Sala Stampa

www.vatican.va

Sala Stampa Back Top Print Pdf
Sala Stampa


Viaggio Apostolico di Sua Santità Francesco in Mozambico, Madagascar e Maurizio (4-10 settembre 2019) – Incontro con i Sacerdoti, i Religiosi, le Religiose, i Consacrati e i Seminaristi al Collège de Saint Michel, 08.09.2019


Incontro con i Sacerdoti, Religiosi, Religiose, Consacrati e Seminaristi nel Collège de Saint Michel

Discorso del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Lasciato il Cantiere di Mahatazana, il Santo Padre si è trasferito al Collège de Saint Michel per l’Incontro con i Sacerdoti, i Religiosi, le Religiose, i Consacrati e i Seminaristi.

Al Suo arrivo, alle ore 17.10 locali (16.10 ora di Roma), il Papa è stato accolto all’ingresso del campo sportivo del Collegio dal Vescovo Presidente della Commissione Episcopale dei Religiosi e mentre si avviava a piedi verso il palco, salutando i presenti, il coro ha intonato un canto.

Dopo l’indirizzo di saluto di Suor Suzanne Marianne Raharisoa, Presidente della Conferenza delle Religiose, il Santo Padre ha pronunciato il Suo discorso.

Al termine dell’incontro, dopo il canto, la recita del Padre Nostro, la benedizione e un breve ringraziamento del sacerdote diocesano Jean Séraphin Handriniaina Rafanoezantsoa, Papa Francesco si è recato in auto alla Cappella del Collège de Saint Michel dove ha incontrato in forma privata i membri della Compagnia di Gesù. Quindi è rientrato in auto alla Nunziatura Apostolica.

Pubblichiamo di seguito il discorso che il Santo Padre ha pronunciato nel corso dell’Incontro con i Sacerdoti, i Religiosi, le Religiose, i Consacrati e i Seminaristi:

Discorso del Santo Padre

 

Cari fratelli e sorelle, io pensavo che quando mi portavano questo tavolo era per mangiare, e invece no, è per parlare!

Vi ringrazio per il vostro caloroso benvenuto. Desidero che le mie prime parole siano rivolte in particolare a tutti i sacerdoti, alle consacrate e ai consacrati che non hanno potuto viaggiare per problemi di salute, per il peso degli anni o per qualche inconveniente. Una preghiera tutti insieme per loro, in silenzio. [Pregano in silenzio]

Nel concludere la mia visita in Madagascar qui con voi, vedendo la vostra gioia, ma anche ripensando a tutto ciò che ho vissuto in questo breve tempo nella vostra Isola, mi salgono al cuore quelle parole di Gesù nel Vangelo di Luca quando, commosso per la gioia, disse: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (10,21); e questa gioia è confermata dalle vostre testimonianze, perché, anche quelli che manifestate come problemi, sono segni di una Chiesa viva, una Chiesa impegnata, che cerca ogni giorno di essere presenza del Signore. Una Chiesa, come ha detto suor Suzanne, che cerca ogni giorno di essere più vicina al popolo: non staccarsi dal popolo, sempre camminare con il popolo di Dio!

Questa realtà è un invito a fare memoria riconoscente di tutti coloro che non hanno avuto paura e hanno saputo scommettere su Gesù Cristo e il suo Regno; e voi oggi partecipate alla loro eredità. Prima di voi, ci sono le radici: le radici dell’evangelizzazione, qui. Voi siete l’eredità. E anche voi lascerete un’eredità agli altri. Penso ai Lazzaristi, ai Gesuiti, alle Suore di San Giuseppe di Cluny, ai Fratelli delle Scuole Cristiane, ai Missionari della Salette e a tutti gli altri pionieri, vescovi, sacerdoti e consacrati. Ma anche a tanti laici che, nei tempi difficili di persecuzione, quando molti missionari e consacrati dovettero andar via, furono quelli che mantennero viva la fiamma della fede in queste terre. Questo ci invita a ricordare il nostro Battesimo, quale primo e grande Sacramento grazie al quale abbiamo ricevuto il sigillo di figli di Dio. Tutto il resto è espressione e manifestazione di quell’amore iniziale che siamo sempre invitati a rinnovare.

La frase del Vangelo alla quale ho fatto riferimento fa parte della preghiera di lode elevata dal Signore quando accolse i settantadue discepoli che ritornavano dalla missione. Essi, come voi, hanno accettato la sfida di essere una chiesa “in uscita” e portano le sacche piene per condividere tutto ciò che hanno visto e udito. Voi avete osato uscire e avete accettato la sfida di portare la luce del Vangelo in ogni angolo di questa Isola.

So che molti di voi vivono in condizioni difficili, dove mancano i servizi essenziali – acqua, elettricità, strade, mezzi di comunicazione – o le risorse economiche per portare avanti la vita e l’attività pastorale. Parecchi di voi portano sulle loro spalle, per non dire sulla loro salute, il peso delle fatiche apostoliche. Tuttavia scegliete di rimanere e stare accanto alla vostra gente, vicini alla vostra gente, con la vostra gente. Grazie per questo! Grazie di cuore per la vostra testimonianza di essere vicini alla gente, grazie per aver voluto restare lì e non fare della vocazione un “passaggio a una vita migliore”! Grazie di questo. E restare lì con consapevolezza, come diceva la sorella, suor Suzanne: “Malgrado le nostre miserie e debolezze, ci impegniamo con tutto noi stessi nella grande missione dell’evangelizzazione”. La persona consacrata (nel senso ampio della parola) è la donna, è l’uomo che ha imparato e vuole rimanere, nel cuore del suo Signore e nel cuore del suo popolo. Questa è la chiave: rimanere nel cuore del Signore e nel cuore del popolo!

Accogliendo e ascoltando i suoi discepoli che tornano pieni di gioia, la prima cosa che Gesù fa è lodare e benedire il Padre suo, e questo ci indica un aspetto fondamentale della nostra vocazione. Siamo uomini e donne di lode. La persona consacrata è in grado di riconoscere e indicare la presenza di Dio dovunque si trovi. Inoltre, vuole vivere alla sua presenza, che ha imparato ad assaporare, gustare e condividere.

Nella lode troviamo la nostra più bella appartenenza e identità, perché essa libera il discepolo dall’ansia per il “si dovrebbe fare…” –quell’ansia che è un tarlo, un tarlo che rovina – e gli restituisce il gusto per la missione e per stare con la sua gente; lo aiuta ad aggiustare i “criteri” con cui misura sé stesso, gli altri e tutta l’attività missionaria, perché non abbiano alle volte poco sapore di Vangelo.

Spesso possiamo cadere nella tentazione di passare ore a parlare dei “successi” o dei “fallimenti”, dell’“utilità” delle nostre azioni o della “influenza” che possiamo avere, nella società, o in qualunque ambito. Discussioni che finiscono per occupare il primo posto e il centro di tutta la nostra attenzione. E questo ci porta – non di rado – a sognare programmi apostolici sempre più grandi, meticolosi e ben disegnati... ma tipici dei generali sconfitti e che alla fine negano la nostra storia – come quella della vostra gente – che è gloriosa in quanto storia di sacrifici, di speranza, di lotta quotidiana, di vita consumata nel servizio e nella perseveranza del lavoro faticoso (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 96).

Nella lode impariamo la sensibilità per non “perdere la bussola” e non fare dei mezzi i nostri fini, e del superfluo ciò che è importante; impariamo la libertà di mettere in atto dei processi piuttosto che voler occupare spazi (cfr ibid., 223); la gratuità di promuovere tutto ciò che fa crescere, maturare e fruttificare il Popolo di Dio piuttosto che inorgoglirci di un certo “reddito” pastorale facile, veloce ma effimero. In un certo senso, gran parte della nostra vita, della nostra gioia e fecondità missionaria si gioca su questo invito di Gesù alla lode. Come amava sottolineare quell’uomo saggio e santo che è stato Romano Guardini: «Colui che adora Dio nei suoi sentimenti più profondi e anche, quando ne ha il tempo, effettivamente, con gesti concreti, si trova al riparo nella verità. Può sbagliare in molte cose; può trovarsi a disagio o sconcertato per il peso delle sue azioni; ma, in definitiva, la direzione e l’ordine della sua esistenza sono al sicuro» (Glaubens-erkenntnis, Mainz 31997, p. 17), nella lode, nell’adorazione.

I settantadue erano consapevoli che il successo della missione era dipeso dall’averla compiuta “nel nome del Signore Gesù”. Questo li stupiva. Non era stato per le loro virtù, per i loro nomi o titoli; non portavano volantini di propaganda con i loro volti; non erano la loro fama o il loro progetto ad affascinare e salvare le persone. La gioia dei discepoli nasceva dalla certezza di fare le cose nel nome del Signore, di vivere il suo progetto, di condividere la sua vita; e questa li aveva fatti innamorare al punto da spingerli anche a condividerla con gli altri.

Ed è interessante notare che Gesù riassume l’operato dei suoi discepoli parlando della vittoria sul potere di Satana, un potere che non potremo mai vincere con le nostre sole forze, ma certo lo potremo nel nome di Gesù. Ognuno di noi può dare testimonianza di quelle battaglie... e anche di alcune sconfitte. Quando voi menzionate gli innumerevoli campi in cui svolgete la vostra azione evangelizzatrice, state sostenendo quella lotta nel nome di Gesù. Nel suo nome, sconfiggete il male quando insegnate a lodare il Padre celeste e quando insegnate con semplicità il Vangelo e il catechismo. Quando visitate e assistete un malato o portate il conforto della riconciliazione. Nel suo nome, voi vincete dando da mangiare a un bambino, salvando una madre dalla disperazione di essere sola a fare tutto, o procurando un lavoro a un padre di famiglia... È una lotta, una lotta vincente quella che si combatte contro l’ignoranza fornendo educazione; è portare la presenza di Dio anche quando qualcuno aiuta a far rispettare, nel loro ordine e nella loro perfezione, tutte le creature evitando che siano usate o sfruttate; e sono segni della vostra vittoria anche piantare un albero o far arrivare l’acqua potabile a una famiglia. Che segno di sconfitta del male è quando vi impegnate perché migliaia di persone recuperino la salute!

Continuate in queste battaglie, ma sempre nella preghiera e nella lode, nella lode di Dio!

