Omelia del Santo Padre
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Alle ore 17.20 di oggi, il Santo Padre Francesco ha lasciato in auto il Vaticano per recarsi nel quartiere romano di Casal Bertone ove ha presieduto i riti del Corpus Domini, Solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, secondo il calendario liturgico della Chiesa italiana.
Alle ore 17.45, il Papa ha celebrato la Santa Messa sul sagrato della parrocchia di Santa Maria Consolatrice.
Al termine della Celebrazione Eucaristica si è svolta la processione con il Santissimo Sacramento, che è stata guidata dall’Em.mo Card. Angelo De Donatis, Vicario di Sua Santità per la Diocesi di Roma, attraverso alcune strade del quartiere romano di Casal Bertone. La processione si è conclusa nel Campo Sportivo “Roma 6”, adiacente a Casa Serena, struttura di accoglienza per senza fissa dimora dei Missionari della Carità, dove il Santo Padre ha impartito la benedizione eucaristica. Al termine il Papa ha fatto rientro in Vaticano.
Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Santo Padre ha pronunciato nel corso della Celebrazione Eucaristica:
Omelia del Santo Padre
La Parola di Dio ci aiuta oggi a riscoprire due verbi semplici, due verbi essenziali per la vita di ogni giorno: dire e dare.
Dire. Melchisedek, nella prima Lettura, dice: «Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, e benedetto sia il Dio altissimo» (Gen 14,19-20). Il dire di Melchisedek è benedire. Benedice Abramo, nel quale saranno benedette tutte le famiglie della terra (cfr Gen 12,3; Gal 3,8). Tutto parte dalla benedizione: le parole di bene generano una storia di bene. Lo stesso accade nel Vangelo: prima di moltiplicare i pani, Gesù li benedice: «prese i cinque pani, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli» (Lc 9,16). La benedizione fa di cinque pani il cibo per una moltitudine: fa sgorgare una cascata di bene.
Perché benedire fa bene? Perché è trasformare la parola in dono. Quando si benedice, non si fa qualcosa per sé, ma per gli altri. Benedire non è dire belle parole, non è usare parole di circostanza: no; è dire bene, dire con amore. Così ha fatto Melchisedek, dicendo spontaneamente bene di Abramo, senza che questi avesse detto o fatto qualcosa per lui. Così ha fatto Gesù, mostrando il significato della benedizione con la distribuzione gratuita dei pani. Quante volte anche noi siamo stati benedetti, in chiesa o nelle nostre case, quante volte abbiamo ricevuto parole che ci hanno fatto bene, o un segno di croce sulla fronte… Siamo diventati benedetti il giorno del Battesimo, e alla fine di ogni Messa veniamo benedetti. L’Eucaristia è una scuola di benedizione. Dio dice bene di noi, suoi figli amati, e così ci incoraggia ad andare avanti. E noi benediciamo Dio nelle nostre assemblee (cfr Sal 68,27), ritrovando il gusto della lode, che libera e guarisce il cuore. Veniamo a Messa con la certezza di essere benedetti dal Signore, e usciamo per benedire a nostra volta, per essere canali di bene nel mondo.
Anche per noi: è importante che noi Pastori ci ricordiamo di benedire il popolo di Dio. Cari sacerdoti, non abbiate paura di benedire, benedire il popolo di Dio; cari sacerdoti, andate avanti con la benedizione: il Signore desidera dire bene del suo popolo, è contento di far sentire il suo affetto per noi. E solo da benedetti possiamo benedire gli altri con la stessa unzione d’amore. È triste invece vedere con quanta facilità oggi si fa il contrario: si maledice, si disprezza, si insulta. Presi da troppa frenesia, non ci si contiene e si sfoga rabbia su tutto e tutti. Spesso purtroppo chi grida di più e più forte, chi è più arrabbiato sembra avere ragione e raccogliere consenso. Non lasciamoci contagiare dall’arroganza, non lasciamoci invadere dall’amarezza, noi che mangiamo il Pane che porta in sé ogni dolcezza. Il popolo di Dio ama la lode, non vive di lamentele; è fatto per le benedizioni, non per le lamentazioni. Davanti all’Eucaristia, a Gesù fattosi Pane, a questo Pane umile che racchiude il tutto della Chiesa, impariamo a benedire ciò che abbiamo, a lodare Dio, a benedire e a non maledire il nostro passato, a donare parole buone agli altri.
Il secondo verbo è dare. Al “dire” segue il “dare”, come per Abramo che, benedetto da Melchisedek, «diede a lui la decima di tutto» (Gen 14,20). Come per Gesù che, dopo aver recitato la benedizione, dava il pane perché fosse distribuito, svelandone così il significato più bello: il pane non è solo prodotto di consumo, è mezzo di condivisione. Infatti, sorprendentemente, nel racconto della moltiplicazione dei pani non si parla mai di moltiplicare. Al contrario, i verbi utilizzati sono “spezzare, dare, distribuire” (cfr Lc 9,16). Insomma, non si sottolinea la moltiplicazione, ma la con-divisione. È importante: Gesù non fa una magia, non trasforma i cinque pani in cinquemila per poi dire: “Adesso distribuiteli”. No. Gesù prega, benedice quei cinque pani e comincia a spezzarli, fidandosi del Padre. E quei cinque pani non finiscono più. Questa non è magia, è fiducia in Dio e nella sua provvidenza.
Nel mondo sempre si cerca di aumentare i guadagni, di far lievitare i fatturati… Sì, ma qual è il fine? È il dare o l’avere? Il condividere o l’accumulare? L’“economia” del Vangelo moltiplica condividendo, nutre distribuendo, non soddisfa la voracità di pochi, ma dà vita al mondo (cfr Gv 6,33). Non avere, ma dare è il verbo di Gesù.
È perentoria la richiesta che Lui fa ai discepoli: «Voi stessi date loro da mangiare» (Lc 9,13). Proviamo a immaginare i ragionamenti che avranno fatto i discepoli: “Non abbiamo pane per noi e dobbiamo pensare agli altri. Perché dobbiamo dare loro da mangiare, se loro sono venuti ad ascoltare il nostro Maestro? Se non hanno portato da mangiare, tornino a casa, è un problema loro, oppure ci diano dei soldi e compreremo”. Non sono ragionamenti sbagliati, ma non sono quelli di Gesù, che non sente ragioni: voi stessi date loro da mangiare. Ciò che abbiamo porta frutto se lo diamo – ecco cosa vuole dire Gesù –; e non importa che sia poco o tanto. Il Signore fa grandi cose con la nostra pochezza, come con i cinque pani. Egli non compie prodigi con azioni spettacolari, non ha la bacchetta magica, ma agisce con cose umili. Quella di Dio è un’onnipotenza umile, fatta solo di amore. E l’amore fa grandi cose con le piccole cose. L’Eucaristia ce lo insegna: lì c’è Dio racchiuso in un pezzetto di pane. Semplice, essenziale, Pane spezzato e condiviso, l’Eucaristia che riceviamo ci trasmette la mentalità di Dio. E ci porta a dare noi stessi agli altri l’antidoto contro il “mi spiace, ma non mi riguarda”, contro il “non ho tempo, non posso, non è affare mio”. Contro il guardare dall’altra parte.
Nella nostra città affamata di amore e di cura, che soffre di degrado e abbandono, davanti a tanti anziani soli, a famiglie in difficoltà, a giovani che stentano a guadagnarsi il pane e ad alimentare i sogni, il Signore ti dice: “Tu stesso dà loro da mangiare”. E tu puoi rispondere: “Ho poco, non sono capace per queste cose”. Non è vero, il tuo poco è tanto agli occhi di Gesù se non lo tieni per te, se lo metti in gioco. Anche tu, mettiti in gioco. E non sei solo: hai l’Eucaristia, il Pane del cammino, il Pane di Gesù. Anche stasera saremo nutriti dal suo Corpo donato. Se lo accogliamo col cuore, questo Pane sprigionerà in noi la forza dell’amore: ci sentiremo benedetti e amati, e vorremo benedire e amare, a cominciare da qui, dalla nostra città, dalle strade che stasera percorreremo. Il Signore viene sulle nostre strade per dire-bene, dire bene di noi e per darci coraggio, dare coraggio a noi. Chiede anche a noi di essere benedizione e dono.
