Incontro con la Comunità Cattolica nella Chiesa di San Michele Arcangelo a Rakovsky
Discorso del Santo Padre
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Questo pomeriggio, alle ore 15.35 (14.35 ora di Roma) il Santo Padre Francesco ha incontrato la Comunità Cattolica nella Chiesa di San Michele Arcangelo a Rakovsky.
Al Suo arrivo il Papa è stato accolto da due bambini in costume tradizionale che gli hanno dato in dono del pane. All’ingresso della chiesa il Papa è stato ricevuto dal parroco e dal viceparroco. Quindi insieme hanno raggiunto una famiglia che lo attendeva accanto al bassorilievo di San Giovanni XXIII e che hanno offerto al Papa dei fiori che Egli ha deposto davanti alla reliquia del Santo.
Nel corso dell’incontro, dopo il breve indirizzo di saluto del Vescovo di Sofia e Plovdiv, S.E. Mons. Gheorghi Ivanov Jovčev, e la testimonianza di una suora eucaristina, è stato eseguito l’inno della GMG di Panama a cui hanno fatto seguito la testimonianza di un sacerdote, la danza di alcuni giovani appartenenti a movimenti laicali e la testimonianza di una famiglia. Quindi il Santo Padre ha pronunciato il Suo discorso. Al termine, dopo la benedizione finale, il Papa ha percorso la navata centrale mentre il coro ha eseguito un canto. Sul sagrato lo attendevano alcuni ragazzi malati insieme ai volontari che hanno fatto volare palloncini bianchi mentre suonavano le campane.
Successivamente il Santo Padre si è trasferito in auto alla Base Aerea Graf Ignatievo di Plovdiv da dove, alle ore 17.45 (16.45 ora di Roma), dopo il saluto ai 15 membri della Base Aerea, si è imbarcato su un A319/Volo di Stato per far rientro a Sofia.
Al Suo arrivo il Papa si è recato in auto in Piazza Nezavisimost per l’Incontro per la Pace alla presenza degli Esponenti delle varie Confessioni Religiose presenti in Bulgaria.
Pubblichiamo di seguito il discorso che il Santo Padre ha pronunciato nel corso dell’Incontro con la Comunità Cattolica:
Discorso del Santo Padre
Cari fratelli e sorelle,
Buon pomeriggio! Vi ringrazio per la calorosa accoglienza, per le danze e le testimonianze. Mi dicono che la traduzione è con gli schermi. Va bene così. Mons. Iovcev mi ha chiesto di aiutarvi – in questa gioia di incontrare il Popolo di Dio con i suoi mille volti e carismi – di aiutarvi a “vedere con occhi di fede e di amore”. Prima di tutto vorrei ringraziarvi perché avete aiutato me a vedere meglio e a comprendere un po’ di più il motivo per cui questa terra è stata tanto amata e significativa per San Giovanni XXIII, dove il Signore stava preparando quello che sarebbe stato un passo importante nel nostro cammino ecclesiale. Tra voi germogliò un’amicizia forte verso i fratelli ortodossi che lo spinse su una strada capace di generare la tanto sospirata e fragile fraternità tra le persone e le comunità.
Vedere con gli occhi della fede. Desidero ricordare le parole del “Papa buono”, che seppe sintonizzare il suo cuore con il Signore in modo tale da poter dire di non essere d’accordo con quelli che intorno a sé vedevano solo male e da chiamarli profeti di sventura. Secondo lui bisognava aver fiducia nella Provvidenza, che ci accompagna continuamente e, in mezzo alle avversità, è capace di realizzare disegni superiori e inaspettati (Discorso di apertura del Concilio Vaticano II, 11 ottobre 1962).
Gli uomini di Dio sono quelli che hanno imparato a vedere, confidare, scoprire e lasciarsi guidare dalla forza della risurrezione. Riconoscono, sì, che esistono situazioni o momenti dolorosi e particolarmente ingiusti, ma non restano con le mani in mano, intimoriti o, peggio, alimentando un clima di incredulità, di malessere o fastidio, perché questo non fa che nuocere all’anima, indebolendo la speranza e impedendo ogni possibile soluzione. Gli uomini e le donne di Dio sono coloro che hanno il coraggio di fare il primo passo – questo è importante: fare il primo passo – e cercano creativamente di porsi in prima linea testimoniando che l’Amore non è morto, ma ha vinto ogni ostacolo. Gli uomini e le donne di Dio si mettono in gioco perché hanno imparato che, in Gesù, Dio stesso si è messo in gioco. Ha messo in gioco la propria carne perché nessuno possa sentirsi solo o abbandonato. E questa è la bellezza della nostra fede: Dio che si mette in gioco facendosi uno di noi.
In questo senso vorrei condividere con voi un’esperienza di poche ore fa. Questa mattina ho avuto la gioia di incontrare, nel campo-profughi di Vrazhedebna, profughi e rifugiati provenienti da vari Paesi del mondo per trovare un contesto di vita migliore di quello che hanno lasciato, e anche, ho incontrato volontari della Caritas. [applauso ai volontari della Caritas, che si alzano in piedi, tutti con una maglietta rossa] Quando sono entrato qui e ho visto i volontari della Caritas, ho domandato chi fossero, perché pensavo fossero i vigili del fuoco! Così rossi! Lì [al Centro di Vrazhedebna] mi dicevano che il cuore del Centro – di questo Centro di rifugiati – nasce dalla consapevolezza che ogni persona è figlia di Dio, indipendentemente dall’etnia o dalla confessione religiosa. Per amare qualcuno non c’è bisogno di chiedergli il curriculum vitae; l’amore precede, sempre va avanti, si anticipa. Perché? Perché l’amore è gratuito. In questo Centro della Caritas sono molti i cristiani che hanno imparato a vedere con gli stessi occhi del Signore, che non si sofferma sugli aggettivi, ma cerca e attende ciascuno con occhi di Padre. Ma voi sapete una cosa? Dobbiamo stare attenti! Noi siamo caduti nella cultura dell’aggettivo: “questa persona è questo, questa persona è questo, questa persona è questo…”. E Dio non vuole questo. È una persona, è immagine di Dio. Niente aggettivi! Lasciamo che Dio metta gli aggettivi; noi mettiamo l’amore, in ogni persona. Così, questo vale anche per il chiacchiericcio. Con quanta facilità viene tra noi il chiacchiericcio! “Ah questo è quello, questo fa questo…”. Sempre “aggettiviamo” la gente. Io non sto parlando di voi, perché so che qui non c’è il chiacchiericcio, ma pensiamo al posto dove ci sono le chiacchiere. Questo è l’aggettivo: aggettivare la gente. Dobbiamo passare dalla cultura dell’aggettivo alla realtà del sostantivo. Vedere con gli occhi della fede è l’invito a non passare la vita affibbiando etichette, classificando chi è degno di amore e chi no, ma a cercare di creare le condizioni perché ogni persona possa sentirsi amata, soprattutto quelle che si sentono dimenticate da Dio perché sono dimenticate dai loro fratelli. Fratelli e sorelle, chi ama non perde tempo a piangersi addosso, ma vede sempre qualcosa di concreto che può fare. In questo Centro avete imparato a vedere i problemi, a riconoscerli, ad affrontarli; vi lasciate interpellare e cercate di discernere con gli occhi del Signore. Come disse Papa Giovanni: «Non ho mai conosciuto un pessimista che abbia concluso qualcosa di bene». I pessimisti non fanno mai qualcosa di bene. I pessimisti rovinano tutto. Quando io penso al pessimista, mi viene in mente una bella torta: cosa fa il pessimista? Versa aceto sulla torta, rovina tutto. I pessimisti rovinano tutto. Invece l’amore apre le porte, sempre! Papa Giovanni aveva ragione: «Non ho mai conosciuto un pessimista che abbia concluso qualcosa di bene». Il Signore è il primo a non essere pessimista e continuamente cerca di aprire per tutti noi vie di Risurrezione. Il Signore è un ottimista inguaribile! Sempre cerca di pensare bene di noi, di portarci avanti, di scommettere su di noi. Che bello quando le nostre comunità sono cantieri di speranza! L’ottimista è un uomo o una donna che crea nella comunità speranza.
Ma per acquistare lo sguardo di Dio abbiamo bisogno degli altri, abbiamo bisogno che ci insegnino a guardare e a sentire come Gesù guarda e sente; che il nostro cuore possa palpitare con i suoi stessi sentimenti. Per questo mi è piaciuto quando Mitko e Miroslava, con il loro piccolo angioletto Bilyana, ci dicevano che per loro la parrocchia è stata sempre la loro seconda casa, il luogo dove trovano sempre, nella preghiera comunitaria e nel sostegno delle persone care, la forza per andare avanti. Una parrocchia ottimista, che aiuta ad a andare avanti.
La parrocchia, in questo modo, si trasforma in una casa in mezzo a tutte le case ed è capace di rendere presente il Signore proprio lì dove ogni famiglia, ogni persona cerca quotidianamente di guadagnarsi il pane. Lì, all’incrocio delle strade, si trova il Signore, il quale non ha voluto salvarci con un decreto, ma è entrato e vuole entrare nel più intimo delle nostre famiglie e dire a noi, come ai discepoli: “Pace a voi!”. È bello il saluto del Signore: “Pace a voi!”. Dove c’è la tempesta, dove c’è il buio, dove c’è il dubbio, dove c’è l’angoscia, il Signore dice: “Pace a voi!”. E non solo lo dice: fa la pace.
Sono contento di sapere che trovate buona questa “massima” che mi piace condividere con i coniugi: “Mai andare a letto arrabbiati, nemmeno una notte” (e, per quanto posso vedere, con voi funziona). È una massima che può servire anche per tutti i cristiani. A me piace dire alle coppie di non litigare, ma se litigano, non c’è problema, perché è normale arrabbiarsi. È normale. E a volte litigare un po’ forte – qualche volta volano i piatti –, ma non c’è problema: arrabbiarsi a patto che si faccia la pace prima che finisca la giornata. Mai finire la giornata in guerra. A tutti voi sposi: mai finire la giornata in guerra. E sapete perché? Perché la “guerra fredda” del giorno dopo è molto pericolosa. “E, padre, come si può fare la pace? Dove posso imparare i discorsi per fare la pace?”. Fai così [fa il gesto di una carezza]: un gesto ed è fatta la pace. Soltanto un gesto di amore. Capito? Questo per le coppie. È vero che, come anche voi avete raccontato, si passa attraverso diverse prove; per questo è necessario stare attenti perché mai la rabbia, il rancore o l’amarezza si impossessino del cuore. E in questo ci dobbiamo aiutare, aver cura gli uni degli altri affinché non si spenga la fiamma che lo Spirito ha acceso nel nostro cuore.
Voi riconoscete, e ne siete grati, che i vostri sacerdoti e le vostre suore si prendono cura di voi. Sono bravi! Un applauso a loro. Ma quando vi ascoltavo mi ha colpito quel sacerdote che condivideva non quanto lui fosse stato bravo durante questi anni di ministero, ma ha parlato delle persone che Dio ha messo accanto a lui per aiutarlo a diventare un bravo ministro di Dio. E queste persone siete voi.
Il Popolo di Dio ringrazia il suo pastore e il pastore riconosce che impara ad essere credente – attenti a questo: impara ad essere credente – con l’aiuto della sua gente, della sua famiglia e in mezzo a loro. Quando un sacerdote o una persona consacrata, anche un vescovo come me, si allontana dal Popolo di Dio, il cuore si raffredda e perde quella capacità di credere come il Popolo di Dio. Per questo mi piace questa affermazione: il Popolo di Dio aiuta i consacrati – siano essi sacerdoti, vescovi o suore – ad essere credenti. Il Popolo di Dio è una comunità viva che sostiene, accompagna, integra e arricchisce. Mai separati, ma uniti, ciascuno impara ad essere segno e benedizione di Dio per gli altri. Il sacerdote senza il suo popolo perde identità e il popolo senza i suoi pastori può frammentarsi. L’unità del pastore che sostiene e lotta per il suo popolo e il popolo che sostiene e lotta per il suo pastore. Questo è grande! Ognuno dedica la propria vita agli altri. Nessuno può vivere solo per sé, viviamo per gli altri. E questo lo diceva San Paolo in una delle sue lettere: “Nessuno vive per sé”. “Padre, io conosco una persona che vive per sé”. E quella persona è felice? È capace di dare la vita agli altri? È capace di sorridere? Sono le persone egoiste. È il popolo sacerdotale che con il sacerdote è in grado di dire: «Questo è il mio corpo offerto per voi». Questo è il Popolo di Dio unito al sacerdote. Così impariamo ad essere una Chiesa-famiglia-comunità che accoglie, ascolta, accompagna, si preoccupa degli altri rivelando il suo vero volto, che è volto di madre. La Chiesa è madre. Chiesa-madre che vive e fa suoi i problemi dei figli, non offrendo risposte preconfezionate. No. Le mamme, quando devono rispondere alla realtà dei figli dicono quello che viene loro in mente in quel momento. Le mamme non hanno risposte preconfezionate: rispondono con il cuore, con il cuore di madre. Così la Chiesa, questa Chiesa che è fatta da tutti noi, popolo e sacerdoti insieme, vescovi, consacrati, tutti insieme, cerca insieme strade di vita, strade di riconciliazione; cerca di rendere presente il Regno di Dio. Chiesa-famiglia-comunità che prende in mano i nodi della vita, che spesso sono grossi gomitoli, e prima di districarli li fa suoi, li accoglie tra le mani e li ama. Così fa una mamma: quando vede un figlio o una figlia che è “annodato” in tante difficoltà, non lo condanna: prende quelle difficoltà, quei nodi nelle sue mani, li fa suoi e li risolve. Così è la nostra Madre Chiesa. Così dobbiamo guardarla. È la madre che ci prende come siamo, con le nostre difficoltà, con i nostri peccati pure. È madre, sempre sa arrangiare le cose. Non ci sembra che sia bello avere una madre così? Mai allontanarvi, mai allontanarsi dalla Chiesa! E se tu ti allontani, perderai la memoria della maternità della Chiesa; incomincerai a pensare male della tua Madre Chiesa, e più vai lontano, più quell’immagine di madre diventerà un’immagine di matrigna. Ma la matrigna è dentro il tuo cuore. La Chiesa è madre.
Una famiglia tra le famiglie – questo è la Chiesa –, aperta a testimoniare, come ci diceva la sorella, al mondo odierno la fede, la speranza e l’amore verso il Signore e verso coloro che Egli ama con predilezione. Una casa con le porte aperte. La Chiesa è una casa con le porte aperte, perché è madre. A me ha colpito tanto una cosa che aveva scritto un grande sacerdote. Lui era un poeta e amava tanto la Madonna. Era anche un prete peccatore, lui sapeva di essere peccatore, ma andava dalla Madonna e piangeva davanti alla Madonna. Una volta scrisse una poesia, chiedendo perdono alla Madonna e facendo il proposito di non allontanarsi mai dalla Chiesa. Scriveva così: “Questa sera, Signora, la promessa è sincera. Ma, per ogni evenienza, non dimenticarti di lasciare la chiave dalla parte di fuori”. Maria e la Chiesa mai chiudono da dentro! Sempre, se chiudono la porta, la chiave è di fuori: tu puoi aprire. E questa è la nostra speranza. La speranza della riconciliazione. “Padre, lei dice che la Chiesa e la Madonna sono una casa con le porte aperte, ma se Lei sapesse, padre, le cose brutte che io ho fatto nella vita: per me le porte della Chiesa, anche le porte del cuore della Madonna, sono chiuse” – “Hai ragione, sono chiuse, ma avvicinati, guarda bene e troverai la chiave dalla parte di fuori. Fa’ così, apri ed entra. Non devi suonare il campanello. Apri con quella chiave lì”. E questo vale per tutta la vita!
In questo senso ho un “lavoretto” per voi. Voi siete figli nella fede dei grandi testimoni che furono capaci di testimoniare con la loro vita l’amore del Signore in queste terre. I fratelli Cirillo e Metodio, uomini santi e dai grandi sogni, si convinsero che il modo più autentico per parlare con Dio era farlo nella propria lingua. Questo diede loro l’audacia di decidersi a tradurre la Bibbia perché nessuno rimanesse privo della Parola che dà vita.
Essere una casa dalle porte aperte, sulle orme di Cirillo e Metodio, oggi richiede anche di saper essere audaci e creativi per domandarsi come si possa tradurre in modo concreto e comprensibile alle giovani generazioni l’amore che Dio ha per noi. Dobbiamo essere audaci, coraggiosi. Sappiamo e sperimentiamo che «i giovani, nelle strutture consuete, spesso non trovano risposte alle loro inquietudini, alle loro esigenze, alle loro problematiche e alle loro ferite» (Esort. ap. postsin. Christus vivit, 202). E questo ci chiede un nuovo sforzo di immaginazione nelle nostre azioni pastorali, per cercare il modo di raggiungere il loro cuore, conoscere le loro attese e incoraggiare i loro sogni, come comunità-famiglia che sostiene, accompagna e invita a guardare il futuro con speranza. Una grande tentazione che affrontano le nuove generazioni è la mancanza di radici, di radici che le sostengano, e questo le porta allo sradicamento e a una grande solitudine. I nostri giovani, nel momento in cui si sentono chiamati ad esprimere tutto il potenziale in loro possesso, molte volte restano a metà strada a causa delle frustrazioni o delle delusioni che sperimentano, poiché non hanno radici su cui appoggiarsi per guardare avanti (cfr ibid., 179-186). E questo aumenta quando si vedono obbligati a lasciare la propria terra, la propria patria, la propria famiglia.