La lotta la viviamo anche in noi stessi. Dio spazza via l’influsso dello spirito malvagio, quello che tante volte ci trasmette «una preoccupazione esagerata per gli spazi personali di autonomia e di distensione, che porta a vivere i propri compiti come una mera appendice della vita, come se non facessero parte della propria identità. Nel medesimo tempo, la vita spirituale si confonde con alcuni momenti religiosi che offrono un certo sollievo ma che non alimentano l’incontro con gli altri, l’impegno nel mondo, la passione per l’evangelizzazione» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 78). In questo modo, più che uomini e donne di lode, possiamo diventare “professionisti del sacro”. Al contrario, sconfiggiamo lo spirito malvagio sul suo stesso terreno: lì dove ci invita ad aggrapparci a sicurezze economiche, spazi di potere e di gloria umana, rispondiamo con la disponibilità e la povertà evangelica che ci porta a dare la vita per la missione (cfr ibid., 76). Per favore, non lasciamoci rubare la gioia missionaria!

Cari fratelli e sorelle, Gesù loda il Padre perché ha rivelato queste cose ai “piccoli”. Siamo piccoli perché la nostra gioia, la nostra felicità, è proprio questa rivelazione che Lui ci ha dato; il semplice “vedi e ascolta” ciò che né saggi, né profeti, né re possono vedere e ascoltare: cioè la presenza di Dio nei malati e negli afflitti, in coloro che hanno fame e sete di giustizia, nei misericordiosi (cfr Mt 5,3-12; Lc 6,20-23). Beati voi, beata Chiesa dei poveri e per i poveri, perché vive impregnata del profumo del suo Signore, vive gioiosa annunciando la Buona Notizia agli scartati della terra, a quelli che sono i favoriti di Dio.

Trasmettete alle vostre comunità il mio affetto e la mia vicinanza, la mia preghiera e la mia benedizione. In questa benedizione che vi darò nel nome del Signore vi invito a pensare alle vostre comunità, ai vostri luoghi di missione, perché il Signore continui a benedire tutte quelle persone là dove si trovano. Possiate continuare a essere segno della sua presenza viva in mezzo a noi.

E per favore, non dimenticatevi di pregare e far pregare per me.

Papa Francesco:

E prima di finire, vorrei compiere un dovere di giustizia e di gratitudine. Questo è l’ultimo discorso dei nove che sono stati tradotti da padre Marcel. Gli farò provare un po’ di vergogna perché lui dovrà tradurre anche questo, ma vorrei ringraziare il traduttore, padre Marcel, [si rivolge a lui ] per questo lavoro che tu hai fatto, ringraziarti per il modo preciso e anche per la libertà di dare senso alle parole della traduzione. Ti ringrazio tanto e che il Signore ti benedica.

[01367-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Chers frères et sœurs, quand on m’a apporté cette table je pensais que c’était pour manger, au contraire non, c’est pour parler!

Je vous remercie pour votre accueil chaleureux. Je voudrais adresser mes premières paroles spécialement à tous les prêtres, aux personnes consacrées qui n’ont pas pu se déplacer à cause d’un problème de santé, du poids des années ou de quelque inconvénient. Une prière tous ensemble pour eux, en silence. [Ils prient en silence]

En terminant ma visite à Madagascar ici avec vous, en voyant votre joie, mais aussi en repensant à tout ce que j’ai vécu en si peu de temps sur votre Île, jaillissent de mon cœur ces paroles de Jésus dans l’Évangile de Luc quand, exultant de joie, il a dit: «Père, Seigneur du ciel et de la terre, je proclame ta louange : ce que tu as caché aux sages et aux savants, tu l’as révélé aux tout-petits» (10, 21). Et cette joie est confirmée par vos témoignages, car même ce que vous exprimez comme des problèmes, ce sont des signes d’une Église vivante, une Eglise engagée, cherchant à être chaque jour une présence du Seigneur. Une Eglise, comme l’a dit sœur Suzanne, qui cherche chaque jour à être plus proche du peuple: ne pas se détacher du peuple, toujours marcher avec le peuple de Dieu!

Cette réalité est une invitation à faire mémoire avec reconnaissance de tous ceux qui n’ont pas eu peur et ont su miser sur Jésus Christ ainsi que sur son Royaume;et aujourd’hui, vous faites partie de leur héritage. Avant vous, il y a les racines: les racines de l’évangélisation, ici. Vous êtes l’héritage. Et vous aussi vous laisserez un héritage aux autres. Je pense aux Lazaristes, aux Jésuites, aux Sœurs de Saint Joseph de Cluny, aux Frères des écoles chrétiennes, aux Missionnaires de la Salette et à tous les autres pionniers, évêques, prêtres et consacrés. Mais j’ai également une pensée pour les nombreux laïcs qui, en des temps difficiles de persécution, quand beaucoup de missionnaires et de consacrés ont dû partir, ont maintenu vive la flamme de la foi sur ces terres. Cela nous invite à nous souvenir de notre Baptême, comme le premier et grand sacrement par lequel nous avons été marqués du sceau d’enfants de Dieu. Tout le reste est une expression et une manifestation de cet amour initial que nous sommes toujours appelés à renouveler.

La phrase de l’Évangile que j’ai citée fait partie de la prière de louange du Seigneur lorsqu’il a accueilli les soixante-douze disciples à leur retour de mission. Comme vous, ils ont accepté le défi d’être une Église ‘‘en sortie’’ et ils reviennent avec des sacs remplis pour partager tout ce qu’ils ont vu et entendu. Vous, vous avez osé sortir, et vous avez accepté le défi d’apporter la lumière de l’Évangile aux diverses contrées de cette Ile.

Je sais que beaucoup d’entre vous vivent dans des conditions difficiles, où manquent les services essentiels – eau, électricité, routes, moyens de communication – ou les ressources économiques pour gérer la vie et l’activité pastorale. Nombre d’entre vous portent sur leurs épaules, pour ne pas dire sur leur santé, le poids des labeurs apostoliques. Mais vous avez choisi de rester et d’être à côté de vos gens, proches de vos gens, avec vos gens. Je vous en remercie. Merci de tout cœur pour votre témoignage d’être proches des gens, merci d’avoir voulu rester là et ne pas faire de la vocation un ‘‘passage à une vie meilleure’’! Merci de tout cela. Et rester là, avec conscience, comme le disait la Sœur, sœur Suzanne: « Malgré nos misères et nos faiblesses, nous nous engageons de tout notre être dans la grande mission d’évangélisation ». La personne consacrée (dans le sens large du terme), c’est la femme, c’est l’homme qui a appris et veut rester dans le cœur de son Seigneur et dans le cœur de son peuple. Cela c’est la clé: demeurer dans le cœur du Seigneur et dans le cœur du peuple!

En accueillant et en écoutant ses disciples revenus remplis de joie, la première chose que Jésus fait, c’est de louer et de bénir son Père, ce qui nous indique un élément fondamental de notre vocation. Nous sommes des hommes et des femmes de louange. La personne consacrée a la capacité de reconnaître et d’indiquer la présence de Dieu, là où il se trouve. Mieux, il veut vivre en sa présence qu’il a appris à savourer, à goûter et à partager.

Dans la louange nous découvrons notre plus belle appartenance et identité, car la louange libère le disciple de l’obsession du ‘‘il faudrait faire…’’– cette obsession est un ver, un ver qui ruine – et lui redonne le goût de la mission ainsi que le goût d’être avec son peuple; elle l’aide à affiner les ‘‘critères’’ avec lesquels il s’évalue, évalue les autres et toute l’activité missionnaire, pour lui éviter parfois d’avoir peu de saveur évangélique.

Nous pouvons souvent succomber à la tentation de passer des heures en parlant des ‘‘succès’’ ou des ‘‘échecs’’, de l’‘‘utilité’’ de nos actions, ou de l’‘‘influence’’ que nous pouvons avoir, dans la société, ou dans n’importe quel cadre. Des discussions qui finissent par prendre le dessus et se trouver au centre de toute notre attention. Ce qui nous conduit – souvent – à rêver de programmes apostoliques toujours plus grands, méticuleux et bien élaborés… mais typiques des généraux vaincus qui finissent par nier notre histoire – ainsi que l’histoire de vos gens – qui est glorieuse parce qu’elle est une histoire de sacrifices, d’espérance, de lutte quotidienne, de vie consumée dans le service et dans la persévérance du travail pénible (cf. Exhort. ap. Evangelii gaudium, n. 96).

Dans la louange, nous acquérons la sensibilité de ne pas ‘‘nous laisser enivrer’’ et de ne pas faire des moyens nos fins et du superflu ce qui est important; nous acquérons la liberté d’apprendre à initier des processus plutôt que de chercher à occuper des espaces (cf. ibid., n. 223); la gratuité de promouvoir tout ce qui fait grandir, mûrir et fructifier le peuple de Dieu plutôt que de tirer vanité d’un ‘‘gain’’ pastoral certes facile, rapide mais éphémère. Dans une certaine mesure, une grande partie de notre vie, de notre joie et de notre fécondité missionnaire se joue dans cette invitation de Jésus à la louange. Comme aimait le souligner cet homme sage et saintque fut Romano Guardini : «Celui qui adore Dieu dans ses plus profonds sentiments et aussi, lorsqu’il en a le temps, réellement, par des actes concrets, se trouve dans la vérité. Il peut se tromper dans beaucoup de choses; il peut être accablé et déconcerté par le poids de ses propres actions; mais, en dernier ressort, les orientations et les ordres de son existence sontsûrs» (Pequeña Suma Teolόgica, Madrid 1963, p. 29), dans la louange, dans l’adoration.

Les soixante-douze étaient conscients que le succès de la mission dépendait de son accomplissement ‘‘au nom du Seigneur Jésus’’. Cela les émerveillait. Ce n’était pas du fait de leurs vertus, de leurs propres noms ou de leurs titres; ils n’emportaient pas des tracts de propagande à leur effigie; ce n’était pas leur renommée ou leur projet qui captivait et sauvait les gens. La joie des disciples naissait de la certitude de faire les choses au nom du Seigneur, de vivre de son projet, de partager sa vie, ce qu’ils ont tellement aimé qu’ils ont été conduits aussi à le partager avec les autres.