[01119-IT.02] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua francese
La Parole de Dieu nous aide aujourd’hui à redécouvrir deux verbes simples, deux verbes essentiels pour la vie de chaque jour: dire et donner.
Dire. Melchisédech, dans la première Lecture, dit: «Béni soit Abram par le Dieu très-haut et béni soit le Dieu très-haut» (Gn 14, 19-20). Le dire de Melchisédech est de bénir. Il bénit Abraham, celui en qui seront bénies toutes les familles de la terre (cf. Gn 12, 3; Ga 3, 8). Tout part de la bénédiction: les paroles de bien engendrent une histoire de bien. La même chose arrive dans l’évangile: avant de multiplier les pains, Jésus les bénit: «il prit les cinq pains et les deux poissons, et, levant les yeux au ciel, il prononça la bénédiction sur eux, les rompit et les donna à ses disciples» (Lc 9, 16). La bénédiction fait des cinq pains la nourriture pour une multitude: il fait jaillir une cascade de bien.
Pourquoi bénir fait du bien? Parce que c’est transformer la parole en don. Quand on bénit, on ne fait pas quelque chose pour soi, mais pour les autres. Bénir n’est pas dire de belles paroles, ce n’est pas utiliser des paroles de circonstance: non; c’est dire du bien, dire avec amour. Melchisédech a fait ainsi, en disant spontanément du bien d’Abraham, sans que celui ait dit ou fait quelque chose pour lui. Ainsi a fait Jésus, en montrant la signification de la bénédiction avec la distribution gratuite des pains. Combien de fois nous aussi, nous avons été bénis, à l’église ou dans nos maisons, combien de fois nous avons reçu des paroles qui nous ont fait du bien, ou un signe de croix sur le front…Nous sommes devenus bénis le jour de notre Baptême, et à la fin de chaque Messe nous sommes bénis. L’Eucharistie est une école de bénédiction. Dieu dit du bien de nous, ses enfants aimés, et ainsi il nous encourage à aller de l’avant. Et nous bénissons Dieu dans nos assemblées (cf. Ps 68, 27), en retrouvant le goût de la louange qui libère et guérit le cœur. Nous venons à la Messe avec la certitude d’être bénis par le Seigneur et nous sortons pour bénir à notre tour, pour être des canaux de bien dans le monde.
Pour nous aussi: il est important que, nous les Pasteurs, nous nous souvenions de bénir le peuple de Dieu. Chers prêtres, n’ayez pas peur de bénir, bénir le peuple de Dieu; chers prêtres, allez de l’avant avec la bénédiction: le Seigneur désire dire du bien de son peuple, il est heureux de faire sentir son amour pour nous. Et seulement en tant que bénis nous pouvons bénir les autres avec la même onction d’amour. C’est triste en revanche de voir avec quelle facilité aujourd’hui on fait le contraire: on maudit, on méprise, on insulte. Pris par trop de frénésie, on ne se contient pas et on déverse sa colère sur tout et sur tous. Souvent malheureusement, celui qui crie le plus et plus fort, celui qui est le plus en colère semble avoir raison et créer un consensus. Ne nous laissons pas contaminer par l’arrogance, ne nous laissons pas envahir par l’amertume, nous qui mangeons le Pain qui porte en soi toute douceur. Le peuple de Dieu aime la louange, il ne vit pas de plaintes; il est fait pour les bénédictions, non pour les lamentations. Devant l’Eucharistie, Jésus qui s’est fait Pain, ce Pain humble qui contient le tout de l’Église, apprenons à bénir ce que nous avons, à louer Dieu, à bénir et à ne pas maudire notre passé, à offrir de bonnes paroles aux autres.
Le second verbe est donner. Au “dire” fait suite le “donner”, comme Abraham qui, béni par Melchisédech, «lui donna le dixième de tout» (Gn 14, 20). Comme pour Jésus qui, après avoir récité la bénédiction, donnait le pain pour qu’il fût distribué, en dévoilant ainsi la signification la plus belle: le pain n’est pas seulement un produit de consommation, c’est un moyen de partage. En fait, de manière surprenante, dans le récit de la multiplication des pains, on ne parle jamais de multiplier. Au contraire, les verbes utilisés sont: “rompre, donner, distribuer” (cf. Lc 9, 16). En somme, on ne souligne pas la multiplication, mais le partage. C’est important: Jésus ne fait pas de magie, il ne transforme pas les cinq pains en cinq mille pour dire après: “Maintenant distribuez-les”. Non. Jésus prie, bénit ces cinq pains et commence à les rompre, en se confiant au Père. Et ces cinq pains ne finissent plus. Ce n’est pas de la magie, c’est la confiance en Dieu et en sa providence.
Dans le monde, on cherche toujours à augmenter les gains, à gonfler les factures…Oui, mais à quelle fin? C’est le donner ou l’avoir? Le partager ou l’accumuler? L’“économie” de l’Évangile multiplie en partageant, nourrit en distribuant, ne satisfait pas la voracité de quelques-uns, mais donne la vie au monde (cf. Jn 6, 33). Ce n’est pas avoir, mais donner le verbe de Jésus.
Elle est péremptoire la demande qu’il fait à ses disciples: «Donnez-leur vous-mêmes à manger» (Lc 9, 13). Essayons d’imaginer les raisonnements qu’ont dû faire les disciples: “Nous n’avons pas de pain pour nous et nous devons penser aux autres? Pourquoi devons-nous leur donner à manger, s’ils sont venus écouter notre Maître? S’ils n’ont pas porté à manger, qu’ils rentrent chez eux, c’est leur problème, ou bien qu’ils nous donnent de l’argent et nous achèterons”. Ce ne sont pas des raisonnements faux, mais ce ne sont pas ceux de Jésus, qui ne veut rien entendre: donnez-leur vous-mêmes à manger. Ce que nous avons porte du fruit si nous le donnons – voilà ce que veut nous dire Jésus –; et peu importe que cela soit peu ou beaucoup. Le Seigneur fait de grandes choses avec notre petitesse, comme avec les cinq pains. Il n’accomplit pas de prodiges par des actions spectaculaires, il n’a pas de baguette magique, mais il agit avec des choses humbles. Dieu est une toute-puissance humble, faite seulement d’amour. Et l’amour fait de grandes choses avec des petites choses. L’Eucharistie nous l’enseigne: là, il y a Dieu contenu dans un morceau de pain. Simple, essentiel, Pain rompu et partagé, l’Eucharistie que nous recevons nous transmet le mode de pensée de Dieu. Et elle nous amène à nous donner nous-mêmes aux autres. C’est l’antidote contre le “ça me plaît, mais ça ne me regarde pas”, contre le “je n’ai pas de temps, je ne peux pas, ce n’est pas mon affaire”. Contre le fait de fermer les yeux.
Dans notre ville affamée d’amour et d’attention, qui souffre de dégradation et d’abandon, face à de nombreuses personnes âgées seules, à des familles en difficulté, à des jeunes qui ont du mal à gagner leur vie et à alimenter leurs rêves, le Seigneur te dit: “ Donne-leur toi-même à manger”. Et tu peux répondre: “J’ai peu de choses, je ne suis pas capable pour ce genre de chose”. Ce n’est pas vrai, ton peu de choses est beaucoup aux yeux de Jésus, si tu ne le gardes pas pour toi, si tu le mets en jeu. Toi aussi, mets-toi en jeu. Et tu n’es pas seul: tu as l’Eucharistie, le Pain du chemin, le Pain de Jésus. Même ce soir nous serons nourris par son Corps donné. Si nous l’accueillons avec le cœur, ce Pain libèrera en nous la force de l’amour: nous nous sentirons bénis et aimés, et nous voudrons bénir et aimer, en commençant par ici, par notre ville, par les rues que ce soir nous emprunterons. Le Seigneur vient dans nos rues pour dire-du bien, dire du bien de nous et pour donner du courage, nous donner du courage. Il nous demande d’être bénédiction et don.
