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Viaggio Apostolico di Papa Francesco in Bulgaria e nella Macedonia del Nord – Incontro con i Sacerdoti e le loro famiglie e i Religiosi, nella Cattedrale del Sacro Cuore di Gesù di Skopje, 07.05.2019


Incontro con i Sacerdoti e le loro famiglie e i Religiosi, nella Cattedrale del Sacro Cuore di Gesù di Skopje

Discorso del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Traduzione in lingua araba

Alle ore 16.45 di questo pomeriggio, il Santo Padre Francesco ha incontrato i Sacerdoti accompagnati dalle loro famiglie e i Religiosi nella Cattedrale del Sacro Cuore di Gesù di Skopje.

Al Suo arrivo, due suore eucaristine hanno offerto dei fiori al Papa che li ha deposti davanti al Santissimo. Poi dopo una breve preghiera silenziosa ha raggiunto l’altare per iniziare l’incontro.

Dopo il canto d’ingresso e l’indirizzo di saluto del Vescovo di Skopje, S.E. Mons. Kiro Stojanov, un sacerdote bizantino, accompagnato dalla sua famiglia, ha pronunciato la sua testimonianza cui hanno fatto seguito le testimonianze di un sacerdote latino e di una religiosa, intervallate dall’esecuzione di alcuni canti. Quindi il Santo Padre ha pronunciato il Suo discorso. Al termine dell’incontro, dopo la benedizione finale e un canto mariano e, dopo aver benedetto la prima pietra del Santuario di San Paolo, il Papa ha lasciato la Cattedrale e si è trasferito in auto all’Aeroporto di Skopje per la cerimonia di congedo dalla Macedonia del Nord.

Pubblichiamo di seguito il discorso che il Santo Padre ha pronunciato nel corso dell’incontro con i sacerdoti e i religiosi:

Discorso del Santo Padre

Cari fratelli e sorelle,

Grazie per l’opportunità che mi offrite di potervi incontrare. Vivo con speciale gratitudine questo momento nel quale posso vedere la Chiesa respirare appieno con i suoi due polmoni – rito latino e rito bizantino – per colmarsi dell’aria sempre nuova e rinnovatrice dello Spirito Santo. Due polmoni necessari, complementari, che ci aiutano a gustare meglio la bellezza del Signore (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 116). Rendiamo grazie per la possibilità di respirare insieme, a pieni polmoni, quanto è stato buono il Signore con noi.

Vi ringrazio per le vostre testimonianze, che vorrei riprendere. Voi accennavate al fatto di essere pochi e al rischio di cedere a qualche complesso di inferiorità. Mentre vi ascoltavo, mi veniva in mente l’immagine di Maria che, prendendo una libbra di nardo puro, unse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli. L’Evangelista conclude la descrizione della scena dicendo: «tutta la casa si riempì dell’aroma di quel profumo» (Gv 12,3). Quel nardo fu in grado di impregnare tutto e di lasciare un’impronta inconfondibile.

In non poche situazioni sentiamo la necessità di fare i conti: incominciamo a guardare quanti siamo... e siamo pochi; i mezzi che abbiamo… e sono pochi; poi vediamo la quantità di case e di opere da sostenere... e sono troppe... Potremmo continuare a enumerare le molteplici realtà in cui sperimentiamo la precarietà delle risorse che abbiamo a disposizione per portare avanti il mandato missionario che ci è stato affidato. Quando succede questo sembra che il bilancio sia “in rosso”.

È vero, il Signore ci ha detto: se vuoi costruire una torre, calcola le spese: «non accada che, una volta gettate le fondamenta, [tu] non sia in grado di finire il lavoro» (Lc 14, 29). Però il “fare i conti” ci può condurre alla tentazione di guardare troppo a noi stessi, e ripiegati sulle nostre realtà, sulle nostre miserie, possiamo finire quasi come i discepoli di Emmaus, proclamando il kerigma con le nostre labbra mentre il nostro cuore si chiude in un silenzio segnato da sottile frustrazione, che gli impedisce di ascoltare Colui che cammina al nostro fianco ed è fonte di gioia e allegria.

Fratelli e sorelle, “fare i conti” è sempre necessario quando ci può aiutare a scoprire e ad avvicinare tante vite e situazioni che pure ogni giorno stentano a far quadrare i conti: famiglie che non riescono ad andare avanti, persone anziane e sole, ammalati costretti a letto, giovani intristiti e senza futuro, poveri che ci ricordano quello che siamo: una Chiesa di mendicanti bisognosi della Misericordia del Signore. È lecito “fare i conti” solo se questo ci permette di metterci in movimento per diventare solidali, attenti, comprensivi e solleciti nell’accostare le stanchezze e la precarietà da cui sono sommersi tanti nostri fratelli bisognosi di una Unzione che li sollevi e li guarisca nella loro speranza.

È lecito fare i conti solo per dire con forza e implorare col nostro popolo: “Vieni Signore Gesù!”. Mi piacerebbe dirlo con voi, insieme: “Vieni Signore Gesù!”. Un’altra volta… [dicono: “Vieni Signore Gesù!”]

Non vorrei abusare della sua immagine, ma questa terra ha saputo regalare al mondo e alla Chiesa, in Madre Teresa, proprio un segno concreto di come la precarietà di una persona, unta dal Signore, sia stata capace di impregnare tutto, quando il profumo delle beatitudini si sparse sopra i piedi stanchi della nostra umanità. Quanti vennero tranquillizzati dalla tenerezza del suo sguardo, confortati dalla sua carezza, sollevati dalla sua speranza e alimentati dal coraggio della sua fede capace di far sentire ai più dimenticati che non erano dimenticati da Dio! La storia la scrivono queste persone che non hanno paura di spendere la loro vita per amore: ogni volta che lo avrete fatto al più piccolo dei miei fratelli, lo avrete fatto a me (cfr Mt 25,40). Quanta sapienza contengono le parole di Santa Teresa Benedetta della Croce quando afferma: «Sicuramente, gli avvenimenti decisivi della storia del mondo sono stati essenzialmente influenzati da anime sulle quali niente si dice nei libri di storia. E quali siano le anime che dobbiamo ringraziare per gli avvenimenti decisivi della nostra vita personale, è qualcosa che conosceremo soltanto il giorno in cui tutte le cose occulte verranno rivelate»[1].

Certamente coltiviamo tante volte fantasie senza limiti pensando che le cose sarebbero diverse se fossimo forti, se fossimo potenti o influenti. Ma non sarà che il segreto della nostra forza, potenza e influenza e persino della giovinezza stia da un’altra parte e non nel fatto che “quadrino i conti”? Vi domando questo, perché mi ha colpito la testimonianza di Davor quando ha condiviso con noi quello che ha segnato il suo cuore. Sei stato molto chiaro: quello che ti ha salvato dal carrierismo è stato il tornare alla prima vocazione, la prima chiamata, e andare a cercare il Signore risorto lì dove poteva essere incontrato. Sei partito, lasciando le sicurezze per camminare sulle vie e nelle piazze di questa città; lì hai sentito rinnovarsi la tua vocazione e la tua vita; abbassandoti alla vita quotidiana dei tuoi fratelli per condividere e ungere con il profumo dello Spirito, il tuo cuore sacerdotale cominciò a battere nuovamente con maggiore intensità.

Ti sei avvicinato ad ungere i piedi stanchi del Maestro, i piedi stanchi di persone concrete, lì dove si trovavano, e il Signore ti stava aspettando per ungerti nuovamente nella tua vocazione. Questo è molto importante. Per rinnovare noi stessi, tante volte dobbiamo andare indietro e incontrare il Signore, riprendere la memoria della prima chiamata. L’autore della Lettera agli Ebrei dice ai cristiani: “Ricordate i primi giorni”. Ricordare la bellezza di quell’incontro con Gesù che ci ha chiamato, e da quell’incontro con lo sguardo di Gesù prendere la forza per andare avanti. Mai perdere la memoria della prima chiamata! La memoria della prima chiamata è un “sacramentale”. In effetti, le difficoltà del lavoro apostolico potrei dire che ci “guastano” la vita, e si può perdere l’entusiasmo. Si può perdere anche la voglia di pregare, di incontrare il Signore. Se ti trovi così, fermati! Torna indietro e incontrati con il Signore della prima chiamata. Questa memoria ti salverà.

Molte volte spendiamo le nostre energie e risorse, le nostre riunioni, discussioni e programmazioni per conservare approcci, ritmi, prospettive che non solo non entusiasmano nessuno, ma che sono incapaci di portare un po’ di quell’aroma evangelico in grado di confortare e di aprire vie di speranza, e ci privano dell’incontro personale con gli altri. Come sono giuste le parole di Madre Teresa: «Ciò che non mi serve, mi pesa»![2] Lasciamo tutti i pesi che ci separano dalla missione e impediscono al profumo della misericordia di raggiungere il volto dei nostri fratelli. Una libbra di nardo è stata capace di impregnare tutto e di lasciare un’impronta inconfondibile.

Non priviamoci del meglio della nostra missione, non spegniamo i battiti dello spirito.

Grazie a voi, Padre Goce e Gabriella: siete stati coraggiosi nella vita! E ai vostri figli Filip, Blagoj, Luca, Ivan, per aver condiviso con noi le vostre gioie e preoccupazioni, del ministero e della vita familiare. E anche il segreto per andare avanti nei momenti difficili che avete dovuto passare. L’unione matrimoniale, la grazia matrimoniale nella vita ministeriale vi ha aiutato ad camminare così, come famiglia.

La vostra testimonianza ha quell’“aroma evangelico” delle prime comunità. Ricordiamo che «nel Nuovo Testamento si parla della “Chiesa che si riunisce nella casa” (cfr 1 Cor 16,19; Rm 16,5; Col 4,15; Fm 2). Lo spazio vitale di una famiglia si poteva trasformare in chiesa domestica, in sede dell’Eucaristia – quante volte hai celebrato l’Eucaristia in casa tua… –, della presenza di Cristo seduto alla stessa mensa. Indimenticabile è la scena dipinta nell’Apocalisse: “Sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (3,20). Così si delinea una casa che porta al proprio interno la presenza di Dio, la preghiera comune e perciò la benedizione del Signore» (Esort. ap. postsin. Amoris laetitia, 15). Così date viva testimonianza di come «la fede non ci allontana dal mondo, ma ci introduce più profondamente in esso» (ibid., 181). Non a partire da quello che a noi piacerebbe fosse, non come “perfetti”, non come immacolati, ma nella precarietà delle nostre vite, delle nostre famiglie unte ogni giorno nella fiducia dell’amore incondizionato che Dio ha per noi. Fiducia che ci porta, come bene ci hai ricordato, Padre Goce, a sviluppare alcune dimensioni tanto importanti quanto dimenticate nella società usurata dalle relazioni frenetiche e superficiali: le dimensioni della tenerezza, della pazienza e della compassione verso gli altri. E mi piacerebbe sottolineare qui l’importanza della tenerezza nel ministero presbiterale e anche nella testimonianza della vita religiosa. C’è il pericolo che quando non si vive in famiglia, quando non c’è il bisogno di accarezzare i propri figli, come Padre Goce, il cuore diventa un po’ “zitello”. E poi, c’è il pericolo che il voto di castità delle suore e anche dei preti celibatari si trasformi in voto di “zitelloni”. Quanto fanno male una suora “zitellona” o un prete “zitellone”! Per questo richiamo alla tenerezza. Oggi ho avuto la grazia di vedere suore con tanta tenerezza: quando sono andato al memoriale di Madre Teresa e ho visto le religiose, con quanta tenerezza curavano i poveri. Per favore: tenerezza. Mai sgridare. Acqua benedetta, mai l’aceto! Sempre con quella dolcezza del Vangelo che sa accarezzare le anime. Riprendendo una parola che ha detto il nostro fratello: lui ha parlato di carrierismo. Quando nella vita sacerdotale, nella vita religiosa entra il carrierismo, il cuore diventa duro, acido, e si perde la tenerezza. Il carrierista o la carrierista ha perso la capacità di accarezzare.