Non abbiamo paura di accettare nuove sfide, a condizione che ci sforziamo con ogni mezzo di far sì che la nostra gente non venga privata della luce e della consolazione che nascono dall’amicizia con Gesù. Vorrei sottolineare questo che ho detto sui giovani, che tante volte perdono le radici. Oggi, nel mondo, ci sono due gruppi di persone che soffrono tanto: i giovani e gli anziani. Dobbiamo farli incontrare. Gli anziani sono le radici della nostra società, non possiamo mandarli via dalla nostra comunità, sono la memoria viva della nostra fede. I giovani hanno bisogno di radici, di memoria. Facciamo sì che comunichino tra di loro, senza paura. C’è una bella profezia del profeta Gioele: “I vecchi sogneranno e i giovani profetizzeranno” (cfr 3,1). Quando i giovani si incontrano con gli anziani e gli anziani con i giovani, gli anziani incominciano a rivivere, tornano a sognare e i giovani prendono coraggio dai vecchi, vanno avanti e incominciano a fare ciò che è tanto importante nella loro vita, cioè frequentare il futuro. Abbiamo bisogno che i giovani frequentino il futuro, ma questo si può fare solo se hanno le radici dei vecchi. Quando io arrivavo qui alla parrocchia, nelle strade c’erano tanti anziani, tanti vecchietti e vecchiette. Sorridevano… Hanno un tesoro dentro. E c’erano tanti giovani che pure salutavano e sorridevano. Che si incontrino! Che gli anziani diano ai giovani questa capacità di profetizzare, cioè di frequentare il futuro. Queste sono le scommesse di oggi. E non abbiamo paura. Accettiamo nuove sfide, a condizione che ci sforziamo con ogni mezzo di far sì che la nostra gente non venga privata della luce e della consolazione che nascono dall’amicizia con Gesù, di una comunità di fede che la sostenga e di un orizzonte sempre stimolante e rinnovatore che le dia senso e vita (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 49). Non dimentichiamo che le pagine più belle della vita della Chiesa sono state scritte quando creativamente il Popolo di Dio si metteva in cammino per cercare di tradurre l’amore di Dio in ogni momento della storia, con le sfide che man mano si andavano incontrando. Il popolo unito, il Popolo di Dio, con il sensus fidei che gli è proprio. È bello sapere che potete contare su una grande storia vissuta, ma è ancora più bello prendere coscienza che a voi è stato dato di scrivere ciò che verrà. Queste pagine non sono state scritte. Dovete scriverle voi. Il futuro è nelle vostre mani, il libro del futuro lo dovete scrivere voi. Non stancatevi di essere una Chiesa che continua a generare, in mezzo alle contraddizioni, ai dolori e anche a tante povertà, ma è la Chiesa Madre che continuamente fa dei figli, genera i figli di cui questa terra ha bisogno oggi agli inizi del XXI secolo, tenendo un orecchio al Vangelo e l’altro al cuore del vostro popolo. Grazie… – non ho finito! Vi tormenterò un po’ ancora –Grazie per questo bell’incontro. E, pensando a Papa Giovanni, vorrei che la benedizione che vi do ora sia una carezza del Signore su ciascuno di voi. Lui aveva dato quella benedizione con l’augurio che fosse una carezza; quella benedizione che diede alla luce della luna.
Preghiamo insieme, preghiamo la Madonna che è immagine della Chiesa. Pregate nella vostra lingua.
[Recitano l’Ave Maria in bulgaro]
[Benedizione]
[00745-IT.02] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua francese
Chers frères et sœurs,
Bon après-midi ! Je vous remercie pour l’accueil chaleureux, pour les danses et les témoignages. On me dit que la traduction est déjà sur les écrans. C’est bien ainsi !
Mgr Iovcev m’a demandé de vous aider – dans cette joie de rencontrer le peuple de Dieu avec ses mille visages et charismes – de vous aider à “voir avec les yeux de la foi et de l’amour”. Avant tout, je voudrais vous remercier parce que vous m’avez aidé à mieux voir et à comprendre un peu plus le motif pour lequel cette terre a été tant aimée et aussi importante pour saint Jean XXIII, où le Seigneur était en train de préparer ce qui serait un pas important dans notre cheminement ecclésial. Parmi vous a germé une amitié forte envers les frères orthodoxes qui le poussa sur une route capable d’engendrer la fraternité tant attendue et fragile entre les personnes et les communautés.
Voir avec les yeux de la foi. Je désire rappeler les paroles du “bon Pape” qui a su accorder son cœur au Seigneur, de manière à pouvoir dire qu’il n’était pas d’accord avec ceux qui, autour de lui, voyaient seulement le mal et à les nommer prophètes de malheur. D’après lui, il fallait avoir confiance dans la Providence qui nous accompagne continuellement et qui, au milieu des adversités, est capable de réaliser des projets supérieurs et inattendus (Discours d’ouverture du Concile Vatican II, 11 octobre 1962).
Les hommes de Dieu sont ceux qui ont appris à voir, à avoir confiance, à découvrir et à se laisser guider par la force de la résurrection. Ils reconnaissent évidemment qu’il existe des situations ou des moments douloureux et particulièrement injustes, mais ils ne restent pas les bras croisés, effrayés ou, pire encore, en alimentant un climat d’incrédulité, de malaise ou de nuisance, parce que cela ne fait que blesser l’âme, en affaiblissant l’espérance et en empêchant toutes les solutions possibles. Les hommes et les femmes de Dieu sont ceux qui ont le courage de faire le premier pas – c’est important : faire le premier pas - et qui cherchent avec créativité à être aux avant-postes en témoignant que l’Amour n’est pas mort, mais a vaincu tout obstacle. Les hommes et les femmes de Dieu qui se risquent parce qu’ils ont appris que Dieu Lui-même, en Jésus, s’est risqué. Il a mis en jeu sa propre chair, afin que personne ne puisse se sentir seul ou abandonné. Et c’est la beauté de notre foi : Dieu qui se risque en se faisant l’un de nous.
En ce sens, je voudrais partager avec vous une expérience faite il y a quelques heures. Ce matin, j’ai eu la joie de rencontrer, dans le camp de réfugiés de Vrazhedebna, des réfugiés provenant de divers pays du monde pour trouver un cadre de vie meilleur que celui qu’ils ont abandonné, et j’ai aussi rencontré des volontaires de la Caritas [applaudissements pour les volontaires de la Caritas, qui se lèvent, tous en maillot rouge]. Quand je suis rentré ici et que j’ai vu les volontaires de la Caritas, j’ai demandé qui ils étaient, car je pensais que c’étaient les pompiers ! Si rouges ! Là-bas [au Centre de Vrazhedebna], ils m’ont dit que le cœur du Centre – de ce Centre de réfugiés - naît de la conscience que toute personne est enfant de Dieu, indépendamment de l’ethnie ou de la confession religieuse. Pour aimer quelqu’un, il n’y a pas besoin de lui demander son curriculum vitae ; l’amour précède, il va de l’avant, il anticipe. Pourquoi ? Parce que l’amour est gratuit. Dans ce centre de la Caritas, il y a beaucoup de chrétiens qui ont appris à voir avec les yeux mêmes du Seigneur qui ne s’arrête pas sur les qualificatifs, mais qui cherche et attend chacun, avec des yeux de Père. Mais savez-vous une chose ? Nous devons faire attention. Nous avons cédé à la culture de l’adjectif : ‘‘cette personne est ceci, cette personne est cela, cette personne est ceci…’’ Or Dieu ne veut pas cela. C’est une personne, elle est une image de Dieu. Pas d’adjectifs ! Laissons Dieu mettre les adjectifs ; nous, mettons de l’amour en chaque personne. Il en va de même pour le commérage. Avec quelle facilité s’installe le commérage parmi nous ! ‘‘Ah celui-ci est ça, celui-là fait ceci…’’. Nous qualifions toujours les gens. Je ne parle pas de vous, parce que je sais qu’ici il n’y a pas de commérage, mais pensons aux endroits où il y a du commérage. C’est cela l’adjectif : qualifier les gens. Nous devons passer de la culture de l’adjectif à la réalité du substantif. Voir avec les yeux de la foi est une invitation à ne pas passer sa vie en collant des étiquettes, en cataloguant celui qui est digne d’amour et celui qui ne l’est pas, mais à chercher à créer des conditions pour que chaque personne puisse se sentir aimée, surtout celles qui se sentent oubliées par Dieu, parce qu’elles sont oubliées par leurs frères. Frères et sœurs, celui qui aime ne perd pas de temps à s’apitoyer sur lui-même, mais il voit toujours quelque chose de concret à pouvoir faire. Dans ce Centre, vous avez appris à voir les problèmes, à les reconnaître, à les affronter ; vous vous laissez interpeler et vous cherchez à discerner avec les yeux du Seigneur. Comme a dit le Pape Jean : « Je n’ai jamais connu un pessimiste qui ait réalisé quelque chose de bien ». Les pessimistes ne font jamais rien de bon. Les pessimistes gâchent tout. Quand je pense au pessimiste, me vient à l’esprit un beau gâteau : que fait le pessimiste ? Il verse du vinaigre sur le gâteau, il gâche tout. Les pessimistes gâchent tout. L’amour, au contraire, ouvre toujours les portes. Le Pape Jean avait raison : ‘‘Je n’ai jamais vu un pessimiste qui ait accompli quelque chose de bon’’. Le Seigneur est le premier à ne pas être pessimiste et, continuellement, il cherche à ouvrir pour nous tous des chemins de Résurrection. Le Seigneur est un optimiste incorrigible ! Il cherche toujours à penser du bien de nous, à nous faire progresser, à miser sur nous. Que c’est beau quand nos communautés sont des chantiers d’espérance ! L’optimiste est un homme ou une femme qui crée de l’espérance dans la communauté.
Mais pour acquérir le regard de Dieu, nous avons besoin des autres, nous avons besoin qu’ils nous apprennent à regarder et à entendre comment Jésus regarde et entend ; que notre cœur puisse palpiter de ses propres sentiments. Pour cela, j’ai apprécié quand Mitko et Miroslava, avec leur petit ange Bilyana, nous ont dit que la paroisse a toujours été pour eux leur seconde maison, le lieu où ils trouvent toujours, dans la prière communautaire et dans le soutien des personnes chères, la force pour aller de l’avant. Une paroisse optimiste, qui aide à aller de l’avant.
Ainsi, la paroisse se transforme en un foyer au milieu de tous les foyers et est capable de rendre présent le Seigneur là justement où chaque famille, chaque personne cherche quotidiennement à gagner sa vie. Là, au croisement des routes, il y a le Seigneur qui n’a pas voulu nous sauver par un décret, mais qui est entré et veut entrer au plus intime de nos familles et nous dire comme à ses disciples : “ La paix soit avec vous !”. Quelle est belle la salutation du Seigneur : ‘‘La paix soit avec vous !’’. Là où il y a la tempête, là où il y a l’obscurité, là où il y a le doute, là où il y a l’angoisse, le Seigneur dit : ‘‘La paix soit avec vous !’’. Et non seulement il le dit, il fait la paix.
Je suis content de savoir que vous trouvez bonne cette “maxime” qu’il me plaît de partager avec les époux : “Ne jamais aller se coucher en colère, pas même une nuit” (et, à ce que je vois, avec vous ça marche). Une maxime qui peut aussi servir pour tous les chrétiens. J’aime dire aux couples de ne pas se disputer. Mais s’ils se disputent, il n’y a pas de problème, car il est normal de se fâcher. C’est normal. Et parfois se disputer un peu fort – de temps en temps, la vaisselle vole -, mais ce n’est pas un problème : se fâcher mais à condition qu’on fasse la paix avant la fin de la journée. Ne jamais finir la journée en guerre. À vous tous époux : ne jamais finir la journée en guerre. Et savez-vous pourquoi ? Parce que la ‘‘guerre froide’’ du jour suivant est très dangereuse. ‘‘Et, Père, comment peut-on faire la paix ?’’. Fais ainsi [il fait le geste d’une caresse] : un geste et la paix est faite. Seulement un geste d’amour. Compris ? Ça, c’est pour les couples. C’est vrai que, comme vous l’avez aussi raconté, on passe à travers diverses épreuves ; pour cela, il est nécessaire d’être attentifs parce que la colère, la rancœur ou l’amertume ne doivent jamais prendre possession du cœur. Et en cela, nous devons nous aider, prendre soin les uns des autres afin que la flamme que l’Esprit a allumée dans notre cœur ne s’éteigne pas.
Vous reconnaissez, et vous en êtes reconnaissants, que vos prêtres et vos sœurs prennent soin de vous. Ils sont bons ! Un applaudissement pour eux ! Mais quand je vous écoutais, j’ai été touché par ce prêtre qui partageait non pas combien il avait été bon durant ces années de ministère, mais qui a plutôt parlé des personnes que Dieu a mises à ses côtés pour l’aider à devenir un bon ministre de Dieu. Et vous êtes ces personnes !
Le Peuple de Dieu remercie son pasteur et le pasteur reconnaît qu’il apprend à être croyant – attention à ceci : il apprend à être croyant - avec l’aide de son peuple, de sa famille et au milieu d’eux. Quand un prêtre ou une personne consacrée, même un évêque comme moi, s’éloigne du peuple de Dieu, son cœur se refroidit et perd cette capacité de croire comme le peuple de Dieu. C’est pourquoi j’aime cette affirmation : le peuple de Dieu aide les consacrés – qu’ils soient prêtres, évêques ou sœurs – à être des croyants. Le peuple de Dieu est une communauté vivante qui soutient, accompagne, intègre et enrichit. Jamais séparés, mais unis, chacun apprend à être signe et bénédiction de Dieu pour les autres. Le prêtre, sans son peuple, perd son identité et le peuple, sans ses pasteurs, peut se diviser. L’unité du pasteur qui soutient et lutte pour son peuple et le peuple qui soutient et lutte pour son pasteur. Cela est grand ! Chacun consacre sa vie aux autres. Personne ne peut vivre seulement pour soi, nous vivons pour les autres. Saint Paul le disait dans l’une de ses lettres : ‘‘Personne ne vit pour soi’’. ‘‘Père, je connais une personne qui vit pour elle-même’’. Et cette personne est-elle heureuse ? Est-elle capable de donner la vie aux autres ? Est-elle capable de sourire ? Ce sont des personnes égoïstes. C’est le peuple sacerdotal qui, avec le prêtre, est en mesure de dire : « Ceci est mon corps livré pour vous ». C’est le peuple de Dieu uni au prêtre. Ainsi, nous apprenons à être une Église-famille-communauté qui accueille, écoute, accompagne, se préoccupe des autres en révélant son vrai visage qui est un visage de mère. L’Église est mère. Église-mère qui vit et fait siens les problèmes de ses enfants, non pas en offrant des réponses toutes faites. Non, les mamans, quand elles doivent faire face à la situation des enfants, elles disent ce qui leur vient à l’esprit à ce moment-là. Les mamans n’ont pas de réponses toutes faites : elles répondent avec leur cœur, avec leur cœur de mère. De même, l’Église, cette Église qui est composée de nous tous, peuple et prêtres ensemble, évêques, consacrés, tous ensemble, cherche ainsi des chemins de vie, des chemins de réconciliation ; elle cherche à rendre présent le Règne de Dieu. Église-famille-communauté qui prend en main les nœuds de la vie qui, très souvent, sont de grosses pelotes, et avant de les dénouer, les fait siens, les reçoit dans ses mains et les aime. Ainsi procède une maman : quand elle voit un fils ou une fille qui est ‘‘noué’’ dans de nombreuses difficultés, elle ne le condamne pas : elle prend ces difficultés, ces nœuds dans ses mains, elle les fait siens et elle les dénoue. Il en est de même pour notre Mère l’Église. C’est ainsi que nous devons la voir. Elle est la mère qui nous prend tels que nous sommes, avec nos difficultés, avec nos péchés également. Elle est mère, elle sait toujours régler les choses. N’estimons-nous pas bon d’avoir une mère comme cela ? Ne vous éloignez jamais, ne jamais s’éloigner de l’Église ! Et si tu t’éloignes, tu vas perdre la mémoire de la maternité de l’Église ; tu commenceras à penser du mal de ta Mère l’Église, et plus tu t’éloignes, plus cette image de mère deviendra une image de marâtre. Mais la marâtre est dans ton cœur. L’Église est mère.