[01119-FR.02] [Texte original: Italien]
Traduzione in lingua inglese
Today, God’s word helps us to appreciate more deeply two verbs that are simple, yet essential for daily life: to speak and to give.
To speak. In the first reading, Melchizedek says: “Blessed be Abram by God Most High… and blessed be God Most High” (Gen 14:19-20). For Melchizedek, to speak is to bless. He blesses Abraham, in whom all the families of the earth will be blessed (cf. Gen 12:3; Gal 3:8). Everything begins with blessing: words of goodness create a history of goodness. The same thing happens in the Gospel: before multiplying the loaves, Jesus blesses them: “Taking the five loaves, he looked up to heaven and blessed and broke them, and gave them to the disciples” (Lk 9:16). A blessing turns five loaves into food enough for a great crowd: the blessing releases a cascade of goodness.
Why is it good to bless? Because it turns a word into a gift. When we bless, we are not doing something for ourselves, but for others. Blessing is not about saying nice words or trite phrases. No, it is about speaking goodness, speaking with love. That is what Melchizedek did, when he spontaneously blessed Abram, who had not said or done anything for him. Jesus did the same thing, and he showed what the blessing meant by freely distributing the loaves. How many times too, have we been blessed, in church or in our homes? How many times have we received words of encouragement, or a sign of the cross on our forehead? We were blessed on the day of our baptism, and we are blessed at the end of every Mass. The Eucharist is itself a school of blessing. God blesses us, his beloved children, and thus encourages us to keep going. And we, in turn, bless God in our assemblies (cf. Ps 68:26), rediscovering the joy of praise that liberates and heals the heart. We come to Mass, certain that we will be blessed by the Lord, and we leave in order to bless others in turn, to be channels of goodness in the world.
This is also true for us: it is important for us pastors to keep blessing God’s people. Dear priests, do not be afraid to give a blessing, to bless the People of God. Dear priests, continue to bless: the Lord wants to bless his people; he is happy to make us feel his affection for us. Only as those who are themselves blessed, can we in turn bless others with that same anointing of love. It is sad to think of how easily people today do the opposite: they curse, despise and insult others. In the general frenzy, we lose control and vent our rage on everything and everyone. Sadly, those who shout most and loudest, those angriest, often appeal to others and persuade them. Let us avoid being infected by that arrogance; let us not let ourselves be overcome by bitterness, for we eat the Bread that contains all sweetness within it. God’s people love to praise, not complain; we were created to bless, not grumble. In the presence of the Eucharist, Jesus who becomes bread, this simple bread that contains the entire reality of the Church, let us learn to bless all that we have, to praise God, to bless and not curse all that has led us to this moment, and to speak words of encouragement to others.
The second verb is to give. “Speaking” is thus followed by “giving”. This was the case with Abraham who, after being blessed by Melchizedek, “gave him a tenth of everything” (Gen 14:20). It was the case, too, with Jesus who after reciting the blessing, gave the loaves to be distributed among the crowd. This tells us something very beautiful. Bread is not only something to be consumed; it is a means of sharing. Surprisingly, the account of the multiplication of the loaves does not mention the multiplication itself. On the contrary, the words that stand out are: “break”, “give” and “distribute” (cf. Lk 9:16). In effect, the emphasis is not on the multiplication but the act of sharing. This is important. Jesus does not perform a magic trick; he does not change five loaves into five thousand and then to announce: “There! Distribute them!” No. Jesus first prays, then blesses the five loaves and begins to break them, trusting in the Father. And those five loaves never run out. This is no magic trick; it is an act of trust in God and his providence.
In the world, we are always trying to increase our profits, to raise our income. But why? Is it to give, or to have? To share or to accumulate? The “economy” of the Gospel multiplies through sharing, nourishes through distributing. It does not sate the greed of a few, but gives life to the world (cf. Jn 6:33). The verb Jesus uses is not to have but to give.
He tells his disciples straight out: “You give them something to eat” (Lk 9:13). We can imagine the thoughts that went through their minds: “We don’t have enough bread for ourselves, and now we are supposed to think about others? Why do we have to give them something to eat, if they came to hear our Teacher? If they didn’t bring their own food, let them go back home, it’s their problem; or else give us some money to buy food”. This way of thinking is not wrong, but it isn’t the way Jesus thinks. He will have none of it: “You give them something to eat”. Whatever we have can bear fruit if we give it away – that is what Jesus wants to tell us – and it does not matter whether it is great or small. The Lord does great things with our littleness, as he did with the five loaves. He does not work spectacular miracles or wave a magic wand; he works with simple things. God’s omnipotence is lowly, made up of love alone. And love can accomplish great things with little. The Eucharist teaches us this: for there we find God himself contained in a piece of bread. Simple, essential, bread broken and shared, the Eucharist we receive allows us to see things as God does. It inspires us to give ourselves to others. It is the antidote to the mindset that says: “Sorry, that is not my problem”, or: “I have no time, I can’t help you, it’s none of my business”. Or that looks the other way…
In our city that hungers for love and care, that suffers from decay and neglect, that contains so many elderly people living alone, families in difficulty, young people struggling to earn their bread and to realize their dreams, the Lord says to each one of you: “You yourself give them something to eat”. You may answer: “But I have so little; I am not up to such things”. That is not true; your “little” has great value in the eyes of Jesus, provided that you don’t keep it to yourself, but put it in play. Put yourself in play! You are not alone, for you have the Eucharist, bread for the journey, the bread of Jesus. Tonight too, we will be nourished by his body given up for us. If we receive it into our hearts, this bread will release in us the power of love. We will feel blessed and loved, and we will want to bless and love in turn, beginning here, in our city, in the streets where we will process this evening. The Lord comes to our streets in order to speak a blessing for us and to give us courage. And he asks that we too be blessing and gift for others.
[01119-EN.02] [Original text: Italian]
Traduzione in lingua tedesca
Das Wort Gottes hilft uns heute, zwei einfache Verben wiederzuentdecken, zwei wesentliche Verben für das alltägliche Leben: sagen und geben.
Sagen. Melchisedek sagte in der ersten Lesung: »Gesegnet sei Abram vom Höchsten Gott […] und gepriesen sei der Höchste Gott« (Gen 14,19-20). Das Sagen des Melchisedek ist segnen. Er segnet Abram, in dem alle Sippen der Erde gesegnet werden (vgl. Gen 12,3; Gal 3,8). Alles geht vom Segen aus: Die Worte des Guten bringen eine Geschichte des Guten hervor. Dasselbe geschieht im Evangelium: Bevor Jesus die Brote vermehrt, segnet er sie: Er »nahm die fünf Brote […], blickte zum Himmel auf, sprach den Lobpreis und brach sie; dann gab er sie den Jüngern« (Lk 9,16). Der Segen macht aus fünf Broten die Speise für eine Menschenmenge: Er lässt eine Sturzflut des Guten entspringen.
Warum tut es gut, zu segnen? Weil es das Verwandeln des Wortes in Gabe ist. Wenn man segnet, tut man nicht etwas für sich, sondern für die anderen. Segnen ist nicht schöne Worte sagen, nicht Förmlichkeiten wiedergeben: nein, es ist Gutes sagen, mit Liebe sprechen. So hat es Melchisedek gemacht, als er von sich aus gut über Abram sprach, ohne dass dieser etwas für ihn gesagt oder getan hätte. So hat es Jesus getan, als er die Bedeutung des Segens an der unentgeltlichen Verteilung der Brote aufzeigte. Wie oft sind auch wir gesegnet worden, in der Kirche oder in unseren Häusern, wie oft haben wir Worte gehört, die uns gutgetan haben, oder ein Kreuzzeichen auf die Stirn entgegengenommen … Wir sind am Tag der Taufe Gesegnete geworden und am Ende jeder Messe werden wir gesegnet. Die Eucharistie ist eine Schule des Segens. Gott sagt Gutes über uns, über seine geliebten Kinder, und ermutigt uns so, weiterzugehen. Auch wir preisen Gott in unseren Versammlungen (vgl. Ps 68,27) und finden den Geschmack des Lobes, das das Herz befreit und heilt. Kommen wir zur Messe mit der Gewissheit, vom Herrn gesegnet zu sein, und gehen wir hinaus, um unserseits zu segnen, um Kanäle des Guten in der Welt zu sein.