Et il est intéressant de constater que Jésus résume l’action de ses disciples en parlant de la victoire sur le pouvoir de Satan, un pouvoir que par nos seules forces nous ne pourrons jamais vaincre, mais certainement nous le pourrons au nom de Jésus. Chacun de nous peut témoigner de ces batailles… et aussi de quelques défaites. Quand vous mentionnez les innombrables domaines où vous exercez votre œuvre d’évangélisation, vous livrez cette lutte au nom de Jésus. En son nom, vous l’emportez sur le mal, quand vous enseignez à louer le Père des cieux et quand vous enseignez avec simplicité l’Évangile et le catéchisme, quand vous visitez et assistez un malade ou quand vous apportez la consolation de la reconciliation. En son nom, vous êtes vainqueurs en donnant à manger à un enfant, en sauvant une mère du désespoir d’être seule face à tout, en donnant un travail à un père de famille… C’est un combat, un combat victorieux que celui qui est mené contre l’ignorance en assurant une éducation; c’est aussi porter la présence de Dieu quand quelqu’un contribue à ce qu’on respecte toutes les créatures, dans leur ordre et dans leur perfection, en évitant leur utilisation ou leur exploitation; et ce sont aussi les signes de votre victoire quand vous plantez un arbre, ou aidez à fournir de l’eau potable à une famille. Quel signe de victoire sur le mal, quand vous vous employez à faire recouvrer la santé à des milliers de personnes!

Continuez à mener ces batailles, mais toujours dans la prière et dans la louange, dans la louange de Dieu!

La lutte, nous la vivons également en nous-mêmes. Dieu déjoue l’influence de l’esprit du mal, cet esprit qui bien souvent nous insufle «une préoccupation exagérée pour les espaces personnels d’autonomie et de détente, qui les conduit à vivre leurs tâches comme un simple appendice de la vie, comme si elles ne faisaient pas partie de leur identité. En même temps, la vie spirituelle se confond avec des moments religieux qui offrent un certain soulagement, mais qui ne nourrissent pas la rencontre avec les autres, l’engagement dans le monde, la passion pour l’évangélisation» (Exhort. ap. Evangelii gaudium, n. 78). Ainsi, au lieu d’être des hommes et des femmes de louange, nous pouvons devenir des ‘‘professionnels du sacré’’. Au contraire, vainquons l’esprit du mal sur son propre terrain; là où il nous invite à nous accrocher à des sécurités économiques, à des espaces de pouvoir et de gloire humaine, répondons par la disponibilité et la pauvreté évangéliques qui nous conduisent à donner notre vie pour la mission (cf. ibid., n. 76). S’il vous plaît, ne nous laissons pas voler la joie missionnaire!

Chers frères et sœurs, Jésus loue le Père parce qu’il a révélé ces choses aux ‘‘petits’’. Nous sommes des petits, car notre joie, notre bonheur, c’est précisément cette révélation qu’il nous a faite: celui qui est simple ‘‘voit et écoute’’ ce que ni les sages, ni les prophètes, ni les rois ne peuvent voir et écouter: c’est-à-dire la présence de Dieu dans les souffrants et les affligés, en ceux qui ont faim et soif de la justice, en ceux qui sont miséricordieux (cf. Mt 5, 3-12; Lc 6, 20-23). Heureux êtes vous, heureuse Église des pauvres et pour les pauvres, car elle vit imprégnée du parfum de son Seigneur, elle vit joyeuse, en annonçant la Bonne Nouvelle aux marginalisés de la terre, à ceux qui sont les préférés de Dieu.

Transmettez à vos communautés mon affection et ma proximité, ma prière et ma bénédiction. Lors de cette bénédiction que je vous donnerai au nom du Seigneur, je vous invite à penser à vos communautés, à vos lieux de mission, pour que le Seigneur continue de bénir toutes ces personnes où qu’elles se trouvent. Puissiez-vous continuer d’être un signe de sa présence vivante parmi nous!

Et s’il vous plaît, n’oubliez pas de prier et de faire prier pour moi!

Pape François:

Et avant de finir, je voudrais accomplir un devoir de justice et de gratitude. Celui-ci est le dernier discours des neuf qui ont été traduits par le père Marcel. Je lui ferai éprouver un peu de honte parce qu’il devra encore traduire ceci, mais je voudrais remercier le traducteur, père Marcel, [il s’adresse à lui] pour ce travail que tu as fait, te remercier pour la façon précise et aussi pour la liberté de donner un sens aux paroles de la traduction. Je te remercie beaucoup et que le Seigneur te bénisse.

[01367-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

Dear brothers and sisters, when they brought me this table, I thought it was time to eat, but no, it is to speak!

I thank you for your warm welcome. I would like before all else to greet all those priests and consecrated persons who could not be with us today due to poor health, advanced age or other reasons. Let us say a little prayer for them in silence…

I conclude my visit to Madagascar here with you. As I witness your joy, and think of everything else that I have seen during my brief stay on your island, my heart echoes the words spoken by Jesus in Luke’s Gospel. Filled with joy, he exclaimed: “I thank you, Father, Lord of heaven and earth, because you have hidden these things from the wise and the intelligent and have revealed them to little ones” (Lk 10:21). My joy has been confirmed by your testimonies, for even those things you see as problems are signs of a Church that is alive, a dynamic Church that strives each day to be a sign of the Lord’s presence. A Church that, as Sister Suzanne said, tries each day to be close to people, not to be removed from people, but to walk always with the people of God!

This leads us to remember with gratitude all those who in past years were unafraid to stake their lives on Jesus Christ and his kingdom. Today you share in their legacy. Before you, there were roots here: the roots of evangelization. You are their fruit. And you too will leave something behind for those yet to come. I think of the Vincentians, the Jesuits, the Sisters of Saint Joseph of Cluny, the Brothers of the Christian Schools, the La Salette Missionaries and so many other pioneer bishops, priests and consecrated men and women. I think too of the many lay persons who kept alive the flame of the faith in this land during the difficult days of persecution, when many missionaries and religious had to leave. This reminds us that our baptism is the first great sacrament that marked and consecrated us as God’s children. Everything else is an expression and a manifestation of that first love, which we are constantly called to renew.

The words of the Gospel that I cited above are part of the Lord’s prayer of praise as he welcomed back the seventy-two disciples from their mission. Like yourselves, those disciples accepted the challenge of being a Church that “goes forth”. They came back with their bags full, to share everything that they saw and heard. You too dared to go forth, and you accepted the challenge of bringing the light of the Gospel to the different parts of this island.

I know that many of you live in difficult conditions and lack such essential services as water, electricity, roads and means of communication, or the financial resources needed for your life and pastoral activity. More than a few of you feel the burden of your apostolic labours and their effect on your health. Yet you have chosen to stand beside your people, to be close to your people, to remain in their midst. I thank you for this. I thank you for your witness of closeness to your people, for choosing to stay and not make your vocation a “stepping stone to a better life”. Thank you for this. To remain there in the awareness, as Sister Suzanne said, that, “for all our difficulties and weaknesses, we remain fully committed to the great mission of evangelization”. Consecrated persons, in the broad sense of the term, are women and men who have learned how to keep close to the Lord’s heart and to the heart of their people. This is the key: to remain in the heart of the Lord and in the heart of our people!

Welcoming back his disciples and hearing of their joy, Jesus immediately praises and blesses his heavenly Father. This makes us see something basic about our vocation. We are men and women of praise. Consecrated persons are able to recognize and point out the presence of God wherever they find themselves. Even better, they are able to dwell in God’s presence because they have learned how to savour, enjoy and share that presence.

In praise, we discover the beauty of our identity as part of a people. Praise frees disciples from obsessing about “what ought to be done” that can eat away at us. Praise restores our enthusiasm for mission and for being in the midst of our people. Praise helps us refine the “criteria” by which we take stock of ourselves and others, and all our missionary projects. In this way, it keeps us from losing our evangelical “flavour”.

Often we can yield to the temptation of wasting our time talking about “successes” and “failures”, the “usefulness” of what we are doing or the “influence” we may have in society or elsewhere. These discussions end up taking over and, not infrequently, make us, like defeated generals, dream up vast, meticulously planned apostolic projects. We end up denying our own history – and the history of your people – which is glorious because it is a history of sacrifices, hope, daily struggle, a life consumed in fidelity to work, tiring as it may be (cf. Evangelii Gaudium, 96).

In praising, we learn not to become “inebriated”, turning means into ends or the superfluous into the important. We gain the freedom to initiate processes rather than seeking to occupy spaces (cf. ibid., 233), the freedom to foster whatever brings growth, development and fruitfulness to God’s people, instead of priding ourselves on pastoral “gains” that are easy and quick, but short-lived. Much of our life, our joy and our missionary fruitfulness have to do with Jesus’ invitation to praise. As that wise and holy man, Romano Guardini, often said: “The one who worships God in the depths of his heart and, when possible, by his concrete actions, lives in the truth. He might be mistaken about many things; he can be overwhelmed and dismayed by all his cares, but when all is said and done, his life rests on a sure foundation” (R. GUARDINI, Glaubenserkenntnis, Mainz, 3rd ed., 1997, p. 17), in praise, in adoration.

The seventy-two realized that the success of their mission depended on its being carried out “in the name of the Lord Jesus”. That was what amazed them. It had nothing to do with their own virtues, names or titles… There was no need to pass out their own propaganda; it was not their fame or their vision that stirred and saved other people. The joy of the disciples was born of their certainty that they were acting in the name of the Lord, sharing in his plan and participating in his life, which they loved so much that they wanted to share it with others.

It is interesting to see how Jesus sums up his disciples’ work by speaking of victory over the power of Satan, a power that we, by ourselves, could never overcome, if not in the name of Jesus! Each of us can testify to battles fought… including a few defeats. In all those situations that you mentioned when you spoke of your efforts to evangelize, you fight this same battle in the name of Jesus. In his name, you triumph over evil whenever you teach people to praise our heavenly Father, or simply teach the Gospel and the catechism, or visit the sick and bring the consolation of reconciliation. In Jesus’ name, you triumph whenever you give a child something to eat, or save a mother from despair at being alone in the face of everything, or provide work to the father of a family. The battle is won whenever you overcome ignorance by providing an education. You bring God’s presence whenever any of you helps show respect for all creatures, in their proper order and perfection, and prevents their being misused or exploited. It is a sign of God’s victory whenever you plant a tree or help bring drinkable water to a family. What a great sign of victory over evil it is, whenever you work to restore thousands of persons to good health!