Mi piace sempre pensare a ciascuna famiglia come «icona della famiglia di Nazaret con la sua quotidianità fatta di stanchezze e persino di incubi, come quando dovette soffrire l’incomprensibile violenza di Erode, esperienza che tragicamente si ripete ancora oggi in tante famiglie di profughi miserabili e affamati» (ibid., 30). Esse sono capaci, per mezzo della fede accumulata attraverso le lotte quotidiane, di «trasformare una grotta di animali nella casa di Gesù, con alcune povere fasce e una montagna di tenerezza» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 286). I mezzi materiali ci vogliono, sono necessari, ma non sono la cosa più importante. Per questo, non bisogna perdere la capacità di accarezzare, non perdere la tenerezza ministeriale e la tenerezza della consacrazione religiosa.

Grazie di aver manifestato il volto familiare del Dio con noi che non smette di sorprenderci in mezzo alle stoviglie!

Cari fratelli, care sorelle, grazie ancora per questa opportunità ecclesiale di respirare a pieni polmoni. Chiediamo allo Spirito che non cessi di rinnovarci nella missione con la fiducia di sapere che Egli vuole impregnare tutto con la sua presenza.

E anche qui, vorrei ringraziare – tu proverai vergogna, adesso! –vorrei ringraziare uno di voi, sacerdote, padre di famiglia, che ha accettato di fare il traduttore. [applauso]

[Canto del Padre Nostro]

[Benedizione]

_______________________

[1] Verborgenes Leben und Epiphanie: GW XI, 145.
[2]
A. Comastri, Madre Teresa. Una goccia di acqua pulita, 39.

[00751-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Chers frères et sœurs,

Merci pour l’occasion que vous m’offrez de pouvoir vous rencontrer. Je vis avec une particulière gratitude ce moment où je peux voir l’Eglise respirer pleinement avec ses deux poumons – le rite latin et le rite byzantin – pour se remplir de l’air toujours nouveau et rénovateur de l’Esprit Saint. Deux poumons nécessaires, complémentaires, qui nous aident à mieux goûter la beauté du Seigneur (cf. Exhort. ap. Evangelii gaudium, n. 116). Rendons grâce pour la possibilité de respirer ensemble, à pleins poumons, combien le Seigneur a été bon avec nous.

Je vous remercie pour vos témoignages que je voudrais reprendre. Vous soulignez le fait d’être peu nombreux et le risque de céder à quelque complexe d’infériorité. Pendant que je vous écoutais, l’image de Marie me venait à l’esprit qui, en prenant une livre de nard pur, a oint les pieds de Jésus et les a essuyés avec ses cheveux. L’évangéliste achève la description de la scène en disant «La maison fut remplie de l’odeur du parfum » (Jn 12, 3). Ce nard a pu tout imprégner et laisser une emprunte caractéristique.

Dans de nombreuses situations, nous sentons la nécessité de faire les comptes: nous commençons par regarder combien nous sommes… et nous sommes peu nombreux; les moyens que nous avons… et ils sont peu nombreux; puis nous voyons la quantité de maisons et d’œuvres à soutenir… et elles sont trop… Nous pourrions continuer à énumérer les multiples réalités où nous faisons l’expérience de la précarité des ressources qui sont à notre disposition pour mener à bien le mandat missionnaire qui nous a été confié. Quand cela arrive, il semble que le bilan soit “dans le rouge”.

C’est vrai, le Seigneur nous a dit: si tu veux construire une tour, calcule la dépense: qu’il n’arrive pas qu’une fois jetées les fondations, tu ne sois pas en mesure d’achever (cf. Lc 14, 29). Mais, “faire les comptes” peut nous conduire à la tentation de trop nous regarder nous-mêmes, et, repliés sur nos réalités, sur nos misères, nous pourrions presque finir comme les disciples d’Emmaüs, en proclamant le kérygme des lèvres alors que notre cœur se ferme dans un silence marquéde subtiles frustrations qui empêchent d’écouter celui qui marche à nos côtés et qui est source de joie et d’allégresse.

Frères et sœurs, “faire les comptes” est toujours nécessaire quand cela peut nous aider à découvrir et à approcher tant de vies et de situations qui, tous les jours, ont du mal à boucler les comptes: familles qui n’arrivent pas à avancer, personnes âgées et seules, malades contraints de rester au lit, jeunes attristés et sans avenir, pauvres qui nous rappellent ce que nous sommes: une Église de mendiants qui ont besoin de la Miséricorde du Seigneur. On peut “faire les comptes” seulement si cela nous permet de nous mettre en mouvement pour devenir solidaires, attentifs, compréhensifs et prompts à écouter les fatigues et la précarité dont sont submergées tant de nos frères qui ont besoin d’une Onction qui les relève et les guérisse dans leur espérance.

Il est permis de faire les comptes seulement pour dire avec force et implorer avec notre peuple: “Viens Seigneur Jésus!”. J’aimerais le dire avec vous, ensemble: “Viens, Seigneur Jésus!”. Une autre fois… [Ils disent: “Viens Seigneur Jésus!”]

Je ne voudrais pas abuser de son image, mais cette terre a su offrir au monde et à l’Eglise, en Mère Teresa, un signe concret de la manière dont la précarité d’une personne, ointe par le Seigneur, a été capable de tout imprégner, quand le parfum des béatitudes s’est répandu sur les pieds fatigués de notre humanité. Combien sont retournés apaisés par la tendresse de son regard, réconfortés par sa caresse, relevés par son espérance et nourris par le courage de sa foi capable de faire sentir aux plus oubliés qu’ils n’étaient pas oubliés de Dieu! L’histoire, ce sont ces personnes qui l’écrivent qui n’ont pas peur de dépenser leur vie par amour: chaque fois que vous l’avez fait à l’un de ces plus petits de mes frères, c’est à moi que vous l’avez fait (cf. Mt 25, 40). Quelle sagesse dans ces paroles de Sainte Thérèse Bénédicte de la Croix, lorsqu’elle affirme: «Certaines âmes dont aucun livre d’histoire ne fait mention, ont une influence déterminante aux tournants décisifs de l’histoire universelle. Ce n’est qu’au jour où tout ce qui est caché sera manifesté que nous découvrirons aussi à quelles âmes nous sommes redevables des tournants décisifs de notre vie personnelle»[1].

Certainement, nous entretenons très souvent des fictions sans limites en pensant que les choses seraient différentes si nous étions forts, si nous étions puissants ou influents. Mais le secret de notre force, de notre puissance et de notre influence, et même de notre jeunesse, est-il dans le fait «d’équilibrer les comptes» ou est-il ailleurs? Je vous le demande parce que le témoignage de Davor m’a touché lorsqu’il a partagé avec nous ce qui a marqué son cœur. Tu as été très clair: ce qui t’a sauvé du carriérisme a été le fait de revenir à ta première vocation, le premier appel, et d’aller chercher le Seigneur ressuscité là où il pouvait être rencontré. Tu es parti, laissant les sécurités, pour marcher sur les routes et sur les places de cette ville. Là, tu as senti ta vocation et ta vie se renouveler; en t’abaissant vers la vie quotidienne de tes frères pour la partager et l’oindre du parfum de l’Esprit, ton cœur sacerdotal a commencé à battre de manière nouvelle, plus intensément.

Tu t’es approché pour oindre les pieds fatigués du Maître, les pieds fatigués de personnes concrètes, là où elles se trouvaient, et le Seigneur t’attendait pour t’oindre à nouveau dans ta vocation. Cela est très important. Pour nous renouveler nous-mêmes, bien des fois nous devons revenir en arrière et rencontrer le Seigneur, retrouver la mémoire du premier appel. L’auteur de la Lettre aux Hébreux dit aux chrétiens: “Souvenez-vous des premiers jours”. Se souvenir de la beauté de cette rencontre avec Jésus qui nous a appelés, et de cette rencontre, avec le regard de Jésus, trouver la force d’aller de l’avant. Ne jamais perdre la mémoire du premier appel! La mémoire du premier appel est un “sacramental”. En effet, les difficultés du travail apostolique, je pourrais dire qu’elles nous “gâchent” la vie, et on peut perdre l’enthousiasme. On peut perdre aussi la volonté de prier, de rencontrer le Seigneur. Si tu te trouves ainsi, arrête-toi! Reviens en arrière et rencontre le Seigneur du premier appel. Cette mémoire te sauvera.

Bien des fois nous dépensons nos énergies et nos ressources, nos réunions, discussions et programmations pour conserver des méthodes, des rythmes, des perspectives qui, non seulement n’enthousiasment personne, mais qui sont incapables de porter un peu de ce parfum évangélique en mesure de réconforter et d’ouvrir des chemins d’espérance, et nous privent de la rencontre personnelle avec les autres. Combien sont justes les paroles de Mère Teresa: «Ce qui ne m’est pas utile me pèse»[2]! Laissons tous les poids qui nous séparent de la mission et qui empêchent au parfum de la miséricorde d’atteindre le visage de nos frères. Une livre de nard a été capable de tout imprégner et de laisser une emprunte caractéristique.

Ne nous privons pas du meilleur de notre mission, n’éteignons pas les battements de l’Esprit.

Merci à vous, Pères Goce e Gabriella: vous avez été courageux dans la vie! Et merci à vos enfants Filip, Blagoj, Luca, Ivan, pour avoir partagé avec nous vos joies et vos inquiétudes du ministère et de la vie de famille. Et aussi le secret pour avancer dans les moments difficiles que vous avez dû traverser. L’union matrimoniale, la grâce du mariage dans la vie ministérielle vous a aidés à marcher ainsi, en famille.