Auch für uns ist es wichtig, dass wir Hirten uns daran erinnern, das Volk Gottes zu segnen. Liebe Priester, habt keine Angst zu segnen, das Volk Gottes zu segnen; liebe Priester, geht weiter mit dem Segen: Der Herr möchte über sein Volk Gutes sagen, er freut sich, seine Zuneigung für uns spürbar werden zu lassen. Und nur als Gesegnete können wir die anderen mit der gleichen Liebessalbung segnen. Es ist hingegen traurig zu sehen, mit welcher Leichtigkeit man heute das Gegenteil macht: man verflucht, man verachtet, man beleidigt. Von zu viel negativer Stimmung erfasst beherrscht man sich nicht, und man lässt die Wut über alles und alle heraus. Oftmals scheint leider der, der mehr und stärker schreit, der wütender ist, Recht zu bekommen und Zustimmung zu ernten. Lassen wir uns nicht von der Arroganz anstecken, lassen wir uns nicht von der Bitterkeit einnehmen, wir, die wir das Brot essen, das alle Erquickung in sich birgt. Das Volk Gottes liebt das Lob, es lebt nicht von Klagen; es ist für die Segnungen gemacht, nicht für das Gejammer. Vor der Eucharistie, vor Jesus, der unter der Brotgestalt gegenwärtig wird, vor diesem bescheidenen Brot, das die Gesamtheit der Kirche in sich birgt, lernen wir, das zu segnen, was wir haben; Gott zu loben; über unsere Vergangenheit gut zu sprechen und sie nicht zu verfluchen; den anderen gute Worte zu schenken.
Das zweite Verb ist geben. Dem „Sagen“ folgt das „Geben“ wie bei Abram, der von Melchisedek gesegnet, ihm »den Zehnten von allem gab« (Gen 14,20). Wie bei Jesus, der, nachdem er das den Segen gesprochen hatte, das Brot zum Austeilen gab und so dessen schönste Bedeutung enthüllte: Das Brot ist nicht nur Konsumprodukt, es ist Mittel des Teilens. Denn in der Erzählung von der Brotvermehrung wird erstaunlicherweise niemals vom Vermehren gesprochen. Im Gegenteil, die verwendeten Verben sind „brechen, geben, austeilen“ (vgl. Lk 9,16). Es wird also nicht die Vermehrung unterstrichen, sondern das Teilen. Es ist wichtig: Jesus betreibt keine Magie, er verwandelt die fünf Brot nicht in fünftausend, um dann zu sagen: „Verteilt sie jetzt.“ Nein. Jesus betet, segnet diese fünf Brote und beginnt sie im Vertrauen auf den Vater zu brechen. Und diese fünf Brote gehen nicht mehr aus. Das ist nicht Magie, es ist Vertrauen auf Gott und auf seine Vorsehung.
In der Welt sucht man immer nach Vermehrung des Gewinns, nach Umsatzsteigerung... Ja, aber zu welchem Zweck? Zum Geben oder zum Haben? Zum Teilen oder zum Anhäufen? Die „Ökonomie“ des Evangeliums vermehrt durch Teilen, nährt durch Austeilen, sie befriedigt nicht die Gefräßigkeit der Wenigen, sondern sie gibt der Welt Leben (vgl. Joh 6,33). Nicht haben, sondern geben ist das Verb Jesu.
Die Forderung, die er an die Jünger richtet, ist deutlich: »Gebt ihr ihnen zu essen!« (Lk 9,13). Versuchen wir, uns die Gedankengänge vorzustellen, die die Jünger angestellt haben mögen: „Wir haben kein Brot für uns und wir müssen an die anderen denken? Warum müssen wir ihnen zu essen geben, wenn sie gekommen sind, um unserem Meister zuzuhören? Wenn sie nichts zu essen mitgebracht haben, sollen sie zurück nach Hause gehen. Es ist ihr Problem. Oder sie sollen uns Geld geben und wir werden etwas kaufen“. Es sind keine falschen Überlegungen, aber es sind nicht die Gedanken Jesu, der nicht darauf hört: Gebt ihr ihnen zu essen. Was wir haben, bringt Frucht, wenn wir es geben – das ist es, was Jesus uns sagen will –; und es macht nichts, ob es wenig oder viel ist. Der Herr tut große Dinge mit unserer Dürftigkeit wie mit den fünf Broten. Er vollbringt Wundertaten nicht mit spektakulären Aktionen, nicht mit dem Zauberstab, sondern mit bescheidenen Dingen. Die Allmacht Gottes ist eine demütige Allmacht, die nur aus Liebe besteht. Und die Liebe tut große Dinge mit den kleinen Dingen. Die Eucharistie lehrt es uns: Dort ist Gott in einem Stück Brot enthalten. Einfach, wesentlich als gebrochenes und geteiltes Brot vermittelt uns die Eucharistie, die wir empfangen, die Denkweise Gottes. Und sie bringt uns dazu, uns selbst den anderen zu geben. Sie ist Gegenmittel für das „Es tut mir leid, das geht mich nichts an“, für das „Ich habe keine Zeit, ich kann nicht, das ist nicht meine Angelegenheit“. Ein Gegenmittel für das von der Gegenfahrbahn Herübergaffen.
In unserer nach Liebe und Fürsorge hungernden Stadt, die unter Verfall und Vernachlässigung leidet, angesichts vieler einsamer alter Menschen, angesichts Familien in Schwierigkeiten, angesichts junger Menschen, die sich abmühen, sich das Brot zu verdienen und die Träume zu nähren, sagt der Herr dir: „Gib du selbst ihnen zu essen“. Und du kannst antworten: „Ich habe wenig, ich bin nicht fähig zu solchen Dingen“. Es ist nicht wahr, dein Weniges ist in den Augen Jesu viel, wenn du es nicht für dich behältst, wenn du es aufs Spiel setzt. Auch du, spiel mit! Und du bist nicht allein: Du hast die Eucharistie, das Brot für den Weg, das Brot Jesu. Auch heute Abend werden wir durch seinen hingeschenkten Leib genährt werden. Wenn wir ihn mit dem Herzen aufnehmen, wird dieses Brot in uns die Kraft der Liebe freisetzen: Wir werden uns gesegnet und geliebt fühlen und wir werden segnen und lieben wollen, ausgehend von hier, von unserer Stadt, von unseren Straßen, die wir heute Abend durchschreiten werden. Der Herr kommt auf unsere Straßen, um zu segnen, um „Gutes zu sagen“ – um von uns zu sagen: das ist gut – und um uns Mut zu geben, um uns zu ermutigen. Er bittet auch uns, Segen und Gabe zu sein.
[01119-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]
Traduzione in lingua spagnola
La Palabra de Dios nos ayuda hoy a redescubrir dos verbos sencillos, dos verbos esenciales para la vida de cada día: decir y dar.
Decir. En la primera lectura, Melquisedec dice: «Bendito sea Abrán por el Dios altísimo […]; bendito sea el Dios altísimo» (Gn 14,19-20). El decir de Melquisedec es bendecir. Él bendice a Abraham, en quien todas las familias de la tierra serán bendecidas (cf. Gn 12,3; Ga 3,8). Todo comienza desde la bendición: las palabras de bien engendran una historia de bien. Lo mismo sucede en el Evangelio: antes de multiplicar los panes, Jesús los bendice: «tomando él los cinco panes y los dos peces y alzando la mirada al cielo, pronunció la bendición sobre ellos, los partió y se los iba dando a los discípulos» (Lc 9,16). La bendición hace que cinco panes sean alimento para una multitud: hace brotar una cascada de bien.