Une famille parmi les familles, - c’est cela, l’Église - ouverte pour témoigner, comme nous disait la sœur, au monde d’aujourd’hui de la foi, de l’espérance et de l’amour envers le Seigneur et envers ceux qu’Il aime avec prédilection. Une maison avec les portes ouvertes. L’Église est une maison qui a les portes ouvertes, car elle est mère. J’ai été très touché par une chose qu’avait écrite un prêtre. Il était poète et aimait beaucoup la Vierge. C’était aussi un prêtre pécheur, il était conscient d’être un pécheur, mais il allait chez la Vierge et pleurait devant la Vierge. Une fois, il a écrit une poésie, en demandant pardon à la Vierge et en prenant la résolution de ne jamais s’éloigner de l’Église. Il écrivait ceci : ‘‘Ce soir, Seigneur, la promesse est sincère. Mais, à tout hasard, n’oublie pas de laisser la clef dehors’’. Marie et l’Église ne ferment jamais de l’intérieur ! Toujours, si elles ferment la porte, la clef est dehors : tu peux ouvrir. Et voilà notre espérance ! L’espérance de la réconciliation. ‘‘Père, vous dites que l’Église et la Vierge sont une maison qui a toujours les portes ouvertes, mais si vous saviez, Père, les choses horribles que je fais dans ma vie : pour moi, les portes de l’Église, même les portes du cœur de la Vierge, sont fermées’’. – ‘‘Tu as raison, elles sont fermées, mais approche-toi, regarde bien et tu trouveras la clef dehors. Fais ainsi, ouvre et entre. Tu ne dois pas sonner à la porte. Ouvre avec cette clef-là’’. Et cela vaut pour toute la vie !
En ce sens, j’ai un “petit travail” pour vous. Vous êtes des enfants dans la foi des grands témoins qui furent capables de témoigner, par leur vie, de l’amour du Seigneur sur cette terre. Les frères Cyrille et Méthode, hommes saints et avec de grands rêves, se convainquirent que la manière la plus authentique pour parler avec Dieu était de le faire dans sa propre langue. Ceci leur donna l’audace de se décider à traduire la Bible pour que personne ne restât privé de la Parole qui donne la vie.
Être une maison aux portes ouvertes, sur les pas de Cyrille et Méthode, requiert aujourd’hui aussi de savoir être audacieux et créatifs pour se demander comment il est possible de traduire de manière concrète et compréhensible aux jeunes générations l’amour que Dieu a pour nous. Nous devons être audacieux, courageux ! Nous savons et nous expérimentons que « les jeunes, dans les structures habituelles, ne trouvent souvent pas de réponses à leurs préoccupations, à leurs besoins, à leurs problèmes et à leurs blessures » (Exhort. Ap. Christus vivit, n. 202). Et ceci nous demande un nouvel effort d’imagination dans nos actions pastorales pour chercher la manière d’atteindre leur cœur, de connaître leurs attentes et d’encourager leurs rêves, en tant que communauté-famille qui soutient, accompagne et invite à regarder l’avenir avec espérance. Une grande tentation que les nouvelles générations affrontent réside dans le manque de racines, de racines qui les soutiennent, et cela les conduit au déracinement et à une grande solitude. Nos jeunes, au moment où ils se sentent appelés à exprimer tout le potentiel dont ils disposent, restent maintes fois à mi-chemin à cause des frustrations ou des déceptions qu’ils expérimentent parce qu’ils n’ont pas de racines sur lesquelles prendre appui pour regarder de l’avant (cf. ibid., nn. 179-186). Et cela s’accroît quand ils se voient obligés d’abandonner leur terre, leur patrie, leur famille.
N’ayons pas peur d’accepter de nouveaux défis, à condition que nous nous efforcions par tous les moyens de faire en sorte que notre peuple ne soit pas privé de la lumière et de la consolation qui naissent de l’amitié avec Jésus. Je voudrais souligner ceci que j’ai dit concernant les jeunes, qui souvent perdent les racines. Aujourd’hui, dans le monde, il y a deux groupes de personnes qui souffrent beaucoup : les jeunes et les personnes âgées. Nous devons les faire se rencontrer. Les personnes âgées sont les racines de notre société, nous ne pouvons pas les renvoyer de notre société, elles sont la mémoire vivante de notre foi. Les jeunes ont besoin de racines, de mémoire. Faisons en sorte qu’ils communiquent entre eux, sans peur. Il y a une prophétie du prophète Joël : ‘‘Les anciens feront des rêves et les jeunes prophétiseront’’ (cf. 3, 1). Quand les jeunes rencontrent les personnes âgées et les personnes âgées les jeunes, les personnes âgées commencent à revivre, elles font de nouveau des rêves et les jeunes prennent courage au contact des anciens, ils vont de l’avant et commencent à faire ce qui est si important dans leur vie, à savoir, embrasser l’avenir. Il faut que les jeunes embrassent l’avenir, mais cela n’est possible que s’ils ont les racines des anciens. Quand je venais ici à la paroisse, dans les rues il y avait beaucoup de personnes âgées, beaucoup d’anciens et d’anciennes. Ils souriaient… Ils ont un trésor en eux-mêmes. Et il y avait beaucoup de jeunes qui également saluaient et souriaient. Qu’ils se rencontrent ! Que les personnes âgées donnent aux jeunes cette capacité de prophétiser, c’est-à-dire d’embrasser l’avenir. Ce sont les défis d’aujourd’hui. Et n’ayons pas peur ! Nous acceptons de nouveaux défis, à condition que nous nous efforcions par tous les moyens de faire en sorte que notre peuple ne soit pas privé de la lumière et de la consolation qui naissent de l’amitié avec Jésus, d’une communauté de foi qui le soutient et d’un horizon toujours stimulant et rénovateur qui lui donne sens et vie (cf. Exhort. Ap. Evangelii Gaudium, n. 49). N’oublions pas que les pages les plus belles de la vie de l’Église ont été écrites quand le peuple de Dieu, avec créativité, se mettait en route pour chercher à traduire l’amour de Dieu en chaque moment de l’histoire, avec les défis qu’il rencontrait progressivement. Le peuple uni, le peuple de Dieu, avec le sensus fidei qui lui est propre. C’est beau de savoir que vous pouvez compter sur une grande histoire vécue, mais c’est encore plus beau de prendre conscience qu’il vous a été donné d’écrire ce qui est à venir. Ces pages n’ont pas été écrites. Vous devez les écrire, vous ! L’avenir est dans vos mains, le livre de l’avenir, c’est vous qui devez l’écrire. Ne vous lassez pas d’être une Église qui continue d’engendrer, au milieu des contradictions, des douleurs et de beaucoup de pauvreté, mais c’est l’Église Mère qui enfante continuellement, qui engendre les enfants dont cette terre a besoin aujourd’hui au début du 21ème siècle, en ayant une oreille sur l’Évangile et l’autre sur le cœur de votre peuple. Merci… - Je n’ai pas fini ! Je vais vous tourmenter un peu encore. Merci pour cette belle rencontre. Et, en pensant au Pape Jean, je voudrais que la bénédiction que je vous donne maintenant soit une caresse du Seigneur sur chacun de vous. Il avait donné cette bénédiction en souhaitant qu’elle soit une caresse ; il a donné cette bénédiction à la lumière de la lune.
Prions ensemble, prions la Vierge qui est image de l’Église. Priez dans votre langue.
[Ils prient le Je vous salue Marie en bulgare].
[Bénédiction].
[00745-FR.02] [Texte original: Italien]
Traduzione in lingua inglese
Dear Brothers and Sisters,
Good afternoon! Thank you for your warm welcome and for your dancing and testimonies. I am told that the translation is on the screens. That’s good.
Bishop Iovcev asked me to help you – full of joy at meeting the People of God with its myriad faces and charisms – to help you to “see with eyes of faith and love”. But first, I would like to thank you for helping me to see better and to understand a little more fully why this land was so dear and important to Saint John XXIII. Here the Lord was preparing what would be an important step in our ecclesial journey. Here he developed strong friendships with our Orthodox brothers and sisters, and this led him on a path that would help foster the longed-for, yet ever fragile sense of fraternity between individuals and communities.
To see with the eyes of faith. I would like to recall something that “Good Pope John” once said. His heart was so attuned to the Lord that he could register his disagreement with those around him who saw nothing but evil and to refer to them as “prophets of doom”. He was convinced of the need to trust in God’s providence, which constantly accompanies us and even in the midst of adversity is capable of bringing about his deeper and unforeseeable plans (Opening Address of the Second Vatican Council, 11 October 1962).
God’s people learn to see, trust, discover and let themselves be guided by the power of the resurrection. They recognize, of course, that there will always be painful times and unjust situations, yet they do not wring their hands, shrink back in fear or, even worse, create a climate of scepticism, discomfort or disruption, since this does nothing but harm the soul, causing hope to flag and hindering every possible solution. Men and women of God have the courage to take the first step – this is important: to take the first step – in finding creative ways of directly testifying that Love is not dead, but has triumphed over every obstacle. Men and women of God get involved because they have learned that, in Jesus, God himself gets involved. He put his own flesh at stake so that no one will feel alone or abandoned. And this is the beauty of our faith: God gets involved by making himself one of us.
I would like to share with you an experience I had a few hours ago. This morning I visited the Vrazhdebna refugee camp and met asylum-seekers and refugees from various countries of the world who are looking for a better place to live than the one they left. I also met the Caritas volunteers [applause for the Caritas volunteers who stand up, each one a wearing red T-shirt]. When I came in here and saw the Caritas volunteers, I asked who they were because I thought they were fire fighters! All in red! There [at Vrazhdebna Centre] they told me that the heart of the Centre’s – this refugee Centre’s – life and work is born from the recognition that every person is a child of God, regardless of ethnicity or religious confession. In order to love someone, there is no need to ask for a curriculum vitae; love precedes, it always goes onward, it takes the first step. Why? Why is love gratuitous? In that Caritas Centre are many Christians who have learned to see with God’s own eyes. God is not worried about labels, but seeks out and awaits each person with a Father’s eyes. But do you know something? We have to be careful! We have fallen into the culture of labels: “this person is like that, that one like this, this one like that…”. This is not what God wants. He or she is a person, made in God’s image. No labels! Let’s leave labels up to God; we just give love, to every person. This is true of gossip too. It’s so easy for gossip to come between us! “Ah, this one is like that, this one does that…”. We are always labelling people. I am not talking about you, because I know there is no gossiping here, but let’s think about places where gossip happens. And that means labelling: labelling people. We must move from the culture of labelling things to the reality of naming persons. Seeing with the eyes of faith is a summons not to spend your life pinning labels, classifying those who are worthy of love and those who are not, but trying to create conditions in which every person can feel loved, especially those who feel forgotten by God because they are forgotten by their brothers and sisters. Brothers and sisters, those who love do not waste time in self-pity, but always try to do something concrete. In the Centre, they learn to see problems, to acknowledge them and to confront them; they let themselves be questioned and try to discern things with the eyes of the Lord. As Pope John said: “I never met a pessimist who managed to do something good”. Pessimists never do anything good. Pessimists ruin everything. When I think of a pessimist, I think of a delicious pie. What does the pessimist do? He or she pours vinegar onto the pie, and ruins everything. Pessimists ruin everything. Love on the other hand opens doors, always! Pope John was right: “I never met a pessimist who managed to do something good”. The Lord is the first not to be pessimistic. He constantly tries to open up paths of resurrection for all of us. The Lord is an incurable optimist! He is always seeking to think well of us, to carry us onward, to wager on us. How marvellous it is when our communities become building sites of hope! The optimist is a man or woman who creates hope in the community.
On the other hand, to see things with the eyes of God, we need other people. We need them to teach us to look and feel the way Jesus looks and feels, to let our heart beat with his own feelings. This is why it pleased me when Mitko and Miroslava, with their little daughter Bilyana, told us that for them the parish has always been their second home, the place where they always found strength to carry on, amid community prayer and the support of loved ones. A parish of optimism, that helps people go forwards.
The parish, in this way, becomes a home in the midst of homes. It manages to make the Lord present there, where every family, every person tries to earn their daily bread. There, at every street corner, is the Lord, who did not want to save us by decree, but came into our midst. He wants to enter into the heart of our families and say to us, as he did to the disciples: “Peace be with you!” The Lord’s greeting is good: “Peace be with you!” Where there are storms, where there is darkness, where there is doubt, where there is anxiety, the Lord says: “Peace be with you!”. And he does not only say it: he makes peace.
I am happy that you like the “advice” I share with spouses: “Never go to bed angry, not even for one night”. From what I see, it works for you! It is a bit of advice that can also be helpful for all Christians. I like to tell couples not to argue, but if they do argue, that it’s okay, because it is normal to get cross. It’s normal. And sometimes even arguing rather fiercely – sometimes even plates go flying – but it’s okay to get cross, as long as the day ends in peace. Never finish the day still fighting. To all of you couples: never finish the day still fighting. And do you know why? Because the “cold war” by day becomes very dangerous later. “But, Father, how do we make peace? Where I can learn how to speak words to make peace?” Do it like this [he makes the gesture of caressing]: one gesture and peace is restored. Just one gesture of love. Understood? This is for couples.
It is true that, as you also said, we experience various trials; that is why we need to be on guard against anger, resentment or bitterness taking possession of our hearts. We have to help each other in this, caring for one another, so that the fire that the Spirit has kindled in our hearts never goes out.
You appreciate, and are grateful, that your priests and religious sisters care for you. They are good! A round of applause for them. As I was listening to you, I was struck by that priest who spoke not about how successful he had been during his years of ministry, but about all those people God placed in his path to help him become a good minister of God. And you are these people.
The People of God is grateful to its priests, and priests recognize that they learn how to be believers – pay attention to this: they learn how to be believers – with the help of their people, their family, living in their midst. When a priest or a consecrated person, even a bishop like me, distances himself from the People of God, his heart grows cold and he loses that ability to believe as the People of God do. This is why I like the statement: the People of God help the consecrated – be they priests, bishops or sisters – to be believers. The People of God are a living community, one that supports, accompanies, integrates and enriches. Never separated, but united, where everyone learns to be a sign and blessing of God for others. A priest without his people loses his identity, and a people can grow apart without its priests. The unity between the priest who supports and fights for his people, and the people who support and fight for their priest. This is a great thing! Each dedicates his or her life to the others. None of us can live only for ourselves; we live for others. Saint Paul said this in one of his letters: “No one lives to himself”. “Father, I know a person who lives for themselves”. And is that person happy? Is he capable of giving his life for others? Is he able to smile? They are selfish people. The priestly people can say with its priests: “This is my body given up for you”. This is the People of God united to their priest. That is how we learn to be a Church, a family and a community that welcomes, listens, accompanies, cares for others, revealing its true face, which is that of a mother. The Church is a mother. A Church that is a mother – Mother Church – experiences and makes her children’s problems her own, not offering ready-made answers. No. When mothers have to respond to the reality of their children, they say what comes into their minds at that moment. Mothers do not have ready-made answers: they answer with their hearts, with a mother’s heart. The Church is like this too, this Church which is made up of all of us, people and priests together, bishops, consecrated men and women: all are seeking paths of life together, paths of reconciliation. Trying to make present the Kingdom of God. A Church, a family and a community that takes up the knotty problems of life, which are often like balls of tangled wool; before untangling them, it has to make them its own, taking them into its hands and loving them. A mother does this too: when she sees her son or daughter “knotted up” in all kinds of difficulties, she does not condemn them: she takes those difficulties, those knots in her hands, makes them her own and solves them. Our Church-who-is-a-mother does this. This is how we must look at her. She is the mother who accepts us as we are, with our difficulties, even with our sins. She is a mother, she always knows how to sort things out. Isn’t it wonderful to have a mother like that? Never separate yourself from her, never leave the Church! Because if you do go away, you will lose your memory of the Church’s motherhood; you will start to think badly of your Mother the Church, and the further from her you go, the more that image of a mother will become the image of a cruel stepmother. But the cruel stepmother is inside your heart; the Church is a mother.
A family among families – this is the Church – open to bearing witness in today’s world, as our sister told us, open to faith, hope and love for the Lord and for those whom he has a preferential love. A home with open doors. The Church is a home with open doors, because she is a mother. Something that a great priest wrote really struck me. He was a poet who loved Our Lady very much. He was also a priest and a sinner, he knew he was a sinner, but he went to Our Lady and wept before her. He wrote a poem once, asking forgiveness from Our Lady and resolving never to separate himself from the Church. This is what he wrote: “This evening, my Lady, my promise is sincere. But, just in case, don’t forget to leave the key on the outside of the door”. Mary and the Church never close the door from inside! If they do close the door, the key is always on the outside: you can open it. And this is our hope. The hope of reconciliation. “Father, you say that the Church and Our Lady are a home with open doors, but if she knew, Father, the dreadful things that I’ve done in my life: for me the doors of the Church, and even the doors of Our Lady’s heart, are closed”. “You are right: they are closed, but come closer, look carefully and you will see that the key is on the outside. Just do that, open and go in. You don’t have to ring the bell. Open with the key right there”. And this is true for the whole of our lives.