Votre témoignage a ce «parfum évangélique» des premières communautés. Rappelons que «dans le Nouveau Testament on parle de ‘‘l’Église qui se réunit à la maison’’ (cf. 1 Co 16, 19; Rm 16, 5; Col 4, 15; Phm 2). Le milieu vital d’une famille pouvait être transformé en Église domestique, en siège de l’Eucharistie – combien de fois tu as célébré l’Eucharistie dans ta maison…-, de la présence du Christ assis à la même table. La scène brossée dans l’Apocalypse est inoubliable: «Voici, je me tiens à la porte et je frappe ; si quelqu'un entend ma voix et ouvre la porte, j'entrerai chez lui pour souper, moi près de lui et lui près de moi» (Ap 3, 20). Ainsi se définit une maison qui à l’intérieur jouit de la présence de Dieu, de la prière commune et, par conséquent, de la bénédiction du Seigneur » (Exhort. ap. postsyn. Amoris laetitia, n. 15). Vous rendez ainsi un vivant témoignage de la façon dont «la foi ne nous retire pas du monde, mais nous y insère davantage» (ibid. n. 181). Non pas à partir de ce qui nous plairait qu’elle soit, non pas comme des “parfaits”, non pas comme des “sans taches”, mais dans la précarité de nos vies, de nos familles ointes tous les jours dans la confiance de l’amour inconditionnel que Dieu a pour nous. Confiance qui nous porte, comme nous l’a bien rappelé le Père Goce, à développer certaines dimensions, aussi importantes qu’oubliées dans la société usée par les relations frénétiques et superficielles: les dimensions de la tendresse, de la patience et de la compassion envers les autres. Et j’aimerais souligner ici l’importance de la tendresse dans le ministère presbytéral et aussi dans le témoignage de la vie religieuse. Il y a le risque, quand on ne vit pas en famille, quand il n’y a pas la nécessité de caresser ses propres enfants, comme le Père Goce, que le cœur devienne un peu “endurci”. Et puis, il y a le risque que le vœu de chasteté des sœurs et aussi celui des prêtres célibataires devienne un vœu de “vieilles filles” ou de “vieux garçons”. Comme ça fait mal une sœur “vieille fille” ou un prêtre “vieux garçon”! Pour cela, j’appelle à la tendresse. Aujourd’hui, j’ai eu la grâce de voir des sœurs avec beaucoup de tendresse: quand je suis allé au mémorial de Mère Teresa et que j’ai vu avec quelle tendresse les religieuses soignaient les pauvres. S’il vous plaît: la tendresse. Ne jamais gronder. De l’eau bénite, jamais de vinaigre! Toujours avec cette douceur de l’Évangile qui sait caresser les âmes. En reprenant une parole que notre frère a dite: lui, il a parlé du carriérisme. Quand dans la vie sacerdotale, dans la vie religieuse, entre le carriérisme, le cœur devient dur, aigre, et l’on perd la tendresse. Le carriériste ou la carriériste a perdu la capacité de caresser.

J’aime toujours penser à chaque famille comme une «icône de la famille de Nazareth, avec sa vie quotidienne faite de fatigues, voire de cauchemars, comme lorsqu’elle a dû subir l’incompréhensible violence d’Hérode, expérience qui se répète tragiquement aujourd’hui encore dans de nombreuses familles de réfugiés rejetés et sans défense» (ibid. n. 30). Elles sont capables, par le moyen de la foi accumulée dans les luttes quotidiennes, de «transformer une grotte pour des animaux en maison de Jésus, avec de pauvres langes et une montagne de tendresse» (Exhort. ap. Evangelii gaudium, n. 286). Il faut des moyens matériels, ils sont nécessaires, mais ils ne sont pas la chose la plus importante. Pour cela, il ne faut pas perdre la capacité de caresser, ne pas perdre la tendresse ministérielle et la tendresse de la consécration religieuse.

Merci d’avoir manifesté le visage familier de Dieu avec nous qui ne cesse pas de nous surprendre au milieu de la vaisselle!

Chers frères, chères sœurs, merci encore pour cette occasion ecclésiale de respirer à pleins poumons. Demandons à l’Esprit de ne pas cesser de nous renouveler dans la mission avec la confiance de savoir qu’il veut tout imprégner de sa présence.

Et ici aussi, je voudrais remercier – tu éprouveras de la honte, maintenant! - je voudrais remercier l’un de vous, prêtre, père de famille, qui a accepté de faire le traducteur [applaudissements].

[Chant du Notre Père]

[Bénédiction]

_______________________

 

1 Verbogenes Leben und Epiphanie: GW XI, 145.
2
A. Comastri, Madre Teresa. Una goccia di acqua pulita, p. 39.

[00751-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

Dear Brothers and Sisters,

Thank you for providing me with this opportunity to meet you. I am particularly grateful for this moment, in which I can see the Church breathing fully with both her lungs – the Latin rite and the Byzantine rite – and taking in the ever new and renewing air of the Holy Spirit. Two lungs that are necessary and complementary, that help us better to taste the beauty of the Lord (cf. Evangelii Gaudium, 116). Let us give thanks for this chance to breathe deeply, as one, and to sense how good the Lord has been with us.

I thank you for your testimonies, which I would now like to take up. You mentioned the fact that you are few in number and risk giving into a certain inferiority complex. While I was listening to you, I thought of Mary, who took a pound of pure nard, anointed the feet of Jesus and then wiped them dry with her hair. The Evangelist concludes his description of the scene by saying: “The house was filled with the fragrance of the perfume” (Jn 12:3). That nard was able to permeate everything, leaving an unmistakable impression.

In more than a few situations, we feel the need to “take stock” and see where things stand. We can begin by looking at our numbers… we are few; the means at our disposal… and they are not many. Then we look at the number of houses and apostolates we have to support… they are too many. We could go on to list all those many situations in which we experience how precarious are the resources we have for carrying out the missionary mandate with which we have been entrusted. Whenever we do this, it can seem that our bottom line is “in the red”.

True, the Lord told us: if you want to build a tower, calculate the costs, lest once you have laid the foundations, you are unable to complete the work (cf. Lk 14:29). But “taking stock” of things can lead us into the temptation of putting too much trust in ourselves, falling back on our own abilities and our shortcomings. In this way, we might almost end up like the disciples of Emmaus, proclaiming the kerygma with our lips, while our heart is sunken in a silence marked by a subtle frustration that prevents it from listening to the One who walks at our side and is a source of joy and gladness.

Brothers and sisters, “taking stock” of things is always necessary, when it can help us to understand and draw near to all those persons who daily struggle to make ends meet. Families that fail to grow, the elderly and abandoned, the sick and bedridden, young people frustrated and without a future, and the poor who remind us what we truly are: a Church of beggars in need of the Lord’s Mercy. It is legitimate to “take stock” of things, only if it enables us once more to become fraternal and attentive to others, to show understanding and concern as we draw near to the frustrations and the uncertainties felt by so many of our brothers and sisters who yearn for an anointing that can lift them up and heal their hope.

It is legitimate to take stock of things, but only in order to speak out all the more forcefully and to pray together with our people: “Come, Lord Jesus!” I would like to repeat this with you: “Come, Lord Jesus!” [They repeat this prayer].

I need only say that this land was able to give to the world and to the Church in Mother Teresa just that kind of concrete sign of how one small person, anointed by the Lord, could permeate everything, once the fragrance of the Beatitudes was spread over the weary feet of our humanity. How many people were put at ease by the tenderness of her glance, comforted by her caress, sustained by her hope and nourished by the courage of her faith, which could make even the most forgotten in our midst realize that they are not forgotten by God! History is written by people like this, people unafraid to offer their lives for love: whenever you did this to the least of my brothers and sisters, you did it to me (cf. Mt 25:40). How much wisdom do we find in the words of Saint Teresa Benedicta of the Cross: “Certainly, the most decisive turning points in world history are substantially co-determined by souls whom no history book ever mentions. And we will only find out about those souls to whom we owe the decisive turning points in our personal lives on the day when all that is hidden is revealed” (Vorgebenes Leben und Epiphanie: GW XI, 145).

All too often we let ourselves think that things might be different if we were strong, powerful and influential. But isn’t it the truth that the secret of our strength, power and influence, and even of our youthfulness, comes from somewhere else, and not from the fact that our “accounts are in order”? I ask you this, because I was struck by Davor’s testimony, when he shared with us what really touched his heart. You were quite clear: what saved you from careerism was returning to your first vocation, your first calling, and setting out to seek the risen Lord where he is to be found. You set out, leaving behind your forms of security, to walk the streets and squares of the city. There you felt that your vocation and your life were renewed. Bending over the daily life of your brothers and sisters to share with them and to anoint them with the fragrance of the spirit, your priestly heart began to beat anew and with greater intensity.

You drew near to anoint the weary feet of the Master, the weary feet of concrete individuals, there where they were to be found, and the Lord was waiting for you, to anoint you anew in your vocation. This is very important. In order to renew ourselves, we must frequently turn back and meet the Lord, revisiting the memories of our first calling. The author of the Letter to the Hebrews says to the Christians: “Remember the first days”. Remember the beauty of that meeting with Jesus who called us, and from that meeting, with the eyes of Jesus, receive the strength to move forward. Never lose your memory of the first call! Remembering the first call is a “sacramental”. The difficulties of apostolic labours can really exhaust us, and we can lose enthusiasm. We can also lose the desire to pray, to meet the Lord. If you find yourself in this position, stop! Turn back and meet the Lord of your first calling. This memory will save you.

How often do we expend our energies and resources, in meetings, discussions and programmes, on preserving approaches, methods and goals that not only excite no one, but prove incapable of bringing even a glimmer of that evangelical fragrance that can offer comfort and open paths of hope, while depriving us of personal encounter with others? How right Mother Teresa was, when she said: “Everything useless weighs me down!” (A. COMASTRI, Mother Teresa, Una goccia di acqua pulita, 39). Let us leave behind all the burdens that keep us from the mission and prevent the fragrance of mercy from being breathed in by our brothers and sisters. A pound of nard was able to permeate everything and leave behind an unmistakable impression.

Let us not deprive ourselves of the best of our mission; let us not stifle the heartbeat of the spirit.

Thank you, Father Goce and Gabriella: you have been courageous in life. And thank you to your children Filip, Blagoj, Luca and Ivan, for having shared with us your joys and concerns, both in ministry and in family life. But also the secret of how to keep going during the times of difficulty that you had to endure. The union of marriage, the grace of marriage in the life of ministry has helped you to walk together in this way, as a family.