¿Por qué bendecir hace bien? Porque es la transformación de la palabra en don. Cuando se bendice, no se hace algo para sí mismo, sino para los demás. Bendecir no es decir palabras bonitas, no es usar palabras de circunstancia: no; es decir bien, decir con amor. Así lo hizo Melquisedec, diciendo espontáneamente bien de Abraham, sin que él hubiera dicho ni hecho nada por él. Esto es lo que hizo Jesús, mostrando el significado de la bendición con la distribución gratuita de los panes. Cuántas veces también nosotros hemos sido bendecidos, en la iglesia o en nuestras casas, cuántas veces hemos escuchado palabras que nos han hecho bien, o una señal de la cruz en la frente... Nos hemos convertido en bendecidos el día del Bautismo, y al final de cada misa somos bendecidos. La Eucaristía es una escuela de bendición. Dios dice bien de nosotros, sus hijos amados, y así nos anima a seguir adelante. Y nosotros bendecimos a Dios en nuestras asambleas (cf. Sal 68,27), recuperando el sabor de la alabanza, que libera y sana el corazón. Vamos a Misa con la certeza de ser bendecidos por el Señor, y salimos para bendecir nosotros a su vez, para ser canales de bien en el mundo.
También para nosotros: es importante que los pastores nos acordemos de bendecir al pueblo de Dios. Queridos sacerdotes, no tengáis miedo de bendecir, bendecir al pueblo de Dios. Queridos sacerdotes: Id adelante con la bendición: el Señor desea decir bien de su pueblo, está feliz de que sintamos su afecto por nosotros. Y solo en cuanto bendecidos podremos bendecir a los demás con la misma unción de amor. Es triste ver con qué facilidad hoy se hace lo contrario: se maldice, se desprecia, se insulta. Presos de un excesivo arrebato, no se consigue aguantar y se descarga la ira con cualquiera y por cualquier cosa. A menudo, por desgracia, el que grita más y con más fuerza, el que está más enfadado, parece que tiene razón y recibe la aprobación de los demás. Nosotros, que comemos el Pan que contiene en sí todo deleite, no nos dejemos contagiar por la arrogancia, no dejemos que la amargura nos llene. El pueblo de Dios ama la alabanza, no vive de quejas; está hecho para las bendiciones, no para las lamentaciones. Ante la Eucaristía, ante Jesús convertido en Pan, ante este Pan humilde que contiene todo el bien de la Iglesia, aprendamos a bendecir lo que tenemos, a alabar a Dios, a bendecir y no a maldecir nuestro pasado, a regalar palabras buenas a los demás.
El segundo verbo es dar. El “decir” va seguido del “dar", como Abraham que, bendecido por Melquisedec, «le dio el diezmo de todo» (Gn 14,20). Como Jesús que, después de recitar la bendición, dio el pan para ser distribuido, revelando así el significado más hermoso: el pan no es solo un producto de consumo, sino también un modo de compartir. En efecto, sorprende que en la narración de la multiplicación de los panes nunca se habla de multiplicar. Por el contrario, los verbos utilizados son “partir, dar, distribuir” (cf. Lc 9,16). En resumen, no se destaca la multiplicación, sino el compartir. Es importante: Jesús no hace magia, no transforma los cinco panes en cinco mil y luego dice: “Ahora, distribuidlos”. No. Jesús reza, bendice esos cinco panes y comienza a partirlos, confiando en el Padre. Y esos cinco panes no se acaban. Esto no es magia, es confianza en Dios y en su providencia.
En el mundo siempre se busca aumentar las ganancias, incrementar la facturación... Sí, pero, ¿cuál es el propósito? ¿Es dar o tener? ¿Compartir o acumular? La “economía” del Evangelio multiplica compartiendo, nutre distribuyendo, no satisface la voracidad de unos pocos, sino que da vida al mundo (cf. Jn 6,33). El verbo de Jesús no es tener, sino dar.
La petición que él hace a los discípulos es perentoria: «Dadles vosotros de comer» (Lc 9,13). Tratemos de imaginar el razonamiento que habrán hecho los discípulos: “¿No tenemos pan para nosotros y debemos pensar en los demás? ¿Por qué deberíamos darles nosotros de comer, si a lo que han venido es a escuchar a nuestro Maestro? Si no han traído comida, que vuelvan a casa, es su problema, o que nos den dinero y lo compraremos”. No son razonamientos equivocados, pero no son los de Jesús, que no escucha otras razones: Dadles vosotros de comer. Lo que tenemos da fruto si lo damos —esto es lo que Jesús quiere decirnos—; y no importa si es poco o mucho. El Señor hace cosas grandes con nuestra pequeñez, como hizo con los cinco panes. No realiza milagros con acciones espectaculares, no tiene la varita mágica, sino que actúa con gestos humildes. La omnipotencia de Dios es humilde, hecha sólo de amor. Y el amor hace obras grandes con lo pequeño. La Eucaristía nos los enseña: allí está Dios encerrado en un pedacito de pan. Sencillo y esencial, Pan partido y compartido, la Eucaristía que recibimos nos transmite la mentalidad de Dios. Y nos lleva a entregarnos a los demás. Es antídoto contra el “lo siento, pero no me concierne”, contra el “no tengo tiempo, no puedo, no es asunto mío”; contra el mirar desde la otra orilla.
En nuestra ciudad, hambrienta de amor y atención, que sufre la degradación y el abandono, frente a tantas personas ancianas y solas, familias en dificultad, jóvenes que luchan con dificultad para ganarse el pan y alimentar sus sueños, el Señor te dice: “Tú mismo, dales de comer”. Y tú puedes responder: “Tengo poco, no soy capaz para estas cosas”. No es verdad, lo poco que tienes es mucho a los ojos de Jesús si no lo guardas para ti mismo, si lo arriesgas. También tú, arriesga. Y no estás solo: tienes la Eucaristía, el Pan del camino, el Pan de Jesús. También esta tarde nos nutriremos de su Cuerpo entregado. Si lo recibimos con el corazón, este Pan desatará en nosotros la fuerza del amor: nos sentiremos bendecidos y amados, y querremos bendecir y amar, comenzando desde aquí, desde nuestra ciudad, desde las calles que recorreremos esta tarde. El Señor viene a nuestras calles para decir-bien, decir bien de nosotros y para darnos ánimo, darnos ánimo a nosotros. También nos pide que seamos don y bendición.
[01119-ES.02] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua portoghese
Hoje, a Palavra de Deus ajuda-nos a descobrir dois verbos simples, dois verbos essenciais para a vida de cada dia: dizer e dar.
Dizer. Na primeira leitura, Melquisedec diz: «Abençoado seja Abrão pelo Deus Altíssimo, e bendito seja o Deus Altíssimo» (Gn 14, 19-20). O dizer de Melquisedec é bendizer. Abençoa Abrão, em quem serão abençoadas todas as famílias da terra (Gn 12, 3; Gal 3, 8). Tudo parte da bênção: as palavras de bem geram uma história de bem. O mesmo acontece no Evangelho: antes de multiplicar os pães, Jesus abençoa-os: «tomou os cinco pães, ergueu os olhos ao Céu, pronunciou sobre eles a bênção, partiu-os e foi-os dando aos discípulos» (Lc 9, 16). De cinco pães, a bênção faz alimento para uma multidão: faz brotar uma cascata de bem.