Continue to fight these battles, but always in prayer and in praise.

There are also battles that we fight within ourselves. God circumvents the influence of the evil spirit, the spirit that very often inspires in us “an inordinate concern for our personal freedom and relaxation, which leads us to see our work as a mere appendage to our life, as if it were not part of our very identity. At the same time, the spiritual life comes to be identified with a few religious exercises which can offer a certain comfort, but which do not encourage encounter with others, engagement with the world or a passion for evangelization” (Evangelii Gaudium, 78). As a result of this, instead of being men and women of praise, we become “professionals of the sacred”. Let us instead conquer the spirit of evil on its own terrain. Whenever it tells us to put our trust in financial security, spaces of power and human glory, let us respond with the evangelical responsibility and poverty that inspires us to give our lives for the mission (cf. ibid., 76). Please, let us not allow ourselves to be robbed of missionary joy!

Dear brothers and sisters, Jesus praises the Father for having revealed these things to the “little ones”. We are indeed little, for our joy, our happiness, is found in precisely his revelation that those who are simple can “see and hear” what neither the intelligent nor prophets and kings were able to see and hear. It is God’s presence in those who are suffering and afflicted, those who hunger and thirst for justice, those who are merciful (cf. Mt 5:3-12; Lk 6:20-23). Happy are you, happy as a Church of the poor and for the poor, a Church imbued by the fragrance of her Lord, a Church that lives joyfully by preaching the Good News to the marginalized of the earth, to those who are closest to God’s heart.

Please convey to your communities my affection and my closeness, my prayers and my blessing. As I now bless you in the name of the Lord, I ask you to think of your communities and your places of mission, that the Lord may continue to speak of goodness to all, wherever they find themselves. May you continue to be a sign of his living presence in our midst!

Please, don’t forget to pray for me, and to ask others to do the same!

Pope Francis:

Before finishing I would like to perform a duty of justice and of gratitude. This is the last of the nine addresses that were translated by Father Marcel. I am going to make him uncomfortable because I am also going to ask him to translate this words of thanks for Father Marcel [he turns to him] for the work that you did, and to thank you for clear but also free way that you interpreted my words. I thank you very much, and may the Lord bless you.

[01367-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Liebe Brüder und Schwestern, als man mir diesen Tisch hierherbrachte, dachte ich, es gäbe etwas zu essen, das ist aber nicht so, er ist für das Gespräch gedacht!

Ich danke euch für euren herzlichen Empfang. Meine ersten Worte möchte ich vor allem an all die Priester und gottgeweihten Frauen und Männer richten, die wegen gesundheitlicher Probleme, wegen ihres hohen Alters oder anderer Schwierigkeiten nicht anreisen konnten. Beten wir alle in Stille gemeinsam für sie. [Stilles Gebet]

Nun, da mein Besuch in Madagaskar hier mit euch zum Abschluss kommt, und ich eure Freude sehe, aber auch an alles zurückdenke, was ich in dieser kurzen Zeit auf eurer Insel erlebt habe, kommen mir diese Worte Jesu im Lukasevangelium in den Sinn, als er freudig bewegt sagte: »Ich preise dich, Vater, Herr des Himmels und der Erde, weil du das vor den Weisen und Klugen verborgen und es den Unmündigen offenbart hast« (10,21); und diese Freude wird durch eure Zeugnisse bestätigt, denn auch die Dinge, die ihr als Probleme aufgezeigt habt, sind Zeichen einer lebendigen Kirche, einer engagierten Kirche, die jeden Tag danach strebt, den Herrn zu vergegenwärtigen. Einer Kirche, wie Schwester Suzanne gesagt hat, die darum bemüht ist, jeden Tag näher am Volk zu sein: löst euch nie vom Volk, geht immer mit dem Volk Gottes!

Dies ist eine Einladung, sich dankbar an all jene zu erinnern, die keine Angst hatten und auf Jesus Christus und sein Königreich setzten; und ihr habt heute teil an ihrem Erbe. Da sind diese Wurzeln aus der Zeit vor euch: die Wurzeln der Evangelisierung hier. Ihr seid das Erbe. Und auch ihr werdet anderen ein Erbe hinterlassen. Ich denke an die Lazaristen, die Jesuiten, die Josefschwestern von Cluny, die Brüder der christlichen Schulen, die Missionare Unserer Lieben Frau von La Salette und alle anderen Pioniere, Bischöfe, Priester und Gottgeweihten. Aber auch an die vielen Laien, die in den schwierigen Zeiten der Verfolgung, als viele Missionare und Ordensleute gehen mussten, diejenigen waren, die die Flamme des Glaubens in diesen Ländern am Leben erhielten. Dies lädt uns ein, uns an unsere Taufe zu erinnern, als das erste und große Sakrament, dank dessen wir das Siegel der Gotteskindschaft empfangen haben. Alles weitere ist Ausdruck und Manifestation jener ursprünglichen Liebe, zu deren Erneuerung wir immer eingeladen sind.

Der Satz des Evangeliums, auf den ich mich bezogen habe, ist Teil des Lobgebetes, das der Herr angestimmt hat, als er die 72 Jünger empfing, die von ihrer Mission zurückkehrten. Sie hatten, wie ihr, die Herausforderung angenommen, eine Kirche „im Aufbruch“ zu sein. Sie tragen einen reichen Schatz von Erfahrung mit sich und geben alles, was sie gesehen und gehört haben, weiter. Ihr habt den Mut gehabt, hinauszugehen und die Herausforderung anzunehmen, das Licht des Evangeliums in jeden Winkel dieser Insel zu bringen.

Ich weiß, dass viele von euch unter schwierigen Bedingungen leben, wo es an grundlegenden Dingen – Wasser, Strom, Straßen, Kommunikationsmittel – oder an finanziellen Ressourcen für das Leben und die pastorale Tätigkeit mangelt. Viele von euch tragen auf ihren Schultern – um nicht zu sagen: zu Lasten ihrer Gesundheit – die Bürde der apostolischen Bemühungen. Ihr entscheidet euch jedoch dafür, zu bleiben und bei eurem Volk, nahe an eurem Volk, mit eurem Volk zu leben. Vielen Dank dafür! Herzlichen Dank für euer Zeugnis, dem Volk nahe zu sein, danke dafür, dass ihr dortbleiben und die Berufung nicht zu einem „Sprungbrett für ein besseres Leben“ machen wollt! Danke dafür und auch, dass ihr bewusst dortbleibt, wie Schwester Suzanne sagte: „Trotz unseres Elends und unserer Schwächen setzen wir uns von ganzem Herzen für die große Mission der Evangelisierung ein“. Gottgeweihte Personen (im weitesten Sinne des Wortes) sind Frauen, sind Männer, die es gelernt haben und die den Willen haben, im Herzen ihres Herrn und im Herzen ihres Volkes zu bleiben. Das ist der Schlüssel: das Bleiben im Herzen des Herrn und im Herzen des Volkes!

Als Jesus seine Jünger, die voller Freude zurückkehren, empfängt und ihnen zuhört, lobt und preist er als erstes seinen Vater. Das weist auf einen grundlegenden Aspekt unserer Berufung hin. Wir sind Männer und Frauen des Lobpreises. Die Person des gottgeweihten Lebens ist in der Lage, die Gegenwart Gottes überall zu erkennen und aufzuzeigen. Sie will in dieser Gegenwart leben, die sie gelernt hat zu genießen, zu verkosten und mitzuteilen.

Im Lobpreis finden wir unsere schönste Zugehörigkeit und Identität, weil sie den Jünger von der Angst vor einem „das sollte man tun...“ – dieser nagenden Angst, die kaputt macht – befreit und ihm die Lust an der Mission und am Zusammensein mit seinem Volk zurückgibt; der Lobpreis hilft ihm, die „Kriterien“, an denen er sich, andere und alle missionarischen Aktivitäten misst, so abzustimmen, dass sie nicht manchmal wenig vom Geschmack des Evangeliums haben.

Oftmals können wir in die Versuchung geraten, stundenlang über „Erfolge“ oder „Misserfolge“, den „Nutzen“ unseres Handelns oder den „Einfluss“ zu sprechen, den wir vielleicht haben, in der Gesellschaft oder irgendeinem anderen Bereich. Solche Diskussionen stehen dann schließlich an erster Stelle und im Mittelpunkt unserer Aufmerksamkeit. Und das führt uns nicht selten dazu, dass wir apostolische Programme erträumen, die immer größer, akribischer und besser gestaltet sind – aber das ist typisch für besiegte Generäle, die am Ende unsere Geschichte verleugnen – so wie die eures Volkes –, die glorreich ist als eine Geschichte von Opfer, Hoffnung, täglichem Ringen, dem im Dienst aufgeriebenen Leben und der Beständigkeit in mühevoller Arbeit (vgl. Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium, 96).

Im Lobpreis bekommen wir ein Gespür dafür, nicht den Überblick zu verlieren, um nicht die Mittel zum Zweck zu machen und das Überflüssige mit dem Notwendigen zu verwechseln; wir erlernen die Freiheit, Prozesse in Gang zu setzen, anstatt Räume zu besitzen (vgl. ebd., 223); wir lernen großzügig alles zu fördern, was das Volk Gottes wachsen, reifen und Früchte tragen lässt, anstatt uns eines bestimmten pastoralen „Verdienstes“ zu brüsten, der einfach und schnell zu erreichen, aber nicht nachhaltig ist. In gewisser Weise hängt viel von unserem Leben, unserer missionarischen Freude und Fruchtbarkeit von dieser Einladung Jesu zum Lobpreis ab. Wie der weise und heiligmäßige Romano Guardini gerne betonte: »Wer – seiner innersten Gesinnung nach und auch, sobald es dafür Zeit ist, wirklich, im lebendigen Akt – Gott anbetet, ist in der Wahrheit behütet. Er mag noch so vieles falsch machen; noch so sehr erschüttert werden und ratlos sein – im Letzten sind die Richtungen und Ordnungen seines Daseins sicher« (Glaubenserkenntnis, Mainz 1997, 17), im Lobpreis, in der Anbetung.