In this sense, I have a “job” for you. You are the children, in faith, of the great witnesses who testified by their lives to the love of the Lord in these lands. The brothers Cyril and Methodius, holy men with great dreams, were convinced that the most authentic way to talk to God was in one’s own language. This made them boldly decide to translate the Bible, so that no one would be without the Word of life.
Being a home with open doors, in the footsteps of Cyril and Methodius, means that today too, we need to be bold and creative. We have to ask how we can translate the love God has for us into concrete and understandable language for the younger generation. We have to be bold, courageous. We know from experience that “young people frequently fail to find in our usual programmes a response to their concerns, their needs, their problems and issues” (Christus Vivit, 202). And this requires of us new and imaginative efforts in our pastoral outreach. Finding ways to touch their hearts, to learn about their expectations and to encourage their dreams, as a community-family that supports, accompanies and points to the future with hope. A great temptation faced by young people is the lack of roots, of deep roots to support them; as a result, they feel uprooted and alone. Our young people, when they feel called to express all the potential they possess, often give up half-way because of the frustrations or disappointments they experience, since they have no roots to rely on as they look to the future (cf. ibid. 179-186). How much more so, when they are forced to leave behind their homes, their country and their family.
I would like to emphasize what I said about young people, who so often lose their roots. Today, in the world, there are two groups of people who suffer a great deal: young people and the elderly. We must help to let them meet up. The elderly are the roots of our society; we cannot send them away from our community; they are the living memory of our faith. Young people need roots, need memory. Let us ensure that they can communicate between each another, without fear. There is a beautiful prophecy of the prophet Joel: “Your old men shall dream dreams, and your young men see visions” (cf. 3:1). When young people meet the elderly and the elderly meet the young, the elderly start to live again, start dreaming again, and young people take courage from the old; they go forwards and begin to do what is most important in their lives, that is, to “spend time” with the future. We need young people to “become familiar” with the future, but this can only happen if they have roots of the elderly. When I arrived here in the parish, there were many elderly in the streets, many older men and women. They were smiling… They have treasure inside them. And there were many young people who also greeted and smiled. May they meet up with each other! May the elderly give to the young this ability to prophesy, that is, to “spend time” with the future. These are the wagers of today. And let us not be afraid. Let us meet new challenges, as long as we make every effort to ensure that our people never lack the light and consolation born of friendship with Jesus, a community of faith to support them, and ever new horizons that can give them meaning and a goal in life (cf. Evangelii Gaudium, 49). May we never forget that the most beautiful chapters in the life of the Church were written when God’s People set out with creativity to translate the love of God in their own time, with the challenges they gradually encountered. A united people, the People of God, with the sensus fidei which is proper to it. It is good to know that you can count on a great living history, but it is even more beautiful to realize that you are being asked to write its next chapter. These pages have not been written. You have to write them. The future is in your hands; you must write the book of the future. Never tire of being a Church that continues to give birth, amid the contradictions, sorrows and also much poverty, the Church-who-is-a-mother that continually has children, that gives life to the sons and daughters that this land needs today, at the start of this twenty-first century. Always listen with one ear to the Gospel and the other to the heart of your people.
Thank you… I haven’t finished! I’m still tormenting you a little more – thank you for this very enjoyable meeting. And, thinking of Pope John, I would like the blessing I now give you to be a caress of the Lord for each of you. Pope John had given this blessing with his wish that it be a caress, that blessing he gave in the moonlight [at the opening of the Second Vatican Council].
Let us pray together, let us ask Our Lady who is the image of the Church. Pray in your language.
[They recite the Hail Mary in Bulgarian]
[Blessing]
[00745-EN.02] [Original text: Italian]
Traduzione in lingua tedesca
Liebe Brüder und Schwestern,
einen schönen Nachmittag! Ich danke euch für die herzliche Begrüßung, für die Tänze und die Zeugnisse. Man hat mir gesagt, dass die Übersetzung auf den Bildschirmen angezeigt wird. Das geht gut so.
Bischof Iovčev hat mich gebeten, euch zu helfen, – in dieser Freude, dem Volk Gottes mit seinen tausend Gesichtern und Charismen zu begegnen – also euch zu helfen, „mit den Augen des Glaubens und der Liebe zu sehen“. Zunächst möchte ich mich bei euch dafür bedanken, dass ihr mir geholfen habt, den Grund mehr zu sehen und besser zu verstehen, weshalb der heilige Johannes XXIII. dieses Land so sehr geliebt hat und es für ihn so bedeutsam war. Hier hat der Herr das vorbereitet, was für unseren kirchlichen Weg ein wichtiger Schritt werden sollte. In eurer Mitte keimte eine starke Freundschaft mit den orthodoxen Brüdern auf, die ihm den Weg zur Schaffung der erhofften zarten Brüderlichkeit zwischen den Personen und den Gemeinschaften ebnete.
Mit den Augen des Glaubens sehen. Ich will hier an die Worte des „guten Papstes“ erinnern, der sein Herz mit dem des Herrn so in Einklang zu bringen wusste, dass er sagen konnte, nicht mit denen einverstanden zu sein, die um sich herum nur Böses sahen. Er nannte sie Unglückspropheten. Seiner Meinung nach sollte man Vertrauen in die göttliche Vorsehung haben. Sie begleitet uns immer und kann inmitten von Widerständen höhere und unerwartete Pläne verwirklichen (vgl. Ansprache zur Eröffnung des Zweiten Vatikanischen Konzils, 11. Oktober 1962).
Menschen Gottes sind die, welche gelernt haben, von der Kraft der Auferstehung her zu sehen, zu vertrauen, neu zu entdecken und sich lieben zu lassen. Sie sehen sehr wohl, dass es schwierige und besonders ungerechte Situationen und Momente gibt. Aber sie bleiben davor nicht untätig und eingeschüchtert stehen. Schlimmer ist, wenn dann ein Klima des Unglaubens, des Unbehagens oder des Missmuts genährt wird. Das schadet nur der Seele, weil sie die Hoffnung schwächt und jede mögliche Lösung vereitelt. Männer und Frauen Gottes sind die, welche den Mut zum ersten Schritt haben – das ist wichtig: den ersten Schritt gehen –; sie suchen auf kreative Weise, ein Beispiel zu geben, indem sie bezeugen, dass die Liebe nicht tot ist, sondern jedes Hindernis überwunden hat. Die Männer und Frauen Gottes bringen sich ein, weil sie erkannt haben, dass sich Gott in Jesus selber eingebracht hat. Er hat sein eigenes Fleisch aufs Spiel gesetzt, damit sich niemand einsam oder verlassen fühlen kann. Und dies ist die Schönheit unseres Glaubens: Gott, der sich einbringt, indem er sich zu einem von uns macht.
In diesem Sinn will ich euch von einem Erlebnis vor einigen Stunden berichten. Heute Morgen hatte ich im Flüchtlingslager in Wraschdebna die Freude, Flüchtlingen aus verschiedenen Ländern zu begegnen, die auf der Suche sind nach einem besseren Leben, als das, was sie hinter sich gelassen haben. Ich habe auch freiwillige Helfer der Caritas getroffen. [Applaus für die freiwilligen Helfer der Caritas, die alle mit einem roten T-Shirt bekleidet aufstehen]. Als ich hier hereingekommen bin und die freiwilligen Helfer der Caritas gesehen habe, habe ich gefragt, wer sie seien, weil ich dachte, sie seien Feuerwehrleute! So rot! Dort [im Zentrum von Wraschdebna] wurde mir gesagt, dass das Herz dieses Flüchtlingszentrums aus dem Bewusstsein entsteht, dass jeder Mensch ein Kind Gottes ist, unabhängig von der ethnischen Herkunft oder dem religiösen Bekenntnis. Um jemanden zu lieben, brauche ich nicht nach seinem Lebenslauf zu fragen; die Liebe geht voraus, sie geht immer voran, sie kommt zuvor. Warum? Weil die Liebe unentgeltlich ist. In diesem Caritaszentrum gibt es viele Christen, die gelernt haben, mit den Augen des Herrn zu sehen, der sich nicht bei den Adjektiven aufhält, sondern jeden mit den Augen des Vaters sucht und erwartet. Aber wisst ihr was? Wir müssen aufpassen! Wir sind in die Kultur des Adjektivs gefallen: „Diese Person ist dies, diese Person ist das, diese Person ist so…“ Und Gott will dies nicht. Es ist eine Person, es ist ein Abbild Gottes. Keine Adjektive! Lassen wir, dass Gott die Adjektive einfügt; wir geben die Liebe, bei jeder Person. Dies gilt deshalb auch für das Gerede. Wie einfach schleicht sich bei uns das Gerede ein. „Ach, dieser ist dies, dieser tut das…“. Immer „adjektivieren“ wir die Leute. Ich spreche nicht über euch, weil ich weiß, dass es hier kein Gerede gibt, aber denken wir an den Ort, wo es Gerede gibt. Dies ist das Adjektiv: die Leute adjektivieren. Wir müssen von der Kultur des Adjektivs zur Wirklichkeit des Substantivs übergehen. Das Sehen mit Augen des Glaubens ist eine Einladung, sein Leben nicht damit zu verbringen, den Leuten Etiketten umzuhängen, je nachdem, ob jemand liebenswert ist oder nicht. Es geht darum, nach den Bedingungen zu suchen, damit jede Person sich geliebt fühlen kann, besonders die, welche sich von Gott vergessen fühlt, weil sie von ihren Mitmenschen vergessen wurde. Brüder und Schwestern, wer liebt, verschwendet nicht seine Zeit mit Selbstmitleid, sondern findet immer etwas Konkretes zu tun. In diesem Zentrum habt ihr gelernt, die Probleme zu sehen, zu erkennen und anzugehen; ihr lasst euch herausfordern und versucht, mit den Augen des Herrn die Unterscheidungen zu treffen. So sagt das Papst Johannes XXIII.: „Ich habe nie einen Pessimisten getroffen, der etwas Gutes hervorgebracht hätte“. Die Pessimisten tun nie etwas Gutes. Die Pessimisten machen alles kaputt. Wenn ich an den Pessimisten denke, kommt mir ein schöner Kuchen in den Sinn: Was tut der Pessimist? Er gießt Essig auf den Kuchen, er macht alles kaputt. Die Pessimisten machen alles kaputt. Die Liebe hingegen öffnet die Türen, immer! Papst Johannes hatte Recht: „Ich habe nie einen Pessimisten getroffen, der etwas Gutes hervorgebracht hätte“. Der Herr selbst ist kein Pessimist; immer versucht er, uns Wege der Auferstehung zu eröffnen. Der Herr ist ein unverbesserlicher Optimist! Immer versucht er, gut über uns zu denken, uns voranzubringen, auf uns zu setzen. Wie schön, wenn unsere Gemeinschaften Baustellen der Hoffnung sind! Der Optimist ist ein Mann oder eine Frau, der Hoffnung in der Gemeinschaft stiftet.
Um aber den Blick Gottes einzunehmen, brauche wir die anderen; sie müssen uns beibringen, wie Jesus zu sehen und zu fühlen, damit unser Herz mit seinen eigenen Gefühlen schlagen kann. So hat mir sehr gefallen, als Mitko und Miroslawa mit ihrem kleinen Engel Biyana erzählt haben, dass für sie die Pfarrei immer wie ihre zweite Heimat ist, ein Ort, an dem sie durch das gemeinschaftliche Gebet und die Unterstützung der lieben Mitmenschen immer die Kraft zum Weitermachen finden. Eine optimistische Pfarrei, welche hilft, weiterzumachen.
So wird die Pfarrei zu einer Heimat inmitten der vielen Behausungen und vergegenwärtigt den Herrn gerade dort, wo jede Familie und jeder Mensch sein tägliches Brot zu verdienen bemüht ist. Dort, an der Kreuzung der Straßen, steht der Herr, der uns nicht mit einer Verordnung retten wollte, sondern der in das Innerste unserer Familien gekommen ist und kommen will und uns, wie einst zu den Jüngern, sagen will: „Friede sei mit euch!“. Der Gruß des Herrn „Friede sei mit euch!“ ist schön. Wo der Sturm ist, wo die Dunkelheit ist, wo der Zweifel ist, wo die Angst ist, sagt der Herr: „Friede sei mit euch!“. Und er sagt es nicht nur: Er stellt den Frieden her.
Ich freue mich, dass ihr diesen „Leitspruch“ gut findet, den ich gerne den Eheleuten mitgebe: „Nie im Streit schlafen gehen, nicht mal eine Nacht“ (und scheinbar funktioniert das bei euch). Ein Leitspruch, der auch für alle Christen nützlich sein kann. Ich sage den Paaren gern, nicht zu streiten; aber wenn sie streiten, so ist es auch kein Problem; weil es normal ist, sich aufzuregen. Es ist normal. Und manchmal recht heftig zu streiten – manchmal fliegen die Teller –, es ist kein Problem: streiten unter der Bedingung, dass man Frieden schließt, bevor der Tag zu Ende geht. Niemals den Tag im Krieg beenden. Euch allen Eheleuten sage ich: niemals den Tag im Krieg beenden. Und wisst ihr warum? Weil der „kalte Krieg“ des Tags danach sehr gefährlich ist. „Und, Pater, wie kann man Frieden schließen? Wo kann ich die Redeweisen lernen, um Frieden zu schließen?“ Mache dies [er deutet die Geste des Streichelns an]: Eine Geste und der Friede ist hergestellt. Nur eine Geste der Liebe. Verstanden? Dies für die Paare. Natürlich geht man, wie auch ihr erzählt habt, durch verschiedene Prüfungen; deshalb muss man aufpassen, dass nie Zorn, Verstimmung oder Bitterkeit das Herz in Beschlag nehmen. Darin müssen wir uns gegenseitig helfen, wir müssen dafür Sorge tragen, dass die Flamme, die der Geist in unserem Herzen entzündet hat, nicht erlischt.
Ihr erkennt an und seid dafür dankbar, dass eure Priester und eure Schwestern sich um euch kümmern. Sie sind tüchtig! Ein Applaus für sie. Aber als ich euch zugehört habe, hat mich besonders der Priester gerührt, der nicht davon erzählte, wie gut er seinen Dienst in all den Jahren geleistet hat, sondern von den Menschen berichtete, die Gott an seine Seite gestellt hat, um ihm zu helfen, ein guter Diener Gottes zu werden. Und diese Personen seid ihr.
Das Volk Gottes dankt seinem Hirten, und der Hirte erkennt seinerseits an, dass er mit der Hilfe seiner Leute, seiner Familie und inmitten seiner Familie lernt, gläubig zu sein – habt Acht darauf: lerne gläubig zu sein. Wenn ein Priester oder eine gottgeweihte Person, auch ein Bischof wie ich, sich vom Volk Gottes entfernt, erkaltet das Herz und diese Fähigkeit, wie das Volk Gottes zu glauben, geht verloren. Deshalb gefällt mir diese Aussage: Das Volk Gottes hilft den Gottgeweihten – seien sie Priester, Bischöfe oder Ordensschwestern – gläubig zu sein. Das Volk Gottes ist eine lebendige Gemeinschaft, die trägt, begleitet, integriert und bereichert. Nie getrennt, sondern zusammen; so lernt jeder, ein Zeichen für und ein Segen von Gott für die anderen zu sein. Der Priester verliert ohne sein Volk seine Identität; das Volk kann sich ohne seine Hirten aufsplittern. Das ist die Einheit von dem Hirten, der sein Volk stärkt und für es kämpft, und dem Volk, das seinen Hirten stärkt und für ihn kämpft. Das ist großartig! Jeder widmet sein Leben dem Nächsten. Niemand kann nur für sich selbst leben, wir leben für die anderen. Und dies sagte der heilige Paulus in einem seiner Briefe: „Niemand lebt für sich“. „Pater, ich kenne eine Person, die für sich lebt“. Und ist diese Person glücklich? Ist sie fähig, das Leben für die anderen zu geben? Ist sie fähig, zu lächeln? Es sind die egoistischen Personen. Das ist das priesterliche Volk, das zusammen mit dem Priester sagen kann: „Das ist mein Leib, der für euch hingegeben wird“. Das ist das Volk Gottes, das mit dem Priester vereint ist. So lernen wir, eine Kirche/Familie/Gemeinschaft zu sein, die aufnimmt, zuhört, begleitet, sich um den Nächsten sorgt und so ihr wahres Gesicht zeigt, das Antlitz einer Mutter. Die Kirche ist Mutter. Die Kirche als Mutter, welche die Sorgen der Kinder mitlebt und zu ihren eigenen macht, ohne vorgefertigte Antworten. Nein. Wenn die Mütter auf die Vorstellungswelt der Kinder antworten müssen, sagen sie das, was ihnen in diesem Augenblick in den Sinn kommt. Die Mutter haben keine vorgefertigten Antworten: Sie antworten mit dem Herzen, mit dem Herzen einer Mutter. So sucht die Kirche, diese Kirche, die aus uns allen besteht, Volk und Priester zusammen, Bischöfe, Gottgeweihte, alle zusammen, gemeinsam nach Wegen des Lebens, nach Wegen der Versöhnung; dabei versucht sie, das Reich Gottes zu vergegenwärtigen. Kirche/Familie/Gemeinschaft, welche die Knoten des Lebens, die oft wie große Wollknäuel sind, angeht und sie, bevor sie diese zu lösen versucht, als die ihrigen annimmt, sie in ihre Hände aufnimmt und sie liebt. So tut eine Mutter: Wenn sie einen Sohn oder eine Tochter sieht, der in viele Schwierigkeiten „verwickelt“ ist, verurteilt sie ihn nicht: Sie nimmt diese Schwierigkeiten, diese Knoten in ihre Hände, sie macht sie sich zu eigen und löst sie. So ist unsere Mutter Kirche. So müssen wir sie sehen. Sie ist die Mutter, die uns nimmt, wie wir sind, mit unseren Schwierigkeiten, auch mit unseren Sünden. Sie ist unsere Mutter, sie weiß die Dinge immer zu regeln. Erscheint es uns nicht schön, solch eine Mutter zu haben? Entfernt euch nie von der Kirche! Und wenn du dich entfernst, wirst du die Erinnerung an die Mütterlichkeit der Kirche verlieren; du wirst anfangen, schlecht über deine Mutter Kirche zu denken, und je weiter weg du gehst, desto mehr wird das Mutterbild zum Bild der Stiefmutter. Aber die Stiefmutter ist in deinem Herzen! Die Kirche ist Mutter!
