Questo pomeriggio, alle ore 17.00, presso la Grotta di Lourdes nei Giardini Vaticani, il Santo Padre Francesco ha presieduto la Celebrazione Eucaristica per il Corpo della Gendarmeria Vaticana, in occasione della Festa di San Michele Arcangelo, patrono e protettore della Polizia di Stato Italiana e del Corpo della Gendarmeria Vaticana.
Riportiamo di seguito il testo dell’omelia che il Papa ha pronunciato nel corso della Messa:
Omelia del Santo Padre
Una prima lettura del Vangelo, di questo passo del Vangelo, ci può forse far sbagliare il messaggio e portarci a pensare che questo sia un insegnamento di Gesù in favore dell’elemosina, in favore della giustizia, cioè un insegnamento di Gesù di tipo morale. Ma è tutta un’altra cosa. Gesù vuole entrare proprio nel percorso umano di tutta una vita, e per questo questo Vangelo parla di due vite, di un uomo ricco e di un uomo povero, di come è il percorso dell’una e dell’altra. Questo Vangelo ci fa vedere il destino – non il destino magico, no – il destino che un uomo o una donna può fare di sé stesso, perché noi facciamo il nostro destino, noi camminiamo il nostro cammino e il nostro cammino tante volte lo facciamo noi. A volte interviene il Signore, dà la grazia il Signore, ma i responsabili del nostro cammino siamo noi. Il Signore ci dà la gratuità della grazia, ci aiuta ad andare sempre nella sua presenza ma il nostro cammino, la responsabilità del nostro cammino è nostra. Vorrei entrare un po’ in questo messaggio.
“C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti”. Questa è una vita. Ce n’è un’altra: “Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe”. Due vite. Non un istante della vita: due percorsi di vita, perché il ricco continuava a tenere questo stile di vita e il povero continuava a soffrire nell’indigenza. Non è una cosa fantasiosa, questo succede ogni giorno in ogni città, in ogni parte del mondo. Il Signore racconta questo passo del Vangelo con una pace e una serenità grande.
Invece, nella prima Lettura abbiamo ascoltato il profeta Amos che non parla di questo con tanta serenità. “Guai - comincia così -, guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria! Distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla. Canterellano al suono dell’arpa, come Davide improvvisano su strumenti musicali; bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe - cioè dei poveri, della rovina del popolo di Israele - non si preoccupano. Perciò ora andranno in esilio in testa ai deportati e cesserà l’orgia dei dissoluti”. C’è l’orgia dei dissoluti, c’è l’uomo ricco e c’è l’ingiustizia verso il popolo eletto del Signore, e qui c’è la minaccia del Signore che punisce inviando in esilio.
Fino a qui sembra essere soltanto un insegnamento morale: per favore, fate giustizia fra voi. Ma la cosa più essenziale, più forte, la chiave per capire questo la dà la preghiera iniziale, la orazione Colletta, che dice così: “O Dio, tu chiami per nome i tuoi poveri, mentre non ha nome il ricco epulone”. Questo è il problema. Ambedue fanno la loro esistenza, ognuno nella scelta che ha fatto della vita. Uno riuscì ad avere un nome, a farsi un nome, ad essere chiamato per nome, con un sostantivo; l’altro, il ricco, non sappiamo come si chiama, soltanto l’aggettivo, un “ricco”: non è riuscito a far crescere il nome, la dignità davanti a Dio. La vita si gioca: la coerenza di avere un nome o l’incoerenza che ci porta a non avere un nome. Il ricco sapeva che alla porta della sua casa c’era questo povero e faceva finta di non vederlo, perché guardava solo a sé stesso, centrato su sé stesso, sulla vanità, si credeva il padrone dell’universo, preoccupato delle ricchezze e delle feste e delle cose che faceva. Non sapeva come si chiamava il povero? Sì, lo sapeva, perché quando era all’inferno chiede ad Abramo: “Manda Lazzaro”. L’ipocrisia della vanità, l’ipocrisia di coloro che credono di poter essere redentori di sé stessi, di salvare sé stessi, soltanto con le cose. Ma il loro nome non cresce, non hanno nomi, sono degli anonimi. Invece, nel testo evangelico, per ben cinque volte si dice il nome del povero. Per cinque volte, un’esagerazione, ma perché Gesù fa questo? Perché come dice la preghiera: “Signore, tu chiami per nome i tuoi poveri, mentre non ha nome il ricco epulone”. È questa la storia di questo Vangelo, la storia di due percorsi di vita: uno che è riuscito a portare avanti il proprio nome; l’altro che, preoccupato di sé stesso, dell’egoismo, è incapace di far crescere la sua persona, la propria dignità. Non ha nome.
Tutta la nostra vita è un po’ un percorso per consolidare, per rendere forte il nostro nome con l’onestà della vita, con il cammino che il Signore ci va indicando, e per questo dobbiamo aiutarci l’un l’altro.
Qualcuno potrà dirmi: “Padre, va bene il Vangelo, ma cosa c’entra questo con la Gendarmeria oggi?”. Anche voi dovete custodire tutte le persone che sono qui dentro, che abbiano la possibilità di crescere, di avere un nome. Voi siete uomini che lavorate per la dignità di ognuno di noi perché ognuno di noi abbia un nome e porti avanti il proprio nome, il nome che il Signore vuole che portiamo. E quando voi fate qualche misura disciplinare - “Questo non si può fare” - è propriamente per fermare questa orgia dell’anonimato che è la più brutta delle orge umane: non accettare un nome e voler tornare nel buio dell’anonimato. Per questo mi è venuto in mente che ben può dirsi che la Gendarmeria è la custodia dei nomi, di tutti i nostri nomi. Non per pulire la cartella di ognuno: se c’è qualcosa di brutto, la bruciamo via… No, questo nome non vale. Ma per aiutare la disciplina dello Stato della Città del Vaticano, che ognuno dei suoi abitanti abbia un nome. E per questo vi ringrazio tanto. Continuate così, a lavorare per la dignità delle persone, di ognuno, e così porterete avanti la vostra vocazione.
Alla fine vorrei dire soltanto una parola su un peccato che ho fatto oggi, e a voi che siete poliziotti: oggi ho fatto un contrabbando! In questa Messa ho fatto un contrabbando perché ho una famiglia di amici che celebra il 50° di matrimonio e io avevo questa Messa e loro volevano che io celebrassi per loro e ho fatto il contrabbando di portarli qui in questa Messa con voi. Loro sono 46 persone, stanno lì. I coniugi, i figli e i nipoti. In totale 46. Bella famiglia! Pregate anche per loro, perché abbiano un nome. Grazie.
[01527-IT.01] [Testo originale: Italiano]
[B0749-XX.02]