Den zweiundsiebzig Jüngern war bewusst, dass es für den Erfolg ihrer Mission entscheidend war, sie „im Namen des Herrn“ erfüllt zu haben. Das brachte sie zum Staunen. Es waren nicht ihre Fähigkeiten, Namen oder Titel; sie hatten keine Werbeflyer mit ihren Gesichtern darauf; es war nicht ihr Ruhm oder ihr Projekt, das die Menschen faszinierte und rettete. Die Freude der Jünger stammte aus der Gewissheit, die Dinge im Namen des Herrn zu tun, seine Vorsehung zu leben, sein Leben zu teilen; und das hatte in ihnen eine so große Liebe entzündet, dass sie diese auch mit anderen teilen mussten.

Es ist interessant zu beobachten, wie Jesus das Werk seiner Jünger zusammenfasst, indem er vom Sieg über die Macht Satans spricht, einer Macht, die wir nie allein mit unseren eigenen Kräften, gewiss aber im Namen Jesu überwinden können. Jeder von uns kann von diesen Kämpfen Zeugnis geben.... und auch von einigen Niederlagen. Wenn ihr die unzähligen Felder erwähnt, in denen ihr euren Dienst der Evangelisierung ausübt, unterstützt ihr diesen Kampf im Namen Jesu. In seinem Namen besiegt ihr das Böse, wenn ihr lehrt, unseren himmlischen Vater zu loben, und wenn ihr in aller Einfachheit das Evangelium und den Katechismus lehrt. Wenn ihr einen Kranken besucht und betreut oder die Tröstung der Versöhnung bringt. In seinem Namen siegt ihr, wenn ihr einem Kind Nahrung gebt und eine Mutter vor der Verzweiflung bewahrt, alles allein tun zu müssen oder wenn ihr einem Familienvater Arbeit verschafft ... Ein Kampf, ein siegreicher Kampf ist auch die Bekämpfung der Unwissenheit durch Bildungsangebote; man bringt die Gegenwart Gottes auch wenn man dazu beiträgt, dass alle Geschöpfe gemäß ihrer Ordnung und Vollkommenheit respektiert werden, ohne sie nur zu benutzen oder auszubeuten; es sind auch Zeichen eures Sieges, einen Baum zu pflanzen oder einer Familie Zugang zu sauberem Wasser zu ermöglichen. Welch ein Zeichen der Niederlage des Bösen ist es, wenn ihr euch dafür engagiert, dass Tausende von Menschen ihre Gesundheit wiedererlangen!

Macht weiter in diesen Kämpfen, aber immer im Gebet und im Lobpreis, im Lobpreis Gottes!

Wir erleben diesen Kampf auch in uns selbst. Gott fegt den Einfluss des Bösen weg, der uns so oft »eine übertriebene Sorge um die persönlichen Räume der Selbständigkeit und der Entspannung« einflößt, »die dazu führt, die eigenen Aufgaben wie ein bloßes Anhängsel des Lebens zu erleben, als gehörten sie nicht zur eigenen Identität. Zugleich wird das geistliche Leben mit einigen religiösen Momenten verwechselt, die einen gewissen Trost spenden, aber nicht die Begegnung mit den anderen, den Einsatz in der Welt und die Leidenschaft für die Evangelisierung nähren« (Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium, 78). Auf diese Weise kann es passieren, dass wir eher zu „Profis des Heiligen“ als Männer und Frauen des Lobpreises werden. Machen wir es umgekehrt: Besiegen wir den bösen Geist auf seinem eigenen Terrain: Wo er uns einlädt, uns an wirtschaftliche Sicherheit, Räume der Macht und der menschlichen Anerkennung zu klammern, antworten wir mit evangeliumsgemäßer Verfügbarkeit und Armut, die uns dazu bringt, unser Leben für die Sendung hinzugeben (vgl. ebd., 76). Bitte, lassen wir uns die missionarische Freude nicht nehmen!

Liebe Brüder und Schwestern, Jesus preist den Vater dafür, dass er diese Dinge den „Kleinen“ geoffenbart hat. Wir sind klein, weil unsere Freude, unser Glück, genau diese Offenbarung ist, die er uns gegeben hat; das einfache „Sehen und Hören“ dessen, was weder Weise noch Propheten noch Könige sehen und hören können: nämlich die Gegenwart Gottes in den Kranken und Bedrängten, in denen, die hungern und dürsten nach Gerechtigkeit, in den Barmherzigen (vgl. Mt 5,3-12; Lk 6,20-23). Selig seid ihr – selig ist die Kirche der Armen und für die Armen, denn sie lebt durchdrungen vom Duft ihres Herrn, sie lebt freudig und verkündet die Frohe Botschaft den Verworfenen dieser Erde, denen, die Gott am meisten am Herzen liegen.

Übermittelt euren Gemeinschaften meine Zuneigung und Nähe, mein Gebet und meinen Segen. Bei diesem Segen, den ich euch im Namen des Herrn erteilen werde, lade ich euch ein, an eure Gemeinschaften, an die Orte eurer Sendung zu denken, damit der Herr weiterhin all jene Menschen segnen kann, da, wo sie sind. Möget ihr weiterhin ein Zeichen seiner lebendigen Gegenwart unter uns sein.

Und bitte vergesst nicht für mich zu beten und für mich beten zu lassen.

Papst Franziskus:

Bevor ich ende, möchte ich einer gerechten Dankespflicht nachkommen. Dies war die letzte von neun Ansprachen, die von Pater Marcel übersetzt wurden. Wahrscheinlich wird er jetzt ein wenig rot im Gesicht, denn er wird auch das übersetzen müssen, aber ich möchte dem Übersetzer, Pater Marcel, [er wendet sich ihm zu], für diese Arbeit danken, die du geleistet hast, danken für die Genauigkeit und auch für die Freiheit, die den Worten der Übersetzung Sinn verleiht. Ich danke dir sehr, der Herr segne dich.

[01367-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

Queridos hermanos y hermanas: ¡Pensaba que cuando me traían esta mesa era para comer, en cambio, es para hablar!

Agradezco vuestra cálida bienvenida. Quiero que mis primeras palabras estén dirigidas especialmente a todos los sacerdotes, consagradas y consagrados que no pudieron viajar por un problema de salud, el peso de los años o alguna complicación. Una oración todos juntos por ellos, en silencio. [Rezan en silencio]

Al terminar mi visita a Madagascar aquí con vosotros, al ver vuestra alegría, pero también recordando todo lo que he vivido en este tan poco tiempo en vuestra isla, me brotan del corazón aquellas palabras de Jesús en el Evangelio de Lucas cuando, estremecido de gozo, dijo: «Te doy gracias, Padre, Señor del cielo y de la tierra, porque has escondido estas cosas a los sabios y entendidos, y las has revelado a los pequeños» (10,21). Y este gozo es confirmado por vuestros testimonios porque, aun aquello que vosotros expresáis como problemáticas, son signos de una Iglesia viva, una Iglesia pujante, en búsqueda de ser cada día presencia del Señor. Una Iglesia, como ha dicho Sor Suzanne, que busca cada día estar más cercana del pueblo. ¡No os canséis del pueblo, siempre caminar con el pueblo de Dios!

Esta realidad es una invitación a la memoria agradecida de todos aquellos que no tuvieron miedo y supieron apostar por Jesucristo y su Reino; y vosotros hoy sois parte de su heredad. Antes que vosotros están las raices: las raices de la evangelización, aquí. Vosotros sois la heredad. Y también vosotos dejaréis una heredad a los otros. Pienso en los lazaristas, los jesuitas, las hermanas de San José de Cluny, los hermanos de las escuelas cristianas, los misioneros de La Salette y todos los demás pioneros, obispos, sacerdotes y consagrados. Pero también de tantos laicos que, en los momentos difíciles de persecusión, cuando muchos misioneros y consagrados tuvieron que partir, fueron quienes mantuvieron viva la llama de la fe en estas tierras. Esto nos invita a recordar nuestro bautismo, como el primer y gran sacramento por el que fuimos sellados como hijos de Dios. Todo el resto es expresión y manifestación de ese amor inicial que siempre estamos invitados a renovar.

La frase del Evangelio a la que me referí es parte de la alabanza del Señor al recibir a los setenta y dos discípulos cuando volvían de la misión. Ellos, como vosotros, aceptaron el desafío de ser una Iglesia “en salida”, y traen las alforjas llenas para compartir todo lo que han visto y oído. Vosotros os habéis atrevido a salir, y aceptásteis el desafío de llevar la luz del Evangelio a los distintos rincones de esta isla.

Sé que muchos de vosotros vivís situaciones difíciles, donde faltan los servicios esenciales —agua, electricidad, carreteras, medios de comunicación— o la falta de recursos económicos para llevar adelante la vida y la actividad pastoral. Muchos de vosotros sentís sobre vuestros hombros, por no decir sobre vuestra salud, el peso del trabajo apóstolico. Pero vosotros habéis elegido permanecer y estar al lado de vuestro pueblo, cercanos a vuestro pueblo, con vuestro pueblo. Gracias por esto. Muchas gracias por vuestro testimonio de estar al lado de la gente, gracias por querer quedaros ahí y no hacer de la vocación un “pasaje a una mejor vida”. Gracias por esto. Y quedaros ahí con esa conciencia, como decía la hermana, Sor Suzanne: “a pesar de nuestras miserias y debilidades, nos comprometemos con todo nuestro ser a la gran misión de la evangelización”. La persona consagrada —en el amplio sentido de la palabra— es la mujer, el hombre que aprendieron y quieren quedarse, en el corazón de su Señor y en el corazón de su pueblo. Esta es la clave: Permanecer en el corazón del Señor y en el corazón del Pueblo.

Al recibir y escuchar a sus discípulos volver llenos de gozo, lo primero que Jesús hace es alabar y bendecir a su Padre; y esto nos muestra una parte fundamental de nuestra vocación. Somos hombres y mujeres de alabanza. La persona consagrada es capaz de reconocer y señalar la presencia de Dios allí donde se encuentre. Es más, quiere vivir en su presencia, que aprendió a saborear, gustar y compartir.