Por que faz bem abençoar? Porque é transformar a palavra em dom. Quando se abençoa, não se está a fazer uma coisa para si mesmo, mas para os outros. Abençoar não é dizer palavras bonitas, nem usar palavras de circunstância. Não é isso, mas é dizer bem, dizer com amor. Assim fez Melquisedec: espontaneamente diz bem de Abrão, sem que este tenha dito ou feito algo por ele. Assim fez Jesus, mostrando o significado da bênção com a distribuição gratuita dos pães. Quantas vezes fomos abençoados, também nós, na igreja ou nas nossas casas! Quantas vezes recebemos palavras que nos fizeram bem, ou um sinal da cruz na fronte! Fomos abençoados no dia do Batismo e, no final de cada Missa, somos abençoados. A Eucaristia é uma escola de bênção. Deus diz bem de nós, seus filhos amados, encorajando-nos assim a continuar. E nós bendizemos a Deus nas nossas assembleias (cf. Sal 68, 27), reencontrando o gosto do louvor, que liberta e cura o coração. Vimos à Missa com a certeza de ser abençoados pelo Senhor, e saímos para, por nossa vez, abençoarmos, para sermos canais de bem no mundo.
Vale também para nós: é importante que nós, Pastores, nos lembremos de abençoar o povo de Deus. Queridos sacerdotes, não tenhais medo de abençoar! Abençoar o povo de Deus: queridos sacerdotes, continuai a abençoar! O Senhor quer dizer bem do seu povo; fica feliz em fazer-nos sentir o seu carinho por nós. E só depois de abençoados é que podemos abençoar os outros com a mesma unção de amor. Entretanto, é triste ver hoje quão facilmente se faz o contrário: se amaldiçoa, despreza, insulta. Assaltados por demasiado frenesi, não nos contemos, desafogando a raiva sobre tudo e todos. Muitas vezes, infelizmente, é quem grita mais e mais forte, é quem está mais irritado que parece ter razão e obter consensos. Não nos deixemos contagiar pela arrogância, não nos deixemos invadir pela amargura, nós que comemos o Pão que em si contém toda a doçura. O povo de Deus ama o louvor, não vive de lamentações; está feito para a bênção, não para a lamentação. Diante da Eucaristia, de Jesus que Se fez Pão, deste Pão humilde que contém a totalidade da Igreja, aprendamos a bendizer o que temos, a louvar a Deus, a abençoar e não a amaldiçoar o nosso passado, a dar boas palavras aos outros.
O segundo verbo é dar. Ao «dizer», segue-se o «dar», como no caso de Abrão que, abençoado por Melquisedec, «deu-lhe o dízimo de tudo» (Gn 14, 20); como no caso de Jesus que, depois de pronunciar a bênção, dava o pão para ser distribuído, desvendando assim o seu significado mais belo: o pão não é apenas produto de consumo, mas recurso de partilha. De facto, na narração da multiplicação dos pães, surpreendentemente nunca se fala de multiplicar. Na verdade, os verbos usados são «partir, dar, distribuir» (cf. Lc 9, 16). Em suma, não se destaca a multiplicação, mas a partilha. É importante: Jesus não realiza uma magia, não transforma os cinco pães em cinco mil, para depois dizer: «Agora distribuí-os». Não. Jesus reza, abençoa aqueles cinco pães e começa a parti-los, confiando no Pai. E não se esgotam mais aqueles cinco pães… Isto não é magia, mas confiança em Deus e na sua providência.
No mundo, procura-se sempre aumentar os lucros, aumentar o volume de negócios... Sim, mas com que finalidade? É o dar ou o ter? O partilhar ou o acumular? A «economia» do Evangelho multiplica partilhando, alimenta distribuindo; não satisfaz a voracidade de poucos, mas dá vida ao mundo (cf. Jo 6, 33). O verbo de Jesus não é ter, mas dar.
E a solicitação que Ele faz aos discípulos é categórica: «Dai-lhes vós de comer» (Lc 9,13). Tentemos imaginar os raciocínios que terão feito os discípulos: «Não temos pão para nós, e devemos pensar nos outros? Por que devemos dar-lhes de comer, se eles vieram para escutar o nosso Mestre? Se não trouxeram comida, voltem para casa – é um problema deles –, ou então deem-nos dinheiro e nós compraremos». Não é que sejam errados estes raciocínios, mas não são os de Jesus, que não ouve razões: dai-lhes vós mesmos de comer. Aquilo que temos só produz fruto se o dermos (isto é o que nos quer dizer Jesus!); e não importa se é pouco ou muito. O Senhor faz grandes coisas com o nosso pouquinho, como no caso dos cinco pães. Ele não realiza prodígios com ações espetaculares, não tem a varinha mágica, mas atua com coisas humildes. A omnipotência de Deus é humilde, feita apenas de amor; e o amor faz grandes coisas com as coisas pequenas. Assim no-lo ensina a Eucaristia: n’Ela, está Deus encerrado num bocado de pão. Simples, essencial, pão partido e partilhado, a Eucaristia que recebemos transmite-nos a mentalidade de Deus. E leva a darmo-nos, a nós mesmos, aos outros. É antídoto contra afirmações como estas: «lamento, mas não me diz respeito», «não tenho tempo, não posso, não é da minha conta». Antídoto contra o virar a cara para o outro lado.
Na nossa cidade faminta de amor e solicitude, que sofre de degradação e abandono, perante tantos idosos sozinhos, famílias em dificuldade, jovens que dificilmente conseguem ganhar o pão e alimentar os seus sonhos, o Senhor diz-te: «Dá-lhes tu de comer». E tu podes retorquir: «Tenho pouco, não tenho capacidade ara estas coisas». Não é verdade! O teu pouco é tanto aos olhos de Jesus, se não o guardares para ti mas o colocares em jogo. E tu, entra também em jogo. E não estás sozinho: tens a Eucaristia, o Pão do caminho, o Pão de Jesus. Também nesta tarde, seremos alimentados pelo seu Corpo entregue. Se o recebermos com o coração, este Pão irradiará em nós a força do amor: sentir-nos-emos abençoados e amados, e teremos vontade de abençoar e amar, a começar daqui, da nossa cidade, das estradas que vamos percorrer nesta tarde. O Senhor passa pelas nossas estradas para dizer-bem, dizer bem de nós e para nos dar coragem, dar coragem a nós. A nós, pede-nos também para sermos bênção e dom.
[01119-PO.02] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua polacca
Słowo Boże pomaga nam dzisiaj odkryć na nowo dwa proste i istotne dla codziennego życia czasowniki: mówić i dawać.
Mówić. W pierwszym czytaniu Melchizedek mówi: „Niech będzie błogosławiony Abram przez Boga Najwyższego… Niech będzie błogosławiony Bóg Najwyższy” (Rdz 14,19-20). Mówienie Melchizedeka jest błogosławieniem. Błogosławi Abrahama, przez którego błogosławione będą wszystkie rodziny ziemi (por. Rdz 12, 3; Ga 3, 8). Wszystko zaczyna się od błogosławieństwa: słowa dobra rodzą dzieje dobra. To samo ma miejsce w Ewangelii: przed rozmnożeniem chlebów Jezus je pobłogosławił: „wziął te pięć chlebów i dwie ryby, spojrzał w niebo i odmówiwszy nad nimi błogosławieństwo, połamał i dawał uczniom” (Łk 9,16). Błogosławieństwo czyni z pięciu chlebów pożywienie dla wielu: sprawia, że wypływa wodospad dobra.
Dlaczego błogosławienie sprawia dobro? Ponieważ zamienia słowo w dar. Kiedy błogosławisz, nie czynisz czegoś dla siebie, ale dla innych. Błogosławienie to nie jest wypowiadanie pięknych słów, to nie używanie słów okolicznościowych; nie – to wypowiedzenie dobra, powiedzenie z miłością. Tak uczynił Melchizedek, mówiąc spontanicznie dobrze o Abrahamie, chociaż on nic dla niego nie zrobił, ani nie powiedział. Tak uczynił Jezus, ukazując znaczenie błogosławieństwa poprzez darmowe rozdzielenie chleba. Ileż razy my także zostaliśmy pobłogosławieni, w kościele lub w naszych domach, ile razy otrzymaliśmy słowa, które uczyniły nam dobro, lub znak krzyża na naszych czołach... Zostaliśmy pobłogosławieni w dniu chrztu, i jesteśmy błogosławieni pod koniec każdej Mszy św. Eucharystia jest szkołą błogosławieństwa. Bóg dobrze mówi o nas, swoich umiłowanych dzieciach, i zachęca nas w ten sposób do pójścia naprzód. I błogosławimy Boga w naszych zgromadzeniach (por. Ps 68, 27), odnajdując smak uwielbienia, które wyzwala i uzdrawia serce. Przychodzimy na Mszę św. będąc pewni, że jesteśmy pobłogosławieni przez Pana i wychodzimy, aby z kolei błogosławić, aby być kanałami dobra w świecie.