Eine Familie unter Familien – das ist die Kirche – die, wie uns die Schwester sagte, offen dafür ist, der heutigen Welt den Glauben, die Hoffnung und die Liebe zum Herrn und zu denen, die er besonders liebt, zu bezeugen. Ein Haus mit offenen Türen. Die Kirche ist ein Haus mit offenen Türen, weil sie Mutter ist. Mich hat etwas sehr beeindruckt, was ein großer Priester geschrieben hatte. Er war ein Dichter und liebte die Gottesmutter sehr. Er war auch ein sündiger Priester, er wusste darum, Sünder zu sein, aber er ging zur Gottesmutter und weinte vor der Gottesmutter. Einmal schreib er ein Gedicht, in dem er die Gottesmutter um Vergebung bat und den festen Vorsatz fasste, sich niemals von der Kirche zu entfernen: Er schrieb so: „Heute Abend, Mutter, ist das ein aufrichtiges Versprechen. Aber auf alle Fälle: Vergiss nicht, den Schlüssel außen stecken zu lassen“. Maria und die Kirche schließen niemals von innen ab! Immer wenn sie die Türe schließen, steckt der Schlüssel außen: du kannst öffnen. Und dies ist unsere Hoffnung. Die Hoffnung der Versöhnung. „Pater, Sie sagen, dass die Kirche und die Gottesmutter ein Haus mit offenen Türen sind, aber wenn Sie, Pater, um die bösen Dinge wüssten, die ich im Leben getan habe… für mich sind die Türen der Kirche, auch die Türen des Herzens der Gottesmutter, verschlossen“- „Du hast recht, sie sind verschlossen, aber komme näher, schaue gut hin und du wirst den Schlüssel auf der Außenseite finden. Tue dies, öffne und tritt ein. Du musst nicht klingeln. Öffne mit diesem Schlüssel“. Und dies gilt für das ganze Leben!
In diesem Sinn habe ich eine „Hausaufgabe“ für euch. Ihr seid im Glauben Kinder der großen Zeugen, die in diesem Land mit ihrem Leben die Liebe des Herrn bezeugt haben. Die Brüder Cyrill und Methodius, heilige Männer mit großen Träumen, waren überzeugt davon, dass die beste Weise, von Gott zu reden, das Reden in der eigenen Sprache war. Deshalb hatten sie den Mut, die Bibel zu übersetzen, damit niemand ohne das Wort verbliebe, das Leben verleiht.
Ein offenes Haus zu sein verlangt auch heute, auf den Spuren von Cyrill und Methodius mutig und kreativ zu sein. Wir müssen uns fragen, wie wir die Liebe, die Gott für uns hegt, in einer konkreten und für die junge Generation verständlichen Art übersetzen können. Wir müssen kühn und mutig sein. Denn wir wissen und erleben: »Junge Menschen finden in den üblichen Strukturen oft keine Antworten auf das, was sie bewegt, auf ihre Bedürfnisse, Probleme und Verwundungen« (Apostolisches Schreiben Christus vivit, 202). Das verlangt von uns eine erneute Ideensuche für unsere pastoralen Einsätze. Als eine Gemeinschaft und Familie, die trägt, begleitet und dazu einlädt, hoffnungsvoll auf die Zukunft zu blicken, sollen wir versuchen ihre Herzen zu erreichen, ihre Erwartungen zu kennen und ihre Träume zu ermutigen. Eine große Versuchung innerhalb der neuen Generation ist der Mangel an Wurzeln, an Wurzeln, die sie tragen könnten. Das führt zu Haltlosigkeit und großer Einsamkeit. Unsere Jugendlichen bleiben oft gerade dann, wenn sie ihre eigenen Fähigkeiten voll einsetzen wollen, auf halber Strecke stecken, aufgrund von Frustrationen oder Enttäuschungen, die sie erleben. Sie besitzen keine Wurzeln, auf die sie sich stützen können, um nach vorne zu schauen (vgl. ebd., 179-186). Das wird noch schlimmer, wenn sie sich gezwungen sehen, das eigene Land, die eigene Heimat, die eigene Familie zu verlassen.
Ich möchte das hervorheben, was ich über die jungen Menschen, die oftmals die Wurzeln verlieren, gesagt habe. Heute gibt es in der Welt zwei Personengruppen, die sehr leiden: die jungen und die alten Menschen. Wir müssen sie zur Begegnung miteinander bringen. Die alten Menschen sind die Wurzeln unserer Gesellschaft, wir können sie nicht aus unseren Gemeinschaften wegschicken, sie sind das lebendige Gedächtnis unseres Glaubens. Die jungen Menschen bedürfen der Wurzeln, des Gedächtnisses. Führen wir sie dazu, miteinander ohne Angst zu sprechen. Es gibt eine schöne Prophezeiung des Propheten Joël: „Die Alten werden Träume haben und die jungen Menschen werden weissagen“ (vgl. 3,1). Wenn die jungen sich mit den alten Menschen und die alten sich mit den jungen Menschen treffen, beginnen die alten Menschen wiederaufzuleben, sie kehren zum Träumen zurück, und die jungen Menschen fassen von den alten Menschen Mut, sie gehen voran und beginnen, das zu tun, was in ihrem Leben so wichtig ist, nämlich die Zukunft aufzusuchen. Wir haben es nötig, dass die jungen Menschen die Zukunft aufsuchen, aber das kann man nur tun, wenn sie die Wurzeln der Alten haben. Als ich hier in der Pfarrei ankam, waren in den Straßen viele alte Menschen, viele alte Männer und alte Frauen. Sie lächelten… Sie tragen einen Schatz in sich. Und es waren viele jungen Menschen da, die auch grüßten und lächelten. Sie sollen sich begegnen! Die alten Menschen mögen den Jungen die Fähigkeit geben, zu weissagen, also die Zukunft aufzusuchen. Dies sind die Wetteinsätze von heute. Und haben wir keine Angst. Nehmen wir neue Herausforderungen an. Dabei müssen wir uns aber mit jedem Mittel dafür einsetzen, dass unseren Gläubigen nie das Licht und der Trost fehlen, die aus der Freundschaft mit Jesus und einer Glaubensgemeinschaft stammen, welche diese stärkt, und dass ihnen nie der anziehende und Erneuerung weckende Horizont fehlt, aus dem sie Sinn und Leben schöpfen (vgl. Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium, 49). Wir dürfen nicht vergessen, dass die schönsten Kapitel im Leben der Kirche dann geschrieben wurden, wenn sich das Volk Gottes kreativ auf den Weg gemacht hat, um gegenüber der jeweiligen Herausforderung die Liebe Gottes in jeden Augenblick der Geschichte hinein zu übersetzen. Das vereinte Volk, das Volk Gottes, mit dem ihm eigenen sensus fidei. Es ist schön zu wissen, dass ihr auf eine großartige erlebte Geschichte zählen könnt. Aber es ist noch schöner, sich bewusst zu machen, dass es euch aufgetragen ist, das zu schreiben, was im Kommen ist. Diese Seiten sind noch nicht geschrieben worden. Ihr müsst sie schreiben. Die Zukunft ist in euren Händen, ihr müsst das Buch der Zukunft schreiben. Werdet nicht müde, eine Kirche zu sein, die inmitten von Widerständen, Leid und auch viel Armut weiter die Kinder hervorbringt, es ist die Mutter Kirche, die beständig Kinder hervorbringt, die Kinder, welche dieses Land heute am Beginn des 21. Jahrhunderts braucht. Habt ein offenes Ohr für das Evangelium und gleichzeitig für das Herz eures Volkes. Danke…– ich bin nicht fertig! Ich werde euch noch etwas quälen – Danke für dieses schöne Treffen. Und in Erinnerung an Papst Johannes XXIII. wünsche ich mir, dass mein Segen jetzt wie eine Liebkosung des Herrn für jeden von euch sei. Er hatte diesen Segen mit dem Wunsch gegeben, dass er eine Liebkosung sei; jener Segen, den er beim Mondschein gab.
Beten wir zusammen zur Gottesmutter, die Bild der Kirche ist. Betet in eurer Sprache.
[Sie beten das Gegrüßet seist du Maria auf Bulgarisch]
[Segen]
[00745-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]
Traduzione in lingua spagnola
Queridos hermanos y hermanas:
Buenas tardes. Os agradezco vuestra calurosa acogida, vuestras danzas y testimonios. Me dicen que la traducción estará en las pantallas. Está bien así.
Mons. Iovcev me ha pedido que os ayude —en esta alegría de poder encontrar al santo Pueblo de Dios con sus mil rostros y carismas—, que os ayude a “ver con ojos de fe y de amor”. Ante todo, quisiera agradeceros porque me habéis ayudado a ver mejor y a comprender un poco más por qué esta tierra fue tan querida y significativa para Juan XXIII, donde el Señor iba preparando lo que sería un paso importante en nuestro caminar eclesial. Entre vosotros surgió una fuerte amistad con los hermanos ortodoxos que lo impulsó por un camino capaz de generar la tan ansiada y frágil fraternidad entre las personas y las comunidades.
Ver con los ojos de la fe. Quiero recordar las palabras del “Papa bueno”, que supo sintonizar su corazón con el del Señor de tal manera que decía que no estaba de acuerdo con aquellos que sólo veían el mal a su alrededor y los llamó profetas de calamidades. Para él, había que confiar en la Providencia, que nos acompaña continuamente y, en medio de las adversidades, es capaz de darle cumplimiento a planes superiores e inesperados (cf. Discurso de apertura del Concilio Vaticano II, 11 octubre 1962).
Los hombres de Dios son quienes han aprendido a mirar, confiar, descubrir y dejarse guiar por la fuerza de la resurrección. Reconocen, sí, que existen momentos o situaciones dolorosas y especialmente injustas, pero no se quedan de brazos cruzados, acobardados o, lo que sería peor, creando ambientes de incredulidad, de malestar o desazón, ya que eso sólo termina por enfermar el alma, dañar la esperanza e impedir toda posible solución. Los hombres y mujeres de Dios son los que se animan a dar el primer paso —esto es importante: dar el primer paso— y buscan creativamente ponerse en la primera línea, testimoniando que el Amor no está muerto, sino que ha vencido todos los obstáculos. Los hombres y las mujeres de Dios se la juegan, porque aprenden que, en Jesús, Dios mismo se la ha jugado. Puso su carne en juego para que nadie pueda sentirse solo o abandonado. Y esta es la belleza de nuestra fe: Dios se la juega haciéndose uno de nosotros.
En este sentido, quiero compartir con vosotros una experiencia reciente. Esta mañana, en el Campo de Refugiados de Vrazhedebna, tuve la alegría de reunirme con refugiados y personas acogidas de varios países del mundo que buscan un contexto de vida mejor que el que dejaron, y también he encontrado a los voluntarios de Cáritas [Aplauso a los voluntarios de Cáritas, que se ponen en pie, todos con la camiseta roja]. Cuando he entrado aquí y he visto a los voluntarios de Cáritas, he preguntado quiénes eran, porque pensaba que eran los bomberos. ¡Vestidos tan rojos! Allí [en el Centro de Vrazhedebna] me dijeron que el corazón del Centro —de este Campo de refugiados— nace de la conciencia de que toda persona es hija de Dios, independientemente de su etnia o confesión religiosa. Para amar a alguien no hay necesidad de exigir o pedirle un curriculum vitae; el amor “primerea”, va siempre por delante, se adelanta. ¿Por qué? Porque el amor es gratuito. En este centro de Cáritas son muchos los cristianos que aprendieron a ver con los mismos ojos del Señor, que no se detiene en adjetivos, sino que busca y espera a cada uno con ojos de Padre. ¿Sabéis una cosa? Tenemos que estar atentos. Hemos caído en la cultura del adjetivo: “esta persona es esto, esta persona es esto, esta persona es esto…”. Y Dios no quiere eso. Es una persona, es imagen de Dios. Nada de adjetivos. Dejemos que Dios ponga los adjetivos; nosotros pongamos el amor, en cada persona. Así, esto sirve también para el chismorreo. Con qué facilidad se da entre nosotros el chismorreo. “Ah, este es eso, este hace esto…”. Siempre “adjetivamos” a la gente. Yo nos estoy hablando de vosotros, porque sé que aquí no hay chismorreo, pero pensemos en el lugar donde se dicen chismes. Esto es el adjetivo: adjetivar a la gente. Tenemos que pasar de la cultura del adjetivo a la realidad del sustantivo. Ver con los ojos de la fe es la invitación a no ir por la vida poniendo etiquetas, clasificando qué persona es digna o no de amor, sino tratar de crear las condiciones para que toda persona pueda sentirse amada, especialmente aquellas que se sienten olvidadas de Dios porque son olvidadas de sus hermanos. Hermanos y hermanas, quien ama no pierde el tiempo en lamentarse, sino que siempre ve lo que puede hacer en concreto. En este centro habéis aprendido a ver los problemas, a reconocerlos, a mirarlos de frente, os dejáis interpelar y buscáis discernir con los ojos del Señor. Como dijo el papa Juan: «No he conocido nunca a un pesimista que haya terminado algo bueno». Los pesimistas no hagan nunca nada bueno. Los pesimistas arruinan todo. Cuando pienso en el pesimista, me viene a la mente una buena tarta: ¿Qué hace el pesimista? Hecha vinagre sobre la tarta, lo arruina todo. Los pesimistas lo arruinan todo. En cambio el amor abre las puertas, ¡siempre! Papa Juan tenía razón: «No he conocido nunca a un pesimista que haya terminado algo bueno». El Señor es el primero en no ser pesimista y continuamente está buscando abrir caminos de Resurrección para todos nosotros. El Señor es un optimista incorregible. Siempre busca pensar bien de nosotros, de llevarnos adelante, de apostar por nosotros. Qué lindas son nuestras comunidades cuando se convierten en talleres de esperanza. El optimista es un hombre o una mujer que crea esperanza en la comunidad.
Pero para tener la mirada de Dios, necesitamos de los demás, necesitamos que nos enseñen a mirar y a sentir cómo mira y siente Jesús; que nuestro corazón pueda palpitar con sus mismos sentimientos. Por eso me gustó cuando Mitko y Miroslava, con su pequeño angelito Bilyana, nos decían que para ellos la parroquia fue siempre su segunda casa. Lugar donde siempre encuentran, mediante la oración común y la ayuda de las personas queridas, la fuerza para seguir adelante. Una parroquia optimista, que ayuda a seguir adelante.
Así, la parroquia se transforma en una casa en medio de todas las casas y es capaz de hacer presente al Señor allí donde cada familia, cada persona busca cotidianamente ganarse el pan. Allí, en el cruce de los caminos, está el Señor, que no quiso salvarnos por decreto, sino que entró y quiere entrar en lo más recóndito de nuestros hogares y decirnos, como dijo a sus discípulos: «¡La paz esté con vosotros!». Es hermoso el saludo del Señor: «¡La paz esté con vosotros!». Donde hay tempestad, donde hay oscuridad, donde hay duda, donde hay angustia, el Señor dice: «¡La paz esté con vosotros!». Y no solo lo dice: hace la paz.