En la alabanza encontramos nuestra pertenencia e identidad más hermosa porque libra al discípulo de los “habriaqueísmos” —aquella ansia que es una carcoma, una carcoma que corroe— y le devuelve el gusto por la misión y por estar con su pueblo; le ayuda a ajustar los “criterios” con los que se mide a sí mismo, mide a los otros y a toda la actividad misionera, para que no tengan algunas veces poco sabor a Evangelio.

Muchas veces podemos caer en la tentación de pasar horas hablando de los “éxitos” o “fracasos”, de la “utilidad” de nuestras acciones, o la “influencia” que podamos tener, en la sociedad, o en cualquier ámbito. Discusiones que terminan ocupando el primer puesto y el centro de toda nuestra atención. Esto que nos conduce —no pocas veces— a soñar con planes apostólicos expansionistas, meticulosos y bien dibujados, pero propios de generales derrotados que terminan por negar nuestra historia —al igual que la de vuestro pueblo— que es gloriosa por ser historia de sacrificios, de esperanza, de lucha cotidiana, de vida deshilachada en el servicio y la constancia en el trabajo que cansa (cf. Exhort. ap. Evangelii gaudium, 96).

Al alabar aprendemos la sensibilidad para no “desorientarnos” y hacer de los medios nuestros fines, de lo superfluo lo importante; aprendemos la libertad para poner en marcha procesos más que querer ocupar espacios (cf. ibíd., 223); la gratuidad de fomentar todo lo que haga crecer, madurar y fructificar al Pueblo de Dios antes que orgullecernos por cierto fácil, rápido pero efímero “rédito” pastoral. En cierta medida, gran parte de nuestra vida, de nuestra alegría y fecundidad misionera se juega en esta invitación de Jesús a la alabanza. Como bien le gustaba señalar a ese hombre sabio y santo, como ha sido Romano Guardini: «El que adora a Dios en sus sentimientos más hondos y también, cuando tiene tiempo, realmente, con actos vivos, se encuentra cobijado en la verdad. Puede equivocarse en muchas cosas; puede quedar abrumado y desconcertado por el peso de sus acciones; pero, en último término, las direcciones y los órdenes de su existencia están seguros» (Pequeña Suma Teológica, Madrid 1963, 29), en la alabanza, en la adoración.

Los setenta y dos eran conscientes de que el éxito de la misión dependió de hacerla “en nombre del Señor Jesús”. Eso los maravillaba. No fue por sus virtudes, nombres o títulos, no llevaban boletas de propaganda con sus rostros; no era su fama o proyecto lo que cautivaba y salvaba a la gente. La alegría de los discípulos nacía de la certeza de hacer las cosas en nombre del Señor, de vivir su proyecto, de compartir su vida; y esta les había enamorado tanto que les llevó también a compartirla con los demás.

Y resulta interesante constatar que Jesús resume la actuación de sus discípulos hablando de la victoria sobre el poder de Satanás, un poder que desde nosotros solos jamás podremos vencer, pero sí en el nombre de Jesús. Cada uno de nosotros puede dar testimonio de esas batallas, y también de algunas derrotas. Cuando vosotros mencionáis la infinidad de campos donde realizáis vuestra acción evangelizadora, estáis librando esa lucha en nombre de Jesús. En su nombre, vosotros vencéis el mal, cuando enseñáis a alabar al Padre de los cielos y cuando enseñáis con sencillez el Evangelio y el catecismo. Cuando visitáis y asistís a un enfermo o brindáis el consuelo de la reconciliación. En su nombre, vosotros vencéis al dar de comer a un niño, al salvar una madre de la desesperación de estar sola para todo, al procurarle un trabajo a un padre de familia. Es un combate, un combate ganador el que se lucha contra la ignorancia brindando educación; también es llevar la presencia de Dios cuando alguien ayuda a que se respete, en su orden y perfección propios, todas las criaturas evitando su uso o explotación; y también los signos de su victoria cuando plantáis un árbol, o hacéis llegar el agua potable a una familia. ¡Qué signo del mal derrotado es cuando vosotros os dedicáis a que miles de personas recuperen la salud!

¡Seguid dando estas batallas, pero siempre en la oración y en la alabanza, en la alabanza a Dios!

La lucha también la vivimos en nosotros mismos. Dios desbarata la influencia del mal espíritu, ese que tantas veces nos transmite «una preocupación exacerbada por los espacios personales de autonomía y de distensión y que puede llevarnos a vivir las tareas como un mero apéndice de la vida. A veces sucede que la vida espiritual se confunde con algunos momentos religiosos que brindan cierto alivio pero que no alimentan el encuentro con los demás, el compromiso en el mundo, la pasión evangelizadora» (Exhort. ap. Evangelii gaudium, 78). Así, más que hombres y mujeres de alabanza, podemos transformarnos en “profesionales de los sagrado”. Al contrario, derrotemos al mal espíritu en su propio terreno; allí donde nos invite a aferrarnos a seguridades económicas, espacios de poder y de gloria humana, respondamos con la disponibilidad y la pobreza evangélica que nos lleva a dar la vida por la misión (cf. ibíd., 76). ¡Por favor, no nos dejemos robar la alegría misionera!

Queridos hermanos y hermanas: Jesús alaba al Padre porque ha revelado estas cosas a los “pequeños”. Somos pequeños porque nuestra alegría, nuestra dicha, es precisamente esta revelación que Él nos ha dado; el sencillo “ve y escucha” lo que ni sabios, ni profetas, ni reyes pueden ver y escuchar: es decir, la presencia de Dios en en los pacientes y afligidos, en los que tienen hambre y sed de justicia, en los misericordiosos (cf. Mt 5,3-12; Lc 6,20-23). Dichosos vosotros, dichosa Iglesia de los pobres y para los pobres, porque vive impregnada del perfume de su Señor, vive alegre anunciando la Buena Noticia a los descartados de la tierra, a aquellos que son los favoritos de Dios.

Transmitidle a vuestras comunidades mi cariño y cercanía, mi oración y bendición. En esta bendición que os daré en nombre del Señor os invito a que penséis en vuestras comunidades, en vuestros lugares de misión, para que el Señor siga diciendo bien a todas esas personas, allí donde se encuentren. Que vosotros podáis seguir siendo signo de su presencia viva en medio nuestro.

Y, por favor, no os olvidéis de rezar y hacer rezar por mí.

Papa Francisco:

Antes de terminar, quisiera cumplir un deber de justicia y agradecimiento. Este es el último discurso de los nueve que han sido traducidos por el padre Marcel. Le haré pasar un poco de vergüenza para que él pueda traducir también esto. Quisiera agradecer al traductor, padre Marcel, [se dirige a él] por este trabajo que tú has realizado, te doy las gracias por la precisión y también por la libertad de dar sentido a la traducción. Te lo agradezco mucho y que el Señor te bendiga.

[01367-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

Queridos irmãos e irmãs, quando me trouxeram esta mesa, pensava que era para comer. Mas não, é para falar!

Agradeço a vossa calorosa receção. As minhas primeiras palavras, gostaria de as dirigir especialmente a todos os sacerdotes, consagradas e consagrados que não puderam vir por problemas de saúde, pelo peso dos anos ou por qualquer outra complicação. Por eles, façamos uma oração todos juntos, em silêncio [rezam em silêncio].

Ao terminar a minha visita a Madagáscar aqui convosco, vendo a vossa alegria e repensando a tudo o que já vivi na vossa Ilha, brotam do meu coração estas palavras de Jesus no evangelho de Lucas quando exclama exultante de alegria: «Bendigo-Te, ó Pai, Senhor do Céu e da Terra, porque escondeste estas coisas aos sábios e aos inteligentes e as revelaste aos pequeninos» (10, 21). E esta exultação é confirmada pelos vossos testemunhos, pois até os pontos que expressastes como problemas são sinais duma Igreja viva, uma Igreja comprometida, que procura ser dia-a-dia uma presença do Senhor. Uma Igreja, como disse a irmã Suzanne, que procura cada dia estar mais próxima do povo: não se separar do povo, sempre a caminhar com o povo de Deus!

Esta realidade é convite a recordar com gratidão todos aqueles que não tiveram medo de apostar em Jesus Cristo e no seu Reino; e hoje partilhais da sua herança. Antes de vós, existem as raízes: as raízes da evangelização, aqui. Vós sois a herança. E deixareis, vós também, uma herança aos outros. Penso nos Lazaristas, nos Jesuítas, nas Irmãs de São José de Cluny, nos Irmãos das Escolas Cristãs, nos Missionários de La Salette e em todos os outros pioneiros, bispos, sacerdotes e consagrados. Mas penso também em tantos leigos que em tempos difíceis de perseguição, quando muitos missionários e consagrados foram obrigados a partir, mantiveram viva a chama da fé nesta terra. Isto convida-nos a recordar o nosso Batismo, como o primeiro e grande sacramento pelo qual recebemos o selo de filhos de Deus. Tudo o mais é expressão e manifestação deste amor inicial que sempre somos chamados a renovar.

A frase do Evangelho que citei faz parte da oração de louvor feita pelo Senhor, quando acolheu os setenta e dois discípulos no regresso da sua missão com os sacos cheios para partilhar tudo o que viram e ouviram. Como eles, também vós aceitastes o desafio de ser uma Igreja «em saída»: ousastes sair abraçando o desafio de levar a luz do Evangelho a todos os cantos desta Ilha.

Sei que muitos de vós vivem em condições difíceis, carecendo dos serviços essenciais – água, eletricidade, estradas, meios de comunicação – ou dos recursos económicos para gerir a vida e a atividade pastoral. Muitos de vós sentem sobre os seus ombros, para não dizer sobre a sua saúde, o peso das fadigas apostólicas. Mas escolhestes ficar e estar ao lado do vosso povo, próximo do vosso povo, com o vosso povo. Disso vos agradeço! Muito obrigado pelo vosso testemunho de estar perto das pessoas, obrigado por terdes querido ficar, sem fazer da vocação um «trampolim para uma vida melhor». Obrigado por isso. E ficar – como dizia a Irmã Suzanne – com a consciência de que, «apesar das nossas misérias e fraquezas, comprometemo-nos com todo o nosso ser na grande missão da evangelização». A pessoa consagrada, no sentido amplo da palavra, é a mulher, é o homem que aprendeu e quer permanecer no coração do seu Senhor e no coração do seu povo. Esta é a chave: permanecer no coração do Senhor e no coração do povo!

