i siostrami w obliczu misterium miłości, która przekracza wszelkie dystanse: to zaczerpnąć dobra ze źródła, to znaleźć w Bogu bliskim odwagę, by zbliżyć się do innych. Adorować, to potrafić milczeć w obliczu Bożego Słowa, by uczyć się wypowiadania słów, które nie ranią, ale dają pocieszenie.

Adoracja jest gestem miłości odmieniającym życie. To czynienie jak Mędrcy: to przynoszenie Panu złota, aby Mu powiedzieć, że nic nie jest cenniejsze niż On; to ofiarowanie Mu kadzidła, by powiedzieć, że tylko wraz z Nim nasze życie wznosi się ku temu, co wysokie; to wręczanie Mu mirry, którą namaszczano ranne i rozdarte ciała, aby obiecać Jezusowi, że pomożemy naszemu bliźniemu, spychanemu na margines i cierpiącemu, ponieważ On jest tam. Zazwyczaj potrafimy się modlić – prosimy, dziękujemy Panu – ale Kościół musi iść dalej z modlitwą adoracji, musimy wzrastać w adoracji. To jest mądrość, której musimy uczyć się każdego dnia. Modlić się adorując: modlitwa adoracji.

Drodzy bracia i siostry, dziś każdy z nas może zadać sobie pytanie: „Czy jestem chrześcijaninem adorującym? Wielu chrześcijan modlących się nie potrafi adorować. Zadajmy sobie to pytanie. Znajdujmy w naszych dniach czas na adorację i twórzmy przestrzenie na adorację w naszych wspólnotach. Do nas, jako Kościoła, należy, byśmy wypełniali słowa, którymi modliliśmy się dzisiaj w Psalmie: „Uwielbią Pana wszystkie ludy ziemi”. Adorując, również my odkryjemy, podobnie jak Mędrcy, sens naszego pielgrzymowania. I, podobnie jak Mędrcy, doświadczymy „bardzo wielkiej radości” (Mt 2, 10).

[00010-PL.02] [Testo originale: Italiano]

 

[B0009-XX.02]