Me alegra saber que os parece acertada esa “máxima” que me gusta compartir con los matrimonios: «Nunca ir a la cama enfadados, ni siquiera una noche» —y, por lo que veo, con vosotros funciona—. Es una máxima que puede servir también para todos los cristianos. A mí me gusta decir a las parejas que no discutan, pero si discuten, no hay problema, porque es normal enfadarse. Es normal. Y a veces discutir un poco fuerte —alguna vez vuelan los platos—, pero no hay problema: enfadarse con la condición de hacer las paces antes de que acabe el día. Nunca terminar el día en guerra. A todos vosotros, esposos: nunca terminar el día en guerra. Y, ¿sabéis por qué? Porque la “guerra fría” del día después es muy peligrosa. “Y, Padre, ¿cómo se puede hacer la paz? ¿Dónde puedo aprender los discursos para hacer la paz?” Haz así [hace el gesto de una caricia]: un gesto y está hecha la paz. Solamente un gesto de amor. ¿Entendido? Esto para las parejas. Es cierto que, como vosotros también habéis contado, uno pasa por distintas pruebas, por eso es necesario velar para que la rabia, el rencor o la amargura nunca se apoderen del corazón. Y en eso nos tenemos que ayudar, cuidarnos unos a otros para que no se apague la llama que el Espíritu derramó en nuestro corazón.
Vosotros reconocéis y agradecéis que vuestros sacerdotes y religiosas se ocupen de vosotros. ¡Son buenos! Un aplauso para ellos. Pero cuando os escuchaba me llamó la atención ese sacerdote que compartía, no lo bien que lo ha hecho en estos años de ministerio, sino que ha hablado de las personas que Dios ha puesto a su lado para ayudarlo a ser un buen ministro de Dios. Y estas personas sois vosotros.
El Pueblo de Dios agradece a su pastor y el pastor reconoce que aprende a ser creyente —atención a esto: aprende a ser creyente— con la ayuda de su pueblo, de su familia y en medio de ellos. Cuando un sacerdote o una persona consagrada, también un obispo como yo, se aleja del Pueblo de Dios, el corazón se enfría y pierde esa capacidad de creer como el Pueblo de Dios. Por esto me gusta esta afirmación: el Pueblo de Dios ayuda a los consagrados —ya sean sacerdotes, obispos o religiosas— a ser creyentes. El Pueblo de Dios es una comunidad viva que sostiene, acompaña, complementa y enriquece. Nunca separados, sino juntos, cada uno aprende a ser signo y bendición de Dios para los demás. El sacerdote sin su pueblo pierde identidad y el pueblo sin sus pastores puede fragmentarse. La unidad del pastor que sostiene y lucha por su pueblo, y el pueblo que sostiene y lucha por su pastor. ¡Esto es grande! Cada uno dedica su vida a los demás. Nadie puede vivir para sí, vivimos para los demás. Y esto lo decía san Pablo en una de sus cartas: “Nadie vive para sí”. “Padre, yo conozco una persona que vive para sí”. ¿Y esa persona es feliz? ¿Es capaz de dar su vida a los demás? ¿Es capaz de sonreír? Son las personas egoístas. Es el pueblo sacerdotal el que, junto al sacerdote, puede decir: «Este es mi cuerpo que se entrega por vosotros». Este es el Pueblo de Dios unido al sacerdote. Así aprendemos a ser una Iglesia-hogar-comunidad que acoge, escucha, acompaña, se preocupa de los demás revelando su verdadero rostro, que es rostro de madre. La Iglesia es madre. Iglesia-madre que vive y hace suyo el problema de los hijos, no ofreciendo respuestas pre confeccionadas. No. Las mamás, cuando tienen que responder a la realidad de los hijos, dicen lo que les viene a la mente en ese momento. Las mamás no tienen respuestas pre confeccionadas: responden con el corazón, con el corazón de madre. Así la Iglesia, esta Iglesia que está hecha por todos nosotros, pueblo y sacerdotes juntos, obispos, consagrados, todos juntos, busca juntos caminos de vida, caminos de reconciliación; busca hacer presente el Reino de Dios. Iglesia-hogar-comunidad que afronta las cuestiones importantes de la vida, que a menudo son grandes madejas de hilo, y antes de desenredarlas las hace suyas, las acoge en sus manos y las ama. Así hace una madre: cuando ve a un hijo o a una hija que está “anudado” en tantas dificultades, no lo condena: toma esa dificultad, esos nudos en sus manos, los hace suyos y los resuelve. Así es nuestra Madre Iglesia. Así debemos de mirarla. Es la madre que nos toma como somos, con nuestras dificultades, con nuestros pecados también. Es madre, sabe siempre arreglar las cosas. ¿No os parece que es hermoso tener una madre así? Nunca alejaros, nunca alejarse de la Iglesia. Y si tú te alejas, perderás la memoria de la maternidad de la Iglesia; comenzarás a pensar mal de tu Madre Iglesia, y cuanto más lejos vayas, esa imagen de madre más se convertirá en una imagen de madrastra. Pero la madrastra está dentro de tu corazón. La Iglesia es madre.
Un hogar entre los hogares —esta es la Iglesia—, abierto, como nos decía la hermana, para testimoniar al mundo actual la fe, la esperanza y el amor al Señor y a aquellos que Él ama con predilección. Una casa de puertas abiertas. La Iglesia es una casa con las puertas abiertas, porque es madre. Me impactó mucho una cosa que escribió un gran sacerdote. Él era un poeta y amaba mucho a la Virgen. Era también un sacerdote pecador, él sabía que era pecador, pero iba a la Virgen y lloraba delante de la Virgen. Una vez escribió una poesía, pidiendo perdón a la Virgen y haciendo el propósito de no alejarse nunca de la Iglesia. Escribió así: “Esta noche, Señora, la promesa es sincera. Pero, por lo que pueda pasar, no te olvides de dejar fuera la llave de la puerta”. María y la Iglesia nunca cierran por dentro. Siempre, si cierran la puerta, la llave está fuera: tú puedes abrir. Y esta es nuestra esperanza. La esperanza de la reconciliación. “Padre, usted dice que la Iglesia y la Virgen son una casa con las puertas abiertas, pero si usted supiera, padre, las cosas feas que he hecho en la vida: para mí las puertas de la Iglesia, también las puertas de la corazón de la Virgen, están cerradas” — “Tienes razón, están cerradas, pero acércate, mira bien y encontrarás la llave en la parte de fuera. Haz así, abre y entra. No debes de llamar al timbre. Abre con esa llave allí”. Y esto vale para toda la vida.
En este sentido, tengo un “trabajito” para vosotros. Vosotros sois hijos en la fe de dos grandes testigos que fueron capaces de testimoniar con su vida el amor del Señor en estas tierras. Los hermanos Cirilo y Metodio, hombres santos y visionarios, tuvieron la certeza de que la manera más auténtica para hablar con Dios era hacerlo en la propia lengua. Eso les dio la audacia de animarse a traducir la Biblia para que nadie pudiera quedar privado de la Palabra que da vida.
Ser una casa de puertas abiertas, siguiendo las huellas de Cirilo y Metodio, implica también hoy animarse a ser audaces y creativos para preguntarse cómo se puede traducir de manera concreta a las generaciones más jóvenes el amor que Dios nos tiene. Tenemos que ser audaces, valerosos. Sabemos y experimentamos que «los jóvenes, en las estructuras habituales, muchas veces no encuentran respuestas a sus inquietudes, necesidades, problemáticas y heridas» (Exhort. apost. postsin. Christus vivit, 202). Esto nos pide una mayor imaginación en nuestras acciones pastorales para buscar la manera de llegar a su corazón, conocer sus búsquedas y alentar sus sueños como comunidad-hogar que sostiene, acompaña e invita a mirar el futuro con esperanza. Una tentación grande que enfrentan las nuevas generaciones es la falta de raíces, de raíces que los sostengan y esto los lleva al desarraigo y a una gran soledad. Nuestros jóvenes, cuando se sienten llamados a desplegar todo el potencial que poseen, muchas veces quedan a mitad de camino por las frustraciones o las desilusiones que experimentan, ya que no poseen raíces donde apoyarse para mirar adelante (cf. ibíd., 179-186). Y eso aumenta cuando se ven obligados a dejar su tierra, su patria, su hogar.
Quisiera subrayar lo que he dicho sobre los jóvenes, que tantas veces pierden las raíces. Hoy, en el mundo, hay dos grupos de personas que sufren mucho: los jóvenes y los anciano. Tenemos que hacer que se encuentren. Los ancianos son las raíces de nuestra sociedad, no podemos mandarlos fuera de nuestra comunidad, son la memoria viva de nuestra fe. Los jóvenes tienen necesidad de raíces, de memoria. Hagamos que se comuniquen entre ellos, sin miedo. Hay una hermosa profecía del profeta Joel: “Vuestros ancianos soñarán y vuestros jóvenes profetizarán” (3,1). Cuando los jóvenes se encuentran con los ancianos y los ancianos con los jóvenes, los ancianos empiezan a revivir, vuelven a soñar y los jóvenes reciben ánimo de los ancianos, van adelante y empiezan a hacer eso que es tan importante en su vida, es decir, frecuentar el futuro, pero esto solo se puede hacer si tienen las raíces de los viejos. Cuando estaba llegando aquí a la parroquia, en las calles había tantos ancianos, tantos viejecitos y viejecitas. Sonreían… Tienen un tesoro dentro. Y había tantos jóvenes que también saludaban y sonreían. ¡Que se encuentren! Que los ancianos den a los jóvenes esta capacidad esta capacidad de profetizar, es decir de frecuentar el futuro. Estos son los desafíos de hoy. Y no tengamos miedo a asumir nuevos desafíos siempre que busquemos por todos los medios que nuestro pueblo no sea privado de la luz y el consuelo que nace de la amistad con Jesucristo.. de una comunidad de fe que lo contenga y de un horizonte siempre desafiante y renovador que le dé sentido y vida (cf. Exhort. apost. Evangelii gautium, 49). No nos olvidemos que las páginas más hermosas de la Iglesia fueron escritas cuando el Pueblo de Dios se ponía en camino creativamente, para buscar traducir el amor de Dios en cada momento de la historia, con los desafíos que se iban encontrando. El pueblo unido, el Pueblo de Dios, con el sensus fidei que le es propio. Es lindo saber que contáis con una gran historia vivida, pero es más hermoso saber que a vosotros se os confió escribir lo que vendrá. Estas páginas no se han escrito. Debéis de escribirlas vosotros. El futuro está en vuestras manos, el libro del futuro lo tenéis que escribir vosotros. No os canséis de ser una Iglesia que siga engendrando, en medio de las contradicciones, dolores y también tanta pobreza, pero es la Iglesia Madre que continuamente hace hijos, engendra a los hijos que esta tierra necesita hoy en los inicios del s. XXI, teniendo un oído en el Evangelio y el otro en el corazón de vuestro pueblo. Gracias… —no he terminado. Os atormentaré todavía un poco más—, gracias por este hermoso encuentro. Y pensando en el papa Juan, quisiera que la bendición que os doy ahora sea una caricia del Señor para cada uno de vosotros. Él dio aquella bendición con el deseo de que fuese una caricia; aquella bendición que dio a la luz de la luna.
Recemos juntos, recemos a la Virgen que es imagen de la Iglesia. Rezad en vuestra lengua.
[Recitan el Ave María en búlgaro]
[Bendición]
[00745-ES.01] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua portoghese
Queridos irmãos e irmãs,
Boa tarde! Agradeço-vos a calorosa receção, as danças e os testemunhos. Dizem-me que a tradução aparece nos écrans gigantes. Está bem assim.
Nesta alegria de encontrar o Povo de Deus, com os seus mil rostos e carismas, o Bispo D. Iovcev pediu-me – para vos ajudar a «ver com olhos de fé e amor». Antes de tudo, quero agradecer-vos porque me ajudastes a mim a ver melhor e a compreender um pouco mais o motivo pelo qual esta terra foi tão amada e significativa para São João XXIII, onde o Senhor estava a preparar algo que haveria de ser um passo importante no nosso caminho eclesial. No vosso meio, germinou uma forte amizade com os irmãos ortodoxos e isso impeliu-o por uma estrada capaz de gerar a tão suspirada e frágil fraternidade entre as pessoas e as comunidades.
Ver com os olhos da fé. Desejo recordar as palavras do «Papa bom», que soube sintonizar de tal modo o seu coração com o Senhor, que pôde dizer que não estava de acordo com as pessoas que ao redor de si mesmas só viam mal, chamando-as profetas da desgraça. Segundo ele, era preciso ter confiança na Providência, que nos acompanha continuamente e, no meio das adversidades, é capaz de realizar desígnios superiores e inesperados (cf. Discurso de abertura do Concílio Vaticano II, 11 de outubro de 1962).
Os homens de Deus são aqueles que aprenderam a ver, confiar, descobrir e deixar-se guiar pela força da ressurreição. Reconhecem – é verdade! – que existem situações ou momentos dolorosos e particularmente injustos, mas não ficam ociosos, assustados ou, pior ainda, alimentando um clima de incredulidade, de mal-estar ou aborrecimento, porque isto nada mais faz do que prejudicar a alma, debilitando a esperança e impedindo qualquer solução possível. Os homens e as mulheres de Deus são aqueles que têm a coragem de dar o primeiro passo – isto é importante: dar o primeiro passo – e, com criatividade, procuram colocar-se na linha da frente, testemunhando que o Amor não está morto, mas venceu todos os obstáculos. Os homens e as mulheres de Deus arriscam, pois aprenderam que, em Jesus, arriscou o próprio Deus. Arriscou a própria carne, para que ninguém pudesse sentir-se sozinho ou abandonado. Esta é beleza da nossa fé: Deus que arrisca, fazendo-Se um de nós.
Neste sentido, quero partilhar convosco uma experiência vivida algumas horas atrás. De manhã, tive a alegria de encontrar, no campo de Vrazhedebna, deslocados e refugiados que vieram de vários países do mundo para encontrar uma situação de vida melhor daquela que deixaram, e encontrei também voluntários da Cáritas [aplauso aos voluntários da Cáritas, que se põem de pé, todos com uma camiseta vermelha]. Quando entrei aqui e vi os voluntários da Cáritas perguntei quem fosse, imaginando eu que seriam os bombeiros. Assim vermelhos! Disseram-me lá [no Centro de Vrazhedebna] que o coração do Centro – daquele Centro de Refugiados – é constituído pela consciência de que toda a pessoa é filha de Deus, independentemente da etnia ou confissão religiosa. Para amar alguém, não é preciso pedir-lhe o seu currículo; o amor precede, sempre vai adiante, antecipa-se. Porquê? Porque o amor é gratuito. Naquele Centro da Cáritas, são muitos os cristãos que aprenderam a ver com os próprios olhos do Senhor, o Qual não se detém nos adjetivos, mas procura e atende a cada um com olhar de Pai. Sabeis uma coisa? Devemos ter cuidado! Caímos na cultura do adjetivo: «esta pessoa é isto, essa pessoa é isso, aquela pessoa é aquilo». E Deus não quer isto. É uma pessoa, é imagem de Deus. Sem adjetivos! Deixemos que Deus coloque os adjetivos; nós colocamos o amor, em cada pessoa. E o mesmo vale para as bisbilhotices. Com quanta facilidade acontecem as bisbilhotices entre nós! «Ah este é assim, aquele é assado …» Sempre adjetivamos as pessoas. Não estou a falar de vós, pois sei que aqui não há bisbilhotices, mas pensemos no lugar onde as há. Isto é o adjetivo: adjetivar as pessoas. Devemos passar da cultura do adjetivo para a realidade do substantivo. Ver com os olhos da fé convida-nos a passar a vida, não colando etiquetas nem classificando quem é digno de amor e quem não o é, mas procurando criar as condições para que cada pessoa possa sentir-se amada, sobretudo quem se sente esquecido por Deus porque é esquecido pelos seus irmãos. Irmãos e irmãs, quem ama, não perde tempo em lamentos, mas procura sempre algo de concreto que possa fazer. Naquele Centro, aprenderam a ver os problemas, reconhecê-los, enfrentá-los; deixaram-se interpelar e procuraram discernir com os olhos do Senhor. Como disse o Papa João, «nunca conheci um pessimista que tenha concluído algo de bom». Os pessimistas nunca fazem nada de bom. Os pessimistas estragam tudo. Quando penso no pessimista, vem-me à mente um lindo bolo… Que faz o pessimista? Verte vinagre no bolo, estraga tudo. Os pessimistas estragam tudo. Ao contrário, o amor sempre abre as portas! O Papa João tinha razão: «nunca conheci um pessimista que tenha concluído algo de bom». O Senhor é o primeiro a não ser pessimista e procura continuamente abrir, para todos nós, caminhos de Ressurreição. O Senhor é um incurável otimista! Sempre procura pensar bem de nós, levar-nos para diante, apostar em nós. Como é belo quando as nossas comunidades lembram um canteiro de obras de esperança! O otimista é um homem ou uma mulher que cria esperança na comunidade.