Również dla nas ważne jest, abyśmy my, pasterze, pamiętali, by błogosławić lud Boży; drodzy kapłani, nie idźcie z błogosławieństwem. Pan pragnie dobrze mówić o swoim ludzie, jest szczęśliwy, kiedy odczuwamy, że nas miłuje. I tylko jako błogosławieni możemy błogosławić innych tym samym namaszczeniem miłości. Smutno natomiast, gdy widzimy, z jaką łatwością się dzisiaj robi się rzecz przeciwną: złorzeczy się, pogardza, wyzywa. Ogarnięci zbytnim pospiechem nie powstrzymujemy się i dajemy upust gniewowi na wszystko i na wszystkich. Niestety często ten, kto bardziej krzyczy jest silniejszy, a ten który jest bardziej rozzłoszczony zdaje się mieć rację i uzyskuje poparcie. Nie dajmy się zarazić arogancją, nie dajmy się ogarnąć goryczą, my, pożywający Chleb wszelką słodycz mający w sobie. Lud Boży kocha uwielbienie, nie żyje narzekaniami; jest stworzony dla błogosławieństw, a nie dla narzekań. W obliczu Eucharystii, Jezusa, który stał się Chlebem, z tego skromnego Chleba, który ogrania cały Kościół, uczymy się błogosławić to, co mamy, chwalić Boga, błogosławić, a nie przeklinać naszą przeszłość, dawać dobre słowa innym.
Drugi czasownik to dawać. Po „mówieniu” następuje „dawanie”, jak w przypadku Abrahama, który pobłogosławiony przez Melchizedeka „dał mu dziesiątą część ze wszystkiego” (Rdz 14,20). Podobnie jak dla Jezusa, który po odmówieniu błogosławieństwa dał chleb, aby został rozdany, odsłaniając w ten sposób jego najpiękniejsze znaczenie: chleb nie jest jedynie produktem konsumpcyjnym, ale środkiem dzielenia się. Istotnie, co zaskakujące, w opisie rozmnożenia chlebów nigdy nie ma mowy o pomnażaniu. Przeciwnie, użyte czasowniki to „łamać, dawać, rozdzielać” (por. Łk 9,16). Innymi słowy nie podkreśla się rozmnożenia, lecz rozdzielanie. Ważne jest to, że Jezus nie czyni magii, nie przekształca pięciu chlebów w pięć tysięcy, by potem powiedzieć: „A teraz je rozprowadzajcie”. Nie. Jezus modli się, błogosławi te pięć chlebów i zaczyna je łamać, ufając Ojcu. A te pięć chlebów nigdy się nie kończy. To nie jest magia, to zaufanie do Boga i do Jego opatrzności.
W świecie stale staramy się zwiększać zyski, powiększać obroty... Tak, ale jaki jest cel? Czy dawanie, czy posiadanie? Dzielenie się, czy gromadzenie? „Ekonomia” Ewangelii rozmnaża dzieląc się, karmi, rozdając, nie zaspokaja zachłanności nielicznych, lecz daje życie światu (por. J 6, 33). Czasownikiem Jezusa nie jest mieć, lecz dawać.
Kieruje On do uczniów stanowcze żądanie: „Wy dajcie im jeść” (Łk 9, 13). Spróbujmy wyobrazić sobie ich rozumowanie: „Nie mamy chleba dla nas, a musimy myśleć o innych? Dlaczego mielibyśmy ich karmić, skoro przyszli, aby słuchać naszego Mistrza? Jeśli nie przynieśli jedzenia, niech wracają do domu, to ich problem, lub dadzą nam pieniądze, a my kupimy”. Nie są to rozumowania błędne, ale nie są to argumenty Jezusa, którym dawałby posłuch: wy dajcie im jeść. Jezus chce nam powiedzieć, że to, co posiadamy, przynosi owoce, o ile to dajemy. I nie ma znaczenia, czy jest to mało, czy też dużo. Pan czyni wielkie rzeczy z naszą małością, tak jak z pięcioma chlebami. Nie dokonuje cudów za pomocą spektakularnych działań, nie za pomocą czarodziejskiej różdżki, lecz działa za pomocą rzeczy skromnych. Wszechmoc Boga jest wszechmocą pokorną, składającą się wyłącznie z miłości. A miłość czyni wielkie rzeczy za pomocą małych rzeczy. Tego nas uczy Eucharystia: jest w niej Bóg zawarty w okruszynie chleba. Prosty i istotny, Chleb łamany i dzielony, Eucharystia, którą przyjmujemy przekazuje nam mentalność Boga i prowadzi nas do dawania siebie innym. To antidotum na „przepraszam, ale mnie to nie dotyczy”, „nie mam czasu, nie mogę, to nie moja sprawa”. Antidotum na patrzenie w drugą stronę.
W naszym mieście spragnionym miłości i troski, cierpiącym z powodu degradacji i opuszczenia, w obliczu tak wielu samotnych osób starszych, rodzin w trudnej sytuacji, młodych ludzi którzy z trudem zarabiają na chleb i żywią swe marzenia, Pan mówi: „Ty sam daj im jeść”. I możesz odpowiedzieć: „Mam mało, nie jestem w stanie tego zrobić”. To nieprawda, twoje mało, to wiele w oczach Jezusa, jeśli nie będziesz tego trzymał dla siebie, jeśli to zaangażujesz. Ty również zaangażuj się. I nie jesteś sam: masz Eucharystię, Chleb pielgrzymowania, Chleb Jezusa. Również dziś wieczorem będziemy karmieni Jego ciałem, które dało siebie. Jeśli przyjmiemy je sercem, ten Chleb wyzwoli w nas moc miłości: poczujemy się błogosławieni i miłowani, i będziemy chcieli błogosławić i kochać, poczynając stąd, od naszego miasta, od ulic, które przemierzymy dziś wieczorem. Pan przychodzi na nasze ulice, aby dobrze powiedzieć, dobrze powiedzieć o nas i aby dać nam odwagę, dać odwagę nam. Chce także od nas, abyśmy byli błogosławieństwem i darem.
[01119-PL.02] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua araba
تساعدنا كلمة الله اليوم على اكتشاف اثنين من الأفعال البسيطة والأساسية في الحياة اليومية: يقول ويعطي.
القول. في القراءة الأولى، ملكيصادق يقول: "على أَبْرامَ بَرَكَةُ اللهِ العَلِيّ، وتبارَكَ اللهُ العَلِيّ" (تك 14، 19 - 20). إن قول ملكيصادق هو تبريك. يبارك إبراهيم، الذي فيه ستتبارك جميع عائلات الأرض (را. تك 12، 3؛ غلا 3، 8). فكل شيء يبدأ من البركة: فمن كلمات الخير تولد قصة الخير. يحدث الشيء نفسه في الإنجيل: قبل تكثير الأرغفة، يسوع يباركهم: "فأَخَذَ الأَرغِفَةَ الخَمسَةَ والسَّمَكَتَيْن، ورَفَعَ عَينَيهِ نَحوَ السَّماء، ثُمَّ بارَكَها وكَسَرَها وجَعلَ يُناوِلُها تَلاميذَه لِيُقَدِّموها لِلْجَمع" (لو 9 ، 16). إن البركة تحوِّل الخمسة أرغفة إلى طعام لعدد هائل من الجمع: فالبركة تصير شلالا يتدفق منه الخير.