Your testimony has that “Gospel fragrance” of the first communities. Let us remember that “the New Testament speaks of ‘churches that meet in homes’ (cf. 1 Cor 16:19; Rom 16:5; Col 4:15; Philem 2). A family’s living space could turn into a domestic church, a setting for the Eucharist – how many times have you celebrated the Eucharist in your home – the presence of Christ seated at its table. We can never forget the image found in the Book of Revelation, where the Lord says: ‘Behold, I stand at the door and knock; if anyone hears my voice and opens the door, I will come in to him and eat with him, and he with me’ (3:20). This is the image of a home filled with the presence of God, common prayer and every blessing” (Amoris Laetitia, 15). In this way, you give a vivid witness of how “faith does not remove us from the world, but draws us more deeply into it” (ibid., 181). The world may not be the way we would like it, nor are we ourselves “perfect” or spotless. But we are drawn into it in the precariousness of our lives and of our families, anointed each day with trust in God’s unconditional love for us. A trust that leads us, as you have clearly reminded us, Father Goce, to develop certain aspects of life that are as important as they are overlooked in a society frayed by frenetic and superficial relationships: the aspects of tender love, patience and compassion towards others. And I would like to stress here the importance of tenderness in priestly ministry as too in the witness of religious life. There is the danger that when we don’t live in family, when there isn’t a need to caress our own children, as Father Goce does, the heart becomes somewhat “bachelor or spinster” in character. There is also the danger that the vow of chastity of religious sisters and celibate priests actually turns into a vow of “entrenched spinsters or bachelors”. How much harm comes from a sister or a priest who lives like this! Thus I stress the importance of tenderness. Today I received the grace of observing sisters who show much tenderness: when I went to the Mother Theresa memorial I saw the religious sisters there and the way the cared for the poor with profound tenderness. Please: tenderness. Never raise your voice. Blessed water, not vinegar! Always with that sweetness of the Gospel that knows how to caress souls. Recalling a word mentioned by our brother: he spoke of careerism. When careerism enters priestly ministry and religious life, the heart becomes hardened and bitter and it loses tenderness. The priest or sister who is careerist has lost the ability to caress.

I like to think of each family as an “icon of the Holy Family of Nazareth. Its daily life had its share of burdens and even nightmares, as when they met with Herod’s implacable violence. This last was an experience that, sad to say, continues to afflict the many refugee families who in our day feel rejected and helpless” (Amoris Laetitia, 20). Through the faith built up by daily struggles, they are able “to turn a stable into a home for Jesus, with poor swaddling clothes and an abundance of love” (Evangelii Gaudium, 286). Material things are needed, they are necessary, yet they are not the most important thing. For this reason, we must never lose the ability to caress, never lose the ministerial tenderness and the tenderness of religious consecration.

Thank you for having shown the familiar face of the God with us, the God who never ceases to surprise us amid the pots and pans!

Dear brothers and sisters, thank you again for this ecclesial opportunity to take a deep breath with both lungs. Let us ask the Spirit to keep renewing us in our mission, with the confidence of knowing that he wants to permeate everything with his presence.

And here too, I want to thank – and you will be embarrassed now – I want to thank one of you priests, a father of a family, who has accepted to be the interpreter [applause].

[Our Father is sung]

[The Blessing]

[00751-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Liebe Brüder und Schwestern,

ich danke euch für die Gelegenheit zu diesem Treffen mit euch. Ich bin besonders dankbar für diesen Moment, bei dem ich die Kirche mit beiden Lungenflügeln – dem lateinischen und dem byzantinischen Ritus – tief einatmen sehe, damit sie mit dem stets neuen und erneuernden Atem des Heiligen Geistes erfüllt wird. Zwei notwendige und sich ergänzende Lungenflügel, die uns dabei helfen, die Schönheit des Herrn immer tiefer zu verkosten (vgl. Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium, 116). Danken wir für diese Gelegenheit, gemeinsam tief Atem zu schöpfen und zu spüren, wie gut der Herr zu uns ist.

Ich danke euch für eure Zeugnisse, die ich aufgreifen möchte. Ihr habt die Tatsache erwähnt, dass ihr nur wenige seid und versucht seid, in einen Minderwertigkeitskomplex zu verfallen. Während ich euch zuhörte, kam mir das Bild der Maria in den Sinn, die mit einem Pfund echten Nardenöls die Füße Jesu salbte und mit ihren Haaren trocknete. Der Evangelist beschließt die Beschreibung der Szene mit dem Satz: »Das Haus wurde vom Duft des Öls erfüllt« (Joh 12,3). Dieses Nardenöl konnte alles durchtränken und eine unverkennbare Spur hinterlassen.

Es gibt viele Situationen, bei denen wir zu rechnen beginnen: wir schauen, wie viele wir sind … und wir sind nur wenige; wir schauen auf die Mittel, die wir haben … und es sind wenige; dann sehen wir die Zahl der Häuser und Projekte, die wir betreuen müssen … und es sind zu viele … Wir könnten weiter viele Dinge aufzählen, bei denen wir die Unzulänglichkeit unserer zur Verfügung stehenden Ressourcen sehen, um den uns anvertrauten missionarischen Auftrag fortzuführen. Wenn das so ist, scheint unsere Bilanz „rote Zahlen“ zu schreiben.

Es stimmt zwar, dass der Herr gesagt hat: Wenn jemand einen Turm bauen will, soll er die Kosten berechnen, »sonst könnte es geschehen, dass er das Fundament gelegt hat, dann aber den Bau nicht fertigstellen kann« (Lk 14, 29). Das „Rechnen“ kann uns aber dazu verleiten, zu sehr auf uns selbst zu sehen. In der Konzentration auf unsere Lebenswelt, auf unsere Sorgen enden wir fast wie die Jünger von Emmaus: Wir verkünden das Kerygma mit unseren Lippen, doch unser Herz ist aus einer subtilen Frustration heraus verstummt, die es daran hindert, den zu vernehmen, der neben uns geht und die Quelle der Freude und Fröhlichkeit ist.

Liebe Brüder und Schwestern, das „Rechnen“ ist immer dann notwendig, wenn es uns hilft, die vielen Lebenslagen und Situationen zu entdecken und sich ihnen zu nähern, in denen man jeden Tag Mühe hat, über die Runden zu kommen: Familien, denen das Nötigste zum Leben fehlt, alte und einsame Senioren, ans Bett gefesselte Kranke, freudlose junge Menschen ohne Zukunft, Arme, die uns an das erinnern, was wir sind: eine Kirche aus Bettlern, welche der Barmherzigkeit des Herrn bedürfen. Man darf nur dann „Rechnen“, wenn es hilft, uns in Bewegung zu versetzen, um solidarisch zu werden, aufmerksam, verständnisvoll und fürsorglich. So sollen wir der Kraftlosigkeit und der Gebrechlichkeit vieler unserer Brüder und Schwestern begegnen, die es bedürfen, dass wir sie mit einem Öl salben, das sie aufrichtet und ihre Hoffnung wieder erstarken lässt.

Wir dürfen nur rechnen, um dann gemeinsam mit unserem Volk eindringlich zu sagen und zu bitten: „Komm, Herr Jesus!“ Ich würde es gerne zusammen mit euch sagen: „Komm, Herr Jesus!“ Noch einmal … [Sie sagen: „Komm, Herr Jesus!“]

Ich will die Gestalt von Mutter Teresa nicht zu viel in Anspruch nehmen, aber dieses Land hat der Welt und der Kirche eben mit ihr ein konkretes Zeichen geschenkt, wie die Schwachheit einer von Gott gesalbten Person alles hat durchdringen können, als der Duft der Seligpreisungen sich über die müden Füße unserer Menschheit verbreitete. Wie viele Menschen wurden von ihrem liebevollen Blick beruhigt, durch ihr Streicheln getröstet, von ihrer Hoffnung gestärkt und durch den Mut ihres Glaubens genährt, der auch die Verlassensten spüren lassen konnte, dass sie von Gott nicht vergessen sind! Die Geschichte wird von solchen Leuten geschrieben, die keine Angst davor haben, ihr Leben aus Liebe hinzugeben: alles, was ihr für den geringsten meiner Brüder getan habt, habt ihr für mich getan (vgl. Mt 25,40). Wie viel Weisheit steckt in den Worten der heiligen Teresia Benedicta vom Kreuz [Edith Stein], wenn sie sagt: »Sicherlich werden die entscheidenden Wendungen in der Weltgeschichte wesentlich mitbestimmt durch Seelen, von denen kein Geschichtsbuch etwas meldet. Und welchen Seelen wir die entscheidenden Wendungen in unserem persönlichen Leben verdanken, das werden wir auch erst an dem Tage erfahren, an dem alles Verborgene offenbar wird.«1

Natürlich haben wir oft hochtrabende Träume davon, was alles anders sein könnte, wenn wir nur stärker, mächtiger oder einflussreicher wären. Aber liegt nicht das Geheimnis unserer Kraft, unserer Macht und unseres Einflusses, sogar unserer Jugend, ganz wo anders als darin, dass „die Rechnung stimmt“? Ich frage das, weil mich das Zeugnis von Davor betroffen gemacht hat. Er hat uns erzählt, was sein Herz tief geprägt hat. Du warst sehr klar: Das, was dich vor der Karrierebesessenheit gerettet hat, waren die Rückkehr zur ursprünglichen Berufung, zum ersten Ruf und die Suche nach dem auferstandenen Herrn dort, wo er sich finden lässt. Du bist aufgebrochen, hast die Sicherheiten aufgegeben, um auf den Straßen und den Plätzen dieser Stadt zu wandeln; dort hast du die Erneuerung deiner Berufung und deines Lebens erfahren. Als du dich in das tägliche Leben deiner Brüder und Schwestern hinabbegeben und es mit dem Öl des Geistes gesalbt hast, begann dein priesterliches Herz wieder kraftvoller zu schlagen.

Du hast dich niedergebeugt, um die müden Füße des Meisters, die müden Füße konkreter Menschen zu salben, dort, wo sie sich befanden, und der Herr hat auf dich gewartet, um dich wieder für deine Berufung zu salben. Das ist sehr wichtig. Um uns selbst zu erneuern, müssen wir oft zurückgehen und dem Herrn begegnen, die Erinnerung an den ersten Ruf wiedergewinnen. Der Verfasser des Hebräerbriefs sagt den Christen: „Erinnert euch an die ersten Tage“ (vgl. 10,32). Sich an die Schönheit dieser Begegnung mit Jesus erinnern, der uns gerufen hat, und von dieser Begegnung mit dem Blick Jesu Kraft schöpfen, um voranzugehen. Niemals die Erinnerung an den ersten Ruf verlieren! Die Erinnerung an den ersten Ruf gehört gewissermaßen zu den Sakramentalien. Tatsächlich könnte ich sagen, dass die Schwierigkeiten der apostolischen Arbeit uns das Leben „verderben“, und man kann die Begeisterung verlieren. Man kann auch die Lust daran verlieren, zu beten und dem Herrn zu begegnen. Wenn du dich so fühlst, halte ein! Kehre zurück und triff dich mit dem Herrn des ersten Rufs. Diese Erinnerung wird dich retten.