Mas, para adquirir o olhar de Deus, precisamos dos outros, precisamos que nos ensinem a olhar e sentir como Jesus olha e sente; que o nosso coração possa palpitar com os próprios sentimentos d’Ele! Por isso, gostei de ouvir Mitko e Miroslava, com o seu anjinho Bilyana, dizer-nos que, para eles, a paróquia sempre foi a sua segunda casa, o lugar onde sempre encontram, graças à oração comunitária e ao apoio das pessoas amigas, a força para prosseguir. Uma paróquia otimista, que ajuda a prosseguir.
Assim, a paróquia transforma-se numa casa no meio de todas as casas e é capaz de tornar presente o Senhor precisamente lá onde cada família, cada pessoa procura diariamente ganhar o seu pão. Lá, na encruzilhada das estradas, encontra-Se o Senhor, que não quis salvar-nos com um decreto, mas entrou e deseja entrar no mais íntimo das nossas famílias para nos dizer, como aos discípulos, «a paz esteja convosco!» É linda a saudação do Senhor: «A paz esteja convosco!» Onde houver a tempestade, onde houver a escuridão, onde houver a dúvida, onde houver a angústia, diz o Senhor: «A paz esteja convosco!» E não Se limita a dizer; faz a paz.
Fico feliz em saber que considerais boa esta «máxima» que gosto de partilhar com os cônjuges: «Nunca vades dormir zangados, nem uma noite sequer» (e convosco, pelo que vejo, funciona). Uma máxima, que pode servir também para todos os cristãos. Gosto de dizer aos casais para não litigarem, mas, se litigarem, não há problema, porque é normal zangar-se. É normal. E às vezes litigar um pouco forte – algumas vezes voam os pratos –, mas não há problema: zangar-se, contanto que se façam as pazes antes que acabe o dia. Nunca acabar o dia em guerra. A todos vós, cônjuges, digo: nunca acabeis o dia em guerra. E sabeis porquê? Porque a «guerra fria» do dia seguinte é muito perigosa. «Mas, padre, como se pode fazer a paz? Onde posso aprender os discursos para fazer a paz?» Faz assim [faz o gesto duma carícia]: um gesto e está feita a paz. Basta um gesto de amor. Claro? Isto para os casais… Como contastes vós mesmos, é verdade que se passa através de várias provas; por isso, é necessário estar atentos para que a ira, o ressentimento ou a amargura nunca se apoderem do coração. Nisto, devemos ajudar-nos uns aos outros, cuidar uns dos outros, para que não se apague a chama que o Espírito acendeu no nosso coração.
Reconheceis – e disso vos sentis agradecidos – que os vossos sacerdotes e irmãs cuidam de vós. São generosos! Um aplauso para eles... Mas, quando vos ouvia, impressionou-me aquele sacerdote que falou, não da sua boa prestação durante estes anos de ministério, mas das pessoas que Deus colocou junto dele para o ajudar a tornar-se um bom ministro de Deus. E, estas pessoas, sois vós.
O povo de Deus agradece ao seu pastor, e o pastor reconhece que aprende a ser crente – atenção a isto: aprende a ser crente – com a ajuda do seu povo, da sua família e no meio deles. Quando um sacerdote ou uma pessoa consagrada, mesmo um bispo como eu, se afasta do Povo de Deus, o coração resfria e perde aquela capacidade de crer como o Povo de Deus. Por isso, gosto desta afirmação: o Povo de Deus ajuda os consagrados – sejam eles sacerdotes, bispos ou irmãs – a ser crentes. O Povo de Deus é uma comunidade viva que apoia, acompanha, integra e enriquece. Nunca separados, mas unidos é que cada um aprende a ser sinal e bênção de Deus para os outros. Sem o seu povo, o sacerdote perde a identidade, e, sem os seus pastores, o povo pode fragmentar-se. A unidade do pastor que apoia e luta pelo seu povo, e este que apoia e luta pelo seu pastor. Isto é importante! Cada qual dedica a sua própria vida aos outros. Ninguém pode viver apenas para si mesmo; vivemos para os outros. É São Paulo quem o diz numa de suas cartas: «Ninguém vive para si mesmo». «Padre, eu conheço uma pessoa que vive para si mesma». E essa pessoa é feliz? É capaz de dar a vida aos outros? É capaz de sorrir? São pessoas egoístas... É o povo sacerdotal que pode dizer com o sacerdote: «Este é o meu corpo, que será entregue por vós». Este é o Povo de Deus, unido ao sacerdote. Assim, aprendemos a ser uma Igreja-família-comunidade que acolhe, escuta, acompanha, preocupa-se com os outros, revelando o seu verdadeiro rosto, que é rosto de mãe. A Igreja é mãe. Igreja-mãe que vive e assume os problemas dos filhos, não dando respostas pré-fabricadas. Não. As mães, quando precisam de responder à realidade dos filhos, dizem o que lhes vem à mente naquele momento. As mães não têm respostas pré-fabricadas: respondem com o coração, com o coração de mãe. Assim a Igreja – esta Igreja que é feita por todos nós, povo e sacerdotes juntos, bispos, consagrados, todos juntos – procura em conjunto caminhos de vida, caminhos de reconciliação; procura tornar presente o Reino de Deus. Igreja-família-comunidade que se ocupa dos nós da vida, tratando-se muitas vezes de grandes emaranhados e, antes mesmo de os desfazer, assume-os, ocupa-se deles e ama-os. Assim faz uma mãe: quando vê um filho ou uma filha que vive emaranhado em tantas dificuldades, não o condena: pega nas suas mãos aquelas dificuldades, aquele emaranhado de nós, fá-los seus e resolve-os. Assim é a nossa Mãe Igreja. Assim devemos vê-la. É a mãe que nos toma como somos, com as nossas dificuldades, até com os nossos pecados. É mãe, sempre sabe recompor as coisas. Não vos parece maravilhoso ter uma mãe assim? Nunca vos afasteis, nunca vos afasteis da Igreja! Porque se te afastares, perderás a memória da maternidade da Igreja; começarás a pensar mal da tua Mãe Igreja, e quanto mais te afastares, tanto mais aquela imagem de mãe se tornará uma imagem de madrasta. Mas a madrasta está dentro do teu coração. A Igreja é mãe.
Uma família entre as famílias – a Igreja é isto –, disponível – como nos dizia a irmã – para testemunhar ao mundo de hoje a fé, a esperança e o amor ao Senhor mas também àqueles que Ele ama com predileção. Uma casa com as portas abertas... A Igreja é uma casa com as portas abertas, porque é mãe. Muito me impressionou uma coisa que escrevera um grande sacerdote. Era um poeta e amava muito Nossa Senhora. Era também um padre pecador, e sabia que o era; mas ia ter com Nossa Senhora e chorava diante d’Ela. Uma vez ele escreveu uma poesia, pedindo perdão a Nossa Senhora e prometendo que nunca se afastaria da Igreja. Escrevia assim: «Esta noite, Senhora, a promessa é sincera. Mas, para qualquer eventualidade, não te esqueças de deixar a chave do lado de fora». Maria e a Igreja nunca fecham por dentro! Sempre, se fecham a porta, a chave está do lado de fora: tu podes abrir. E esta é nossa esperança. A esperança da reconciliação. «Padre, diz que a Igreja e Nossa Senhora são uma casa com as portas abertas, mas se soubesse, padre, as coisas ruins que fiz na vida! Para mim, as portas da Igreja, inclusive as portas do coração de Nossa Senhora, estão fechadas». - «Tens razão! Estão fechados. Mas aproxima-te, observa bem e encontrarás a chave do lado de fora. Faz assim: abre e entra! Não precisas de tocar à campainha. Abre com a chave que está lá». E isto vale para toda a vida!
Neste sentido, tenho uma incumbência para vós. Na fé, sois filhos das grandes testemunhas que foram capazes de testemunhar com a sua vida o amor do Senhor nestas terras. Os irmãos Cirilo e Metódio, homens santos e com grandes sonhos, convenceram-se de que a forma mais autêntica para falar com Deus era fazê-lo na sua própria língua. Isto deu-lhes a audácia necessária para se decidirem a traduzir a Bíblia, a fim de ninguém ficar privado da Palavra que dá vida.
Hoje, ser uma casa com as portas abertas, na esteira de Cirilo e Metódio, requer também saber ser audazes e criativos interrogando-se como será possível traduzir, de maneira concreta e compreensível para as gerações jovens, o amor que Deus tem por nós. Devemos ser audazes, corajosos. Sabemos e experimentamos que, «nas estruturas habituais, muitas vezes os jovens não encontram resposta para as suas inquietudes, necessidades, problemas e feridas» (Francisco, Exort. ap. pós-sinodal Christus vivit, 202). E isto pede-nos um novo esforço de imaginação nas nossas ações pastorais, para procurar o modo de alcançar o seu coração, conhecer as suas expetativas e encorajar os seus sonhos, como comunidade-família que apoia, acompanha e convida a olhar o futuro com esperança. Uma grande tentação enfrentada pelas novas gerações é a falta de raízes, de raízes que as sustentem, levando-as ao desenraizamento e a uma grande solidão. Os nossos jovens, no momento em que são chamados a expressar todo o potencial que possuem, muitas vezes ficam a meio do caminho por causa das frustrações ou das desilusões que sentem, pois não têm raízes onde apoiar-se para olhar em frente (cf. ibid., 179-186). E isto agrava-se, quando são forçados a deixar a própria terra, a sua pátria, a própria família.
Gostaria de destacar isto que disse a propósito dos jovens, ou seja, que muitas vezes perdem as raízes. Hoje, no mundo, há dois grupos de pessoas que sofrem tanto: os jovens e os idosos. Precisamos de os fazer encontrar. Os idosos são as raízes da nossa sociedade, não podemos mandá-los embora da nossa comunidade, são a memória viva da nossa fé. Os jovens precisam de raízes, de memória. Façamos de modo que comuniquem entre si, sem medo. Há uma linda profecia do profeta Joel: «Os velhos sonharão e os jovens profetizarão» (cf. 3, 1). Quando os jovens se encontram com os idosos e os idosos com os jovens, os idosos começam novamente a viver, voltam a sonhar e os jovens recebem coragem dos idosos, continuam para diante e começam a fazer o que é tão importante na sua vida: frequentar o futuro. Precisamos que os jovens frequentem o futuro, mas isto só o podem fazer se tiverem as raízes dos idosos. Quando vinha para aqui, para a paróquia, pelas estradas havia tantos idosos, tantos velhinhos e velhinhas. Sorriam... Têm dentro um tesouro. E havia tantos jovens, que também saudavam e sorriam. Que eles se encontrem! Que os idosos deem aos jovens esta capacidade de profetizar, isto é, de frequentar o futuro. Estas são as apostas de hoje. E não tenhamos medo. Aceitemos novos desafios, desde que nos esforcemos com todos os meios por fazer com que o nosso povo não fique privado da luz e consolação que brotam da amizade com Jesus, não fique privado duma comunidade de fé que o sustente e dum horizonte sempre estimulante e renovador que lhe dê sentido e vida (cf. Francisco, Exort. ap. Evangelii gaudium, 49). Não esqueçamos que as páginas mais belas da vida da Igreja foram escritas quando, com criatividade, o Povo de Deus se colocava em movimento procurando traduzir o amor de Deus em cada momento da história, com os desafios que pouco a pouco ia encontrando. O povo unido, o Povo de Deus, com o sentido da fé que lhe é próprio. É belo saber que podeis contar com uma grande história vivida, mas mais belo ainda é tomar consciência de que vos foi concedido, a vós, escrever aquilo que virá. Estas páginas ainda não foram escritas. Deveis escrevê-las vós. O futuro está nas vossas mãos; o livro do futuro, deveis escrevê-lo vós. Não vos canseis de ser uma Igreja que continua a gerar, por entre contradições, amarguras e também tantas necessidades, mas é a Igreja Mãe que continuamente faz filhos, gera os filhos de que esta terra precisa hoje, nos começos do século XXI, mantendo um ouvido atento ao Evangelho, e o outro ao coração do vosso povo. Obrigado… (Não acabei! Ainda vos farei tribular um pouco!) Obrigado por este maravilhoso encontro. E, pensando no Papa João, gostaria que a bênção, que agora vos dou, seja uma carícia do Senhor para cada um de vós. Ele dera aquela bênção – a bênção que dera, à luz da Lua – com o desejo de que fosse uma carícia.
Rezemos juntos! Rezemos a Nossa Senhora, que é imagem da Igreja. Rezai na vossa língua
[rezam a Ave-Maria em búlgaro].
[Bênção].
[00745-PO.02] [Texto original: Italiano]
Traduzione in lingua polacca
Drodzy bracia i siostry,
Dzień dobry! Dziękuję wam za serdeczne przyjęcie, za tańce i świadectwa. Możliwość spotkania świętego Ludu Bożego, z jego tysiącem twarzy i charyzmatów jest zawsze motywem radości.
Biskup Jovčev poprosił mnie, bym wam pomógł – w tej radości spotkania Ludu Bożego z jego tysiącem twarzy i charyzmatów – bym wam pomógł „widzieć oczyma wiary i miłości”. Przede wszystkim chciałbym wam podziękować, ponieważ pomogliście mi lepiej widzieć i nieco lepiej zrozumieć powód, dla którego ta ziemia była tak umiłowana i znacząca dla świętego Jana XXIII, gdzie Pan przygotowywał to, co miało się stać ważnym krokiem w naszym kościelnym pielgrzymowaniu. Między wami wyrosła silna przyjaźń dla braci prawosławnych, która wprowadziła go na drogę zdolną do zrodzenia długo oczekiwanego i delikatnego braterstwa między ludźmi i wspólnotami.
Widzieć oczyma wiary. Pragnę przypomnieć słowa „dobrego Papieża”, który potrafił zestroić swoje serce z Panem w taki sposób, aby mógł powiedzieć, że nie zgadza się z tymi, którzy widzieli wokół siebie tylko zło i, by nazywał ich prorokami nieszczęścia. Jego zdaniem trzeba mieć zaufanie do Opatrzności, która towarzyszy nam nieustannie, i pośród przeciwności losu, potrafi realizować plany lepsze i nieoczekiwane (Przemówienie na otwarcie II Soboru Watykańskiego, 11 października 1962 r.).
Ludzie Boży to ci, którzy nauczyli się widzieć, zaufać, odkrywać i pozwalać kierować się mocą zmartwychwstania. Owszem uznają, że są sytuacje bolesne i szczególnie niesprawiedliwe, ale nie pozostają z założonymi rękami, zastraszeni lub, co gorsza, podsycają klimat niedowierzania, wzburzenia czy irytacji, ponieważ szkodzi to tylko duszy, osłabiając nadzieję i nie dopuszczając do wszelkich możliwych rozwiązań. Boży mężczyźni i kobiety, to ci, którzy mają odwagę podjąć pierwszy krok – ważne jest to uczynienie pierwszego kroku - i starają się twórczo stawać na pierwszej linii, świadcząc, że Miłość nie jest martwa, lecz pokonała wszelką przeszkodę. Boży mężczyźni i kobiety angażują się, bo nauczyli się, że w Jezusie sam Bóg się zaangażował. Stawił na szali swoje własne ciało, aby nikt nie czuł się samotny ani opuszczony. I to jest piękno naszej wiary: Bóg, który się angażuje, stając się jednym z nas.