لماذا البركة هي أمر جيد؟ لأنها تحول الكلمة إلى عطية. فعندما تبارك، أنت لا تفعل شيئًا من أجل نفسك، إنما من أجل الآخرين. أن تبارك لا يعني أن تقول كلمات طيبة، ولا تعني التفوه بكلمات المناسبات؛ أن تبارك يعني أن تقول خيرًا ، وأن تقوله بمحبة. هكذا فعل ملكيصادق، قائلًا خيرًا بإبراهيم، بطريقة تلقائية، دون أن يطلب منه أبراهيم شيئا أو أن يقدم له أي شيء. هكذا فعل يسوع، مظهرًا معنى البركة من خلال توزيع الخبر مجانًا. كم من مرة نحن أيضًا حصلنا على البركة، في الكنيسة أو في منازلنا، وكم من مرة سمعنا كلمات اسعدتنا، أو رُسِمت على جباهنا علامة الصليب... لقد أصبحنا مباركين في يوم المعمودية، وننال البركة في نهاية كل قداس. إن الإفخارستيا هي مدرسة البركة. يمنحنا الله خيرًا، نحن أبناءه المحبوبين، وهكذا يشجعنا على المضي قُدمًا. ونحن نبارك الله في جماعاتنا (را. مز 68، 27)، بإعادة اكتشاف طعم الحمد الذي يحرر القلب ويشفيه. نذهب إلى القداس بيقين أن الرب سيباركنا، ونخرج منه لنبارك، ولنصير بدورنا قنوات خير في العالم.
من المهم أن نتذكر، نحن الرعاة، أن نبارك شعب الله. أيها الكهنة الأعزاء، لا تخافوا من أن تباركوا، فالرب يرغب في قول الخير لشعبه، وهو سعيد أن يجعلنا نشعر بمحبته لنا. فالمبارَكون فقط بإمكانهم أن يبركوا الآخرين بنفس مسحة المحبة. من المحزن أن نرى اليوم مدى سهولة التفوه بكلمات اللعن، والتحقير ، والسَّب. فنحن الغارقين في زحام الحياة، نثور ونتهجم على كل شيء وعلى الجميع. وفي كثير من الأحيان للأسف يبدو أن من يصرخ أكثر هو الأقوى، ومن يغضب أكثر هو على حق ويحصل على التأييد. دعونا ألا نسمح لأنفسنا بأن تسيطر علينا الغطرسة، وبأن يغزونا الحنق، نحن الذين نأكل الخبز المقدس الذي يحمل معه كل حلاوة. إن شعب الله يحب الحمد، ولا يعيش بالتذمر؛ لقد صُنع من أجل البركة، لا من أجل التذمر. فنحن أمام القربان المقدس، أمام يسوع الذي صار خبزًا، أمام هذا الخبز المتواضع الذي يشمل الكنيسة بأكملها، علينا أن نتعلم مباركة ما لدينا، وتسبيح الله، علينا أن نبارك ماضنا لا أن نلعنه، وأن نعطي كلمات الخير للآخرين.
الفعل الثاني هو إعطاء. "القول" يتبعه "العطاء"، كما هو الحال بالنسبة لإبراهيم، الذي باركه ملكيصادق، فـ"أَعْطاه أَبْرامُ العُشْرَ مِن كُلِّ شَيء" (تك 14 ، 20). وكذلك يسوع الذي، بعد أن بارك، أعطى الخبز ليوزع، وبالتالي كشف عن أجمل المعاني: ليس الخبز مجرد منتجًا استهلاكيًّا، بل هو وسيلة للمشاركة. في الواقع، وبشكل مدهش، نتحدث في معجزة تكثير الأرغفة عن التكثير. إضافة لذلك، الأفعال المستخدمة هي "التكثير، والعطاء، والتوزيع" (را. لو 9، 16). باختصار ، في هذه المعجزة لا يتم التركيز على فعل التكثير، إنما على فعل المشاطرة. إنه أمر مهم: يسوع لا يقوم بأعمال سحرية، فهو لم يحوِّل الأرغفة الخمسة إلى خمسة آلاف ثم يقول: "الآن قوموا بتوزيعها". كلا، يسوع يصلي أولا، ويبارك تلك الأرغفة الخمسة، ويبدأ في كسرها، ويثق في الآب. إن تلك الأرغفة الخمسة لا تنتهي أبدًا. هذا ليس سحرًا، إنه الثقة في الله وفي رعايته.
إن العالم يلهث دائمًا وراء زيادة الأرباح، وزيادة حجم التداول ... نعم، ولكن ما هو الغرض من كل هذا اللهث؟ هل هو العطاء أم الأخذ؟ المقاسمة أم التكديس؟ إن "اقتصاد" الإنجيل يتزايد من خلال المشاركة، يُشبع من خلال التوزيع، إنه اقتصاد لا يلبي شراهة الفئة القليلة، إنما يمنح للعالم الحياة (را. يو 6، 33). فعمل يسوع لا يقوم على الأخذ بل على العطاء.
إن ما يطلبه يسوع من تلاميذه هو أمر هام للغاية: "أَعطوهُم أَنتُم ما يَأكُلون" (لو 9 ، 13). دعونا نتخيل الخواطر التي جالت بعقل التلاميذ: "ليس لدينا ما نطعم به أنفسنا وعلينا أن نفكر في الآخرين؟ لماذا يجب علينا إطعامهم، إن كانوا قد جاءوا للاستماع لمعلمنا؟ إن كانوا قد جاءوا بلا طعام ليعودوا إلى بيوتهم، أو ليعطونا المال كي نشتريه لهم". إنها ليست خواطر خاطئة، لكنها ليست خواطر يسوع، الذي لا يسمع لهذه الأفكار: أَعطوهُم أَنتُم ما يَأكُلون. إن ما لدينا يثمر إذا قدمناه - هذا ما يريد يسوع أن يقول لنا -؛ ولا يهم إذا كان قليلًا أو كثيرًا. فالرب يفعل أمورًا عظيمة من خلال صغرنا، كما فعل بالأرغفة الخمسة. إنه لا يقوم بالعجائب عبر أفعال مبهرة، وإنما عبر أشياء متواضعة، فيكسر بيديه، ويعطي، ويوزع، ويشارك. إن قدرة الله هي التواضع، قدرة مصنوعة فقط من الحب. والحب يفعل أشياء عظيمة عبر الأمور الصغيرة. تعلمنا الإفخارستيا هذا: ففي الخبر المكسور يوجد الله. إن القربان المقدس الذي نتناوله ينقل لنا فكر الله، البسيط والأساسي، الخبز المكسور والمُقَسَّم، وهذا يقودنا إلى إعطاء أنفسنا للآخرين. إنه الترياق ضد الـ "أنا آسف، لست معنيًّا"، وضد "لا وقت لدي، وليس بإمكاني، وليس من شأني".
في مدينتنا المتعطشة للحب والعناية، والتي تعاني من التدهور والإهمال، وأمام العديد من المسنين الوحيدين، وأمام العائلات التي تعاني من صعوبات، والشباب الذين يكافحون من أجل كسب الخبز وإطعام أحلامهم، يقول الرب لك: "أَعطهم أَنت ما يَأكُلون". بإمكانك أن تجاوبه: "لدي القليل، أنا غير قادر". هذا ليس صحيحًا، فقليلك في نظر يسوع هو كثير، إذا كنت لا تحتفظ به لنفسك، وإذا خاطرت بتقديمه. إنك لست بمفردك: لديك الإفخارستيا، خبز الطريق، خبز يسوع. إننا سنتغذى الليلة أيضًا بجسده المُقدَّم لنا. فإذا استقبلناه بقلوبنا، فإن هذا الخبز سيفجر فينا قوة المحبة: سنشعر بأننا مباركون ومحبوبون، وسنحتاج إلى أن نبارك ونحب، انطلاقًا من هنا، من مدينتنا، ومن الدروب التي سنسافر عليها الليلة. سيمشي الرب في شوارعنا ليقول لنا خيرًا وليشجعنا. كي يطلب منا أيضًا أن نكون بركة وعطية للآخرين.
[01119-AR.01] [Testo originale: Italiano]
[B0540-XX.02]