Oft verbrauchen wir unsere Kräfte und Ressourcen, unsere Versammlungen, Diskussionen und Planungen damit, an Methoden, Rhythmen, Perspektiven festzuhalten, die nicht nur niemanden begeistern, sondern auch ungeeignet sind, um ein wenig von dem Wohlgeruch des Evangeliums zu verbreiten, der tröstet und Hoffnung weckt. Stattdessen nehmen sie uns die persönliche Begegnung mit dem Nächsten. Wie sehr stimmen doch die Worte Mutter Teresas: »Was mir nichts nützt, belastet mich!«2 Lassen wir all die Lasten hinter uns, die uns von unserer Sendung abhalten und verhindern, dass der Duft der Barmherzigkeit das Antlitz unserer Brüder und Schwestern erreicht. Ein Pfund Nardenöl war in der Lage, alles zu durchdringen und eine unverwechselbare Spur zu hinterlassen.

Berauben wir uns nicht des Besten an unserer Sendung, löschen wir den Herzschlag des Geistes nicht aus.

Ich danke euch, Vater Goce und Gabriella: Ihr seid in eurem Leben mutig gewesen! Und euren Kindern Filip, Blagoj, Luca, Ivan, dass ihr uns von euren Freuden und Sorgen, von eurem Dienst und eurem Familienleben erzählt habt. Und auch von dem Geheimnis, um in schwierigen Momenten, wie ihr sie erlebt habt, weitermachen zu können. Die Ehe , die eheliche Gnade im Leben des Dienstes hat euch geholfen, so als Familie zu wandeln.

Euer Zeugnis hat etwas von dem „Wohlgeruch des Evangeliums“ der Urgemeinde. Denken wir daran, dass »im Neuen Testament von der Gemeinde die Rede ist, die sich im Haus versammelt (vgl. 1Kor 16,19; Röm 16,5; Kol 4,15; Phlm 2). Der Lebensraum der Familie konnte sich in eine Hauskirche verwandeln, in einen Ort der Eucharistie – wie oft hast du die Eucharistie zu Hause gefeiert –, der Gegenwart Christi am selben Tisch. Unvergesslich ist die in der Offenbarung des Johannes dargestellte Szene: „Ich stehe vor der Tür und klopfe an. Wer meine Stimme hört und die Tür öffnet, bei dem werde ich eintreten und wir werden Mahl halten, ich mit ihm und er mit mir“ (3,20). So wird ein Haus skizziert, das in seinem Innern die Gegenwart Gottes birgt, das gemeinsame Gebet und somit den Segen des Herrn« (Apostolisches Schreiben Amoris laetitia, 15). So gebt ihr ein lebendiges Zeugnis dafür, dass »der Glaube […] uns nicht von der Welt [entfernt], sondern er zieht uns tiefer in sie hinein« (ebd., 181). Nicht von unseren Wunschvorstellungen her, nicht als „Perfekte“ und nicht als Makellose, sondern in der Unzulänglichkeit unserer Lebenslagen, unserer Familien, die jeden Tag von dem Vertrauen in Gottes bedingungslose Liebe zu uns gesalbt werden. Ein Vertrauen, das uns dazu bringt, wie du, Vater Goce, uns zurecht in Erinnerung gerufen hast, einige Haltungen heranzubilden, die so wichtig, doch in unserer von schnelllebigen und oberflächlichen Beziehungen zerfaserten Gesellschaft vergessen sind: Zartgefühl, Geduld und Mitleid. Und ich möchte die Wichtigkeit des Zartgefühls im priesterlichen Dienst und auch im Lebenszeugnis des Ordenslebens unterstreichen. Es besteht die Gefahr, dass, wenn man nicht in einer Familie lebt, wenn es nicht nötig ist, wie Vater Goce die eigenen Kinder zu liebkosen, das Herz gleich dem einer „alten Jungfer“ wird. Und dann besteht die Gefahr, dass das Gelübde der ehelosen Keuschheit der Ordensschwestern und auch der zölibatären Priester zu einem „Altjungferngelübde“ wird. Wie viel Übel richtet eine Ordensschwester, die sich wie eine „alte Jungfer“ benimmt, oder ein Priester nach Art eines „alten Junggesellen“ an! Deshalb rufe ich zum Zartgefühl auf. Heute hatte ich die Gnade, Ordensschwestern mit viel Zartgefühl zu sehen: Als ich zur Gedenkstätte von Mutter Teresa ging und die Ordensschwestern gesehen habe, mit wie viel Zartgefühl sorgten sie sich um die Armen. Bitte, Zartgefühl! Niemals schimpfen. Weihwasser, niemals Essig! Immer mit jener Milde des Evangeliums, die die Seelen zu liebkosen vermag. Greifen wir ein Wort, das unser Bruder gesagt hat, wieder auf: Er hat von Karrierismus gesprochen. Wenn in das priesterliche Leben, in das Ordensleben der Karrierismus Einzug hält, verhärtet sich das Herz, es wird bitter, und das Zartgefühl geht verloren. Der Karrierist oder die Karrieristin hat die Fähigkeit zu liebkosen verloren.

Mir gefällt es, mir jede Familie vorzustellen als »Bild der Familie von Nazareth mit ihrem Alltag aus Ermüdung und sogar aus Alpträumen wie in dem Moment, als sie unter der unfassbaren Gewalt des Herodes leiden mussten – eine Erfahrung, die sich noch heute in vielen Familien ausgeschlossener und wehrloser Flüchtlinge tragisch wiederholt« (ebd., 30). Diesen Familien gelingt es durch den Glauben, den sie durch die täglichen Kämpfe angesammelt haben, »mit ein paar ärmlichen Windeln und einer Fülle zärtlicher Liebe einen Tierstall in das Haus Jesu zu verwandeln« (Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium, 286). Es bedarf der materiellen Mittel, sie sind notwendig, aber sie sind nicht das Wichtigste. Daher darf man die Fähigkeit zu liebkosen, das Zartgefühl im Dienstamt und das Zartgefühl des gottweihten Ordenslebens nicht verlieren.

Danke, dass ihr das familiäre Angesicht des Gottes mit uns aufgezeigt habt. Er hört nicht auf, uns auch inmitten des Geschirrwaschens zu überraschen!

Liebe Brüder, liebe Schwestern, danke nochmals für diese Gelegenheit für die Kirche, tief Luft zu holen. Bitten wir den Heiligen Geist, dass er nie aufhören möge, uns für die Sendung zu erneuern, im Vertrauen auf das Wissen, dass er uns ganz mit seiner Gegenwart durchdringen möchte.

Und auch hier möchte ich gerne – du wirst jetzt beschämt sein! – einem von euch, einem Priester und Familienvater, danken, der dazu bereit war, als Dolmetscher zu fungieren. [Applaus]

[Gesang des Vaterunsers]

[Segen]

__________________________

[1] Verborgenes Leben und Epiphanie (1940), in: Gesamtausgabe Band 20, Freiburg i. Br. 2015, 124-125.
[2]
A. Comastri, Madre Teresa. Una goccia di acqua pulita, 39.

[00751-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

Queridos hermanos y hermanas:

Gracias por la oportunidad que me brindáis de poder encontraros. Vivo con especial gratitud este momento en que puedo ver a la Iglesia respirando plenamente con sus dos pulmones —rito latino y rito bizantino— para llenarse del aire siempre nuevo y renovador del Espíritu Santo. Dos pulmones necesarios, complementarios, que nos ayudan a gustar mejor la belleza del Señor (cf. Exhort. apost. Evangelii gaudium, 116). Demos gracias por la posibilidad de respirar juntos, a pleno pulmón, lo bueno que el Señor ha sido con nosotros.

Os agradezco vuestros testimonios, que quisiera retomar. Vosotros mencionabais el hecho de ser pocos y el riesgo de ceder a cierto complejo de inferioridad. Mientras os escuchaba, me venía a la mente la imagen de María que, tomando una libra de nardo puro, ungió los pies de Jesús y los secó con sus cabellos. El evangelista termina describiéndonos la escena diciendo: «La casa se llenó de la fragancia del perfume» (Jn 12,3). Tan sólo una libra de nardo fue capaz de impregnarlo todo y dejar una huella inconfundible.

En muchas situaciones sentimos la necesidad de hacer números: comenzamos a mirar cuantos somos… y somos pocos, después vemos la cantidad de casas y obras que hay que sostener… y son muchas… Podríamos seguir enumerando las múltiples realidades en las que experimentamos la precariedad de recursos que poseemos para llevar adelante el mandato misionero que nos fue confiado. Cuando esto sucede pareciera que el balance está siempre en “números rojos”.

Es cierto, el Señor nos dijo: si quieres construir una torre, calcula los gastos «no sea que, una vez puestos los cimientos, no puedas acabar» (Lc 14,29). Pero el “hacer números” nos puede llevar a la tentación de mirarnos demasiado a nosotros mismos, y encorvados sobre nuestra realidad, sobre nuestras miserias, podemos terminar casi como los discípulos de Emaús, proclamando el kerigma con nuestros labios mientras nuestro corazón se encierra en un silencio marcado por una sutil frustración que le impide sentir a Aquel que camina a nuestro lado que es fuente de gozo y alegría.

Hermanos y hermanas: “Hacer números” es necesario siempre que nos ayude a descubrir y a ponernos en contacto con tantas vidas y situaciones que a diario tienen dificultad para hacer cuadrar los números: familias que no pueden salir adelante, personas ancianas y solas, enfermos postrados en cama, jóvenes entristecidos y sin futuro, pobres que nos recuerdan lo que somos; una Iglesia de mendicantes necesitados de la misericordia del Señor. Sólo es lícito “hacer números” si esto nos permite ponernos en movimiento para volvernos solidarios, atentos, comprensivos y solícitos para tocar los cansancios y la precariedad en la que están sumergidos tantos hermanos nuestros y necesitados de una Unción que los levante y los cure en su esperanza.

Sólo es lícito hacer números para decir con fuerza e implorar con nuestro pueblo: “Ven, Señor Jesús”. Me gustaría decirlo con vosotros, todos juntos: “Ven, Señor Jesús”. Otra vez… [dicen: “Ven, Señor Jesús”].

No quisiera abusar de su imagen, pero precisamente esta tierra ha sabido regalarle al mundo y a la Iglesia, en la Madre Teresa, un signo concreto de cómo la precariedad de una persona, ungida por el Señor, fue capaz de impregnarlo todo cuando el perfume de las bienaventuranzas se derramó sobre los pies cansados de nuestra humanidad. Cuántos encontraron calma gracias a la ternura de su mirada, se sintieron confortados con sus caricias, aliviados con su esperanza y alimentados con la valentía de su fe capaz de hacer sentir a los más olvidados que Dios no los olvidaba. La historia la escriben esas personas que no tienen miedo a gastar su vida por amor: cada vez que lo habéis hecho con el más pequeño de mis hermanos, a mí me lo habéis hecho (cf. Mt 25,40). Cuánta sabiduría revisten las palabras de santa Teresa Benedicta de la Cruz cuando afirmaba: «Seguramente, los acontecimientos decisivos de la historia del mundo fueron esencialmente influenciados por almas sobre las cuales nada dicen los libros de historia. Y cuáles sean las almas a las que hemos de agradecer los acontecimientos decisivos de nuestra vida personal, es algo que sólo sabremos el día en que todo lo oculto será revelado»[1].