Pod tym względem chciałbym podzielić się z wami doświadczeniem sprzed kilku godzin. Dziś rano z radością spotkałem się w obozie dla uchodźców Wrażdebna z przesiedleńcami i uchodźcami pochodzącymi z różnych krajów świata, chcącymi znaleźć lepszą sytuację życiową od tej, którą pozostawili, a także spotkałem się z wolontariuszami Caritas. (owacje dla wolontariuszy Caritas, którzy wstają, wszyscy w czerwonych koszulkach). Kiedy tutaj wszedłem i zobaczyłem wolontariuszy Caritas, zapytałem, kim są, bo pomyślałem, że są strażakami! Tak na czerwono! Tam (w Ośrodku Wrażdebna) powiedziano mi tam, że serce tego centrum – tego ośrodka dla uchodźców – rodzi się ze świadomości, iż każda osoba jest dzieckiem Boga, niezależnie od przynależności etnicznej czy wyznania. Aby kogoś miłować, nie trzeba prosić go o życiorys; miłość uprzedza, zawsze idzie naprzód, owszem antycypuje. Dlaczego? Ponieważ miłość jest bezinteresowna. W tym ośrodku Caritas jest wielu chrześcijan, którzy nauczyli się widzieć oczyma samego Pana, który nie zatrzymuje się na przymiotach, ale poszukuje i oczekuje każdego oczyma Ojca. Ale czy wiecie o pewnej sprawie? Musimy uważać! Popadliśmy w kulturę przymiotnika: „ta osoba jest tym, ta osoba jest czymś innym, ta osoba jest czymś jeszcze innym…”. A Bóg tego nie chce. Jest to osoba, obraz Boga. Żadnych przymiotników! Pozwólmy, aby to Bóg umieścił przymiotniki; my obdarzajmy każdą osobę miłością. Tak więc dotyczy to również plotek. Jakże łatwo wkracza między nas plotkowanie! „Ach, to jest ten, on czyni to...”. Zawsze narzucamy na ludzi przymiotniki. Nie mówię o was, bo wiem, że tutaj nie ma plotkowania, ale pomyślmy o miejscu, gdzie są plotki. To jest przymiotnik: narzucamy na ludzi przymiotniki. Musimy przejść od kultury przymiotnika do rzeczywistości rzeczownika. Widzenie oczyma wiary jest zaproszeniem, aby nie spędzać życia na nadawaniu etykietek, klasyfikując, kto jest godny miłości a kto nie, ale starając się stworzyć warunki, aby każdy człowiek mógł się poczuć miłowany, zwłaszcza ci, którzy czują się zapomniani przez Boga, bo są zapomniani przez swoich braci. Bracia i siostry, kto kocha, nie marnuje czasu na użalanie się, ale zawsze widzi coś konkretnego, co może uczynić. W tym Centrum nauczyliście się widzieć problemy, rozpoznawać je, stawiać im czoła. Pozwalacie, by stawiano wam wyzwania i staracie się rozpoznawać je oczyma Pana. Jak powiedział papież Jan: „Nigdy nie znałem pesymisty, który zrobiłby coś dobrego”. Pesymiści nigdy nie czynią nic dobrego. Pesymiści wszystko psują. Kiedy myślę o pesymiście, przychodzi mi na myśl piękny tort: co robi pesymista? Wlewa ocet na tort i wszystko niszczy. Pesymiści wszystko psują. Natomiast miłość zawsze otwiera drzwi! Papież Jan miał rację: „Nigdy nie znałem pesymisty, który zrobiłby coś dobrego”. Pan jako pierwszy nie jest pesymistą i nieustannie stara się otwierać drogi zmartwychwstania dla nas wszystkich. Pan jest nieuleczalnym optymistą! Zawsze stara się myśleć o nas dobrze, aby nas poprowadzić naprzód, aby na nas postawić. Jakże to piękne, gdy nasze wspólnoty są miejscami nadziei! Optymista to mężczyzna lub kobieta, który tworzy we wspólnocie nadzieję.
Natomiast, aby uzyskać spojrzenie Boga potrzebujemy innych, potrzebujemy tych, którzy nauczyliby nas patrzeć i odczuwać, tak jak Jezus postrzega i odczuwa, aby nasze serce mogło bić rytmem Jego uczuć. Dlatego podobało mi się, gdy Mitko i Mirosława wraz ze swoim małym aniołkiem Biljaną powiedzieli nam, że dla nich parafia zawsze była drugim domem, miejscem, w którym w modlitwie wspólnotowej i wsparciu drogich im osób zawsze znajdują siłę, by iść naprzód. Optymistyczna parafia, która pomaga, by iść naprzód.
W ten sposób parafia staje się domem pośród wszystkich domów i może uobecniać Pana właśnie tam, gdzie każda rodzina, każda osoba codziennie stara się zarabiać na chleb. Tam, na skrzyżowaniu dróg jest Pan, który nie chciał nas zbawić dekretem, ale wszedł i chce wejść w najgłębsze życie naszych rodzin i powiedzieć nam, podobnie jak uczniom: „Pokój wam!”. Piękne jest pozdrowienie Pana: „Pokój wam!” Gdzie jest burza, gdzie jest ciemność, gdzie jest wątpliwość, gdzie jest udręka, Pan mówi: „Pokój wam!”. Nie tylko to mówi: czyni pokój.
Z zadowoleniem dowiaduję się, że uważacie za słuszną, "maksymę”, którą chętnie dzielę się z małżonkami, a która brzmi: „Nigdy nie idźcie spać zezłoszczeni na siebie, nawet ani jednej nocy” (i, na ile mogę to dostrzec – u was to działa). Maksyma ta może być użyteczna także dla nas wszystkich chrześcijan. Lubię mówić małżonkom, by się nie kłócili, ale jeśli się kłócą, nie ma problemu, ponieważ złoszczenie się jest normalne. To normalne. I czasami kłótnia jest trochę głośna - czasami latają talerze - ale nie ma problemu: złościć się, pod warunkiem, że pogodzicie się zanim skończy się dzień. Nigdy nie kończcie dnia w stanie wojny. Do was wszystkich małżonków mówię: nigdy nie kończcie dnia w stanie wojny. A wiecie dlaczego? Ponieważ „zimna wojna” następnego dnia jest bardzo niebezpieczna. „Ale, Ojcze, jak można zawrzeć pokój? Gdzie mogę nauczyć się przemówień, aby zawrzeć pokój?”. Czyńcie to (czyni gest czułości): wystarczy gest i już jest pokój. Jedynie gest miłości. Czy zrozumieliście? To dotyczy małżonków. To prawda, jak zresztą powiedzieliście, że trzeba przejść przez różne próby. Dlatego musimy uważać, aby gniew, uraza czy gorycz nigdy nie opanowały serca. A w tym musimy pomagać sobie nawzajem, troszczyć się o siebie nawzajem, aby nie zgasł płomień, który Duch Święty rozpalił w naszych sercach.
Uznajecie i jesteście za to wdzięczni, że wasi kapłani i siostry troszczą się o was. Są dzielni: brawa dla nich! Ale kiedy was słuchałem, zaimponował mi ten kapłan, który nie mówił o tym, jak bardzo był wspaniały w tych latach posługi, lecz o ludziach, których Bóg postawił obok niego, aby jemu pomogli w stawaniu się dobrym sługą Bożym. To wy jesteście tymi osobami.
Lud Boży dziękuje swojemu pasterzowi, a pasterz uznaje, że uczy się bycia człowiekiem wierzącym – zwróćcie na to uwagę: uczy bycia wierzącym – z pomocą swego ludu, swojej rodziny i pośród nich. Kiedy kapłan lub osoba konsekrowana, również biskup, taki jak ja, oddala się od Ludu Bożego, serce się oziębia i traci zdolność wierzenia tak jak Lud Boży. Dlatego podoba mi się to stwierdzenie: Lud Boży pomaga osobom konsekrowanym - czy są to kapłani, biskupi czy siostry - aby byli wierzącymi. Lud Boży jest żywą wspólnota, która wspiera, towarzyszy, włącza i ubogaca. Nigdy nie rozdzieleni, ale zjednoczeni, każdy uczy się być znakiem i błogosławieństwem Boga dla innych. Kapłan bez swego ludu traci swą tożsamość, a lud bez swoich pasterzy może podzielić się na małe grupki. Jedność pasterza, który wspiera i walczy o swój lud oraz jedność ludu, który wspiera i walczy o swego pasterza. Jakże to wspaniałe! Każdy poświęca swoje życie innym. Nikt nie może żyć tylko dla siebie, żyjemy dla innych. To właśnie napisał św. Paweł w jednym ze swoich listów: „Nikt z nas nie żyje dla siebie” (Rz 14, 7). „Ojcze, znam osobę, która żyje dla siebie”. A czy ta osoba jest szczęśliwa? Czy jest w stanie dać życie dla innych? Czy potrafi się uśmiechać? Są to egoiści. Lud kapłański, który może wraz z kapłanem powiedzieć: „To jest moje ciało za was wydane”. To Lud Boży zjednoczony z kapłanem. W ten sposób uczymy się być Kościołem-rodziną-wspólnotą, Kościołem, który jest gościnny, słucha, towarzyszy, troszczy się o innych, ukazując swoje prawdziwe oblicze, będące obliczem matki. Kościół jest matką. Kościół-matka, który żyje i utożsamia się z problemami dzieci, nie dając gotowych odpowiedzi. Nie. Matki, kiedy muszą zareagować na rzeczywistość swoich dzieci, mówią, co przychodzi im na myśl w tym momencie. Matki nie mają gotowych odpowiedzi: reagują sercem, sercem matki. Podobnie Kościół, ten Kościół, który składa się z nas wszystkich, ludu i kapłanów razem, biskupów, osób konsekrowanych, wszyscy razem, szukamy drogi życia, drogi pojednania, starając się uobecnić królestwo Boże. Kościół-rodzina-wspólnota, czyli Kościół, który bierze w ręce istotne węzły życia, często będące wielkimi kłębami, a zanim je rozwikła, czyni je swoimi, bierze w swe ręce i miłuje. Tak czyni matka: kiedy widzi syna lub córkę, która jest „pogmatwana” w wielu trudnościach, nie potępia ich: bierze te trudności, te węzły w swoje ręce, czyni je swoimi i je rozwiązuje. Taka jest właśnie nasza Matka Kościół. Tak musimy go postrzegać. To matka, która bierze nas takimi, jakimi jesteśmy, z naszymi trudnościami, a także z naszymi grzechami. Jest matką, zawsze zdolną do uporządkowania rzeczy. Czyż nie jest dobrze mieć taką matkę? Nigdy nie odchodźcie, nigdy nie oddalajcie się od Kościoła! A jeśli oddalisz się, utracisz pamięć o macierzyństwie Kościoła; zaczniesz źle myśleć o swoim Kościele Matce, a im dalej pójdziesz, tym bardziej ten obraz matki stanie się obrazem macochy. Lecz macocha jest w twoim sercu. Kościół jest matką.
Rodzina wśród rodzin – tym jest Kościół – otwarta na świadectwo, jak powiedziała nam nasza siostra, na współczesny świat, wiara, nadzieja i miłość względem Pana i tych, których miłuje ze szczególnym upodobaniem. Dom z otwartymi drzwiami. Kościół jest domem z otwartymi drzwiami, ponieważ jest matką. Uderzyło mnie coś, co napisał wielki kapłan. Był poetą i bardzo kochał Matkę Bożą. Był także księdzem grzesznym, wiedział, że jest grzesznikiem, ale poszedł do Matki Bożej i płakał przed Matką Bożą. Kiedyś napisał wiersz, prosząc Matkę Bożą o przebaczenie i postanowił nigdy nie oddalać się od Kościoła. Napisał tak: „Dziś wieczór, o Pani szczerze obiecuję. Ale na wszelki wypadek nie zapomnij zostawić klucza na zewnątrz”. Maryja i Kościół nigdy nie zamykają się od wewnątrz! Zawsze, jeśli zamkną drzwi, klucz jest na zewnątrz: możesz otworzyć drzwi. I to jest nasza nadzieja. Nadzieja pojednania. „Ojcze, mówisz, że Kościół i Matka Boża są domem z otwartymi drzwiami, ale jeśli znałbyś złe rzeczy, które uczyniłem w życiu: dla mnie drzwi Kościoła, a także drzwi serca Matki Bożej są zamknięte”. - „Masz rację, są zamknięte, ale podejdź, dobrze popatrz a znajdziesz klucz na zewnątrz. Zrób to, otwórz i wejdź. Nie musisz dzwonić. Otwórz za pomocą tego klucza”. I to dotyczy całego życia!
Pod tym względem mam dla was „małe zadanie”. Jesteście dziećmi w wierze wielkich świadków, którzy potrafili na tych ziemiach swoim życiem dać świadectwo o miłości Pana. Bracia Cyryl i Metody, święci mężowie ze wspaniałymi marzeniami, byli przekonani, że najbardziej autentycznym sposobem rozmowy z Bogiem jest czynienie tego w swoim własnym języku. To dało im śmiałość, by postanowić przetłumaczyć Biblię, żeby nikt nie został pozbawiony Słowa, które daje życie.
Bycie domem z otwartymi drzwiami, na wzór Cyryla i Metodego, także i dziś wymaga umiejętności bycia śmiałymi i kreatywnymi, aby zadać sobie pytanie, jak możemy w konkretny i zrozumiały sposób ukazać młodym pokoleniom miłość, jaką obdarza nas Bóg. Musimy być śmiałymi, odważnymi. Wiemy i doświadczamy, że „ludzie młodzi w strukturach tradycyjnych często nie znajdują odpowiedzi na swoje niepokoje, potrzeby, problemy i zranienia” (Posynod. adhort. apost. Christus vivit, 202). A to wymaga od nas nowego wysiłku pomysłowości w naszych działaniach duszpasterskich, aby poszukiwać sposobu dotarcia do ich serc, poznać ich oczekiwania i wspierać ich marzenia, jako wspólnota-rodzina, która wspiera, towarzyszy i zachęca, by z nadzieją patrzeć w przyszłość. Wielką pokusą, z którą muszą się zmierzyć nowe pokolenia, jest brak korzeni, korzeni, na których by wzrastały, a ich brak prowadzi do wykorzenienia i wielkiej samotności. Nasi młodzi, gdy czują się wezwani do wyrażenia całego posiadanego potencjału, wiele razy zatrzymują się w połowie drogi z powodu doświadczanych frustracji lub rozczarowań, ponieważ nie mają korzeni, na których mogliby się oprzeć, by patrzeć w przyszłość (por. tamże, 179-186). A to narasta, gdy czują się zmuszeni do opuszczenia swojej ziemi, ojczyzny, swojej rodziny.
Chciałbym podkreślić to, co powiedziałem o ludziach młodych, którzy często gubią korzenie. Dzisiaj na świecie są dwie grupy osób, którzy bardzo cierpią: młodzi i ludzie starsi. Musimy sprawić, żeby się spotkali. Osoby starsze są korzeniami naszego społeczeństwa, nie możemy ich odesłać z naszego społeczeństwa, są żywą pamięcią naszej wiary. Młodzi potrzebują korzeni, pamięci. Sprawmy, aby nawiązali z sobą komunikację bez lęku. Jest pewne piękne proroctwo proroka Joela: „starcy będą mieć sny, a młodzieńcy będą mieć widzenia” (por. 3.1). Kiedy młodzi spotykają się z osobami starszymi a starsi z młodymi, to osoby starsze zaczynają odżywać, na nowo marzą, a młodzi czerpią odwagę od starych, idą dalej i zaczynają czynić to, co jest tak ważne w ich życiu, czyli spotykać się z przyszłością. Potrzebujemy, by młodzi spotykali się z przyszłością, ale można to uczynić tylko wtedy, gdy mają korzenie osób starszych. Kiedy przybyłem tutaj do parafii, na ulicach było wielu starców, tylu staruszków i staruszek. Uśmiechali się... Mają wewnątrz skarb. I było też wielu łudzi młodych, którzy również pozdrawiali i uśmiechali się. Niech się spotkają! Niech ludzie starsi dadzą młodym tę zdolność prorokowania, to znaczy spotykania przyszłości. To są stawki na dzisiaj. I nie lękajmy się. Nie lękajmy się podejmować nowych wyzwań, pod warunkiem, że będziemy usiłować na wszelkie sposoby, aby nasz lud nie był pozbawiony światła i pociechy, rodzących się z przyjaźni z Jezusem, wspólnoty wiary, która go wspiera oraz perspektywy nieustannie pobudzającej i odnawiającej, która nadawałaby mu sens i życie (por. Adhort. apost. Evangelii gaudium, 49). Nie zapominajmy, że najpiękniejsze karty życia Kościoła zostały napisane, kiedy Lud Boży twórczo wyruszał, by przekazywać miłość Boga w każdej chwili dziejów wraz z wyzwaniami, z którymi stopniowo przychodziło się spotykać. Lud zjednoczony, Lud Boży, z właściwym mu zmysłem wiary. Dobrze wiedzieć, że możecie liczyć na wspaniałą dotychczasową historię, ale jeszcze piękniejsze jest uświadomienie sobie, że dano wam napisać to, co nadejdzie. Te karty nie zostały zapisane. Wy je musicie napisać. Przyszłość jest w waszych rękach, księgę przyszłości wy musicie napisać. Pośród sprzeczności, cierpień i ubóstwa bądźcie niestrudzenie Kościołem stale rodzącym dzieci, Kościołem-matką nieustannie rodzącą dzieci, których ta ziemia potrzebuje dzisiaj na początku XXI wieku, nastawiając jedno ucho ku Ewangelii, a drugie ku sercu waszego narodu. Dziękuję… – jeszcze nie skończyłem. Jeszcze was chwilę pomęczę. Dziękuję wam za to wspaniałe spotkanie i myśląc o papieżu Janie, chciałbym, aby błogosławieństwo, które wam teraz udzielam, było czułością Pana dla każdego z was. On udzielał tego błogosławieństwa, życząc by było pieszczotą; to błogosławieństwo, którego udzielał przy świetle księżyca.
Pomódlmy się wspólnie, prośmy Matkę Bożą, która jest obrazem Kościoła. Módlcie się w waszym języku.
[Odmawiają Zdrowaś Maryjo po bułgarsku].
[Błogosławieństwo]
[00745-PL.02] [Testo originale: Italiano]
Traduzione in lingua araba
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[00745-AR.02] [Original text: Italian]
[B0378-XX.02]