Quando acolheu os seus discípulos e Se deu conta como voltavam cheios de alegria, a primeira coisa que Jesus faz é louvar e bendizer seu Pai. Isto indica-nos um aspeto fundamental da nossa vocação. Somos homens e mulheres de louvor. A pessoa consagrada é capaz de reconhecer e indicar a presença de Deus onde quer que se encontre. Além disso, quer viver na sua presença, que aprendeu a saborear, gozar e partilhar.

No louvor, descobrimos a nossa mais bela pertença e identidade, porque o louvor liberta o discípulo da ânsia pelo que «deveria ser feito» – aquela ansiedade que é uma traça, uma traça que corrói – e devolve-lhe o gosto da missão e de estar com o seu povo; ajuda-o a ajustar os «critérios» pelos quais se avalia a si mesmo, avalia os outros e toda a atividade missionária, para evitar o pouco sabor evangélico que às vezes tem.

Com frequência, podemos sucumbir à tentação de passar horas a falar dos «sucessos» ou dos «fracassos», da «utilidade» das nossas ações, ou da «influência» que podemos ter na sociedade ou noutro âmbito qualquer. Debates que acabam por ocupar o primeiro lugar e o centro de toda a nossa atenção. Isto leva-nos muitas vezes a sonhar programas apostólicos cada vez maiores, meticulosos e bem elaborados, mas típicos dos generais derrotados, que acabam por negar a nossa história, bem como a história do vosso povo, que é gloriosa por ser uma história de sacrifícios, de esperança, de luta diária, de vida gasta no serviço, de constância no trabalho fadigoso (cf. Francisco, Exort. ap. Evangelii gaudium, 96).

Louvando, aprendemos a sensibilidade de não «perder a bússola», para não fazer dos meios fins, nem do supérfluo o que é importante; aprendemos a liberdade de implementar processos mais do que procurar ocupar espaços (cf. ibid., 223); a gratuidade de promover tudo o que faz o povo de Deus crescer, amadurecer e frutificar, em vez de nos vangloriarmos dum «ganho» pastoral fácil, rápido, mas efémero. Até certo ponto, uma grande parte da nossa vida, da nossa alegria e da nossa fecundidade missionária decide-se neste convite de Jesus ao louvor. Como gostava de assinalar aquele homem sábio e santo que foi Romano Guardini, «aquele que adora a Deus nos seus sentimentos mais profundos e também – quando tem tempo – na realidade dos seus atos concretos, está abrigado na verdade. Pode-se equivocar em muitas coisas; pode estar sobrecarregado e desconcertado pelo peso das suas próprias ações; mas, em última análise, a direção e a ordem da sua existência estão seguras» (Pequena Suma Teológica, Madrid 1963, 29), no louvor, na adoração.

Os setenta e dois discípulos estavam conscientes de que o sucesso da missão dependera do facto de a terem cumprido «em nome do Senhor Jesus». Foi isto que os deixou maravilhados… Não se ficou a dever às suas virtudes, aos seus nomes, nem aos seus títulos; não carregavam panfletos de propaganda com o seu retrato; não foi a sua fama nem o seu projeto que cativou e salvou as pessoas. A alegria dos discípulos nascia da certeza de fazer as coisas em nome do Senhor, de viver o seu projeto, de partilhar a sua vida; e esta apaixonara-os de tal modo que se sentiram impelidos também a partilhá-lo com os outros.

E é interessante notar que Jesus resume a ação dos seus discípulos falando da vitória sobre o poder de Satanás; um poder que, por nós sozinhos, nunca podemos vencer, mas no nome de Jesus, sim! Cada um de nós pode dar testemunho destas batalhas e também de algumas derrotas. Nos inúmeros domínios mencionados onde exerceis a vossa obra evangelizadora, travais batalha em nome de Jesus. Em seu nome, prevaleceis sobre o mal, quando ensinais a louvar o Pai celeste e quando ensinais, com simplicidade, o Evangelho e o catecismo, quando visitais e assistis uma pessoa doente ou quando ofereceis o conforto da reconciliação. Em seu nome, sois vencedores dando de comer a uma criança, salvando uma mãe do desespero de ficar sozinha a cuidar de tudo, dando trabalho a um pai de família. É uma luta, uma luta vitoriosa aquela que se combate contra a ignorância, garantindo uma educação; é-o também quando se leva a presença de Deus ao contribuir para o respeito de todas as criaturas, na ordem e perfeição que lhes pertence, evitando o seu abuso ou exploração; e são sinais da vossa vitória também, quando plantais uma árvore ou ajudais a fornecer água potável a uma família. Grande sinal de vitória sobre o mal é quando vos aplicais a fazer recobrar a saúde a milhares de pessoas.

Continuai com estas batalhas, mas sempre na oração e no louvor, no louvor de Deus!

A luta, vivemo-la também em nós mesmos. Deus frustra a influência do espírito do mal, aquele espírito que muitas vezes nos transmite «uma preocupação exacerbada pelos espaços pessoais de autonomia e relaxamento, que leva a viver os próprios deveres como mero apêndice da vida, como se não fizessem parte da própria identidade. Ao mesmo tempo, a vida espiritual confunde-se com alguns momentos religiosos que proporcionam algum alívio, mas não alimentam o encontro com os outros, o compromisso no mundo, a paixão pela evangelização» (Evangelii gaudium, 78). Então, em vez de ser homens e mulheres de louvor, podemo-nos tornar «profissionais do sagrado». Ao contrário, derrotemos o espírito do mal no seu próprio terreno, ou seja, onde ele nos convida a apegar-nos a garantias económicas, a espaços de poder e glória humana, respondamos com a disponibilidade e a pobreza evangélica que nos levam a dar a nossa vida pela missão (cf. ibid., 76). Por favor, não deixemos que nos roubem a alegria missionária!

Queridos irmãos e irmãs, Jesus louva o Pai, porque revelou estas coisas aos «pequeninos». Estes pequeninos somos nós, porque a nossa alegria, a nossa felicidade está precisamente nesta revelação que Ele nos fez: a pessoa simples «vê e escuta» aquilo que nem os sábios, nem os profetas, nem os reis podem ver e escutar: a presença de Deus nos doentes e atribulados, naqueles que têm fome e sede de justiça, nos misericordiosos (cf. Mt 5, 3-12; Lc 6, 20-23). Felizes sois vós, feliz Igreja dos pobres e para os pobres, porque vive impregnada do perfume do seu Senhor, vive jubilosa, anunciando a Boa Nova aos descartados da terra, àqueles que são os preferidos de Deus.

Transmiti às vossas comunidades a certeza do meu afeto e proximidade, da minha oração e a minha bênção. Nesta bênção que vos darei em nome do Senhor, convido-vos a pensar nas vossas comunidades, nos vossos lugares de missão, para que o Senhor continue a abençoar todas as pessoas onde quer que se encontrem. Possais vós continuar a ser sinal da sua presença viva no meio de nós!

E, por favor, não vos esqueçais de rezar e fazer rezar por mim!

Papa Francisco:

E, antes de terminar, gostaria de cumprir um dever de justiça e gratidão. Este é o último discurso dos nove que foram traduzidos pelo padre Marcel. Vou fazê-lo corar um pouco, porque terá de traduzir também isto. Mas quero agradecer ao tradutor. Padre Marcel [vira-se para ele], obrigado por este trabalho que fizeste, quero agradecer-te pelo modo preciso e também pela liberdade de dar sentido às palavras da tradução. Agradeço-te imenso e que o Senhor te abençoe.

[01367-PO.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

Drodzy bracia i siostry, myślałem, że kiedy przyniesiono mi ten stół, to po to, bym mógł coś zjeść, a tymczasem chodzi o to, bym coś powiedział.

Dziękuję wam za serdeczne powitanie. Chciałbym skierować moje pierwsze słowa szczególnie do wszystkich kapłanów i osób konsekrowanych, którzy nie mogli odbyć podróży z powodu problemów zdrowotnych, ciężaru lat lub jakichś niedogodności. Pomódlmy się wszyscy razem za nich w milczeniu. [Modlą się w milczeniu]

Kończąc moją wizytę tutaj na Madagaskarze, widząc waszą radość, ale także myśląc na nowo o wszystkim, co przeżyłem w tym tak krótkim czasie na waszej Wyspie, wypływają z mego serca następujące słowa Jezusa zapisane w Ewangelii św. Łukasza, gdy rozradowany powiedział: „Wysławiam Cię, Ojcze, Panie nieba i ziemi, że zakryłeś te rzeczy przed mądrymi i roztropnymi, a objawiłeś je prostaczkom” (10, 21). Radość tę potwierdzają wasze świadectwa, ponieważ nawet to, co ukazujecie jako problemy, jest oznaką żywego, dynamicznego Kościoła, który stara się być każdego dnia obecnością Pana. Kościoła, który jak powiedziała siostra Suzanne stara się być każdego dnia bliższy ludu: nie o oddzielać się od ludu, zawsze podążać z ludem Bożym.

Jest to zachętą do wdzięcznej pamięci o tych, którzy nie bali się i postawili na Jezusa Chrystusa i Jego królestwo, a dziś macie udział w ich dziedzictwie. Przed wami są korzenie: korzenie ewangelizacji na tym terenie. Jesteście dziedzictwem. Ale wy także pozostawicie dziedzictwo innym. Myślę o zgromadzeniu misjonarzy, jezuitach, Siostrach św. Józefa z Cluny, Braciach Szkół Chrześcijańskich, saletynach i wszystkich innych pionierach, biskupach, kapłanach i osobach konsekrowanych. Ale myślę też o wielu świeckich, którzy w trudnych czasach prześladowań, kiedy wielu misjonarzy i ludzi konsekrowanych musiało wyjechać, byli tymi, którzy podtrzymywali płomień wiary na tych ziemiach. Zachęca to nas do przypomnienia sobie naszego chrztu, jako pierwszego i największego sakramentu, przez który zostaliśmy naznaczeni pieczęcią dzieci Bożych. Cała reszta jest wyrazem i przejawem tej pierwotnej miłości, do której odnowienia jesteśmy zawsze wezwani.