Es cierto, cultivamos muchas veces una imaginación sin límites pensando en que las cosas serían diferentes si fuéramos fuertes, si fuéramos potentes o influyentes. Pero, ¿no será que el secreto de nuestra fuerza, potencia, influencia e inclusive juventud está en otro lado y no en que “cuadren los números”? Os pregunto esto, porque me impactó el testimonio de Davor cuando nos contaba lo que marcó su corazón. Fuiste muy claro: lo que te salvó del carrerismo fue volver a la vocación primera, a la llamada primera, y salir a buscar al Señor resucitado allí donde se le podía encontrar. Dejando seguridades, saliste para caminar las calles, las plazas de esta ciudad, ahí sentiste cómo se renovaba tu vocación y tu vida; bajando a la vida cotidiana de tus hermanos para compartir y ungir con el perfume del Espíritu, tu corazón sacerdotal comenzó a latir de nuevo con mayor intensidad.

Te acercaste a ungir los pies cansados del Maestro, los pies cansados de personas concretas, allí donde se encontraban, y el Señor te estaba esperando para ungirte nuevamente en tu vocación. Esto es muy importante. Para renovarnos, muchas veces debemos regresar y encontrarnos con el Señor, retomar el recuerdo de la primera llamada. El autor de la Carta a los Hebreos les dice a los cristianos: “Recordad aquellos días primeros”. Recordar la belleza de aquel encuentro con Jesús que nos llamó, y de aquel encuentro con la mirada de Jesús, se toma la fuerza para seguir adelante. ¡Jamás se ha de perder la memoria de la primera llamada! El recuerdo de la primera llamada es un “sacramental”. De hecho, las dificultades del trabajo apostólico —podría decir— nos “arruinan” la vida, y podemos perder el entusiasmo. También se puede perder el deseo de rezar, de encontrarse con el Señor. Si te encuentras así, detente. Regresa y encuéntrate con el Señor de la primera llamada. Esta memoria te salvará.

Muchas veces gastamos nuestras energías y recursos, nuestras reuniones, discusiones y programaciones en conservar enfoques, ritmos, encuadres, que no sólo no entusiasman a nadie, sino que son incapaces de aportar un poco de ese aroma evangélico que conforte y abra caminos de esperanza, privándonos de ese encuentro personal con los otros. Qué justas las palabras de Madre Teresa: «Lo que no me sirve, me pesa»[2]. Dejemos todos los pesos que nos separan de la misión e impiden que el perfume de la misericordia llegue al rostro de nuestros hermanos. Tan sólo una libra de nardo fue capaz de impregnarlo todo y dejar una huella inconfundible.

No nos privemos de lo mejor de nuestra misión, no apaguemos los latidos del espíritu.

Os agradezco, padre Goce y Gabriela: habéis sido valientes en la vida. Y a vuestros hijos Filip, Blagoj, Luca e Ivan, que hayáis compartido con nosotros las alegrías y preocupaciones del ministerio y de la vida familiar. Así como el secreto para poder llevar adelante los momentos difíciles que habéis tenido que pasar. La unión matrimonial, la gracia matrimonial en la vida ministerial os ha ayudado a caminar así, como familia.

Vuestro testimonio tiene ese “aroma evangélico” de las primeras comunidades. Recordemos «el Nuevo Testamento cuando se habla de “la iglesia que se reúne en la casa” (cf. 1 Co 16,19; Rm 16,5; Col 4,15; Flm 2). El espacio vital de una familia se podía transformar en iglesia doméstica, en sede de la Eucaristía —cuántas veces has celebrado la Eucaristía en tu casa—, de la presencia de Cristo sentado a la misma mesa. Es inolvidable la escena pintada en el Apocalipsis: “Estoy a la puerta y llamo. Si alguien escucha mi voz y me abre la puerta, yo entraré en su casa, cenaré con él y él conmigo” (3,20). Así se delinea una casa que lleva en su interior la presencia de Dios, la oración común y por lo tanto la bendición del Señor» (Exhort. apost. postsin. Amoris laetitia, 15). Así testimonian vivamente cómo «la fe no nos aleja del mundo, sino que nos introduce más profundamente en él» (ibíd., 181). No desde lo que nos gustaría que fuese, no como “perfectos”, no como inmaculados, sino en la precariedad de nuestras vidas, de nuestras familias ungidas todos los días en la confianza del amor incondicional que Dios nos tiene. Confianza que nos lleva, como bien nos lo recordaste, padre Goce, a desarrollar unas dimensiones tan importantes como olvidadas en una sociedad consumida por las relaciones frenéticas y superficiales: las dimensiones de la ternura, la paciencia y la compasión hacia los otros. Y me gustaría subrayar aquí la importancia de la ternura en el ministerio presbiteral y también en el testimonio de la vida religiosa. Existe el peligro de que cuando uno no vive en familia, cuando no hay necesidad de acariciar a los propios hijos, como el padre Goce, el corazón se convierte en un pequeño “solterón”. Y después, está el peligro de que el voto de castidad de las hermanas e incluso el de los sacerdotes célibes se convierta en un voto de “solterones”. ¡Qué mal hacen una monja “solterona” o un sacerdote “solterón”! Para esto, hay que volver a la ternura. Hoy tuve la gracia de ver a religiosas con mucha ternura: cuando fui al memorial de la Madre Teresa y vi a las hermanas, cuidaban con mucha ternura a los pobres. Por favor: ternura. Nunca regañar. ¡Agua bendita, jamás vinagre! Siempre con esa dulzura del Evangelio que sabe acariciar las almas. Retomando una palabra que nuestro hermano dijo: habló de carrerismo. Cuando en la vida sacerdotal, en la vida religiosa entra el carrerismo, el corazón se vuelve duro, ácido y se pierde la ternura. El carrerista o la carrerista ha perdido la capacidad de acariciar.

Me gusta siempre pensar en cada familia como «icono de la familia de Nazaret, con su cotidianeidad hecha de cansancios y hasta de pesadillas, como cuando tuvo que sufrir la incomprensible violencia de Herodes, experiencia que se repite trágicamente todavía hoy en tantas familias de prófugos miserables y hambrientos»; son capaces, por medio de la fe amasada en esas luchas cotidianas, de «transformar una cueva de animales en la casa de Jesús, con unos pobres pañales y una montaña de ternura» (Exhort. apost. Evangelii gaudium, 286). Necesitamos medios materiales, son necesarios, pero no son lo más importante. Por esto, no debemos perder la capacidad de acariciar, no perder la ternura ministerial y la ternura de la consagración religiosa.

Gracias por transparentar el rostro hogareño del Dios con nosotros que no deja de sorprendernos entre las ollas.

Queridos hermanos, queridas hermanas: Nuevamente gracias por esta oportunidad eclesial de respirar a pleno pulmón, pidámosle al Espíritu que no deje de renovarnos en la misión con la confianza de saber que él quiere impregnarlo todo con su presencia.

___________________________

[1] Vida escondida y epifanía, enObras CompletasV, Burgos 2007, 637.
[2]
A. Comastri, Madre Teresa. Una goccia di acqua pulita, 39.

[00751-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

Queridos irmãos e irmãs!

Obrigado pela oportunidade que me dais de vos poder encontrar. Vivo com uma gratidão especial este momento em que posso ver a Igreja respirar plenamente com os seus dois pulmões – rito latino e rito bizantino – para se encher do ar sempre novo e renovador do Espírito Santo. Dois pulmões necessários, complementares, que nos ajudam a saborear melhor a beleza do Senhor (cf. Francisco, Exort. ap. Evangelii gaudium, 116). Demos graças pela possibilidade de respirar juntos, a plenos pulmões, como o Senhor foi bom para connosco.

Agradeço os vossos testemunhos, sobre os quais gostaria de voltar. Aludíeis ao facto de ser poucos e ao risco de ceder a algum complexo de inferioridade. Enquanto vos ouvia, vinha-me à mente a imagem de Maria de Betânia, que, tomando uma libra de perfume de nardo puro, ungiu os pés de Jesus e enxugou-os com os seus cabelos. O evangelista conclui a descrição da cena, dizendo: «A casa encheu-se com a fragrância do perfume» (Jo 12, 3). Aquele nardo foi capaz de impregnar tudo e deixar uma marca inconfundível.

Há situações – e não são poucas – em que sentimos necessidade de fazer contas à vida: começamos a olhar quantos somos... e somos poucos; os meios que temos... e são poucos; depois vemos a quantidade de casas e obras a sustentar... e são demasiadas! Poderíamos continuar a enumerar as múltiplas realidades em que experimentamos a precariedade dos recursos que temos à disposição para levar por diante o mandato missionário que nos foi confiado. Quando isto acontece, parece que o saldo do balanço apareça «em vermelho», seja negativo.

É verdade que o Senhor nos disse: se queres construir uma torre, calcula as despesas; «não suceda que, depois de assentar os alicerces, [tu] não a possas acabar» (cf. Lc 14, 29). Mas, o «fazer as contas» pode-nos levar à tentação de olhar demasiado para nós próprios e, curvados sobre as nossas realidades, sobre as nossas misérias, podemos acabar quase como os discípulos de Emaús, proclamando o querigma com os nossos lábios enquanto o nosso coração se fecha num silêncio marcado por subtil frustração, que o impede de escutar Aquele que caminha ao nosso lado e é fonte de júbilo e alegria.

Irmãos e irmãs, «fazer as contas» é sempre necessário, quando nos pode ajudar a descobrir e aproximar de muitas vidas e situações que todos os dias sentem dificuldade em fazer quadrar as contas: famílias que não conseguem continuar, pessoas idosas e sozinhas, doentes forçados a estar na cama, jovens tristes e sem futuro, pobres que nos lembram o que somos, isto é, uma Igreja de mendigos necessitados da Misericórdia do Senhor. Só é lícito «fazer as contas», se isto leva a mover-nos tornando-nos solidários, atentos, compreensivos e solícitos em abeirar-nos das fadigas e precariedade em que vivem submersos muitos dos nossos irmãos necessitados duma Unção que os levante e cure na sua esperança.

Só é lícito fazer as contas para exclamar com força e implorar com o nosso povo: «Vinde, Senhor Jesus!» Gostava de o repetir juntamente convosco: «Vinde, Senhor Jesus!» Outra vez… [dizem: «Vinde, Senhor Jesus!»]

Não quero abusar da imagem de Madre Teresa, mas esta terra soube dar ao mundo e à Igreja, precisamente nela, um sinal concreto de como a precariedade duma pessoa, ungida pelo Senhor, tenha sido capaz de impregnar tudo, quando o perfume das Bem-aventuranças se espalha sobre os pés cansados da nossa humanidade. Quantos foram tranquilizados pela ternura do seu olhar, confortados pelas suas carícias, levantados pela sua esperança e alimentados pela coragem da sua fé, capaz de fazer sentir aos mais abandonados que não estavam abandonados por Deus! A história é escrita por estas pessoas que não têm medo de gastar a sua vida por amor: sempre que o fizestes a um dos meus irmãos mais pequeninos, a Mim mesmo o fizestes (cf. Mt 25, 40). Que grande sabedoria se encerra nas palavras de Santa Teresa Benedita da Cruz, quando afirma: «Certamente, os eventos decisivos da história do mundo foram essencialmente influenciados por almas sobre as quais nada se diz nos livros de história. E saber quais sejam as almas a quem devemos agradecer os acontecimentos decisivos da nossa vida pessoal, é algo que só conheceremos no dia em que tudo o que está oculto for revelado».[1]

Com frequência, cultivamos fantasia sem limites pensando que as coisas seriam diferentes, se fôssemos fortes, se fôssemos poderosos ou influentes. Mas o segredo da nossa força, poder e influência, e até da juventude, não estará porventura noutra parte que não no facto de «quadrarem as contas»? Pergunto-vos isto, porque me impressionou o testemunho de Davor, quando partilhou connosco aquilo que marcou o seu coração. Foste muito claro! O que te salvou do carreirismo foi voltar à primeira vocação, à primeira chamada, indo procurar o Senhor ressuscitado onde podia ser encontrado. Partiste, deixando o seguro para caminhar pelas ruas e praças desta cidade; aqui sentiste renovar-se a tua vocação e a tua vida; abaixando-te até à vida diária dos teus irmãos para compartilhar e ungir com o perfume do Espírito, o teu coração sacerdotal começou de novo a bater com maior intensidade.

Aproximaste-te para ungir os pés cansados do Mestre, os pés cansados de pessoas concretas e, no local onde se encontravam, o Senhor estava à tua espera para te ungir novamente na tua vocação. Isto é muito importante. Para nos renovarmos a nós mesmos, muitas vezes precisamos de voltar atrás e encontrar o Senhor, retomar a memória da primeira chamada. O autor da Carta aos Hebreus diz aos cristãos: «Recordai os primeiros dias…». Recordar a beleza daquele encontro com Jesus que nos chamou e, daquele encontro com o olhar de Jesus, tirar força para prosseguir. Nunca percamos a memória da primeira chamada! A memória da primeira chamada é um «sacramental». Com efeito, poderíamos dizer que as dificuldades do trabalho apostólico nos «estragam» a vida, e pode-se perder o entusiasmo. Pode-se perder também a vontade de rezar, de encontrar o Senhor. Se te vires assim, para! Torna atrás e encontra-te com o Senhor da primeira chamada. Esta memória salvar-te-á.

Muitas vezes gastamos as nossas energias e recursos, as nossas reuniões, debates e programações para manter abordagens, ritmos, perspetivas que não só não entusiasmam ninguém, mas não conseguem sequer levar um pouco daquela fragância evangélica capaz de confortar e abrir caminhos de esperança, e privam-nos do encontro pessoal com os outros. Como são justas estas palavras de Madre Teresa «aquilo de que não preciso, pesa-me»![2] Deixemos de lado todos os pesos que nos separam da missão e impedem que o perfume da misericórdia alcance o rosto dos nossos irmãos. Uma libra de nardo foi capaz de impregnar tudo e deixar uma marca inconfundível.

Não nos privemos do melhor da nossa missão, não apaguemos as palpitações do espírito.

Obrigado, Padre Goce e Gabriella! Fostes corajosos na vida. Obrigado a vós e aos vossos filhos Filip, Blagoj, Luca, Ivan, por terdes partilhado connosco as vossas alegrias e preocupações do ministério e da vida familiar. E também o segredo para continuar para diante nos momentos difíceis que tivestes de passar. A união matrimonial, a graça matrimonial na vida ministerial ajudou-vos a caminhar assim como família.

O vosso testemunho tem aquela «fragância evangélica» das primeiras comunidades. Lembremo-nos de que, «no Novo Testamento, se fala da “igreja que se reúne em casa” (cf. 1 Cor 16, 19; Rm 16, 5; Col 4, 15; Flm 2). O espaço vital duma família podia transformar-se em igreja doméstica, em local da Eucaristia – quantas vezes celebraste a Eucaristia na tua casa! –, da presença de Cristo sentado à mesma mesa. Inesquecível é a cena descrita no Apocalipse: “Olha que Eu estou à porta e bato: se alguém ouvir a minha voz e abrir a porta, Eu entrarei na sua casa e cearei com ele e ele comigo” (3, 20). Esboça-se assim uma casa que abriga no seu interior a presença de Deus, a oração comum e, por conseguinte, a bênção do Senhor» (Francisco, Exort. ap. pós-sinodal Amoris laetitia, 15). Desta forma, dais vivo testemunho de como «a fé não nos tira do mundo, mas insere-nos mais profundamente nele» (Ibid., 181). Não a partir daquilo que nós gostaríamos que fosse, não como «perfeitos», não como imaculados, mas na precariedade das nossas vidas, das nossas famílias ungidas cada dia na confiança do amor incondicional que Deus tem por nós. Confiança que nos leva – como bem nos lembraste, Padre Goce – a desenvolver algumas dimensões importantes, mas tão esquecidas na sociedade desgastada por relações frenéticas e superficiais: as dimensões da ternura, da paciência e da compaixão para com os outros. E gostaria de assinalar aqui a importância da ternura no ministério presbiteral e também no testemunho da vida religiosa. Quando não se vive em família, quando não há a necessidade de acariciar os próprios filhos, como Padre Goce, existe o perigo de o coração se tornar um pouco «solteirão». E mais, há o perigo de que o voto de castidade das irmãs e também dos sacerdotes celibatários se transforme em voto de «solteirões». Fazem tanto mal uma irmã «solteirona» ou um padre «solteirão»! Por isso, apelo à ternura. Hoje tive a graça de ver irmãs com tanta ternura: quando fui ao Memorial de Madre Teresa, vi com que carinho as religiosas cuidavam dos pobres. Por favor: ternura. Nunca ralheis. Água benta, nunca vinagre! Sempre com aquela doçura do Evangelho que sabe acariciar as almas. Retomo uma palavra que disse o nosso irmão: ele falou de carreirismo. Quando na vida sacerdotal, na vida religiosa entra o carreirismo, o coração torna-se duro, ácido, e perde-se a ternura. O carreirista ou a carreirista perdeu a capacidade de acariciar.

Sempre me apraz pensar em cada uma das famílias como «ícone da família de Nazaré, com o seu dia-a-dia feito de fadigas e até de pesadelos, como quando teve que sofrer a violência incompreensível de Herodes, experiência que ai nda hoje se repete tragicamente em muitas famílias de refugiados descartados e inermes» (Ibid., 30). Elas são capazes, graças à fé acumulada ao longo das lutas diárias, de «transformar um curral de animais na casa de Jesus, com uns pobres paninhos e uma montanha de ternura» (Francisco, Exort. ap. Evangelii gaudium, 286). Precisamos de meios materiais, são necessários; mas não são a coisa mais importante. Por isso, não devemos perder a capacidade de acariciar, não devemos perder a ternura ministerial e a ternura da consagração religiosa.

Obrigado por terdes manifestado o rosto familiar de Deus connosco, que não deixa de nos surpreender no meio do arrumo da louça!

Queridos irmãos, queridas irmãs, obrigado mais uma vez por esta oportunidade eclesial de respirar a plenos pulmões. Peçamos ao Espírito que não cesse de nos renovar na missão com a confiança de saber que Ele quer impregnar tudo com a sua presença.

E também aqui quero agradecer – vais-te envergonhar, agora! – quero agradecer a um de vós, sacerdote, pai de família, que aceitou fazer o tradutor [aplausos].

[Canto do Pai-Nosso]

[Bênção]

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1 Vida escondida y epifanía: Obras Completas, V (Burgos 2007), 637.
2
A. Comastri, Madre Teresa. Una goccia di acqua pulita, 39.

[00751-PO.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

Drodzy bracia i siostry,

Dziękuję za okazję, jaką mi stwarzacie, bym mógł się z wami spotkać. Przeżywam to wydarzenie ze szczególną wdzięcznością, mogąc w nim widzieć Kościół, który oddycha w pełni swoimi dwoma płucami - obrządkiem łacińskim i obrządkiem bizantyjskim - aby napełnić się zawsze nowym i odnawiającym tchnieniem Ducha Świętego. Są to dwa niezbędne, uzupełniające się płuca, które pomagają nam lepiej cieszyć się pięknem Pana (por. Adhort. apost. Evangelii gaudium, 116). Dziękujmy za możliwość wspólnego oddychania, pełnymi płucami - jak dobry jest Pan dla nas.

Dziękuję za wasze świadectwa, które chciałbym podjąć. Wskazywaliście, że jesteście nieliczni, i że grozi wam popadanie w swoisty kompleks niższości. Kiedy was słuchałem, przyszedł mi na myśl obraz Marii, która biorąc funt czystego olejku nardowego, namaściła stopy Jezusa i osuszyła je swoimi włosami. Ewangelista kończy opis tej sceny, mówiąc: „a dom napełnił się wonią olejku” (J 12, 3). Ten olejek nardowy był w stanie przeniknąć wszystko i pozostawić niepowtarzalny znak.

W wielu sytuacjach odczuwamy potrzebę dokonania rachunków: zaczynamy patrzeć, ile nas jest ... a jest nas mało; posiadane środki .... a jest ich niewiele; następnie widzimy liczbę domów i dzieł, które trzeba utrzymać ... i jest ich zbyt wiele ... Moglibyśmy dalej wymieniać wiele rzeczywistości, w których doświadczamy niepewności zasobów, jakie mamy do dyspozycji, by kontynuować powierzony nam nakaz misyjny. Gdy tak się dzieje, wydaje się, że bilans jest ujemny.

To prawda, Pan powiedział nam: jeśli chcesz zbudować wieżę, to najpierw oblicz koszty: „aby przypadkiem ci wszyscy, którzy widzieli, że położył fundament, ale nie zdołał wykończyć budowy, nie zaczęli wyśmiewać się z niego” (Łk 14, 29). Jednakże „dokonanie rachunków” może doprowadzić nas do pokusy, by nazbyt patrzeć na siebie, a zamknięci w naszych rzeczywistościach, naszych niedolach, możemy w końcu skończyć jak uczniowie z Emaus, głosząc kerygmę naszymi ustami, podczas gdy nasze serce zamyka się w milczeniu naznaczonym subtelną frustracją, która uniemożliwia słuchania Tego, który idzie obok nas i jest źródłem radości i wesela.