Cytowane przez mnie zdanie Ewangelii należy do modlitwy uwielbienia wzniesionej przez Pana, gdy powitał siedemdziesięciu dwóch uczniów powracających z misji. Podobnie jak wy, podjęli oni wyzwanie bycia Kościołem „wychodzącym” i wrócili z pełnymi torbami, aby podzielić się wszystkim, co widzieli i usłyszeli. Odważyliście się wyjść i przyjęliście wyzwanie, aby nieść światło Ewangelii do różnych zakątków tej wyspy.

Wiem, że wielu z was żyje w trudnych warunkach, gdzie brakuje podstawowych usług (wody, elektryczności, dróg, środków komunikacji) lub zasobów ekonomicznych, by rozwijać życie i działalność duszpasterską. Wielu z was odczuwa na ramionach, nie mówiąc już o waszym zdrowiu, ciężar trudów apostolskich. Ale postanowiliście pozostać i być u boku swojego ludu, blisko swojego ludu, ze swoim ludem. Dziękuję wam za to. Bardzo dziękuję za wasze świadectwo bycia blisko waszego ludu, dziękuję za chęć pozostania tutaj, a nie czynienia z powołania „przejścia do lepszego życia”! Dziękuję za to. I pozostania tutaj ze świadomością, jak to powiedziała siostra, siostra Suzanne, „pomimo naszych nędz i słabości, angażujemy się całymi sobą we wspaniałą misję ewangelizacji”. Osoba konsekrowana (w szerokim znaczeniu tego słowa) jest kobietą, mężczyzną, którzy nauczyli się i chcą trwać w sercu swego Pana i w sercu Jego ludu. To jest kluczem: trwanie w sercu Pana i w sercu ludu.

Pierwszą rzeczą, jaką czyni Jezus witając i słuchając uczniów powracających z radością, jest chwalenie i błogosławienie swego Ojca, i to nam wskazuje aspekt fundamentalny naszego powołania. Jesteśmy mężczyznami i kobietami uwielbienia. Osoba konsekrowana jest zdolna do rozpoznawania i wskazywania obecności Boga tam, gdzie jest. Co więcej, chce żyć w Jego obecności, której nauczyła się rozkoszować, zasmakować i dzielić z innymi.

W uwielbieniu odkrywamy naszą przynależność i naszą najpiękniejszą tożsamość, ponieważ uwielbienie uwalnia ucznia z obsesji „trzeba by było”, tej obsesji, która jest zgryzotą, robakiem, który rujnuje i przywraca mu na nowo zamiłowanie do misji, a także zamiłowanie do przebywania ze swoim ludem; pomaga mu doprecyzować „kryteria”, za pomocą których ocenia siebie samego, ocenia innych i wszelką działalność misyjną, aby uniknąć sytuacji, gdy czasami ma ona niewiele posmaku ewangelicznego.

Często możemy ulec pokusie spędzania wielu godzin na rozmowach o „sukcesach” lub „porażkach”, „użyteczności” naszych działań lub „wpływie”, jaki możemy mieć w społeczeństwie czy jakimkolwiek środowisku. Dyskusje te w końcu zajmują pierwsze miejsce i są w centrum całej naszej uwagi. To nierzadko prowadzi nas do marzeń o ekspansjonistycznych, drobiazgowych i dobrze nakreślonych, planach apostolskich... lecz typowych dla generałów pokonanych wojsk, którzy w ostateczności przekreślają naszą historię - jak również historię waszego ludu – która jest chwalebna, ponieważ jest historią ofiar, nadziei, codziennej walki, życia spędzonego na służbie, wytrwałości w żmudnej pracy (por. Adhort. apost. Evangelii gaudium, 96).

Wysławiając Boga uczymy się wrażliwości, żeby „nie stracić orientacji” i nie uczynić ze środków naszych celów, z rzeczy zbędnych tego, co ważne; nabywamy wolności uczenia się rozpoczynania procesów zamiast dążenia do zajmowania przestrzeni (por. tamże, 223); bezinteresowności promowania wszystkiego, co sprawia, że lud Boży rośnie, dojrzewa i wydaje owoce, zamiast chwalić się pewnym duszpasterskim „zyskiem” łatwym, szybkim, ale ulotnym. W pewnym sensie znaczna część naszego życia, naszej radości i naszej owocności misyjnej rozgrywa się w tym zaproszeniu Jezusa do uwielbienia. Jak to lubił podkreślać ten mądry i święty człowiek, jakim był Romano Guardini: „Kto - w swoim wnętrzu, bezustannie, gdy tylko ma na to czas autentycznie i w żywym akcie - adoruje Pana, ten jest chroniony w prawdzie. Może popełniać wiele błędów, być rozchwiany i bezradny - a jednak pewne są końcowe kierunki i porządki jego istnienia” (Wyznanie wiary, Poznań 2013, s.16), w uwielbieniu, w adoracji.

Siedemdziesięciu dwóch uczniów miało świadomość, że powodzenie misji zależało od jej wypełniania „w imię Pana Jezusa”. To ich zadziwiało. Nie z powodu ich cnót, ich nazwisk czy tytułów... Nie nosili ze sobą ulotek propagandowych ze swoimi podobiznami; to nie ich sława ani projekt urzekły i zbawiały ludzi. Radość uczniów zrodziła się z pewności czynienia wszystkiego w imię Pana, z przeżywania Jego projektu, uczestniczenia w Jego życiu, które umiłowali tak bardzo, że doprowadziło ich ono także do dzielenia go z innymi.

Warto zauważyć, że Jezus podsumowuje działanie swoich uczniów mówiąc o zwycięstwie nad mocą Szatana, mocą, której my sami nigdy nie możemy pokonać, ale w imię Jezusa, jest to możliwe! Każdy z nas może zaświadczyć o tych bitwach... a także o pewnych porażkach. Kiedy wspominacie o niezliczonych obszarach, na których wypełniacie swoje dzieło ewangelizacji, prowadzicie tę walkę w imię Jezusa. W Jego imię pokonujecie zło, gdy uczcie wychwalać Ojca niebieskiego i kiedy z prostotą nauczacie Ewangelii i katechizmu, kiedy odwiedzacie i wspieracie chorego lub kiedy przynosicie pocieszenie pojednania. W Jego imieniu odnosicie zwycięstwo, dając pożywienie dziecku, ratując matkę przed rozpaczą, gdy jest sama wobec wszystkiego, dając pracę ojcu rodziny… Zwycięską walką jest ta walka, którą się prowadzi, by zwalczać niewiedzę, gdy daje się edukację. Wnoszeniem obecności Boga jest także pomoc w poszanowaniu we właściwym im ładzie i doskonałości wszystkich stworzeń, unikając ich zużycia lub wyzysku. Do oznak Jego zwycięstwa należy także zasadzenie drzewa lub pomoc w zapewnieniu rodzinie wody pitnej. Jakim znakiem zwycięstwa nad złem jest wasze staranie o przywrócenie zdrowia tysiącom osób!

Nadal prowadźcie te bitwy, ale zawsze w modlitwie i wielbieniu! W wielbieniu Boga!

Przeżywamy walkę także w nas samych. Bóg udaremnia wpływ ducha zła, ducha, który często napełnia nas „przesadnym zatroskaniem o osobiste przestrzenie autonomii i odprężenia, prowadzącym do przeżywania własnych zadań jako czystego dodatku do życia, tak jakby nie stanowiły one części własnej tożsamości. Jednocześnie życie duchowe myli się z niektórymi momentami religijnymi przynoszącymi pewną ulgę, ale nie prowadzącymi do spotkania z innymi, do zaangażowania w świecie, do pasji ewangelizowania” (Adhort. apost. Evangelii gaudium, n. 78). W ten sposób zamiast być kobietami i mężczyznami uwielbienia, możemy stać się „profesjonalistami od sacrum”. Przeciwnie, pokonajmy ducha zła na jego własnym terenie; tam, gdzie zachęca nas do przywiązania do bezpieczeństwa ekonomicznego, do przestrzeni władzy i ludzkiej chwały, odpowiedzmy przez odpowiedzialność i ewangeliczne ubóstwo, które prowadzą nas do oddania życia za misję (por. tamże, n. 76). Proszę was, nie pozwólmy ukraść sobie radości misyjnej!

Drodzy bracia i siostry, Jezus wychwala Ojca, ponieważ objawił te rzeczy „maluczkim”. Jesteśmy maluczcy, ponieważ naszą radością, naszym szczęściem jest właśnie to objawienie, jakie nam uczynił: prostaczek „widzi i słucha” tego, czego nie mogą widzieć i słyszeć ani mędrcy, ani prorocy, ani królowie: mianowicie obecności Boga w cierpiących i uciśnionych, w głodnych i spragnionych sprawiedliwości, w tych, którzy są miłosierni (por. Mt 5, 3-12, Łk 6, 20-23). Szczęśliwi jesteście, szczęśliwy jest Kościół ubogi i dla ubogich, ponieważ żyje będąc przesączonym wonią swego Pana, żyje radośnie, głosząc Dobrą Nowinę zepchniętym na margines mieszkańcom ziemi, tym, których Bóg szczególnie umiłował.

Przekażcie waszym wspólnotom moją miłość i bliskość, moją modlitwę i moje błogosławieństwo. Kiedy będę wam udzielał błogosławieństwa w imię Pana, zachęcam was do pomyślenia o waszych wspólnotach, o waszych miejscach misji, aby Pan nadal błogosławił wszystkim tym ludziom, gdziekolwiek się znajdują. Obyście nadal byli znakiem Jego żywej obecności pośród nas!

I proszę nie zapomnijcie się modlić i prosić o modlitwę za mnie!

Papież Franciszek:

I zanim zakończę chciałbym wypełnić obowiązek sprawiedliwości i wdzięczności. Jest to ostatnie przemówienie z dziewięciu, które zostały przetłumaczone przez ojca Marcela. Sprawię, że poczuje się trochę zawstydzony, ponieważ będzie musiał to również przetłumaczyć, ale chciałbym podziękować tłumaczowi, ojcu Marcelowi, [zwraca się do niego] za pracę, którą wykonałeś, podziękować Tobie za dokładność, a także za swobodę, aby nadać sens słowom tłumaczenia. Dziękuję Tobie bardzo i niech Pan Ci błogosławi.

[01367-PL.02] [Testo originale: Italiano]

 

[B0676-XX.02]