Bracia i siostry, „dokonanie rachunków” jest zawsze konieczne, gdyż może nam pomóc odkryć i przybliżyć się do wielu istnień i sytuacji, które też każdego dnia zmagają się z tym, aby związać koniec z końcem: rodzin, które nie potrafią iść naprzód, osób starszych i samotnych, chorych zmuszonych do leżenia, młodych ludzi zasmuconych i bez przyszłości, ubogich, którzy przypominają nam, kim jesteśmy: Kościołem żebraków potrzebujących Miłosierdzia Pana. Wolno „dokonać rachunków”, tylko wtedy, gdy pozwala nam to zmobilizować się, by stać się solidarnymi, uważnymi, rozumiejącymi i troskliwymi w podejściu do utrudzeń i bied, w które zanurzonych jest tak wielu naszych braci potrzebujących, stać się namaszczeniem, które przyniosłoby im ulgę i uzdrowiło w ich nadziei.

Wolno dokonać rachunków, jedynie by stanowczo powiedzieć i błagać wraz z naszym ludem: „Przyjdź, Panie Jezu!”. Chciałbym to powiedzieć wraz z wami, razem: „Przyjdź, Panie Jezu!”. Jeszcze raz… (powtarzają: „Przyjdź, Panie Jezu!”).

Nie chciałbym nadużywać jej wizerunku, ale ta ziemia potrafiła przekazać światu i Kościołowi, właśnie w Matce Teresie, konkretny znak tego, jak ubóstwo osoby namaszczonej przez Pana, było zdolne do nasycenia wszystkiego, gdy woń błogosławieństw rozniosła się nad utrudzonymi stopami naszego człowieczeństwa. Iluż uspokoiła czułość jej spojrzenia, zostało pocieszonych jej serdecznością, podniesionych jej nadzieją i pokrzepionych odwagą jej wiary, zdolnej sprawić, że ludzie najbardziej zapomniani poczuli, iż Bóg o nich nie zapomniał! Tę historię piszą te osoby, które nie boją się poświęcić swojego życia dla miłości: za każdym razem, jeśli uczyniliście to najmniejszemu z moich braci, Mnieście to uczynili (por. Mt 25, 40). Jak wiele mądrości zawierają słowa św. Teresy Benedykty od Krzyża, kiedy stwierdza: „Z pewnością decydujące wydarzenia w dziejach świata były zasadniczo spowodowane przez dusze, o których książki historyczne nic nie mówią. A to, jakim duszom powinniśmy dziękować za decydujące wydarzenia z naszego życia osobistego, poznamy dopiero w dniu, w którym wszystko ukryte zostanie odkryte” (Verborgenes Leben und Epiphanie: GW XI, 145.).

Z pewnością wiele razy pielęgnujemy nieograniczone fantazje, myśląc, że wszystko byłoby lepiej, gdybyśmy byli silni, potężni lub wpływowi. Ale czyż nie jest tak, że tajemnica naszej siły, władzy i wpływów, a nawet młodości, polega na czymś innym, a nie na fakcie, że można „związać koniec z końcem”? Pytam was o to, ponieważ uderzyło mnie świadectwo Davora, kiedy dzielił się z nami tym, co naznaczało jego serce. Powiedziałeś bardzo jasno: to, co cię ocaliło przed karierowiczostwem to był powrót do twojego pierwszego powołania, pierwszego wezwania i wyruszenie na poszukiwanie zmartwychwstałego Pana, tam gdzie można Go było spotkać. Wyruszyłeś, odrzucając zabezpieczenia, aby iść po ulicach i placach tego miasta; tam poczułeś odnowienie się twojego powołania i twego życia; zniżając się do codziennego życia twoich braci, aby dzielić się i namaścić wonią Ducha, twoje kapłańskie serce zaczęło znowu bić z większą intensywnością.

Podszedłeś, aby namaścić zmęczone stopy Mistrza, utrudzone stopy konkretnych osób, tam gdzie były, a Pan na ciebie czekał, aby namaścić ciebie na nowo w twoim powołaniu. To jest bardzo ważne. Aby odnowić siebie, wiele razy musimy się cofnąć i spotkać się z Panem, przypomnieć sobie pierwsze wezwanie. Autor Listu do Hebrajczyków mówi chrześcijanom: „Przypomnijcie sobie dawniejsze dni” (10, 32). Przypomnijcie sobie piękno spotkania z Jezusem, który nas powołał, i z tego spotkania ze spojrzeniem Jezusa trzeba czerpać siłę, aby iść naprzód. Nigdy nie traćcie pamięci o pierwszym wezwaniu! Pamięć pierwszego wezwania jest „sakramentalna”. Istotnie, trudności pracy apostolskiej mogę powiedzieć, że „psują” nasze życie i możemy stracić entuzjazm. Można także utracić chęć modlitwy, spotkania z Panem. Jeśli tak się stanie, zatrzymaj się! Wróć i spotkaj się z Panem pierwszego wezwania. Ta pamięć ocali ciebie.

Wiele razy poświęcamy naszą energię i zasoby, nasze spotkania, dyskusje i programowanie, aby zachować sposób widzenia, rytmy, perspektywy, które nie tylko nikogo nie zachwycają, ale które nie są w stanie przynieść nawet odrobiny tej ewangelicznej woni, która mogłaby pocieszyć i otworzyć drogi nadziei, i pozbawiają nas osobistego spotkania z innymi. Jakże słuszne są słowa Matki Teresy: „To, czego nie potrzebuję, obciąża mnie”! (A. Comastri, Madre Teresa. Una goccia di acqua pulita, 39.). Wszyscy zostawmy zbyteczne ciężary, które oddzielają nas od misji i uniemożliwiają woni miłosierdzia, by dotarła do oblicza naszych braci. Funt olejku nardowego był zdolny przeniknąć wszystko i pozostawić niepowtarzalny znak.

Nie pozbawiajmy się tego, co najlepsze w naszej misji, nie gaśmy pulsu ducha.

Dziękuję wam, ojcze Goce i Gabriello: byliście w życiu odważni. A także waszym dzieciom Filipowi, Blagojowi, Luce, Ivanowi, za podzielenie się z nami waszymi radościami i troskami, posługą i życiem rodzinnym. Jest to także sekret, by iść naprzód w chwilach trudnych, przez które musieliście przejść. Jedność małżeńska, łaska małżeńska pomogły wam iść w ten sposób, jako rodzina.

Wasze świadectwo ma „ewangeliczną woń” pierwszych wspólnot. Przypomnijmy, że „w Nowym Testamencie mowa jest o «Kościele zbierającym się w domu» (por. 1 Kor 16, 19; Rz 16, 5; Kol 4, 15; Flm 2). Przestrzeń życiowa rodziny może być przekształcona w Kościół domowy, w miejsce sprawowania Eucharystii – ileż razy sprawowałeś Eucharystię w swoim domu… - obecności Chrystusa siedzącego przy jednym stole. Niezapomniana jest scena nakreślona w Apokalipsie: «Oto stoję u drzwi i kołaczę: jeśli kto posłyszy mój głos i drzwi otworzy, wejdę do niego i będę z nim wieczerzał, a on ze Mną» (3, 20). W ten sposób naszkicowany jest dom, który niesie w swoim wnętrzu obecność Boga, wspólną modlitwę i przez to błogosławieństwo Pana” (Posynod. adhort. apost. Amoris laetitia, 15). W ten sposób dajecie żywe świadectwo tego, jak „wiara nie odsuwa nas od świata, ale wszczepia nas weń głębiej” (tamże, 181). Nie wychodząc od tego, czym chcielibyśmy być, nie jako „doskonali”, nie jako nieskazitelni, ale w ubóstwie naszego życia, naszych rodzin namaszczanych każdego dnia w ufności bezwarunkowej miłości, jaką żywi dla nas Bóg. Ufności, która prowadzi nas, jak słusznie przypomniałeś, ojcze Goce, do rozwijania pewnych wymiarów równie ważnych, jak zapominanych w społeczeństwie znużonym relacjami pospiesznymi i powierzchownymi: wymiarów czułości, cierpliwości i współczucia dla innych. Chciałbym tutaj podkreślić znaczenie czułości w posłudze kapłańskiej, a także w świadectwie życia zakonnego. Istnieje niebezpieczeństwo, że gdy ktoś nie żyje w rodzinie, kiedy nie trzeba okazać czułości swoim dzieciom, jak ojciec Goce, serce staje się po trosze „starokawalerskie”. Istnieje wtedy niebezpieczeństwo, że ślub czystości sióstr, a także księży żyjących w celibacie, zamieni się w ślub „starokawalerstwa”. Ileż zła wyrządzają zakonnica „stara panna” lub ksiądz „stary kawaler”! Dlatego trzeba pamiętać o czułości. Dzisiaj miałem tę łaskę zobaczenia zakonnice, mające wielką czułość: kiedy poszedłem do Domu Pamięci Matki Teresy i zobaczyłem zakonnice, z jak wielką czułością troszczyły się o ubogich. Proszę was: okazujcie czułość. Nigdy nie besztajcie. Bądźcie wodą święconą, a nigdy octem! Zawsze podchodźcie z tą łagodnością Ewangelii, która potrafi okazać duszom pieszczotę. Podejmuję teraz słowo, które wypowiedział nasz brat: mówił o pogoni za karierą. Kiedy w życie kapłańskie, w życie zakonne wkracza pogoń za karierą, serce staje się twarde, kwaśne i zatraca się czułość. Karierowicz lub karierowiczka utraciła zdolność do okazania czułości.

Zawsze lubię myśleć o każdej rodzinie jako „ikonie Rodziny z Nazaretu, z jej codziennym trudem, a nawet koszmarem, kiedy musiała znosić niezrozumiałą przemoc Heroda – doświadczenia tragicznie powtarzającego się także i dziś w życiu wielu rodzin nieszczęsnych uchodźców i doznających głodu” (tamże, 30). Są one zdolne, poprzez wiarę nagromadzoną w codziennych zmaganiach, by „przemienić stajnię dla zwierząt w dom Jezusa, z ubogimi pieluszkami i z olbrzymią czułością” (Adhort. apost. Evangelii gaudium, 286). Potrzebujemy środków materialnych, są one konieczne, ale nie są najważniejsze. Dlatego nie możemy utracić zdolności do okazania czułości, utracić czułości szafarza i czułości konsekracji zakonnej.

Dziękuję za ukazanie rodzinnego oblicza Boga z nami, który nigdy nie przestaje nas zaskakiwać pośród naczyń!

Drodzy bracia, drogie siostry, jeszcze raz dziękuję za tę eklezjalną możliwość oddychania pełnymi płucami. Prośmy Ducha, aby nie przestawał nas odnawiać w misji, mając pewność, że On chce wszystko nasycić swoją obecnością.

I w tym miejscu chciałbym też podziękować – będziesz się teraz wstydził! Chciałbym podziękować jednemu z was, księdzu, ojcu rodziny, który zgodził się zostać tłumaczem. (oklaski).

(Śpiew Ojcze nasz…)

(Błogosławieństwo)

[00751-PL.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua araba

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[B0386-XX.02]